Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV: TELE WEB ITALIA
NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
L’ACCOGLIENZA
TREDICESIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
L’ACCOGLIENZA
INDICE PRIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI EUROPEI
I Muri.
Quei razzisti come gli italiani.
Quei razzisti come i tedeschi.
Quei razzisti come gli austriaci.
Quei razzisti come i danesi.
Quei razzisti come i norvegesi.
Quei razzisti come gli svedesi.
Quei razzisti come i finlandesi.
Quei razzisti come i belgi.
Quei razzisti come i francesi.
Quei razzisti come gli spagnoli.
Quei razzisti come gli olandesi.
Quei razzisti come gli inglesi.
Quei razzisti come i cechi.
Quei razzisti come gli ungheresi.
Quei razzisti come i rumeni.
Quei razzisti come i greci.
Quei razzisti come i serbi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AFRO-ASIATICI
Quei razzisti come i marocchini.
Quei razzisti come i libici.
Quei razzisti come i congolesi.
Quei razzisti come gli ugandesi.
Quei razzisti come i nigeriani.
Quei razzisti come i ruandesi.
Quei razzisti come gli egiziani.
Quei razzisti come gli israeliani.
Quei razzisti come i libanesi.
Quei razzisti come i sudafricani.
Quei razzisti come i turchi.
Quei razzisti come gli arabi sauditi.
Quei razzisti come i qatarioti.
Quei razzisti come gli iraniani.
Quei razzisti come gli iracheni.
Quei razzisti come gli afghani.
Quei razzisti come gli indiani.
Quei razzisti come i singalesi.
Quei razzisti come i birmani.
Quei razzisti come i kazaki.
Quei razzisti come i russi.
Quei razzisti come i cinesi.
Quei razzisti come i nord coreani.
Quei razzisti come i sud coreani.
Quei razzisti come i filippini.
Quei razzisti come i giapponesi.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
GLI AMERICANI
Quei razzisti come gli statunitensi.
Kennedy: Le Morti Democratiche.
Quei razzisti come i canadesi.
Quei razzisti come i messicani.
Quei razzisti come i peruviani.
Quei razzisti come gli haitiani.
Quei razzisti come i cubani.
Quei razzisti come i cileni.
Quei razzisti come i venezuelani.
Quei razzisti come i colombiani.
Quei razzisti come i brasiliani.
Quei razzisti come gli argentini.
Quei razzisti come gli australiani.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Fredda.
La Variante Russo-Cinese-Statunitense.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.
I LADRI DI NAZIONI.
CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.
I SIMBOLI.
LE PROFEZIE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. PRIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SECONDO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. TERZO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUARTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. QUINTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SESTO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. SETTIMO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. OTTAVO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. NONO MESE.
INDICE QUARTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’ATTACCO. DECIMO MESE.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE MOTIVAZIONI.
NAZISTA…A CHI?
IL DONBASS DELI ALTRI.
L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.
TUTTE LE COLPE DI…
LE TRATTATIVE.
ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.
LA RUSSIFICAZIONE.
INDICE SESTA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.
IL FREDDO ED IL PANTANO.
INDICE SETTIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LE VITTIME.
I PATRIOTI.
LE DONNE.
LE FEMMINISTE.
GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.
LE SPIE.
INDICE OTTAVA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.
LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.
LA GUERRA ENERGETICA.
LA GUERRA DEL LUSSO.
LA GUERRA FINANZIARIA.
LA GUERRA CIBERNETICA.
LE ARMI.
INDICE NONA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA DETERRENZA NUCLEARE.
DICHIARAZIONI DI STATO.
LE REAZIONI.
MINACCE ALL’ITALIA.
INDICE DECIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
IL COSTO.
L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.
PSICOSI E SPECULAZIONI.
I CORRIDOI UMANITARI.
I PROFUGHI.
INDICE UNDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
I PACIFISTI.
I GUERRAFONDAI.
RESA O CARNEFICINA?
LO SPORT.
LA MODA.
L’ARTE.
INDICE DODICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
PATRIA BIELORUSSIA.
PATRIA GEORGIA.
PATRIA UCRAINA.
VOLODYMYR ZELENSKY.
INDICE TREDICESIMA PARTE
La Guerra Calda.
L’ODIO.
I FIGLI DI PUTIN.
INDICE QUATTORDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
L’INFORMAZIONE.
TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA.
INDICE QUINDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
LA PROPAGANDA.
LA CENSURA.
LE FAKE NEWS.
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.
LA RUSSOFOBIA.
LA PATRIA RUSSIA.
IL NAZIONALISMO.
GLI OLIGARCHI.
LE GUERRE RUSSE.
INDICE DICIASSETTESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
CHI E’ PUTIN.
INDICE DICIOTTESIMA PARTE
SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)
Quelli che…le Foibe.
Lo sterminio comunista degli Ucraini.
L’Olocausto.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Gli Affari dei Buonisti.
Quelli che…Porti Aperti.
Quelli che…Porti Chiusi.
Il Caso dei Marò.
Che succede in Africa?
Che succede in Libia?
Che succede in Tunisia?
Cosa succede in Siria?
L’ACCOGLIENZA
TREDICESIMA PARTE
SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Guerra Calda.
Il presidente della Duma russa, Viacheslav Volodin, ha chiesto di dichiarare l’Ucraina «stato terrorista» citando la denuncia dei servizi di intelligence di Mosca, Fsb, in merito al presunto tentativo di assassinio di un giornalista russo filo-Cremlino. I servizi di sicurezza hanno arrestato, secondo quanto riportato dalla Tass, alcuni esponenti, cittadini russi, di un gruppo neonazista denominato Nazionalsocialismo/Potere Bianco, che si apprestavano secondo l’accusa ad attentare alla vita del popolare giornalista della televisione statale Vladimir Solovyev, rispondendo ad un ordine impartito da Kiev.
«A questo porta il sostegno all’ideologia neonazista», ha affermato Volodin, chiedendo che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky sia chiamato «a renderne conto». «I colpevoli dovranno essere puniti», ha aggiunto, concludendo che quanto accaduto conferma «l’adeguatezza dell’avvio dell’operazione militare russa in Ucraina».
DiMartedì, Fulvio Grimaldi scatena l'ira di Giovanni Floris: “Processo di odio, russi come gli ebrei”. Il Tempo il 27 aprile 2022.
Nella puntata del 26 aprile di diMartedì, il talk show serale di La7 condotto da Giovanni Floris, è ospite il giornalista e reporter di guerra Fulvio Grimaldi, che con le sue parole fa scattare l’ira del padrone di casa: “Le decisioni sono prese molto più in alto rispetto a Mario Draghi, che non conta molto. In Ucraina, come confermato mesi fa da tutta la nostra stampa, dall’Osce e dall’Onu, esiste un regime basato su forze politiche e armate naziste, che ne fanno di tutti i colori, che tutto ad un tratto si sono volatilizzate e non esistono più, anzi sono diventate simpatiche. È un processo di odio nei confronti dei russi e del diverso che assomiglia moltissimo all’odio che si nutriva nei confronti degli ebrei alcuni decenni fa, è la stessa rimozione, la stessa categorizzazione di sotto uomini, i putiniani che sono inaccettabili, questo è un dato di fatto sorprendente”.
“Non applaudite perché non trovo una parola da applaudire di quello che ha detto, con tutta la simpatia per Fulvio Grimaldi” la replica secca e piena di scintille di Floris, che interrompe il pubblico in studio che aveva manifestato il proprio apprezzamento per il discorso del giornalista. Ma Grimaldi non fa nessuna retromarcia: “Ci sono i nazisti o no? C’è l’Azov o no?”. “I nazisti ci sono pure in Italia, ma non è che ci invade la Francia”, risponde ancora Floris, che però non riesce a convincere il suo ospite: “Questi nazisti hanno massacrato per otto anni un popolo che non voleva il colpo di Stato”.
L’Ucraina protestò contro la Bulgaria. Scontro sui militari zaristi accolti da Sofia. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Aprile 2022.
Il 27 aprile 1922: sul «Corriere delle Puglie» si legge che il commissario per gli affari esteri della Repubblica Ucraina ha indirizzato al Governo bulgaro una nota di protesta in relazione al rifugio offerto da quel Paese agli ex soldati di Wrangel.
Si tratta delle truppe guidate da Petr Nikolaevič Wrangel, soprannominato da Trotski «il barone nero», uno dei generali della guardia imperiale russa che si opposero fermamente alla Rivoluzione bolscevica. Stanziatosi in Crimea, Wrangel aveva assunto il comando supremo dell’armata controrivoluzionaria, la cosiddetta Armata Bianca, e aveva attaccato i corpi bolscevichi del sud. Dopo aver passato il Dnepr, il Barone aveva creato la sua base a Ekaterinoslav, l’attuale Dnipro, ma, costretto a ritirarsi, dalla Crimea organizzò un’imponente evacuazione dei suoi soldati. Parte di queste truppe, dunque, è arrivata nel 1922 in Bulgaria e gli ucraini, con la loro nota di protesta, vogliono accertarsi che non costituisca più una minaccia per il loro Paese.
Il Governo di Sofia ha risposto di aver ammesso quei soldati solo in qualità di profughi e di averli accuratamente disarmati al momento dello sbarco: è nelle sue intenzioni mantenere l’ordine e la sicurezza e soprattutto evitare di intromettersi negli affari altrui. I bulgari hanno, infine, assicurato di essere fermamente decisi a non tollerare nel territorio nessun tipo di organizzazione ostile alla Repubblica Ucraina.
Il territorio ucraino, insanguinato da continui contrasti con la vicina Russia, da cui continuamente cerca l’indipendenza, si costituirà dopo pochi mesi come Repubblica Socialista Sovietica Ucraina ed entrerà a far parte, nel dicembre 1922, dell’Urss guidata da Lenin.
I maestri elementari sono stati esclusi dai benefici apportati dalla modificazione delle tabelle degli organici di tutti gli impiegati. «Quando per i maestri non ci saranno che ossi e briciole? E perché tale diversità di trattamento mentre si parla di equiparazione e uguaglianza?», sono le domande che si pone il cronista del «Corriere». Il fronte degli insegnanti, tuttavia, non è unito nella lotta: «e allora si finisce che nessun partito si preoccupa di loro, perché sanno che, in altre faccende affaccendati, i maestri non sono capaci di difendere se stessi e la scuola». La Sezione magistrale “G. Bovio” di Altamura ha, però, proposto di unire in un’unica falange tutte le varie tendenze per le giuste rivendicazioni della classe degli insegnanti, dal momento che il Governo, cent’anni fa come oggi, non pensa seriamente alla scuola.
Vladimir Putin ci ricorda che in nome dei confini si può ancora fare la guerra. Gogol scriveva in russo. Celan era un poeta ebreo di lingua tedesca. Roth un romanziere sempre di lingua tedesca ma austroungarico. Secondo le mappe, però, erano tutti ucraini. Il presidente russo ha riportato d’attualità il tema delle frontiere e l’illusione della loro estinzione. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 26 aprile 2022
Cominciamo con un elenco di nomi: Mikhail Bulgakov, Nikolaj Gogol, Anna Achmatova, Paul Celan, Joseph Roth. Aggiungiamo qualcuno meno conosciuto: Sholem Alechem, Vladimir Zabotinski e, ancora, Stanislaw Lem. Se volessimo seguire le indicazioni delle mappe geografiche sarebbero tutti quanti scrittori o poeti ucraini, perché in Ucraina sono nati. Però: i primi tre scrivevano in russo e fanno parte della storia di letteratura russa.
L'annuncio del sindaco Vitaly Klitschko. Kiev cancella il passato russo e sovietico, decapitata la statua dell’amicizia: verso lo smantellamento 60 monumenti. Roberta Davi su Il Riformista il 26 Aprile 2022.
Due operai, uno ucraino e uno russo, che sorreggono la stella dell’Ordine sovietico dell’amicizia dei popoli. Una struttura di ‘8 metri di metallo’ che la città di Kiev ha deciso di demolire.
L’immagine dell’operaio russo ‘decapitato’ è stata pubblicata oggi 26 aprile, 62esimo giorno di guerra, sui social del sindaco della capitale, l’ex pugile Vitaly Klitschko.
Via monumenti e targhe
La statua di bronzo posta all’Arco dell’amicizia dei popoli era stata eretta dai sovietici nel 1982 nel centro della capitale ucraina, come simbolo di fratellanza fra russi e ucraini. “Questo posto non rappresenta più l’amicizia tra la Russia e l’Ucraina, la Russia ci sta attaccando. Qui sorgerà il monumento dedicato alla libertà dell’Ucraina“, ha dichiarato Klitschko.
Che ha poi aggiunto: “Lo smantellamento è iniziato oggi e prevediamo di portarlo a termine entro stanotte“, sottolineando come Mosca abbia dimostrato “un barbaro desiderio di distruggere il nostro Stato e i pacifici ucraini“.
Il sindaco di Kiev ha inoltre comunicato che saranno smantellati circa 60 monumenti legati alla Russia e all’Unione Sovietica. Verranno inoltre rimosse le targhe commemorative.
Rinominate anche le strade
Le autorità di Kiev si stanno preparando anche a rinominare le strade i cui nomi sono associati alla Russia e alla Bielorussia. Lo ha riferito il segretario del Consiglio comunale della capitale, Volodymyr Bondarenko, citato dal quotidiano Ukrayinska Pravda. Una decisione ribadita anche dal sindaco Vitaly Klitschko sul suo post.
“Sono stati identificati 279 elementi legati al Paese aggressore e ai suoi alleati che devono essere rinominati. Ma potrebbero essercene di più. Attualmente siamo in attesa di suggerimenti dai residenti“, ha spiegato Bondarenko, evidenziando che i progetti per la modifica dei toponimi dovrebbero essere pronti entro il 9 maggio.
Il segretario ha dichiarato che un certo numero di toponimi dovrebbe essere rinominato in modo ‘inequivocabile’ (ad esempio ‘Moskovskaya Street’ o ‘Amurskaya Square’). Mentre su altri nomi, come ‘Belorusskaya Street’, il dibattito è ancora in corso: il Paese ospita infatti molti bielorussi fuggiti dal regime di Lukashenko, che stanno combattendo come volontari accanto agli ucraini. “Nessuno rimuoverà i libri dei classici russi dalle biblioteche, nessuno vieterà i concerti di Rachmaninoff, ma la questione delle strade e dei monumenti deve essere affrontata“, ha concluso. Roberta Davi
La damnatio memoriae ucraina che cancella ogni traccia russa. Matteo Carnieletto il 26 aprile 2022 su Il Giornale.
Sparire dalla Storia. Non essere mai esistiti. Essere il nulla. Era questo, nella Roma repubblicana, la damnatio memoriae. I nemici dello Stato e i traditori venivano condannati all'oblìo. Lo scalpello, su ordine del senato, cancellava il nome del malcapitato dai monumenti, dalle monete e da tutto ciò che potesse in qualche modo ricordarlo. Ogni colpo sferrato contro il marmo era odio misto a disprezzo. Quell'uomo - o quella donna, come nel caso della moglie di Costantino, Fausta - scompariva. Non era più. La motivazione, dietro alla damnatio memoriae, era politica: ci si voleva sbarazzare di un passato imbarazzante e ingombrante. Si voleva dimenticare la Storia per poi riscriverla. A volte anche per stravolgerla (si pensi a Nerone, "condannato" sia dalla storiografia senatoria sia da quella cristiana). La pratica della damnatio memoriae piacque a molti, tanto che, qualche secolo dopo, venne addirittura riesumato un Papa (Formoso), solamente per esser condannato e, infine, gettato nel Tevere.
Il "Tondo severiano" raffigura Settimio Severo e la sua famiglia. In basso a sinistra si può notare il volto, cancellato, di Geta. Caracalla, suo fratello, lo fece infatti prima ammazzare dai centurioni e poi condannare alla damnatio memoriae
Eliminare gli errori (veri o presunti) della Storia è una tentazione di tutte le età, compresa la nostra. Spesso, il nostro passato, se giudicato con gli occhi del presente, ci imbarazza. Che farne, allora? Negli Stati Uniti, in un revival sanculotto, si è deciso di cancellarlo, facendosi "giustizia" da sé. Le statue dei padri della patria sono state rimosse o, peggio ancora, decapitate. Alcune fasce della popolazione (e della politica) non riescono a tollerare che quegli uomini fossero figli del loro tempo, del quale incarnavano pregi e difetti. Eliminare, in questo caso, è più facile di comprendere.
Via Crucis al Colosseo, il messaggio del Papa: Irina e Albina insieme con le mani sulla croce. Viola Giannoli su La Repubblica il 15 Aprile 2022.
Cambio di programma alla cerimonia del Venerdì santo: ci sono le due infermiere ucraina e russa. Ma salta la meditazione: “Il silenzio è più eloquente delle parole”. Appello di Bergoglio al disarmo.
Quattro mani poggiate sulla croce, quelle di Irina e di Albina, ucraina la prima, russa la seconda, a sorreggere insieme la croce della Via Crucis di Papa Francesco, tornata al Colosseo davanti a 10 mila fedeli, dopo due anni di cerimonie in una piazza San Pietro senza popolo, deserta.
Si guardano negli occhi, occhi lucidi, Irina e Albina, amiche di due popoli oggi in guerra e colleghe al Campus Bio Medico di Roma, infermiera l'ucraina, specializzanda la russa. Si guardano, si sfiorano le dita nel portare il peso della croce, guardano il cielo, l'una di fianco all'altra, non parlano.
E silenziosa, a sorpresa, resta la preghiera della tredicesima stazione della Via Crucis, la loro, cambiata all'ultimo minuto. Orazio Coclite, la voce storica della processione, avrebbe dovuto leggere una meditazione scritta in queste settimane in Vaticano assieme a famiglie ucraine e russe. E invece il testo è stato cancellato, sostituito da poche frasi: "Di fronte alla morte il silenzio è più eloquente delle parole. Sostiamo pertanto in un silenzio orante e ciascuno nel cuore preghi per la pace nel mondo". "Un cambiamento previsto - ha spiegato ieri sera il portavoce vaticano Matteo Bruni - che limita il testo al minimo per affidarsi al silenzio e alla preghiera".
La tredicesima meditazione avrebbe invece dovuto parlare della "morte intorno", della "vita che sembra perdere di valore", di quel tutto che "cambia in pochi secondi: l'esistenza, le giornate, la spensieratezza della neve d'inverno, l'andare a prendere i bambini a scuola, il lavoro, gli abbracci, le amicizie", delle "lacrime finite", della "rabbia che ha lasciato il passo alla rassegnazione". Per poi chiedere: "Signore dove sei? Parla nel silenzio della morte e della divisione ed insegnaci a fare pace, ad essere fratelli e sorelle, a ricostruire ciò che le bombe avrebbero voluto annientare".
Ma quel testo, come la presenza delle due amiche, Irina l'ucraina e Albina la russa, aveva attirato le ire dell'ambasciata di Kiev in Italia prima e della comunità cattolica ucraina poi. Un'idea "inopportuna e ambigua" che "non tiene conto del contesto di aggressione militare russa", aveva tuonato l'arcivescovo Sviatoslav Shevchuk. Ieri sera, con un gesto duro e inedito, i media cattolici ucraini si sono persino rifiutati di trasmettere la Via Crucis, in segno di protesta. E contraria si era detta in questi giorni anche l'associazione dei cattolici ucraini in Italia: "Non dovevano portare insieme la croce - ha spiegato Oles Horodetskyy - perché siamo noi ucraini a essere stati messi in croce".
La presenza invece è stata confermata, nessun passo indietro da parte del Vaticano né delle due donne, nonostante le pressioni. "Noi non c'entriamo niente in tutto questo, i nostri due popoli non c'entrano niente", hanno spiegato. Ma quel testo è stato accantonato e si è lasciato spazio alla preghiera per la pace. Quella pace che Papa Francesco continua a chiedere senza sosta: "Signore, porta gli avversari a stringersi la mano, disarma la mano del fratello alzata contro il fratello" e fa' che "dove c'è odio fiorisca la concordia", ha detto ai fedeli. Lo stesso grido instancabile lanciato in un tweet pochi minuti prima dell'inizio del rito: "Signore, converti al tuo cuore i nostri cuori ribelli, perché impariamo a seguire progetti di pace".
Domenico Agasso per lastampa.it il 12 aprile 2022.
L'Ambasciata ucraina presso la Santa Sede contesta la decisione vaticana di far portare insieme la croce a una famiglia ucraina e una russa alla Via Crucis del Venerdì Santo al Colosseo, presieduta dal Papa.
«L'Ambasciata ucraina presso la Santa Sede - twitta l'ambasciatore Andrii Yurash - capisce e condivide la preoccupazione generale in Ucraina e in molte altre comunità sull'idea di mettere insieme le donne ucraine e russe nel portare la Croce durante la Via Crucis di venerdì al Colosseo». Adesso «stiamo lavorando sulla questione cercando di spiegare le difficoltà della sua realizzazione e le possibili conseguenze».
Nel tradizionale rito presieduto dal Pontefice, in programma il prossimo Venerdì santo alle 21,15, tra gli ultimi a portare la croce, alla XIII stazione, saranno una famiglia russa insieme a una famiglia ucraina.
Lo ha reso noto la Sala stampa vaticana. In occasione dell'anno dedicato alla famiglia, Bergoglio ha affidato la preparazione dei testi delle meditazioni e delle preghiere ad alcune famiglie legate a comunità e associazioni cattoliche di volontariato ed assistenza.
Le altre famiglie che porteranno la croce saranno una coppia di giovani sposi, una famiglia in missione, una coppia di sposi anziani, una famiglia con 5 figli, una famiglia con un figlio con disabilità, una famiglia che gestisce una casa di accoglienza, una famiglia che affronta la malattia, una coppia di nonni, una famiglia con figli adottivi, una donna con figli che ha perso il marito, una famiglia con un figlio consacrato, una famiglia che si confronta con la perdita di un figlio. Le meditazioni per ogni stazione sono ispirate al percorso di vita di ciascuna famiglia.
In particolare, la meditazione che sarà letta durante il tratto delle famiglie ucraina e russa, quando Gesù muore sulla croce, dice: «La morte intorno. La vita che sembra perdere di valore. Tutto cambia in pochi secondi. L'esistenza, le giornate, la spensieratezza della neve d'inverno, l'andare a prendere i bambini a scuola, il lavoro, gli abbracci, le amicizie… tutto. Tutto perde improvvisamente valore.
"Dove sei Signore? Dove ti sei nascosto? Vogliamo la nostra vita di prima. Perché tutto questo? Quale colpa abbiamo commesso? Perché ci hai abbandonato? Perché hai abbandonato i nostri popoli? Perché hai spaccato in questo modo le nostre famiglie? Perché non abbiamo più la voglia di sognare e di vivere? Perché le nostre terre sono diventate tenebrose come il Golgota?”.
Le lacrime sono finite. La rabbia ha lasciato il passo alla rassegnazione. Sappiamo che Tu ci ami, Signore, ma non lo sentiamo questo amore e questa cosa ci fa impazzire. Ci svegliamo al mattino e per qualche secondo siamo felici, ma poi ci ricordiamo subito quanto sarà difficile riconciliarci. Signore dove sei? Parla nel silenzio della morte e della divisione ed insegnaci a fare pace, ad essere fratelli e sorelle, a ricostruire ciò che le bombe avrebbero voluto annientare».
Domenico Quirico per “la Stampa” il 25 marzo 2022.
Lo si sente, cresce, aleggia attorno noi, guadagna terreno ogni ora, ogni giorno di guerra: l'odio. All'inizio si precisava, anche da parte degli ucraini che pure erano aggrediti e percossi: questa è la guerra di Putin, lui l'ha voluta, lui la inferocisce. Non è la guerra dei russi con cui siamo fratelli, in divisa contro di noi ci sono gli ingannati o i costretti, offriamo loro quando si arrendono un pezzo di pane. E per questo coraggio li abbiamo giudicati, gli ucraini, ancor più meritevoli, avvolti in un grande drappeggio di sventura e di pietà. Tutto è rapidamente finito in briciole come le città e le illusioni di tregue e negoziati, l'odio affligge tutto il mondo di questa guerra bruciante e brutale.
Adesso è diventata la guerra dei russi, contro i russi: primitivi, asiatici, barbari, orda che uccide, bombarda, stupra, saccheggia, lupi voraci, mostri, antiuomini. Le parole sono sempre il segno: ormai si vive nell'odio che come una soluzione satura si cristallizza. Il furore che all'inizio è arma per combattere e resistere è scivolato in altra cosa, accecato diventa a sua volta disumano. Ecco: il percorso è quasi completo. Non c'è più distinzione. L'odio non è un errore o un incidente di analisi.
È un desiderio profondo di distruggere, svela un abisso a fior di pelle, non è dietro di noi ma attorno a noi, in noi. È una negazione sovversiva che a poco a poco travolge anche chi è spettatore della guerra, e gli europei lo sono: vogliamo attraverso questa discesa agli inferi nascondere il senso di colpa per esser solo questo e in fondo esserne soddisfatti. È singolare e fa riflettere il fatto che il principale abitatore dell'occidente e dell'Europa del terzo millennio, l'odio, con la sua ancella la paura, non sia stato in fondo oggetto di ampie analisi.
Forse perché non si vuole tornare con la mente a esperienze umilianti e l'odio lo è. E poi esistono molti tipi di odio di cui ognuno richiederebbe una trattazione. Un po' come fa il botanico quando si accinge a una classificazione particolare. Ci scopriamo a parlare e pensare in modo primitivo perché siamo costretti a difenderci contro qualcosa che prima di tutto è primitivo, la guerra. Così la etichettatura animalesca che prima colpiva solo il burattinaio di questo sanguinoso disastro si estende a un popolo intero: che è colpevole, perché non si ribella, non getta le armi, non rinnega e non si rinnega, perché non sciopera rifiutandosi di cooperare con il leader.
Perché ci costringe con la sua inazione a rivestire panni che avevamo riposto in soffitta come anacronistici: la guerra le bombe combattere schierarsi resistere. Russi dannati, combattete per Putin come i tedeschi hanno combattuto per Hitler! La colpa che per il diritto è rigorosamente individuale diventa collettiva. È l'infausto meccanismo della decimazione, della vendetta. Una specialità delle tirannidi.
È quello che Putin forse immaginava e voleva: il suo volto enigmatico sparisce a poco a poco dietro la condanna di tutto e di tutti, la volontà di linciaggio forma, anche in coloro che in Russia forse dubitavano e si astenevano, il legame sociale per eccellenza, quello che nasce dal sentirsi umiliati e vilipesi, accusati e minacciati di punizioni nel mucchio. Stiamo, temo, scivolando su questo pendio insidioso.
Il delitto dell'aggressore non ci appare più come trasgressione, come caso da imputare a un uomo e al suo delirio di potere, ma come forma esistenziale, come comportamento naturale di un popolo intero nei confronti di altri essere viventi, l'aggressione, il delitto come forma del loro mondo. Il processo ai colpevoli (teorico perché prima bisogna sconfiggerli, catturarli per applicare la giustizia, molto ambigua, dei vincitori) che prima riguardava il pugno di cortigiani e complici diretti di Putin, alcune centinaia di persone, ora si allarga: gli ufficiali, i soldati che non hanno disobbedito, quelli che nelle retrovie non hanno preso le distanze, i silenti, i non eroi: tutti.
Punire, togliere la voglia di riprovarci, rieducare questi popoli eternamente asiatici e aggressivi verso la nostra "polis'' perfetta. Siamo al punto chiave del dialogo tra Creonte e Antigone. «Il nemico non diventerà mai un amico neppure dopo la morte» dice il dittatore che nega ai colpevoli perfino il diritto alla sepoltura. E Antigone replica: «Non sono fatta per vivere con il tuo odio».
Ecco. Questo è esattamente quello che ci deve separare dall'aggressore: porre dei limiti all'inaccettabile, mettere in guardia dal pericolo mortale che c'è nell'unificare nella colpa, annunciare il peggio che può ancora accadere senza temere di essere accusati come seminatori di zizzania, di dare una mano "oggettivamente'', terribile avverbio che ha macinato la vita di milioni di uomini, al nemico. Putin e i Califfi gettano nella mischia non solo divisioni corazzate o kamikaze; la posta in gioco è il dominio dello spirito, mobilitano l'odio, un tesoro raro e prezioso, utile al servizio del loro aggrottarsi di ciglia.
Vogliono contagiare le menti prima ancora che occupare territori, imporre l'irrimediabile: noi e loro indissolubilmente separati e nemici . Apparentemente nulla è mutato in questi venti giorni di guerra nella nostra parte del mondo, la gente si muove lavora dà esami si ama fa sport applaude gli oratori che invitano alla ennesima resistenza contro la nuova sventura.
Eppure c'è qualcosa di inafferrabile nell'atmosfera, un fluido collettivo ed è cattivo, un'aura fatta di forza e di rancore, di paralisi interiore, di furia e avversione contro "il nemico". A poco a poco le marce della pace spariranno, gli inviti a distinguere, a non farsi travolgere diventeranno eresia, Come se oppressi, impauriti ci vendicassimo dei colpevoli emettendo liquido nero come la seppia colpita. Di che diavolo ha mai bisogno l'uomo per non commettere gli stessi errori?
La verità della ‘Treccani’. Luciano Scateni su La Voce delle Voci il 16 Marzo 2022.
Odio, sentimento di forte e persistente avversione, per cui si desidera il male o la rovina altrui; amore, sentimento di viva affezione verso una persona, che si manifesta come desiderio di procurare il suo bene. In questa biblica antitesi si colloca lo scenario, che al suo estremo potrebbe avvelenare il pianeta, distruggerlo in dimensione non circoscritta, con una pioggia incrociata di ordigni nucleari, di armi chimiche e convenzionali, tecnologicamente sofisticate, distruttive ben oltre l’arsenale che nei cinque anni della seconda guerra mondiale ha devastato i territori dei contendenti e dimostrato, se ve ne fosse bisogno, che l’ energia atomica, trasformata in ordigno di distruzione e morte dalla fantasia scientifica di Oppenheimer esprime un potenziale pericoloso per la sopravvivenza della Terra. Vero, falso? A immediato ridosso dell’aggressione, Putin, in risposta alla sfida del popolo ucraino alla potenza militare della Russia ha minacciato di piegare la resistenza dei ‘fratelli’ con le armi nucleari.
Aggressività (Treccani), stato di tensione emotiva generalmente espresso in comportamenti lesivi e di attacco.
L’odio del neo zar, che non fa mistero di perseguire l’intenzione di riaggregare alla Russia gli Stati satelliti divenuti indipendenti, fa leva sulle ambizioni di oligarchi rapaci e sul nazionalismo popolare, alimentato dalle menzogne della propaganda di regime e altrimenti incomprensibile considerata l’indegna forbice che separa, come e pochi altri Paesi del mondo ricchezze miliardarie e tragiche povertà.
L’universo dell’arte e dello sport ben raffigura il parallelismo imperfetto dello scontro in famiglia tra russi e ucraini. Al culmine del paradosso incombe l’assurdo del fuoco nemico-amico tra due etnie che non di rado s’incrociano con il vincolo del matrimonio. In pieno nel titolo bipolare odio-amore: a sipario alzato le cantanti liriche Ludmyla Monastyrska, ucraina e Ekaterina Gubanova, russa, emozionano il pubblico del teatro San Carlo di Napoli. Si abbracciano con tenero, commovente affetto; a Lucca, Vlady, giovane russo e Roman, ucraino, gestiscono in perfetta armonia il ristorante Stravinsky e denunciano all’unisono l’assurdità della guerra”: amore.
Atleti russi esclusi dalle Paralimpiadi per colpa di Putin minacciano gli ucraini: “Bombarderemo le vostre famiglie”. Odio. A Mosca i giovani russi manifestano per la pace, contro l’aggressione dell’Ucraina. Amore. Finiscono in manette, rischiano condanne fino a 15 anni di carcere. Il Cremlino definisce ‘teppista’, odio, Marina Osyannikova, di padre russo e madre ucraina, giornalista anti Putin, apparsa alle spalle della conduttrice del Tg con la scritta “No War’ e in un video invita i russi a non credere alla propaganda del Cremlino, “che mente”. Apertamente accusa Putin, unico colpevole di “crimine”. Aggressione. La coraggiosa giornalista è stata arrestata e multata, in attesa di processo. Odio. Il russo Miranchuk dell’Atalanta segna ma non esulta per rispetto del compagno di squadra ucraino Malinovskyi. Amore
Parole d'odio dell'insegnate ucraina a Otto e mezzo: i giornalisti russi dissidenti non sono eroi. Il Tempo il 16 marzo 2022.
L’argomento della disinformazione è al centro della puntata del 16 marzo di Otto e mezzo, programma tv di La7 condotto da Lilli Gruber. La giornalista ospita in collegamento l'insegnante ucraina Alona Kliuieva, che dice la sua sul tema della serata: “La propaganda le fanno tutte le parti in causa. Facciamo doppi e tripli controlli per avere un’immagine più possibile vicina alla realtà. Io ho amici sparsi in tutte le zone dell’Ucraina ho testimonianze dirette. Qui a Leopoli arrivano persone e profughi che stanno scappando dalla guerra e mi raccontano quello che succede. La mia migliore amica è in una delle zone assediate, Kherson, e lì sono stati lanciati canali russi dove raccontano la loro propaganda. Ma noi eravamo stati avvisati all’inizio della guerra che la Russia avrebbe fatto tutto questo. La gente si fida dell’Ucraina e nessuno crede alle varie fake news, come quella della resa di Zelensky. I russi, visto che la gente è senza soldi e cibo, porta aiuti umanitari, ma molta gente rifiuta visto che sanno che questa è propaganda. Io spero che questa guerra finisca, perché una persona stanchissima e affamata prima o poi si arrende, è un fatto psicologico”.
La Kliuieva commenta poi il gesto della giornalista russa Marina Ovsyannikova, che ha ‘invaso’ lo studio del telegiornale di stato di Mosca mostrando un cartello a favore della fine della guerra: “Per me non è un’eroina come viene mostrata dalla stampa. Noi siamo grati a tutti i russi che sono contro la guerra, ma quelli che lo sono davvero, perché non ha fatto questo gesto nel 2014? Visto che ha un padre ucraino. Ci volevano 8 anni per capire le cose?”. La Gruber chiede conto della protesta a Elena Chernenko, giornalista russa: “Io ammiro il suo coraggio, non sono d’accordo con l’idea relativa al 2014 e agli ultimi 8 anni. Prima dicono ‘che cosa facevate per essere contrari?’ ora invece quando qualcuno si espone non bisogna criticarlo. Ci vuole coraggio, ci vuole audacia, non basta dire perché non l’hai fatto prima, ha rischiato tantissimo con questo gesto, è molto molto difficile trovarsi sotto al fuoco di entrambe le parti. Non si può dire alla gente lo dovevi fare prima, io credo meriti tutta l’ammirazione”.
Odiare Putin non è reato. Le deliranti linee guida di Zuckerberg e il diritto di offendere solo i cattivi del momento. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 marzo 2022.
Facebook e Instagram, svela la Reuters, permettono una deroga temporanea al divieto di offendere se le offese sono rivolte a Putin, Lukashenko o ai soldati che stanno invadendo l’Ucraina.
L’unica ragione per cui abbiamo smesso di andare in chiesa, si scopre in questi anni impazziti, è che il Vaticano non ha pensato a inventare il like, l’unico miracolo cui teniamo, più tangibile dei pani e dei pesci teorici, l’unica liturgia che ci permetta non di cibarci del corpo d’un personaggio di fantasia di duemila anni fa ma di dimostrare che abbiamo un corpo, e un’anima, e soprattutto delle opinioni.
Se il cattolicesimo fosse stato meno arretrato (scambiatevi un segno di pace, ma per favore: noi vogliamo apporci dei cuoricini), saremmo ancora tutti lì, giacché avere dogmi e guide morali ci piace tantissimo, lo confermiamo ogni giorno.
Giovedì, per esempio, la Reuters ha raccontato che Facebook, che ogni giorno ci mette in castigo se diciamo cose come «ricchione» a un vecchio amico con cui condividiamo codici comunicativi ignoti agli impiegati di Zuckerberg, adesso ha deciso che dopo aver fatto le regole fa anche le eccezioni.
Quindi il safe place, il posto in cui nessuno si deve sentire messo a disagio figuriamoci in pericolo, in cui è fatto divieto di mettere in discussione le identità percepite figuriamoci quelle reali, è un po’ meno safe se sei russo. Se sei russo posso minacciarti. Sembra una puntata di Black Mirror, e invece.
«Secondo alcune email interne di cui ha preso visione la Reuters, e in deroga temporanea alle proprie politiche sui discorsi d’odio». Non è la frase più bella del mondo? Se domani un gruppo di donne francesi fa un attentato posso scrivere che le francesi sono tutte troie senza che Facebook mi metta in castigo, impedendomi quel diritto umano che è il like? Col razzismo come siamo messi, Bin Laden lo giustifica, in deroga? Commenti etnici su Saddam Hussein ma più in generale su chiunque venga dall’Iraq sono consentiti, in deroga?
«L’azienda di social network sta anche temporaneamente consentendo alcuni post che invocano la morte di Putin o di Lukashenko, secondo alcune email interne dirette ai moderatori di contenuti». Quel «temporaneamente» m’incanta, sento che lì dentro c’è il grande romanzo postmoderno. La scadenza è nota? Se domani firmano una tregua e i poveri utenti non se ne accorgono per tempo, si ritrovano tutti in esilio dalle piattaforme, banditi dalla possibilità di cuoricinare il cognato perché hanno dato del pompinaro sdentato che deve morire a quel Vladimir che un minuto prima era un criminale ma adesso è una creatura fragile che ha diritto di scorrere il proprio profilo Facebook senza turbarsi?
Le specifiche sono altrettanto incantevoli. Se infatti volete minacciare Putin di morte senza che vi venga impedito di postare i vostri penzierini per giorni, dovete attenervi alle linee guida della deroga. Che, ricopia la Reuters dalle mail interne, dicono che la minaccia non dev’essere una minaccia dettagliata. Non deve, cioè, contenere due o più specifiche. Se dite voglio tagliare la testa a Putin con una roncola sulla piazza Rossa, vi mettono in castigo: c’è la specifica di metodo e quella di luogo (non me lo sto inventando, non ci credo neanch’io ma parla proprio di due specifiche). Ma se dite solo «voglio ammazzarlo domani alle otto» va bene: c’è solo la specifica temporale.
L’ambasciata russa a Washington ha – cosa mi tocca dire – dato una risposta molto più razionale e lucida e liberale di quanto lo siano i dirigenti di Meta (adesso Facebook e Instagram si chiamano Meta, come sapete), ma soprattutto di quanto lo siamo noi, che ci facciamo dare regole su quali parole usare e non usare come fossimo cinquenni con genitori severi, col terrore che ci mandino in camera nostra senza più la possibilità di farci mettere i cuoricini da amici e sconosciuti sulle foto della pizza.
Dice la risposta dell’ambasciata: «Gli utilizzatori di Facebook e Instagram non hanno dato ai proprietari di queste piattaforme il diritto di determinare i criteri di verità». Avete ragione, cari diplomatici russi. Anche perché, come dire, l’algoritmo saprà pure tutto di noi, ma è pur sempre quello che ci consiglia di leggere l’articolo che stiamo per twittare perché non gli risulta che l’abbiamo letto – ignaro che l’abbiamo scritto. O che con squisita ottusità censura Helmut Newton o Michelangelo ritenendo siano immagini uguali al porno amatoriale di vostra cognata.
Come possono piattaforme così strutturalmente fesse mettere in piedi linee guida che pretendono d’essere sofisticate? Certo che si possono minacciare i soldati russi, spiega un’email copiata dalla Reuters, ma solo perché in realtà lo si fa intendendo minacciare genericamente l’invasore, quando si è popolazioni stressate dalla guerra (c’è, giuro, una lista di nazionalità autorizzate a minacciare i russi in deroga; incredibilmente, la lista non include i milanesi che giurano di non dormire per la preoccupazione bellica). E comunque, specifica sempre la delirante email, non si possono minacciare quei soldati russi che siano prigionieri di guerra. Voglio proprio vedere i controllori che vagliano un post alla volta per approfondire se Tizior Tiziokov, di cui un utente si augura il decesso stasera alle sette meno un quarto, sia prigioniero di guerra o no.
Il problema siamo noi, che non vediamo l’ora di trovare religioni prescrittive da rispettare, che siamo contenti se ci trattano come cinquenni. Una non vorrebbe citare «Prima di tutto vennero a prendere gli zingari» e quel che segue, perché è tra le citazioni più banali che si possano fare. Però ti ci costringono quando, come un mio conoscente ieri su Facebook, esultano perché Facebook ti tratta come un bambino scemo e ti dice su che articoli cliccare e su quali no: «Questo link è di un editore che Facebook ritiene possa essere totalmente o parzialmente sotto il controllo editoriale del governo russo». Prima decidono chi sono i cattivi, e ne siamo contenti perché siamo sicurissimi che noi siamo e saremo sempre i buoni. È ovvio che sia e sarà sempre così, no? Quindi diamo l’unica copia delle chiavi della morale a dei miliardari in dollari, e – purché non ci vietino l’accesso ai cuoricini – lasciamo che decidano chi sì e chi no. Cosa potrà mai andar storto.
I FIGLI DI PUTIN.
«Tra Trump e Putin un “accordo” per l’invasione dell’Ucraina»: la rivelazione del New York Times. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022.
Il presidente russo avrebbe offerto a Trump, in cambio del suo avallo all’«operazione militare speciale», il supporto degli hacker di Mosca nella sua campagna elettorale del 2016, che in effetti vinse
Un «accordo», o almeno un intreccio di interessi d’affari tra Donald Trump e Vladimir Putin: sul piatto, da un lato, il provvidenziale intervento degli hacker russi a favore del primo nella campagna presidenziale 2016; dall’altro, nientemeno, l’invasione dell’Ucraina. Un’inchiesta del New York Times sembra unire i puntini, tra Manhattan e Mosca.
È il 28 luglio 2016. Hillary Clinton accetta la nomination dei democratici: correrà per la Casa Bianca. Paul Manafort, lobbista e consulente di Donald Trump per la campagna elettorale, sta per incontrare il russo che dirige la sua sede di Kiev della sua società di consulenza. Konstantin Kilimnik, così si chiama il russo, gli parlerà di un piano: il «Piano Mariupol». Che contiene già tutto: l’invasione dell’Ucraina; la creazione di una repubblica autonoma nell’Est del Paese; la presidenza di quella repubblica assegnata all’ex presidente ucraino Vyktor Yanukovych, deposto dalle rivolte. Per il New York Times il ruolo di Trump in questo patto era quello di «garante»: se il Cremlino gli avesse garantito la vittoria, il «piano Mariupol» sarebbe filato liscio.
Le notizie in diretta sulla guerra in Ucraina
Poi non tutto è filato liscio: la vittoria di Joe Biden alle presidenziali del 2020, per esempio, secondo le ricostruzioni del New York Times avrebbe complicato i piani; e così la condanna di Paul Manafort per bancarotta fraudolenta. Ma l’invasione prevista Putin l’ha compiuta lo stesso, anche senza più amici alla Casa Bianca.
Jim Rutenberg, per il New York Times, ricostruisce a ritroso la genesi del piano, citando documenti che vanno fino al 2005. Il più vecchio, di quell’anno, è una nota inviata a un oligarca russo, Oleg Deripaska, citata in un report della commissione Intelligence del Senato. Già lì Manafort suggeriva di «solidarizzare» con Yanukovych, sostenendone le elezioni «a beneficio di Putin».
Le elezioni ucraine Yanykovych poi le vinse, prima di venire deposto dalla piazza nel 2014. Poi si va avanti, e Trump è presidente: appoggia la Nato solo tiepidamente, considera la possibilità di riconoscere la Crimea russa. Blocca, infine, aiuti militari a Kiev. Mosse che lette ex post sembrano, nell’inchiesta del New York Times, il saldo di un debito.
Spunta il Russiagate 2.0, ma qualcosa non torna. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 3 Novembre 2022.
A pochi giorni dal voto delle midterm, il New York Times pubblica la classica “bomba” pre-elettorale: una versione rielaborata del “Russiagate” che vede come protagonisti, manco a dirlo, il presidente russo Vladimir Putin e l’ex presidente Usa Donald Trump, protagonista, quest’ultimo, di queste elezioni di metà mandato per via del suo appoggio a decine di candidati repubblicani. “La storia non raccontata del ‘Russiagate e la strada verso la guerra in Ucraina. Le interferenze russe nella politica dell’era Trump furono più direttamente connesse all’attuale guerra di quello che si era capito prima”: è questo il titolo, come riporta l’Ansa, del lunghissimo articolo in cui il New York Times collega le ingerenze di Mosca nelle presidenziali americane del 2016 con il conflitto in Ucraina, ipotizzando che l’aiuto del Cremlino per l’elezione di Donald Trump mirasse fondamentalmente ad ottenere l’appoggio del tycoon per uno smembramento dell’Ucraina.
La ricostruzione del quotidiano si basa sulla revisione di centinaia di pagine di documenti dell’indagine sul Russiagate del superprocuratore Robert Mueller, della commissione intelligence del Senato, delle udienze di impeachment di Trump, nonché su interviste con quasi 50 persone in Usa e Ucraina. Tuttavia, in questo Russiagate 2.0 c’è più di una cosa che non torna, a cominciare dalla scarsità di prove fornite e di elementi del tutto vaghi e fumosi. Vediamo perché.
Gli hackeraggi russi ai danni del Comitato nazionale dem
Il primo elemento a destare perplessità, nell’articolata tesi del New York Times, riguarda i fantomatici “hackeraggi russi” alla sede del Comitato nazionale democratico del 2016. Tutto nascerebbe la notte del 28 luglio 2016, quando Hillary Clinton stava accettando la nomination dem per la Casa Bianca a Philadelphia: in quelle ore Paul Manafort, presidente della campagna di Trump, ricevette una email dell’amico e socio russo Konstantin Kilimnik, che chiese e ottenne un incontro urgente con lui. I due si incontrarono al Grand Havana Room, un luogo di ritrovo del mondo legato a Trump in cima alla torre a Manhattan di proprietà di Jared Kushner, il genero del tycoon. Qui Kilimnik avrebbe illustrato il ‘Piano Mariupol’, che prevedeva in cambio della pace la creazione di una repubblica autonoma nell’Ucraina dell’est guidata dal deposto presidente Viktor Ianukovich. Da lì in poi ci sarebbero stati gli attacchi hacker russi al server del Comitato Nazionale Democratico. E qua la teoria del New York Times comincia già a vacillare.
Non vi sono prove, tuttavia, del fatto che dietro l’hackeraggio del DNC vi sia effettivamente la Russia e che i due eventi siano legati. In una testimonianza del Congresso risalente al 2020, il presidente di Crowdstrike Shawn Henry ha infatti ammesso che “non ci sono prove concrete” che presunti hacker russi avessero effettivamente preso le e-mail dai server DNC. “Ci sono prove circostanziali, ma nessuna prova che siano stati effettivamente esfiltrati”, ha detto Henry. Per quanto concerne Manafort e i suoi rapporti con i russi, non sembra affatto che l’ex collaboratore di Trump stesse lavorando per il Cremlino. Kilimnik potrebbe tranquillamente aver illustrato il presunto piano a Manafort senza che il faccendiere abbia dato seguito ad alcunché.
Secondo documenti e testimonianze giurate, Manafort avrebbe cercato di spingere il suo cliente, l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich, ad entrare nell’Unione Europea e ad allontanarsi dalla sfera d’influenza della Russia. Come ha testimoniato l’ex partner di Manafort, Rick Gates , Manafort ha elaborato “la strategia per aiutare l’Ucraina a entrare nell’Unione Europea”, in vista della crisi di Euromaidan del 2013-2014. Gli obiettivi, ha spiegato Manafort in diverse note, erano “incoraggiare l’integrazione dell’UE con l’Ucraina “in modo che quest’ultima non “cada alla Russia” e “rafforzare il messaggio geopolitico chiave” di come “l’Europa e gli Stati Uniti non dovrebbero rischiare di perdere l’Ucraina a favore della Russia”. Quando la sua strategia ha preso piede, Manafort ha sottolineato ai colleghi, compreso Kilimnik, l’importanza di promuovere “le azioni costanti intraprese dal governo ucraino per soddisfare le richieste occidentali” e “le modifiche apportate per conformarsi all’accordo di associazione dell’UE”, lo stesso accordo a cui la Russia si è opposta. Come si lega tutto questo al “Piano Mariupol?”: un “particolare” omesso dall’inchiesta del Nyt.
Il Nyt ripesca l’inchiesta flop
L’inchiesta condotta da Robert Mueller fu un vero flop. Attesa dai democratici come la prova che vi fu una “collusione” fra la Federazione russa e l’entourage di Donald Trump, dimostrò semmai il contrario, cioè che non vi fu alcuna “collusione”. Tanto che i democratici, che hanno presentato due richieste di impeachment contro Donald Trump, su quella vicenda non fecero proprio nulla perché non avevano elementi sufficienti per procedere con la messa in stato d’accusa del presidente. L’inchiesta del New York Times mette insieme dunque vecchie notizie e documenti già noti, ipotizzando un accordo di “spartizione” dell’Ucraina che non c’è stato, smentito dai fatti e da ciò che ha fatto Trump durante la sua presidenza.
Che sul dossier Ucraina fu più duro e intransigente del suo predecessore, Barack Obama. Come rilevato da Ted Galen Carpenter su The National Interest, i fatti dimostrano che Donald Trump ha portato avanti una politica estera spesso aggressiva nei confronti della Federazione Russa – che certamente non ha fatto piacere a Putin, come la decisione di ritirare gli Usa dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), siglato a Washington l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbacev, a seguito del vertice di Reykjavík. Nel settembre 2019, l’allora Segretario alla Difesa James Mattis ammise che Stati Uniti stavano addestrando unità militari ucraine in una base nell’Ucraina occidentale. Come se non bastasse, Donald Trump approvò la vendita di armi a Kiev e anche un pacchetto di assistenza militare: la prima transazione risaliva al dicembre 2017 ed era limitata alle armi leggere, accordo che includeva l’esportazione di fucili M107A1 e munizioni, per una vendita del valore totale di 41,5 milioni di dollari. La transazione dell’aprile 2018 è ben più seria.
Non solo è più onerosa (47 milioni di dollari), ma include anche armi letali, in particolare 210 missili anti-carro Javelin – il tipo di armi che l’amministrazione di Barack Obama si era rifiutata di fornire a Kiev. Comportamento curioso per un ex presidente dipinto come un “colluso”. Quanto al pacchetto da 250 milioni di dollari in assistenza militare, il Congresso votò per due volte il sostegno militare a Kiev durante gli ultimi anni dell’amministrazione di Obama, ma la Casa Bianca ne bloccò l’attuazione. L’amministrazione Trump, al contrario, lo approvò e la cosa di certo non fece piacere a Putin. Anzi. Faceva anche questo del grande complotto Putin-Trump? Armare l’Ucraina fino ai denti come ha fatto The Donald?
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Tutto quello che c’è da sapere della politica estera russa: intervista a Ivan Timofeev. Emanuel Pietrobon, Roberto Vivaldelli su Inside over il 21 Ottobre 2022.
La posterità giudicherà severamente coloro che non hanno capito il senso storico della (in)evitabile guerra in Ucraina. Confronto, più che tra Mosca e Kiev, fra il morente Momento unipolare e l’albeggiante Ordine multipolare.
L’Ucraina è dove si sta facendo la storia ed è anche un luogo di déjà-vu e déjà-vecu. Trincea lungo la quale si sta consumando la più importante battaglia della transizione verso il multipolarismo. Laboratorio della prima guerra senza limiti e di riproposizioni in chiave contemporanea delle esperienze afgana e irano-iraqena. Fra i teatri della guerra civile islamica e nuovo episodio del bellum perpetuum tra i fratelli coltelli d’Occidente, Stati Uniti ed Europa a guida tedesca.
L’Ucraina è dove finisce il sogno di un’Europa estesa da Lisbona a Vladivostok e dove (ri)sorge il sogno di un’Asia de-occidentalizzata estesa da Murmansk a Shanghai. Luogo del destino che sta accelerando tendenze pre-esistenti, in particolare la fine della Pax americana, e che verrà ricordato come un “super 11 settembre” per l’impronta e l’impatto sugli anni Venti e successivi.
La nostra conversazione con Ivan Timofeev
Abbiamo raggiunto in videoconferenza uno dei più importanti politologi russi in circolazione, Ivan Timofeev, per conoscere la prospettiva russa sulla guerra in Ucraina e discutere di una grande varietà di altri temi – dall’apparente sveltimento della transizione multipolare al caso Dugina.
Timofeev è un influente membro del Consiglio russo per gli affari internazionali (RIAC, Russian International Affairs Council), dal 2015 è direttore del programma “Euro-Atlantic Security” presso il Valdai Discussion Club ed è stato, prima dell’ingresso nel RIAC, a capo del Centro di monitoraggio analitico e professore associato presso l’Università MGIMO (2009–2011), presso il quale ha conseguito un dottorato in scienze politiche. Timofeev è, inoltre, autore di oltre ottanta pubblicazioni pubblicate sulla stampa accademica, sia russa sia straniera, e docente presso l’Accademia di Scienze Militari.
Professor Timofeev, molti analisti erano dell’idea che una guerra su larga scala in Ucraina fosse estremamente improbabile, dato che la Russia, in apparenza, avrebbe avuto più contro che pro. Alla fine, però, è scoppiata. Quello che sappiamo è che, fino a questo momento, la Russia è riuscita a resistere alla cosiddetta “guerra economica totale” lanciata dalla presidenza Biden e dai suoi alleati e che il conflitto, nel complesso, ha tutte le carte in regola per passare alla storia come un “super 11 settembre”: molti paesi non allineati sembra che si stiano allineando – e, tra l’altro, dalla parte della Russia –, i BRICS sono tornati a nuova vita, la dedollarizzazione sta subendo un’accelerazione e molto altro ancora. Ci stiamo chiedendo: ma il cosiddetto Rest, cioè il Resto del mondo, dalla parte di chi sta?
La mia risposta vuole essere coscienziosa. Se da una parte è vero che la reazione del resto del mondo è la prova che non siamo isolati, dall’altra si trova l’Occidente che, tra divieti di viaggio, restrizioni finanziarie, cultura della cancellazione ed altro, sta emarginando in misura critica e crescente la Russia.
Molti paesi si stanno astenendo dal votare [contro la Russia] in sede di Assemblea generale delle Nazioni Unite, così come tanti altri non hanno aderito al regime sanzionatorio. Ma questo non significa, comunque, che Il Resto (The Rest) si stia allineando con la Russia e ne stia supportando le posizioni. Significa soltanto che molti paesi non vogliono compromettere i loro interessi essenziali e che neanche desiderano essere coinvolti nel conflitto. Ma alcuni di loro stanno perseguendo questo obiettivo parteggiando inavvertitamente per gli Stati Uniti, dei quali evitano accuratamente le sanzioni secondarie. Persino paesi come la Cina, se si guarda alle loro imprese, stanno agendo con molta cautela. Restando in materia di Cina, gli affari ordinari vanno avanti come al solito, ma le imprese operanti in ambiti colpiti da sanzioni o non vengono o stanno studiando attentamente i passi da fare.
In breve: avete ragione nel dire che la Russia non è isolata. Ma questo, di nuovo, non significa che Il Resto del mondo stia dalla parte della Russia nella questione ucraina.
È di nuovo l’Occidente contro il Resto del mondo, come durante la Guerra fredda. E alcuni eventi, come il comportamento delle grandi potenze del Sud globale – Argentina, Brasile, Arabia saudita e altre –, sembrano indicare che il Resto stesse aspettando un “grande evento” per disfarsi dell’Occidente e darsi coesione. Qual è la sua opinione in merito?
Beh, di nuovo, vorrei fare una riflessione coscienziosa. L’Occidente è molto consolidato, molto di più del Resto del mondo. L’Occidente ha le sue istituzioni securitarie, come la NATO, un insieme di organizzazioni di partenariato economico, come il G7, e molti altri organismi. Se guardiamo al Resto, però, non si vede una simile infrastruttura.
Si pensi ai BRICS. Che cos’è il gruppo dei BRICS? È un’entità molto informale, con una base infrastrutturale povera, una sorta di club di discussione che non diventerà qualcosa di più grande nel prevedibile futuro. Perciò, non sopravvaluterei il consolidamento del Resto del mondo.
Alcuni paesi del Resto, inoltre, sono agli antipodi l’uno con l’altro. Per esempio, Cina e India sono entrambi membri BRICS, eppure presentano dei forti disaccordi in molti ambiti.
Avete giustamente osservato come Argentina e Brasile sarebbero felici di cooperare con la Russia il più possibile. Ma logistica e distanza geografica, allo stesso tempo, rendono le loro relazioni con noi molto tenui. Per di più, essendo entrambi i paesi pesantemente dipendenti dagli Stati Uniti in termini di transazioni finanziarie, non sacrificheranno i loro interessi sull’altare di una maggiore cooperazione con la Russia.
Dal mio punto di vista, il Resto del mondo sta giocando con cautela. Vero è che si sta distanziando dalla narrativa occidentale sull’Ucraina e che, in generale, è poco interessato a partecipare al conflitto, ma, di nuovo, ciò non significa che l’insieme degli eventi lo stia incoraggiando o stimolando a darsi una maggiore coesione.
Considerato che i riverberi internazionali della guerra in Ucraina stanno mostrando il potenziale di spianare la strada ad un ordine post-americano, si potrebbe affermare che il Cremlino “ha avuto ragione” nel scommettere sull’invasione. Perché ogni guerra è anche una scommessa e, perlomeno in termini di impatto globale, sembra che la Russia la stia vincendo. A parte questo, però, sorge spontanea la domanda “più difficile”: era davvero impossibile proseguire coi negoziati?
La domanda è se stiamo assistendo ad una rivoluzione oppure no. Stiamo indubbiamente attraversando una transizione dell’ordine internazionale, con gli eventi in Ucraina in funzione di acceleratore di tale processo. Ma il punto è che non è stato il conflitto in Ucraina a stimolare, o provocare, questa rivoluzione. La rivoluzione era già in corso e sta ora continuando ad andare avanti, sebbene lentamente.
L’Ucraina è soltanto uno dei fattori che hanno contribuito a catalizzare l’arrivo di un nuovo ordine mondiale. Ma non l’unico. Perché ve ne sono molti altri, quali, ad esempio, la resistenza dell’Iran alle sanzioni occidentali, le relazioni sino-americane in evoluzione, la questione taiwanese, eccetera. Spiegato altrimenti: questa rivoluzione non è il risultato del conflitto, ma di un insieme di fattori.
Riguardo le negoziazioni, beh, io sono dell’idea che si potesse continuare a trattare. Il fatto è che nessuna delle parti era disposta a sacrificare i propri interessi focali nel nome di un qualche compromesso. C’erano delle chiare linee rosse.
Gli Stati Uniti e l’Unione Europea non avrebbero abbandonato la politica delle porte aperte della NATO, non avrebbero dato garanzie sul non ingresso dell’Ucraina nell’Alleanza, non avrebbero riconosciuto il controllo russo sulla Crimea, per non parlare del riconoscimento di Donetsk e Lugansk. C’erano spazi per il dialogo su altri argomenti, dal controllo degli armamenti al cambiamento climatico, ma nessuno di essi era cruciale per la sicurezza della Russia. Il punto cruciale era – ed è – l’infrastruttura della NATO e il suo sviluppo.
Cambiando per un attimo argomento, che cosa ne pensa dell’assassinio di Daria Dugina? Perché è stata uccisa?
Le autorità che hanno investigato sul caso hanno prodotto diverse dichiarazioni in merito. Ci sono validi motivi per sospettare dei cittadini ucraini di responsabilità diretta nell’assassinio. Abbiamo i loro nomi. Conosciamo i loro volti. E abbiamo anche una versione delle loro attività in Russia.
Sul perché sia stata uccisa, beh, era sicuramente un simbolo. E questo atto può essere chiaramente ritenuto un gesto simbolico contro la Russia, la sua società e i suoi pensatori, in special modo quelli conservatori. Ecco perché persone di ogni estrazione hanno dato i loro omaggi alla famiglia Dugin.
In Occidente è convinzione comune che Aleksandr Dugin, soprannominato “il cervello di Putin” e “il Rasputin di Putin”, sia un pensatore influente. L’attentato a Daria Dugina aveva a che fare con la reputazione del padre? E Dugin è realmente quest’eminenza grigia descritta dalla stampa occidentale?
Non direi che Dugin sia un pensatore popolare in Russia. Non lo è. È abbastanza marginale. È considerato, a torto, una specie di stratega o ideologo di Putin, mentre non lo è. È marginale e non è in alcun modo presente nel mainstream.
Comunque, l’assassinio di sua figlia… poteva avere qualsiasi idea e aveva il diritto costituzionale di averla e promuoverla. Il suo assassinio brutale ha scatenato indignazione e provocato oltraggio per molti, qui in Russia, e questo potrebbe sancire una svolta.
Henry Kissinger ha avvisato l’amministrazione Biden, e in esteso la classe dirigente americana nella sua interezza, come ciò che percepisce come una combinazione di assenza di lungimiranza e perdita di pensiero strategico stia gettando le fondamenta di un confronto militare diretto tra gli Stati Uniti e il blocco russo-cinese. Concorda?
Concordo con la sua affermazione. Ha ragione nel senso che sta aumentando il rischio, in tutto il mondo, della conseguenza indesiderata di confronti diretti tra le grandi potenze. E non è soltanto il rischio di un confronto NATO-Russia alla luce dell’eccessivo supporto NATO all’Ucraina. Sto pensando anche al Baltico, a Kaliningrad e alla Cina, dove il rischio di uno scontro sino-americano per Taiwan sta crescendo.
È vero che Russia e Cina sono sempre più spinte a cooperare l’una con l’altra, ma la domanda è: saranno mai alleate militari o la loro alleanza morirà prima [che ciò avvenga]? Non guardo a tutto quello che sta accadendo come ad un “Russia e Cina contro l’Occidente”, perché il loro partenariato è ancora un lavoro in corso.
Kissinger è uno dei più grandi strateghi che siano mai esistiti. I suoi insegnamenti saranno studiati dalla posterità. La sua eredità sarà per sempre. Ci chiediamo, però, se stavolta non si stesse sbagliando. E se la strategia degli Stati Uniti, per quanto caotica possa sembrare, fosse basata sull’idea di Zbigniew Brzezinski di utilizzare l’Ucraina per espellere la Russia in Asia nell’aspettativa che anneghi nei problemi del continente – terrorismo, scontri interetnici, dispute territoriali, rivalità regionali, eccetera – e che il suo asse con la Repubblica Popolare Cinese imploda a causa della “coabitazione forzata”? Questa potrebbe essere la logica nascosta dell’apparentemente controproducente e antistrategica politica del “doppio contenimento”.
Ricordo di questa vecchia idea, dei concetti esposti nella Grande scacchiera… beh, da un punto di vista logico, gli Stati Uniti avrebbero dovuto attrarre la Russia nel loro campo. Ed erano nelle condizioni di prevedere un avvicinamento della Russia alla Cina in caso di pressioni crescenti [alla Russia] provenienti dall’area euroatlantica. Eppure, gli Stati Uniti non la stanno attraendo nel loro campo.
Da quel che ho capito, nel pensiero dominante americano la Russia non è né un grande problema né un grande portatore di interessi. Gli Stati Uniti continuano a considerare la Russia un opponente pericoloso, ma che non ha potenziale a sufficienza da rendere determinante un’alleanza nella loro competizione con la Cina nell’Asia-Pacifico.
Penso che gli Stati Uniti stiano commettendo un errore e che stiano perdendo più di quanto potrebbero guadagnare. Infatti, avrebbero potuto risolvere molti problemi internazionali e sistemare alcuni sistemi di alleanze accomodando la Russia. Ma, ora, queste opportunità sono state perdute completamente. La Russia sta chiaramente e crescentemente collaborando con la Cina. Non sappiamo quale sarà il fato di questa relazione, ma sappiamo che al momento non esiste possibilità di cambiarne la direzione, anche alla luce di quanto successo in Ucraina.
Estratto dell'articolo di Fabio Tonacci per repubblica.it il 27 Ottobre 2022.
Kiev risponde al leghista Massimiliano Romeo e lo accusa di fare il gioco di Putin. Durante le dichiarazioni di voto sulla fiducia al governo Meloni di ieri, il senatore ha affermato, a proposito della guerra in Ucraina: “Si fa fatica a sentire ‘decideranno gli ucraini’. È la comunità internazionale che deve decidere per loro”. Un passaggio che ha fatto rumore e che non è piaciuto affatto ai ministri di Volodymyr Zelensky, attentissimi in questa fase alle prime mosse della premier Giorgia Meloni e dei suoi alleati.
La replica è stata affidata a Oleg Nikolenko, portavoce del ministro degli Esteri ucraino Dymitro Kuleba. “In precedenza questo senatore ha presentato al Parlamento una richiesta di riconoscimento della Crimea russa”, dice Nikolenko. “Quasi tutti i Paesi troveranno politici che cercheranno di piacere a Putin. Allo stesso tempo, dovrebbero rendersi conto che diffondendo narrazioni russe stanno incoraggiando la Russia a continuare i crimini contro l’Ucraina” […]
Nikolenko, poi, ribadisce che il legame tra Zelensky e Meloni è solido. “La premier ha chiaramente spiegato la posizione dell’Italia, sia sulla necessità di un continuo sostegno all’Ucraina aggredita dalla Russia, sia sul diritto indiscusso degli ucraini a determinare il loro futuro. La posizione di Romeo (capogruppo della Lega in Senato, ndr) è solo un’opinione personale”. […]
Geopoliticanti. Il caso Romeo e i troppi fautori della «pace per procura». Francesco Cundari su L'Inkiesta il 28 Ottobre 2022.
Le parole del capogruppo leghista, secondo il quale non dovrebbero essere gli ucraini a decidere sul negoziato, bensì «la comunità internazionale», hanno suscitato la reazione di Kyjiv. Ma sta anche ai promotori delle manifestazioni per la pace chiarire cosa vogliono
L’incredibile discorso pronunciato mercoledì in Senato dal capogruppo della Lega, Massimiliano Romeo, convinto che sulla pace non bisognerebbe dire «decideranno gli ucraini», bensì «deciderà la comunità internazionale, nell’interesse dell’Ucraina», ha suscitato ieri la comprensibile irritazione di Kyjiv («In quasi tutti i paesi ci saranno politici che cercheranno di compiacere Putin», ha detto tra l’altro il portavoce del ministro degli Esteri). Ma avrebbe meritato maggiore attenzione anche in Italia, anzitutto da Giorgia Meloni, alla quale del resto l’intervento di Romeo era indirizzato, con chiari riferimenti polemici, a partire dall’affermazione, pronunciata poco prima dalla presidente del Consiglio, secondo cui la pace non si otterrebbe «sventolando bandiere arcobaleno» (che in ogni caso non credo piacciano troppo a nessuno dei due).
Limitarsi però a denunciare l’ambiguità della posizione leghista, e di conseguenza le enormi contraddizioni all’interno della maggioranza su questo punto decisivo, vorrebbe dire raccontare solo metà della storia. L’altra metà è infatti rappresentata dai tanti politici, intellettuali, politologi e geopolitologi che da mesi esprimono sostanzialmente lo stesso concetto, che Romeo ha avuto solo la malagrazia di ripetere in un’occasione ufficiale e particolarmente solenne.
L’idea che siano gli Stati Uniti, la Nato, l’Europa, e insomma ciascuno di noi a dover lavorare per imporre all’Ucraina la pace che a noi sembra più giusta e conveniente, cioè la resa, è in effetti la conseguenza più logica e inevitabile della teoria, continuamente ripetuta su giornali e tv, della «guerra per procura». Se gli ucraini non sono che dei pupazzi nelle mani della Nato, come vuole la propaganda putiniana, è evidente che sta ai burattinai, non certo ai burattini, decidere come, dove e quando fermarsi.
Romeo in fondo ha solo esplicitato, con parole non troppo diverse da quelle usate mille volte da Giuseppe Conte e da tanti altri, la teoria della pace per procura.
Coloro che il 5 novembre andranno in piazza a manifestare farebbero bene a chiarire sin d’ora se è questo che intendono, quando invocano la pace. Come hanno fatto Carlo Calenda e gli organizzatori della manifestazione di Milano, ma anche, ad esempio, il gruppo di intellettuali firmatari dell’appello promosso da Micromega, a favore della manifestazione romana. Appello che comincia con queste – sacrosante – parole: «Tutti parlano e straparlano di pace, tutti vogliono la pace. La questione cruciale è in cosa consista la pace. Quando una dittatura imperialista invade con il suo esercito una democrazia, e i cittadini di quest’ultima resistono eroicamente malgrado la schiacciante inferiorità bellica, la risposta, per ogni democratico, è adamantina: pace vuol dire il ritiro dell’aggressore entro i suoi confini, ogni altra soluzione sarebbe un premio a chi la pace l’ha violata, sterminando civili, violentando donne, massacrando e torturando».
Sarebbe bello sentire anche dagli altri promotori e aderenti alla manifestazione di Roma parole così chiare, nella speranza che l’esempio di Paolo Flores d’Arcais e degli altri sottoscrittori del suo appello sia la regola e non l’eccezione.
Gabriele Carrer per formiche.net il 27 Ottobre 2022.
L’unico modo efficace per raggiungere la pace è “fornire le armi e l’assistenza necessarie all’Ucraina e, infine, riconoscere la Russia come sponsor del terrorismo”. Lo scrive Yaroslav Melnyk, ambasciatore ucraino in Italia, in una lettera indirizzata a Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 Stelle, chiedendo di “tenere conto” anche delle posizioni ucraine in vista della manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma.
“Ogni voce a sostegno della pace è importante, ma queste voci dovrebbero suonare responsabili ed equilibrate, evitare di confondere ‘l’aggressore’ con ‘l’aggredito’ ed evitare di scaricare la colpa dal criminale alla parte che lo combatte”.
Come raccontato anche su Formiche.net, il nuovo governo di Giorgia Meloni è pronto a mantenere le promesse fatte agli alleati e all’Ucraina dando il via libera al sesto pacchetto di aiuti militari a Kyiv. Conte, leader del Movimento 5 Stelle, ha detto che “non siamo favorevoli”. “L’Italia ha già dato, lo abbiamo fatto per 7 mesi”, ha speigato intervenendo al Salone della Giustizia. “Dobbiamo lavorare per la pace”, ha continuato. Non nuovo a equilibrismi e giravolte sull’assistenza militare all’Ucraina invasa dalla Russia di Vladimir Putin, Conte ha detto no a “scellerate corse al riarmo”.
Nella lettera, l’ambasciatore Melnyk ringrazia l’ex presidente del Consiglio per le “parole di sostegno e solidarietà all’Ucraina sin dai primi giorni dell’invasione russa”. Riconosce poi che “le sfide di oggi sono complesse e le soluzioni sono difficili. E lo capiamo, non meno dei residenti dell’Ue. Ma gli europei si sentiranno più al caldo nelle loro case, sapendo che questo gas è stato pagato con il sangue ucraino?”, chiede a Conte.
La lettera a Conte si fa poi più dura: “È molto triste vedere come alcuni politici occidentali ‘regalano’ i territori ucraini e calpestano l’eroismo della resistenza ucraina per far piacere al tiranno nel Cremlino”, si legge. “Le manifestazioni esclusivamente all’insegna della ‘pace’ e con appelli impersonali a un cessate fuoco non riguardano la giustizia, ma sono una dimostrazione di viltà e ipocrisia. La riluttanza a chiamare la Russia un aggressore e a chiederle il ritiro delle sue truppe dal territorio dell’Ucraina non farà che stimolare l’appetito dello stato aggressore”.
Tutto ciò “non significa che l’Ucraina non parlerà mai con la Russia” ma gli attacchi e i morti “non danno il diritto di rappresentare gli ucraini che non si arrendono come militaristi e radicali. Capiamo tutti che tutte le guerre finiscono con i negoziati, ma proprio per questo è necessario dare una risposta adeguata all’aggressore”.
Estratto dell'articolo di Mario Ajello per “il Messaggero” il 21 ottobre 2022.
Un CamaleConte sul Colle. Come si fa ad andare in piazza il 5 novembre in mezzo a tanti pacifisti, pacifinti e filo-putiniani in nome della pace (non in nome della totale contrapposizione a chi ha scatenato la guerra, cioè il Cremlino) e intanto attaccare il centrodestra accusandolo di putinismo?
Come si fa ad aver votato i decreti per l'invio delle armi agli ucraini e ora non volere più mandare quelle armi di difesa ma i nemici degli ucraini sarebbero Berlusconi e Forza Italia e non Conte e M5S?
Per fare tutto questo, Conte all'uscita dalla consultazione con Mattarella ha dato fondo a tutta la sua tecnica avvocatesca, mischiando le carte e lanciandosi in acrobazie logiche o illogiche a rischio confusione. Ma forse con un obiettivo chiaro: ergersi a leader non solo di M5S ma di tutta la sinistra (e del resto i sondaggi danno i grillini ormai ad un'incollatura dal Pd). (...)
Praticamente, Conte è andato da Mattarella solo, o quasi, per dire che a loro non piace Berlusconi, anche se Berlusconi nelle sue tirate su russi e ucraini - questo Giuseppe a Mattarella lo ha omesso - non è poi così distante dalle posizioni stellate e del pacifismo di sinistra, neutralista e cerchiobottista, che sono la base della manifestazione arcobaleno lanciata da Conte per l'inizio del mese prossimo. Chi ha sentito il discorso contiano, lì sul Colle, ha pronunciato questa battuta: «È uscito dallo studio Alla Vetrata per arrampicarsi sugli specchi».
STILE ARCOBALENO È stata un po' questa l'impressione che ha dato Conte. Il quale, pur in tenuta istituzionale in blu con pochette, ha approfittato dell'occasione per tenere due comizi (anche qui, molto in stile vecchio Berlusconi) da piazza post-elettorale.
Uno, appunto, sul pacifismo. E a chi gli fa notare che anche M5S aveva detto che Putin voleva la pace, lui ribatte: «Non è vero, io non l'ho mai detto. Abbiamo sempre condannato l'invasione dell'esercito russo». E ancora, evviva la pace ma senza dare armi agli ucraini: «Il governo uscente non ha neppure accettato un confronto parlamentare sull'invio di armi a Kiev. (...)
A.Bra. per “la Stampa” il 25 ottobre 2022.
«Storicamente la Crimea è sempre stata russa: da un punto di vista culturale, etnico, economico, religioso», come dimostra il referendum del 2014 in cui anche «molti ucraini hanno votato per l'annessione» a Mosca. E l'Ucraina anti russa? Si riconosce dall'uso di «simboli del nazismo». Parole e scritti di Gennaro Sangiuliano, nuovo ministro della Cultura, che scatenano polemiche sui social.
A pochi giorni dai ragionamenti di Silvio Berlusconi su Putin che hanno messo in allarme i governi di tutto l'Occidente, la rete ripesca da libri e tv opinioni che molto somigliano alla versione russa del conflitto con l'Ucraina. Ospite di La7 nel dicembre del 2018, da poco direttore del Tg2, Sangiuliano ricorda che fu Krusciov a cedere la Crimea all'Ucraina, quindi «chi dice che oggi non è russa avalla una decisione presa da un regime totalitario».
C'è poi il collaborazionismo: «Chi ha studiato la Shoah e la tragica persecuzione degli ebrei sa che in molti campi di sterminio nazisti, oltre ai tedeschi che li guidavano, la bassa forza che sterminava gli ebrei era fatta dagli ucraini. Oggi quei movimenti ucraini che sono fortemente anti russi usano i simboli del nazismo».
Nel 2015, nel libro "Putin, vita di uno zar", Sangiuliano scriveva del referendum seguito all'invasione russa dell'anno prima, sottolineando il dato del 97,38% di voti favorevoli: «Poiché la popolazione di etnia russa della Crimea è del 58,5% ne risulta che anche molti ucraini hanno votato a favore dell'adesione a Mosca». Seppur il voto «non era stato riconosciuto come legittimo da gran parte della comunità internazionale», per il ministro è ancora più vero che «nessuno «degli osservatori ha mosso «obiezioni sulla regolarità del voto».
Lettera del ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, pubblicata da “La Stampa” il 26 ottobre 2022.
Gentile direttore, contrariamente a quanto riportato ieri sul suo giornale nell'articolo "La Crimea è sempre stata della Russia.
Sangiuliano finisce nel mirino dei social", segnalo che nelle ore immediatamente successive alla brutale aggressione della Russia all'Ucraina ebbi a esprimere, nella mia qualità di giornalista e saggista di geopolitica, una posizione netta e chiara: la Russia e Putin avevano violato il diritto internazionale mettendosi dalla parte del torto e aggredendo una nazione sovrana.
In altre parole, la Russia è l'aggressore e l'Ucraina è la vittima attorno alla quale bisogna stringersi, come nel 1939 ci si strinse attorno alla Polonia aggredita a tenaglia dai nazisti e dai sovietici. Altra cosa è fare un ragionamento storico molto articolato sulle ragioni che portarono Krusciov a cedere la Crimea all'Ucraina. Per quanto mi riguarda, oggi la Crimea dovrebbe tornare nella sovranità di Kiev.
Nel discorso del presidente Fontana le omissioni sono più importanti delle parole lette. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 18 ottobre 2022
DA TIFOSO del Verona Hellas, Lorenzo Fontana, il 14 ottobre, ha giocato a Montecitorio la ‘’partita della vita’’. È giovane, plurilaureato, in grazia di Dio, devoto della Madonna; pertanto può aspirare ad un futuro ancor più radioso. Essere stato eletto presidente della Camera ovvero terza autorità dello Stato è comunque un viatico di tutto rispetto.
È in queste circostanze che un leader politico deve dare il meglio di sé preparando, con i suoi collaboratori, un discorso che trapassi le mura di Montecitorio e, attraverso i mezzi di diffusione di massa, trasmetta ai cittadini una visione di futuro per la Repubblica. Non servono parole difficili, citazioni non comuni, perché “di parole che tutti odono sono scritte le frasi che nessuno ha udito mai’’.
Nel caso del discorso del presidente Fontana le omissioni sono molto più importanti e significative delle parole lette. Il neo presidente doveva presentarsi agli italiani smentendo le preoccupazioni che la sua elezione – a torto o a ragione – aveva suscitato. Prima di lui, al Senato, Ignazio La Russa si era accorto di questa esigenza e si era sforzato di riportare la sua storia personale e quella del suo partito all’interno dei valori della Costituzione, che non è mai neutra nei confronti della guerra civile che divise gli italiani tra il 1943 e il 1945, ma è intrisa dei valori che risultarono vincitori e bandisce in modo permanente quelli di coloro che combatterono “dalla parte sbagliata’’.
Fontana sa bene che esiste un’intera letteratura riguardante la sua vicinanza ideale a Vladimir Putin. In tante occasioni ha riconosciuto alla Russia una missione rigeneratrice della decadenza occidentale, con i medesimi argomenti del Patriarca Kirill. Molti italiani – che Fontana dovrà rappresentare – in merito alla sua elezione la pensano come Enrico Cisnetto che nella newsletter settimanale di Terza Repubblica ha scritto: “Vorrei essere una mosca a Mosca. Per poi entrare al Cremlino da qualche finestra lasciata aperta, superare i plotoni di esecuzione – se tanto mi dà tanto, devono farle fuori con la stessa ferocia con cui ammazzano gli ucraini – e infilarmi nelle stanze di Putin e dei suoi tirapiedi, per vedere lo spettacolo delle risa sguaiate e delle mani sfregate fino a consumar la pelle all’ascolto delle notizie provenienti da Roma. Figurati come se la ridono – ha aggiunto Cisnetto – nel vedere che un paese pilastro dell’Europa e della Nato – cioè quelli che Putin considera i suoi arcinemici – manifesta limiti clamorosi di tenuta della maggioranza uscita vincitrice dalle urne solo tre settimane fa, prima ancora che il Capo dello Stato abbia conferito l’incarico di formare il governo. E sai che piacere avrà fatto a quei signori trovarsi eletto presidente della Camera un fido amico della Russia, uno che ha indossato le t-shirt con la scritta “no sanzioni alla Russia”, che al tempo dell’annessione della Crimea bacchettava la Ue cattiva che non capisce la volontà di un popolo che “sente di essere tornato alla casa madre”, e che ancora dieci giorni prima della criminale invasione dell’Ucraina spendeva parole al miele per Putin. Così è, anche se non vi pare. Nel suo discorso il neo presidente non ha mai nominato Putin, non ha fatto riferimenti all’aggressione dell’Ucraina, ma la guerra era ricordata per l’esigenza di cercare la pace, con un occhio attento al Vaticano. «Il Papa sta svolgendo un’azione diplomatica a favore della pace senza uguali».
Poi, ricordando gli impegni iscritti all’ordine del giorno della XIX legislatura, il neo presidente è tornato sull’argomento con toni generici: “la prosecuzione dell’impegno nella ricerca della pace nel generale quadro della comunità internazionale e nei rapporti tra Ucraina e Russia’’. Un auspicio che rimane al di sotto di qualsiasi “minimo sindacale’’, tenuto conto delle critiche nei confronti dello zar del Cremlino, pronunciate in decine di occasioni ufficiali dal capo dello Stato: quel Sergio Mattarella definito da Fontana “perno della nostra nazione e fondamentale garante della nostra Costituzione’’. Poi dopo la più grave delle omissioni sulla guerra, il presidente ha lanciato la ‘’dottrina delle diversità’’, echeggiando vagamente concetti d’antan del Senatur, pubblicamente elogiato come Maestro.
“La ricchezza dell’Italia risiede proprio nella sua diversità e il compito delle istituzioni italiane è proprio quello di sublimare tali diversità, di valorizzarle attraverso le autonomie, nelle modalità previste e auspicate nella Costituzione. Il ruolo del Parlamento – ha proseguito un Fontana ispirato – sia all’interno delle aule che nella rappresentanza esterna, non deve prescindere dalla valorizzazione delle diversità e non deve cedere all’omologazione’’.
Poi il peana. “L’omologazione è uno strumento dei totalitarismi, delle imposizioni centrali sulle espressioni della volontà dei cittadini’’. Come la mettiamo con l’accusa di omofobia, di razzismo, di suprematismo bianco? Anche qui sarebbe stato opportuno fornire dei chiarimenti; chiedere delle scuse. Certo, sui “nuovi diritti civili’’ (che nel pensiero della sinistra hanno incautamente sostituito il marxismo-leninismo), Fontana ha delle opinioni diverse da quelle di Alessandro Zan (il che non è una colpa); ma nel momento in cui si arriva al vertice delle istituzioni sarebbe stato opportuno un po’ di revisione autocritica rispetto ad affermazioni discutibili più volte ribadite. Limitiamoci a riportare alcune performance di Fontana quando era ministro. “Abroghiamo la legge Mancino, che in questi anni strani si è trasformata in una sponda normativa usata dai globalisti per ammantare di antifascismo il loro razzismo anti-italiano”.
E ancora: “I burattinai della retorica del pensiero unico se ne facciano una ragione: il loro grande inganno è stato svelato”. “I fatti degli ultimi giorni – scrisse ancora Fontana – rendono sempre più chiaro come il razzismo sia diventato l’arma ideologica dei globalisti e dei suoi schiavi (alcuni giornalisti e commentatori mainstream, certi partiti) per puntare il dito contro il popolo italiano, accusarlo falsamente di ogni nefandezza, far sentire la maggioranza dei cittadini in colpa per il voto espresso e per l’intollerabile lontananza dalla retorica del pensiero unico. Una sottile e pericolosa arma ideologica studiata per orientare le opinioni’’.
Poi ecco riemergere, sia pure in modo equivoco il demone del sovranismo. “L’Italia deve dare forza alla propria peculiare natura, senza omologarsi a realtà estere più monolitiche e a culture che non diversificano. Vedete la diversità non è rottura, non è indice di superiorità di alcune realtà su altre viste erroneamente come inferiori, ma è espressione di democrazia e di rispetto della storia’’. A questo punto diventa chiaro che “i gravi problemi e le minacce esterne che provano a indebolire il nostro Paese’’, non provengono – secondo Fontana – dal Cremlino, ma da chi attraversa, con mezzi di fortuna, quei confini che Matteo Salvini vorrebbe difendere.
Non solo Fontana: tutte le volte che la Lega si è schierata contro le sanzioni alla Russia. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 19 ottobre 2022
«Bisogna fare attenzione alle sanzioni: potrebbero essere un boomerang. Loro, la Russia erano preparati da tempo, noi in Europa no» ha detto il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, a “Porta a Porta”. Di fatto continua la linea ufficialmente non a favore di Putin, ma nemmeno delle sanzioni che il presidente russo non vuole
«Bisogna fare attenzione alle sanzioni: potrebbero essere un boomerang. Loro, la Russia erano preparati da tempo, noi in Europa no», ha detto il presidente della Camera, Lorenzo Fontana, a “Porta a Porta”. Comincia così il mandato del leghista appena eletto terza carica dello stato. Il suo curriculum politico e i suoi rapporti con la Russia, sin da subito avevano suscitato perplessità.
Nel 2014 insieme ai colleghi leghisti Matteo Salvini e Gianluca Buonanno si era messo la maglietta per fermare le sanzioni inscenando una protesta a Bruxelles. Da allora la Lega si è detta sempre contraria e, dopo l’invasione del 24 febbraio ha moderato i toni sottolineando solo i disagi che comportano all’Italia e all’Europa.
«Abbiamo rapporti commerciali importanti con la Russia e per questo abbiamo interesse a mediare», diceva lo stesso Fontana a metà di quel mese.
DOPO L’INVASIONE
Salvini nei mesi ha aggiustato la linea del partito nei confronti di Mosca. Né a favore di Putin, ma nemmeno delle sanzioni. Il 23 febbraio si lanciava contro Josep Borrell: «Per il capo della politica estera dell'Unione europea, le sanzioni contro la Russia servono a bloccare lo shopping dei russi a Milano e i loro party a Saint Tropez siamo al ridicolo. O forse al tragico».
In campagna elettorale il tenore è lo stesso: «Ho cambiato idea su Putin? Chi scatena una guerra ha sempre torto». Prima, «tutti, me compreso prima avevano ottima idea. Poi, quando scateni una guerra passi dalla parte del torto. Quello che mi preme è che le sanzioni che l'Ue ha giustamente messo in campo contro la Russia per metterla in ginocchio non siano pagate dagli italiani. Bisogna fermare la guerra con ogni mezzo, ma non possono essere gli italiani a pagare».
Il 7 settembre proseguiva: «La Lega ha votato tutti i provvedimenti per proteggere l'Ucraina e chi fa la guerra ha torto». Ma ribadiva che la Russia stava continuando a raccogliere denaro «mentre l'Italia e l'Europa stanno soffrendo, le sanzioni oggettivamente non servono, noi facciamo parte della squadra internazionale dei paesi liberi democratici occidentali, non decide l'Italia da sola e se si decide di andare avanti così io chiedo solo che a rimetterci non siano gli italiani».
Le sanzioni «stanno mettendo in ginocchio i miliardari a Mosca o i pensionati a Roma? È nei fatti che più che punire Mosca puniscano Milano, Roma, Palermo. Allora io dico: andiamo avanti insieme, non voglio portare l'Italia sul cucuzzolo di una montagna, ma chiedo protezione per gli italiani, perché le bollette della luce e del gas sono un’emergenza nazionale per tutti».
Anche al meeting di Comunione e liberazione, durante il confronto fra i leader inclusa l’atlantista Giorgia Meloni, collega di coalizione, il problema era l’Unione europea: «Non vorrei che le sanzioni stiano alimentando la guerra. Spero che a Bruxelles stiano facendo una riflessione», concludeva.
Il 6 settembre: «L'idea sulla guerra quale sarebbe? Noi continuiamo con le sanzioni; tu ti arrendi, fermi i carri armati, ti ritiri e la smetti di rompere le scatole al mondo. I primi 6 mesi di sanzioni alla Russia hanno provocato questo effetto ? No». La richiesta resta sotto traccia: «Facciamo finta che non sia così? Andiamo avanti con le sanzioni? Andiamo avanti con le sanzioni. Mettiamo al tetto al vostro gas, e ve lo paghiamo quanto diciamo noi. Piccolissimo problema: quello là cosa può fare? Chiudere il rubinetto».
SALVINI AL GOVERNO
«Dal governo spero di potere presto raccogliere l’appello del presidente della Confindustria Russia: via queste assurde sanzioni», si leggeva sul Corriere della Sera quattro anni fa. Il piano per abbattere le sanzioni è stato quasi attuato. Dopo le elezioni del 2018 il contratto di governo tra Movimento e Lega recitava: «Si conferma l’appartenenza all’Alleanza atlantica, con gli Stati Uniti d’America quale alleato privilegiato, con una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico e commerciale potenzialmente sempre più rilevante. A tal proposito, è opportuno il ritiro delle sanzioni imposte alla Russia, da riabilitarsi come interlocutore strategico al fine della risoluzione delle crisi regionali (Siria, Libia, Yemen)».
Da lì la visita di stato di Vladimir Putin e del leader della Lega a Mosca. Mentre organizzava incontri con gli imprenditori di Confindustria Mosca si parlava addirittura di veto, l’ultima carta da usare nella partita con l'Ue, senza poter «escludere nulla». Il governo con il Movimento si è sciolto poche settimane dopo che si è scoperto che l’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, trattava un finanziamento con Mosca per il partito attraverso la compravendita di gasolio.
A febbraio 2020: «Continuo a pensare che la Russia debba essere un partner che non va lasciato nelle braccia della Cina: credo che la politica delle sanzioni sia demenziale. Lo dico da 4 anni e non ho cambiato idea».
Il 20 settembre del 2021 preconizzava: «Ci saranno tanti cambiamenti sulla politica estera penso che avere buoni rapporti con la Russia sia fondamentale, soprattutto dopo il problema in Afghanistan». Quindi «rinnovare a vita le sanzioni contro la Russia non è utile per nessuno», concludeva Salvini.
L’intenzione di togliere le sanzioni è rimasta fino all’inizio della invasione. La delusione per il fatto che la Lega al governo non ci sia riuscita è arrivata direttamente da Silvio Berlusconi, che nel 2019 se la prendeva con lui: «Salvini aveva promesso, una volta al governo, che avrebbe tolto le sanzioni: non l'ha fatto. Bisogna riportare la Russia in Occidente. Non possiamo girare la testa dall'altra parte», aveva sottolineato il leader di Forza Italia nel corso della kermesse #IdeeItalia organizzata dal partito a Milano.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
(ANSA il 18 ottobre 2022) - "I ministri russi hanno detto che siamo già in guerra con loro perché forniamo armi e finanziamenti all'Ucraina. Però sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato un po' i rapporti con il presidente Putin, un po' tanto, nel senso che per il mio compleanno mi ha mandato venti bottiglie di vodka e una lettera dolcissima.
Gli ho risposto con bottiglie di Lambrusco e una lettera altrettanto dolce. Sono stato dichiarato da lui il primo dei suoi cinque veri amici". Lo ha detto il leader di FI, Silvio BERLUSCONI, nell'incontro con i deputati azzurri, come si può ascoltare in un audio pubblicato sul sito di LaPresse.
(9Colonne il 18 ottobre 2022) - Il presidente di Forza Italia Silvio BERLUSCONI smentisce la notizia su una presunta ripresa dei rapporti con Vladimir Putin. Il presidente Berlusconi, spiega una nota, ha raccontato ai parlamentari una vecchia storia relativa a un episodio risalente a molti anni fa.
(LaPresse) - "Putin per il mio compleanno mi ha mandato 20 bottiglie di Vodka e una lettera dolcissima. Io gli ho risposto con bottiglie di Lambrusco e con una lettera altrettanto dolce. Io l'ho conosciuto come una persona di pace e sensata...". Così Silvio Berlusconi secondo quanto apprende LaPresse durante il suo intervento alla riunione dell'assemblea di Forza Italia alla Camera per l'elezione del capogruppo.
(LaPresse il 18 ottobre 2022) - "I ministri russi hanno già detto in diverse occasioni che siamo noi in guerra con loro, perché forniamo armi e finanziamenti all'Ucraina. Io non posso personalmente fornire il mio parere perché se viene raccontato alla stampa viene fuori un disastro, ma sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato i rapporti con il presidente Putin, un po' tanto". Così Silvio Berlusconi secondo quanto apprende LaPresse durante il suo intervento alla riunione dell'assemblea di Forza Italia alla Camera per l'elezione del capogruppo.
(ANSA il 19 ottobre 2022) - "In 28 anni di vita politica la scelta atlantica, l'europeismo, il riferimento costante all'Occidente come sistema di valori e di alleanze fra Paesi liberi e democratici sono stati alla base del mio impegno di leader politico e di uomo di governo. Come ho spiegato al Congresso degli Stati Uniti, l'amicizia e la gratitudine verso quel Paese fanno parte dei valori ai quali fin da ragazzo sono stato educato da mio padre. Nessuno, sottolineo nessuno, può permettersi di mettere in discussione questo". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi.
(ANSA il 19 ottobre 2022) - Per il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi la propria fedeltà ai valori europei e atlantisti non può essere messa in discussione e - chiarisce in una nota - "non può certamente permettersi di farlo la sinistra, che tante volte è stata dalla parte sbagliata della storia. Tantomeno la sinistra del Partito democratico, che anche alle ultime elezioni, meno di un mese fa, era alleata con i nemici della Nato e dell'Occidente".
(ANSA il 19 ottobre 2022) - "La mia posizione personale e quella di Forza Italia non si discostano da quella del governo italiano, dell'Unione europea, dell'Alleanza atlantica né sulla crisi ucraina, né sugli altri grandi temi della politica internazionale. Lo abbiamo dimostrato in decine di dichiarazioni ufficiali, di atti parlamentari, di voti alle Camere". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi in una nota in cui, aggiunge, ha dovuto "ribadire l'ovvio" dopo le dichiarazioni audio diffuse.
(ANSA il 19 ottobre 2022) - "La colpa non è degli organi di informazione, ovviamente costretti a diffondere queste notizie, è di chi usa questi metodi di dossieraggio indegni di un Paese civile". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi riferendosi alla diffusione delle sue dichiarazioni audio.
Berlusconi ha aggiunto: "Tutto questo però non esisterebbe, se non vi fosse in Italia la pessima abitudine di trasformare la discussione politica in pettegolezzo, utilizzando frasi rubate registrate di nascosto, e appunti fotografati con il teleobbiettivo, con un metodo non solo sleale ma intimidatorio. Un metodo soprattutto che porta a stravolgere e addirittura a rovesciare il mio pensiero, usando a piacimento brandelli di conversazioni, attribuendomi opinioni che stavo semplicemente riferendo, dando a frasi discorsive un significato del tutto diverso da quello reale"
(ANSA il 19 ottobre 2022) - "Interrogarsi sulle cause del comportamento russo, come stavo facendo, e auspicare una soluzione diplomatica il più rapida possibile, con l'intervento forte e congiunto degli Stati Uniti e della Repubblica cinese, non sono atti in contraddizione con la solidarietà occidentale e il sostegno al popolo ucraino. Del resto alla pace non si potrà giungere se i diritti dell'Ucraina non saranno adeguatamente tutelati". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, in una nota dopo le sue dichiarazioni audio sul conflitto in Ucraina.
Cav chiama Mentana, "parole su Ucraina frutto preoccupazione". (ANSA il 19 ottobre 2022) - "Era Silvio Berlusconi come avete intuito e ci pregava di riassumere quello che dirò, cercando di essere il più fedele possibile. Le parole registrate vanno inquadrate in un discorso più generale di cui si è preso solo questo aspetto, che era il racconto di una preoccupazione generale, sto citando Berlusconi, riguardo al clima che si è creato nel rapporto tra Russia, Europa ed Occidente, con il governo degli Stati Uniti che ha disatteso le premesse multilaterali date da Donald Trump e con una situazione che è diventata sempre meno favorevole, anche perché dopo 23 anni si è creata una situazione con un solo beneficiario, la Cina". Così il direttore Enrico Mentana, in diretta tv, sintetizza il contenuto di una telefonata appena ricevuta dal Presidente Berlusconi, pochi minuti dopo che lo stesso Tg aveva diffuso il suo secondo audio shock, stavolta contro il Presidente ucraino. "La preoccupazione generale di Berlusconi - prosegue Mentana - era che ci fosse la rottura tra Europa e Russia, che in qualche modo interrompeva una spirale già rallentata dopo gli accordi di Pratica di Mare, con il fatto che la Cina potesse approfittare di tutto questo. Questa è - conclude - la contestualizzazione dell'interessato e che era alla base delle sue parole". "Una posizione che - chiosa Mentana - è diversa da quella del governo italiano e dalla leader del futuro governo di centrodestra".
UCRAINA, BERLUSCONI: “ZELENSKY? NON DICO QUELLO CHE PENSO”. Da lapresse.it il 19 ottobre 2022.
Silvio Berlusconi parla a ruota libera della guerra ucraina durante il suo intervento alla riunione dell’assemblea di Forza Italia alla Camera, ripreso in un audio ottenuto in esclusiva da LaPresse.”Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Perché non c’è nessun modo possibile. Zelensky, secondo me… lasciamo perdere, non posso dirlo…”.
“Zelensky ha triplicato attacchi a repubbliche Donbass”. Questa la versione del leader di Forza Italia sullo scoppio della guerra in Ucraina: “Sapete com’è avvenuta la cosa della Russia? Anche su questo vi prego, però, il massimo riserbo. Promettete? (…) La cosa è andata così: nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, si firma un accordo tra l’Ucraina e le due neocostituite repubbliche del Donbass per un accordo di pace senza che nessuno attaccasse l’altro. L’Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere delle due repubbliche. Le due repubbliche subiscono vittime tra i militari che arrivano, mi si dice, a 5-6-7mila morti. Arriva Zelensky, triplica gli attacchi alle due repubbliche.
I morti diventano (…). Disperate, le due repubbliche (…) mandano una delegazione a Mosca (…) e finalmente riescono a parlare con Putin. Dicono: ‘Vladimir non sappiamo che fare, difendici tu’. Lui – aggiunge – è contrario a qualsiasi iniziativa, resiste, subisce una pressione forte da tutta la Russia.
E allora si decide a inventare una operazione speciale: le truppe dovevano entrare in Ucraina, in una settimana raggiungere Kiev, deporre il governo in carica, Zelensky eccetera, e mettere un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso, un’altra settimana per tornare indietro. È entrato in Ucraina e si è trovato di fronte a una situazione imprevista e imprevedibile di resistenza da parte degli ucraini, che hanno cominciato dal terzo giorno a ricevere soldi e armi dall’Occidente. E la guerra, invece di essere una operazione di due settimane, è diventata una guerra di duecento e rotti anni. Quindi, questa è la situazione della guerra in Ucraina”.
“Non ci sono più leader, né in Europa né negli Usa”
Berlusconi, inoltre, ha aggiunto: “Quello che è un altro rischio, un altro pericolo che tutti noi abbiamo: oggi, purtroppo, nel mondo occidentale, non ci sono leader, non ci sono in Europa e negli Stati Uniti d’America. Non vi dico le cose che so ma leader veri non ce ne sono. Posso farvi sorridere? L’unico vero leader sono io…”.
“Strage di soldati e cittadini, serve intervento forte”
“La guerra condotta in Ucraina è la strage dei soldati e dei cittadini ucraini. Se lui diceva ‘Non attacco più’, finiva tutto (…). Quindi se non c’è un intervento forte, questa guerra non finisce”.
Da lastampa.it il 19 ottobre 2022.
«Su una cosa sono stata, sono, e sarò sempre chiara. Intendo guidare un governo con una linea di politica estera chiara e inequivocabile». Così in una nota, Giorgia Meloni. Per la presidente di Fratelli d’Italia «l'Italia è a pieno titolo, e a testa alta, parte dell'Europa e dell'Alleanza atlantica. Chi non fosse d'accordo con questo caposaldo non potrà far parte del governo, a costo di non fare il governo».
Da open.online il 19 ottobre 2022.
«È una testa di cazzo, in un giorno ha rovinato tutto». «Un povero rimbambito». In questi due commenti attribuiti a dirigenti di Fratelli d’Italia e fedelissimi di Giorgia Meloni dal Fatto Quotidiano c’è tutto lo sconcerto interno al centrodestra per l’ennesimo show di Silvio Berlusconi.
E se la frase del Cavaliere su Andrea Giambruno (il compagno della premier in pectore) che lavora a Mediaset denota, secondo la maggioranza, «una concezione padronale della coalizione», Meloni è arrabbiatissima per il riferimento: «Cos’è, un ricatto? Pensa di minacciarci così? Andrea lavorava a Mediaset prima di conoscerci». Il primo modo per farla pagare al Cavaliere è lasciare Elisabetta Casellati fuori da via Arenula: al ministero della Giustizia andrà Carlo Nordio. Il secondo mette in gioco il ruolo di Antonio Tajani. Che vede in bilico sia il ruolo di vicepremier che la nomina alla Farnesina.
Il ruolo di Tajani
Il nuovo governo è ancora in bilico. Domani, giovedì 20 ottobre, il centrodestra unito è atteso al Quirinale per le consultazioni. L’incarico alla nuova premier potrebbe arrivare già il 21, mentre il week end successivo potrebbe essere dedicato a mettere a punto i dettagli prima del varo ufficiale dell’esecutivo. «L’Italia è e resterà nel solco dell’Unione europea e dell’alleanza atlantica. Berlusconi, come tutti, ha avuto rapporti con Putin per provare ad avvicinarlo alle democrazie liberali. Ma quella fase storica è finita quando Putin ha deciso di invadere l’Ucraina con i carri armati. Ora il solco è incolmabile», è la posizione di Fratelli d’Italia ribadita ieri da Fabio Rampelli.
Per questo La Stampa oggi racconta che adesso Tajani è di nuovo in bilico. «Berlusconi potrebbe averlo ammazzato», sussurrano dentro Fdi. Il ragionamento è semplice. Come può il numero due di Forza Italia essere il rappresentante dell’Italia all’estero quando il numero uno ha rapporti «riallacciati» con Putin? Per ora la linea di Meloni prevede il silenzio. Mentre qualcuno sussurra all’orecchio della presidente di Fdi di evitare una presentazione a tre al Quirinale. Perché l’imprevedibilità di Berlusconi potrebbe riservare altre brutte sorprese davanti alle telecamere.
Silvio, la rana e lo scorpione
Di più. Meloni evoca anche il fantasma di Gianfranco Fini: con l’ex leader di Alleanza Nazionale Giorgia aveva avuto contatti nei giorni precedenti. Ora, è il ragionamento, il trattamento che subì l’ex alleato potrebbe essere riservato anche a lei. Anche se per ora i giornali di destra sembrano piuttosto schierati contro il Cav. E quello di famiglia (“Il Giornale“) getta acqua sul fuoco con evidente imbarazzo.
Il retroscena del Corriere della Sera aggiunge che Meloni scherzando già nei giorni scorsi aveva detto che «Berlusconi è come lo scorpione con la rana: punge anche se sa che morirà anche lui, come lo scorpione è “fatto così”, è più forte di lui». Ma «quando ha parlato con me sembrava molto più ragionevole. Poi torna dai suoi fedelissimi ed ecco qui…». La favola sull’immutabilità degli istinti spinge la nuova premier a rimettere in gioco la lista dei ministri. Oltre a Tajani, che alla fine comunque dovrebbe farcela, è in bilico il ministero dello Sviluppo assegnato a Guido Crosetto. Così come la Salute, per la quale si cerca un tecnico.
Da iltempo.it il 18 ottobre 2022.
"Qui ci sono solo due possibilità - commenta il filosofo ed ex sindaco di Venezia ad affaritaliani.it - o Berlusconi vuole liquidare il governo Meloni ancora prima che nasca o si tratta di problemi senili di chi non riesce a controllare le proprie dichiarazioni". Su Ronzulli capogruppo di Forza Italia al Senato, Cacciari aggiunge che "quelli sono cavoli di un partito.
Però se il leader di una forza politica che fa parte di una coalizione che si appresta a far nascere un esecutivo fa questo tipo di dichiarazioni o è in una situazione precaria di equilibrio psicologico o ha come obiettivo quello di far saltare il governo e Meloni".
Qualora saltasse clamorosamente tutto, secondo il filosofo "verrebbe meno la sceneggiata, come era probabile fin da prima delle elezioni, di un governo di Centrodestra. Attraverso vari passaggi si tornerebbe a Mattarella che darebbe vita a un altro esecutivo di unità nazionale con chi ci sta".
Infine una battuta sull'eventualità di un ritorno di Mario Draghi a Palazzo Chigi. "No, è impossibile - chiude Cacciari - non accetterebbe mai. Avremmo un avatar di Draghi come presidente del Consiglio".
Dagonews il 19 ottobre 2022.
Chi ha passato a LaPresse, l’agenzia di Marco Durante, l’audio in cui Berlusconi sproloquia della "corrispondenza di amorosi sensi" con Putin? E’ stato un deputato di Forza Italia, di tendenza Tajani.
La registrazione nascosta, effettuata nel chiuso dell'assemblea con i deputati forzisti, è stata una ritorsione per l’atto di forza del Cav che, presentandosi a Montecitorio, ha di fatto obbligato i suoi onorevoli a eleggere come capogruppo il ronzulliano Alessandro Cattaneo (con conseguente furia del tajaneo Paolo Barelli).
Prima di uscire dalla Camera dei deputati, Berlusconi si è ritrovato circondato dal solito drappello di adoranti subalterni tra cui c’era anche il deputato "infedele" che ha registrato il vaniloquio del fu Sire di Arcore girandolo subito dopo alla direttrice dell’agenzia LaPresse, Alessia Lautone.
L'azione da guastatore del parlamentare infingardo si è interrotta poco prima di registrare la spacconata più grossa rifilata da Berlusconi: “Tra i primi cinque amici di Putin, io sono il primo”. Una pralina di follia somministrata in piena guerra tra Ucraina e Russia, proprio mentre tutto l’Occidente guarda al futuro governo italiano con apprensione per eventuali sbandante filo-Cremlino.
Alla diffusione dell’audio, Giorgia Meloni s’è infuriata come neanche le Erinni, ha telefonato a Tajani e con quel misto Oxford-Garbatella gli ha urlato: “Col cazzo che vai alla Farnesina!”. D’altronde piazzare il ciambellano del Cav putinizzato al ministero degli Esteri sarebbe vissuto sia Washington che a Bruxelles come un cazzotto nello stomaco.
Se abbiamo fatto uscire tutti gli audio su Berlusconi? “Ci sarà qualcosa più tardi. Di cosa si parla? Vedremo più tardi, posso solo dire che non si parla di donne, non ci sono donne”. A parlare, a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è Alessia Lautone, direttrice dell'agenzia La Presse, che ieri ha diffuso gli audio del leader di Forza Italia che hanno provocato un terremoto nel c.destra.
Ronzulli: criminale fare uscire audio Berlusconi. Da repubblica.it il 19 ottobre 2022.
"Trovo vergognoso che all'interno di 45 persone ci sia qualcuno che abbia sfregiato il presidente Berlusconi divulgando l'audio alla stampa. Non si sa in cambio di cosa...". Lo ha detto la capogruppo al Senato di FI, Licia Ronzulli. Secondo Ronzulli far uscire l'audio sarebbe "criminale".
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 19 ottobre 2022.
Ma Berlusconi è diventato matto? Nel tempo delle semplificazioni la circostanza che ieri si sia prodotto in una serie di esternazioni a capocchia non sembra sufficiente a declinare la giornata politica sotto il segno della psichiatria o, come frequentemente si sente mormorare nel Palazzo, della demenza senile. […]
Ma il caso di Berlusconi è troppo particolare, e non solo perché con il tema della pazzia ha giocato fin dagli esordi in politica. Basti pensare al suo primissimo discorso, alla Fiera di Roma, 6 febbraio 1994. A quei tempi non aveva in volto il sorriso-rictus del joker, ma cominciò con le seguenti parole: "Mentre venivo qui, pensavo, lo penso ancora, che c'era un matto che stava andando a incontrarsi con altrettanti matti!". Applausi.
Camminava su e giù per il palco, il microfono nella mano destra: "Ebbene, pensando a questa follia che sembra aver contagiato tutti noi e tanti altri dietro a noi, io pensavo che si era verificata ancora una volta quell'affermazione che è contenuta in un bellissimo libro, l'abbiamo editato ancora da poco, l'Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam, dove io in una prefazione dicevo: è vera la tesi che viene fuori da queste pagine. Le decisioni più importanti, le decisioni più giuste, la vera saggezza - e qui nuoveva l'altra mano per rafforzare il discorso - non è quella che scaturisce dal ragionamento, dal cervello, ma quella che scaturisce da una lungimirante visionaria follia!".
Hai capito che paravento? Vaglielo a spiegare adesso a Meloni, Salvini, Giorgetti e Lollobrigida quante volte il Cavaliere ha dispensato alle folle e nei momenti più difficili questa storia della visionaria follia, che in lui soltanto è destinata a convertirsi in lungimiranza.
Ecco dunque che, poche ore dopo aver fatto il bravo, ti fa acclamare Ronzulli presidente dei senatori, annuncia la lista dei "suoi" ministri in barba al Capo dello Stato e alla premier in pectore, di nuovo insiste con le sue preoccupazioni per la guerra, racconta di aver fatto pace con Putin rivelando uno scambio di doni alcolici e alla fine, previa mezza smentita del tutto implausibile, come estremo dono di sé invoca "Silenzio!" e dopo nemmeno un mese ripropina la solitissima barzelletta sui potenti nell'aereo in panne.
Domanda: ma non è il Berlusconi di sempre? Quindi l'uomo che ha fatto di sé un personaggio, un po' a somiglianza propria, un altro po' sforzandosi di assomigliare a ciò che gli italiani vogliono che egli sia: l'attore, appunto, del suo personaggio. Forse voleva pareggiare il conto mediatico della Canossa a via della Scrofa, forse adesso prova a tenere la piccoletta sulla graticola, forse intende farle intorno terra bruciata.
Beato chi è convinto che ieri abbia dato i numeri. E se invece, come mille altre volte accaduto per mezzo di gaffe, numeracci clowneschi, fissazioni dissennate e frequentazioni pericolose avesse messo in scena il consueto e lucido azzardo replicando quel suo potere ipnotico, furbastro, piratesco, eppure a suo modo glorioso?
E certo che c'è di mezzo la realtà. Eppure sono ormai trent'anni che Silvione - in questo interprete sublime e assoluto del carattere nazionale - viene a patti con essa, quindi ora l'aggiusta, ora l'abbellisce, ora l'ignora, ora la distorce, ora l'addomestica, ora la nega; e lo fa con tale maestria e selvaggia naturalezza che a volte sembra matto anche solo nel credere che gli si possa credere; ma nel frattempo questa benedetta realtà finisce per confondersi con la sua rappresentazione. Così nessuno è mai in grado di capire "come andrà a finire", eterno e vano interrogativo dell'epoca berlusconiana, col risultato di restare l'imprevedibile Signore della Meraviglia. […]
E se siamo fuoriusciti dalla logica, beh, è pur vero che la politica non è fatta solo di razionalità, ma anche di sogni, simboli, inconscio, suggestioni, effervescenze, allucinazioni, paranoia, nichilismi. La "parte maledetta" è sempre lì, sul bordo, e spesso proprio chi riesce a farsela tornare utile purtroppo vince e rivince, fino a quando qualcuno o qualcuna, col permesso di Erasmo, non gli toglie il fiato e allora addio, addio.
“Colpevoli trovati, ecco chi sono”. Chi ha tradito Berlusconi, arrivano i nomi. Carlantonio Solimene su Il Tempo il 20 ottobre 2022
No, il peggio non era alle spalle. Chi pensava che il pirotecnico martedì romano di Silvio Berlusconi avesse costituito il momento più difficile del centrodestra in questo faticoso avvicinamento alle consultazioni, non aveva fatto i conti col nuovo audio diffuso ieri da LaPresse, se possibile ancora più deflagrante di quelli del giorno prima. La scena è sempre la stessa, il colloquio coi deputati azzurri in occasione dell'elezione del capogruppo. E medesimo è pure l'argomento, la politica estera. Ma se martedì ci si era limitati solo al presunto riavvicinamento personale a Putin - forse più millantato che reale - ieri Berlusconi ha fatto un passo ulteriore: ha esposto la sua idea sull'origine del conflitto ucraino. Una tesi, la sua, del tutto opposta non solo a quella dell'attuale governo. Ma anche a quella della premier in pectore Giorgia Meloni. Questa la trascrizione delle frasi del Cav, partite, ironia della sorte, con la richiesta di «massimo riserbo» puntualmente disattesa: «La cosa è andata così: nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, si firma un accordo tra l'Ucraina e le due neocostituite repubbliche del Donbass per un accordo di pace senza che nessuno attaccasse l'altro. L'Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere delle due repubbliche. Le due repubbliche subiscono vittime tra i militari che arrivano, misi dice, a 5-6-7mila morti. Arriva Zelensky, triplica gli attacchi alle due repubbliche».
E ancora: «Disperate, le due repubbliche (...) riescono a parlare con Putin. Dicono: "Vladimir non sappiamo che fare, difendici tu". Lui è contrario a qualsiasi iniziativa, resiste, subisce una pressione forte da tutta la Russia. E allora si decide a inventare una operazione speciale: le truppe dovevano entrare in Ucraina, in una settimana raggiungere Kiev, deporre il governo incarica, Zelensky eccetera, e mettere un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso, un'altra settimana per tornare indietro. È entrato in Ucraina e si è trovato di fronte a una situazione imprevista e imprevedibile di resistenza da parte degli ucraini, che hanno cominciato dal terzo giorno a ricevere soldi e armi dall'Occidente. E la guerra, invece di essere una operazione di due settimane, è diventata una guerra di duecento e rotti anni. Quindi, questa è la situazione della guerra in Ucraina». Poi, come se non bastasse, il giudizio tranchant sui partner «atlantici»: «Oggi, purtroppo, nel mondo occidentale, non ci sono leader, non ci sono in Europa e negli Stati Uniti d'America». Infine, un «non mi fate dire quello che penso di Zelensky» accolto, peraltro, da un fragoroso applauso dai deputati azzurri.
La situazione deflagra a livello internazionale. In Russia le dichiarazioni del Cav vengono rilanciate con toni trionfalistici. A Strasburgo i Socialisti attaccano il Ppe. E se i vertici Popolari si trincerano dietro un no comment, il deputato polacco Halicka chiede a Berlusconi di «rimandare la vodka a Putin che è un criminale di guerra e non un amico». In Italia, invece, nel mirino finisce Antonio Tajani. Da Conte a Letta fino a Calenda, tutta l'opposizione chiede che la Farnesina non sia affidata a un uomo di un partito «ambiguo». A poco servono le retromarce forziste. Berlusconi telefona a Mentana in diretta tv per chiedere che le sue dichiarazioni siano «contestualizzate», e in serata pubblica una lunga nota per denunciare l'utilizzo di «frasi rubate» e di un «dossieraggio intimidatorio» che ha «capovolto il suo reale pensiero». Mentre Licia Ronzulli apre il fronte interno al partito: «È spregiudicato, per non dire criminale, che qualcuno tra i 45 eletti alla Camera riferisca parole del presidente, che andavano contestualizzate». Ma che i gruppi siano spaccati è evidente. Al «falco» Giorgio Mulè, eletto vicepresidente della Camera con 217 voti, e a Maurizio Gasparri, scelto al Senato con 90, mancano almeno una ventina di preferenze dal centrodestra. E c'è chi giura che i franchi tiratori vadano cercati proprio trai forzisti. Magari tra quelli vicini a Tajani e Barelli, marginalizzati negli incarichi di partito. Una situazione balcanizzata, sulla quale a gettare ulteriore benzina, in serata, arriverà la durissima nota di Giorgia Meloni.
Audio di Silvio Berlusconi, individuati i responsabili. Forza Italia: “Ecco i colpevoli”. Il Tempo il 19 ottobre 2022
Dopo la diffusione del primo audio di Silvio Berlusconi e le sue parole su Vladimir Putin è subito partita dentro a Forza Italia la caccia ai responsabili che hanno fornito la registrazione a Lapresse. Ieri è stato pubblicato un altro spezzone riguardante i rapporti con Giorgia Meloni, mentre in giornata sono giunte le dichiarazioni sulla guerra tra Russia e Ucraina e su Volodymyr Zelensky, parole che hanno costretto la stessa premier in pectore a fare una precisazione sull’indirizzo di politica estera del nuovo governo.
Ma intanto dentro il partito azzurro sono stati individuati i nomi di coloro che hanno passato il file ai giornalisti. Fonti di Forza Italia all’agenzia Nova fanno sapere che “gli audio sono stati registrati da due parlamentari non ricandidati alle elezioni dello scorso 25 settembre. Il tutto sarebbe stato registrato durante l’assemblea dei deputati e - aggiunge la comunicazione arrivata dai fedelissimi di Berlusconi - ci sarebbe un terzo spezzone ancora non uscito, sempre riguardante l’Ucraina. Il tutto sarebbe stato fatto per ripicca, con Berlusconi furibondo, che sta pure valutando un intervento televisivo a Porta a Porta”.
Ugo Magri per “la Stampa” il 19 ottobre 2022.
L'ultima tecnica del Cavaliere consiste nel farsi credere un po' scordarello e giustificare così certe enormità che gli scappano dalla bocca. Per esempio: non ci sarebbe niente di vero nel racconto ai suoi deputati e senatori circa lo scambio di doni con Vladimir Putin («Per il compleanno mi ha regalato 20 bottiglie di vodka e una lettera dolcissima»).
Altrettanto falso che Silvio abbia ricambiato il pensiero con del lambrusco e un bigliettino mieloso. Lo scambio di alcolici effettivamente ci fu, certo, però risale al 2008: altri tempi altre bevute. Fonti di Arcore lo declassano a un vuoto di memoria che può capitare ai giovani, figurarsi ai nonni come lui.
Quanto ai contatti con Putin («abbiamo riallacciato i rapporti, anche un po' tanto») pure quelle pare sia tutta farina del sacco berlusconiano. Una sparata tanto per sbalordire l'audience, per catturare un po' d'attenzione. A giudicare dal clamore, il Cav c'è riuscito alla grande, sebbene allo staff non risulti alcun filo diretto, nessun contatto recente col Cremlino, al massimo di rimbalzo; comunque nulla di cui le potenze occidentali si debbano preoccupare specie ora che la destra ha sbancato il governo e Forza Italia rivendica la sua quota di bottino.
Viene fatto notare: Berlusconi non comanda dentro il partito, che è ridotto a un Circo Barnum; figurarsi se può imporre una svolta filo-Putin a Giorgia Meloni, leader volitiva dalla quale viene trattato a pesci in faccia. Nemmeno un fedelissimo come Antonio Tajani lo seguirebbe per quella strada, a Mosca lo sanno.
Come sanno che nei passaggi chiave dell'ultimo quarto di secolo l'uomo s' è sempre schierato con gli Usa. Quando lo Zio Sam ha reclamato prove di fedeltà, ha risposto «signorsì»: sull'Afghanistan, sull'Iraq, perfino sulla Libia tradendo il colonnello Gheddafi. Lo Zar non farebbe eccezione.
Però Putin gli manca. Gli manca eccome. In molti si sono meravigliati del legame tra due personaggi talmente agli antipodi, chiedendosi come possa essere sbocciato del tenero tra un tycoon della Brianza e un gelido agente del Kgb. La risposta è racchiusa nella domanda. Silvio rimase affascinato da certi tratti straordinari, da caratteristiche non banali di Vlad tra le quali, insieme all'intelligenza, spiccava la crudeltà.
Mitico il racconto che fece, davanti a testimoni, di una battuta di caccia in cui Putin gli mise in mano un fucile («Non sapevo nemmeno come tenerlo, me la facevo sotto») e lo portò nel bosco, loro due da soli. Quando passò un cervo, Vladimir «fece pumm e lo ammazzò al primo colpo; poi a balzi corse dall'animale morente, con un coltello gli strappò il cuore e me lo diede perché lo portassi a cucinare; io, senza farmi vedere, lo buttai in un cespuglio».
Però poi gli regalò una carabina di precisione Beretta; e per compiacerlo Berlusconi fece l'inqualificabile gesto del mitra a una giornalista russa che, in conferenza stampa, aveva osato chiedere a Putin se stesse per divorziare (giustamente preoccupata la cronista scoppiò in lacrime). Il business, certo, anche quello. Nei loro incontri si scambiavano dossier su energia, petrolio, automotive, progetti aerospaziali. Fiumi di gas e di miliardi. Gli Stati Uniti a lungo hanno sospettato che ben altro si nascondesse dietro quegli affari.
Ma chi ha conoscenza dei fatti li giudica più fumo che arrosto, fantasticherie con poca sostanza (si pensi al gasdotto South Stream mai realizzato); il Cav portò a casa poco al confronto di altri nostri premier che alla Russia, zitti zitti, hanno spalancato vere autostrade. Non è mai stato nei soldi il segreto del loro feeling.
Sta semmai nella sensazione, per Berlusconi impagabile, di avere trovato in Vladimir un partner, un socio, un complice con cui architettare piani grandiosi, mirabolanti, inconcepibili per le menti normali. Nelle interminabili giornate trascorse insieme a Soci sul Mar Nero, o sulle rive del lago Valdai, oppure in Sardegna a Villa La Certosa, qualche volta con figli e consorti, più spesso e volentieri senza, il Cavaliere si sentiva nell'ombelico del mondo. Per questo adesso soffre che l'amico non gli risponda al telefono, trascuri i suoi consigli, faccia a meno di lui proprio mentre vuole conquistare il pianeta. In attesa di una chiamata lo giustifica e gli copre le spalle, come ai vecchi tempi.
Ilario Lombardo per “La Stampa”’ il 19 ottobre 2022.
Tutto è saltato in aria di nuovo, tutto potrebbe tornare in gioco, nomi, ministeri, quote tra partiti. Lo si intuisce dallo sguardo di Antonio Tajani, mentre attraversa lento e preoccupato il Transatlantico semideserto. Il coordinatore di Forza Italia sa che ora, dopo le parole di Silvio Berlusconi, gli audio rubati e le dichiarazioni in chiaro dell'ex premier, c'è in ballo anche il suo di destino. Da ministro degli Esteri e da vicepremier.
«Io sono un chierichetto, so che se uno entra papa, poi esce cardinale». Prova a scherzarci su, Tajani, sui due ruoli di vertice che sembrano a un passo, ma che potrebbero evaporare se le ferite tra Berlusconi e Giorgia Meloni dovessero incancrenirsi di nuovo. Ci scherza su, consapevole però che la cosa è serissima. Se c'è un equilibrio che non va toccato, è quello atlantico. Se c'è un argomento tabù, è la Russia.
È Vladimir Putin, i suoi legami italiani, le simpatie reciproche che fanno inorridire i partner occidentali. Le bottiglie di Vodka rivendicate con orgoglio da Berlusconi non sono un semplice aneddoto godurioso, ma un brindisi che può affogare in culla il governo Meloni.
E infatti. Puntuale arrivano prima lo sgomento, poi la rabbia della premier in pectore. «Berlusconi potrebbe aver ammazzato Tajani», dicono gli uomini della leader di Fratelli d'Italia. La tesi è: come può il numero due del padre-padrone di FI vestire i panni del ministro degli Esteri, o, se dovessero cambiare i piani, di ministro della Difesa, dopo che il suo capo ha rivelato gli amabili contatti riallacciati con Putin, un paria per America, Regno Unito ed Europa, che tale resterà almeno finché non ritirerà le truppe dall'Ucraina?
La linea di Meloni, consegnata in una riunione ristretta, è di non replicare. Silenzio assoluto, evitare di dare altre sponde alle intemperanze di Berlusconi. Il problema però resta. Il leader azzurro è uno dei tre soci della maggioranza e la futura presidente del Consiglio dovrà portarlo con sé alle consultazioni al Colle assieme a Matteo Salvini, per dare l'idea di una compattezza della coalizione che si sta sgretolando. Per questo, qualcuno dei dirigenti avrebbe suggerito a Meloni di valutare l'ipotesi di andare divisi al Quirinale. Sostenendo che l'imprevedibilità di Berlusconi potrebbe riservare altre brutte sorprese davanti alle telecamere.
Meloni non vorrebbe, ma è furiosa. Anche per quel riferimento dell'ex premier al compagno, Andrea Giambruno, padre di sua figlia, dipendente Mediaset, azienda che fa capo al figlio di Berlusconi, Pier Silvio. Meloni ritiene tutto questo molto volgare. Non vuole credere a un ricatto implicito, ma più di uno dentro FdI ha già evocato il trattamento che subì l'ex alleato di An Gianfranco Fini sulla casa di Montecarlo, attraverso le testate giornalistiche della family di Arcore.
La convivenza di Berlusconi si sta rivelando un incubo, su più fronti. I conflitti di interessi, sulla giustizia - visti i processi a suo carico - e sulle tv di famiglia, sono già una scocciatura non da poco. Ma il tema dei rapporti con Mosca è pura dinamite, tanto più che l'altro partner di governo è Salvini, il leader a cui si deve la scelta di nominare presidente della Camera Lorenzo Fontana, che alla prima intervista ha messo in dubbio le sanzioni contro Putin.
Chi le ha parlato la descrive pronta a tutto. Persino a minacciare di tornare al voto, sicuramente pronta a rimescolare la cabala dei ministeri. C'è chi suggerisce di sostituire Tajani agli Esteri con Guido Crosetto, per rassicurare gli alleati americani. Ma è una reazione a caldo, frutto dell'indignazione collettiva verso Berlusconi.
È probabile, invece, che in squadra entrerà Luca Ciriani, capogruppo in Senato di FdI, mentre sulla Giustizia Meloni è decisa a difendere la scelta dell'ex magistrato Carlo Nordio. La smentita, fatta filtrare dal partito, di aver siglato un accordo con Berlusconi per cedere il dicastero di Via Arenula alla ex presidente del Senato Elisabetta Casellati, potrebbe non bastare. Il presidente azzurro lo ha ribadito ieri ai suoi parlamentari: «La Giustizia tocca a noi».
Una pretesa che nelle prossime ore potrebbe fare da inciampo alla voglia di Meloni di chiudere il più in fretta possibile le trattative e giurare davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella già questo week-end. Ma serve almeno una giornata senza scossoni, però. Bisogna placare Berlusconi, evitare che i suoi show compromettano la nascita dell'esecutivo di destra.
Berlusconi senza freni cerca il palcoscenico. Meloni furiosa sospende le trattative ed anche la nomina Tajani torna in discussione. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Ottobre 2022.
La presenza di Berlusconi nell'alleanza di centrodestra si sta rivelando un incubo, su più fronti. I conflitti di interessi, sulla giustizia (visti i processi in cui il Cavaliere è imputato) e sulle tv di famiglia, costituiscono già una mina vagante pronta ad esplodere.
Tutto è di nuovo in discussione e potrebbe tornare in gioco, nomine, ministeri, quote tra partiti dopo le esternazioni da “prima donna” mancata (o stagionata) di Silvio Berlusconi. Lo si intuisce dalla faccia di Antonio Tajani, intercettato mentre attraversa lento e preoccupato il Transatlantico della Camera dei Deputati semideserto. Il coordinatore di Forza Italia intuisce che adesso, dopo le esternazioni irresponsabili di Berlusconi, gli audio rubati e le dichiarazioni pubbliche dell’ex premier, adesso anche il suo destino politico è in ballo.
Da quasi certo ministro degli Esteri e vicepremier, adesso di certo non c’è più nulla.”Io sono un chierichetto, so che se uno entra papa, poi esce cardinale”. dice Tajani provando a scherzarci su, riferendosi ai due ruoli di vertice che sembravano conquistati, ma che adesso potrebbero svanire se i veleni di Berlusconi con Giorgia Meloni dovessero continuare di nuovo. Antonio Tajani ci scherza su, ma è ben consapevole che a questo punto la vicenda si fa serissima.
Se c’è un punto che non va toccato, è quello dell’alleanza atlantica. E se c’è un argomento da non sfiorare minimamente, è la Russia, Vladimir Putin, i suoi legami italiani, le simpatie reciproche che fanno inorridire i partner occidentali. Le bottiglie di Vodka rivendicate con orgoglio da Berlusconi non sono un semplice aneddoto goliardico, ma un brindisi che può affogare le aspettative dei forzisti.
“Il ministero della Giustizia alla ex presidente del Senato Elisabetta Casellati. L’accordo è stato trovato assolutamente”. Silvio Berlusconi, lasciando la Camera, si è espresso così ‘assegnando’ senza alcun titolo ed accordo la poltrona di ministro della Giustizia all’ex presidente del Senato. Giorgia Meloni ha dunque detto sì sul nome di Casellati ? “Sì, sì”, ha replicato sicuro il Cavaliere aggiungendo: “Nordio lo incontro per conoscerlo e vedere qual è l’apporto che può dare alla riforma della giustizia“. Solo che la Meloni non ha mai detto di si sulla Casellati alla Giustizia, e Nordio non ha mai nè incontrato, nè ricevuto alcuna indicazione o invito ad incontrare Berlusconi.
Puntualmente emergono prima lo sgomento, quindi la rabbia della premier in pectore vincitrice indiscussa delle elezioni politiche. “Berlusconi potrebbe aver ammazzato Tajani”, dicono gli uomini più vicini alla leader di Fratelli d’Italia. Il punto è questo: come può il numero due del padre-padrone di Forza Italia assumere il ruolo di ministro degli Esteri, o, se dovessero cambiare i piani, di ministro della Difesa, dopo che il suo leader ha rivelato gli amabili contatti riallacciati con Putin, il nemico numero uno per America, Regno Unito ed Europa, e che tale resterà sino a quando non ritirerà le truppe dall’Ucraina?
L’indicazione di Giorgia Meloni affidata ai suoi in una riunione ristretta, è quella di non replicare. Silenzio assoluto, evitare di dare altre sponde alle intemperanze di Berlusconi. Ma il problema resta ed è pesante. Il leader azzurro è uno dei tre soci della maggioranza e la futura presidente del Consiglio dovrà portarlo con sé alle consultazioni al Colle assieme a Matteo Salvini, per dare un’immagine di una compattezza della coalizione che in realtà si sta sgretolando per le gelosie di Berlusconi con la Lega e l’invidia con Fratelli d’ Italia. Per questo motivo qualcuno dei dirigenti avrebbe suggerito alla Meloni di valutare l’ipotesi di salire divisi al Quirinale, preoccupati che l’imprevedibilità ormai ingestibile di Berlusconi, a cui inizia a mancare saggezza ed equilibrio politico, davanti alle telecamere potrebbe riservare altre brutte sorprese.
Giorgia Meloni non vorrebbe salire al Colle divisa dagli alleati, ma in realtà è giustamente furiosa. Anche per quel riferimento dell’ex premier al compagno, Andrea Giambruno, padre di sua figlia, “dipendente Mediaset”, azienda che fa capo alla famiglia Berlusconi. La Meloni ritiene tutto questo molto volgare. E secondo noi e non solo, ha più che ragione. Non vuole credere a un ricatto sotterraneo, ma più di uno dentro FdI ha già ricordato il trattamento che l’ex alleato di An Gianfranco Fini subì sulla casa di Montecarlo, attraverso le testate giornalistiche della famiglia di Arcore, ed i Servizi utilizzati a proprio uso e consumo.
Silvio Berlusconi all’uscita del Tribunale di Bari dove è imputato
La presenza di Berlusconi nell’alleanza di centrodestra si sta rivelando un incubo, su più fronti. I conflitti di interessi, sulla giustizia (visti i processi in cui il Cavaliere è imputato) e sulle tv di famiglia, costituiscono già una mina vagante pronta ad esplodere. La questione dei suoi rapporti con Mosca è puro “tritolo”, tanto più che l’altro partner di governo è Matteo Salvini, il leader a cui si deve la scelta di nominare presidente della Camera Lorenzo Fontana, che alla prima intervista ha messo in dubbio le sanzioni contro Putin .
Chi ha parlato in privato con la Meloni la descrive pronta a tutto. Persino a minacciare di tornare al voto, sicuramente pronta a rimescolare la lista dei ministeri. C’è chi suggerisce di sostituire Tajani agli Esteri con Guido Crosetto, per rassicurare l’ alleanza atlantica. Ma è una reazione a caldo, frutto dell’indignazione generale verso Berlusconi. È probabile che in squadra entrerà Luca Ciriani, capogruppo in Senato di FdI, mentre sulla Giustizia Meloni è decisa e rigida a difendere la scelta dell’ex magistrato Carlo Nordio.
La smentita circolata ufficiosamente di aver siglato un accordo con Berlusconi per cedere il dicastero di Via Arenula alla ex presidente del Senato Elisabetta Casellati, potrebbe non bastare. Il presidente azzurro lo ha ribadito ieri ai suoi parlamentari: “La Giustizia tocca a noi”. E non si discute.
La pretesa di Berlusconi data in pasto ai cronisti, come accordo raggiunto con la Meloni (contrariamente al vero) che nelle prossime ore potrebbe fare da ostacolo alla voglia di Meloni di chiudere il più in fretta possibile le trattative e giurare davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella già durante questo week-end. Serve però almeno una giornata di chiarezza, senza scossoni. Bisogna frenare le esternazioni di Berlusconi, evitare che i suoi show da avanspettacolo, compromettano ancora una volta la nascita dell’esecutivo di destra.
Redazione CdG 1947
I problemi a livello internazionale dai nuovi audio «pro Putin» di Berlusconi. Luciano Tirinnanzi il 19 Ottobre 2022 su Panorama.
Sono stati diffusi nuovi stralci dei discorsi del leader di Forza Italia in cui di fatto si schiera accanto a Putin e contro Zelensky. E scoppiano le polemiche in Italia ed all'estero. Meloni: «O un governo pro Nato o niente governo». Berlusconi in serata: «Io atlantista».
Saranno pure opinioni personali estorte da un incontro riservatissimo. Ma le frasi pronunciate da Silvio Berlusconi – che vengono fatte uscire a singhiozzo in queste ore convulse dall’Agenzia Lapresse – creeranno inevitabilmente un incidente politico nazionale ed internazionale, giusto a poche ore dall’incarico che il presidente della Repubblica dovrebbe conferire a Giorgia Meloni per la formazione di un governo di centrodestra. Anche perché gli audio di quei commenti sono arrivati alla stampa grazie a un parlamentare luciferino, che - vuoi per ragioni personali o perché è in realtà un guastatore doppiogiochista – ha prima registrato e poi girato quel nastro scottante alla stampa, dove il leader di Forza Italia discetta di politica estera e offre la sua visione agli accoliti forzisti, tendendo a giustificare Vladimir Putin praticamente in ogni passaggio della storia recente e attaccando il presidente ucraino («Zelensky? Lasciamo perdere...» seguito dagli applausi e dalle risatine dei presenti)
Il punto più scivoloso, su cui si crogiolano i cronisti politici, attiene all’infelice commento relativo al fatto che l’Ucraina abbia «buttato al diavolo» il trattato di Minsk per porre fine alla guerra nell’Ucraina orientale, e che un anno dopo abbia cominciato «ad attaccare le frontiere delle due repubbliche del Donbass», triplicando le operazioni belliche. Come se non bastasse, Berlusconi rincara la dose, affibbiando al presidente russo addirittura un apostolato salvifico: «Vladimir non sappiamo che fare, difendici tu» avrebbero pigolato i presidenti delle Repubbliche del Donbass di fronte al titolare del Cremlino, secondo Berlusconi. Al che, Putin avrebbe risposto a quell’appello accorato, e si sarebbe deciso a «inventare l’operazione speciale», che poi altro non è se non l’invasione dell’Ucraina. Ecco perché, secondo il capo forzista, Putin in fondo «è una persona per bene», com’ebbe a dire già qualche tempo fa davanti a un compunto Bruno Vespa nel salotto di Porta a Porta. Mentre sul leader ucraino l’opinione di Berlusconi non è delle migliori: «Zelensky secondo me... lasciamo perdere, non posso dirlo...». Almeno su un fatto, però, l’ex premier ha completamente ragione: «Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Perché non c'è nessun modo possibile». Ora, di là dalla disamina geopolitica, dalle strumentalizzazioni e dalle facili ironie sul senatore Berlusconi, il fatto che il fondatore del centrodestra assuma una posizione non in sintonia (per usare un eufemismo) con quella che sappiamo essere quella ufficiale – in ordine: di Washington, dell’Unione Europea, del Partito Popolare Europeo, della presidenza della Repubblica, del governo italiano, del partito di maggioranza Fratelli d’Italia, eccetera – è piuttosto grave, soprattutto per le conseguenze internazionali. Giorgia Meloni si sente giustamente sotto ricatto e per questo ha diramato una nota in cui lascia spazio zero ai dubbi, arrivando persino a ipotizzare di far saltare tutto: «"Su una cosa sono stata, sono, e sarò sempre chiara. Intendo guidare un governo con una linea di politica estera chiara e inequivocabile. L'Italia è a pieno titolo, e a testa alta, parte dell'Europa e dell'Alleanza atlantica. Chi non fosse d'accordo con questo caposaldo non potrà far parte del governo, a costo di non fare il governo". L'Italia con noi al governo non sarà mai l'anello debole dell'occidente, la nazione inaffidabile tanto cara a molti nostri detrattori. Rilancerà la sua credibilità e difenderà così i suoi interessi. Su questo chiederò chiarezza a tutti i ministri di un eventuale governo. La prima regola di un governo politico che ha un forte mandato dagli italiani è rispettare il programma che i cittadini hanno votato». Insomma, tutto rimesso in gioco per la terza volta in tre giorni, anche se la sensazione è che alla fine l'accordo si farà, non fosse altro per mancanza di alternative. Dunque, non saranno certo le parole di Berlusconi a minare la nascita del governo o ad allontanare Roma dalla fedeltà all’Alleanza Atlantica e dal sostegno all’Ucraina. Semmai saranno i singoli parlamentari un minuto dopo che il governo sarà nato a dar vita a quelle bagarre, ribaltoni, fughe verso i gruppi misti, che hanno caratterizzato da sempre la vita parlamentare in quel di Montecitorio (e c’è, da giurarci, ancor prima accadeva a Palazzo Carignano a Torino e a Palazzo Vecchio a Firenze). In tutto questo, immediate, sono arrivate sull'Italia le reazioni estere, poco piacevoli. Non è un caso che domani Antonio Tajani (che forse si sta giocando quella che sembrava una certa nomina al Ministero degli Esteri e non a caso con un tweet si è subito schierato a fianco di Zelensky) andrà a Bruxelles per spiegare ai colleghi del Partito Popolare Europeo che la posizione anche di Forza Italia è filo-atlantista e pro Ucraina, come dimostrato dai voti di Forza Italia a fianco e sempre favorevoli alle decisioni del Governo di Mario Draghi. Diversi paesi e cancellerie comunque hanno già colto la palla al balzo per gettare scredito e dubbi sul Governo Meloni, non ancora nato. Difficoltà internazionali e difficoltà interne. Il tutto con sempre meno tempo a disposizione, per Giorgia Meloni e non solo per lei. Ps. Poco fa Silvio Berlusconi ha condiviso una nota: In 28 anni di vita politica la scelta atlantica, l’europeismo, il riferimento costante all’Occidente come sistema di valori e di alleanze fra Paesi liberi e democratici sono stati alla base del mio impegno di leader politico e di uomo di governo. Come ho spiegato al Congresso degli Stati Uniti, l’amicizia e la gratitudine verso quel Paese fanno parte dei valori ai quali fin da ragazzo sono stato educato da mio padre. Nessuno, sottolineo nessuno, può permettersi di mettere in discussione questo. Non può certamente permettersi di farlo la sinistra, che tante volte è stata dalla parte sbagliata della storia. Tantomeno la sinistra del Partito Democratico, che anche alle ultime elezioni, meno di un mese fa, era alleata con i nemici della NATO e dell’Occidente. Tutto questo però non esisterebbe, se non vi fosse in Italia la pessima abitudine di trasformare la discussione politica in pettegolezzo, utilizzando frasi rubate registrate di nascosto, e appunti fotografati con il teleobbiettivo, con un metodo non solo sleale ma intimidatorio. Un metodo soprattutto che porta a stravolgere e addirittura a rovesciare il mio pensiero, usando a piacimento brandelli di conversazioni, attribuendomi opinioni che stavo semplicemente riferendo, dando a frasi discorsive un significato del tutto diverso da quello reale. La colpa non è degli organi di informazione, ovviamente costretti a diffondere queste notizie, è di chi usa questi metodi di dossieraggio indegni di un Paese civile. Senza questo, non sarebbe necessario ribadire l’ovvio. La mia posizione personale e quella di Forza Italia non si discostano da quella del Governo Italiano, dell’Unione Europea, dell’Alleanza Atlantica né sulla crisi Ucraina, né sugli altri grandi temi della politica internazionale. Lo abbiamo dimostrato in decine di dichiarazioni ufficiali, di atti parlamentari, di voti alle Camere. Interrogarsi sulle cause del comportamento russo, come stavo facendo, ed auspicare una soluzione diplomatica il più rapida possibile, con l’intervento forte e congiunto degli Stati Uniti e della Repubblica cinese, non sono atti in contraddizione con la solidarietà occidentale e il sostegno al popolo ucraino. Del resto alla pace non si potrà giungere se i diritti dell’Ucraina non saranno adeguatamente tutelati.
Zar per una notte. Berlusconi precisa e rettifica, ma non si smentisce mai (e noi italiani nemmeno). Francesco Cundari su L'Inkiesta il 19 Ottobre 2022.
Il Cavaliere parla a ruota libera di Meloni e del governo, ma soprattutto di Putin e della guerra. E come al solito dice quello che molti pensano ma non hanno, giustamente, il coraggio di dichiarare. Tranne Fontana, che purtroppo ce l’ha.
Silvio Berlusconi, come al solito, passa un’enorme quantità di tempo a precisare, puntualizzare e rettificare, ma non si smentisce mai. Non ha mai detto che Giorgia Meloni avesse tenuto un comportamento «supponente, prepotente, arrogante, offensivo», come scritto, a caratteri ben leggibili, nel famoso foglietto fotografato in Senato (quelle erano le opinioni degli altri parlamentari di Forza Italia che lui si era diligentemente appuntato; il suo personale giudizio era «su un altro foglio», ed era, ovviamente, «assolutamente positivo»). Non ha mai avuto l’intenzione di non far eleggere Ignazio La Russa presidente del Senato, e la scelta di non partecipare alla prima votazione – compiuta del resto dai senatori di Forza Italia, com’è noto, indipendentemente dalla sua volontà – sarebbe comunque rientrata alla seconda, perché l’unica cosa che intendevano fare era dare un segnale. E mentre questo articolo va in stampa (si fa per dire) scopriremo certamente che non avrà detto nulla neanche sulla lista dei ministri, su Elisabetta Casellati alla Giustizia al posto di Carlo Nordio, sui suoi battibecchi con Meloni e su tutti gli altri argomenti con cui ieri ha riempito agenzie, telegiornali e talk show.
Soprattutto, stando almeno a quanto prontamente spiegato da una nota di Forza Italia, Berlusconi non ha mai detto di avere riallacciato i rapporti con Vladimir Putin, come rivelato dall’agenzia La Presse, essendosi limitato piuttosto a raccontare «una vecchia storia relativa a un episodio risalente a molti anni fa».
Questa la trascrizione dell’audio pubblicato, subito dopo la smentita, da La Presse: «I ministri russi in diverse occasioni hanno detto che noi siamo già in guerra con loro, perché? Perché forniamo armi e finanziamenti all’Ucraina. Io personalmente non posso esprimere il mio parere perché se poi viene raccontato alla stampa o altro, eccetera, viene fuori un disastro, però sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato un po’ i rapporti con il presidente Putin, un po’ tanto, nel senso che per il mio compleanno mi ha mandato venti bottiglie di vodka e una lettera dolcissima, io gli ho risposto con delle bottiglie di Lambrusco e una lettera altrettanto dolce. Io ero stato dichiarato da lui il primo dei suoi cinque veri amici».
Queste le parole che ciascuno può ascoltare dalla viva voce di Silvio Berlusconi, quattro volte presidente del Consiglio, leader di un importante partito della maggioranza impegnato nelle trattative sulla formazione del nuovo governo.
Del resto, non è un caso che quest’uomo abbia dominato come nessun altro la politica italiana per quasi trent’anni: non perché qualcuno abbia mai creduto alle sue smentite, ma per l’esatto contrario. Nessuno dei suoi elettori si è mai bevuto la storia della nipote di Mubarak, il che non vuol dire affatto che non l’abbiano apprezzata, probabilmente perché convinti che fossero sempre altri, gli odiati avversari, a doverla mandar giù.
Berlusconi è Berlusconi anche grazie alle sue storie e alla sua impudenza, ai suoi qui lo dico e qui lo nego, e proprio per questo è stato ed è ancora oggi capace di rappresentare milioni di italiani, persino più di quelli che poi effettivamente lo votano.
Con il suo stile, ancora una volta, dice quello che molti pensano ma non hanno, giustamente, il coraggio di dichiarare. Tranne Lorenzo Fontana, che quel coraggio purtroppo ce l’ha, e da neoeletto presidente della Camera giusto oggi dice che le sanzioni alla Russia «potrebbero essere un boomerang».
Eppure, nonostante tutto, molto più di Matteo Salvini o di Nicola Fratoianni, è Berlusconi a rappresentare il sentimento profondo di tanti italiani che vorrebbero abbandonare l’Ucraina al suo destino, non per ragioni ideologiche e tanto meno geopolitiche, forse nemmeno per timore della bomba atomica, ma perché intendono il pacifismo semplicemente come il diritto di essere lasciati in pace, e lo considerano l’unico diritto davvero inalienabile.
Berlusconi li rappresenta non nonostante, ma grazie alle sue reiterate smentite, così simili a quelle di tanti altri sostenitori della medesima causa, sempre pronti a scattare gonfi d’indignazione al primo che si permetta di definirli putiniani, solo perché ripetono tutte le balle della propaganda putiniana, così come fino a ieri facevano tanti intellettuali, di destra e di sinistra, con i loro dubbi e i loro distinguo sui vaccini o sul green pass, quando qualcuno si azzardava a dar loro di no vax.
Silvio Berlusconi, in realtà, li rappresenta tutti, da sempre, più e meglio di quanto essi stessi siano capaci di rappresentarsi e di riconoscersi per quello che sono. Ed è per questo, forse solo per questo, che è ancora là.
Putiniani per procura. L’insopportabile ipocrisia di chi dice da mesi le stesse cose di Berlusconi, ma s’indigna se le dice lui. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 20 Ottobre 2022
Conte, che appena un mese fa invitava a non dire che il leader russo non volesse la pace, si scandalizza perché il Cavaliere lo definisce, per l’appunto, un «uomo di pace». Ma che differenza c’è tra queste parole e i tanti discorsi sulla «guerra per procura» e l’«oltranzismo atlantico»?
Mentre continuano a uscire spezzoni sempre più inquietanti del discorso pronunciato da Silvio Berlusconi davanti ai parlamentari di Forza Italia, la prima domanda che vien fatto di porsi è come qualificarlo: lo si potrà definire putiniano?
Sinceramente, sarei tentato di rispondere di no. Non perché non pensi che attribuire la responsabilità della guerra a Volodymyr Zelensky, che si sta difendendo, anziché a Vladimir Putin, che attacca, non sia più che sufficiente a meritare il titolo. Ma perché non lo abbiamo ritenuto sufficiente finora, accettando che discorsi dal significato assolutamente identico, appena dissimulato in formulazioni soltanto un filo più furbe, cioè più ipocrite, venissero spacciati per qualcosa di diverso da quello che erano. Pura e semplice propaganda putiniana.
Giuseppe Conte, il leader del Movimento 5 stelle che appena un mese fa dichiarava testualmente: «La pace va costruita, nessuno ci dica che Putin non la vuole» (per la precisione il 6 settembre, dagli studi di Telelombardia), s’indigna oggi perché Berlusconi definisce Putin un «uomo di pace». Facendo cioè esattamente quello che aveva chiesto Conte.
Da giorni la Russia utilizza droni iraniani per uccidere quanti più civili possibile a Kiev e in altre città ucraine lontanissime dal fronte. Attacchi privi della benché minima utilità militare, che hanno l’unico scopo di seminare panico e morte tra uomini, donne e bambini. Putin fa sparare su ospedali e ambulanze, ma soprattutto prende di mira le centrali elettriche, con il trasparente obiettivo di far morire di freddo la popolazione.
Ma tutto questo non viene nemmeno notato, come se non avesse alcuna importanza, tanto meno da parte dei tanti che oggi s’indignano per le vergognose parole di Berlusconi.
Di certo, tutto questo non sembra interferire affatto con le loro disquisizioni sulla necessità di fermare subito le armi e portare le due parti al tavolo del negoziato, perché la pace si fa in due, e non possiamo mica rischiare una guerra nucleare, no? Tanto meno scalfisce i loro ragionamenti quello che nel frattempo accade nelle zone occupate, dove ora Putin ha dichiarato la legge marziale.
Che differenza c’è, se guardiamo alla sostanza, alle premesse logiche e alle conseguenze pratiche, tra quanto dichiarato da Berlusconi e quanto dichiarato da chi continua a parlare di «guerra per procura», a parlare di Zelensky come di una marionetta degli americani, a dire o lasciar intendere in mille modi che il vero motivo per cui alla pace non si arriva è «l’oltranzismo atlantico», l’atteggiamento «bellicista» dell’Europa, l’aggressività della Nato o dello stesso Zelensky (che nei giorni pari è la marionetta degli americani e nei giorni dispari è il vero responsabile dell’escalation, contro il volere degli stessi Stati Uniti).
Che differenza c’è, in concreto, tra quanto dichiarato da Berlusconi e quanto dichiarato mille volte da Conte, dai firmatari del recente appello per un «negoziato credibile» pubblicato su Avvenire (tra cui fior di intellettuali di sinistra), da tutta l’eletta schiera degli opinionisti fissi di La 7 e Fatto quotidiano, da tutti quelli che continuano a denunciare la presunta «subalternità» dell’Italia agli Stati Uniti, all’Europa, alla Nato o ai paesi maggiormente impegnati nel sostegno all’Ucraina, squalificandoli come «bellicisti»? Qual è il succo di tutti questi discorsi, se non che il problema non è fermare Putin, ma fermare Zelensky? E quindi, cos’hanno tanto da indignarsi con Berlusconi, se stanno dicendo, in forme neanche tanto diverse, la stessa cosa?
L’unica differenza, molto labile, è che loro non dimenticano mai di premettere che condannano l’aggressione di Putin, che riconoscono il fatto che c’è un aggredito e un aggressore, e che insomma, come suol dirsi, hanno tanti amici ucraini.
Cosa ha detto Berlusconi su Putin e ministri e cosa vuol dire che ha picconato l’accordo con Meloni. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 19 Ottobre 2022.
Due dichiarazioni che fanno traballare l’accordo da poco trovato per il nuovo governo. Berlusconi prima dice «ho riallacciato i rapporti con Putin» e poi che Casellati sarà la ministra della Giustizia. Due uscite non gradite a Giorgia Meloni.
Inizia e finisce con due cose dolci, l’una in senso lato, l’altra in senso stretto. La prima, entrando alle 13.41 a Palazzo Madama, è il dichiararsi «assolutamente a disposizione» rispetto all’idea di diventare il consigliere di Giorgia Meloni; la seconda sono le crêpes a cui non resiste mentre la compagna Marta Fascina prende un gelato, il tutto suggellato da una foto sui social network pubblicata alle 18.38.
Nelle 4 ore e 57 minuti che separano i consigli dalle crepes, Silvio Berlusconi trasforma in un incrocio tra «drammatico», «giallo» e per certi aspetti «grottesco» il film della costruzione del governo Meloni. Perché candidamente rivela di «a ver riallacciato i rapporti con l’amico Putin». E perché poi rivendica - come acquisita - l’assegnazione del ministero della Giustizia alla forzista Maria Elisabetta Casellati. Una dopo l’altra, in onda o con la sola voce registrata, l’ex presidente del Consiglio infila una serie di dichiarazioni che riportano l’orologio dello scontro con Meloni al drammatico faccia a faccia di giovedì scorso a Montecitorio quasi cancellando l’accordo di pace siglato a via della Scrofa. Torna altissima la tensione nel centrodestra e l’opposizione va all’attacco.
La cifra stilistica con cui il Cavaliere spazia da un campo all’altro, dal censimento sulla distribuzione dei ministeri alle «lettere affettuose» con Vladimir Putin, ricordano le «picconate» del suo vecchio e compianto amico Francesco Cossiga. Ne basterebbe una sola, quella dell’annuncio (smentito) da Fratelli d’Italia sull’«accordo con Meloni sull’ex seconda carica Casellati al ministero della Giustizia», per far tremare tutti i tavoli della trattativa. Ne arriveranno parecchie altre.
«Se il ministro della Giustizia sarà Nordio? No», risponde Berlusconi a un gruppo di cronisti che lo avvicina al Senato. Quindi non c’è l’accordo? «L’accordo c’è. Meloni mi ha chiesto di incontrare Nordio, “che è bravissimo, magari ti convince”. E io lo incontrerò. Ma sono già convinto sulla Casellati». Sono da poco passate le 15. Il primo dello staff della Meloni che vede il lancio di agenzia sbianca, chiede lumi alla leader e ritorna davanti a un computer con la consegna di smentire. In realtà sarà impossibile correggere in tempo reale tutte le fughe in avanti di un Cavaliere loquace come non mai. Prima di lasciare Palazzo Madama, il leader di Forza Italia - rompendo la consegna del silenzio pubblico sui nomi dei ministri - elenca la sua personalissima lista della delegazione azzurra: Tajani vicepremier e ministro degli Esteri; Saccani all’Università, Bernini alla Pubblica amministrazione, Pichetto Fratin alla transizione ecologica e, per l’appunto, Casellati alla Giustizia. In serata, quest’ ultima riceverà una telefonata di Meloni: «Nulla contro di te ma per la Giustizia ho già deciso».
«Vedo che sopravvivete alle vostre balle. Tutto quello che è stato scritto in questi giorni, compreso l’intervento dei miei familiari, non è vero», argomenta il Cavaliere una volta fuori dal Palazzo. In un pezzo dell’intervista già rilasciata dentro, che però ancora non è stata diffusa, ha dichiarato che «la signora Meloni è amica di mio figlio (Pier Silvio, ndr)», frase che suonerà come una conferma indiretta al lavorio dei familiari per far rientrare le crisi. E ancora: «Anche il suo uomo (Andrea Giambruno, ndr) lavora a Mediaset». Quella formula - «signora Meloni» - ritorna parecchie volte. Tolta, forse, la ricostruzione parziale della vicenda del foglietto con gli aggettivi, «riportavo frasi ascoltate dai miei senatori», versione che il Cavaliere aveva già anticipato a Meloni nel faccia a faccia di lunedì.
Dall’assemblea dei gruppi del Senato arrivano in differita, pubblicati da LaPresse, altri fendenti che Berlusconi indirizza alla «signora Meloni». «Mi ha riso in faccia», spiega il Cavaliere raccontando della trattativa di giovedì scorso, quando chiedeva una compensazione in termini di caselle di governo («Tre ministeri in più») rispetto alle presidenze delle Camere finite a FdI e Lega. Poi il giallo si fa intrigo internazionale: l’amicizia ritrovata con Putin, «mi ha scritto per il compleanno una lettera affettuosa, ho risposto con una lettera altrettanto affettuosa», venti bottiglie di vodka che hanno viaggiato da Mosca ad Arcore, venti bottiglie di Lambrusco che hanno percorso la tratta in senso contrario.
I l prequel del film si gira lunedì sera a cena, a Villa Grande. Presenti, oltre a Berlusconi e Marta Fascina, Licia Ronzulli, Alessandro Cattaneo e Antonio Tajani. Per tutta la sera, il titolare il pectore della Farnesina respingerà attacchi che arrivano da tutti i lati. «Dobbiamo lavorare per arrivare presto al governo», dice lui. «Eccolo, parla già come la Meloni, dice le stesse cose che dice la Meloni», risponderanno a turno gli altri commensali. Sarebbe stata proprio la fidanzata di Berlusconi a suggerire il declassamento della «colomba» Anna Maria Bernini a ministero di fascia B (Pubblica amministrazione) e l’ascesa di Gloria Saccani Jotti, «che sarebbe un ottimo ministro dell’Università». Al momento dei saluti il fronte dei governisti subisce l’annuncio di Ronzulli come prossima capogruppo al Senato. Rimane aperta la possibilità che Paolo Barelli possa fare il capogruppo alla Camera. «Domani vediamo, dai», dice Berlusconi. Ieri mattina l’annuncio che il prescelto è Alessandro Cattaneo. E poi, a seguire, le picconate. Fino alle crepes.
"Se Ucraina entra nella Nato sarebbe la guerra mondiale". L’audio di Berlusconi: “Da Putin lettera dolcissima per il mio compleanno. Meloni? Mi ha riso in faccia, impari a parlare”. Redazione su Il Riformista il 18 Ottobre 2022.
Non c’è pace per Giorgia Meloni e per il centrodestra. Dopo il vertice con Silvio Berlusconi e l’annuncio di salire insieme al Quirinale dal presidente della Repubblica per presentare la nuova, possibile, squadra di governo, è la pubblicazione di un audio esclusivo di LaPresse a creare nuovamente scompiglio nella coalizione che alle scorse elezioni politiche ha ottenuto il 44% dei consensi.
Un audio smentito da Forza Italia che chiarisce le dichiarazioni di Berlusconi su una ripresa dei rapporti con il presidente russo Vladimir Putin. Secondo la versione diffusa dal partito azzurro, l’ex premier “ha raccontato ai parlamentari una vecchia storia relativa a un episodio risalente a molti anni fa”.
LaPresse, tuttavia, ha pubblicato l’audio, relativo all’intervento del Cavaliere alla riunione dell’assemblea di Forza Italia alla Camera per l’elezione dei capogruppo, dove Berlusconi parla al presente, facendo riferimento alla guerra in corso in Ucraina: “I ministri russi hanno già detto in diverse occasioni che siamo noi in guerra con loro, perché forniamo armi e finanziamenti all’Ucraina. Io non posso personalmente fornire il mio parere perché – spiega – se viene raccontato alla stampa viene fuori un disastro, ma sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato i rapporti con il presidente Putin, un po’ tanto”.
Poi racconta il regalo ricevuto per il suo compleanno. Berlusconi è nato il 29 settembre. Non è chiaro se il riferimento è alle 86 primavere festeggiate poche settimane fa o se a un episodio avvenuto in passato. “Putin per il mio compleanno – racconta -mi ha mandato 20 bottiglie di vodka e una lettera dolcissima. Io gli ho risposto con bottiglie di Lambrusco e con una lettera altrettanto dolce. Io l’ho conosciuto come una persona di pace e sensata…”, ha raccontato ancora Berlusconi che parlando del conflitto in Ucraina ha poi aggiunto: “Troppo spesso sentiamo parlare di interventi con bombe nucleari. Dio ci salvi e scampi da questo pericolo. L’Ucraina ha chiesto addirittura di entrare nella Nato. Se entrasse nella Nato la guerra sarebbe guerra mondiale”.
Un passaggio anche sull’incontro di ieri, lunedì 17 ottobre con Giorgia Meloni: “Ieri con la signora abbiamo parlato anche di ministri, che erano quattro e sono saliti a cinque. Ma io ho insistito perché la Lega ha già avuto qualcosa più di noi perché la signora Meloni si è tenuta la presidenza del Senato, e io le ho detto che deve imparare da capo di un governo almeno ad usare il condizionale. Quando parli dei tuoi alleati dovresti dire ‘il Senato mi piacerebbe tenerlo per Fdi’ e non ‘il Senato è mio‘, perché così non si fa”.
Poi aggiunge: “Io ho fatto quattro volte il presidente del Consiglio, e il presidente del Consiglio deve essere aperto e generoso nei confronti degli alleati se vuol tenere unita la coalizione. La presidenza della Camera l’ha data alla Lega e, da che mondo è mondo, in Italia la presidenza del Senato vale due ministeri per chi non ce l’ha, vale un ministero la presidenza della Camera. Quindi noi gli abbiamo chiesto tre ministeri, mi ha riso in faccia, ne ho chiesti due, ha riso ancora, ne ho chiesto uno, ha detto ok. Questa è la situazione che ho trovato“.
Sui rapporti amichevoli con Putin, che da settimane chiede al governo di Zelensky di negoziare la fine della guerra, Berlusconi si era già espresso nel recente passato. Pochi giorni prima del voto dello scorso 25 settembre, il leader di Forza Italia ha dovuto chiarire un suo intervento nella trasmissione “Porta a Porta” su Rai 1 condotta da Bruno Vespa. Le sue parole iniziale sono state: “Putin doveva solo sostituire con un governo di persone perbene il governo di Zelensky”. Poi la precisazione: “Riferivo parole di altri, io contrario ad aggressione Kiev”.
Lo stesso Berlusconi, a poche settimane dall’inizio della guerra, condannò l’invasione di Putin: “Non posso e non voglio nascondere di essere profondamente deluso ed addolorato dal comportamento di Vladimir Putin, che si è assunto una gravissima responsabilità di fronte al mondo intero”. Posizione, almeno inizialmente, contro il governo Draghi anche per quanto riguarda l’invio delle armi: “Siamo in guerra anche noi perché mandiamo le armi” a Zelensky. Poi il dietrofront: “Kiev va aiutata a difendersi”. In altre occasioni Berlusconi, così come Salvini e altri leader politici ed esponenti della classe imprenditoriale, avevano criticato le sanzioni imposte dall’Unione Europea alla Russia a causa delle forti ripercussioni sull’economia italiana.
Berlusconi resta ancora quell’anomalia politica con cui fare i conti. Il Cav vuole esercitare ancora una funzione proprietaria sulla coalizione, reclamando il ruolo di chi decide in ultima istanza. Paolo Delgado su Il Dubbio il 20 ottobre 2022
Non è normale che un papabile ministro della Giustizia venga ricevuto nella villa di un capo partito che con la giustizia ha un conto sempre aperto, presumibilmente per esporgli il suo programma, presumibilmente per ottenere l’approvazione e forse la correzione del medesimo programma e il semaforo verde sulla sua nomina. Non è neppure normale che un leader di partito metta in piazza i propri «dolcissimi» rapporti con un capo di Stato, col quale incidentalmente l’Italia è in quasi guerra, non per invocare un cambio nella politica del suo schieramento ma solo per far valere una minaccia volta a strappare un’importante postazione nel governo. Neppure è normale che, per risolvere una crisi politica, ci si rivolga ai figli del capo riottoso tra cui la pargola che guida le aziende di papà.
Tutto ciò non è normale, più precisamente è in clamoroso contrasto con qualsiasi regola di correttezza politico istituzionale e con ogni chimera di limpidezza politica, e allo stesso tempo è normalissimo, consueto. È la normalità nella quale la politica italiana naviga da tre decenni e dunque quasi non fa più sensazione. È significativo che, nel commentare il braccio di ferro tra Berlusconi e Meloni, nessuno di quelli che avevano strillato a pieni polmoni per decenni denunciando il conflitto di interessi e i criteri di selezione delle cariche in Forza Italia abbia segnalato che proprio quella anomala normalità Giorgia Meloni prova oggi a revocare in dubbio.
Raccontarsi il conflitto Meloni-Berlusconi solo come il braccio di ferro fra un leader in declino che non vuole passare la mano e una giovane in ascesa che fatica a trovare la via diplomatica per far ingoiare all’ex sovrano l’amara pillola non è in sé sbagliato ma non è neppure esaustivo. In ballo c’è molto di più. C’è l’anomalia che, in tandem con l’eterno rifiuto del PdS- Ds- Pd di dotarsi di un’identità politica precisa, ha precipitato il sistema politico italiano nella confusione totale in cui sta annegando. La guerriglia berlusconiana di questi giorni è solo l’ultima incarnazione della anomalia costituita dalla presenza in campo, con ruoli diversi a seconda delle circostanze storiche però sempre determinanti, di un leader sceso in politica per difendere i propri interessi aziendali, costruendosi un partito di cui è sempre stato non solo il leader, per quanto carismatico, ma a tutti gli effetti il proprietario.
Berlusconi non pretende oggi solo il rispetto dovuto al fondatore della moderna destra italiana, rispetto che in ultima analisi gli sarebbe dovuto. Chiede però di esercitare ancora una funzione proprietaria, subordinando la politica ai propri interessi e reclamando il ruolo di chi decide in ultima istanza. La rigidità della leader tricolore si spiega proprio con la consapevolezza di essere impegnata in un braccio di ferro che ha per posta in gioco non questo o quel ministero ma la natura stessa della coalizione che sosterrà il suo governo e dunque i margini di autonomia e la libertà d’azione stessa di quel governo.
In una partita del genere sono possibili tregue, come quella che con ogni probabilità permetterà comunque di formare il governo in tempi brevi. Non è però contemplata una vera pace perché Berlusconi non può permettere che la destra si emancipi dal berlusconismo e perché Giorgia Meloni non può adottare il berlusconismo senza trasformarsi automaticamente in una pedina la cui stella sarebbe destinata a tramontare con la stessa rapidità con cui è sorta.
È dunque facilmente prevedibile che la tensione continuerà a crescere, a tratti in piena vista, in altri momenti sotto pelle, ma a un certo punto, e non in tempi biblici, si dovrà arrivare a una risoluzione, che può passare per un ventaglio limitato di esiti concreti. Il primo è la resa del Cavaliere, che potrebbe rivelarsi inevitabile se l’asse in realtà fragile tra FdI e Lega resistesse ma diventerebbe molto meno probabile ove quell’intesa si spaccasse.
Il secondo è una scissione di Forza Italia che metterebbe fine alla lunga parabola del partito azzurro, anche se in quel caso non è affatto detto che Meloni disporrebbe ancora di una maggioranza. Il terzo esito è un ritorno in tempi piuttosto brevi alle urne e a quel punto tutto tornerebbe in ballo anche se difficilmente Berlusconi potrebbe ripetere il miracolo che lo salvato il 25 settembre. L’ultima ipotesi è un’ennesima formula ambigua, basata su una qualche maggioranza improbabile. È un’eventualità remota nella situazione data. Ma nella politica italiana l’impossibile non esiste.
Berlusconi emulo di Cossiga, fa impazzire i giornali: ma picconare è rischioso. Il leader di Forza Italia dovrebbe sapere che il Quirinale, e quindi Sergio Mattarella, non accetterà un governo dalle basi precarie. Francesco Damato su Il Dubbio il 20 ottobre 2022
Le notizie “da”, ma anche “su” Silvio Berlusconi arrivano ai e sui giornali come le picconate del compianto Francesco Cossiga nell’ultimo anno, all’incirca, del suo settennato al Quirinale: sempre in tempo per sfasciare le prime pagine, far deperire come frutta marcia un bel po’ di articoli, aggiornarli più volte, farne cestinare irreparabilmente alcuni e improvvisarne altri in una rincorsa affannosa fra le redazioni e, spesso, il presidente della Repubblica in persona. Che si compiaceva ogni tanto a telefonare ai quotidiani per verificare gli effetti delle sue sortite, fasi anticipare i titoli e quant’altro.
Alla fine eravamo davvero sfiniti lui e noi, rassegnati a replicare la sera o la notte successiva. Ogni tanto torno a sognarmele quelle notti come in un incubo. E temo che accada anche all’ambasciatore Ludovico Ortona, ottant’anni belli che compiuti, che dalla sua postazione quirinalizia di portavoce doveva paradossalmente assecondare ma al tempo stesso contenere quel fiume in piena che era diventato il Capo dello Stato.
Per sua e nostra fortuna Berlusconi è stato appena rieletto soltanto senatore della Repubblica, ma sta facendo una bella concorrenza, a suo modo, al compianto Cossiga in questo avventuroso avvio della nuova legislatura, montando e smontando tregue più o meno armate, spiazzando persino gli amici, sino a farsi invitare da alcuni di provata fede come Alessandro Sallusti a smetterla per carità, perché – ha stampato Libero in rosso sulla prima pagina- “avanti così finisce male”. Anche per Berlusconi, temo, e non solo per gli altri, a cominciare naturalmente dalla “signora Meloni”, come lui ha ripreso a chiamare con una certa distanza la sua ex ministra della Gioventù in attesa dell’incarico di presidente del Consiglio.
L’attenuante che gli amici del Cavaliere sufficientemente in confidenza come Alessandro Sallusti per invocarlo pubblicamente a fermarsi gli riconoscono in questa piena di sorprese e di rivelazioni, dalla lista dei ministri alle lettere e ai doni di Putin, è che Forza Italia ha ancora bisogno del suo fondatore per non dissolversi. E che il centrodestra, a sua volta, avrebbe ancora bisogno di Forza Italia per non essere tutto e solo destra, costretto dalle circostanze a governare nel passaggio più difficile del Paese, fra emergenze di ogni tipo rispetto alle quali forse impallidiscono anche quelle gestite da Mario Draghi, purtroppo rimosso di fatto anzitempo.
In questa situazione “assicurare entro questa settimana un governo al Paese non è un’opzione, ma un obbligo, un dovere”, ha scritto sul Giornale di famiglia di Berlusconi il direttore Augusto Minzolini ripetendo un po’, se non ricordo male, le parole proprio di Draghi al suo esordio da presidente del Consiglio davanti alle Camere nel 2021.
Ma il problema di Giorgia Meloni in questo avvio – ripeto- di legislatura è di formare appunto un governo, di solida e ben definita maggioranza, dopo un passaggio elettorale col quale si è voluto chiudere la stagione degli esecutivi di una certa anomalia. Il problema non è di formare un governo comunque e di lanciarlo come un oggetto misterioso su un Parlamento dove peraltro una delle due Camere non si è neppure attrezzata alle nuove, ridotte dimensioni con un regolamento aggiornato.
Un simile governo – temo per chi lo volesse mettere nel conto derubricando magari a folclore quello che sta accadendo nel centrodestra non sarebbe permesso da Mattarella, cui spetta di nominarlo, per quanto sollevato – come scrivevo ieri- dalla decisione dello stesso centrodestra di partecipare unito alle consultazioni di rito al Quirinale.
Sul Presidente ucraino: "Lasciamo perdere". Il nuovo audio di Berlusconi sulla guerra in Ucraina: “Putin contrario, ha subito pressioni in Russia: Zelensky aveva triplicato attacchi in Donbass”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 19 Ottobre 2022
“Promettete?”, chiede Silvio Berlusconi ai parlamentari di Forza Italia nel nuovo audio diffuso in esclusiva da Lapresse: chiedeva massimo riserbo ai suoi, riserbo che evidentemente non è stato osservato. La verità di Berlusconi sulla guerra in Ucraina, sulle ragioni dell’amico Vladimir Putin che lo scorso febbraio ha lanciato la sua “operazione speciale” su Kiev. Non una versione inedita tuttavia considerate le parole che l’ex Presidente del Consiglio aveva detto a Porta a Porta in piena campagna elettorale e che già allora avevano scatenato polemiche, e non soltanto in Italia.
“La cosa è andata così: nel 2014 a Minsk, in Bielorussia, si firma un accordo tra l’Ucraina e le due neocostituite repubbliche del Donbass per un accordo di pace senza che nessuno attaccasse l’altro. L’Ucraina butta al diavolo questo trattato un anno dopo e comincia ad attaccare le frontiere delle due repubbliche. Le due repubbliche subiscono vittime tra i militari che arrivano, mi si dice, a 5-6-7mila morti. Arriva Zelensky, triplica gli attacchi alle due repubbliche. Disperate, le due repubbliche mandano una delegazione a Mosca e finalmente riescono a parlare con Putin. Dicono: ‘Vladimir non sappiamo che fare, difendici tu’”.
Lui è contrario a qualsiasi iniziativa, resiste, subisce una pressione forte da tutta la Russia. E allora si decide a inventare una operazione speciale: le truppe dovevano entrare in Ucraina, in una settimana raggiungere Kiev, deporre il governo in carica, Zelensky eccetera, e mettere un governo già scelto dalla minoranza ucraina di persone per bene e di buon senso, un’altra settimana per tornare indietro. È entrato in Ucraina e si è trovato di fronte a una situazione imprevista e imprevedibile di resistenza da parte degli ucraini, che hanno cominciato dal terzo giorno a ricevere soldi e armi dall’Occidente. E la guerra, invece di essere una operazione di due settimane, è diventata una guerra di duecento e rotti anni (sic). Quindi, questa è la situazione della guerra in Ucraina”.
Destinato a far discutere anche il no comment sul Presidente ucraino Volodymyr Zelensky: “Io non vedo come possano mettersi a un tavolo di mediazione Putin e Zelensky. Perché non c’è nessun modo possibile. Zelensky, secondo me … lasciamo perdere, non posso dirlo …”. Il nuovo audio viene pubblicato all’indomani di altre dichiarazioni di Berlusconi sul presumibile prossimo governo di centrodestra e sulla relazione con Putin, amico di vecchia data del Cavaliere, che già avevano fatto discutere.
Berlusconi aveva detto di aver ricevuto bottiglie di vodka e un biglietto “dolcissimo” in occasione del suo compleanno, cui lui aveva risposto a sua volta con bottiglie di Lambrusco e un suo biglietto “altrettanto dolce” – il caso è stato oggetto di discussione questa mattina in Commissione Europea viste le sanzioni per quanto riguarda import ed export con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Parole che rischiano di aumentare le tensioni all’interno della maggioranza: la premier in pectore Giorgia Meloni continua a confermare la sua posizione atlantista.
Il leader di Forza Italia ha descritto nel nuovo audio una mancanza di leadership nel mondo occidentale: “Quello che è un altro rischio, un altro pericolo che tutti noi abbiamo: oggi, purtroppo, nel mondo occidentale, non ci sono leader, non ci sono in Europa e negli Stati Uniti d’America. Non vi dico le cose che so ma leader veri non ce ne sono. Posso farvi sorridere? L’unico vero leader sono io …”.
Berlusconi, dopo la diffusione dell’audio nel corso della trasmissione Diario Politico su La7 ha telefonato in studio chiedendo di precisare “il contesto”, “le parole registrate vanno inquadrate in un contesto più largo di preoccupazione generale, con gli Stati Uniti che hanno disatteso le premesse multilaterali di Trump”. E poi quelle parole erano state pronunciate a una riunione di partito e non un’occasione ufficiale. “Io non posso personalmente esprimere il mio parere perché se viene raccontato alla stampa viene fuori un disastro, ma sono molto, molto, molto preoccupato. Ho riallacciato un po’ i rapporti con il presidente Putin, un po’ tanto”, le dichiarazioni che erano emerse negli audio diffusi ieri.
Berlusconi ha avuto un lungo rapporto di amicizia con Putin. L’ex premier lo andò a trovare nella sua prima visita ufficiale all’estero poco dopo essersi insediato nel 2001. I due si incontrarono poi più volte negli anni successivi e non soltanto per ragioni istituzionali. Numerosi scatti e momenti di quel rapporto sono diventati molto noti, in alcuni casi virali e ricordati ancora oggi. Nel caso delle dichiarazioni rilasciate a Porta a Porta Berlusconi aveva poi precisato di esser stato frainteso per quelle parole. Il nuovo audio si inserisce nelle complicate e turbolente trattative per la formazione di un governo di centrodestra.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Antonio Bravetti per “la Stampa” il 21 ottobre 2022.
Altro che audio «manipolato»: è tutto vero, «un gran pezzo giornalistico». Alessia Lautone, direttrice di LaPresse, difende orgogliosa lo scoop di Donatella Di Nitto, la giornalista che ha pubblicato la registrazione di Silvio Berlusconi. Non fornisce indizi su «finestre aperte» o ex parlamentari rancorosi, ma ragiona: «La leggerezza di Berlusconi è sospetta».
C'è un terzo audio bomba?
«No. Abbiamo il discorso integrale di Berlusconi, venti minuti. Potremmo pubblicarlo solo per dimostrare che non è stato manipolato, come dice qualcuno. Siamo alla follia».
Come lo avete avuto?
«Non lo dirò mai».
Registrato da una finestra, come suggerisce Mulè?
«Non lo dico, ma se davvero ci fossero state delle finestre aperte e tanta gente nella stanza sarebbe stato ancora più surreale per Berlusconi fare quei discorsi».
È la vendetta di qualcuno dentro FI?
«Non lo so. Trovo strano che non si parli del contenuto ma ci si impegni di più per capire da dove viene».
Cosa ha pensato ascoltando l'audio la prima volta?
«Quando ho sentito i passaggi su Putin e quelli sulla vodka e il lambrusco ho capito di avere in mano un grande pezzo giornalistico».
E le risate dei deputati?
«Gli applausi mi hanno lasciato stupita, Berlusconi non lo contraddice mai nessuno. Il grande problema di Forza Italia è che tutti sono scolaretti di Berlusconi, dicono sempre sì».
Perché darlo in due parti?
«Era molto lungo, l'audio era sporco e volevo essere certa che si sentisse bene. Nessuna dietrologia né complotti».
Berlusconi l'ha fatto uscire apposta?
«Quel giorno aveva rilasciato molte dichiarazioni, senza considerare il famoso biglietto su Meloni. Aveva voglia di parlare. Una leggerezza sospetta c'è».
Un disegno per mettere in difficoltà Meloni?
«Lui fa fatica a non dare le carte, gli brucia tanto. Ancora di più con Meloni. La loro è un'incompatibilità caratteriale».
Quante telefonate furiose ha ricevuto da Forza Italia?
«Non ho ricevuto nessunissima pressione».
Qualche politico contento?
«Nemmeno. Hanno paura di finire tra i sospettati».
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 21 ottobre 2022.
Gazprom, la tv russa, Yukos, i servizi russi. Per capire la connessione tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin bisogna esplorare questo quadrato e i suoi grandi filoni, alcuni ancora da chiarire nei dettagli, ma certo ogni volta che i due si sono avvicinati, una serie impressionante di alert si è accesa nelle diplomazie e nei servizi internazionali.
Uno, su Gazprom e la rivendita del gas russo in Europa (dall'Austria all'Ucraina, passando per l'Italia) attraverso strati di società complesse che appaltavano una parte dei profitti ad amici personali di Putin. Due, sul ruolo di uomini di Berlusconi nella costruzione della tv di stato del Cremlino e l'infrastruttura di rete delle tv russa. Tre, sull'esproprio putiniano di Yukos, il gigante petrolifero di Mikhail Khodorkovsky, e aziende italiane che ne acquisirono pezzi.
Ma innanzitutto bisogna capire una cosa: i rapporti del Cavaliere con la Russia iniziano da molto prima di questi sciagurati audio contro Zelensky, partono quando l'Urss è ancora in piedi, nella seconda metà degli anni ottanta, e Berlusconi entra a far parte di un network di influenza sovietico, prima che russo.
Secondo Catherine Belton, che ha scritto il libro fondamentale sulla materia, nel 2005 (quando scoppia il caso Centrex, la presunta rivendita di favore di gas russo ad amici del Cavaliere), «gli uomini di Putin stavano ricostruendo relazioni sulla base delle connessioni forgiate tanto tempo prima, nell'era sovietica, quando Berlusconi era stato uno degli intermediari che lavoravano in contatto ravvicinato con il Politburo sovietico».
Belton non è mai stata smentita dal Cavaliere. L'iniziale intento di queste operazioni «era creare una piattaforma dalla quale la Russia poteva cercare di influenzare la politica europea», come ha rivelato a Belton Michel Seppe, un ex capo dell'intelligence austriaca, che un tempo aveva lavorato strettamente con un uomo del Kgb. Di nome Andrey Akimov.
Cosa accade nel 2005? Due uomini di Putin, Andrey Akimov, appunto, e Alexander Medvedev, due finanzieri legati al Kgb (il secondo solo omonimo di Dmitry, il presidente delle esternazioni ultra guerrafondaie di questi mesi), insediati a capo di Gazprombank e del braccio per le esportazioni, Gazpromexport, cominciano a creare una serie di società estere da usare nella rivendita di gas con creazione di fondi offshore e corruzione all'estero. A Berlino Gazprom Germania viene riempita di ex uomini della Stasi. Stessa cosa in Rosukrenergo (piena di ex di Kgb e Stasi), l'azienda a cui viene concessa la rivendita di gas russo in eccesso dall'Ucraina all'Europa.
A Vienna l'uomo chiave del network Akimov-Medvedev è Martin Schlaff, ex agente della Stasi, che aveva lavorato a Dresda (come Putin). In Italia Akimov e i suoi settano una società, Centrex Central Energy Italian Gas Holding, che aveva questa struttura societaria di base: al 41,6 per cento aveva come azionista Centrex e Gas AG (la casa madre a Vienna), al 25 per cento Zmb (la sussidiaria tedesca di Gazprom Export, in pratica il Cremlino), e al 33 per cento due società milanesi, Hexagon Prima e Hexagon Seconda, che avevano il medesimo indirizzo societario a Milano, intestate a Bruno Mentasti Granelli, l'ex patron di San Pellegrino, grande amico di Silvio.
Una commissione parlamentare se ne accorse. L'accordo Centrex, accettato prima dell'estate 2005 dall'Eni (Vittorio Mincato, che non voleva, era stato sostituito con Paolo Scaroni, oggi in pista per il ministero dell'Energia del governo Meloni), a ottobre fu messo in stand by indefinito per i rilievi del Cda e dell'Antitrust. Ma lo schema era chiaro. L'anno successivo Scaroni rinnova fino al 2035 l'appalto di gas da Gazprom, a prezzi non proprio convenienti, se si considera che in quegli anni emergono le potenzialità dello shale gas, e i prezzi si abbassano ovunque.
Parlamentari italiani, anche del partito di Berlusconi se ne lamentarono con l'ambasciata Usa. Tre anni dopo, in un cablo svelato da Wikileaks, l'allora ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli scrisse che la vera natura dei rapporti tra Berlusconi e Putin era «difficile da determinare»: «L'ambasciatore georgiano a Roma ci ha detto che il governo della Georgia ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti da eventuali condotte sviluppate da Gazprom in coordinamento con Eni».
Il Cavaliere ha sempre smentito tutto, ma la cosa arrivò anche al Parlamento europeo, attraverso il report di Roman Kupchinsky. Gli americani lamentavano che le affermazioni putiniane di Berlusconi indebolivano l'alleanza atlantica, e i dialoghi per uno scudo missilistico comune Ue.
Antonio Fallico, il capo di Banca Intesa russa, insignito da Putin della cittadinanza onoraria russa, e uno degli uomini cruciali in varie vicende di influenza del Cremlino in Italia - a partire dal prestito da Banca Intesa a Rosneft per il finanziamento di una tranche della finta "privatizzazione" dell'azienda di Igor Sechin - ha raccontato che Fininvest già a fine anni '80 vinse il lucrosissimo appalto per trasmettere film in prime time sulla tv di stato sovietica. Com' era possibile, senza far parte di un network sovietico?
C'è un uomo poco noto, Angelo Codignoni, che è stato un vero boss di Berlusconi presso Putin, stavolta attorno alla tv e a Yuri Kovalchuk. Un anno fa, da leaks dei Pandora Papers, è emerso che circa due milioni di euro sono finiti dalla Russia su società a Montecarlo di Codignoni. Ma le misteriose consulenze, su cui consorzi di reporter internazionali stanno indagando, sarebbero molte, davvero molte di più.
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 21 ottobre 2022.
Il giallo della non gelida manina che ha diffuso gli audio delle putinate di Berlusconi è già risolto. Sono stato io. Anzi, un po' tutti. Ma davvero, nell'era degli smartphone, esiste ancora qualcuno che, entrando in contatto con qualcosa di interessante, non schiaccia subito il tasto «inoltra» per inviarlo a un amico? Naturalmente a uno solo, e con la promessa che non lo giri a nessun altro: le stesse regole d'ingaggio con cui l'amico lo girerà a qualcun altro.
Fa sorridere questa ricerca spasmodica del colpevole, utilissima a spostare l'attenzione dalle cose che Berlusconi ha detto (e che peraltro aveva già anticipato da Vespa poche settimane prima). «Perché mai un parlamentare di Forza Italia avrebbe dovuto mandare in circolo le esternazioni filorusse del Capo?» si domandano i complottisti. Ma per la stessa umanissima ragione per cui il Capo le aveva pronunciate: illudersi di essere al centro del mondo.
Berlusconi non ha esaltato Putin per far cacciare la Meloni dalla Nato, ma per far sapere a tutti che lui è il miglior amico del leader più temuto del momento. Anche «la manina» ha ragionato allo stesso modo: voleva che tutti sapessero che era lei la depositaria dei segreti di Berlusconi. Dovremmo dunque concludere che, più ancora dei soldi, degli interessi e delle passioni, è il narcisismo a muovere il mondo? Sì. Ormai l'unico modo per non dire una cosa è non pensarla, perché appena la pensi ti viene voglia di dirla. E, appena la ascolti, di condividerla con qualcuno.
(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Berlusconi riallaccia con Putin e imbarazza la coalizione": questo il titolo di un articolo che il quotidiano francese Le Monde consacra alla situazione politica dell'Italia, con particolare riferimento alle registrazioni audio dell'ex premier che "perturbano la formazione del governo".
Secondo Le Monde, "questa sequenza potrebbe minare seriamente la credibilità dell'Italia sulla scena europea, in un contesto in cui Giorgia Meloni ha fatto del suo sostegno all'Ucraina e alla Nato una linea forte del suo programma politico".
E ancora: "Antonio Tajani, ex presidente del Parlamento europeo e coordinatore del partito, potrà ottenere il portafoglio degli Affari esteri come era stato previsto? Molti osservatori vedono allontanarsi quest'ipotesi". "Qualunque siano i nomi dei ministri che comporranno il governo di Giorgia Meloni - conclude Le Monde - l'Italia è appena riuscita nell'impresa di un governo non ancora nato ma già in piena crisi".
Annalisa Girardi per fanpage.it il 20 ottobre 2022.
Le ultime affermazioni di Silvio Berlusconi su Vladimir Putin, che stanno causando fibrillazioni all'interno della maggioranza, nono sono passate inosservate all'estero. Diversi giornali stranieri hanno infatti ripreso la notizia. "Berlusconi dice di essersi scambiato una ‘dolce lettera' con Putin", "Berlusconi dice che Putin gli ha mandato della vodka e una dolce lettera", "Berlusconi si è riavvicinato a Putin, gli ha mandato del vino e una dolce lettera": sono solo alcuni dei titoli apparsi nelle principali testate internazionali.
Il Financial Times, ad esempio, ha commentato la notizia scrivendo che queste ultime dichiarazioni del Cavaliere "che suggeriscono il riaccendersi de suo ‘bromance' con Putin, non faranno che riaccendere le ribollenti preoccupazioni sulla direzione della futura politica estera italiana e sull'approccio del Paese alla guerra in Ucraina dopo che il governo di Meloni prenderà il sopravvento".
E ancora, il quotidiano britannico sottolinea come nonostante la leader di Fratelli d'Italia abbia criticato ferocemente l'invasione russa dell'Ucraina, "i due alleati da cui dipende la sua coalizione, Berlusconi e Matteo Salvini della Lega, sono entrambi ammiratori di lunga data di Putin, che hanno messo in chiaro il loro disagio verso la dura posizione dell'Ue nei confronti di Mosca".
Anche Reuters ha riportato la notizia, scrivendo che "Berlusconi spesso si è spesso vantato della sua amicizia con Putin fino all'invasione dell'Ucraina, e ha creato una tempesta il mese scorso quando ha detto che Putin è stato spinto alla guerra per mettere ‘gente decente' al governo a Kiev".
E ancora: "Le relazioni tra la coalizione di destra in Italia e la Russia sono sotto osservazione. Matteo Salvini, leader del partito anti-migranti della Lega, ha spesso elogiato Putin e ha anche indossato una maglietta con stampata la faccia del leader russo". Reuters ha anche citato altre affermazioni di Lorenzo Fontana, neo eletto presidente della Camera, che ha avvertito delle conseguenze che potrebbero avere le sanzioni contro la Russia.
Il quotidiano spagnolo El Pais ha cominciato l'articolo scrivendo che il ritorno di Silvio Berlusconi in Senato dopo nove anni di assenza ha sollevato le polemiche: "Nell'ultima delle sue controversie il protagonista è il presidente russo", si legge. Non solo, il giornale sottolinea come Berlusconi abbia definito il presidente russo come "un uomo di pace".
Infine, il tedesco Die Welt, ha scritto che "l'ex presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, con delle dichiarazioni sull'amico Vladimir Putin ha alimentato ancora una volta i dubbi sulla determinazione del futuro governo ad agire contro Mosca". E ancora: "Alcuni italiani e ucraini sono preoccupati per il sostegno del Paese mediterraneo a Kiev nella guerra contro la Russia, una volta che si sarà insediato il nuovo governo guidato dalla vincitrice delle elezioni Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, partito di estrema destra. Solo poche settimane fa, Berlusconi aveva affermato che Putin fosse stato spinto ad attaccare".
Da adnkronos.com il 20 ottobre 2022.
"Berlusconi sembra il protagonista di Viva l’Italia. In quel film Michele Placido interpreta un importante politico italiano il quale, dopo una seratina con l’amante, perde qualsiasi freno inibitorio. Così inizia a raccontare verità che mai aveva osato render pubbliche. Tangenti, favori, raccomandazioni, balle raccontate a favore di telecamera". Lo scrive su Facebook Alessandro Di Battista.
"Così Berlusconi, dopo aver mentito per una vita intera, oggi, non solo dice quel che pensa ma osa raccontare alcune verità su quel che è accaduto in Ucraina prima dell’invasione russa che molti altri politici dentro Forza Italia e, più in generale in tutto il centrodestra, pensano ma per la salvaguardia della loro carriera, non hanno il fegato di dire" aggiunge Di Battista.
"Mi piacerebbe adesso ascoltare Tajani (il futuro pessimo ministro degli Esteri) che ultimamente sembra il social media manager di Biden più che un parlamentare della Repubblica italiana. Anche perché l’incontinenza senile di Berlusconi è, paradossalmente, più dignitosa della pavidità di un mucchio di politici che dovrebbero fare gli interessi italiani ma che pensano solo ad ossequiare la NATO", conclude l'ex parlamentare M5S.
(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Qualsiasi crisi apre la strada ai leader veri. Mentre il signor Berlusconi è sotto l'effetto della vodka russa in compagnia di 'cinque amici di Putin' in Europa, Giorgia Meloni dimostra quali sono i veri principi e la comprensione delle sfide globali. Ognuno sceglie la propria strada". Lo ha twittato in italiano Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky.
Luca Bottura per “La Stampa” il 20 ottobre 2022.
I prossimi audio di Berlusconi, da oggi nei principali cabaret.
"Zelensky in realtà si chiama Zielinsky e gioca nel Napoli".
"A Putin gliel'avevo detto: butta una bella atomica su Kiev e sono tutti contenti".
"Mio fratello Paolo in realtà non è il vero editore de Il Giornale".
"Non dico la verità dal 1963".
"In confronto a Tajani, Licia Ronzulli è un premio Nobel".
"Non è vero che ho abolito l'Imu".
"I giornalisti cui pago lo stipendio tendono a non essere esattamente aggressivi quando parlano di me".
"Le cene eleganti non è che fossero davvero cene eleganti".
"Il lettone di Putin è arrivato già frequentato".
"Sì, sono io che da 40 anni rincoglionisco gli italiani con le mie televisioni".
"Milano 2 è un posto così noioso che i cigni del laghetto dei cigni si sono tutti suicidati".
"Dell'Utri è quello che pensate voi".
"I miei capelli non sono completamente naturali".
"Salvini in realtà è Davide Mengacci travestito".
"Certe volte il Grande Fratello Vip mette i brividi persino a me".
Dagospia il 20 ottobre 2022. Dall’account facebook di Enrico Mentana
La verità sulle frasi di Berlusconi carpite dagli audio filtrati in questi giorni - per quanto possa sembrare disarmante - è che si tratta semplicemente di quel che il leader di Forza Italia pensa.
Smentite, contestualizzazioni, messe a punto, correzioni sono solo dettate dalle pressanti richieste di collaboratori e alleati, in vista della formazione del governo.
Ma quel che Berlusconi ha raccontato ai deputati di Forza Italia, vincolandoli al più assoluto riserbo, su Putin e Zelensky è parola per parola quello che aveva detto in tv, senza ovviamente vincoli di sorta, da Vespa tre giorni prima delle elezioni.
Nella sostanza - che è ciò che conta - si tratta della narrazione sulla guerra di Ucraina più vicina alla versione russa che si possa ascoltare da un politico europeo, in totale contraddizione con le posizioni del governo ancora in carica e delle deliberazioni parlamentari a cui anche Forza Italia ha dato il suo sostegno.
Poi Berlusconi può rivendicare, atti alla mano, la sua 28ennale adesione ai principi euroatlantici e tutto il resto. Ma nessun altro leader occidentale si vanta di ricevere regali e dolcissimi lettere da Vladimir Putin, e di ricambiare. E nessun altro leader si permette allusioni negative sul presidente di un paese aggredito, dopo averlo accusato di aver provocato la guerra "triplicando gli attacchi alle regioni del Donbass".
Coi riflessi condizionati della politica italiana si prova a ipotizzare quali siano i motivi tattici di queste uscite: contro Meloni, o per andare a un governo a maggioranza diversa, eccetera.
Dovrebbe invece interessare di più il fatto in sé: parlando per la prima volta agli eletti del suo partito, Berlusconi ha fatto un discorso, "impreziosito" dal vincolo di riservatezza, che non avrebbe stonato in quella ormai nota trasmissione del primo canale della tv russa.
Non solo: ha ripetuto tesi che aveva già espresso tre settimane prima, confermando che quella è la sua opinione radicata, altro che sbandamenti o travisamenti.
E fino a prova del contrario quella è la linea di Forza Italia, ascoltati gli applausi e verificata l'assenza di dissensi.
Anche perché quelle tesi, simpatizzanti per Putin, severe con Zelensky, preoccupate per un aiuto agli ucraini che ci porta grandi spese e in cambio un salasso energetico e economico, sono in sintonia con una corrente minoritaria ma ben presente nell'opinione pubblica italiana. In sprezzo a leggi e trattati, in omaggio alla legge del più forte, fedeli a un solo principio, quello del "cosa mi conviene", e magari simulando già il battito di denti per un inverno freddissimo senza gas, nel bel mezzo dell'ottobre più caldo di tutti i tempi.
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 20 ottobre 2022.
[…] È dal 2001 che B. è il compare preferito di Putin. E da allora non ha fatto altro che lodarlo come uomo di pace, farci bisbocce nelle sue ville e nelle di lui dacie e asservirci vieppiù al gas russo: prima, durante e dopo l'assassinio Politkovskaja, l'invasione della Crimea, le mattanze in Cecenia, in Siria e in Ucraina.
Il tutto fra gli applausi della stampa di destra e nell'indifferenza di quella "indipendente" (per non parlare di Rep che pubblicava le veline a pagamento del Cremlino nell'inserto Russia Today). Anche il Pd, che ora cade dal pero e si straccia le vesti (anche per le cose vere dette dal fuori di testa nel fuorionda sui rischi mortali che ci fa correre la Nato e sugli otto anni di massacri ucraini in Donbass), era molto distratto: infatti con B. governò tre volte (Monti 2011, Letta 2014, Draghi 2021). Ad agosto, mentre cacciava Conte dal campo largo per lesa draghità e filoputinismo, Letta disse che invece "con Forza Italia abbiamo lavorato bene". […]
(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Noi supporteremo qualsiasi governo che abbia un chiaro approccio a favore dell'Ue, a favore dell'Ucraina e a favore dello Stato di diritto. Sono felice che Antonio Tajani sia qui, lui è la garanzia dell'atlantismo di Fi". Lo ha detto il capogruppo e presidente del Ppe Manfred Weber entrando al summit dei Popolari a Bruxelles.
(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Incontrerò Tajani, ho parlato con tutti i leader politici italiani e il mio messaggio all'Italia è restare nel cuore dell'Europa, non ho dubbi che lo faccia e sul suo atlantismo" nonché "sul suo supporto all'Ucraina". Lo ha detto la presidente del Pe Roberta Metsola prima di entrare al vertice del Ppe.
(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Le parole di Berlusconi non contribuiscono certamente all'unità del Ppe, ho capito che l'audio è stato una fuga di notizie, sarà importante capirne di più". Lo ha detto il premier croato Andrej Plenkovic, arrivando al summit dei Popolari a Bruxelles. Sul punto si è soffermato anche l'ex premier irlandese, Leo Varadkar: "Questo fatto è un problema, ne discuteremo, ho piena fiducia in Tajani", ha detto.
(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Conosco Tajani da molti anni, è un convinto europeista e convinto atlantista. E sono convinta che lavorerà per tenere l'Italia al centro dell'Europa". Lo ha detto al presidente dell'Eurocamera Roberta Metsola prima di entrare al summit del Ppe.
(ANSA il 20 ottobre 2022) - L'audio di Berlusconi? "Posso dire che il supporto del Ppe all'Ucraina resta ferreo". Lo ha detto il primo ministro lettone Krisjanis Karins arrivando al summit del Ppe.
(ANSA il 20 ottobre 2022) - "Da quello che sembra, sono convinto che la nuova premier italiana sarà più ragionevole di altri membri della maggioranza...". Lo ha detto il premier lussemburghese Xavier Bettel al suo arrivo al prevertice dei liberali di Renew Europa rispondendo ad una domanda circa le parole di Silvio Berlusconi sull'Ucraina e su Putin. "L'unità" europea nella risposta all'aggressione russa "è stata la nostra forza", ha evidenziato Bettel.
Anais Ginori per repubblica.it il 20 ottobre 2022.
"Non ci stancheremo mai di dire che Putin è un criminale di guerra". Le parole di Manfred Weber sconfessano Silvio Berlusconi e il suo "riavvicinamento" con il leader russo, con tanto di scambio di vodka e lambrusco.
"La Russia ha attaccato nuovamente Kiev con quasi trenta droni, uccidendo innocenti, tra cui una donna incinta", sottolinea il capogruppo del Ppe, di cui fa parte Forza Italia.
"Non passa giorno senza che Putin e il suo regime diano notizie terribili e menzogne" prosegue Weber, intervenendo nella plenaria di Strasburgo, dove il dibattito ha anche toccato le dichiarazioni del Cavaliere. "Putin deve perdere e l'Europa non smetterà mai di sostenere l'Ucraina. Mai. Questo messaggio ci unisce" aggiunge Weber, sancendo di fatto l'esclusione di Berlusconi dalla linea della destra europea di cui fa parte Forza Italia.
Le reazioni nel Ppe
La famiglia del Ppe deve correre ai ripari davanti alle nuove, imbarazzanti dichiarazioni che arrivano da Roma, aggravate dal nuovo attacco a Zelensky diffuso ieri attraverso un nuovo audio. "Penso che le parole di Berlusconi siano tristi per tutti gli europei che soffrono per la tirannia di Putin", commenta il vicepresidente dell'eurogruppo, il portoghese Paulo Rangel, che però le ridimensiona a "opinioni personali" e si appella al "ruolo di garanzia" svolto da Antonio Tajani.
D'altro avviso è un altro deputato del gruppo, l'estone Riho Terras, secondo il quale "è ora che il veterano della politica Berlusconi si ritiri". Il parlamentare polacco Andrzej Halicki è ancora più netto e lancia un invito al Cavaliere: "Rimandi la vodka a Putin che è un criminale di guerra e non un amico".
Il dono di una ventina di bottiglie arrivate da Mosca potrebbero anche, secondo la Commissione, comportare una violazione delle sanzioni che si applicano all'import di beni russi. "Nel quinto pacchetto di sanzioni abbiamo deciso di estendere il bando all'importazione di alcool, che include la vodka" ha spiegato la portavoce Arianna Podestà. "Chiaramente l'implementazione delle sanzioni è responsabilità degli Stati membri e la Commissione lavora con loro in tale implementazione".
La linea della Commissione Ue
Nello scrutare la tormentata formazione del nuovo governo italiano, con il filo putinismo degli alleati di Giorgia Meloni sempre più scoperto, da Bruxelles viene ribadita la linea della Commisione: piena condanna dell'aggressione illegale dell'Ucraina. "Gli Stati membri sono liberi di condurre contatti bilaterali come ritengono opportuno, rispettando però sempre la posizione politica dell'Ue e tra queste c'è il rispetto del diritto internazionale" conclude la portavoce.
Anche il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, ricorda: "La posizione dell'Ue è chiara: sosteniamo l'Ucraina, condanniamo la Russia e non accettiamo una guerra ingiustificata". Mentre la capogruppo dei socialisti e democratici europei, Iratxe Garcia Perez, esorta il Ppe a tagliare i legami "con gli amici di Putin, che violano i diritti umani e promuovono movimenti anti-sistema in Europa", la tensione è palpabile nella destra europea.
Berlusconi-Putin, amicizia imbarazzante
L'amicizia rivendicata del Cavaliere per il leader russo diventa sempre più imbarazzante per i vertici del Ppe. E non è un caso che nel giorno in cui si scopre un attacco di Berlusconi a Zelensky, il premio Sakharov sia stato attribuito dal parlamento dell'Ue al popolo ucraino e al leader di Kiev che dal 24 febbraio fronteggia l'aggressione russa. Una decisione annunciata dalla presidente del parlamento Roberta Metsola, dopo la conferenza dei presidenti dei gruppi in cui ha pesato il voto della destra europea decisa a respingere qualsiasi ambiguità nei confronti di Mosca.
Estratto dell'articolo di Micol Flammini per “il Foglio” il 20 ottobre 2022.
[…] Se fino a quel momento i compagni del Ppe erano quasi pronti a chiudere un occhio, le nuove dichiarazioni li hanno costretti a sbarrarli gli occhi, chi incredulo, chi preoccupato, chi furioso. Andreas Schwab, europarlamentare della Cdu, fa parte degli increduli.
L’eurodeputato racconta al Foglio che l’atmosfera in Ue nei confronti dell’esecutivo che deve ancora nascere è di sfiducia, ma lui non è d’accordo: “Devono avere la possibilità di lavorare, per questo mi astengo dal giudicare. Ma con Berlusconi è un’altra questione”.
Schwab dice di aver apprezzato il commento di un collega che “sosteneva che il presidente di FI avesse mandato lambrusco perché non voleva inviare a Putin il miglior vino italiano. Ecco, vorrei poter dire che abbia fatto la scelta del lambrusco perché in qualche modo nutriva dei dubbi sull’opportunità del gesto”.
E forse ci si sarebbe potuti anche fermare a questa battuta se non fossero arrivate le altre dichiarazioni. “Berlusconi non ha parlato per il Ppe in Italia, il partito a Roma ha un altro interlocutore: Antonio Tajani”, dice Schwab per rimarcare che tra i popolari c’è la convinzione che linea di Forza Italia sia diversa da quella di Berlusconi. “Il Ppe è dalla parte della libertà del popolo ucraino, come FI”. […] “Mi piacerebbe poter dire che quelle frasi siano state dette dopo aver bevuto una bottiglia di lambrusco. Ma non va bene, nessuno nel Ppe può condividere certe posizioni”, conclude Schwab.
Silvio Berlusconi, l'imbuto della democrazia italiana. Della "pacifica rivoluzione liberale" annunciata nei suoi governi non si hanno notizie. Né è stata realizzata alcuna riforma delle istituzioni. Assomiglia alla Wanna Marchi della politica italiana: un venditore di nulla a milioni di creduloni. VITTORIO FERLA su Il Quotidiano del Sud il 20 ottobre 2022
QUELLO in corso tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni può sembrare, banalmente, il più classico esempio di conflitto generazionale. Un leader anziano ma ancora influente grazie a un manipolo di seggi gioca le sue ultime carte per ostacolare l’ascesa della giovane concorrente che si candida a estrometterlo definitivamente dal suo piedistallo. Ma c’è qualcosa di più.
Silvio Berlusconi è da trent’anni il padre padrone della destra italiana. In virtù di questa primazia, è diventato anche il principale ostacolo allo sviluppo economico e culturale del paese.
Nel 1994 il fondatore di Forza Italia fa il salto in politica con la promessa della ‘rivoluzione liberale’. Nelle sue parole risuona l’eco della rivoluzione condotta dieci anni prima da Margaret Thatcher nel Regno Unito. Durante gli anni 80, il governo conservatore britannico aveva privatizzato la maggior parte delle imprese pubbliche, aveva ridotto drasticamente tasse e spesa pubblica e aveva realizzato un massiccio programma di deregolamentazione del mercato del lavoro e dei servizi finanziari. Thatcher riuscì a resistere per un anno intero allo sciopero dei minatori che si opponevano alla privatizzazione e alla chiusura delle miniere di stato.
E in Italia? Della “pacifica rivoluzione liberale” annunciata da Berlusconi non si hanno notizie. L’obiettivo del capo di Forza Italia è banale: impedire allo Stato di entrare “nella vita privata dei cittadini”. In pratica, dice Berlusconi, lo stato “non ci può chiedere di togliere dai bilanci personali più di un terzo del totale. È un furto se lo stato chiede più della metà. Diventa un’estorsione se chiede più del 60%”. Questa rivoluzione “si può fare solo modificando la struttura dello stato”. La verità è che non se ne fa nulla. Il Cavaliere salva il suo patrimonio personale, ma la pressione fiscale italiana rimane tra le più alte d’Europa.
Né è stata realizzata alcuna riforma delle istituzioni. Nel 1997, la terza Commissione bicamerale per le riforme, frutto del patto tra D’Alema e Berlusconi, prefigura un sistema semipresidenziale ispirato a quello francese con la revisione delle competenze legislative delle due Camere. Dopo aver trovato pure l’accordo sulla riforma elettorale a casa di Gianni Letta (il famigerato ‘patto della crostata’), tutto precipita per il voltafaccia di Silvio Berlusconi. Insomma, dopo decenni di false promesse di liberalismo e di riforme, più che alla lady di ferro Margaret Thatcher, Berlusconi assomiglia, in tutta la sua negativa grandezza, come la Wanna Marchi della politica italiana: un venditore di nulla a milioni di creduloni.
Ma non finisce qui. Le conseguenze delle mancate riforme, sia economiche che istituzionali, appaiono in tutta la loro gravità appena l’Italia deve affrontare le crisi economiche internazionali. Il 4 agosto 2011 lo spread tra BTP-Bund decennali tocca i 389 punti, nell’ambito della crisi finanziaria globale del 2007 e della successiva crisi strutturale italiana del 2011. Così, l’immobilismo conservatore dell’ultimo governo Berlusconi diventa un prezzo troppo alto da pagare per il nostro paese.
Il 5 agosto 2011, al culmine di una drammatica crisi delle borse europee e di un forte ampliamento del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi, il governatore uscente della Banca centrale europea, Jean Claude Trichet, e quello in pectore, Mario Draghi, scrivono una lettera riservata al governo italiano, indicando una serie di misure da attuarsi al più presto. All’ottemperanza di tali misure viene implicitamente condizionato il sostegno della Bce, attuato attraverso l’acquisto massiccio di titoli di Stato italiani. Sappiamo com’è finita. Il terremoto finanziario globale colpisce l’economia italiana. L’inazione del governo Berlusconi e la perdita di credibilità fa sprofondare l’Italia in un abisso (differenziale dello spread BTp-Bund oltre i 550 punti e titoli pubblici biennali al tasso del 7,25%). Il risparmio degli italiani rischia di andare in malora. Berlusconi diventa un tappo che bisogna far saltare per consentire l’intervento di un governo di emergenza nazionale.
Nonostante il totale fallimento politico e i numerosi guai giudiziari, Silvio Berlusconi si inabissa, ma resiste per dieci anni. E quest’anno ritorna in quell’aula parlamentare dalla quale era stato interdetto. Nel frattempo, molte cose sono cambiate. Tra queste, per esempio, i rapporti di forza tra i diversi partner della coalizione di centrodestra e il rapporto della Russia con l’Europa. Vladimir Putin si rivela per quello che è sempre stato: un despota, refrattario al diritto internazionale e nemico dei valori di libertà dell’Occidente. Così, l’ammirazione e l’amicizia di Berlusconi nei confronti del capo del Cremlino – nate quando il Cav era presidente del consiglio e sospette già da allora – devono essere rilette sotto una nuova luce.
L’atteggiamento del Cavaliere verso lo ‘Zar’ non è – non è mai stato – quello appropriato di un leader liberale e popolare. Popolare, nel senso di membro della famiglia del Partito popolare europeo, erede della tradizione degasperiana. Piuttosto, quella di Berlusconi si rivela oggi sempre meglio come l’attrazione (e, quasi, l’invidia) di un leader populista italiano per un suo omologo più fortunato di lui, in quanto sciolto dai lacci e lacciuoli della democrazia liberale. Le “dolcissime” parole che i due compari si scambiano in questi giorni – con il capo di Forza Italia che denigra la resistenza di Volodymyr Zelensky e ripropone la resa dell’Ucraina alla volontà di potenza del despota di Mosca come unica soluzione alla guerra – ricacciano di nuovo l’Italia indietro di anni. In un colpo solo, Berlusconi spegne i lumi del governo di Mario Draghi, capace di ridare uno standing autorevole al nostro paese. Mentre l’Italia ripiomba nelle tenebre del discredito e del sospetto internazionali.
Dall’altra parte, nonostante la zavorra di una serie di limiti politici e culturali, Giorgia Meloni sta tentando di ricostruire la sua immagine affinché diventi accettabile dai governi dei paesi europei e degli alleati atlantici. La sua posizione sulla guerra in Ucraina è netta: condanna dell’aggressione russa, sostegno al governo di Kiev, solidarietà con le democrazie occidentali, riconferma degli impegni atlantici. Lo sforzo di costruire un esecutivo ispirato alle logiche del buon governo, della competenza e del buon senso vanno apprezzate. L’insieme di questi elementi segnala un tentativo di uscire dal ghetto del populismo di destra più bieco e di intraprendere la strada di un conservatorismo compatibile con il quadro delle alleanze con gli Stati Uniti e con i paesi membri della Unione europea.
Silvio Berlusconi avrebbe l’ennesima occasione per favorire l’evoluzione politico-culturale della destra italiana, accompagnando il processo in corso dentro Fratelli d’Italia, e per non disperdere il patrimonio di credibilità accumulato dal nostro paese durante la breve parentesi del governo uscente. E invece che fa? Sceglie, ancora una volta, di fare il tappo della democrazia italiana, impedendone una positiva evoluzione. Forse, oggi, i “pupazzi prezzolati” svergognati da Mario Draghi hanno finalmente un nome.
Berlusconi-Putin: la dacia, il cuore di cervo. Silvio e il caro «Volodya», quell’attrazione fatale. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022
Il legame ventennale che unisce il Cavaliere Silvio Berlusconi con il leader russo Vladimir Putin
Come nelle favole, si narra a un certo punto addirittura di un cuore di cervo in dono. Tra Silvio e «Volodya», quei due. E insomma è una specie di attrazione fatale: mai spiegata appieno né dalla politica politicante né dagli affari segreti e presunti che pure insospettirono molto il Dipartimento di Stato americano al tempo di Hillary Clinton.
Del resto, per Berlusconi la via più breve tra due punti non è la retta ma il salto mortale: sicché era ineludibile la fascinazione per un maestro della specialità come Vladimir Putin, balzato via Kgb da una sgarrupata kommunalka di Leningrado ai fasti da satrapo del Cremlino. E per l’ex criminale di strada (parole di una delle sue vittime, l’oligarca Mikhail Khodorkovsky) doveva essere irresistibile la malia di un signore italico dalla «coreografia medicea» quale è il Cavaliere, non potendo coglierne il tratto da nouveau riche che tanto fa arricciare il naso ai democratici nostrani e ai loro intellettuali di complemento.
Il resto è razionalità o elogio della follia, dipende dai punti di vista. Nel nuovo eppure eterno putinismo di Berlusconi, fatto di scambi vodka-lambrusco e dolcissime parole, ci sono ragioni forse interne, regolamenti di conti in ciò che resta di Forza Italia: ad usum Ronzulli, per dire, perché Tajani intenda e magari inciampi sulla via della Farnesina. Ma ci sono conseguenze esterne, assai gravi per il governo di Giorgia Meloni che verrà: Tass e Ria Novosti fanno già festa rilanciando le frasi al miele del nostro antico premier sul dittatore moscovita, «amante della pace», con tanti saluti a Zelensky, all’America e alla nostra postura internazionale dell’era di Mario Draghi. Imputare le esternazioni all’età è, oltre che un po’ canagliesco, pure improvvido, perché sempre Berlusconi ha straparlato, a sessanta come a ottantasei anni, sempre mirando però in ogni fuor d’opera a un bersaglio preciso, studiato.
Qui due sfere s’intersecano, come sempre è stato nelle sue relazioni, fatti suoi e fatti nostri, fino a diventare la stessa cosa. Galeotta fu Pratica di Mare, il trattato del 2002 che Silvio rivendica come una Yalta del nuovo millennio, avendo messo attorno a un tavolo un Bush Junior annichilito dall’11 settembre e un Putin ancora stordito dalla vertiginosa caduta della madre Russia a rango di mendicante: ciascuno vedeva nell’altro una scialuppa di salvataggio e il premier italiano si preoccupò di apparecchiarne il desco. Erano i tempi, oggi fantascientifici, in cui il Cavaliere immaginava una Russia nell’Unione europea, «la sua posizione naturale accanto alle democrazie occidentali» (sic): certo non potendo scrutare il buio nell’anima dell’amico Volodya che dall’infanzia portava con sé il ricordo di quel ratto di Leningrado il quale, sentendosi messo all’angolo, gli saltò al collo come una tigre. Putin si è sempre sentito quel ratto, in fondo. E tuttavia l’incontro con Berlusconi ne ha a lungo ammansito la ferocia, è innegabile. Per amore o per soldi.
I due si sono scambiati per vent’anni così tanti ammiccamenti e regalini zuccherosi che, non fossero due maschi affetti da machismo conclamato, farebbero sollevare il sopracciglio al nostro nuovo presidente della Camera. E invece. Eccoli nella dacia di Valdaj assieme a uno che non passava per caso, l’ex cancelliere tedesco Schroeder, presidente pagato a peso d’oro del Consorzio North Stream: ad allietarli, le ragazze dell’Armia Putina, l’Armata di Putin, camicia bianca e slip, torta cioccolato e panna, roba che le Olgettine sarebbero apparse Orsoline. Eccoli a tracannare vino che a noi servirebbe un mutuo per annusarlo. Silvio che dona a Volodya un piumone con la foto di loro due. Putin che ricambia con il lettone reso poi celebre da Patrizia D’Addario. Silvio che spiega urbi et orbi come Volodya sia «un dono del Signore alla Russia». E l’amico che lo difende quando in Italia montano gli scandali: «Fosse gay non lo toccherebbero, è sotto processo per invidia, perché vive con le donne…». Insomma, l’intesa è tale da far superare al nostro «Unto dal Signore» qualsiasi gelosia verso l’amato autocrate che annovera addirittura nella regione di Nizhny Novgorod una setta da cui è venerato quale reincarnazione di San Paolo.
Il dubbio che sotto tanta melassa ci sia ben altro balena nella testa della segretaria di Stato americana Hillary Clinton nel 2009, quando chiede ai suoi ambasciatori «quali investimenti hanno fatto i due che possano in qualche modo guidare le loro scelte politiche ed economiche». Agli atti c’è già lo strabiliante caso di un amico di Berlusconi esperto in acque minerali ma arrivato a un passo dall’intermediare affari miliardari col colosso energetico russo Gazprom nel 2005, il sospetto (mai provato) di affari comuni in Kazakistan, la sponda italiana nella spoliazione degli asset della Yukos, la compagnia di Khodorkovsky rivale di Gazprom. Di certo quelli sono gli anni in cui la nostra dipendenza energetica da Mosca s’impenna. Conosciamo tramite Wikileaks i devastanti cable spediti nel 2010 a Washington dall’ambasciatore a Roma, Reginald Spogli: «La voglia del primo ministro Berlusconi di essere percepito come un importante giocatore europeo in politica estera» sta portando l’Italia a «sostenere gli sforzi russi di danneggiare la Nato (…). Il suo preponderante desiderio è rimanere nelle grazie di Putin e ha frequentemente dato voce a opinioni e dichiarazioni che gli sono state passate direttamente da Putin».
Parole gravi. Che prescindono tuttavia dall’italico genius loci, incomprensibile al candore degli americani: la machiavellica doppiezza, nostra unica speranza in questo pantano. Putin regalò il famoso cuore di cervo ancora grondante di sangue a Silvio, dopo averlo strappato dal petto della povera bestia uccisa in una partita di caccia a due, solo loro, senza scorta: «Per te, amico mio». Pare che il nostro eroe inorridito, al sentiero dopo, lo gettò non visto nel primo cespuglio. Alla fine, non si sa per conto di chi o di cosa, lui li frega sempre, o così si spera. Citofonare Gheddafi.
La manina. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 20 ottobre 2022.
Il giallo della non gelida manina che ha diffuso gli audio delle putinate di Berlusconi è già risolto. Sono stato io. Anzi, un po’ tutti. Ma davvero, nell’era degli smartphone, esiste ancora qualcuno che, entrando in contatto con qualcosa di interessante, non schiaccia subito il tasto «inoltra» per inviarlo a un amico? Naturalmente a uno solo, e con la promessa che non lo giri a nessun altro: le stesse regole d’ingaggio con cui l’amico lo girerà a qualcun altro. Fa sorridere questa ricerca spasmodica del colpevole, utilissima a spostare l’attenzione dalle cose che Berlusconi ha detto (e che peraltro aveva già anticipato da Vespa poche settimane prima). «Perché mai un parlamentare di Forza Italia avrebbe dovuto mandare in circolo le esternazioni filorusse del Capo?» si domandano i complottisti. Ma per la stessa umanissima ragione per cui il Capo le aveva pronunciate: illudersi di essere al centro del mondo. Berlusconi non ha esaltato Putin per far cacciare la Meloni dalla Nato, ma per far sapere a tutti che lui è il miglior amico del leader più temuto del momento. Anche «la manina» ha ragionato allo stesso modo: voleva che tutti sapessero che era lei la depositaria dei segreti di Berlusconi. Dovremmo dunque concludere che, più ancora dei soldi, degli interessi e delle passioni, è il narcisismo a muovere il mondo?
Sì. Ormai l’unico modo per non dire una cosa è non pensarla, perché appena la pensi ti viene voglia di dirla. E, appena la ascolti, di condividerla con qualcuno.
Cameriere, lambrusco! I social ci hanno privato della capacità, che già era deficitaria, di considerare i contesti (e Berlusconi). Guia Soncini su L'Inkiesta il 21 ottobre 2022
È mai possibile che ci voglia Tajani per ricordarci che se Silvio la spara grossa, anche sul vino regalato a Putin, non va preso alla lettera?
Se vivi abbastanza a lungo, ti ritrovi a dar ragione a Tajani. Se te l’avessero detto quando avevi poco più di vent’anni – e Antonio Tajani era il portavoce di Berlusconi, che a vent’anni ti sembrava il principale problema di questa derelitta nazione – avresti riso fortissimo.
Ho già scritto di avere opinioni che non condivido: in me convivono una tossica delle intercettazioni che legge con bramosia un po’ tutto ciò che non era stato detto per venire ascoltato dal pubblico – da Carlo e Camilla a Falchi e Ricucci – e una moralista che sa che se ti mancano il tono e il contesto e i rapporti tra gli interlocutori non potrai che equivocare ciò che ascolti e leggi e che non era stato detto perché tu lo ascoltassi e lo leggessi.
Quindi in questi giorni sono scissa tra me stessa e Tajani. Me stessa è quella che ascolta con voluttà Berlusconi che racconta d’aver mandato a Putin del lambrusco (quello in offerta al Carrefour a cinque euro e 99, spero), nei monologhi registrati a una riunione di Forza Italia e pubblicati da un’agenzia di stampa. Tajani è quello che fa un tweet che tutti giudicano imbarazzato, e io valuto sia un trattato sul mondo che abitiamo: un mondo in cui tutto l’inedito diventa prima o poi edito, in cui tutti hanno in tasca telecamere e registratori e tutto ciò che dovrebbe essere privato diventa presto o tardi pubblico.
Il tweet di Tajani era questo: «Domani sarò al Summit del @epp per confermare la posizione europeista, filoatlantica e di pieno sostegno all’Ucraina mia e di @forza_italia. In tutte le sedi istituzionali non è mai mancato il nostro voto a favore della libertà e contro l’invasione russa». Vi consiglio di annotarvelo, «in tutte le sedi istituzionali», perché un giorno o l’altro a tutti noi toccherà usarlo come linea di difesa.
Al telefono col tuo amante devi essere impeccabile quanto in diretta sulla Bbc? Conta quel che diciamo a cena o quel che diciamo in parlamento? (Ora mi diranno che era una riunione di partito, mica una cena o una telefonata con l’amante: è faticosissimo scrivere per lettori determinatissimi a non capire mai niente).
Una sera della settimana scorsa ho discusso per lunghi quarti d’ora con un elettore di sinistra davvero convinto che esista il pericolo fascista (è circa la sessantesima volta che ne è convinto negli ultimi trent’anni). Era parecchio su di giri, e continuava ad accusare me e altri di non capire la deriva autoritaria e il fatto che la democrazia sia a rischio. Tuttavia persino lui – molto meno scettico di noialtri convinti di vivere in un posto troppo cialtrone per riuscire ad accroccare una dittatura – a un certo punto è sbottato, ha smesso il tono che avrebbe tenuto in diretta televisiva o in sede istituzionale, e ha detto quel che si dice nelle cene private: «Questi sono talmente stronzi che neanche ci faranno la flat tax».
Anche questo l’ho già scritto (prendetevela con la cronaca, che mi costringe a ripetermi): non c’è convinto elettore di sinistra – tra quelli che frequento io: benestanti – che non si sia preparato alla vittoria della destra rallegrandosi perché almeno ci avrebbe guadagnato la flat tax. Lo direbbero in un’intervista? Certo che no. Potrei io pubblicare gli audio delle cene e sputtanarli? Certo che sì. Verrei, in questo caso, considerata una cafona che non sa valutare i contesti e i toni? Probabilmente no: è sempre più scivoloso il confine tra maleducazione e schienadrittismo, in un posto che quanto a giornalismo è sempre stato così scarso da, quando è arrivato il Gabibbo, scambiarlo agevolmente per Carl Bernstein.
I social questa incapacità di considerare i contesti l’hanno peggiorata. Me ne sono ricordata di recente, a causa di una polemica su Roman Polanski. Sua moglie, Emmanuelle Seigner, ha dato un’intervista in cui ha detto che suo marito non aveva nessun bisogno di stuprare: c’era la fila di donne disposte a dargliela. «La fila» mi ha ricordato il tweet che fece di me lo scandale du jour per tre quarti d’ora nell’autunno 2017.
Il tweet faceva così: «Sogno un pezzo su Weinstein d’una sola riga: quello sarà un vecchio porco, ma voi gliela tiravate con la fionda, finché pensavate servisse». Essendo un tweet, non approfondiva tutto quel che si sarebbe potuto approfondire: che, come sa chiunque andasse ai festival cinematografici negli anni Novanta, le stanze d’albergo di Weinstein erano più assediate di quelle degli attori bellocci; e che quindi, a voler fare un’indagine sociale, non si possa che partire da lì: perché uno con la fila di ragazze disponibili si riduca a violentare le indisponibili, e quanto il condizionamento sociale del MeToo abbia poi indotto anche le già disponibili a urlare tardivamente allo stupratore.
Negli anni successivi qualche articolo che indagava la scivolosità del consenso nel caso Weinstein è uscito, ma in quelle settimane si poteva scrivere solo che quello era un porco schifoso e le donne ontologicamente tutte vittime sempre.
Qualche settimana dopo quel tweet, pubblicai sul New York Times un editoriale sui limiti del femminismo italiano. Fu allora che Asia Argento (vi ricordate il quarto d’ora in cui Asia Argento fu guida morale della nazione? Che tempi meravigliosi abbiamo attraversato) e i suoi accoliti, indignati per il mio tweet, chiesero al NYT di ritirare il mio articolo. Ma non è della meravigliosa ipotesi che un giornale americano facesse ritirare le copie dalle edicole e dicesse «Scusateci, la persona di cui abbiamo pubblicato un’opinione non ha diritto ad avere un’opinione», che voglio parlare ora.
È dell’indignazione con cui un assortimento di Vongola75 mi scriveva «ora non vorrai cavartela dicendo che era una battuta». E cosa ti sembrava, di grazia? Un discorso alla nazione? Una lettera d’amore? Una proposta di legge? Quand’è stato che abbiamo smesso di riconoscere i registri lessicali e i contesti? È su Twitter: certo che è una battuta.
Com’è successo che ci voglia Tajani per ricordarci che uno divenuto famoso per l’arte dello spararla grossa, se racconta ai suoi accoliti di aver mandato a Putin il lambrusco (all’apposita casella postale in cui Putin riceve gli omaggi, immagino), non va preso proprio proprio alla lettera? Quand’è che ha cominciato a contare la tua privata eccitazione per la flat tax, e non il fatto che tu al seggio elettorale, e nei posizionamenti pubblici, e negli editoriali che scrivi, stia dalla parte opposta? È successo prima o dopo che cominciassimo a rinfacciare alla Meloni di non essere sposata come si vorrebbe da una devota cristiana? Siamo proprio sicuri che questo faccia di noi gente seria e coerente, e non la polizia morale?
Da liberoquotidiano.it il 20 Ottobre 2022
Silvio Berlusconi ha un piano in testa. Ne è convinto Vittorio Feltri, che in collegamento con Myrta Merlino a L'aria che tira, a La7, dà la sua lettura su quanto accaduto nelle ultime ore. Gli audio rubati al leader di Forza Italia nel corso dell'incontro con i deputati azzurri a Montecitorio, con le parole pesanti su Putin, Russia, Ucraina e Zelensky, risponderebbero a un disegno ben preciso.
In studio dalla Merlino Goffredo Buccini del Corriere della Sera anticipa il tema: "Berlusconi mira sempre a qualcosa, dietro all'ammuina tiene sempre grande sostanza, non poteva non sapere che su 45 persone e assistenti uno che accenda il cellulare è molto difficile non trovarlo", insinua il cronista politico. E Feltri va dritto al punto: "Berlusconi non è cretino, si è accorto che sui ministri non tocca palla e ha deciso di puntare a qualcosa di più grande".
Cosa? Diventare l'uomo della pace, "una impresa che lo trasformerebbe non in eroe dell'Italia ma eroe del mondo", chiosa Feltri. "Mi sono giunte notizie in questo senso", spiega Feltri: Berlusconi avrebbe intenzione di volare a Mosca e diventare il mediatore con Vladimir Putin, per convincerlo a siglare perlomeno una tregua con Volodymyr Zelensky. Da qui, il sospetto delle sue uscite particolarmente spericolate sulla guerra in Ucraina e i giudizi morbidi sul capo del Cremlino.
Una posizione che non sarebbe dettata solo dalla vecchia amicizia personale. "Sì ma a nome di chi lo farebbe?", chiede Buccini. "A nome di se stesso, è chiaro", conclude il ragionamento Feltri. E le parole del Cav ricordate da Vittorio Sgarbi, "sarei il miglior ministro degli Esteri possibile", suonano oggi tutt'altro che una boutade.
STORIA DELLA «STRANA COPPIA». Berlusconi e Putin, un audio d’amore durato vent’anni. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 20 ottobre 2022
Non ci sono solo le registrazioni uscite in questi giorni: per tutta la campagna elettorale Berlusconi ha difeso il suo amico Putin e accusato gli ucraini di aver provocato la Russia.
Non è una sorpresa per chi conosce la relazione tra i due: dopo essersi conosciuti al G8 di Genova tra loro è nata un’amicizia personale che ha avuto spesso conseguenze politiche.
È una relazione che nessuna invasione o crimine di guerra sembra poter intaccare: Berlusconi associa a Putin quello che considera il più alto momento della sua carriera politica e questo ha creato tra loro un legame indissolubile.
La pubblicazione degli audio in cui Berlusconi parla in toni amichevoli di Vladimir Putin e accusa il presidente Volodymyr Zelensky di aver provocato l’invasione del suo paese ha suscitato commenti di indignato stupore. È difficile distinguere quanto siano sentimenti genuini e quanto siano dettati dal tentativo di parte di Giorgia Meloni di costringere il suo riottoso partner di coalizione a una serie di umilianti passi indietro.
Ad esempio, sembra che in molti dalle parti di Fratelli d’Italia abbiano dimenticato che il 22 settembre, tre giorni prima del voto, Berlusconi diceva a Porta a porta più o meno le stesse cose riportate negli audio carpiti: Putin avrebbe lanciato l’attacco dopo essere stato informato da una delegazione del Donbass degli attacchi ordinati da Zelensky che avevano causato «16mila morti». La verità è fino ad che Berlusconi non ha mai nascosto la sua ventennale “relazione speciale” con il presidente russo Putin – e fino ad oggi gran parte dei suoi alleati non ha avuto nulla da eccepire.
DALLA PARTE DELL’AGGRESSORE
Berlusconi ha sempre avuto difficoltà a criticare Putin, non importa quanto criminali fossero le sue azioni. Dopo l’invasione dell’Ucraina, ad esempio, ha trascorso 38 giorni giorni in silenzio prima di condannare «la criminale aggressione russa» senza mai nominare suo vecchio amico. C’è voluta la scoperta delle fosse comuni di Bucha per fargli dire di essere «profondamente deluso» dal comportamento di Putin.
In poche settimane, però, è tornato sui suoi passi. A metà maggio, già parlava dei rischi economici delle sanzioni, accusava Stati Uniti ed Europa di intransigenza e l’Italia di essere di fatto entrata in guerra fornendo armi all’Ucraina. Per il resto dell’estate Berlusconi ha continuato a chiedere la pace, in termini altrettanto espliciti di qualsiasi “putinista” inserito nelle famigerate liste pubblicate dai giornali. A maggio, ad esempio, diceva che bisognava «far accogliere agli ucraini le domande di Putin».
È lo stesso canovaccio che Berlusconi ripeteva nel 2014, durante la prima invasione dell’Ucraina. In quell’occasione, Berlusconi è volato nella regione recentemente annessa della Crimea e ha festeggiato il colpo di mano bevendo insieme a Putin una bottiglia di vino vecchia di 260 anni considerata dagli ucraini patrimonio nazionale.
Ancora prima, nel 2008, era stata la Georgia aggredita dalla Russia a ricevere questo trattamento. In quell’occasione, il ministro degli Esteri del suo governo, Franco Frattini, aveva pronunciato la memorabile frase: «Noi diciamo cessate il fuoco subito, integrità territoriale della Georgia, ma diciamo anche rifiuto delle armi per difendere l'integrità territoriale».
«LA STRANA COPPIA»
Berlusconi si schiera da sempre con la Russia per via del suo fiuto per la politica interna, ci sono molti più italiani scettici sulla posizione ufficiale sulla guerra di partiti che li rappresentano, per ragioni di realpolitik internazionale, che vanno dalle forniture energetiche agli effetti delle sanzioni sulle imprese italiane, ma almeno ci sono almeno altrettante ragioni umanissime e personali.
Nel 2015, dopo aver intervistato Putin, Berlusconi e una serie di loro importanti collaboratori, il giornalista Alan Friedman li ha battezzati «la strana coppia»: l’imprenditore playboy e l’austero ex agente del Kgb (nel frattempo, la scoperta dei giganteschi palazzi che Putin si è fatto costruire hanno rivelato che forse i due hanno in comune anche il gusto per gli eccessi kitsch).
Nella sua biografia di Berlusconi, Friedman scrive che i due si sono incontrati per la prima volta al G8 di Genova nel 2001. Già nel 1994 Berlusconi si era dimostrato uno dei leader europei più filo-russi, un orientamento che non dispiaceva affatto alla diplomazia italiana. Il nostro paese ha una lunga tradizione italiana di collaborazione con l’Unione sovietica (nella città russa di Togliatti c’è ancora l’impianto costruito dalla Fiat negli anni Settanta) che dopo la caduta del muro di Berlino si è trasformata nell’asse italo-tedesco per una maggiore integrazione internazionale della Russia in cambio di forniture di energia a buon prezzo. Ma a Genova nel 2001 gli interessi nazionali si sono mischiati con l’amicizia personale. In 19 mesi tra 2001 e 2003, Friedman ha contato otto incontro tra i due, a cui si aggiungono le vacanze delle figlie di Putin a Villa Certosa e la tradizione dello scambio di regali in occasione dei reciproci compleanni (distanti solo un paio di settimane) che, come confermano i famigerati audio, è proseguita anche quest’anno.
Il culmine dell’amicizia tra i due è l’ormai mitologico incontro nella base militare romane di Pratica di Mare, dove Berlusconi ha fatto incontrare Putin con George W. Bush in occasione del primo storico accordo di collaborazione tra Nato e Russia. Come Berlusconi ha ripetuto un numero ormai incalcolabile di volte, quell’incontro simboleggerebbe la fine di cinquant’anni di Guerra fredda. Più modestamente, gli storici lo ritengono il punto più alto raggiunto nelle relazioni tra Russia e Nato, quando sembrava se non probabile, almeno possibile l’ingresso della Russia nella Nato. La storia poi, come sappiamo, ha preso un altro corso.
Ma per Berlusconi, quel momento non è mai finito. «Di tutte le cose che ho fatto nella mia vita, questa è probabilmente quella di cui sono più orgoglioso», ha raccontato Berlusconi a Friedman. E questa è probabilmente la chiave di tutta la storia. Le fondamenta della strana coppia non affondano nella geopolitica o nella realpolitik, nemmeno nei loschi affari o nei party selvaggi insinuati dai messaggi dei diplomatici americani rivelati da Wikileaks. Non è chiaro nemmeno quanto davvero il rapporto sia reciproco se è vero quanto raccontato da Berlusconi, ossia che da febbraio Putin non gli ha mai risposto al telefono nonostante molteplici tentativi. Probabilmente, alla base del rapporto c’è la più grande ossessione di Berlusconi: sé stesso. E di fronte a questo, non ci sono Meloni, governi, Nato o ucraina che tengano.
DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.
Concetto Vecchio per repubblica.it il 21 Ottobre 2022
Paolo Guzzanti, ha capito quale è il disegno di Berlusconi?
"Azzoppare Giorgia Meloni direi".
Ma non devono fare il governo insieme?
"Non è detto".
Come non è detto?
"Meloni, con l'elezione di La Russa, ha dimostrato che può fare a meno dei voti di Forza Italia".
Pensa a un'altra maggioranza?
"Più in là potrebbe accadere. C'è una riserva indiana pronta a correre in soccorso".
E Berlusconi?
"Non è disposto ad inghiottire un simile rospo. Perdipiù lei gli ride in faccia".
Quanto possono durare?
"Non avranno vita lunga. Il governo nasce morto o gravemente malato. È già pieno di rancori".
Oggi sono tutti al Quirinale
"I ministri decisivi alla fine li suggerirà Mattarella".
Lei Berlusconi lo conosce bene.
"Non sono mai stato uno del suo cerchio magico, ma mi considero un suo amico. Ho fatto il parlamentare del Pdl e scritto un libro intervista Guzzanti vs Berlusconi.
L'anno prima dell'uscita di quel libro avevo però lasciato Forza Italia".
Perché?
"Nel 2008 Putin invase la Georgia. Il Cavaliere ci riunì nella sala del Mappamondo e disse che "Putin avrebbe attaccato per le palle il presidente georgiano"".
E lei?
"Gli spiegai che ero sconvolto. Da presidente della Mitrokhin ero stato attaccato dai russi. "Guarda che Vladimir è un uomo dolcissimo", mi disse lui". (Guzzanti imita la voce di Berlusconi)
Nell'audio dice che Putin gli ha scritto una lettera dolcissima.
"Ha usato lo stesso aggettivo di allora. Non dubito della sua sincerità emotiva".
Politicamente non è devastante?
"Mette una zeppa sul cammino della Meloni, per renderle difficile la vita".
Ma perché?
"Penso che lui si sia sentito offeso che lei non abbia accettato i suoi ministri".
Non è stupito dell'audio?
"Ma no, è un canone della sua comunicazione: lui sa bene che poi esce fuori. Escludo che sia stato un incidente".
Cosa glielo fa dire?
"La psicologia di Berlusconi mira all'approvazione anche da un punto di vista emotivo, così ottiene un grande ascolto e ruba la scen a tutti".
Bisogna fare ancora i conti con lui?
"Quante volte è stato scritto che il berlusconismo è morto? Ed eccolo ancora in prima pagina".
Però Forza Italia può stare al governo?
"Lui si fa forte del fatto che ha sempre votato i provvedimenti pro Ucraina".
Berlusconi soffre il decisionismo di Meloni?
"Si capisce. La volle nel suo governo quando lei era una ragazza. C'è anche l'elemento dell'ingratitudine".
Sono compatibili?
"Meloni discende dalla destra sociale, è una statalista, non ha nulla di liberale".
Berlusconi lo è?
"Si vanta di averli tolti dalla polvere. È geloso di un patrimonio ideologico ed elettorale svanito. Gli brucia ancora l'esclusione dal Parlamento nove anni fa".
È una ferita aperta?
"Sì, lo vedo dalle espressioni del viso".
Sull'Ucraina ha taciuto per mesi.
"Poi ha rotto il silenzio affermando che nel 2008 sconsigliò Putin di aggredire l'Ossezia. Era un modo per dire: se mi avessero coinvolto lo avrei dissuaso anche stavolta".
Berlusconi è in affari con Putin?
"Quando ruppi divenni molto popolare coi georgiani, loro erano convinti che fosse in affari con Putin sul gas. Provarono ad indagare ma non trovarono niente".
È ricattabile, insinua Meloni.
"I tempi del lettone e di Silvio col colbacco mi sembrano finiti".
Perché l'ha detto?
"Andrebbe chiesto a lei, che però si guarda bene dal dirlo. Perché non spiega a cosa allude?".
Il caso degli audio del Cav. Cosa accadde con la commissione Mitrokhin: quando ruppi con Berlusconi per l’amicizia con Putin. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 20 Ottobre 2022
Di questo passo in Italia non si farà alcun governo e in mancanza di altre maggioranze andremo a votare a gennaio. Intanto, le dichiarazioni di Berlusconi che hanno fatto trasalire molti e con grande risonanza in Europa e nel mondo, disegnano un quadro politico e non delle esuberanze inopportune. Berlusconi irrompe sulla scena mediatica parlando dell’amico recuperato Putin e poi subito dopo dichiarandosi pubblico nemico del presidente ucraino Zelensky in un momento particolare e drammatico della guerra in Ucraina, e cioè quando si accredita la voce specialmente presso i servizi di intelligence inglese, che Putin starebbe seriamente pensando ad una esplosione atomica dimostrativa nelle acque del Mare nero usando un ordigno a bassa intensità fatto brillare allo scopo di mettere il fronte occidentale di fronte all’alternativa di una guerra totale.
Ieri, Berlusconi ha messo in onda il secondo tempo delle sue opinioni spiegando la sua assoluta disistima per il presidente ucraino Zelensky, del tutto colpevole di aver provocato le giuste reazioni di Putin, in difesa dei russofoni del Donbass che si dicevano perseguitati. Naturalmente queste parole oltre ad aver fatto un grandissimo clamore sull’opinione pubblica sia italiana che europea, determinano un evento politico che è sotto gli occhi di tutti: uno dei tre componenti dell’alleanza è schierato in politica estera dalla parte opposta a quella maggioritaria di una Meloni atlantica, e non in un momento di stasi della guerra, ma quando si profila la possibilità di una escalation militare.
Io ho un’esperienza personale e unica, da quando nel 2002 proprio mentre il Parlamento approvava la legge che istituiva la Commissione Mitrokhin di cui sarei stato eletto presidente, il capo del governo Silvio Berlusconi inaugurò l’eccezionale rapporto con il presidente Vladimir Putin, ex tenente colonnello del KGB di stanza a Dresda nell’allora Repubblica democratica tedesca. Fu l’anno del celebrato incontro di Pratica di Mare con Berlusconi, come il Dio romano Giano, a stringere le mani del presidente americano George Bush e di quello russo Putin dichiarando chiusa la guerra fredda. Ciò che forse Berlusconi ignorava, o forse lo seppe quando ormai non c’era nulla da fare, è che Putin odiava la commissione Mitrokhin perché non tollerava che qualcuno all’estero, per non dire in patria, investigasse su ciò che la polizia segreta sovietica aveva combinato sia all’estero che in Russia.
Da allora cominciò una sofferenza pesantissima nella commissione perché arrivavano continui messaggi sotto forma di articoli dei giornali russi riciclati su insospettabili giornali italiani in cui una commissione del Parlamento della Repubblica veniva dileggiata, additata al disprezzo insieme al suo presidente e ai più attivi dei quaranta commissari che rappresentavano tutti i partiti in Parlamento. Putin era furioso e mandava messaggi rabbiosi in tutti i modi possibili perseguitando alcuni amici russi fuggiti a Londra che si preoccupavano delle sorti della nostra commissione. Il più importante di tutti fu Alexander Litvinenko anche lui ex tenente colonnello del KGB e per un breve periodo di tempo collega d’ufficio del suo parigrado Putin. Litvinenko che fu assassinato orrendamente con un veleno radioattivo, a quei tempi, non rintracciabile.
“Vladimir è un uomo dolcissimo, caro Paolo”, mi disse Berlusconi con un sorriso luminoso quando io gli chiesi aiuto per capire che cosa si muovesse dietro quelle quinte e quelle matrioske. E aggiunse: “Guarda, se qualcuno mi venisse a dire che tu, Paolo, hai assassinato o potresti assassinare qualcuno io proverei la stessa incredulità se fosse detto a proposito di Putin.” Ciò accadeva nel 2006 quando la commissione parlamentare da me presieduta concluse i suoi lavori nei tempi prefissati dalla legge. Qualche anno dopo il governo inglese ordinò a un procuratore speciale della regina, Sir Robert Owen, di condurre un’istruttoria sulla morte di Litvinenko che terminò con una sentenza di responsabilità diretta di Vladimir Putin.
Fu dopo l’invasione della Georgia nel 2008 che io completamente sopraffatto dall’indignazione per la generale acquiescenza di fronte alla prima invasione di un paese europeo da parte di un altro paese europeo capii troppo tardi di aver sbagliato strada. Anche perché Berlusconi, che più tardi rivelerà di aver fermato l’amico un po’ troppo disinvolto nel lanciare carri armati e fanteria, durante una riunione plenaria dei gruppi di maggioranza, rivelò di aver ricevuto una telefonata in cui Putin si riprometteva di “inchiodare per le palle su un albero il presidente georgiano Shakasvilij”. E fu così che io interruppi i miei rapporti con il presidente del consiglio tirandomi dietro qualche anno di insulti. Nel frattempo, ero diventato vicesegretario del partito liberale italiano e ricevetti in quel partito la visita del presidente georgiano che era venuto a Roma per ringraziarmi.
Poi passò molta acqua sotto i ponti e anche la mia amicizia personale con Silvio Berlusconi sì rigenerò con molto affetto anche perché io non cessai di combattere la stessa battaglia liberale in cui era compresa la mia solidarietà per una persecuzione giudiziaria mai conosciuta in una democrazia occidentale e che si concluse con la cacciata di Berlusconi dal Parlamento. Un Parlamento che anziché difendere un suo membro come nel codice delle democrazie parlamentari, consegnò il senatore Berlusconi agli esecutori di giustizia. Di Putin con Berlusconi non ho mai più parlato, ma certo che in questi ultimi due giorni sono avvenuti dei fatti nuovi di cui sfugge spesso la sostanza, sommersa dagli aspetti scenici tra cui l’uso generoso dell’aggettivo “dolce” e del suo superlativo “dolcissimo”, riemersi con il riemergere dichiarato dell’affetto di Silvio.
Ma ieri mattina una delle prime notizie che ho letto è stata quella dell’improvvisa e non preannunciata visita del ministro della Difesa del Regno unito Ben Wallace a Washington per discutere urgentemente con gli americani la notizia, che si era diffusa nella notte precedente, secondo cui Vladimir Putin starebbe valutando di far esplodere un ordigno nucleare nelle acque del Mar Nero, un ordigno “a basso rendimento”. Inoltre, il ministro della Difesa di Mosca avrebbe annunciato di lì a poco l’istituzione della legge marziale nelle quattro province ucraine dichiarate annesse alla Federazione russa, giustificando tale decisione come una dolorosa necessità, amara e indispensabile.
L’Occidente, intendendo per esso Unione europea, Regno Unito e Stati Uniti, hanno da tempo notificato anche per via diplomatica a Mosca che qualsiasi uso di armi nucleari nella guerra in Ucraina avrebbe messo in moto una reazione militare di fortissimo impatto dissuasivo ovvero, detto in parole semplici, una guerra. Qui siamo e non è ancora chiaro se qui saremo ancora domani a quest’ora, benché è ciò che speriamo tutti per quanto le nostre vite possano essere deludenti o tormentate. Come spiegava un plebeo romanesco in un sonetto del Gioachino Belli “stamo tutti attaccati a st’ammazzata vita”, dove curiosamente quella “ammazzata” sta per amatissima.
Sono otto mesi che viviamo sull’orlo dell’abisso e da ieri quell’abisso si è fatto più vicino, almeno come minaccia che provoca una catena di conseguenze sia politiche che militari capaci di mettere il governo della Repubblica di nuovo di fronte alla scelta: o di qua o di là. Il Cavaliere ha giocato di sorpresa ed ha reso pubblico il fatto di essere in contatto con Putin e questa ripresa si è tradotta immediatamente, immaginiamo, in dichiarazioni, certamente non sfuggite di labbra, dall’immediato effetto politico e militare.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
(ANSA il 30 ottobre 2022) - Si può arrivare a una trattativa di pace nel conflitto ucraino? "Forse: solo se a un certo punto l'Ucraina capisse di non poter più contare sulle armi e sugli aiuti e se, invece, l'Occidente promettesse di fornirle centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione delle sue città devastate dalla guerra. In questo caso Zelensky, forse, potrebbe accettare di sedersi al tavolo per una trattativa". Lo ha detto intervistato da Vespa per il suo ultimo libro, il leader di Fi, Silvio Berlusconi.
"In questa situazione - spiega Berlusconi a Vespa nel libro "La grande tempesta" - noi non possiamo che essere con l'Occidente nella difesa dei diritti di un Paese libero e democratico come l'Ucraina". Sullo stop alle armi, preferendo l'invio di massicci aiuti economici per la ricostruzione, Vespa obietta che Putin dovrebbe almeno lasciare le due regioni (Kherson e Zaporizhzhia) occupate e annesse dopo le altre due del Donbass (Donetsk e Luhansk).
Berlusconi sembra d'accordo, pensa però che non si dovrebbe discutere l'appartenenza alla Federazione Russa della Crimea e fare un nuovo referendum nel Donbass con il controllo dell'Occidente. E' convinto che Putin sia 'un uomo di pace', confessa a Vespa che ha provato a chiamarlo due volte senza esito all'inizio della guerra e dopo non ha più insistito.
Sulle venti bottiglie di vodka e di lambrusco, ricorda che dopo aver raccontato ai suoi deputati delle lettere di auguri, uno di loro gli chiese: "E vi siete fatti anche dei regali?" E lui sorridendo rispose divertito: "Si certo, venti bottiglie di vodka e venti di lambrusco". Ma tutti , dice, avevano capito che scherzava"
Alla domanda, infine, di Vespa se si senta più vicino all'America o alla Russia, Berlusconi ricorda che una delle cinque standing ovation riservategli dal Congresso degli Stati Uniti il 19 giugno 2011 fu quando raccontò del giuramento di fedeltà agli USA chiestogli dal padre quando dopo la maturità classica lo portò a visitare il cimitero militare americano di Anzio.
(ANSA il 30 ottobre 2022) - "Nessun disagio" nel vedere per la prima volta dopo 28 anni un leader del centrodestra diverso da lui. "Era logico e naturale che andasse a Palazzo Chigi il leader del partito che ha ottenuto più voti di quelli di Forza Italia e della Lega messi insieme. D'altra parte avevo già detto più volte che Giorgia Meloni aveva tutti i requisiti per guidare il governo".
Lo dice Silvio Berlusconi nel libro di Bruno Vespa "La grande tempesta". Perché Giorgia Meloni ha avuto questo successo? "Perché rappresenta il nuovo ed è stata molto brava nelle sue apparizioni televisive". Berlusconi parla del ministro della giustizia Carlo Nordio, definendolo "uno straordinario professionista. Condivido le sue posizioni sulla riforma della giustizia. La priorità assoluta è la riduzione della durata dei processi" anche se "il no al Ministro della Giustizia ci ha deluso…. Ci è stato chiesto quali sarebbero stati i nostri ministri e noi abbiamo risposto: Tajani agli Esteri, Casellati alla Giustizia e Bernini all'Università. Poi si è parlato dei ministri senza portafoglio E io ero certo che ci fosse l'accordo". Infine, parlando del governo, "il mio intervento per la fiducia al Senato ha garantito una partecipazione appassionata e leale a sostegno del Governo per i prossimi 5 anni di lavoro". (ANSA).
Berlusconi e la ricetta per far trattare Kiev: miliardi per ricostruire invece che dare armi. Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.
Le dichiarazioni sulla guerra rilasciate da Berlusconi a Bruno Vespa suscitano l’immediata e aspra reazione delle opposizioni, che contestano al leader di Forza Italia una visione putiniana del conflitto
Basta armi, meglio fornire aiuti economici all’Ucraina. Crimea alla Russia e sorti del Donbass da decidere con un referendum. Qualche settimana dopo le polemiche per gli audio rubati sul conflitto, emerge una nuova strategia di Silvio Berlusconi per risolverlo. Questa volta si tratta di dichiarazioni ufficialmente rilasciate a Bruno Vespa per il libro che il giornalista darà alle stampe a breve «La grande tempesta». Immediata e aspra la reazione delle opposizioni che contestano a Berlusconi una visione putiniana del conflitto, e a Meloni di non avere una maggioranza sull’Ucraina.
Al presidente di Forza Italia, Vespa chiede se si possa avviare una trattativa di pace: «Solo se a un certo punto l’Ucraina capisse di non poter più contare sulle armi e sugli aiuti e se, invece, l’Occidente promettesse di fornirle centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione delle sue città devastate dalla guerra. In questo caso Zelensky, forse, potrebbe accettare di sedersi al tavolo per una trattativa». Vespa obietta che Putin dovrebbe almeno lasciare le due regioni (Kherson e Zaporizhzhia) occupate e annesse insieme alle altre due del Donbass. Berlusconi concorda ma ribatte che fuori discussione dovrebbe essere l’appartenenza alla Russia della Crimea e che per il Donbass si potrebbe decidere con un referendum sotto il controllo dell’Occidente.
Quindi il Cavaliere ribadisce la definizione di Putin «uomo di pace» anche se, confessa a Vespa, ha provato a chiamarlo senza esito all’inizio della guerra. Riguardo al recente scambio di doni — venti bottiglie di vodka da parte del capo del Cremlino alle quali l’ex premier avrebbe ricambiato con il lambrusco — trapelato attraverso l’audio rubato durante un confronto con i neodeputati di Forza Italia, chiarisce che «tutti avevano capito che scherzavo».
Per Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa, la misura è colma: «Meloni e Tajani non possono più fare finta di nulla, sull’Ucraina la maggioranza non c’è». Per una volta sulla stessa linea Italia viva-Azione, attraverso il capogruppo alla Camera, Matteo Richetti: «La presidente del Consiglio ha un problema non più tollerabile per le nostre istituzioni. Si chiama Berlusconi». Il leader di Azione, Carlo Calenda, chiosa: «Non esiste maggioranza di governo senza una linea di politica estera comune. Berlusconi fa propaganda per Putin incurante delle conseguenze».
E parole non molto diverse usa il Pd. «Per Berlusconi — osserva Lia Quartapelle — la pace in Ucraina passa dalla resa, togliendo gli aiuti militari a Zelensky e riconoscendo Donbass e Crimea come Russia. Un bel problema per Meloni». L’eurodeputata Pina Picierno sollecita Meloni, attesa a Bruxelles a breve, a prendere «immediate distanze» dalle «parole vergognose» dell’alleato.
Nel libro di Vespa Berlusconi parla anche del rapporto con chi ne ha ereditato il ruolo, assicurando di non provare «alcun disagio» per l’avvicendamento. «Era logico e naturale che andasse a palazzo Chigi il leader del partito che ha ottenuto più voti di FI e Lega messi insieme. Giorgia Meloni ha tutti i requisiti per guidare il governo. Ha avuto successo perché rappresenta il nuovo ed è stata molto brava in tv». Nonostante la «delusione» per la scelta di un ministro della Giustizia diverso da Casellati, che Berlusconi avrebbe voluto in quel ruolo, il Cavaliere assicura «partecipazione appassionata e leale a sostegno del governo per i prossimi cinque anni».
Da “Un giorno da Pecora – Radio1” il 31 ottobre 2022.
“Ho votato Terzo Polo perché mi stanno sulle palle sia il Pd che Salvini e Berlusconi, l'ultima versione di Berlusconi specialmente, quella con la deriva filo putinista”. A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è l'ex parlamentare di Forza Italia Fabrizio Cicchitto, intervistato da Giorgio Lauro e Geppi Cucciari. ”
Berlusconi e Putin si amano e si ammirano sul piano psicologico”, la lettera 'dolcissima' che l'uno avrebbe scritto all'altro “è una cosa di omosessualità psicologica, in cui non c'entra il sesso ma una sorta di invidia: Putin fa quel che vuole in Russia e il Cavaliere avrebbe voluto fare quello che gli pare in Italia”. Insomma, oggi ha definitivamente 'rotto' col leader di FI. “A me Berluscono continua a rimanere simpatico, dal '94 al 2000 ha evitato che l'Italia fosse dominata dal Pd, da un gruppo di giornali e di magistrati. Questo è il suo merito storico. Poi però - ha concluso a Un Giorno da Pecora Cicchitto - ha combinato una serie di puttanate”.
Il Cavaliere Arcobaleno. Berlusconi, Conte e l’irritante doppiezza del putinismo italiano. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022
Il leader di Forza Italia sostiene che per fermare la guerra bisognerebbe togliere le armi all’Ucraina, che è esattamente quanto chiede Conte. Non si capisce perché il 5 novembre non dovrebbero marciare uniti
L’ennesima sfilza di dichiarazioni filo-putiniane pronunciate da Silvio Berlusconi, questa volta dalle pagine del nuovo libro di Bruno Vespa, confermano quello che tutti avevano capito sin dall’inizio. E cioè che il leader di Forza Italia ha sempre inteso dire esattamente quello che ha detto, prima nell’intervista a Porta a Porta del 22 settembre e poi nella riunione con i suoi parlamentari del 18 ottobre, da cui erano filtrati i famigerati audio.
Anche stavolta Berlusconi ripete che Vladimir Putin è «un uomo di pace», sostiene che quella dello scambio di Vodka e Lambrusco fosse una risposta ironica alla domanda di un parlamentare (dimenticandosi probabilmente che l’audio è tutt’ora disponibile on line), ma soprattutto spiega qual è secondo lui l’unico modo di fermare il conflitto: «Forse, solo se a un certo punto l’Ucraina capisse di non poter più contare sulle armi e sugli aiuti e se, invece, l’Occidente promettesse di fornirle centinaia di miliardi di dollari per la ricostruzione delle sue città devastate dalla guerra. In questo caso Zelensky, forse, potrebbe accettare di sedersi al tavolo per una trattativa».
Se qualcuno avesse ancora dei dubbi sulla provenienza di una simile paccottiglia, dovrebbe concentrarsi sul passaggio più grottesco, ma proprio per questo più rivelatore. E cioè la proposta di togliere agli ucraini le armi con cui si difendono dai bombardamenti che stanno radendo al suolo le loro città in cambio dei soldi per ricostruirle, presumibilmente dopo che siano state occupate dai russi. Un miscuglio di spudoratezza e illogicità che possiamo considerare il vero marchio di fabbrica della propaganda putiniana. Non per niente, l’offerta di un simile piano di ricostruzione era anche l’unica concessione all’Ucraina, se di concessione si può parlare, contenuta nell’assurdo appello degli intellettuali rosso-bruni pubblicato su Avvenire qualche settimana fa.
La posizione di Berlusconi rappresenta con ogni evidenza un problema gigantesco per la maggioranza, tanto più grave perché si tratta di una posizione tutt’altro che isolata, come ci hanno recentemente ricordato le primissime dichiarazioni da presidente della Camera pronunciate dal leghista Lorenzo Fontana, a proposito delle sanzioni alla Russia e il rischio che si rivelino un «boomerang». Certo è che il problema non riguarda soltanto il centrodestra.
Può apparire un episodio minore, ma è forse degno di qualche attenzione il fatto che il 27 ottobre sulla pagina facebook di Unione popolare, il partito di Luigi de Magistris, sia apparso un post sulla manifestazione per la pace del 5 novembre in cui si diceva: «Condanniamo l’aggressione di Putin, rispettiamo la resistenza ucraina, siamo a fianco delle vittime, ma più armi, più distruzione, più morti non sono la soluzione». E che poco dopo dallo stesso post siano scomparse sia la condanna dell’aggressione sia il rispetto per la resistenza ucraina e la solidarietà con le vittime. Adesso infatti il paragrafo comincia direttamente con le parole «Più armi». Evidentemente la condanna dell’aggressore e il rispetto per la resistenza – espressioni riprese dalla piattaforma della manifestazione del 5 novembre – non sono condivise da tutti i partecipanti.
Questo infatti il passaggio che si trova nell’appello pubblicato dagli organizzatori: «Condanniamo l’aggressore, rispettiamo la resistenza ucraina, ci impegniamo ad aiutare, sostenere, soccorrere il popolo ucraino, siamo a fianco delle vittime». Ma a leggerne il resto, onestamente, viene quasi voglia di dar ragione al curatore delle pagine social di Unione popolare, o a chi per lui abbia deciso di espungere quelle espressioni, perché evidentemente fuori contesto. Tanto almeno quanto le reiterate professioni di atlantismo e solidarietà con l’Ucraina che anche oggi, inevitabilmente, pioveranno da tutti i dirigenti di Forza Italia e del centrodestra.
La verità è che la linea esposta da Berlusconi non differisce in nulla da quella di Giuseppe Conte, un altro che certamente rispetta moltissimo la resistenza ucraina ed è stato tra i primi a promuovere la manifestazione del 5 novembre. Non per niente, Conte ha fatto esattamente quel che dice il leader di Forza Italia, chiedendo al governo di smettere di inviare agli ucraini le armi con cui resistono, e senza le quali non ci sarebbe nessuna resistenza. Non si capisce dunque per quale motivo in piazza dovrebbe esserci Conte e non Berlusconi.
Resta invece da stabilire se sia peggiore il sospetto che una larga parte della politica e dell’informazione italiana sia direttamente influenzata da Putin o l’impressione che molti politici, intellettuali e giornalisti aderiscano sinceramente e spontaneamente alle tesi del Cremlino.
Berlusconi contro Meloni, Sallusti: "Questo è troppo, non la riconosco più". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 19 ottobre 2022.
Caro presidente Berlusconi, ieri ci ha informato, tra l'altro, di uno scambio di "dolcissime lettere" tra lei e Vladimir Putin in occasione del suo compleanno. Dal basso dell'affetto e della riconoscenza che nutro nei suoi confronti mi permetto, nel mio piccolissimo, anche io di inviarle una letterina, spero altrettanto dolce. Per dirle una cosa molto semplice: non la capisco più, e non essendo l'unico penso che il problema non sia mio.
Lei, presidente, poche settimane fa ha compiuto l'ennesimo miracolo della sua vita tenendo - i voti raccolti sono tutti suoi personali - Forza Italia in vita e al centro dell'arena politica. Chapeau, e se la pattuglia parlamentare non è risultata all'altezza del consenso raccolto lo si deve immagino esclusivamente a errori da voi fatti al tavolo dovevi eravate spartiti i seggi con gli alleati.
Lei ora dice, uso parole mie: Giorgia Meloni non ci rispetta. Non entro nel merito, ma certo svelare a due giorni dalla nascita di un governo già nel mirino di suo l'affettuoso carteggio tra lei e Putin non agevola certo il compito che aspetta la futura premier, e quindi l'Italia, nei consessi internazionali occidentali, né il lavoro del suo Antonio Tajani nel caso, come probabile, andasse a ricoprire il ruolo di ministro degli Esteri.
So bene poi che quando lei dice che "l'uomo della Meloni" è un suo dipendente a Mediaset non intende offendere nessuno, né si può leggere come una malignità di cui so non esserne capace. Ma sta di fatto che, al netto che quell'uomo era suo dipendente ben prima di conoscere Giorgia, più d'uno userà quelle parole per costruire castelli di sabbia che rischiano solo di mettere in imbarazzo la famiglia Meloni.
Ovvio infine che lei è Silvio Berlusconi, che lei può fare e dire ciò che crede come del resto ha sempre fatto. Ma chi non la conosce come ho avuto io l'onore e il privilegio di conoscerla potrebbe equivocare ogni sua parola e pensare che davvero lei in questo momento voglia affossare il sogno non di Giorgia Meloni ma di una buona parte di italiani. Ecco, caro Presidente, questo sarebbe troppo anche per Silvio Berlusconi. Se a lei fosse concesso di incontrare la sua gente, i suoi imprenditori che ancora la seguono, lo verificherebbe di persona. Tanto le dovevo, con affetto.
L'Italia non è né carne né pesce. Zelensky vuole uccidere tutti i russi e c’è chi lo candida al Nobel per la Pace: l’appello del Papa non è a senso unico. Paolo Liguori su Il Riformista il 3 Ottobre 2022.
Siamo in uno stato di guerra, e non abbiamo la vocazione alla guerra, e non siamo nemmeno pronti ad essere in un’economia di guerra. Quindi rischia di abbattersi su di noi una serie enorme di conseguenze che solo in parte prevediamo. Ma a parte la questione economica o l’impegno bellico italiano questa situazione è un disastro perché le uniche parole serie, severe e razionali sono state dette dal Papa. E ancora una volta si tende a dimenticare che sono state dette e a farle passare sotto silenzio.
Le parole del Santo Padre sono state chiare: la guerra è un errore e un orrore e deve finire. Certo, i giornali di propaganda italiana titolano “Il Papa ha detto: Putin si deve fermare”, è ovvio lo Zar è l’aggressore e questa è stata la sua prima frase. Però ha pure detto che Zelensky deve ragionevolmente avviare un percorso di trattativa, perché non è possibile che il leader ucraino dica ai russi: “Vi uccideremo uomo per uomo”, e c’è pure chi lo candida al Premio Nobel per la Pace. Queste frasi non fanno parte dei nostri valori e della nostra cultura che è diversa da questi intenti bellici, militaristi e sanguinari di Zelensky.
Noi, l’Italia, non siamo né carne né pesce, anche se teniamo la difesa ucraina. Le parole del Papa tengono conto di queste differenze e dicono qualcosa all’umanità, non si può tollerare la prosecuzione della guerra. C’è chi guadagna sul conflitto come alcuni nostri alleati: gli Stati Uniti, la Norvegia, l’Olanda e altri stati hanno già deciso che sui costi dell’energia faranno per conto proprio a cominciare dalla Germania. Noi siamo presi in una trappola e dobbiamo capire che al di là degli interessi italiani, le parole del Papa vanno ben oltre, sono interessi del Mondo, dell’Umanità. L’ipotesi dell’uso di armi atomiche è terrificante per tutti.
Poi ci sarà una fine della guerra, certo, ma può essere la fine della guerra la distruzione dell’Ucraina? No. Può essere la distruzione della Russia? No. Possiamo pensare a un’Europa del futuro senza la Russia? No. È assurdo, perché in quei Paesi vivono migliaia di cristiani, e il Papa guarda a quello, e proprio guardando a quello capisce che non può esserci una cancellazione né dell’Ucraina né della Russia. Chi è insensibile? Chi guarda da oltreoceano, ma noi le parole del Papa le dovremmo valorizzare non tacere come si sta facendo nei giornali di propaganda italiani.
Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom
La crisi e le responsabilità di chi tace. Zelensky è un sanguinario, il ruggito del coniglio degli imprenditori italiani: chiedono bonus e non la fine della guerra. Paolo Liguori su Il Riformista il 4 Ottobre 2022
Ad Assisi il presidente Mattarella ha parlato della necessità della pace e delle responsabilità di tutte le religioni nel difenderla. Un discorso importante ma anche ovvio. Il Papa aveva parlato qualche giorno fa con parole molto incisive ma la stampa è riuscita – diciamo – a silenziarlo. Dicono ce l’avesse con Putin, non è vero, ha fatto un appello anche a Zelenski.
Poi c’è un modo molto ‘annacquato’ di dire “siamo tutti per la pace”, e poi, come i laici, c’è chi dice che bisogna parlare d’altro. Vediamo che cos’è questo altro. E’ viltà. Oggi gli imprenditori italiani dicono “non ci possiamo permettere in questa situazione economica di parlare di pensioni, di tasse, non abbiamo le risorse economiche per parlarne”. Io dico che questo è il ruggito del coniglio perché non abbiamo mai sentito in questi mesi dire da loro “noi non possiamo permetterci di continuare una guerra come questa perché le aziende chiuderanno”. E’ inutile parlare delle conseguenze se non arriviamo alla causa. E la causa è la guerra.
Gli imprenditori americani, olandesi, norvegesi, ci guadagnano. Il resto dell’Europa ci sta rimettendo ed anche tanto. Gli imprenditori dovrebbero dire che l’unico modo per mettere un freno a tutto questo è fermare la guerra. Ma per fermare la guerra è necessario che non si vendano più le armi. E non è che noi siamo la stessa cosa di Zelenski. Lo vorrei ripetere perché qui si dice che la Russia è un Paese invasore e totalitario (e io sottoscrivo). Però dire che l’Ucraina ci rappresenta non è vero.
Quando un presidente dice ‘uccideremo tutti’ è un sanguinario e non mi rappresenta e soprattutto non rappresenta gli interessi del popolo europeo. Noi siamo stati zitti sul fatto che tutti i maschi sopra i 18 anni in Ucraina sono stati costretti a prendere le armi, coscritti obbligatoriamente. E c’è la legge marziale. Zelenski non ha gli stessi valori di un Occidente liberale. Non stiamo dalla sua parte perché abbiamo gli stessi valori, ma solo perché ce lo impongono gli Stati Uniti. Con gli Usa è diverso perché lori sì, hanno i nostri stessi valori. Però gli imprenditori tacciono, ma se tacciono gli imprenditori e poi chiudono le imprese, noi possiamo continuare a dire che ci vogliono i bonus, i ristori? Abbiamo il coraggio di dire che c’è bisogno che finisca la guerra. Tranne il Papa nessuno ha il coraggio di dirlo.
Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom
Luca Bottura per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.
Elon Musk, il miliardario sudafricano che ha fatto fortuna con le auto elettriche ma ha la sensibilità ecologica di un portapenne in alabastro, l'uomo che acquistò Twitter ma lo restituì perché è pieno di profili falsi, non prima di aver promesso che avrebbe fatto rientrare Donald Trump, che è falso anche visto di fronte, l'imprenditore che sta alla geopolitica come qualunque sindaco di Roma a un cassonetto immacolato, ha pubblicato ieri proprio su Twitter un sondaggio col quale proponeva un suo piano di pace a Putin e alle sue vittime:
1) Rifare i referendum in Donbass sotto la supervisione dell'Onu;
2) Cedere la Crimea ai russi "per sanare l'errore di Krusciov";
3) Neutralità dell'Ucraina in cambio delle forniture d'acqua.
Nel concerto di pernacchie social che ne ha ricavato - molte delle quali incentrate sul fatto che un referendum vero c'è già stato, e lo vinse chi non voleva stare coi russi persino dalle parti di Sebastopoli - va rilevato l'ambasciatore ucraino in Germania, Andry Melnyk, che ha così postato: "La mia risposta molto diplomatica a Elon Musk: fottiti". Analizzata la vicenda, il turpiloquio gratuito, il fatto che la proposta di Musk abbia comunque ottenuto il 37 per cento dei consensi e cioè oltre 400.000 voti, spieghi il lettore con chi sta dei due contendenti e perché proprio Melnyk.
L'insolenza di Musk che ignora la storia. Roberto Fabbri il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale
Come tutti gli uomini di genio, il concretissimo Elon Musk certe volte stupisce per astrattezza. Il numero uno di Tesla, finora molto apprezzato a Kiev per averle messo a disposizione il suo sistema satellitare Starlink, si è messo in testa di fare il mediatore con Mosca. Ma la brillantezza con cui ha permesso all'Ucraina di aggirare i tentativi di hackeraggio dei russi non è la stessa che ha dispiegato nella sua bizzarra proposta, che ha indignato Zelensky ma è piaciuta subito al Cremlino, con tanto di complimenti al miliardario americano da parte del superfalco Dmitry Medvedev.
Secondo Musk che in passato ha ammesso di prendere decisioni sotto l'effetto di droghe e che per buona misura ha sottoposto i quattro punti del suo «geniale» piano ai suoi 107 milioni di follower su Twitter come un Beppe Grillo qualsiasi la pace si raggiungerebbe se Zelensky si decidesse una buona volta a riconoscere formalmente la sovranità russa sulla Crimea che Mosca ha strappato a Kiev nel 2014 e se venissero nuovamente tenuti sotto supervisione Onu dei referendum popolari nelle province ucraine occupate che Putin ha appena annesso alla Russia in base a consultazioni truccate. Kiev, inoltre, dovrebbe scordarsi Ue e Nato, impegnarsi alla neutralità e a garantire l'approvvigionamento idrico alla Crimea (russa).
Musk ricorda agli ucraini che fu «una erronea decisione presa nel 1955 dall'allora leader dell'Urss Nikita Krusciov» (che era un ucraino) a trasferire la Crimea dalla Russia all'Ucraina, all'epoca entrambe Repubbliche sovietiche. Il fatto che Putin se la sia ripresa usando la forza, esattamente come ha fatto nel Donbass e nelle altre due regioni ucraine appena annesse, non pare importante all'improvvisato mediatore.
Il quale forse ignora oltre ai principii del diritto internazionale - che se oggi l'Alaska è uno dei 50 Stati degli Usa lo si deve a una decisione presa nel 1867 dall'allora Zar Alessandro, che svendette agli americani quello che all'epoca sembrava un inutile e remoto possedimento coperto di ghiacci per una cifra ridicola pari a 140 milioni di dollari di oggi. Chissà cosa proporrebbe il signor Musk se Putin lo invadesse e se lo annettesse richiamando l'antica sovranità russa e una «decisione erronea» presa nel XIX secolo.
Federico Capurso per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.
Questa mattina il ministro della Difesa Lorenzo Guerini si recherà in audizione al Copasir per illustrare - secondo quanto filtra da fonti di governo - i dettagli dell'ultimo decreto per l'invio di nuovi aiuti militari in Ucraina. Decreto che, con ogni probabilità, verrà firmato entro la fine di questa settimana da palazzo Chigi.
Caso vuole, però, che l'audizione di Guerini cada proprio nel giorno di san Francesco, scelto tredici anni fa da Beppe Grillo per festeggiare la fondazione del Movimento 5 Stelle. La coincidenza mette in fibrillazione Giuseppe Conte, che riunisce i suoi fedelissimi a Campo Marzio, sede del partito, per preparare la controffensiva nel giorno dell'anniversario pentastellato.
Il leader è deciso a sollevare una nuova polemica contro il quinto decreto armi del governo Draghi (il primo ottenne il via libera nel marzo scorso). Vuole contrapporre «l'esempio pacifista» del santo di Assisi a quello di un governo che, a suo dire, non si sarebbe speso a sufficienza per riaprire la via del dialogo e della diplomazia, «l'unica in grado di condurre a una soluzione pacifica del conflitto», come ripete da settimane.
Conte oggi tornerà dunque ad alzare la sua voce contraria all'invio di armi a Kiev. Il leader M5S è convinto che il contributo italiano, a differenza di quello americano e inglese, non sia decisivo per i progressi fatti dall'esercito ucraino, che continua a riconquistare territori occupati illegittimamente dalle forze di invasione russe. Per questo, l'ex premier spinge perché sulla necessità di inviare ulteriori aiuti militari il governo torni a confrontarsi con il Parlamento e si sottoponga a un voto dell'Aula.
Il governo è però stato autorizzato proprio da Camera e Senato, nella scorsa primavera, a inviare armi in Ucraina senza dover necessariamente passare da un voto per ogni nuovo decreto, almeno fino alla fine di quest' anno. La posizione di contrarietà del Movimento 5 stelle, poi, era minoritaria prima delle elezioni e rischia di esserlo ancor di più nel nuovo Parlamento che si insedierà il prossimo 13 ottobre.
Il Parlamento tedesco vota contro l’invio di nuove armi all’Ucraina. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 2 ottobre 2022.
La compattezza del fronte europeo sulla crisi ucraina si sta progressivamente sfaldando non solo per quanto attiene la questione energetica, ma anche per quanto riguarda il sostegno incondizionato a Kiev, che si traduce soprattutto in finanziamenti e invio di materiale bellico: pochi giorni fa, infatti, i deputati del Bundestag tedesco hanno respinto la proposta di risoluzione dell’Unione Cristiano Democratica della Germania e dell’Unione Cristiano Sociale in Baviera (CDU/CSU) per dare un «contributo determinato» al rafforzamento delle forze armate ucraine attraverso la consegna di nuove armi tedesche, compresa la fornitura di carri armati. 179 parlamentari hanno votato a favore, mentre 476 hanno votato contro e un parlamentare si è astenuto. Nella risoluzione, il blocco dei partiti di centrodestra (CDU/CSU) ha insistito per «un’immediata e significativa intensificazione delle forniture militari in termini di quantità e qualità delle armi», aggiungendo anche che «è necessario decidere rapidamente sulle proposte dell’industria della difesa per organizzare la fornitura di veicoli da combattimento di fanteria e carri armati». Da notare che, ad oggi, nessun Paese Nato ha fornito all’Ucraina carri armati di progettazione occidentale. L’Unione riteneva necessario aumentare l’invio di armi a seguito dell’annuncio del Presidente russo Vladimir Putin di mobilitazione parziale dell’esercito moscovita. Tuttavia, il deputato del Partito Socialdemocratico tedesco (SDP), Ralf Stegner, si è mosso per ottenere la maggioranza dei voti contrari, ritenendo la mozione «non necessaria».
Il rifiuto da parte del Bundestag tedesco di rifornire l’Ucraina di nuovi armamenti non arriva a caso, ma in un momento cruciale della vita politica ed economica di Berlino in cui una parte della Germania è ben consapevole che la crisi innescata dalla rottura delle relazioni economiche e diplomatiche con la Russia e l’adesione incondizionata alla “strategia atlantista” potrebbe comportare non solo una gravissima recessione del motore economico dell’Ue – con il fallimento di centinaia di imprese, da cui la decisione di stanziare 200 miliardi contro il caro energetico – ma anche il rischio concreto dell’ampliamento del conflitto che vedrebbe come principale teatro di guerra proprio i Paesi Nato. Inoltre, la risoluzione contraria alla mozione è arrivata in concomitanza con alcuni interventi dell’ex cancelliera Angela Mekel sulla questione russo-ucraina, dai quali è emerso indirettamente il suo dissenso verso l’appiattimento del governo tedesco in carica sulle posizioni statunitensi. La Merkel ha insistito sull’importanza di rilanciare i canali diplomatici e il dialogo con la Russia, in quanto – ad un evento della fondazione Helmut Kohl – ha detto che le parole di Putin «andrebbero prese sul serio»: «Prendere sul serio le sue parole, non liquidarle a priori come se fossero un bluff ma confrontarcisi seriamente non è affatto un segnale di debolezza, ma di saggezza politica. Una saggezza che aiuta a mantenere un margine di manovra o a svilupparne di nuovi». Il riferimento è ovviamente all’avvertimento di Putin sul fatto che intende utilizzare tutte le armi e gli strumenti a sua disposizione per difendere i territori della Federazione.
L’ex cancelliera ha anche parlato della necessità di costruire un’architettura di sicurezza paneuropea insieme alla Russia e questo è il punto che evidenzia meglio di altri la neonata volontà di smarcarsi, almeno parzialmente, dal sistema di sicurezza dell’Alleanza atlantica: «Dobbiamo lavorare a un’architettura di sicurezza paneuropea con la partecipazione della Russia nel quadro dei principi del diritto internazionale. Fino a quando non riusciremo a raggiungere questo obiettivo, come è emerso dall’amara constatazione del 24 febbraio, la guerra fredda non avrà fine» ha affermato. Una possibilità che susciterebbe certamente la reazione ostile degli Stati Uniti, i quali hanno sempre lavorato per separare Russia ed Europa e in particolar modo Mosca e Berlino, poiché la cosiddetta “Gerussia” rappresenta una delle principali minacce per la potenza a stelle e strisce e la questione del Nord Stream 2, sabotato fin dagli inizi da Washington, ne costituisce la riprova più lampante.
Il recente voto del Bundestag contro l’invio di ulteriori armamenti e le dichiarazioni della Merkel, dunque, potrebbero essere interpretati come il segnale dell’inizio di un cambio di approccio della politica tedesca verso il conflitto in Ucraina, sebbene i Partiti dell’Unione abbiano accusato il governo federale di non avere rispettato il mandato del Bundestag tedesco, lamentando la mancanza di determinazione nel «dedicarsi all’imperativo umanitario di sostenere pienamente l’Ucraina contro la guerra di annientamento russa». Hanno quindi affermato che «Questo comportamento non dovrebbe più essere proseguito e deve essere corretto immediatamente secondo la risoluzione del Bundestag del 28 aprile 2022». In ogni caso, non si può non rilevare come il dibattito sulla questione nella politica tedesca sia ormai aperto – a differenza di quanto accade in Italia – e come altresì i rapidi sviluppi della crisi russo-ucraina stiano fornendo nuovi potenziali impulsi per ripensare gli assetti internazionali e gli equilibri geopolitici europei. [di Giorgia Audiello]
Ombre russe. Abbiamo informazioni sui partiti italiani pagati dal Cremlino, dice il consigliere di Zelensky. Linkiesta il 30 Settembre 2022
«A noi non sfugge il comportamento di certi partiti, a volte proprio quelli italiani, che prendono posizioni apertamente filo-Putin», spiega Mykhailo Podolyak. «Ma non possiamo parlare pubblicamente di chi ha ricevuto soldi russi a scopo di lobbying», precisa, «perché significherebbe interferire con la politica del vostro Paese». Oggi Putin annuncerà l’annessione delle quattro regioni ucraine in cui si sono tenuti i referendum farsa
(Sergei Kholodilin/BelTA Pool Photo via AP)
«Abbiamo elementi per affermare che qualcuno in Europa, anche tra i partiti italiani, ha preso soldi dal Cremlino, ma non possiamo svelarlo perché significherebbe interferire con la politica del vostro Paese». Mykhailo Podolyak, consigliere dell’Ufficio del presidente ucraino Zelensky e capo del team di negoziatori con i diplomatici russi, lo dice a Repubblica.
«È ormai noto che la Federazione ha speso 300 milioni di euro negli ultimi anni per finanziare alcuni movimenti politici nell’Unione europea e, così facendo, ha cercato di influenzare sia le politiche nazionali sia quelle dell’Unione», spiega. Nel famoso report americano, però, l’Italia non appare. Ma «a noi non sfugge il comportamento di certi partiti, a volte proprio quelli italiani, che prendono posizioni apertamente filo-Putin, sostenendo per esempio che, per un motivo o per un altro, la Russia aveva il diritto di attaccare l’Ucraina», prosegue Podolyak.
Il consigliere del governo ucraino però non va oltre: «Cerchi di capirmi, non possiamo interferire negli affari interni dell’Italia e non possiamo parlare pubblicamente di chi ha ricevuto soldi russi a scopo di lobbying. Certamente, a livello di intelligence, i nostri due Paesi cooperano. Ho motivo di ritenere che i dati fondamentali ci siano tutti: chi ha preso e quanto».
Oggi, intanto, il presidente russo Vladimir Putin annuncerà ufficialmente l’annessione delle quattro regioni ucraine – Kherson, Zaporzhizhia, Lugansk e Donetsk – in cui negli scorsi giorni si sono tenuti i referendum farsa. Per Kyjiv, dice, non cambia niente. «I referendum non hanno valore legale, per il diritto internazionale le regioni sono e rimangono territori dell’Ucraina. E l’Ucraina è pronta a tutto per riprenderle. Il nostro popolo ce lo chiede. Sono stati voti farsa, a cui hanno partecipato poche persone. A chi andava a votare puntavano il fucile in faccia ordinando: “Vota!”. Le nostre controffensive, quindi, vanno avanti»
Ma secondo Podolyak ormai non c’è più spazio per la via diplomatica: «La Russia non vuole negoziare, lancia solo ultimatum. Se l’esercito russo abbandonasse l’intero territorio dell’Ucraina, Crimea compresa, la trattativa potrebbe riprendere».
E quanto alla minaccia energetica, spiega che «Gazprom sta facendo di tutto perché l’Europa non riceva il gas residuo necessario per la stagione invernale. E c’è la Russia dietro gli incidenti ai gasdotti North Stream: molto probabilmente un’azione pianificata». Le prove? «Ci sono dati di intelligence e ci sono alcune analisi, in termini di cosa è stato fatto e chi è il beneficiario. Non ha senso discuterne qui, ci sono indagini in corso. Ma la chiusura dei rubinetti di Gazprom e gli attentati nel Baltico fanno parte della stessa strategia».
Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 22 settembre 2022.
È l’ennesimo avvertimento, l’ultima minaccia che arriva dalla Russia contro l’Italia. Dopo le prese di posizione dell’ambasciatore a Roma delle scorse settimane, il livello di attacco contro la politica Italiana si alza ulteriormente, con la scelta di mettere in fila i politici italiani e la provocazione di additarli come “traditori” rispetto ai buoni rapporti precedenti.
Sull’account Facebook, l’ambasciata russa ha pubblicato le foto del presidente Vladimir Putin con alcuni leader politici italiani incontrati nel corso di questi anni. Matteo Salvini, Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Poi si vede Putin con Enrico Letta, con Silvio Berlusconi, una foto della stretta di mano tra il presidente russo e Sergio Mattarella. E ancora, con Giorgio Napolitano, Putin e Matteo Renzi, con Paolo Gentiloni, Mario Draghi e Sergei Lavrov e poi il leader del Cremlino con Massimo D’Alema.
È eloquente l’intimazione: «Dalla recente storia delle relazioni tra la Russia e l’Italia. Ne abbiamo da ricordare». Parole che suonano sia come un’esortazione a non dimenticare le relazioni precedenti e forse - secondo alcuni analisti- l’avviso che qualcosa di segreto potrebbe essere rivelato sui rapporti tra questi leader e l’establishment di Mosca.
Gia nelle scorse settimane, sempre nei momenti chiave della guerra contro l’Ucraina, esponenti russi avevano esternato contro l’Italia e la sua scelta di schierarsi con la NATO e al fianco delle autorità ucraine. Ora che la minaccia di Vladimir Putin di nuove conseguenze è stata esplicita, anche la rappresentanza diplomatica a Roma ha deciso di allinearsi, in vista del voto che porterà in carica un nuovo governo.
Il leader del M5S Giuseppe Conte reagisce: «Sono stato da Putin a Mosca in visita di Stato, lui è venuto in Italia. L’ho incontrato sempre come rappresentante del popolo italiano. Quando ho smesso l’incarico, nonostante un rapporto cordiale che era stato costruito, ho sempre pensato che non fosse un rapporto personale. Tant’è che dopo allora non ho mai cercato Putin, mai parlato col suo entourage e neppure con l’ambasciata russa».
Replica anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi: «Credo che il problema della Russia oggi non sia il post dell’ambasciata o il tweet ma sia ciò che ha detto Putin ieri, che pone un problema internazionale. Il problema è come risponderà la comunità internazionale all’escalation verbale, che c’è già. Cerchiamo di lavorare per evitare l’escalation politica. Noi siamo stati e siamo favorevoli alle sanzioni e all’invio delle armi all’Ucraina, ma da sempre diciamo che debba essere lasciato aperto un canale di dialogo. Non siamo come quelli che cambiano idea una volta al giorno, e penso a Giuseppe Conte».
Estratto dell’articolo di Stefano Vergine e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 22 settembre 2022.
Il 24 febbraio, subito dopo l'annuncio dell'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin, Matteo Renzi ha fatto sapere di essersi dimesso il giorno stesso dal consiglio d'amministrazione della Delimobil. Si tratta di un'azienda russa di servizi di car-sharing […] fondata e controllata da Vincenzo Trani […] capo della Camera di Commercio italo-russa, Delimobil ha come suo secondo azionista il gruppo Vtb, seconda banca di Stato russa, considerata la più vicina a Putin e anche per questo finita sotto sanzioni di Usa e Ue già nel 2014 in seguito all'annessione della Crimea.
[…] Renzi è entrato nel board di Delimobil nell'agosto del 2021, quando la società, registrata in Lussemburgo, stava cercando di ottenere il via libera dalla Sec (la Consob americana) per quotarsi a Wall Street. Ma quanto ha guadagnato lecitamente il senatore italiano nei sette mesi circa in cui ha rivestito il ruolo di consigliere d'amministrazione di Delimobil?
Un'informazione rilevante, visto che Renzi è un politico che avrebbe ricevuto denaro russo, lecito e tracciabile, e la società privata per cui ha lavorato è partecipata da un'azienda di Stato straniera.
Né il leader di Italia Viva né Delimobil hanno fornito informazioni utili […] il mandato di Renzi scadeva nel 2024. Tre anni di lavoro che avrebbero assicurato al leader di Italia Viva un incasso complessivo compreso tra 200 e 230 mila euro […] […] la somma annua lorda per ognuno di loro è compresa tra i 66 mila e 77 mila euro.
Il senatore Renzi non ha incassato, però, tutti questi soldi, visto che ha fatto parte del board di Delimobil da agosto del 2021 al febbraio del 2022. Sono sette mesi, equivalenti a una indennità complessiva lorda compresa tra 38.500 euro e 45.500 euro. Questo è quanto il politico italiano dovrebbe aver guadagnato da Delimobil. Non molto rispetto a quanto avrebbe potuto ricevere se fosse rimasto nel cda fino alla scadenza.
Articolo del “Le Monde” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 22 settembre 2022.
La battaglia per l'influenza tra il presidente russo e i capi di Stato occidentali potrebbe cristallizzarsi al vertice del G20 di Bali, in Indonesia, a metà novembre, alla presenza di Xi Jinping e dei leader "neutrali" o "non allineati".
Mercoledì 27 luglio a Cotonou, in Benin, Emmanuel Macron ha accusato la Russia di essere "una delle ultime potenze imperiali coloniali" dopo aver lanciato una "guerra territoriale" in Ucraina. Per il capo di Stato, impegnato in un tour africano in contemporanea con il capo della diplomazia russa, Sergei Lavrov, "la Russia ha iniziato un nuovo tipo di guerra mondiale ibrida".
"Ha deciso che l'informazione, l'energia e il cibo erano strumenti militari messi al servizio di una guerra imperialista continentale contro l'Ucraina", afferma, come per convincere il suo interlocutore del giorno, il presidente beninese Patrice Talon, presente al suo fianco, ma soprattutto i leader e i cittadini africani, a non cedere alle sirene russe.
Lontano dai combattimenti – leggiamo su Le Monde - l'appello del presidente francese dà un'idea della battaglia diplomatica che si sta giocando a margine della guerra in Ucraina, con i molti Paesi che si rifiutano di scegliere da che parte stare in un conflitto che considerano "regionale" ed "europeo".
La posta in gioco è alta sia per la Russia, che è ansiosa di dimostrare di non essere isolata nonostante le massicce sanzioni adottate dagli Stati Uniti e dall'Unione Europea, sia per l'Occidente, che teme che il divario tra "l'Occidente e il resto del mondo" si stia allargando. Dal 24 febbraio, infatti, Washington e le capitali europee sono consapevoli delle loro difficoltà a raccogliere consensi.
A poco più di una settimana dall'inizio dell'invasione russa, mentre il Consiglio di Sicurezza è paralizzato, una prima votazione all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (UNGA) ha rivelato la portata del fenomeno in un mondo più che mai fratturato, dove l'influenza occidentale è in declino: il 2 marzo, solo quattro Stati (Corea del Nord, Siria, Eritrea e Bielorussia) hanno votato con la Russia contro il testo che chiedeva a quest'ultima di "cessare immediatamente l'uso della forza contro l'Ucraina". Tuttavia, trentacinque Paesi su 193 membri si sono astenuti, così come Cina, India, Pakistan, Iran e le ex repubbliche dell'Unione Sovietica.
Diciassette Stati africani su 35 hanno fatto lo stesso, tra cui Sudafrica, Senegal, Angola, Algeria, Mali, mentre altri, come Camerun e Marocco, non hanno nemmeno partecipato al voto. Alcuni Stati hanno votato a favore della risoluzione ONU, ma nel corso del processo si sono espressi contro le sanzioni occidentali, con il rischio di ridurne l'impatto o addirittura di essere tentati di cortocircuitarle.
È il caso della Turchia, membro della NATO, l'Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico, e del Brasile. Poche settimane dopo, alla fine di aprile, il campo degli astensionisti si è ulteriormente allargato, quando la Russia è stata esclusa dal Consiglio dei diritti umani. Appena 93 Paesi hanno votato a favore del testo, 24 si sono opposti insieme a Mosca, tra cui la Cina, e 58 si sono astenuti.
Per Jean-Marie Guéhenno, ex sottosegretario generale delle Nazioni Unite responsabile delle missioni di pace, questo "non allineamento" di una parte del mondo ha diverse cause, in una comunità internazionale ancora divisa dalle operazioni occidentali in Iraq nel 2003 e in Libia nel 2011.
"In primo luogo, la sensazione che ci sia una sorta di doppio standard nel rispetto della Carta delle Nazioni Unite tra l'Occidente e il resto del mondo. In secondo luogo, la preoccupazione di non schierarsi, mentre il conflitto è percepito come una guerra regionale europea; infine, i legami di lunga data instaurati dalla Russia con alcuni Paesi del Terzo Mondo", analizza questo diplomatico, oggi professore alla Columbia University. Una posizione che, secondo lui, non ha nulla di ideologico, a differenza del movimento dei non allineati ancorato alla Guerra Fredda.
"La Russia non è la Serbia o la Cina. È l'undicesima economia mondiale, ma esporta gas, petrolio, armi, energia nucleare civile e grano", osserva Thomas Gomart, direttore dell'Istituto francese per le relazioni internazionali (IFRI). "Ha preso atto del fatto che è soggetto a sanzioni ed è in grado di adottare controsanzioni", ad esempio nel campo dell'energia e degli alimenti. "
Questa posizione della Russia ha creato una nuova geografia attorno a tre grandi gruppi di Paesi: una zona OCSE che la condanna e la sanziona; i Paesi dell'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, che non condannano né sanzionano, e gli altri, che sono piuttosto indifferenti al conflitto, tranne quando sono interessati da uno dei cinque pilastri delle esportazioni strategiche russe", afferma Gomart. La Russia sta cercando di trarre vantaggio da questa frammentazione, sia giocando sulle armi energetiche e alimentari, sia sostenendo, con la Cina, la creazione di un nuovo ordine internazionale.
La questione è presa in seria considerazione dalle cancellerie occidentali, poiché i "non allineati" rappresentano più della metà della popolazione mondiale. "Dobbiamo intensificare il nostro lavoro diplomatico per riportare tutte le potenze neutrali verso di noi", afferma una persona vicina a Emmanuel Macron: "Si tratta di evitare una divisione del mondo" e "una sorta di isolamento degli europei accanto agli ucraini". Oltre all'Africa, gli sforzi si concentrano sui Paesi del Golfo, ma anche sull'Asia. "Se India e Cina cambiassero la loro diplomazia nei confronti della Russia, sarebbe molto complementare alle nostre sanzioni", ha suggerito l'Eliseo.
Nel frattempo, a metà settembre Vladimir Putin ha partecipato, insieme al presidente cinese Xi Jinping, a un vertice dell'Organizzazione per la cooperazione di Shanghai a Samarcanda, in Uzbekistan, alla presenza dei leader indiano, turco e iraniano. L'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che si riunisce lunedì 19 settembre a New York, conferma l'intensità di questa battaglia per l'influenza.
Così come il vertice del G20 che si terrà a Bali, in Indonesia, a metà novembre. Vladimir Putin è stato invitato dal Paese ospitante contro il parere iniziale degli Stati Uniti e degli alleati europei dell'Ucraina. Potrebbe essere il primo confronto diretto tra il presidente russo e le sue controparti occidentali, alla presenza del presidente cinese Xi Jinping e dei leader rimasti "neutrali" o "non allineati".
Secondo l’ Intelligence Usa, Mosca ha finanziato partiti in oltre 20 Paesi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Settembre 2022.
Secondo un rapporto dell'intelligence dal 2014 a oggi la Russia ha versato oltre 300 milioni di dollari a partiti e candidati per accrescere la propria influenza. Gli Stati Uniti forniranno ai singoli governi le informazioni “classificate” sui politici coinvolti
A dodici giorni dalle elezioni in Italia, Washington accusa la Russia di aver distribuito più di 300 milioni di dollari, fin dal 2014, per influenzare politici e rappresentanti di governo in più di venti Paesi, tra cui molti in Europa. L’informazione è contenuta in una nota interna inviata lunedì dal Dipartimento di Stato USA alle ambasciate e consolati americani in Europa, Asia del Sud e nord Africa. Palazzo Chigi è stato informato dagli americani, sollecitati dall’intelligence italiana, che il rapporto esiste.
Il messaggio era classificato come “sensitive”, cioè con informazioni importanti, ma non “classified“, dunque non da tenere strettamente riservato, come riferisce il Washington Post. E quindi in poche ore la notizia ha fatto il giro del mondo . Nel cablogramma, firmato dal segretario di Stato Antony Blinken, non si fanno nomi di politici e Paesi individuati dagli 007 americani ma si dice che Washington informerà direttamente le nazioni coinvolte. I primi Paesi coinvolti, i cui nomi circolano negli Stati Uniti, sono quelli della Bosnia e dell’ Ecuador.
In molti si chiedono se anche l’Italia è coinvolta e quindi citata nel cablo di Blinken. Secondo alcuni media americani questa notizia conferma la linea del presidente Joe Biden, deciso a togliere il velo della segretezza alle manovre di Mosca per influenzare politicamente gli altri Paesi, ma secondo altri può essere un tentativo di inserirsi nelle vicende elettorali di Paesi dell’Alleanza Atlantica.
Che la notizia rivelata dal Washington Post sia una vera e propria bomba mediatica-politica è ormai chiaro a tutti i livelli politici e istituzionali. La caccia ai nomi sarebbe già di per sé capace di stravolgere equilibri e bruciare carriere politiche. Un potenziale scandalo di questa portata che promette di diventare pubblico a undici giorni dalle elezioni politiche rende il tutto letteralmente esplosivo. E lo sa molto bene anche Mario Draghi, che viene investito della gestione di questo caso. E ne sono altrettanto consapevoli
Una volta uscita la notizia l’Italia i vertici dei Servizi italiani, hanno passato il pomeriggio di ieri avendo continui contatti con gli interlocutori americani depositari della linea e delle informazioni dell’amministrazione Usa, chiedendo conto tramite i canali ufficiali di intelligence della veridicità della notizia e dei dettagli. In un primo momento, i rappresentanti dell’intelligence americana presenti in Italia hanno risposto di non essere a conoscenza di nulla e di non aver ricevuto comunicazioni ufficiali da Washington.
La logica istituzionale sarebbe quella di investire il Copasir, vale a dire la commissione parlamentare di vigilanza sui Servizi segreti italiani. L’intelligence può infatti comunicare in quella sede al Parlamento i dettagli eventualmente ricevuti dal Paese alleato. Non è ancora una scelta già assunta, perché come rilevano le stesse fonti esiste “un margine di discrezionalità” che è prerogativa di Palazzo Chigi.
In alcuni ambienti di Washington la posizione della Lega di Matteo Salvini viene vista con preoccupazione per le sue posizioni sovraniste e la vicinanza al premier ungherese di destra Viktor Orbàn, tra i pochi interlocutori del presidente russo Vladimir Putin. Salvini infatti non aveva convinto neanche l’amministrazione guidata da Donald Trump durante la sua visita ufficiale da rappresentante del governo italiano.
E’ possibile che, nelle prossime ore, vengano fuori i nomi dei Paesi finanziati e coinvolti dalla pressione di Mosca ma anche i nomi dei politici a “libro paga” del Cremlino. Funzionari dell’amministrazione americana non hanno fornito, al momento, altri dettagli, limitandosi a ricordare l’influenza russa nelle recenti elezioni avvenute in Albania, Bosnia e Montenegro, che una volta facevano parte del blocco sovietico. Secondo il Washington Post, un membro dell’amministrazione Usa ha evidenziato che il presidente russo Vladimir Putin ha speso ingenti somme “nel tentativo di manipolare le democrazie dall’interno“.
Il dipartimento di Stato sostiene che il flusso di denaro uscito da Mosca sia entrato in Europa attraverso ‘think tank‘ politici e in Asia, Medio Oriente, Africa e Centro America attraverso aziende statali.
La cifra di 300 milioni elargita dalla Russia sarebbe peraltro calcolata per difetto. I soldi sarebbero molti di più. Nel messaggio interno del dipartimento non ci sono, invece, riferimenti alla possibilità che Mosca possa di nuovo intromettersi nelle elezioni americane. Il quotidiano Washington Post ha chiesto, un commento all’ambasciata russa a Washington, senza ottenerlo. Sotto i riflettori, in particolare, le attività russe in Ucraina: la fonte consultata non ha chiarito quanto denaro Mosca abbia speso nel paese guidato dal presidente Volodymyr Zelenskyy ed invaso lo scorso febbraio dalle forze armate russe.
Un alto funzionario Usa ha infatti spiegato che “la decisione di gettare luce sulle azioni segrete russe serve a mettere in allerta i partiti che se accettano segretamente soldi dai russi, possiamo svelare” la loro identità. Ed ha fornito l’esempio di un Paese dell’Asia (senza nominarlo) in cui un candidato alla presidenza ha ricevuto soldi dall’ambasciatore russo.
Non è la prima volta che i Servizi segreti USA denunciano una campagna di influenza da parte russa alimentata da soldi recapitati essenzialmente a partiti nazionalisti e antieuropei che rappresentano un quinto di quelli dell’Europarlamento. Nel 2016 la National Intelligence guidata da James Clapper ricevette l’incarico dal Congresso di controllare i finanziamenti russi degli ultimi dieci anni, e la ricerca è tutt’ora in corsa. Già nel 2016 Washington evitò di menzionare i nomi dei partiti e dei movimenti coinvolti nelle donazioni di Putin, ma nel mirino finirono i partiti di destra in Francia, Paesi Bassi Ungheria (Jobbik, non la Fidesz di Orban) ed Italia. A quell’epoca le attenzioni si spostarono sulla Lega di Matteo Salvini il quale negò ogni coinvolgimento.
Le reazioni e commenti della politica italiana
Il segretario nazionale del PD ha commentato: “Secondo fonti americane ben informate, la Russia in questi anni ha pagato partiti politici occidentali. Chiedo che ci sia in Italia la dovuta informazione e la dovuta chiarezza prima del voto“. Sono state queste le parole di Enrico Letta intervenendo nel programma “Cartabianca” (RAITRE) . “Chiedo che gli italiani, quando andranno al voto il 25 settembre, sappiano se partiti politici del nostro paese sono stati finanziati da una potenza, la Russia, che ha invaso l’Europa” aggiungendo “Vogliamo chiedere al governo italiano di dare le informazioni e che il Copasir intervenga: credo sia fondamentale che l’opinione pubblica sappia se ci sono partiti politici che hanno preso posizione di sostegno alla Russia perché sono stati pagati dalla Russia stessa“.
Immediata la reazione di Matteo Salvini , considerato “filorusso”: “Gli unici che hanno preso soldi dalla Russia in passato sono stati i comunisti e qualche quotidiano italiano. Liberi di farlo… Io non ho mai chiesto soldi e non ho mai preso soldi. La Lega querela? Ci credo… L’emergenza di chi è davanti al televisore sono le bollette… Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato? Se la Russia ha pagato il Pd, è giusto che si sappia“. Sono le parole di Matteo Salvini, leader della Lega, anche lui a “Cartabianca“: “L’unico paese straniero che nella mia attività politica mi ha offerto un viaggio tutto pagato e spesato, che poi non feci, furono gli Stati Uniti. Io non ci andai, altri ci andarono pagati dal governo americano, liberi di farlo”. Una nota della Lega aggiunge “L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente ‘la Repubblica’ che per anni ha allegato la rivista ‘Russia Oggi’. La Lega ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta“.
Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia ha commenta su Twitter: “Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c’era una tradizione antica da parte loro. Però vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento”, ma incredibilmente il tweet subito dopo la pubblicazione è scomparso ? Redazione CdG 1947
Da ansa.it il 13 settembre 2022.
La Russia ha trasferito segretamente oltre 300 milioni di dollari a partiti politici, dirigenti e politici stranieri in oltre una ventina di Paesi a partire dal 2014: lo affermano alti dirigenti Usa sulla base di accertamenti dell'intelligence americana.
Si tratta di informazioni declassificate di un report dell'intelligence Usa, ha spiegato un alto dirigente dell'amministrazione Biden in una conference call.
Informazioni che sono state condivise con altri Paesi.
I fondi segreti sono stati usati nell'ambito degli sforzi di Mosca di guadagnare influenza all'estero. Gli 007 ritengono che gli oltre 300 milioni trasferiti segretamente da Mosca a partiti e politici stranieri siano cifre minime e che Mosca abbia trasferito probabilmente altri fondi in modo coperto: lo riferisce un alto dirigente Usa.
Da adnkronos.com il 13 settembre 2022.
"Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato?". Matteo Salvini, segretario della Lega, a Cartabianca risponde alle domande sulle notizie basate su informazioni dell'intelligence Usa, secondo cui la Russia avrebbe finanziato partiti di altri paesi con 300 milioni di dollari dal 2014.
"Gli unici che hanno preso soldi dalla Russia in passato sono stati i comunisti e qualche quotidiano italiano. Liberi di farlo... Io non ho mai chiesto soldi e non ho mai preso soldi. La Lega querela? Ci credo... L'emergenza di chi è davanti al televisore sono le bollette... Dicano nomi e cognomi: chi hanno pagato? Se la Russia ha pagato il Pd, è giusto che si sappia", dice Salvini. "L'unico paese straniero che nella mia attività politica mi ha offerto un viaggio tutto pagato e spesato, che poi non feci, furono gli Stati Uniti. Io non ci andai, altri ci andarono pagati dal governo americano, liberi di farlo".
Gli Usa: dai russi 300 milioni per interferire in 24 Paesi. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.
Il documento inviato dal dipartimento di Stato chiede agli ambasciatori di sollevare il problema nelle varie Nazioni. L’Italia non è stata contattata
Il governo russo ha speso, o meglio, investito almeno 300 milioni di dollari dal 2014 in avanti per cercare di «influenzare» i politici di almeno 24 Paesi. È il messaggio inviato lunedì 12 settembre dal segretario di Stato Antony Blinken alle ambasciate e ai consolati Usa con sede soprattutto in Europa, ma anche in Africa e nel Sud-Est asiatico. Non ci sono i nomi, però, né dei Paesi interessati, né dei partiti o di singoli dirigenti politici che avrebbero beneficiato dei finanziamenti «coperti» distribuiti dal Cremlino.
La notizia riapre la polemica sulle manovre pianificate da Mosca per condizionare le dinamiche politiche e sociali in altri Stati, specie quelli schierati con l’Alleanza atlantica. E chiaramente la mossa americana cade in un momento delicato per l’Italia, in piena campagna elettorale.
Il documento firmato da Blinken è stato concepito come un atto interno alla diplomazia americana. Anche se il segretario di Stato invita gli ambasciatori a «sollevare il problema» con le autorità dei Paesi che li ospitano. Il governo guidato da Mario Draghi fa sapere di non essere stato contattato.
Le informazioni provengono da un nuovo rapporto dei servizi segreti Usa e si inseriscono in un filone di indagine iniziato almeno 7-8 anni fa. In un primo tempo gli analisti americani hanno ricostruito le manovre del Cremlino per disturbare la campagna presidenziale del 2016 negli Stati Uniti. I democratici accusarono Donald Trump di aver cospirato con Putin per danneggiare Hillary Clinton.
L’inchiesta venne affidata al super procuratore Robert Mueller che il 22 marzo 2019 consegnò un mastodontico rapporto, sostanzialmente con due conclusioni. Primo: il Cremlino aveva cercato di favorire Trump. Secondo: non c’erano prove di una collusione tra l’allora candidato repubblicano e il vertice russo.
In parallelo si mosse anche la commissione Affari esteri del Senato americano. Era il 2017, i repubblicani, allora in maggioranza, si rifiutarono di partecipare alle indagini. I democratici, comunque, completarono un dossier, un «minority report», datato 10 gennaio 2018. Titolo: «L’assalto asimmetrico di Putin alla democrazia in Russia e in Europa, implicazioni per la sicurezza Usa».
Il testo dedica largo spazio ai tentativi di destabilizzazione o di condizionamento nei Paesi baltici, in Ucraina, Georgia, Montenegro, Serbia, Bulgaria ed Ungheria. Ci sono anche tre pagine dedicate all’Italia. I parlamentari puntano l’attenzione sulle «posizioni anti-establishment» e favorevoli alla Russia del Movimento 5 Stelle. Ma osservano che «non ci sono prove di finanziamenti corrisposti al Movimento 5 Stelle da fonti legate al Cremlino».
Viceversa si riportano «i sospetti» di «alcuni osservatori» a proposito della Lega: «Potrebbe aver ricevuto fondi dai servizi segreti del Cremlino». Come è noto il vertice leghista, a cominciare da Matteo Salvini, ha sempre negato qualsiasi legame economico con Putin.
In ogni caso il rapporto firmato dai senatori democratici, oggi in maggioranza, si concludeva con queste parole: «L’Italia può essere un bersaglio per il Cremlino», favorendo quelle posizioni «che possono indebolire l’unità europea sulle sanzioni (quelle del 2014, ndr) contro la Russia»
L’ombra delle ingerenze agita la politica, la Lega minaccia querele. Stefano Montefiori e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.
Il Pd: intervenga il Copasir, si faccia chiarezza prima del voto. L’Ungheria sembra essere destinazione privilegiata di investimenti da Mosca
La notizia del dossier americano irrompe sulla campagna elettorale italiana come una bomba. Tanto che il leader della Lega Matteo Salvini reagisce subito: «L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente La Repubblica che per anni ha allegato la rivista Russia Oggi . La Lega ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta».
Al momento nessuna comunicazione ufficiale risulta arrivata per via diplomatica. Ma non si può escludere che nei prossimi giorni possano essere trasmessi dettagli sul contenuto dell’informativa dell’intelligence statunitense. Per questo già da oggi anche il Copasir potrebbe aprire una pratica per accertare quali dati siano stati acquisiti, se ci siano «canali» economici verso il nostro Paese e soprattutto che tipo di verifica sia stata effettuata. Lo ha chiesto il segretario del Pd Enrico Letta: «Si deve fare chiarezza prima del voto, intervenga subito il Comitato parlamentare». E Giuseppe Conte si è allineato: «Il M5S come sempre agisce in piena trasparenza: ci auguriamo che il Copasir indaghi con il sostegno di tutte le forze parlamentari. Non possiamo non esprimere preoccupazione sul fatto che la campagna elettorale possa essere inquinata da fattori esterni». «Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c’era una tradizione antica da parte loro. Però vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento», ha scritto su Twitter Guido Crosetto, co-fondatore di Fratelli d’Italia.
L’Italia è il Paese più al centro delle attenzioni vista l’imminenza del voto del 25 settembre, che potrebbe spostare gli equilibri in Europa e — nelle speranze del Cremlino — indebolire la coesione del fronte pro-Ucraina. Ma ci sono sospetti su ingerenze russe nel processo democratico di molti Paesi, primo fra tutti la Francia, dove Marine Le Pen ha finanziato le campagne elettorali grazie a prestiti russi. Nel 2014 l’allora Front National ha contratto un prestito di 9,4 milioni di euro presso la First Czech-Russian Bank (FCRB), che ha concesso anche un finanziamento di due milioni per il micro-partito Jeanne di Jean-Marie Le Pen. Fallita la banca due anni più tardi, il credito viene rilevato da una società formata da ex militari russi con la quale nel 2020 il Rassemblement national trova un accordo per un rimborso scaglionato fino al 2028. In occasione della campagna presidenziale del 2017, poi, il partito viene di nuovo aiutato dal prestito dell’uomo d’affari Laurent Foucher — legato a Mosca secondo il giornale Mediapart —, che fornisce otto milioni di euro benché sia insolvente e sotto inchiesta a Ginevra per truffa e riciclaggio. Nel 2022, visto che la legge francese ormai proibisce finanziamenti ai partiti da Paesi fuori dell’Unione europea, Marine Le Pen si rivolge a una banca ungherese che le assicura 10,6 milioni di euro.
L’Ungheria sembra essere una destinazione privilegiata degli investimenti di Mosca. Anche tramite la «International Investment bank», nuovo nome della banca del Comecon di era sovietica, che nel 2019 ha spostato la sua sede da Mosca a Budapest. Il suo direttore è Nikolai Kosov, figlio dell’allora capo del Kgb in Ungheria.
Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 15 settembre 2021.
Il dossier sui 300 milioni di dollari elargiti dalla Russia a venti Paesi è stato confezionato qualche mese fa, quando alla Casa Bianca c'era già Joe Biden. Le informazioni e le verifiche sarebbero state affidate a funzionari del ministero del Tesoro sulla base dei dati raccolti dalla Cia ma senza coinvolgere la National Security.
Sono le prime informazioni trasmesse al governo italiano per via diplomatica e di intelligence . Un report che però non scioglie il nodo cruciale sulla presenza dell'Italia nella lista degli Stati dove ci sarebbero stati partiti e uomini politici «a libro paga».
«Al momento non risulta ma le cose potrebbero cambiare», dichiara il presidente del Copasir Adolfo Urso in trasferta a Washington. E in serata twitta: «Ho appena concluso un positivo incontro al Dipartimento di Stato», con la foto delle due bandiere. La tensione in una campagna elettorale già segnata dal sospetto di interferenze straniere rimane però altissima. Perché dopo la notizia sull'esistenza del report filtrata martedì sera, nessuna comunicazione ufficiale è arrivata dagli Stati Uniti sui Paesi coinvolti. Anzi, nelle note informali di queste ore si specifica che il dossier non sarà consegnato ai governi stranieri perché «classificato». E questo aumenta i dubbi su modi e tempi di diffusione delle informazioni.
Il warning
Gli analisti ritengono che la «bomba» sganciata due giorni fa possa essere in realtà un avviso, una sorta di warning per chi vincerà le elezioni italiane rispetto all'atteggiamento da tenere nei confronti di Washington. Motivo in più per spingere l'esecutivo in carica a sollecitare informazioni chiare sugli elementi raccolti dagli analisti statunitensi. E soprattutto su eventuali dettagli italiani. Finora si è parlato genericamente di fondi ai partiti stranieri. Quali? Si tratta di finanziamenti diretti? Ci sono triangolazioni? Sono coinvolte società o altre istituzioni? Interrogativi al momento senza risposta.
«Fondi dal 2014»
Nessun chiarimento è stato fornito anche sul motivo per cui l'indagine avrebbe riguardato le elargizioni di Mosca a partire dal 2014. È l'anno dell'invasione della Crimea e del Donbass, nel febbraio ci fu la rivoluzione ucraina culminata con la fuga del presidente Viktor Yanukovich.
Date cruciali rispetto alla guerra in corso tra Russia e Ucraina che potrebbero aver spinto l'amministrazione Biden - schierata al fianco del presidente Volodymyr Zelensky - a sollecitare indagini mirate sulla rete tessuta da Putin. Ma la scelta di far filtrare i risultati in maniera parziale proprio in questi giorni in Italia fa presto a trasformarsi in accusa di ingerenza sulla campagna elettorale in vista del voto del 25 settembre. Anche tenendo conto che negli Stati Uniti sono circolate indiscrezioni sul condizionamento del voto in Albania, Montenegro, Ecuador, Madagascar, ed è stato specificato che «si stanno contattando le ambasciate degli Stati interessati» ma non risultano contatti con la nostra sede diplomatica o con la Farnesina.
Al Copasir
Domani mattina il sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli riferirà al Copasir l'esito delle istanze presentate in queste ore agli interlocutori di Washington. «Perché - ribadisce il deputato del Pd Enrico Borghi - siamo in un momento delicatissimo, non possiamo permetterci di rimanere in una situazione di incertezza e sospetto». La prossima settimana il presidente del Consiglio Mario Draghi sarà negli Stati Uniti e incontrerà Biden. Sembra difficile che possa essere quella l'occasione per un chiarimento, ma nessuno può escluderlo. E il timore di rivelazioni con il contagocce in grado di avvelenare questi ultimi giorni di campagna elettorale continua a salire.
Soldi russi, la mossa del premier Draghi e quella mail Usa che per ora chiude il caso. Giuseppe Sarcina e Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022
Ma già si parla di altri dossier in arrivo nelle prossime settimane su finanziamenti russi. Il Dipartimento di Stato americano: il nostro allarme è sul piano globale. Proroga del Copasir fino alla scelta dei nuovi componenti (è la prima volta)
Mario Draghi lo dirà pubblicamente. Già oggi — nella conferenza stampa convocata a Palazzo Chigi dopo il Consiglio dei ministri — il premier potrebbe confermare che nel dossier sui 300 milioni di dollari distribuiti dalla Russia a venti Stati non c’è l’Italia. Le fibrillazioni che avevano segnato le ultime 48 ore con le notizie fatte filtrare negli Stati Uniti su finanziamenti a partiti e uomini politici stranieri, lo avevano convinto sulla necessità di ottenere un chiarimento con l’amministrazione di Joe Biden. E così, ieri mattina, il capo del governo ha chiamato il segretario di Stato Antony Blinken per avere informazioni dirette sul contenuto del dossier. E la risposta è stata esplicita: «Nulla su di voi».
La mail Usa
Il rapporto sui fondi russi ai partiti occidentali, risponde il Dipartimento di Stato al Corriere, va interpretato come «un’allerta globale». Non sono indicati alcuni Paesi in particolare, né forze politiche o singoli leader. È la stessa spiegazione fornita da Blinken a Draghi. E nelle stesse ore il Dipartimento di Stato ha inviato una mail ai governi: «Noi non entriamo nelle informazioni specifiche di intelligence , ma siamo stati molto chiari nell’esporre la nostra preoccupazione sulle interferenze della Russia nel processo democratico in diversi Paesi del mondo, compreso il nostro. A questo proposito non concentriamo il nostro allarme nei confronti di nessuno Stato in particolare, ma sul piano globale, poiché dobbiamo fronteggiare le sfide contro le società democratiche. Continueremo a lavorare con i nostri alleati e partner per mettere in luce i tentativi di influenza pericolosa della Russia, aiutando gli altri Paesi a difendersi contro tali attività».
Il Copasir
Mercoledì sera Adolfo Urso, presidente del Copasir per Fratelli di Italia, ha ottenuto più o meno le stesse risposte nella sua ultima giornata a Washington. Accompagnato dal numero due dell’ambasciata italiana, Alessandro Gonzales, ha avuto una serie di incontri al Dipartimento di Stato. Poi, scortato dall’ambasciatrice Mariangela Zappia, ha visto il presidente della Commissione Intelligence al Senato, il democratico Mark Warner, nonché il repubblicano Richard Burr, componente dello stesso organismo. E in tutti i colloqui ha ricevuto rassicurazioni sull’esclusione dell’Italia. Del resto poco dopo la divulgazione delle notizie, gli Stati Uniti avevano fatto sapere che le ambasciate interessate sarebbero state contattate. Ma né gli addetti diplomatici negli Usa, né la Farnesina, né gli apparati di intelligence — subito allertati dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Gabrielli — hanno ricevuto informazioni specifiche sull’inserimento dell’Italia nel dossier. Resta il dubbio che nel rapporto compilato dai servizi segreti e dal Consiglio di sicurezza nazionale, diretto da Jake Sullivan, il più stretto collaboratore di Joe Biden, possano esserci dei riferimenti risaputi, attinti dalle cosiddette «fonti aperte», cioè notizie già pubblicate.
Avviso al governo
Le informazioni fatte filtrare da Washington — che gli analisti leggono come un warning per il prossimo governo — potrebbe comunque essere il preludio all’invio di altri dossier. Le parole del ministero degli Esteri Luigi Di Maio, che conferma di essere «in contatto con gli americani per tutti gli ulteriori aggiornamenti», dimostrano che nelle interlocuzioni di queste ore della diplomazia e dell’intelligence è stato spiegato che ci sono numerosi report preparati dal Tesoro e dagli 007 Usa sui finanziamenti di Mosca a partiti, imprese, uomini politici stranieri e per questo non è affatto escluso che nelle prossime settimane possano emergere altri documenti che coinvolgano anche italiani.
La proroga
I timori per quello che potrà accadere in materie così delicate sembrano dimostrati dalla norma, votata all’unanimità e inserita nel decreto Aiuti, che — per la prima volta — proroga il Copasir. E stabilisce che «fino alla nomina dei nuovi componenti dello stesso Copasir le relative funzioni sono esercitate da un comitato provvisorio costituito dai membri del comitato della precedente legislatura che siano stati rieletti in una delle Camere».
Da lastampa.it il 13 settembre 2022.
Quasi alla vigilia delle elezioni, il rapporto con la Russia torna al centro del dibattito elettorale. Un rapporto dell'intelligence statunitense denuncia, infatti, che dal 2014 – anno dell'occupazione della Crimea – a oggi Mosca ha finanziato con 300 milioni di dollari partiti politici e candidati in oltre 20 Paesi per accrescere la propria influenza. «Vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani – incalza Guido Crosetto –, perché è alto tradimento». Il Pd ha chiesto «a tutti i partiti politici italiani di assicurare la propria estraneità a questi finanziamenti». L'informativa non indica specifici 'target' russi ma chiarisce che gli Stati Uniti stanno fornendo informazioni classificate a singoli paesi specifici.
Intanto, dopo il confronto Letta-Meloni di ieri, da cui son emerse due Italie contrapposte su tanti temi, dal Pnnr ai diritti, fino all’immigrazione, oggi la leader di FdI ha parlato di sé in un'intervista al Washington Post: «Qualora gli italiani decidessero che vogliono Meloni premier, sarò premier», ha sottolineato, spiegando il programma del suo partito che definisce «conservatore» e il suo rapporto con l'Europa: «Non mi considero una minaccia, una persona mostruosa o pericolosa».
Aggiornamenti ora per ora
20.46 – Bonelli: “Quali partiti italiani hanno preso soldi dalla Russia?”
«Quali partiti italiani hanno preso soldi dalla Russia per condizionare le elezioni? Secondo intelligence Usa 300 mln di dollari sono stati trasferiti a partiti di Paesi esteri. Esistono atti declassificati di cui il governo è a conoscenza ? Se si, li renda pubblici». Così Angelo Bonelli, leader dei Verdi.
21.05 – Russia: Crosetto, fuori i nomi. E' alto tradimento
«Dicono che la Russia abbia finanziato partiti in 20 nazioni, dal 2014, con oltre 300 milioni di dollari. La cosa non mi stupisce perché c'era una tradizione antica da parte loro», scrive Guido Crosetto su Twitter. «Però - riprende l'ax parlamentare FdI - vorrei sapere i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché - incalza - è alto tradimento».
21.18 – Pd, tutti partiti assicurino estraneità finanziamenti
«Dal 2014 la Russia inquina la democrazia pagando partiti e candidati che ne difendono gli interessi. La nostra democrazia è troppo preziosa per metterla in vendita. Chiediamo a tutti i partiti politici italiani di assicurare la propria estraneità a questi finanziamenti». Lo scrive su Twitter Lia Quartapelle, responsabile Esteri del Partito Democratico.
21.37 – Borghi: solo Pd garantisce di non prendere soldi esteri
«Il Pd è stato l'unico partito sin qui a dire che mai prenderemo soldi dall'estero. Abbiamo chiesto a tutti i partiti di fare altrettanto (e finora non abbiamo avuto risposte). Alla luce di queste notizie tutti i partiti garantiscano che nessuno rientra nella fattispecie». Così su Twitter Enrico Borghi, responsabile Politiche per la sicurezza nella segreteria nazionale del Pd.
21.40 – Salvini: basta falsità, ora querelo
«L'unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito comunista italiano e in epoca recente 'la Repubblica' che per anni ha allegato la rivista 'Russia Oggi'». È quanto si legge in una nota della Lega che prosegue annunciando di avere «dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini, come è già accaduto in alcuni contesti televisivi, con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci». «Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta», conclude la nota della Lega.
21.49 – Ricci: da anni rapporto Salvini-Putin sotto occhi tutti
«Sono anni che la Russia cerca di influenzare le elezioni in occidente e in Italia aveva scommesso particolarmente sulla Lega». Lo ha detto il presidente di Ali - Autonomie Locali Italiane - e coordinatore dei sindaci del Pd, ospite di Stasera Italia, su Rete4. «Ora vedremo anche se c'è qualche partito italiano che ha preso i soldi, ma che ci sia un rapporto tra il partito di Salvini e quello di Putin è sotto gli occhi di tutti», ha aggiunto Ricci, come riferisce una nota, sostenendo poi che «Putin è stato il capitano e l'esempio dei sovranisti italiani, basta guardare quello che è successo negli ultimi anni. Ora bisogna prendersi le proprie responsabilità. Quelle del 25 settembre sono elezioni politiche dove ci si gioca il posizionamento dell'Italia in Europa e nel Mondo, in un cambiamento geopolitico molto delicato. È evidente - ha concluso - che le posizioni internazionali sono molto importanti quando ci si rivolge agli elettori. Il Partito democratico sta con l'Europa e occidente, senza se e senza ma».
Jacopo Iacoboni per “La Stampa” il 15 settembre 2021.
È difficile stabilire un punto d’inizio delle storie più oscure delle operazioni di interferenza russa in Italia, siamo pur sempre il Paese che ha avuto il partito comunista più grande d’Occidente, vent’anni di governo di Silvio Berlusconi – un amico personale di Putin che il Dipartimento di Stato sospettava di «affari personali» con il presidente russo, attorno a Gazprom e usando suoi presunti prestanome – e in anni recenti la più grande esplosione di partiti populisti-sovranisti in Europa, il M5S e la Lega. Ma forse è il 2014, l’anno di annessione illegale della Crimea alla Russia, il punto di svolta. E gli uomini vicini all’oligarca ortodosso Konstantin Malofeev e a Alexander Babakov (menzionato anche nell’ultimo cablo Usa) giocano un ruolo decisivo.
È una storia che si può far partire da Torino. La Lega nel 2013 deve eleggere il nuovo segretario, che sarà Matteo Salvini. Arrivano in Piemonte Aleksey Komov, collaboratore dell’oligarca ortodosso ultranazionalista russo Konstantin Malofeyev, e il deputato di “Russia Unita” Viktor Zubarev. Entrambi legati anche a Babakov, oligarca nel settore dell’energia. Nel 2015 un convegno di Lombardia-Russia a Milano sarà pagato con i soldi di Malofeev, secondo il racconto di uno dei collaboratori del Carroccio. Babakov sarà intermediario dei nove milioni “prestati” dai russi a Marine Le Pen.
Nei primi mesi del 2014 era nata l’associazione Lombardia-Russia, di Gianluca Savoini e Claudio D’Amico. Nella primavera 2014 Lombardia-Russia si lega alla “Gioventù Russa Italiana”, un’organizzazione fondata nel 2011 da Irina Osipova, figlia di Oleg Osipov, capo del potente ufficio italiano di Rossotrudnichestvo, che nel 2016, si candida persino con Fratelli d’Italia al Comune di Roma.
Partono andirivieni trasversali con Mosca. Nell’ottobre 2014 un gruppo di leghisti vola prima in Crimea, a sostenere i russi. Ci vanno anche due volte delegazioni parlamentari M5S, la star è Alessandro Di Battista. Grillo diventa special guest di RT, oggi bannata in Europa, come Assange e come Michael Flynn, il primo consigliere per la sicurezza nazionale di Donald Trump. Sappiamo che Flynn riceve compensi da RT. RT paga anche per quelle interviste grilline?
Dopo la Crimea i leghisti vanno a Mosca, dove incontrano anche Sergey Naryshkin, oggi capo del Svr, i servizi segreti esteri. L’operazione d’influenza, per i russi, si lega fin dall’inizio allo spionaggio. I leghisti lo sanno? Anni dopo, a Roma, a parlare con gli emissari leghisti per un «viaggio di pace» di Salvini a Mosca sarà Oleg Kostyukov (figlio del capo del Gru), vicario dell’ambasciata russa a Roma, che arriva a domandare ai leghisti, il 27 maggio 2022, se sono «orientati a ritirare i leghisti dal governo Draghi». Mosca ha tramato per abbattere Draghi?
Secondo Newslinemag, che ha ottenuto delle mail del gruppo “Tsaargrad” – del filosofo Alexander Dugin e di Malofeev – il 17 ottobre 2018 Salvini ha un appuntamento con Malofeev, così scrive per mail il braccio destro dell’oligarca. Il giorno dopo, all’hotel Metropol a Mosca, Savoini discute un accordo: il colosso petrolifero Rosneft, guidato da Igor Sechin (in tutti questi anni portato in palmo di mano in Italia dal capo di Banca Intesa Russia, Antonio Fallico), avrebbe venduto gasolio all’Eni con uno sconto del 4%, 65 milioni, destinato alla Lega. Esce l’audio. È ancora aperta a Milano un’inchiesta, ma i soldi non sono mai stati trovati.
Nell’ultimo cablo Usa – dove non si fanno nomi specifici – si legge che spesso «il finanziamento politico russo è stato eseguito da organismi come il Fsb». E con un meccanismo di «società di comodo, think tank, università». Le ombre russe in Italia hanno spesso riguardato presunti finanziamenti a dipartimenti universitari. O alla Link University, l’università cara ai 5 Stelle e a pezzi dei servizi. O a riviste di geopolitica più o meno gialloverdi e anti-atlantiche.
Il ministro degli esteri Luigi Di Maio ha detto «io me ne sono andato dal M5S perché Conte stava flirtando con Putin». Conte ieri ha assicurato: «Io posso parlare del M5S, non c’è nessuna possibilità che possa essere coinvolto e subire interferenze». Da anni i 5S, soprattutto con Vito Petrocelli, poi espulso, hanno flirtato con uomini di Putin, per esempio Konstantin Kosachev, o Leonid Slutsky, o Serghey Zeleznyak.
Nel marzo 2020 l’allora premier grillino concesse a Putin una sfilata di mezzi militari e intelligence e generali russi in Italia, dai russi rivenduta come «missione di aiuti». Fu quello, o una missione di propaganda, con uomini dello spionaggio militare su suolo Nato, seguita da pressioni per far adottare il vaccino Sputnik in Italia? Un alto dirigente dello Spallanzani rivelò a La Stampa che due funzionari di stato russi gli proposero 250 mila euro per spingere lo Sputnik, lui rifiutò e informò carabinieri e Servizi. Cosa ruotò attorno a quella grigia storia? I russi ottennero in cadeaux la coltura virale del coronavirus dal potenziale valore commerciale miliardario?
Le domande sulle zone oscure del caso italiano si moltiplicano. Le spie russe in Italia proliferano, arrivando quasi a un centinaio. Lunedì scorso una nota del Dipartimento di Stato inviata alle ambasciate Usa in più di 100 Paesi – compresa Roma – ha suggerito le misure per reagire: sanzioni, divieti di viaggio e l’espulsione di presunte spie russe coinvolte in finanziamento. Chissà se dopo Draghi ne vedremo più qualcuna.
Da lastampa.it il 16 settembre 2022.
Davide Casaleggio attacca duramente Giuseppe Conte, sulla vicenda del presunto finanziamento dal Venezuela di Chavez-Maduro a Gianroberto Casaleggio – finanziamento che Davide Casaleggio ha sempre negato, querelando il giornale spagnolo che per primo aveva diffuso la notizia riportando un documento dei servizi segreti spagnoli.
Ora però Casaleggio sostiene che Conte, in quella storia, ebbe un ruolo. A pochi giorni dal voto del 25 settembre, con un video su Facebook, il figlio del cofondatore del M5S attacca il leader del Movimento, l’avvocato del popolo: «Aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla».
E avanza il dubbio, tra l'altro, che dietro quel caso ci fosse la volontà di cambiare il corso del Movimento 5 Stelle. «Devo raccontarvi un fatto grave che è successo in questa legislatura. Molti di voi lo conosceranno come il "caso Venezuela". Un'infamia che è stata condotta contro mio padre - esordisce Casaleggio - Bene, in questi anni ho condotto diverse ricerche e questo mi ha permesso di farmi un'idea di cosa sia successo.
E anche di quali sono gli attori che sono stati coinvolti in questa vicenda. Anche i servizi segreti italiani, anche persone nel governo italiano sono state coinvolte in questa vicenda. Speravo che la giustizia avesse già fatto il suo corso per la fine di questa legislatura, ma così non è stato. Credo sia quindi importante condividere alcune informazioni pubblicamente».
«Molti di voi ricorderanno il "caso Venezuela" perché è finito su tutti i giornali. Tutte le televisioni, tutte le inchieste di approfondimento in televisione parlavano del “caso Venezuela”. Una valigetta con 3,5 milioni di dollari - ricorda Davide Casaleggio - che sarebbe arrivata nelle mani di mio padre per cambiare il corso delle idee del governo italiano tramite il Movimento 5 Stelle che a suo tempo - si parla del 2010 almeno dalla storia raccontata - era fuori dal Parlamento, fuori dal Governo e quindi sostanzialmente parliamo di una storia irrealistica, che però molti giornali hanno sposato comunque. Ma cosa ho scoperto in questi anni?
Beh, innanzitutto i tempi. Questo documento falso è arrivato al giornale spagnolo, che poi lo pubblicò, proprio nel momento in cui il capo politico del Movimento 5 Stelle si era dimesso. Un momento delicato per il Movimento 5 Stelle. L'inchiesta esce sul giornale sei mesi dopo. Proprio nel momento in cui si sta discutendo del fatto di fare o meno il voto per il capo politico che doveva essere rivotato. Proprio in quel periodo in cui - come molti di voi ricorderanno - io sostenevo la necessità di fare un voto aperto a candidature multiple con il voto degli iscritti, per poter avere un nuovo capo politico».
«Questo non successe mai - rimarca Casaleggio - perché nel frattempo è stato cambiato lo statuto. È stato nominato sostanzialmente un monocandidato, che alla fine è stato ratificato da alcuni iscritti. Ora questo per quanto riguarda i tempi. Chi era invece a conoscenza di questo documento prima che arrivasse nelle mani del giornalista spagnolo?
Bene, questo documento era custodito in un cassetto del governo italiano già da un anno. Tra l'altro prima della pubblicazione, il 27 di aprile del 2019 i servizi segreti italiani con in mano questo documento vanno da Giuseppe Conte - sostiene il foglio del cofondatore del M5S - vista la gravità del fatto denunciato dal documento e lo sottopongono per una sua valutazione. Quello che è stato fatto? Nulla». «Non si fece né un'indagine su un fatto che effettivamente poteva essere molto grave, parliamo di corruzione, riciclaggio, cercare di pagare una forza politica per indurre il governo a fare qualcosa per un Paese straniero.
È qualcosa di molto grave ma il Presidente del Consiglio al tempo non fece nulla. Non fece nulla neanche nell'altro senso. Se pensava che questo documento fosse falso, era una chiara calunnia. Un tentativo di calunnia perché al tempo il documento era segreto, ma non fece nulla neanche quando questo documento uscì sui giornali. Tutti i giornali italiani ne hanno parlato e Conte aspettò ben due giorni per fare la sua dichiarazione in cui sostanzialmente faceva finta di non saperne nulla».
«Ora tutto questo usciva, e il governo? Nulla. Conte che aveva questo documento da oltre anno, non disse nulla. Fece finta di nulla. Ora io spero che nel prossimo governo, che nella prossima legislatura, tutte le persone che avranno a che fare con i servizi segreti: sia le persone che controlleranno i servizi segreti, sia le persone che li gestiranno, abbiano il senso dello Stato. Perché io non tollero che si infanghino le persone che non possono difendersi. Non tollero che si infanghi mio padre. E quindi spero che si faccia chiarezza su un'operazione di calunnia pubblica che è stata portata avanti contro mio padre».
Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per il Foglio il 16 settembre 2022.
La cosa grave, per quanto riguarda i finanziamenti russi a partiti italiani, è che le ombre sono poche, riguardano dettagli scabrosi ma non l’essenziale. Tutto si è svolto alla luce del sole. (...)
Salvini nella sua ingenua furbizia ha pensato, e ha manifestato apertamente nelle forme più primitive, perfino infantili, che il suo impulso verso il regime dei pieni poteri, dell’uomo forte, della soluzione risolutiva, dell’odio per le élite euroatlantiche, dell’ideologia del risentimento e della frustrazione contro la democrazia liberale, si identificasse con la Russia di Putin (...)
Non è questione di insinuazioni o accuse, di prove, di ulteriori accertamenti, di passaggi di rubli, tutte cose in ombra ma non poi così tanto, è questione direi quasi gratuita, solare, evidente, di infatuazione per un modello che è venuto alla luce per quel che è e per quel che costa in termini di equilibrio, sviluppo, libertà, pace e comune umanità.
Il Salvini invotabile, pericoloso, spiazzato in modo grottesco dalla storia di questi anni, non è uno sconosciuto agente del Kgb, non è un politico corrotto dai rubli, è il leader che ha scommesso apertamente su un modello insopportabile per il nostro modo di concepire la vita e l’esercizio dei diritti civili in un paese democratico. (...)
Il putinismo, che per Berlusconi è un’amicizia personale, ma l’uomo ha anche pianto la notte per Gheddafi, come raccontò mentre veniva bombardato e spento, per Meloni è una tentazione apparentemente rifiutata, per Salvini, che sta nel tridente elettorale della destra, è una seconda, macché una prima pelle. Altro che ombre russe
Marcello Sorgi per la Stampa il 17 settembre 2022.
Il lungo (forzatamente lungo) addio di Draghi si colora a tinte forti in una conferenza stampa in cui, prendendo spunto dal legittimo orgoglio di presentare un nuovo decreto Aiuti da 14 miliardi, il premier mette a posto i suoi ex-alleati e avversari. Ce n’è per tutti, con toni ora sornioni (più consoni a Draghi) ora risentiti, ora superiori, tanto che a un certo punto SuperMario accetta anche di sentirsi definire «sceso dall’alto», per dire che non ha mai avuto bisogno, né ha voluto, fare i conti con le miserie della politica quotidiana. E conferma il suo «no» a un secondo mandato.
Il primo ad affacciarsi nel mirino è Salvini, a cui sembra rivolto quel «pupazzo prezzolato» che continua a «parlare di nascosto» con Mosca. Draghi si prende la soddisfazione di far notare che l’ammontare degli ultimi due decreti è superiore, 31 contro 30 miliardi, all’ammontare dello scostamento di bilancio chiesto ogni giorno dal leader leghista. E di precisare che grazie ai suoi contatti con Blinken e l’amministrazione Usa il governo è stato in grado di scagionarlo completamente dal Russiagate. Della serie “So’ ragazzi”.
Il secondo, ma sempre associato a Salvini, è Conte per lo scetticismo sulle sanzioni per Mosca, «che invece funzionano», e quell’ipocrita plauso alla resistenza dell’Ucraina «che avrebbe dovuto difendersi a mani nude».
La terza è Meloni, alla quale, dopo il voto a favore di Orban, Draghi ricorda che la tradizionale collocazione dell’Italia in Europa con Francia, Germania e i maggiori membri dell’Unione è scelta di pragmatismo: sono Paesi che hanno gli stessi nostri problemi, in cerca di una soluzione comune. Consiglio non richiesto.
Il limite di queste considerazioni, sollecitate dalle domande dei giornalisti, è che sono state tutte senza fare nomi. Sassolini, o pietre, tolte dalle scarpe fuori tempo limite.
Draghi ovviamente rifiuta di dare un giudizio sulla campagna elettorale in corso, anche se è evidente che non gli è piaciuta, e fa un solo appello: al voto. Rivolto a tutti i cittadini, perché in fondo, anche se non lo ha detto apertamente, il premier pensa che gli italiani siano meglio dei partiti che li rappresentano, e il meglio del meglio forse si annidi tra quelli astensionisti, che potrebbero cambiare le cose facendo uno sforzo per andare alle urne.
Mattia Feltri per la Stampa il 17 settembre 2022.
Forse sono io a essere inadeguato agli arabeschi logici del mio tempo. Per esempio, ora Matteo Salvini pretende delle scuse. Come sapete, qualche giorno fa il Dipartimento di Stato americano ha diffuso una nota secondo cui da anni il Cremlino paga partiti di altri paesi per sovvertirne l'ordine democratico.
Con una deduzione particolarmente precipitosa, molti hanno dato per certo che fossero coinvolti pure dei partiti italiani e, una volta compiuto questo passo, la deduzione successiva era fatale: chi potrà mai essere stato retribuito da Mosca, se non quel tizio incline a indossare felpe con l'immagine di Putin sulla Piazza Rossa, promotore di una collaborazione politica fra il suo partito e quello di Putin, di cui è un tale ammiratore da averlo definito il garante della pace in Europa, il miglior leader al mondo insieme a Donald Trump, il presidente di un paese molto migliore dell'Unione europea, uno che vale il doppio di Obama, il triplo di Mattarella, il quadruplo di Renzi, un modello di lucidità e lungimiranza, uno senza difetti, un grande, un amico (tutto testuale)? Chi, dunque, se non Matteo Salvini?
Salta però fuori che il documento di tutto parla fuorché di partiti italiani, e tantomeno di Salvini, circostanza confermata ieri da Franco Gabrielli, sottosegretario delegato per la sicurezza della Repubblica. Ecco, ora Salvini indignato vorrebbe che i suoi avventati accusatori gli porgessero le scuse. Lui non è - per usare le parole di Mario Draghi - un pupazzo prezzolato. No, lui ha fatto tutto gratis. E a me, inadeguato agli arabeschi logici contemporanei, pare una terribile aggravante.
Leon Panetta ex capo della CIA: “Chi parla delle sanzioni come Salvini è stato influenzato da Mosca”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Settembre 2022.
Leon Panetta ex capo della CIA e del Pentagono sotto la presidenza Obama, parla di Putin, Salvini, Berlusconi, e sa di cosa parla...
“Sentire da chiunque quelle cose sulle sanzioni a Mosca mi dice che è stato influenzato dalla Russia”. È netto il giudizio di Leon Panetta, quando gli ricordi l’intervento di Matteo Salvini a Cernobbio. Subito dopo il capo di Cia e Pentagono nell’amministrazione Obama, quando Biden era vice presidente, aggiunge: “Fatico a pensare che chiunque verrà eletto in Italia non capisca come il ruolo del vostro paese nel mondo sia rafforzato dall’alleanza con Nato e Usa, e facendo altro minerebbe l’economia e la politica italiana“.
Vista la denuncia del segretario di Stato Blinken, può dirci cosa sa lei della corruzione russa in Italia e in Europa?
“Abbiamo sempre avuto intelligence sugli sforzi dei russi per aggirare le sanzioni e dirigere fondi verso coloro che sono vicini a Putin e nemici degli Usa. Usa i soldi come farebbe un tiranno, per complicare l’applicazione delle sanzioni“.
il segretario di Stato USA Blinken
Cosa sa della corruzione dei politici in Europa?
“Normali operazioni di intelligence russa. Usano i fondi per convertire alla loro linea, piazzare spie e alleati nel mondo. È quello che Putin ha fatto per anni, sfruttare ogni leva di potere per minare stabilità e Usa“.
Ha informazioni sull’Italia?
“Non mi sorprenderebbe che stessero usando fondi per influenzare chi sarebbe più favorevole alla Russia. In Italia e in altri paesi”.
Silvio Berlusconi e Vladimir Putin in Sardegna
Lei ha conosciuto Berlusconi nel 1994 durante la visita del presidente Clinton. L’apprezzamento che ha espresso in varie occasioni per Putin è politico, o legato al business?
“Non sarei sorpreso se Berlusconi avesse una relazione stretta con Putin. Risale ai tempi in cui il capo del Cremlino era più rispettabile come leader, sono sicuro che il loro rapporto vada indietro negli anni. Filosoficamente Berlusconi e Putin la pensavano allo stesso modo, ciò è probabilmente vero anche oggi“.
L’episodio del Metropol dimostra che la Lega è un target?
“Dobbiamo capire che Putin e la Russia sono in un angolo, a causa dell’Ucraina. Proveranno ad usare ogni mezzo per costruire un qualche tipo di sostegno“.
Salvini , l’ambasciatore russo in Italia e SavoiniSalvini e Savoini a Mosca
Tra una settimana in Italia si vota. Si aspetta operazioni di disinformazione?
“La Russia ha lanciato un attacco sfacciato contro gli Usa durante le nostre elezioni, e continua a farlo, per minarne l’integrità. È un approccio standard per aiutare chi pensano sosterrebbe le loro posizioni. Sta accadendo in Italia e altrove“.
Anche la corruzione?
“Sì. Non escluderei nulla, in particolare quando sono in un angolo come oggi. Putin era e resta prima di tutto un agente del Kgb, ed userà le tattiche che conosce per spingere gli altri a sostenere la Russia“.
Vladimir Putin
L’Ucraina può vincere la guerra?
“Putin non può vincerla, e dovrà affrontare la difficile decisione di salvare se stesso, oppure muovere verso l’escalation“.
C’è il rischio che usi le armi nucleari tattiche?
“Resta sempre una possibilità. Quando metti una tigre all’angolo, non sai mai come risponderà“.
Quindi Putin ora ha un incentivo ad influenzare le elezioni italiane per dividere la coalizione occidentale?
“Assolutamente. Usano queste tattiche quando le circostanze sono favorevoli, immaginiamoci ora che sono in difficoltà per guerra e sanzioni. Putin non ha ottenuto neppure il sostegno della Cina, e ciò dice tutto sulla sua posizione. È molto vulnerabile ora. Perciò cercherà di colpire comunque potrà“.
Quanto importante sarebbe sfilare l’Italia dalla coalizione?
“Punta a cercare di favorire questo risultato. Ma fatico a pensare che chiunque verrà eletto non capisca come il ruolo dell’Italia nel mondo sia rafforzato dall’alleanza con Nato e Usa, e facendo altro minerebbe tanto l’economia, quanto la politica del vostro paese“.
Salvini che a Cernobbio chiede di togliere le sanzioni è l’effetto di una posizione politica o delle pressioni russe?
“Non sei mai sicuro di cosa ci sia dietro a quel genere di commenti. È chiaro che Mosca si trova in una posizione molto difficile, non solo militarmente in Ucraina ma anche economicamente a causa delle sanzioni, sentire da chiunque quelle cose mi dice che è stato influenzato dalla Russia”.
Leon Panetta ex capo della CIA e del Pentagono
Quando era alla Cia ha visto informazioni sulla corruzione russa in Italia?
“Ogni giorno vedevo intelligence sugli sforzi dei russi per corrompere, spiare e minare la stabilità mondiale“.
È ciò che fanno. Il popolo italiano deve sapere che, ci piaccia o no, siamo impegnati in una guerra che dirà molto sul futuro della democrazia nel Ventunesimo secolo. Se vogliamo che sopravviva, dobbiamo fare tutto il possibile per fermare tiranni come Putin».f
“La Russia si ritrova ormai in un angolo a causa dell’Ucraina e proverà a usare ogni mezzo anche la corruzione“
*intervista di Paolo Mastrolilli, corrispondente dagli USA de La Repubblica
Russia, altro che i regali di Putin: ecco il peccato originale della sinistra comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 18 settembre 2022
Le simpatie che negli anni, a destra e a manca, si sono coltivate in favore del regime russo devono essere giudicate per quel che sono dal punto di vista di ciascuno: inoffensive o pericolose, scriteriate o ragionevoli, comprensibili o condannabili. Ma farne la materia di una specie di Mani Pulite transazionale e geopolitica - per combinazione in concomitanza con un appuntamento elettorale - rappresenta il solito trattamento italianamente imbecille e profondamente disonesto con cui si pretende di affrontare e risolvere una vicenda con etichettatura para-giudiziaria.
Per farsi un'idea del vignettista che raffigura il presidente degli Stati Uniti e Volodymyr Zelens' kyj con baffetti hitleriani e braccia fasciate di svastica non occorre verificare se la bella trovata ha ricevuto o no remunerazione. E quel giornalista democratico che descriveva l'operazione speciale come la cauta iniziativa di chi «punta sui suoi obiettivi, e intanto cerca di non spaventare la popolazione», propinava questa sua chicca - c'è da esserne sicuri- senza che fosse retribuita: e a farla condivisibile o infame non era la presenza o l'assenza del corrispettivo. E la pretesa di investigazione sulle cause interessate e monetizzate delle simpatie verso le gesta di quel regime ha poi questo doppio effetto pericoloso: che si va alla ricerca delle bustarelle dove verosimilmente non ci sono, magari tirando in mezzo chi non c'entra, e magari lasciando fuori chi non aveva bisogno nessun bisogno di riceverne. I comunisti italiani che ricevevano i soldi sporchi dell'aguzzino sovietico eran quel che erano a prescindere da quel rifornimento.
Felice Manti per il Giornale il 16 settembre 2022.
Dottor Jekill o Mister Hyde? Dove finisce l'Enrico Letta politico che vuole guidare (di nuovo) il Paese e dove inizia l'Enrico Letta lobbista? Domanda legittima che il Giornale pone al segretario Pd in campagna elettorale, finora senza risposta. Abbiamo ricostruito gli interessi e i legami di Letta con la Cina, solida alleata della Russia di Putin, attraverso la sua nomina nel Cda della holding del lusso cinese Liberty Zeta Ltd e nella società Tojoy, legata al presidente Xi Jinping di cui è stato co-presidente per l'Europa occidentale fino a marzo 2021.
Un intreccio di relazioni costruite nell'interregno tra l'addio di Letta alla politica con le dimissioni da parlamentare - dopo lo strappo su Palazzo Chigi orchestrato da Matteo Renzi col suo tweet #Enricostaisereno - e il suo rientro al Nazareno come salvatore della patria. Sette anni in cui si è dato da fare. Si chiama élite capture. Si assume o si coopta un ex politico in un'impresa privata che opera sotto le direttive di uno Stato straniero «in cambio delle loro conoscenze e a discapito degli interessi dei cittadini dell'Ue e degli Stati membri», scrive il Parlamento europeo che il 9 marzo scorso ha approvato la risoluzione contro «le ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell'Ue», realizzate non solo attraverso i fantomatici rubli in nero ai partiti di cui parlano gli Usa ma soprattutto attraverso parcelle (e influenze) in chiaro.
Lo ha sottolineato anche il Copasir nella relazione del 19 agosto scorso.
Adesso che Letta è tornato a far politica, come si concilia il suo lobbismo filocinese, la tutela dell'Europa e la fedeltà al modello atlantico? Nel suo magico mondo è tutto ok, tutto si può conciliare.
Quando nel 2019 il ministro degli Esteri Luigi Di Maio spalancò le porte dell'Italia a Pechino, dall'esilio il leader Pd commentò: «Non c'è alcuna contraddizione tra la nuova Via della Seta, le regole europee e la fedeltà agli Stati Uniti». Ma solo se la fedeltà agli americani di cui parla Letta è quella ai paradisi fiscali, dal Delaware al New Jersey, in cui hanno sede le società per cui l'ex premier ha lavorato.
Che così fanno dumping a scapito del gettito italiano (6,4 miliardi di euro il danno calcolato) e danneggiano il made in Italy. Privilegi che a parole il politico Letta dottor Jekill vorrebbe abolire, mentre il lobbista Letta Mister Hyde ne approfitta. A quale dei due credere?
Poi c'è un potenziale conflitto d'interessi. In questi sette anni, lo scrive nel suo curriculum, Letta è stato advisor di Equanim, società francese che ha contribuito attraverso la controllata Usa a ripulire l'immagine del regime saudita di Mohammad bin Salman dopo l'omicidio del giornalista Usa Jamal Kashoggi e che ha tra i suoi clienti anche Facebook, Disney, Google, la Monsanto e i big della farmacia mondiale, da Astrazeneca a Bayer.
Ma ha anche lavorato nella società di head hunting Spencer Stuart, di cui di recente si è servito anche Mario Draghi. È stato nominato nell'advisory board di Amundi, società specializzata nell'asset management, controllata dal gruppo Credit Agricole che in Italia ha inglobato Cariparma e che potrebbe scalare Banco Bpm.
È stato advisor di Tikehau Capital, società che nel 2020 ha favorito un'operazione Italia-Cina attraverso l'acquisizione del 30% di un'azienda di motori elettrici e una linea di credito accordata da Cassa depositi e prestiti per sostenere gli investimenti in nuovi impianti e macchinari ad alta tecnologia per il mercato automotive cinese. C'è anche il Letta presidente dell'associazione Italia-Asean dietro?
Plausibile, ma non è questo il punto. Quando Letta dice che il mercato delle auto elettriche è il futuro parla il politico dottor Jekill o il lobbista Mister Hyde?
Soldi russi ai partiti. Il ricatto degli 007 americani all’Italia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Settembre 2022
È molto inquietante la vicenda delle rivelazioni-non-rivelazioni dei servizi segreti americani sui finanziamenti russi a 24 paesi stranieri. E quello che preoccupa di più non è la Russia ma l’America. Le ipotesi, evidentemente, sono solo due. O le rivelazioni sono false oppure sono vere. I servizi segreti americani non sempre sono attendibili, quindi l’ipotesi-bufala non è da escludere. Se invece le rivelazioni sono vere, se cioè gli americani possiedono le prove dei finanziamenti e se – come è molto probabile – alcuni di questi finanziamenti riguardano l’Italia (non è ragionevole che la Russia abbia finanziato paesi vari e non l’Italia) allora bisogna capire perché la notizia (che è vecchia di cinque anni) è uscita solo oggi, quanto ha a che fare con la guerra in Ucraina e quanto con le future elezioni italiane.
È probabile che se i finanziamenti russi ci sono stati, siano stati distribuiti, più o meno equamente, tra diversi partiti, forse tutti i principali partiti. Dunque sarebbe nelle mani degli americani la decisione di come usarle e contro di chi. Che le rivelazioni possano influire sul risultato elettorale è improbabile. Potrebbero però influire sulla formazione e la composizione del futuro governo, spingendo ad escludere dal governo i partiti che si decide di denunciare come fedeli a Mosca. Oppure, ipotesi ancora più inquietante, potrebbero essere usate come minaccia e ricatto verso alcuni partiti, o verso tutti i partiti, per assicurarsi una politica filoamericana, sia nelle scelte di politica esteri sia in quelle di politica economica. Gli americani probabilmente sono preoccupati dal probabile abbandono di Draghi, che era una garanzia per loro, e potrebbero aver deciso di prendere le contromisure. L’Italia si troverebbe in una condizione di ricatto.
Piero Sansonetti.
Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Ci sono dati sensibili sull’Italia: il report Usa sui soldi ai partiti secretato a Washington. Paolo Mastrolilli su La Repubblica il 15 Settembre 2022.
Esiste un rapporto del “National Security Council” classificato. Il Dipartimento: “Non daremo dettagli ma c’è preoccupazione sull’attività della Russia”
L’Italia c’è, nel dossier americano sulla corruzione russa nel mondo. E non poteva essere altrimenti, considerando i rapporti con Mosca costruiti negli ultimi decenni da diversi partiti rilevanti. Non è un segreto, del resto, che forze come Lega o M5S frenano apertamente sulle sanzioni alla Russia e le armi all’Ucraina.
Lo conferma a Repubblica una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato.
Anna Macina: “Fondi esteri, così nel 2018 fermammo lo strano emendamento del Carroccio”. Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 14 Settembre 2022.
Intervista alla sottosegretaria alla Giustizia, ex 5 Stelle. Nella legge Spazzacorrotti c'era un comma che vietava i finanziamenti ai partiti da altri paesi. Ma la Lega propose di cancellarlo. "La richiesta era assurda"
La sottosegretaria alla Giustizia Anna Macina, ex 5 Stelle e oggi in Impegno civico, durante il governo Conte uno era capogruppo alla commissione Affari costituzionali della Camera. Lega e Movimento discutevano il varo della legge cosiddetta “spazzacorrotti”. Sono i giorni che seguono l’incontro moscovita del 18 ottobre 2018 tra Gianluca Savoini e misteriosi emissari vicini al presidente Putin.
FABIO TONACCI,GIULIANO FOSCHINI per la Repubblica il 16 settembre 2021.
Un dossier madre redatto a inizio anno, da cui è germinato un secondo dossier dato in pasto alle cancellerie dei più importanti paesi dell'Occidente. Per capire le fibrillazioni della campagna elettorale italiana delle ultime 48 ore - cominciate quando dagli Stati Uniti qualcuno ha voluto soffiare sulla brace del sospetto trasformandolo in un incendio - è necessario fare un salto indietro nel tempo e tornare a sette mesi fa, tra gennaio e febbraio del 2022, alla vigilia dell'invasione russa in Ucraina.
È allora che il National security council, il Consiglio per la sicurezza nazionale che consiglia e assiste l'inquilino della Casa Bianca, consegna nelle mani del presidente Joe Biden e al Dipartimento di Stato un corposo report (il "dossier madre"), che mette insieme informazioni confidenziali di intelligence, fonti aperte e dati raccolti dalle diverse amministrazioni del governo americano, prima tra tutti il dipartimento del Tesoro. È un lavoro che ha l'ambizione di disegnare la mappa dell'influenza occulta della Russia di Putin sugli Stati dell'Occidente, Europa compresa. Un paragrafo è dedicato anche all'Italia.
Il warning alle Cancellerie Sette mesi dopo, settembre 2022, il Dipartimento di Stato decide di informare 200 ambasciate in tutto il mondo dell'esistenza del dossier. Ne declassifica alcune parti, per segnalare ai governi esposti l'allarme interferenze russe. In Italia, Palazzo Chigi scopre dell'esistenza del dossier dalla stampa americana. Dopo due giorni di lavoro serrato a livello di intelligence e di diplomazia, a seguito di una telefonata tra Mario Draghi e il segretario di Stato, Antony Blinken, fornirà oggi alcune risposte certe: al Copasir, prima, per voce del sottosegretario Franco Gabrielli.
E poi alla stampa, con il premier in persona. Stando alle informazioni che gli americani hanno fornito fino a questo momento, diranno i due, non ci sono evidenze che la Russia abbia finanziato direttamente alcun partito politico o leader del nostro paese.
Il documento classificato Come detto, tutto comincia quindi sette mesi fa quando il National Security Council stila il lungo report classificato. Repubblica - in un articolo di Paolo Mastrolilli - ha rivelato ieri che si tratta di una combinazione di informazioni di intelligence, cablo diplomatici e notizie open source. Si ripercorrono fatti e circostanze che vanno tra il 2014 e il 2022: gli analisti americani mettono in fila una serie di operazioni compiute dai russi in diversi paesi occidentali ed europei. E anche in Italia, della quale si parla diffusamente.
Di ciò il nostro governo ha chiesto conto in queste ore ricevendo però un secco no. Lo chiede anche Draghi a Blinken, si apprende da fonti di governo italiane, spiegandogli la delicatezza della fase pre-elettorale, ma ottenendo in cambio un inevitabile: esiste, ma si tratta di informazioni classificate e dunque non divulgabili. Almeno al momento, è la chiosa. A sera, il Dipartimento di Stato fa anche sapere che «Blinken ha detto a Draghi che gli Stati Uniti non vedono l'ora di lavorare con qualsiasi governo uscirà dalle prossime elezioni».
Il documento pubblico Ma perché allora, se tutto è segreto, la questione diventa pubblica? Succede martedì 13 settembre quando un lancio della Associated Press parla dell'esistenza di un report (il secondo dossier, nato dal primo) nelle mani del Dipartimento di Stato americano che dà conto di finanziamenti del Cremlino tesi a influenzare partiti ed esponenti politici occidentali: si citano 300 milioni di euro, spesi a partire dal 2014 e confluiti in una una ventina di paesi, tra cui alcuni in Europa. È stato inviato da Blinken alle ambasciate americane di almeno duecento paesi.
In Italia nessuno del governo è stato avvisato. Gabrielli (Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica) chiede conto all'intelligence Usa di cosa stia accadendo. Si muove personalmente il numero uno dell'Aise, Giovanni Caravelli. Poche ore dopo alla Farnesina viene notificata la famosa annotazione. Si tratta di un testo generico che mette in allerta le ambasciate delle operazioni di influenza russa. È in sostanza una sintesi del "dossier madre" classificato.
Nel documento si fa riferimento a venti paesi in cui sono stati certamente compiuti investimenti russi per influenzare la politica interna. Ma l'Italia non c'è. A conferma della veridicità, l'ambasciata deposita alla Farnesina il cablogramma originale mandando in confusione il ministro degli Esteri, Luigi di Maio. Che parla di nuovi file in arrivo. Ma in realtà si tratta sempre dello stesso: una sintesi di quello originale.
Le ripercussioni politiche Con la telefonata a Draghi, Blinken circoscrive - almeno al momento - l'effetto della campagna Usa sugli equilibri italiani, a pochi giorni dalle elezioni. Il premier, invece, si garantisce la possibilità di non dover gestire un dossier - quello principale - che potrebbe potenzialmente chiamare in causa leader e partiti. Resta però un enorme punto interrogativo attorno al contenuto e alla forza delle rivelazioni del testo secretato. Sarà il nuovo esecutivo a dover lavorare con questa spada di Damocle pendente. Certamente finendo per esserne condizionato, visto che potrebbe essere declassificato in qualsiasi momento.
Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 15 settembre 2021.
C'è un documento che sembra la fotocopia del "cable" del segretario di Stato Blinken sulla corruzione russa, e include l'Italia. È il rapporto "Covert Foreign Money", scritto dall'Alliance for Securing Democracy del German Marshall Fund of the United States nell'agosto del 2020, quindi alla fine dell'amministrazione Trump.
L'autore principale è Josh Rudolph, Fellow for Malign Finance , che nel Consiglio per la Sicurezza Nazionale si era occupato di coordinare il lavoro delle agenzie federali sulle sanzioni contro la Russia. La Lega e il caso Metropol occupano un ampio spazio in questo studio di oltre cento pagine, dove compare anche il Movimento 5 Stelle.
Ancora una volta quindi è la Casa Bianca repubblicana a mettere sotto la lente il partito guidato dall'alleato ideologico Matteo Salvini, attraverso questa analisi realizzata da un suo ex alto funzionario.
Il testo comincia così: «Oltre a strumenti più ampiamente studiati come attacchi informatici e disinformazione, i regimi autoritari tipo Russia e Cina hanno speso oltre 300 milioni di dollari per interferire nei processi democratici più di 100 volte in 33 paesi nello scorso decennio. La frequenza degli attacchi finanziari è aumentata in modo aggressivo, da due o tre all'anno prima del 2014, fino a 15 o 30 ogni anno dal 2016 in poi».
Sembra di leggere i rapporti di intelligence che hanno ispirato Blinken, a conferma di quanto bipartisan sia l'emergenza, con la differenza che qui si scende nei dettagli: 11 milioni di dollari a Marine Le Pen; 16 milioni stanziati dall'oligarca Oleg Deripaska per sovvenzionare il blocco europeo anti Nato, scoperti dai procuratori del Montenegro.
«Noi chiamiamo questo strumento di interferenza straniera "finanza maligna", definita come "il finanziamento di partiti politici stranieri, candidati, campagne, élite ben collegate o politicamente influenti, gruppi, spesso attraverso strutture non trasparenti progettate per offuscare i legami con uno stato nazione o i suoi delegati».
Quindi l'ex consigliere di Trump aggiunge: «Un 17% particolarmente aggressivo dei casi di finanza maligna non opera principalmente attraverso scappatoie legali. Gli esempi includono i profitti petroliferi russi destinati a finanziare la Lega in Italia».
Il rapporto rivela che il Cremlino pretende dagli oligarchi di «destinare parte delle loro ricchezze ad attività "patriottiche all'estero». Salvini ha sempre ripetuto di non aver mai ricevuto un rublo da Mosca, ma secondo il documento originato nei corridoi della Casa Bianca repubblicana il punto non è questo, perché ci sono «tre diverse sottocategorie di contributi stranieri a campagne, candidati e funzionari eletti: benefici tangibili, come prestiti finanziari o regali; servizi mediatici, come la manipolazione dei social media su misura; e informazioni preziose, come le ricerche sull'opposizione».
Il rapporto si concentra sul "Commodity enrichment", ossia «concedere ai donatori privilegiati lucrose posizioni nei mercati corrotti, oscuri e bizantini per le materie prime».
Ciò «può essere visto con tre esempi in Europa: il presunto contrabbando di diamanti dall'Africa, esportazioni scontate di petrolio in Italia, e transito di gas attraverso l'Ucraina».
Un altro strumento sono «le organizzazioni non profit, spesso segretamente sfruttate da poteri autoritari per trasferire finanziamenti agli attori politici; sovvenzionare i partiti che la pensano allo stesso modo; raggiungere specifici risultati politici o catturare le élite».
L'inchiesta inquadra la vicenda del Metropol in un mutamento strategico del Cremlino: «Prima del 2014, Putin aveva costruito legami politici con l'Europa occidentale attraverso capi di stato amichevoli come Schröder, Berlusconi e, in misura minore, Sarkozy». Ma «la sua convinzione che la Russia abbia "interessi privilegiati" per violare la sovranità nazionale delle sue precedenti conquiste imperiali si è rivelata fondamentalmente in contrasto con l'ordine del dopoguerra».
Perciò, deluso, «Putin ha iniziato a promuovere in modo aggressivo politici e partiti non tradizionali. Ciò era fatto in parte per sviluppare alleati alternativi, fungendo da organizzazioni di facciata che sostengono l'accettazione da parte occidentale delle politiche russe aggressive. Tuttavia, tali alleati possono anche essere visti come combattenti in una forma di guerra politica: beni umani acquistati e pagati, destinati a servire, consapevolmente o meno, come misure attive per destabilizzare il consenso liberaldemocratico».
Con questa logica si arriva al Metropol, che l'ex consigliere di Trump viviseziona nei dettagli: «Sembra che l'accordo sia stato scoperto dai giornalisti prima che fosse chiuso.
Se fosse stato completato, probabilmente sarebbe stato illegale, in quanto lo sconto sul prezzo di circa 130 milioni di dollari superava il limite di 100.000 euro per i contributi politici in Italia al momento».
Descrivendo il ruolo di Savoini da intermediario di Salvini, come Aleksandr Babakov, Vladimir Kornilov e Manuel Ochsen avevano fatto per Marine Le Pen, Thierry Baudet e Markus Frohnmaier, il rapporto nota che «ciò mostra come le relazioni del governo russo con l'estrema destra dell'Europa occidentale non siano più centralizzate all'interno del Kgb, come durante la Guerra Fredda, ma invece gestite da individui che sperano di impressionare il Cremlino».
Savoini è «lo sherpa di Salvini a Mosca. È presidente dell'Associazione Culturale Lombardia-Russia, domiciliata dal febbraio 2014 nella sede della Lega, che spinge costantemente la propaganda pro-Cremlino e ha legami con gruppi dell'estrema destra in Russia e in Europa. Il suo presidente onorario è Alexey Komov, rappresentante russo del Congresso mondiale delle famiglie, che funge da collegamento con Konstantin Malofeev». Il rapporto ricorda gli incontri di Savoini con Alexander Dugin, definito «l'ideologo fascista di Putin».
Così si arriva al 17 ottobre 2018, quando Salvini va a Mosca, partecipa ad una conferenza, «e poi secondo quanto riferito esce da una porta laterale per vedere segretamente il vice primo ministro russo Dmitry Kozak, uomo del circolo ristretto che sovrintende al settore energetico. L'incontro tra i due avrebbe avuto luogo nell'ufficio di Vladimir Pligin, potente membro del Partito Russia Unita di Putin con stretti legami con Kozak».
Savoini la mattina dopo partecipa all'incontro al Metropol con Ilya Andreevich Yakunin, che rappresenta Pligin, Andrey Yuryevich Kharchenko, che lavora per Dugin, e un terzo uomo identificato come Yuri. La delegazione italiana comprende Gianluca Meranda, che rappresenta la banca d'investimenti Euro-IB e dovrebbe fare da intermediario tra Rosneft ed Eni, che ha negato qualsiasi ruolo.
Poi c'è «Francesco Vannucci, che sembra essere il responsabile dei meccanismi per incanalare lo sconto concordato del 4% sul prezzo alla Lega tramite gli intermediari ». Il resto lo raccontano le registrazioni dell'incontro, dove si parla di fornire diesel e kerosene russo a prezzi di favore. Il rapporto dice che i negoziati erano continuati fino a febbraio, e non erano andati a buon fine solo perché i media li avevano rivelati. Quindi cita anche i documenti del giornale spagnolo ABC sui presunti 3,5 milioni di euro regalati nel 2010 dal Venezuela a M5S.
Il consigliere di Trump però non chiude qui la sua analisi, passando alla legge "Spazzacorrotti": «L'incontro a Mosca si è svolto il 18 ottobre 2018. All'epoca, l'unico limite ai finanziamenti esteri delle elezioni italiane era di 100.000 euro. Tuttavia il partner della coalizione della Lega (M5S ndr) stava spingendo una nuova legge anticorruzione che vietava completamente il finanziamento estero di partiti e candidati italiani. Nelle settimane successive all'incontro di Mosca, nove deputati della Lega hanno proposto un emendamento che avrebbe rimosso il divieto. Il testo è stato infine ritirato e la legge anticorruzione contenente il divieto di finanziamento estero è stata approvata nel dicembre 2018.
La Lega però è riuscita alla fine ad indebolire le restrizioni nell'aprile 2019. In quell'occasione ha aggiunto una disposizione in un disegno di legge economico non correlato, che ha modificato la legge in modo da escludere "fondazioni, associazioni e comitati" dal suo campo di applicazione », come rivelato da Repubblica. Ora però gli analisti americani si chiedono: l'obiettivo era consentire agli italiani emigrati di fare donazioni politiche, oppure riaprire la porta alle ingerenze appena denunciate da Blinken?
Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 15 settembre 2021.
Un finanziamento nascosto dietro un'operazione commerciale, destinato alla Lega attraverso intermediari e società autonome vicine al Carroccio. Fondi per sostenere il partito alle elezioni, per prime le Europee 2019. Se c'è una storia che rispecchia il meccanismo - svelato ieri dall'intelligence Usa - dei trecento milioni russi arrivati negli anni a politici e candidati di Paesi stranieri, questo è lo schema Metropol. O meglio, il "sistema Savoini".
Quello teorizzato dall'ex portavoce di Matteo Salvini e fondatore dell'associazione Lombardia-Russia, seduto al tavolo del lussuoso albergo moscovita, il 18 ottobre 2018, insieme agli altri cinque protagonisti di una trattativa che avrebbe dovuto portare nelle casse leghiste circa 65 milioni di dollari.
Il livello "superiore" del patto Una fornitura da oltre un miliardo di dollari di gas dal colosso petrolifero Rosneft su cui la procura di Milano indaga da almeno tre anni, da quando l'incontro è stato svelato dall'Espresso , prima che la testata americana Buzzfeed pubblicasse anche l'audio della trattativa. Indagini finite nel vicolo cieco di una probabile richiesta di archiviazione, il prossimo dicembre, da parte dei pm di Milano Giovanni Polizzi e Cecilia Vassena.
Le rogatorie inviate a Mosca per chiarire il ruolo dei tre russi del Metropol e anche il silenzio dei tre italiani opposto alle domande dei pm e degli investigatori della Guardia di Finanza di Milano hanno impedito di scavare e ricostruire il tentativo di finanziamento milionario. Anche se dai cellulari sequestrati sono emersi i rapporti con il livello politico superiore che garantiva la trattativa coi russi.
"Europa vicina alla Russia" A cosa servisse quel denaro, però, lo spiega proprio Savoini, registrato al Metropol. «È molto importante che in questo periodo storico e geopolitico l'Europa stia cambiando - dice - Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l'Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima, perché vogliamo avere la nostra sovranità (..) Vogliamo davvero iniziare ad avere una grande alleanza con questi partiti che sono pro Russia, ma non pro Russia per la Russia ma per i nostri paesi».
Savoini parla nella hall del grande albergo. Seduti con lui ci sono l'avvocato Gianluca Meranda e il broker finanziario Francesco Vannucci, che avrebbero dovuto occuparsi degli aspetti tecnici di un'operazione naufragata dopo la pubblicazione degli articoli. I tre italiani sono indagati per corruzione internazionale.
Dall'altro lato i tre russi Ilya Yakunin, Yury Burundukov, Andrey Kharchenko. Il filo diretto Lega-Cremlino Tutti e tre i russi sono vicinissimi alle stanze del potere di Mosca. Ilya Yakunin è legato all'avvocato e parlamentare Vladimir Pligin e al ministro dell'Energia Dmitry Kozak; Yury Burundukov è un fedelissimo dell'oligarca Konstantin Malofeev; Andrey Kharchenko è un ex agente dei servizi segreti russi, vicino - come Yakunin - a Aleksandr Dugin, il filosofo russo scampato a fine agosto a un attentato in cui ha perso la vita sua figlia. Di Dugin parla proprio Savoini al Metropol. «Abbiamo creato questo triumvirato, io, te e lui, che deve lavorare in questo modo - dice a Miranda - Solo noi tre.
Un compartimento stagno. Anche ieri Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi tre.
Tu, io, rappresentiamo il collegamento con entrambi, l'italiano e il loro "lato politico", e tu - con me - siete i miei partner. Solo noi. Tu, Francesco e io. Nessun altro».
Anche Salvini a Mosca Ma c'è di più. Poche ore prima della trattativa al Metropol, anche Matteo Salvini - in quel momento vicepremier e ministro degli Interni - è a Mosca. Al Lotte Plaza Hotel, nel centro della capitale russa, prende la parola al convegno di Confindustria Russia. «Io qua mi sento a casa mia, in alcuni Paesi europei no», dice alla platea di imprenditori, diplomatici e politici russi. Tra di loro anche l'allora vicepremier e ministro dell'Energia russo Dmitry Kozak, che all'incontro con i tre italiani al Metropol aveva come suo uomo Yakunin. Dopo il convegno, è la sera prima della trattativa sul gas russo, Salvini e Kozak avrebbero avuto un incontro riservato nello studio di Pligin. Anche su questo i pm hanno indagato a lungo, convocando a Milano una giornalista russa, Irina Afonichkina, che sarebbe stata presente al vertice.
I soldi per la campagna Il giorno dopo è Meranda che riassume i termini dell'accordo raggiunto coi russi. «L'idea, come concepita dai nostri ragazzi politici, è che con uno sconto del quattro per cento, 250.000 più 250.000 al mese per un anno, possono sostenere (mandare avanti) una campagna». Poi uno dei russi fa riferimento a una «commissione» che potrebbe essere garantita ai tre italiani. «Perché no? - risponde Miranda - . Ma sai, finora non è una questione professionale, è solo una questione politica. Quindi noi non contiamo lui non conta di farci dei soldi. Contiamo di sostenere una campagna politica, che è di beneficio direi di reciproco vantaggio per i due Paesi».
Estratto dell’articolo di Stefano Vergine per “il Fatto quotidiano” il 16 settembre 2022.
"Il governo americano ha detto che prevede l'arrivo da Mosca di altre centinaia di milioni di dollari nei prossimi mesi. Siccome il rapporto in questione […] non riguarda gli Stati Uniti e quindi sono escluse le elezioni di medio termine, mi chiedo: cos' altro succederà di importante nel mondo nei prossimi mesi se non le elezioni italiane?".
Josh Rudolph […] è l'autore di uno studio che due anni fa anticipava il tema emerso con le recenti dichiarazioni della Casa Bianca. In passato è stato consigliere del governo Usa con Obama, Trump e Biden.
[…] I suoi calcoli su che tipo di informazioni si basano?
Sono basati su articoli di giornalismo investigativo pubblicati nei Paesi dove questi fatti sono accaduti. Li abbiamo analizzati, abbiamo valutato la credibilità dei media. Così abbiamo ricostruito 120 casi.
Quindi questi 300 milioni non sono necessariamente arrivati a destinazione?
Per lo più i soldi sono arrivati, ma nel rapporto sono incluse anche vicende come quella della Lega e del Metropol, in cui non abbiamo prove che il denaro sia giunto a destinazione, anche perché la notizia è uscita sui giornali quando la trattativa era in corso.
[…] Quali sono state le operazioni condotte in Italia?
Il caso più evidente è quello del Metropol Hotel. Dai miei calcoli il finanziamento promesso era di 130 milioni di dollari. Nel report ho incluso anche la notizia, riportata dalla testata spagnola Abc, di 3,5 milioni di dollari del Venezuela al M5S.
Notizia smentita dall'ex capo dei servizi segreti venezuelani, poi uscito dal Paese. Ritiene affidabile il rapporto Usa?
È credibile: la mia ricerca è arrivata alla stessa conclusione.
Certo, gli anni presi in considerazione sono leggermente diversi: i calcoli dell'intelligence vanno dal 2014 al 2022, i miei dal 2010 al 2020, ma c'è da dire che il governo Usa ha accesso a documenti classificati.[…]
DAGOREPORT il 16 settembre 2022.
E’ chiaro che non sia stato un caso il rapporto dell’intelligence statunitense che rivela i 300 milioni di finanziamenti russi a forze politiche in due dozzine di paesi, allo scopo di influenzare e interferire nei loro processi politici. Una bomba, per i nostri Salvini, a undici giorni dalle elezioni.
In attesa che il segretario di Stato Antony Blinken, gran frequentatore dei salotti parigini (ha studiato in Francia) scodelli la lista, la caccia ai nomi beneficiati da Mosca, è cominciata.
Oltre ai putiniani risaputi come Marine Le Pen e Orban, da fonti autorevoli Dagospia apprende che il primo nome della lista è quello di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi, nati dalle ceneri dei neonazisti, con una solida alleanza con Fratelli d'Italia all'Europarlamento.
In mezzo c’è l’Italia, starring la Lega. A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla.
Sottolineano Giuliano Foschini e Tommaso Ciriaco oggi su “la Repubblica”: “Il nodo dei rapporti tra i russi e Matteo Salvini era stato sollevato pochi giorni fa su Repubblica da un'ex analista della Cia, Julia Friedlander, ai tempi di Trump consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro e dal 2017 al 2019 Director for European Union, Southern Europen and Economic Affairs al Consiglio per la Sicurezza Nazionale”.
"Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente", afferma la Friedlander. E aggiunge: “Il problema è che non è facile tracciare questi collegamenti economici. Usano le shelf company, compagnie inattive che offrono donazioni alle campagne politiche, o lobbisti informali che spingono certi contratti, che riflettono gli interessi russi. Quindi è difficile provare che il Cremlino abbia staccato un assegno per Marine Le Pen, ma è interessante studiare connessioni e intermediari".
Dagospia il 16 settembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo da Gianluca Savoini, in riferimento all’articolo
Quanto affermato nell'articolo pubblicato sul sito internet di Dagospia il 14 settembre 2022 è privo di qualsivoglia fondamento. Il dott. Gianluca Savoini non ha infatti mai percepito alcun finanziamento da Mosca, né in proprio, né per conto della Lega". Resta inteso che il dott. Savoini si riserva comunque di agire in giudizio in ogni competente sede per i gravissimi danni reputazionali che ha subito e sta tuttora subendo in seguito alla pubblicazione oggetto di contestazione e alla permanenza online della stessa.
Prendiamo atto della rettifica che ci ha inviato Gianluca Savoini, ex portavoce di Matteo Salvini, ma precisiamo altresì che non abbiamo mai scritto, né ci saremmo sognati di farlo, che ha “percepito” finanziamenti da Mosca. Semplicemente, come hanno scritto più volte molti altri organi di stampa, (per citarne solo alcuni, “l’Espresso”, “Domani”, “Repubblica”, “Stampa”), ci siamo limitati a riportare che è stato coinvolto nell’operazione Metropol.
Ecco il passaggio “incriminato” del nostro Dagoreport: “A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla”. Dove avremmo scritto che ha percepito finanziamenti da Mosca?
Dagospia il 15 settembre 2021. LE TANTE VITE DEL GRILLINO MANLIO DI STEFANO – NEL 2016 VOLAVA IN RUSSIA PER BACIARE LA PANTOFOLA DI PUTIN SOSTENENDO CHE “L'UCRAINA FOSSE UNO STATO FANTOCCIO DEGLI USA” MA DOPO UN RUSSO RISVEGLIO L'EX PUTINIANISSIMO SOTTOSEGRETARIO DEGLI ESTERI ORA È DIVENTATO IL MIGLIORE AMICO DI BIDEN E RILANCIA LA PROPOSTA DI INSTITUIRE UNA COMMISIONE D’INCHIESTA CHE INDAGHI I RAPPORTI TRA RUSSIA E PARTITI ITALIANI (INIZIAMO DA LUI?) - MA IL WEB NON DIMENTICA IL SUO PASSATO E LO SPERNACCHIA
Manlio di Stefano per blogdellestelle.it (28 giugno 2016)
Ne ha parlato la stampa di tutto il mondo e, in Italia, solo il Corriere della Sera. Domenica ho avuto il piacere di rappresentare il M5S al congresso di Russia Unita, il partito di Putin. Erano presenti circa 40 delegazioni internazionali delle quali solo 10 hanno avuto parola, io sono stato il quarto in assoluto e l’unico italiano. Sinceramente ho apprezzato questo segnale. Noi, che ad oggi rappresentiamo solo una forza di opposizione, abbiamo avuto parola prima o al posto di vice presidenti di Parlamento e segretari di partiti di maggioranza.
Evidentemente in Russia hanno già capito che siamo prossimi al Governo se ci danno tutto questo peso e hanno apprezzato un lavoro onesto e sincero in questi due anni contro le sanzioni imposte dalla UE. Qualcuno pensava che fossi andato a inchinarmi ai piedi del potente di turno come hanno sempre fatto i nostri politici, oggi in USA domani in Russia dopo domani chissà, invece no, sono andato a ribadire che il nostro unico obiettivo è difendere gli interessi nazionali italiani.
Per farlo dobbiamo immediatamente bloccare le sanzioni alla Russia e intraprendere un dialogo sull’antiterrorismo. Credo abbiano apprezzato la fierezza e chiarezza con cui ho pronunciato la frase “noi non siamo né filo russi né filo statunitensi, siamo filo italiani” spiegando cosa significhi dover ristabilire una serie di relazioni, convenienti per l’Italia, interrotte per via della miope sudditanza a forze esterne.
Non ho potuto fare il video del mio intervento per questioni logistiche ma ho registrato l’audio e, in massima trasparenza, vi invito ad ascoltarlo. Una politica estera differente è possibile, puntare ad una vera sovranità è possibile, serve solo una classe politica degna e fiera. Noi lo siamo. Ed è solo questione di tempo…
Manlio di Stefano per ilblogdellestelle.it (12 gennaio 2017)
Bassezze e scorrettezze fanno parte della quotidianità politica nazionale e, in fondo, ogni Paese si piange le sue. Quando però la voglia di pestare i piedi al tuo successore mette a rischio la stabilità di altri popoli, allora occorre prestare attenzione.
Mi riferisco, in particolare, al Presidente uscente Obama ed al suo patetico addio alla presidenza americana fatto di sgambetti a Trump di cui l’ultimo, però, rischia di essere molto pericoloso per l’Europa tutta.
87 carri armati, obici semoventi e 144 veicoli da combattimento Bradley sono stati scaricati pochi giorni fa nel porto tedesco di Bremerhaven e, nelle prossime settimane, si aggiungeranno oltre 3.500 truppe della 4° Divisione di Fanteria di Fort Carson, una brigata di aviazione da combattimento che “vanta” circa 10 Chinook, 50 elicotteri Black Hawk e 1.800 membri del personale da Fort Drum nonché un battaglione con 24 elicotteri d’attacco Apache e 400 membri del personale da Fort Bliss, tutti destinati all’Est Europa come riporta l’Independent.
Si tratta del più grande trasferimento di armamenti e truppe americane in Europa dalla caduta dell’Unione Sovietica.
L’obbiettivo? Militarizzare l’Europa orientale con lo scopo, dichiarato, di “sostenere un’operazione della NATO per scoraggiare l’aggressione russa“, la cosiddetta “Operazione Atlantic Resolve” nata dopo la crisi ucraina.
Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia si sentono “minacciate” dalla Russia e Obama che fa? Come un giocatore di Risiko preso dalla smania di conquistare la Kamchatka decide di sommergerci di carri armati.
Sia chiaro, Obama dopo due mandati sa perfettamente che non sarà la Russia di Putin a fare il primo passo per destabilizzare ancora di più l’est Europa e i Paesi Baltici e allora, l’unica ragione plausibile, è la stessa che accompagna da settimane questa triste chiusura di sipario su Obama: minare la ripresa dei rapporti tra Stati Uniti d’America e Russia, destabilizzare i rapporti tra Trump e Putin.
Ci ha provato cacciando i 35 ambasciatori russi dagli USA, ci ha provato con la storia dello spionaggio russo contro la Clinton, ci ha provato con la gigantesca bufala del ricatto su Trump e le prostitute russe (generato dall’area mediatica e di intelligence sotto l’influenza dei democratici) e ci prova, adesso, portando la tensione militare alle stelle ai confini con la Russia.
Ad oggi Trump, fortunatamente, ha rassicurato gli animi e parlato di ottime relazioni con la Russia e di stupidità da parte di chi alimenta tensioni e odio e, sinceramente, aspettiamo con ansia il 20 Gennaio per capire se alle parole seguiranno i fatti.
Da tempo la NATO (tanto per non dire gli Stati Uniti?) sta giocando con le nostre vite. Vite che hanno già conosciuto due guerre mondiali e sanno cosa si provi ad essere un vaso di coccio tra due d’acciaio.
Il M5S si oppone da sempre a questa immonda strategia della tensione e chiede, con una proposta di legge in discussione alla Camera dei Deputati, che la partecipazione italiana all’Alleanza Atlantica sia ridiscussa nei termini e sottoposta al giudizio degli italiani.
Il nostro territorio, le nostre basi, i nostri soldati (che saranno inviati in Est Europa) e la salute dei nostri connazionali non possono essere ostaggio di giochi di potere e degli umori del presidente americano di turno.
Rapporto intelligence Usa sui finanziamenti russi ai partiti europei, Urso: «Non c’è notizia dell’Italia». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 14 settembre 2022
Il Washington Post martedì ha rivelato che la Russia avrebbe segretamente finanziato per almeno 300 milioni di dollari partiti e candidati politici stranieri in più di due dozzine di paesi. La Lega ha dato «mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini». Fratelli d’Italia chiede la lista dei nomi
Il Whashington Post martedì ha rivelato che la Russia avrebbe segretamente finanziato per almeno 300 milioni di dollari partiti e candidati politici stranieri in più di due dozzine di paesi dal 2014 nel tentativo di influenzare la politica. Il quotidiano statunitense cita un documento dei servizi segreti commissionato quest’estate dall'amministrazione del presidente degli Stati uniti Joe Biden che spiega come Mosca abbia pianificato di spendere altre centinaia di milioni di dollari nella sua campagna segreta per indebolire i sistemi democratici e promuovere le forze politiche di tutto il mondo viste come allineate con gli interessi del Cremlino.
Il presidente del Copasir Adolfo Urso ha detto di essersi confrontato con i servizi italiani: «Mi sono confrontato con l'Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica Franco Gabrielli» sul rapporto «e al momento non esistono notizie che ci sia l'Italia» tra i paesi coinvolti. Palazzo Chigi non commenta, a quanto risulta a Domani non avrebbe ancora informazioni di dettaglio.
I NOMI
Un alto funzionario statunitense ha spiegato alla stampa che il governo ha deciso di declassificare alcuni dei risultati del file nel tentativo di contrastare le influenze del presidente russo Vladimir Putin nei sistemi politici nei paesi europei, Africa e altri. Negli schemi di finanziamento sarebbero stati coinvolti i due oligarchi Yevgeniy Prigozhin e Aleksandr Babakov. Nessun nome di stati coinvolti e di politici è stato fatto, ma gli Usa hanno inviato il report al oltre cento delle loro ambasciate.
LEGA
Nel passato della Lega pesa il caso del Metropol, quando Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, come rivelato dall’Espresso nel 2019 trattò per un finanziamento da parte di Mosca attraverso una partita di gasolio da vendere alla compagnia italiana Eni.
Matteo Salvini si è a più riprese dimostrato amichevole con il Cremlino e negli anni passati, quando non ricopriva incarichi di governo, ha personalmente incontrato Vladimir Putin con la mediazione di Claudio D’Amico, oggi consigliere leghista a Sesto San Giovanni e in rapporti d’affari con Mosca.
L’ultimo capitolo che ha fatto discutere sono stati il mancato viaggio a Mosca che il leader della Lega stava organizzando a maggio con il consulente Antonio Capuano e gli incontri con l’ambasciatore russo Sergej Razov senza avvisare Palazzo Chigi. Di fronte a queste circostanze, dopo le rivelazioni di Washington il leader della Lega ha immediatamente minacciato querele: «L’unica certezza è che a incassare denaro dal Cremlino è stato prima il Partito Comunista Italiano e in epoca recente la Repubblica (il quotidiano) che per anni ha allegato la rivista “Russia Oggi”».
La Lega «ha dato mandato ai propri legali di querelare chiunque citi impropriamente il partito e Matteo Salvini come è già accaduto in alcuni contesti televisivi con particolare riferimento al sindaco del Pd Matteo Ricci. Non saranno più tollerate falsità e insinuazioni: ora basta», recita una nota del partito divulgata mercoledì sera.
Il leader della Lega intervistato da Rtl dice di non aver ricevuto denaro: «Mai presi rubli, euro o altro». Da Mosca, ha detto, «ho portato solo una cosa di Masha e Orso per mia figlia».
FRATELLI D’ITALIA
«Ora il ritornello costante è che anche Fratelli d'Italia abbia ricevuto qualche aiuto», ha detto a Repubblica Kurt Volker, ex ambasciatore Usa alla Nato col presidente Bush e inviato speciale per l'Ucraina con Trump: «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d'Italia da voi». Per il fondatore del partito di Giorgia Meloni Guido Crosetto ricevere soldi da Putin è «alto tradimento». Meloni a Radio 24 ha detto sui soldi che «penso che non risulterà, sono mesi che sentiamo dire cose e poi non c'è niente».
IL COPASIR
In questa situazione, il Pd torna a chiedere l’intervento del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che opera in Parlamento. Il segretario del Pd Enrico Letta lo ha sottolineato con un tweet: «Gli italiani devono sapere i nomi prima del voto».
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Giovanni Tizian per “Domani” il 15 settembre 2021.
Alle tre e mezza del pomeriggio del 13 settembre il quotidiano americano Washington Post pubblica la notizia destinata a provocare molte ore più tardi un terremoto nella politica italiana. Titolo: «La Russia ha speso milioni per finanziare partiti e politici stranieri in tutto il mondo». La fonte della notizia è un documento desecretato dall'amministrazione Biden e ormai solo classificato come "sensibile".
I milioni di cui si parla sono circa 300. Un numero che ritorna in un report del 2020, letto da Domani, sui finanziamenti coperti messi sul piatto da Russia, Cina e paesi arabi, destinati all'Europa e al resto del mondo. Il segretario di Stato americano, Antony Blinken, ha inviato a oltre cento paesi il dossier, che sarebbe approdato anche presso alcuni governi europei. Quali? Non è dato saperlo. Chi sono i leader coinvolti? La risposta è la stessa, nessun nome, nessun riferimento concreto.
Almeno pubblicamente, perché un elenco esiste ma è stato consegnato ai paesi interessati. L'Italia per ora non è compresa, questo dicono da palazzo Chigi, salvo poi specificare: «Le segnalazioni da parte degli Stati Uniti non è detto che siano concluse e che sia escluso che possano arrivare entro venerdì poiché il lavoro dell'intelligence americana è ancora in corso e le segnalazioni per vie diplomatiche vengono fatte solo quando si ritiene certa l'azione russa».
Sulla stessa linea il Copasir, il comitato di sorveglianza parlamentare sull'attività dei nostri servizi segreti. «Nessuna notizia che riguarda l'Italia, ma le cose possono cambiare», ha dichiarato il presidente dell'organismo di controllo, Adolfo Urso. Il Copasir ha comunque convocato una riunione sul tema venerdì 16 settembre. Alla notizia sono seguite le reazioni dei leader nostrani, alcune scomposte non sono mancate a destra, dove si trovano i principali sospettati di vicinanza a Putin.
La Lega in particolare, che ha gridato al complotto. Matteo Salvini ha definito «fake news» la faccenda e ha promesso querele contro chi osa accostare il nome Lega a finanziamenti occulti del Cremlino. Curiosa reazione, nel documento finora non è citato né lui né il suo partito.
Il leader leghista ha messo le mani avanti, perché sa bene che la storia recente dei suoi rapporti con Mosca non svanisce così all'improvviso. È certo che il suo partito sarà il primo sospettato. Sospetti, legittimati dai fatti accaduti in questi ultimi anni, che ricadono sul suo partito prima di altri per motivazioni concrete, per eventi documentati quando lui era da poco al governo con i Cinque stelle.
Come i suoi fedelissimi beccati con le mani nella ciotola russa dei soldi destinati ai sovranisti europei. Fatti, appunto, per i quali Salvini non ha mai neppure denunciato i giornalisti autori dello scoop sul caso Metropol, l'hotel di Mosca dove il 18 ottobre si è tenuta la trattativa tra l'ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, e una banda di tre russi (tutti legati a oligarchi e politici vicini a Putin) durante la quale hanno negoziato un finanziamento alla Lega per sostenere la campagna elettorale delle europee 2019.
Uno schema usuale
Finanziamento milionario mascherato con un'operazione di compravendita di milioni di tonnellate di gasolio. Schema che viene citato anche dall'intelligence americana come usuale nei metodi usati dalle truppe di Putin per elargire soldi agli amici politici della Russia in giro per il mondo.
Questo schema del sostegno elettorale camuffato da scambio commerciale, emerso per la prima volta pubblicamente con il negoziato del Metropol, prevede l'utilizzo di società estere fittizie attraverso le quali far transitare la somma ufficiale e quella destinata allo scopo politico dell'operazione.
Quel 18 ottobre con Savoini si è parlato anche di questo aspetto. Un caso scuola potremmo definirlo, seppure la transazione non sia avvenuta. L'esperta di intelligence Julia Friedlander, in una recente intervista, cita le «shelf company» per un quali strumento per veicolare soldi russi verso gruppi politici dell'Unione.
Si tratta di società cartiere, di comodo o dormienti, create in uno stato estero rispetto all'obiettivo da finanziare. Friedlander, alto funzionario di stato con Donald Trump, è stata analista della Cia, consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro, e dal 2017 al 2019 direttrice per l'Europa al consiglio per la sicurezza nazionale. Friedlander nel dialogo con La Repubblica ha parlato espressamente di Lega e Salvini, il quale sulla Russia «penso abbia un interesse politico personale... Ci sono connessioni ideologiche, ma anche obiettivi economici», ha detto.
Otto giorni dopo l'intervista, ecco la notizia sui milioni distribuiti dalla Russia a partiti e leader di tutto il mondo pubblicata dal Washington Post. E che in Italia ha avuto più eco rispetto ad altri paesi proprio perché tra una settimana si terrà il voto che deciderà il prossimo governo, con la destra unita data in netto vantaggio dai sondaggi. In questa coalizione c'è la Lega, la principale indiziata non da oggi ma dall'inizio dell'era Salvini (2013) di avere stretto con Mosca un rapporto che va oltre la condivisione di ideali comuni.
Il manifesto del Metropol
Per capire il motivo di tanta attenzione internazionale sulle ingerenze russe in Italia è necessario partire ancora una volta dal Metropol e da Savoini seduto al tavolo con gli uomini vicini al presidente Putin. L'ex portavoce di Salvini è chiamato in Russia il consigliere di Matteo pur non ricoprendo già all'epoca ruoli ufficiali nel partito.
Savoini prima di entrare nel clou dei dettagli tecnici della trattativa ha pronunciato parole che diventano una sorta di manifesto politico dell'incontro segreto, fanno da cornice ideale allo scambio commerciale dietro il quale si celava un finanziamento reale: «La nuova Europa deve essere vicina alla Russia. Non dobbiamo più dipendere dalle decisioni di illuminati a Bruxelles o in Usa. Vogliamo cambiare l'Europa insieme ai nostri alleati come Heinz-Christian Strache in Austria, Alternative für Deutschland in Germania, la signora Le Pen in Francia, Orbán in Ungheria, Sverigedemokraterna in Svezia».
Attenzione alle sigle dei partiti nominati: sono quasi tutti stati coinvolti in scandali con alla base fondi russi. Va ricordato, inoltre, che un anno prima (2017) La Lega aveva siglato un patto politico con il partito di Putin, Russia Unita. Accordo di collaborazione ancora in vigore. Nel discorso introduttivo, in pratica, l'uomo di Salvini garantisce ai russi che solo i sovranisti, di cui la Lega è in quel momento forza trainante in Europa, possono cambiare gli equilibri.
In altre parole destabilizzare l'Unione, secondo i desideri e le strategie del presidente Putin. Dopo aver presentato il manifesto sovranista-leghista, Savoini ha lasciato la parola ai tecnici italiani e russi seduti al tavolo del Metropol. Iniziava così la trattativa vera e propria, fatta di cifre e luoghi, sconti sul carburante e società estere tramite le quali far passare i soldi.
Tre anni prima del Metropol, invece, è accaduto un fatto curioso. Come raccontato da Domani nei mesi scorsi, c'è stato uno strano giro di contanti, segnalato dall'antiriciclaggio italiano, che ha riguardato un alto funzionario dell'ambasciata russa nei giorni in cui Putin era in visita a Milano e ha incontrato il leader della Lega, accompagnato da Savoini.
Si trattava di un prelievo in banca di 125mila euro, giustificato dal diplomatico russo con la necessità di soddisfare le esigenze della delegazione in arrivo da Mosca per il vertice nel capoluogo lombardo il 17 ottobre 2014. Quel giorno Salvini ha incontrato Vladimir Putin. Un saluto rapido, un caffè al volo dopo un importante convention sull'Eurasia.
Forse il primo incontro tra il capo della Lega e il presidente della federazione russa. È interessante il nome del funzionario dell'ambasciata che ha ritirato i contanti per la delegazione russa: Oleg Kostyukov. Lo stesso che in questi mesi ha curato le relazioni con Matteo Salvini e il suo consulente improvvisato, Antonio Capuano, l'avvocato di Frattaminore (Napoli), che ha accompagnato il capo leghista durante gli incontri segreti con l'ambasciatore di Putin a Roma per parlare del piano di pace in salsa sovranista.
Marine e Vladimir
È interessante da analizzare il periodo in cui i russi sostengono, o tentano di farlo, i sovranisti europei. Savoini organizza decine di incontri prima del Metropol a partire dal maggio precedente con un oligarca di nome Konstantin Malofeev, rappresentato da un suo emissario al tavolo dell'hotel moscovita e artefice di alleanze tra Cremlino e destre europee. In quel periodo la Lega aveva fatto il pieno di voti, aveva il vento in poppa, si apprestava ad andare al governo dell'Italia.
Era di fatto il primo partito dichiaratamente sovranista al governo di un paese fondatore dell'Unione Europea. Il più importante e forte nel 2018. Quattro anni prima lo scenario era decisamente diverso. La Lega era una forza residuale, Salvini era diventato segretario da un anno e la metamorfosi sovranista era appena cominciata. All'epoca all'apice dell'ascesa c'era Marine Le Pen con il Front national, che stava riorganizzandosi in vista delle elezioni del 2017 con sondaggi molto favorevoli sopra il 30 per cento.
Perciò al tempo se il Cremlino doveva sostenere un partito anti europeista con buone possibilità di vittoria, questo era sicuramente il Front national. A fine novembre 2014 la testata francese Mediapart pubblica lo scoop sul prestito da 9 milioni di euro dato al Front national dalla First Czech Russian Bank. Le Pen si era giustificata seguendo il protocollo caro ai sovranisti, il vittimismo: «Nessuna banca francese ce lo avrebbe concesso».
Aggiungendo che il denaro non ha influenzato le sue posizioni politiche. Di certo in Europa Le Pen, insieme a Salvini, la più strenua paladina della Russia e di Putin. La banca aveva accordato il finanziamento dopo l'inizio delle ostilità in Ucraina e nello stesso periodo Le Pen aveva annunciato di riconoscere il referendum sull'annessione russa della Crimea.
Anche in questo caso, come per l'affare Metropol, non si trattava di spedire borse zeppe di contanti o portare fuori dalle ambasciate buste farcite di rubli. Il sostegno è mascherato da un'operazione finanziaria con tutti i crismi della legalità. A fornire indizi di opacità però è il nome stesso della banca: di proprietà di una società di costruzioni russa, a sua volta controllata da società riconducibile a Gennady Timchenko, amico stretto di Putin e da tempo sotto sanzioni per la guerra in Ucraina.
«Questa banca è un noto ufficio di riciclaggio di denaro di Putin» aveva scritto Aleksej Navalny, l'oppositore più noto del presidente. La banca ha chiuso i battenti nel 2016 ed è stata rilevata da una società di ex militari russi, pure questa colpita da sanzioni. L'accordo per la restituzione del debito aveva fissato il 2019 come data ultima. Alla fine si sono accordati per il 2028 con una ristrutturazione rivelata dal Wall street journal ad aprile 2022, nei giorni caldi delle ultime presidenziali francesi.
Non vanno dimenticati, poi, i 2 milioni di euro ricevuti nel 2014 dall'associazione di raccolta fondi di Jean Marie Le Pen (padre di Marine) sostenitrice del Front national. Il denaro era partito da una società di Cipro connessa a un banca del Cremlino. A favorire l'operazione sarebbe stato l'oligarca Malofeev, ancora lui, l'amico di Savoini e della Lega. Germania russa In Germania Putin ha puntato tutto sui sovranisti di Alternative für Deutschland (Afd).
Negli anni ci sono state tracce di relazioni politiche e finanziarie tra gli uomini del Cremlino e il gruppi di estrema destra tedesco. I casi più eclatanti sono certamente due: nel 2017 a tre leader di Afd è stato pagato un volo per Mosca su un jet privato da un donatore russo; nel 2019, invece, la Bbc ha pubblicato alcuni documenti in cui emergeva il sostegno del Cremlino a Markus Frohnmaier, membro del parlamento tedesco di Afd, «avremo il nostro parlamentare assolutamente controllato nel Bundestag».
Una frase contenuta in uno scambio di mail tra un ex ufficiale del controspionaggio navale ed ex membro della camera alta del parlamento russo, e un alto funzionario dell'amministrazione del presidente Putin.
Il trappolone di Ibiza
Di tutt' altra fattura è il caso Ibizagate che ha coinvolto Heinz Christian Strache, l'ex leader della Fpoe, la destra radicale e sovranista austriaca.
Anche loro citati da Savoini nel discorso del Metropol. Lo scandalo austriaco ha provocato la caduta del governo, è considerato tuttavia una trappola tesa a Strache, ripreso in un video sull'isola spagnola mentre prometteva appalti a una donna, che recitava la parte di figlia di oligarca, in cambio di soldi per sostenere la campagna elettorale. I video sono stati pubblicati da Der Spiegel e Suddeutsche Zeitung.
E seppure l'incontro sia stato costruito ad arte, il caso Strache evidenzia la sensibilità sovranista alle sirene russe. Il report del 2020 Il report non più segreto rivelato dal dipartimento di stato americano ricorda in molti passaggi un dossier dettagliato pubblicato nell'agosto 2020 dal think tank americano "The Alliance for Securing Democracy".
Nel consiglio consultivo troviamo pezzi grossi un tempo ai vertici dell'intelligence statunitense: Da Rick Ledgett, già vice direttore della National Security Agency, a Michael Morell, ex direttore ad interim della Cia tra il 2011 e il 2013. Il report rilasciato due anni fa si intitola Covert foreign money ed è un viaggio nelle ingerenze russe, cinesi e arabe che hanno come obiettivi l'Europa e il resto del mondo. I casi citati sono numerosissimi: da Le Pen al Metropol della Lega fino al caso tedesco.
Ma c'è molto altro: si parla dell'estrema destra svedese, citando casi concreti, della Polonia, della Nuova Zelanda, dell'Australia. Gli analisti spiegano i vari metodi per celare i finanziamenti. E sono quelli scoperti con i casi Le Pen e Metropol. Oppure l'utilizzo di associazioni, fondazioni, onlus. «Oltre a strumenti più ampiamente studiati come attacchi informatici e disinformazione, regimi autoritari come Russia e Cina hanno speso più di 300 milioni di dollari per interferire nei processi democratici più di 100 volte in 33 paesi nel scorso decennio», è l'incipit del report 2020, che prosegue: «Chiamiamo questo strumento di interferenza straniera "finanza maligna", definita come il finanziamento di partiti politici stranieri, candidati, campagne elettorali, élite ben collegate o gruppi politicamente influenti». La cifra e i meccanismi citati da "The Alliance for Securing Democracy" sono identici a quelli emersi in questi giorni dopo la pubblicazione del documento desecretato dal dipartimento di stato sulle interferenze russe nel mondo. L'ennesima conferma, se mai dovesse servire.
Da globalist.it il 15 settembre 2021.
«L’intelligence americana quando ci racconterà quanto spende per i politici italiani?». È il commento all’AGI della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, alla notizia del rapporto degli 007 Usa secondo cui, dal 2014 a oggi, la Russia ha versato oltre 300 milioni di dollari a movimenti politici e candidati in diversi Paesi del mondo, per accrescere la propria influenza.
“Non dobbiamo perdere di vista il modo in cui gli autocrati stranieri prendono di mira i nostri stessi Paesi. Le entità straniere sono istituti di finanziamento che minano i nostri valori. La loro disinformazione si sta diffondendo da internet nelle aule delle nostre università” ha dichiarato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. “Abbiamo introdotto una legislazione per controllare gli investimenti diretti esteri nelle nostre aziende per problemi di sicurezza.
Se lo facciamo per la nostra economia, non dovremmo fare lo stesso per i nostri valori? Dobbiamo proteggerci meglio dalle interferenze maligne. Questo è il motivo per cui presenteremo un pacchetto di Difesa della Democrazia. Porterà alla luce l’influenza straniera nascosta e finanziamenti loschi. Non permetteremo ai cavalli di Troia di nessuna autocrazia di attaccare le nostre democrazie dall’interno”, ha aggiunto nel suo discorso sullo stato dell’Unione.
DAGOREPORT il 14 settembre 2022.
E’ chiaro che non sia stato un caso il rapporto dell’intelligence statunitense che rivela i 300 milioni di finanziamenti russi a forze politiche in due dozzine di paesi, allo scopo di influenzare e interferire nei loro processi politici. Una bomba, per i nostri Salvini, a undici giorni dalle elezioni.
In attesa che il segretario di Stato Antony Blinken, gran frequentatore dei salotti parigini (ha studiato in Francia) scodelli la lista, la caccia ai nomi beneficiati da Mosca, è cominciata.
Oltre ai putiniani risaputi come Marine Le Pen e Orban, da fonti autorevoli Dagospia apprende che il primo nome della lista è quello di Jimmie Akesson, leader dei Democratici Svedesi, nati dalle ceneri dei neonazisti, con una solida alleanza con Fratelli d'Italia all'Europarlamento.
In mezzo c’è l’Italia, starring la Lega. A partire da Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo Salvini, dominus dell’operazione petrolifera del Metropol di Mosca, accusato di aver fatto da tramite per far arrivare alla Lega un finanziamento illecito da 65 milioni di euro dalla Russia di Vladimir Putin. A proposito, che fine hanno fatto le indagini del tribunale di Genova su Savoini? E’ stato prosciolto? E’ ancora sotto indagine? Non si sa nulla.
Sottolineano Giuliano Foschini e Tommaso Ciriaco oggi su “la Repubblica”: “Il nodo dei rapporti tra i russi e Matteo Salvini era stato sollevato pochi giorni fa su Repubblica da un'ex analista della Cia, Julia Friedlander, ai tempi di Trump consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro e dal 2017 al 2019 Director for European Union, Southern Europen and Economic Affairs al Consiglio per la Sicurezza Nazionale”.
"Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente", afferma la Friedlander. E aggiunge: “Il problema è che non è facile tracciare questi collegamenti economici. Usano le shell company, compagnie inattive che offrono donazioni alle campagne politiche, o lobbisti informali che spingono certi contratti, che riflettono gli interessi russi. Quindi è difficile provare che il Cremlino abbia staccato un assegno per Marine Le Pen, ma è interessante studiare connessioni e intermediari".
Soldi russi, in Italia quante "excusatio non petita". GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 15 Settembre 2022.
In quali tasche è finito l’oro di Mosca? Secondo l’intelligence Usa sono venti i partiti finora accertati (in Europa, in Africa, in Asia) che ricevono un finanziamento dal Cremlino allo scopo di portare avanti nei rispettivi Paesi una linea politica favorevole alla Russia. In Italia, sui soldi russi, sono piovute le smentite a titolo di excusatio non petita. Giacchè, a quanto si conosce in merito ai documenti messi in circolazione dagli 007 americani, non sono stati resi noti i nomi dei partiti interessati, né quello dei loro leader.
Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno annunciato querele nei confronti di chiunque li chiamasse in causa. Il che è singolare, dal momento che nessuno l’aveva ancora fatto. Addirittura Guido Crosetto, il ‘’gigante buono’’ di FdI, si è spinto fino a chiedere «i nomi, se esistono, di eventuali beneficiati italiani. Perché è alto tradimento».
Sul versante del centrosinistra, la notizia viene commentata con il fair play del gatto che è in procinto di avventarsi sul topo. Anche se per ora i dirigenti si limitano a chiedere la pubblicazione dei documenti.
SOLDI RUSSI E ITALIA, L’AVVISO DI URSO
Adolfo Urso, il deus ex machina del Copasir, mantiene una condotta corretta sul piano istituzionale, riservandosi di approfondire la questione con il sottosegretario Franco Gabrielli (il quale esclude la presenza di partiti italiani). Nello stesso tempo, però, il presidente del Copasir rilascia in tv delle dichiarazioni inquietanti.
«L’ingerenza straniera esiste – ha detto Urso – Cina e Russia cercano di delegittimare e sottomettere la nostra democrazia, ma noi dobbiamo garantire una campagna elettorale serena».
«Noi dovremmo contrastare il gioco di Russia e Cina che vogliono far credere che il voto nei nostri Paesi conti nulla, che loro sono in grado di condizionarlo», ha insistito Urso, spiegando poi che chiederà conto delle rivelazioni degli 007 Usa anche negli incontri che ha in programma a Washington, dove tra l’altro incontrerà il presidente della Commissione Intelligence del Congresso. Vedremo, allora, nei prossimi giorni, man mano che si avvicina il 25 settembre, se verranno rese note, in maniera attendibile, altre informazioni.
Senza mettere troppo le mani avanti, sembra comunque pacifico che i finanziamenti – ammesso e non concesso che abbiano viaggiato in percorsi bancari oscuri e coperti o attraverso le classiche valigette diplomatiche – anche per la loro consistenza non siano finiti ai partiti della Repubblica del Titano o ad Andorra o in qualche piccolo Stato di analoghe dimensioni.
SOLDI RUSSI IN ITALIA? LE CONSEGUENZE SUL VOTO
Ma se si scoprisse che alcuni partiti italiani hanno messo le mani nell’insalata russa, si potrebbero ipotizzare conseguenze sul voto, tanto da cambiarne l’esito? La risposta che ci sentiamo di dare è negativa. L’opinione pubblica è molto preoccupata per i costi dell’energia (che rappresentano gran parte della vita quotidiana delle loro famiglie).
I media – al solito – danno spazio alle peggiori notizie: nessuno è informato del ristoro, sia pur modesto, determinato dallo stanziamento, in circa un anno e al netto dell’ultimo decreto Aiuti, di una cinquantina di miliardi da parte del governo. Nella prospettiva di un avvenire prossimo molto cupo (anche per l’erosione dei redditi provocato dall’inflazione) è facile abboccare all’amo delle narrazioni populiste: perché fare tanti sacrifici quando basterebbe presentarsi da Putin con il cappello in mano? Se questa potrebbe essere la soluzione dei nostri problemi, perché prendersela con i partiti che, grazie ai loro rapporti con il Cremlino, sarebbero in grado di liberarci dagli incubi del razionamento?
Io mi sono convinto che noi, e in generale l’Occidente, abbiamo un debito di riconoscenza immenso nei confronti dell’Ucraina. La resistenza eroica di quel popolo ci ha salvato tante volte. Se l’operazione militare speciale russa fosse andata a buon fine, l’Occidente ne avrebbe preso atto, come aveva già fatto dopo le aggressioni nei confronti della Georgia e della Crimea.
Ma la lotta di un popolo ha risvegliato quel po’ di etica sopravvissuta al cinismo e all’opportunismo. Anche perché – e del resto Putin non lo ha mai negato – la crisi sarebbe andata ben oltre l’invasione dell’Ucraina. Come hanno capito subito le repubbliche baltiche, la Svezia e la Finlandia, la stessa Polonia, la Bulgaria e le altre nazioni confinanti con la Federazione russa.
L’UCRAINA CI HA SVEGLIATI
Un altro motivo di gratitudine sta nell’esserci resi conto, in conseguenza del conflitto, della dabbenaggine che ci aveva portati, in un tempo relativamente breve, a dipendere dalla Russia anche per fare la doccia.
Infine, i successi sul campo di battaglia dell’esercito ucraino possono condurre a uno scenario imprevisto. Un scenario in cui venga tolto di mezzo o almeno ridimensionato non tanto il problema della crisi energetica, ma l’autocrate che l’ha creata per motivi politici, perseguendo un disegno imperialista. Si direbbe, quasi, che gli ucraini abbiano fretta di mettersi al sicuro con i mezzi di cui dispongono proprio perché non si fidano della nostra fermezza.
L’esito delle votazioni in Svezia (neofita della Nato) manda un segnale sinistro. Biden ha i suoi guai interni e internazionali con la Cina. Macron è un’anitra azzoppata. In Italia, ormai, le nostre speranze per una politica internazionale coerente sono affidate (sic!) a Giorgia Meloni, perché Salvini e il Cav continuano a essere amici del giaguaro.
"Da Mosca 300 milioni a politici e partiti esteri". Gli 007 Usa: dal 2014 fondi per accrescere la propria influenza. "Informeremo i governi". Marco Liconti il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.
La «bomba» è arrivata inattesa, al pari dell'offensiva lanciata dalle forze ucraine contro gli invasori russi. E potrebbe avere gli stessi imprevedibili effetti. A partire dal 2014, Mosca ha finanziato partiti politici, singoli candidati, funzionari e think tank stranieri con oltre 300 milioni di dollari in una ventina di Paesi. La fonte non è un anonimo funzionario di intelligence, ma il dipartimento di Stato degli Stati Uniti. La firma in calce al «cablo» riservato e inviato alle ambasciate Usa è quella del segretario di Stato, Antony Blinken. L'«investimento» di Mosca per garantirsi un atteggiamento benevolo da parte di forze politiche, intellettuali e perfino aziende di Stato, copre ogni latitudine: dall'Europa, all'America Centrale, dall'Asia, al Medioriente, al Nordafrica.
Nel documento del dipartimento di Stato non si fanno nomi, né di Paesi specifici, di personalità coinvolte, ma la tempistica, per quanto vasta sia la portata dell'operazione russa, non può non far pensare alla data fatidica del 25 settembre e alle tante polemiche che, dall'inizio dell'invasione russa, hanno visto al centro proprio l'Italia e la presunta «Quinta Colonna» filorussa che agirebbe all'interno di partiti politici, istituzioni, redazioni giornalistiche. A rafforzare il ragionamento, il fatto che Washington fa sapere che «informazioni classificate» verranno fornite a una serie di «Paesi selezionati». Non solo, secondo fonti del Giornale, i nomi dei partiti e delle personalità coinvolte potrebbero essere resi noti la prossima settimana, attraverso il consueto canale dei «leak» alla stampa, praticamente alla vigilia del voto italiano.
Nel «cablo» firmato da Blinken sono contenute anche una serie di istruzioni, «talkin points», secondo il linguaggio del dipartimento di Stato, per i diplomatici Usa impegnati nei Paesi in oggetto: in pratica, le questioni da sollevare con gli interlocutori stranieri a livello governativo, per esprimere la preoccupazione di Washington e minacciare con «sanzioni» e perfino «rivelazioni ai media» chi non prenderà provvedimenti per arginare e fermare i tentativi russi di influenzare la politica di questi Paesi. Il contesto nel quale è stato reso noto il documento ha per gli Usa un risvolto interno. Si tratta del lungo lavoro compiuto dall'intelligence statunitense per svelare i tentativi russi di influenzare le elezioni presidenziali del 2016 e del 2020, fino alle anticipazioni della Cia sull'intenzione di Mosca di invadere l'Ucraina, al tempo ampiamente inascoltate. Ma è chiaro che l'obiettivo della bomba sganciata dal dipartimento di Stato è soprattutto al di là dei confini nazionali. Putin ha speso ingenti risorse «nel tentativo di manipolare le democrazie dall'interno», riferisce un alto funzionario dell'Amministrazione, che ha chiesto di rimanere anonimo per la delicatezza delle questioni trattate.
Nel cablo firmato da Blinken e fatto trapelare ai media, classificato come «sensibile», gli 007 Usa affermano di ritenere che la Russia aveva piani per trasferire «almeno altre centinaia di milioni» in giro per il mondo a partiti politici e funzionari «amici». Non è chiaro come l'intelligence sia arrivata alla cifra, finora dichiarata, di 300 milioni di dollari spesi da Mosca per penetrare all'interno di governi e democrazie straniere. «Stiamo promuovendo una collaborazione con i nostri pari democratici. Ci scambieremo quanto abbiamo imparato, tutto per il bene della sicurezza collettiva dei nostri processi elettorali», afferma l'alto funzionario dell'Amministrazione. Ora, non resta che aspettare la prossima bomba.
Francesco Curridori per “il Giornale” il 15 settembre 2021.
«Noi ci meravigliamo perché siamo dei provinciali, ma la politica estera si fa non solo con le armi, ma con i soldi, con i trattati commerciali e, persino, col sostegno ad alcuni partiti politici». Il generale Carlo Jean, esperto di strategia militare e di geopolitica, commenta così la notizia arrivata da Washington sui finanziamenti di Putin destinati ad alcuni partiti occidentali per accrescerne l'orientamento filo-russo.
Generale, ma, quindi, non la stupisce minimamente questa rivelazione?
«Mi stupisce il fatto che i fondi segnalati siano troppo ridotti perché 300 milioni di dollari dal 14 ad oggi sono niente».
Niente?
«Sì, niente rispetto a quello che le grandi potenze usano per sostenere le proprie ragioni attraverso la disinformazione oppure attraverso i finanziamenti ai partiti, agli uomini politici e ai giornali o social network».
Perché oggi sembra più facile scoprire determinanti flussi di denaro?
«Il controllo dei flussi finanziari è cominciato ad essere più stretto quando è stato esteso al finanziamento del terrorismo di Al Qaeda o Isis che funziona con quantità di denaro molto ridotte e, perciò, deve essere molto capillare. Verosimilmente, le grandi potenze o medie come l'Italia hanno degli infiltrati nel sistema finanziario che informano i servizi segreti su quel che sta capitando. Queste, però, sono notizie che generalmente rimangono solo all'attenzione dei governi».
Passiamo alla guerra. Gli ucraini stanno vincendo?
«Gli ucraini hanno avuto un grande successo. La situazione in Ucraina sul fronte Est e sul fronte Sud sta volgendo a favore degli ucraini, ma vittoria è una parola grossa. Il 20% del territorio è in mano ai russi e quello riconquistato dagli ucraini è il 3-4%».
Com' è stata possibile questa rimonta?
«I russi hanno creduto che lo sforzo principale degli ucraini sarebbe stato verso Kherson, ma, in realtà, una gran quantità di forze di Kiev erano dirette in segreto verso Kharkiv. I russi non se ne sono accorti e sono stati travolti. Il successo tattico degli ucraini è merito degli Himars, i lanciarazzi multipli usati non più per colpire la controbatteria, ma contro le forze avanzate russe che sono dovute scappare. È stata una Caporetto».
Quali sono gli errori della Russia?
«L'errore strategico è stato invadere un Paese di 600mila km e 44 milioni di abitanti con 200mila uomini e una scarsissima fanteria, pensando che gli ucraini non avrebbero combattuto. I primi successi, invece, hanno rafforzato il morale delle forze ucraine consentendo a Zelensky di ordinare la mobilitazione generale».
Ma sono stati utili anche gli aiuti militari dell'Occidente?
«Sono stati determinanti. Ora, l'Occidente ha un dilemma: intensificare questi aiuti, col rischio che Putin ricorra alle armi nucleari, oppure avanzare con una guerra di logoramento, consapevole che il capo del Cremlino non può ordinare la mobilitazione generale».
Perché non può farlo?
«La Russia di oggi è diversa da quella contadina in cui le famiglie avevano 8 figli: due morivano per la patria e gli altri lavoravano la terra. Putin non chiama la mobilitazione generale per tenere buona l'opinione pubblica».
"I comunisti hanno preso soldi dalla Russia". Ora Salvini minaccia querele. Il pensiero di Matteo Salvini si discosta da quello di Giorgia Meloni, che tiene la barra sull'impostazione di Mario Draghi e dice no allo scostamento. Francesca Galici il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.
Sfilata di politici a Cartabianca, dove da Bianca Berlinguer si sono presentati, uno dietro l'altro, Enrico Letta, Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Matteo Salvini ha esordito replicando a Enrico Letta sulle accuse mosse dal segretario del Partito democratico e ha rilanciato: "Gli unici che hanno preso soldi in passato dalla Russia sono i comunisti e qualche quotidiano come Repubblica. Io non ho mai chiesto né preso soldi. Dicano nomi e cognomi. Ha pagato il Pd? Se la Russia ha pagato il Pd è giusto che si sappia".
Il segretario della Lega ha rimarcato: "L'unico Paese straniero che nella mia attività politica mi offri un viaggio pagato e spesato all'estero furono gli Stati Uniti. Io non ci andai. Altri ci andarono, liberi di farlo". Durante la giornata, è arrivata anche una nota della Lega: "Ennesime insinuazioni, zeppe di dubbi e condizionali, contro la Lega e Matteo Salvini che si difenderanno in ogni sede opportuna contro le parole di Julia Friedlander e il quotidiano che le ha pubblicate". Quindi, nella nota si aggiunge: "A differenza del gruppo editoriale che per anni ha diffuso in allegato 'Russia Oggi', la Lega non ha ricevuto finanziamenti da Mosca".
Matteo Salvini è ritornato anche sul tema dello scostamento di bilancio, della necessità di mettere 30 miliardi per supportare le famiglie e le imprese in questo momento così particolare: "La Lega chiede di mettere 30 miliardi a debito, che è debito buono perché salva posti di lavoro". Una mossa che non è condivisa "dall'amica Giorgia", che si trova in linea con la decisione di Mario Draghi non procedere in questo senso. "Gli altri governi europei sono intervenuti, anche il nostro dovrebbe farlo per aiutare famiglie e lavoratori. Questa è un'altra forma di Covid, non riempie gli ospedali ma svuota le fabbriche. È un errore parlarne più avanti", ha dichiarato il segretario della Lega, sottolineando come ci siano importanti differenze in questo senso con Giorgia Meloni, sebbene i due alleati, come più volte sottolineato, vadano d'accordo su quasi tutti i punti condivisi del programma di centrodestra. "Meloni sbaglia, l'emergenza di questo momento non è il presidenzialismo, ma le bollette", ha rimarcato il segretario della Lega.
Salvini, quindi, ha aggiunto: "La riforma pensioni è da fare tra sei mesi ed è già calibrata, poi ci sono la riforma della giustizia, il presidenzialismo, l'autonomia, tutte cose che faremo una volta al Governo. Ma il problema di domani mattina non è il fascismo o la Russia, ma che è arrivata una bolletta che non puoi pagare". Ed è un provvedimento che deve prendere il governo in carica, senza aspettare quello nuovo: "C'è un governo in carica, ha trovato 13 miliardi per aiutare alcune famiglie, non sono sufficienti. Il governo italiano in carica deve intervenire, sbagliano sia Letta che Meloni: l'amica Giorgia dice che non è il momento di aiutare milioni di italiani? Allora è un errore".
Fondi russi, il Copasir: "Nessun partito italiano". Lorenzo Vita il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.
Il presidente del Copasir afferma di avere parlato con Franco Gabrielli e di non avere avuto indicazioni di fondi russi a favore di partiti o personalità italiane nel dossier presentato dall'intelligence Usa.
"Al momento non esistono notizie che riguardano il nostro Paese in questo dossier". Le parole del presidente del Copasir, Adolfo Urso, colpiscono come un macigno le accuse nei confronti di alcuni partiti italiani accusati di essere legati a doppio filo a Mosca.
Il presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, parlando alla trasmissione "Agorà" in onda su Rai 3 del dossier statunitense riguardante i finanziamenti dati dalla Russia a esponenti politici e partiti dal 2014, ha mandato un messaggio molto chiaro: "Mi sono confrontato con il sottosegretario con delega ai servizi segreti, Franco Gabrielli" e "al momento al governo è stato escluso che l'Italia compaia in questo dossier". Dichiarazioni che dunque confermerebbero che al momento le accuse nei confronti di partiti italiani risulterebbero frutto di altre ipotesi non affatto collegate alle inchieste dei servizi segreti statunitensi.
In ogni caso, il Copasir vuole vederci chiaro, ed è lo stesso Urso ad affermare che il Comitato si riunirà nei prossimi giorni, probabilmente venerdì, per discutere del dossier di Washington riguardo i 300 milioni di dollari utilizzati da Mosca per finanziare partiti in varie parti del mondo. "Il Comitato si riunirà con l'audizione di Gabrielli e in quella sede verificheremo, se le avremo, altre notizie in merito", ha detto il presidente del Copasir. Ieri i media americani avevano parlato di questo dossier senza che però trapelasse alcuna informazione riguardo i Paesi coinvolti. Come riportato dalla Cnn, un alto funzionario dell'amministrazione Biden ha detto che la Russia avrebbe utilizzato questi soldi in tutti i continenti, coinvolgendo più di venti Paesi. "La comunità dell'intelligence statunitense sta informando in via riservata i Paesi individuati" ha detto il funzionario ai giornalisti, "manteniamo riservati questi briefing data la sensibilità dei dati e per consentire a questi paesi di migliorare la loro integrità elettorale in privato".
Le parole di Urso rispondono anche alle accuse rivolte dall'ex ambasciatore Usa alla Nato, Kurt Volker, che in un'intervista a Repubblica sottolinea come i partiti del centrodestra, in particolare ora Fratelli d'Italia, sarebbero affini alla Russia al punto da essere oggetto di un presunto finanziamento e supporto esterno. "Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d'Italia da voi", queste alcune delle frasi di Volker, abbastanza sorprendenti dal momento che quanto detto dall'ex inviato di Donald Trump in Ucraina non appaiono verificate.
Accuse che sono state rispedite al mittente da parte della stessa leader di Fdi, Giorgia Meloni, che a Radio 24 ha annunciato di voler querelare Repubblica e l'ex ambasciatore per quanto detto sui finanziamenti nei confronti del suo partito. "Sono tutte verificabili le nostre forme di finanziamento. Sono certa che Fratelli d'Italia non prende soldi da stranieri", ha detto Meloni, "Repubblica e Volker ci portino le prove. Siccome non ci sono penso che la querela sia inevitabile".
Fondi russi, Paolo Guzzanti: "Quel dossier è una vera patacca". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022
Giorgia Meloni pagata dai comunisti, Matteo Salvini ingoiato dal Kgb e finito nel grande ventre del Cremlino. Fantastico. Questo è John Le Carré prigioniero di una pochade. C’è qualcosa di nuovo, anzi d'antico, c'è un retrogusto da propaganda elettorale nella doppia rivelazione americana che i russi abbiano foraggiato «300 paesi» (fatta dal segretario di Stato dem Antony Blinken); e che lo stesso Putin abbia finanziato Fratelli d'Italia e Lega (pubblicata da Repubblica organo dem, che riporta un commento di Kurt Volker ex ambasciatore americano alla Nato). Sono due dichiarazioni che non c'entrano un piffero tra loro, l'una avulsa dal contesto dell'altra. Eppure stanno diventando materia infiammabile.
Caro Paolo Guzzanti, da cronista, ex senatore, ex presidente della Commissione Mitrokhin, tra i massimi esperti di cose russe: che succede?
«Mi suona tutto molto strano, che Blinken spari una dichiarazione pubblicamente e priva di corredo probatorio (un generico "fonti d'intelligence"), be' è contrario alle procedure. Se un governo amico vuole avvertirti di qualcosa, di solito si parlano i capi di Stato, o comunque si va per via diplomatica. C'è una sciatteria sospetta. E, tra l'altro la Russia, storicamente, da noi non ha neanche bisogno di corrompere».
Nel senso che siamo, di natura, moralemente fragili?
«Guarda, io mi ricordo che Kolosov, capo della Presidentura di Roma mi diceva che "da noi c'è sempre stata la fila di chi voleva collaborare." Ne arruolavamo parecchi, di solito evitavamo i comunisti per un accordo col Pci che prevedeva di tenerli fuori; ma c'erano i Dc, i socialisti. Un comportamento pro-russo, qui è assolutamente naturale. Ma li vedi anche tu quando vanno in televisione, no?».
Cioè allora ha ragione Blinken: i comunisti vivono tra noi e nessuno ci ha avvertito?
«Dai, li vedi. Sono quelli che iniziano con "premetto che c'è un paese aggressore e uno aggredito", però poi sbracano nel filoputinismo.
Quelli che - giornalisti, politici, imprenditori - "le sanzioni alla Russia fanno più male a noi", e quindi forse è meglio lasciargli invadere la Georgia e la Crimea. Che tra l'altro, dal punto di vista meramente degli affari, era pure comprensibile».
Vabbè, stiamo divagando. Torniamo alle due dichiarazioni, rigorosamente separate. Quella di Blinken c'entra con le elezioni?
«C'entra di sicuro. Ma, se ben guardiamo, quali sono le fonti ufficiali americane della notizia? Esistono davvero? E di cosa si tratta? Di un documento certificato, di un rapporto della Cia, di un "me l'ha detto mi cuggino", o di una semplice illazione?».
Be' Blinken non sarà mica il primo cazzaro che passa, no?
«Mi pare che, nello specifico di questo fantomatico rapporto, siano indicati un pugno di paesuncoli di Asia e Africa. L'Italia, a quanto dice anche il Copasir, non è neanche citata. Cioè: non c'è nulla di ufficiale da Washington, anzi...».
Poi c'è l'intervista a Volker di Repubblica. Tra le tante cose, sono credibili i finanziamenti a Fratelli d'Italia?
«Ma è tutto illogico politicamente. La Meloni, gli Stati Uniti, in questo momento se la stanno coccolando, le danno spazio, e non tanto perché gli è simpatica, ma perché è quella che probabilmente vincerà le elezioni nel rispetto delle regole democratiche. Lei è atlantista nei fatti e nelle parole e soprattutto non mi ricordo sue sospette simpatie comuniste, neppure in gioventù...».
L'ex ambasciatore Terzi di Sant' Agata, canditato per FdI, ha scritto, all'ex collega Volker: «Vorrei quindi pregarti di chiarirmi su quali fatti e circostanze concrete si basino le insinuazioni riportate da La Repubblica, se effettivamente corrispondono alle tue parole». Gli è partito l'embolo...
«Terzi ha ragione a incazzarsi. Ma poi, 'sto Volkov, ripeto: per conto di chi parla. Coinvolgere, proprio in questo momento, Lega e Fratelli d'Italia sui finanziamenti russi senza riscontri, mi pare perfino sciocco. Finora abbiamo solo Repubblica che mette in bocca a un ex ambasciatore delle dichiarazioni contro il centrodestra, senza che l'ex ambasciatore lo ripetain tv».
Però che gli italiani siano sempre stati non ostili alla Russia, non è vero?
«Be' che l'Italia, tra i paesi occidentali sia storicamente il più vicino alla Russia (mi pare in una misura del 60% tra fan e non dichiaratamente ostili) è risaputo. Tra l'altro ti ricordo che la vera dipendenza dal gas russo l'abbiamo avuta da 'mo, dai tempi del governo Letta».
E del governo Berlusconi, per essere precisi.
«Sì. certo. Valter Bielli, capogruppo del Pds ai tempi in cui ero presidente della Commissione Mitrokhin, mi diceva: "Guzzanti, noi tutti di sinistra qui siamo da sempre filorussi, ora ci si sono messi anche quelli di destra pro Putin: a lei chi glielo fa fare di andare a schiantarsi?"».
Tutto questo potrebbe incidere sul risultato delle elezioni?
«Ma ti pare che la notizia dei soldi russi possa scuotere l'Italia? Il vecchio Cossiga mi raccontava che il Pci fino a Berlinguer aveva sempre un compagno preposto che, da Mosca, tornava con la valigetta: in aeroporto era controllata da due agenti del tesoro Usa e dal ministero degli Interni, per poi passare allo Ior dove si cambiavano i rubli, e per accertarsi che non fossero falsi. Tutti sapevano tutto. Quand'è finita la pacchia hanno dovuto vendere Botteghe Oscure».
Cioè mi stai dicendo che l'elettore medio non diserterà, schifato, le urne?
«Ma va'. Dirà:"Embè?" e poi "Ecchisenefrega". Dimenticandosi magari di Di Maio che la spara grossa su una commissione apposita da organizzare in quattro e quattr' otto; il quale, a sua volta, si dimentica che a portare l'ultima Armata Rossa in Italia coi camici e le siringhe per il Covid era stato Conte».
Guido Crosetto invoca l'alto tradimento per chi s' è preso i soldi dei russi.
«Ma, ad occhio, non c'è lo stato di guerra. Se fosse accertato tutto -"se"- ci starebbe magari il finanziamento illecito, al limite l'evasione fiscale. Ma, al limite...».
I fiumi di soldi dal Cremlino tollerati se vanno a sinistra. Paolo Guzzanti il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.
Oggi i dem si indignano, ma fu il Pci a introdurre la corruzione della politica con i fondi illegali dell'Urss.
Troppe cose non quadrano nella storia dei finanziamenti russi a partiti e politici accennata dal ministro della Difesa americano, poi rafforzata da indiscrezioni senza padre né madre. La storia, se non sono pronte altre scatole cinesi, sarebbe questa: il ministro americano Blinken davanti alle telecamere svela il contenuto di un rapporto dei servizi segreti americani secondo cui la Russia avrebbe speso centinaia di milioni per corrompere politici e partiti di paesi stranieri per favorire si suppone - la sua bellicosa politica estera. Poi un funzionario di rango minore afferma che fra questi Paesi c'è l'Italia e che i partiti beneficiati dai russi sarebbero quello della Meloni, di Salvini e il Movimento Cinque Stelle. Queste dichiarazioni provocano il prevedibile putiferio senza né capo, né coda perché manca sia la logica, il movente, che la fonte. È bizzarro, per non dire ridicolo, che i più indignati per questo fumosissimo scandalo, siano proprio gli uomini del Pd a partire dall'intrepido suo segretario. Enrico Letta è al timone di un partito fatto per metà dal vecchio Pci e per metà dalla vecchia Dc. E anche se lui non proviene dalla metà comunista, non può far finta di non conoscere il codice genetico del partito, quello comunista, che ha introdotto la corruzione della politica attraverso gli illegali e sontuosi finanziamenti russi, costringendo i partiti democratici ad approvvigionarsi in maniera altrettanto illegale. Ogni anno un funzionario del Pci andava a Mosca con una valigetta vuota e la riportava piena di milioni di dollari che venivano controllati al ritorno da due agenti del Tesoro americano che volevano controllare che le banconote non fossero false. Poi la banca vaticana dello Ior cambiava i dollari in lire. Alla fine, tutti i partiti democratici che avevano praticato il finanziamento illegale furono condannati a morte e sono scomparsi, mentre soltanto Il PCI si è salvato per il rotto della perché nel 1989 una provvidenziale amnistia cancellava tutti i gravissimi peccati di corruzione del sistema democratico commessi con sfacciato candore dal PCI. Oggi si alza un gran polverone su un possibile finanziamento russo a partiti e politici. Se fosse vero sarebbe gravissimo, ma con poco senso. Che gli americani vogliano danneggiare Giorgia Meloni è in aperta contraddizione con lo stile e la diligenza con cui il Dipartimento di Stato ha cercato di capire la figura e il progetto politico della Meloni. Lo hanno fatto non solo con lei ma probabilmente ha giocato a suo favore il fatto di essere una possibile candidata alla guida del governo italiano con una posizione nettamente filoatlantica, anche se sostenendo che l'Italia deve essere risarcita dai costi derivati da una scelta netta senza se e senza ma.
Quanto alla Lega, le note e passate simpatie di Matteo Salvini per Vladimir Putin non spiegherebbero il movente perché è universalmente nota l'alleanza politica fra la Lega, il partito di Putin, quello della Le Pen e dell'ungherese Orban in un contesto che non è più da tempo quello attuale dal momento che oggi Salvini si è riposizionato a causa dall'aggressione all'Ucraina. Perché, dunque, come e quando il Cremlino avrebbe speso una somma di denaro per investirlo in una incomprensibile «operazione simpatia»? Non solo mancano le prove, ma manca il senso. Ma, ammesso e non concesso, perché? Per creare una superflua turbolenza che non raggiungerebbe mai le proporzioni dello scandalo, in mancanza assoluta di prove e logica. Per quanto riguarda i Cinque Stelle si potrebbe capire il senso, ma non l'attualità. È un dato di fatto che Conte abbia ordito l'abbattimento del governo Draghi per incassare i voti dell'elettorato contrario all'invio di armi agli ucraini con una giravolta sull'invio delle armi a chi sta resistendo. Nel suo caso la logica ci sarebbe ma manca comunque qualsiasi prova.
Francesco Storace: tutti gli affari della sinistra con Cina e Putin. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022.
Ma quanto sono ipocriti a sinistra. Si riparano dai venti fragorosi sui finanziamenti russi al Pci con l'alibi del tempo trascorso («Siamo un'altra cosa»), dicono adesso. Come se sull'ambiguità delle relazioni internazionali dei figliocci di quel partito si debba solo risalire al tempo del Togliattismo. No, anche gli idoli di adesso hanno peccati da farsi perdonare e persino i loro cuginetti a Cinque stelle. Nel gioco delle relazioni pericolose spiccano tutti, a sinistra, e suscita davvero indignazione il loro accanimento su colpe inesistenti a destra. Spesso si sono fatti fare anche fessi da Mosca. Accadde a Romano Prodi e Massimo D'Alema, per la crisi energetica del 2007. All'epoca fu siglata un'intesa Eni-Enel con Gazprom, che in realtà ci mise in condizioni di sudditanza verso Mosca. E la partita la condusse con mano di spregiudicato mazziere l'ex cancelliere tedesco Schroeder. Sai che gliene fregava della fratellanza progressista...Venne poi il tempo di Enrico Letta.
Era il 2013 e nel giro di una giornata, nel freddo polare di Trieste, l'allora premier siglò con Vladimir Putin una serie di accordi a raffica sicurezza compresa dai quali non si evinceva un giudizio così definitivamente negativo sull'uomo di Mosca. Anzi, Letta uscì da quella radiosa giornata davvero tanto contento. Ma gli autogol della sinistra italiana non hanno riguardato solo la Russia, dopo la grande stagione dell'Urss in cui i comunisti di allora almeno ammettevano i legami con i fratelli del Pcus. Anche la Cina è tutt' ora protagonista di dubbie relazioni. Nei giorni scorsi, per merito de Il Giornale, è emersa la fitta collaborazione di sodali di Enrico Letta con paradisi fiscali nei quali occultare denaro evidentemente accumulato in maniera illecita. Al segretario del Pd è stata sollecitata chiarezza, senza accusarlo di fatti specifici. Ma dalla sua bocca non è uscita una parola. E la grande stampa gli ha riservato il trattamento di riguarda che di solito è omesso quando si tratta della Meloni, di Salvini o di Silvio Berlusconi.
SOSPETTI
Per non parlare poi dei compari di merenda pentastellati. Ancora è fresco nella memoria di molti il caso di Vito Petrocelli, ex presidente della commissione esteri del Senato. Da quella postazione è stato cacciato a furor di popolo per il suo esplicito sostegno all'invasione russa in Ucraina, arrivando anche a votare "no" alla risoluzione del governo Draghi sulla guerra in Ucraina, in difformità rispetto alla indicazioni del partito (dove pure fiorivano altri sotterranei distinguo). In quel caso, le polemiche furono davvero feroci, con l'imbarazzo di un Movimento politico in cui i filoPetrocelli stavano acquattati pur condividendone le posizioni a sostegno di Mosca. Ma altrettanto clamore hanno suscitato nel tempo i sospetti rapporti del M5s con il Venezuela. Tra Chavez e Maduro c'è stata una fitta rete di relazioni che sono arrivate a far partire un'indagine giudiziaria su un presunto versamento di discrete quantità di quattrini che sarebbero addirittura arrivate in valigetta a Gianroberto Casaleggio.
Una questione ancora non chiara. Ma che aldilà del presunto maneggio di denaro si parlò di ben 3,5 milioni di dollari campeggia sulla politica internazionale dell'Italia proprio perché i pentastellati non hanno mai voluto assumere posizioni di netta condanna del regime rosso di Caracas. Va detto anche che il figlio di Casaleggio, Davide, non ha esitato a denunciare il giornalista spagnolo che aveva realizzato lo scoop. Il che, se vale per tutelare l'onorabilità e la memoria del padre, nulla sposta rispetto alla linea filovenezuelana del Movimento cinque stelle. In Italia c'è comunque un'inchiesta della Procura di Milano. Il paradosso, per un Movimento come quello di Beppe Grillo, è che tutto possa finire in prescrizione. Salvando quelli che non la volevano per i processi. Sono quelli che strillano contro la destra per non far parlare dei peccatucci di casa loro.
Fondi russi, il foglio che incastra la sinistra: ferie pagate, cosa state vedendo. Libero Quotidiano il 16 settembre 2022
C'è stato un tempo in cui l'Urss non si limitava a finanziare il Pci con operazioni politiche. Ma agiva come la più grande agenzia di viaggio nazionale per i compagni italiani che si guadagnavano gite premio in aereo a Mosca o crociere sul Mar Nero, per veder realizzate le promesse del sol dell'avvenire e consolidarsi nella propria fede filo-sovietica, magari con relativa delusione al ritorno.
A occuparsi di questi tour con l'avallo del Pci e del Pcus era l'Italturist, un'agenzia di viaggio operativa per circa un trentennio, dall'inizio degli anni '60 fino alla fine degli anni '80, e presieduta all'inizio da Armando Cossutta, che raccontava quell'esperienza con entusiasmo e la presentava come strumento di servizio al popolo, a cui consentiva di visitare «Paesi proibiti»: l'Urss, ma anche la Cina e Cuba, tutti rigorosamente comunisti.
Una prima svolta ci fu all'inizio degli anni '70 allorché l'Italturist, fino ad allora di proprietà del Pci, fu ceduta alla Lega delle cooperative immobiliari, partecipata anche dal Psi, della cui sezione milanese era stato presidente Francesco Siclari. Lo stesso Siclari fu "promosso" a presidente dell'Italturist, che di fatto continuava ad agire nell'orbita del Pci: sotto la sua gestione, come ci dicono le nostre fonti, professionisti che lavoravano per Italturist in vari settori, «si consolidò quel criterio "meritocratico" che permetteva a tre categorie, sindacalisti e militanti del partito, dirigenti del Pci, e villeggianti generici provenienti dalla classe operaia, di prendere il volo in direzione Mosca o Leningrado per una vacanza su mezzi sì scassati ma a prezzi ridottissimi. Talmente bassi, se non nulli, che l’agenzia turistica non riusciva a coprire le spese ed era cronicamente in perdita. I debiti venivano poi gentilmente ripianati non solo da Italturist e dagli organismi collegati, ma anche dal fornitore, cioè l’Urss».
Se consideriamo che la Italturist organizzava un volo a settimana verso la Russia, che su ogni volo c’erano un centinaio di passeggeri e che solo il volo costava circa 100mila lire (non pagate dai passeggeri), «possiamo affermare», continuano le fonti, «che tra anni ’60 e ’70 l’Urss abbia tappato le falle di Italturist, versando qualche miliardo di lire». Vacanze a carico del Cremlino che offriva lo svago al proletariato italico, all’insegna di Falce e Martello... All’inizio degli anni ’80 Italturist iniziò a contemplare, tra le sue mete, anche posti turistici come Santo Domingo. Solo che a metà del decennio un Jumbo della compagnia restò piantato a terra nell’aeroporto di New York, tra le proteste dei viaggiatori che avrebbero dovuto raggiungere Santo Domingo e quelli che avrebbero dovuto tornare in Italia. Fu il punto di non ritorno: l’Italturist passò sotto il controllo dell’Unipol, trasformandosi in un’azienda di mercato. Da allora forse gli aerei cominciarono ad arrivare in orario, non come quando c’era Breznev...
Le rivelazioni americane e il polverone italiano. Americani e russi irrompono come al solito in campagna elettorale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Settembre 2022
La storia si ripete e spesso nelle forme più cretine. Basta non avere memoria e il gioco è fatto. Adesso siamo tutti impegnati a fingere di voler sapere immediatamente, a tutti i costi, senza fare sconti a nessuno – vada come deve andare – che cosa e chi si nasconde dietro le sibilline parole del ministro della Difesa americano, il quale ha dichiarato che i russi avrebbero speso parecchi milioni per corrompere politici, partiti, giornalisti, influencer e chiunque possa portare loro dei vantaggi.
Poi, dopo questa prima generica affermazione, arriva la notizia sotto forma di indiscrezione secondo cui due partiti italiani del centrodestra, se non tutti e tre, sarebbero coinvolti insieme ai Cinque Stelle il cui leader ed ex presidente del Consiglio fece entrare in Italia un distaccamento dell’Armata Rossa per portare siringhe e medici. È certamente stata una mano santa per il dibattito televisivo che non riusciva a liberarsi dalla noia dei funerali regali e del tetto sul prezzo del gas. Così, “er dibbbattito” si è arricchito del chiacchiericcio con cui si finge di accusare e difendere chi forse ha preso i soldi di Putin. Il lettore mi perdonerà se parlo in prima persona, ma di queste faccende ne so qualcosa avendo vissuto la terribile avventura di presiedere tra il 2002 e il 2006 una Commissione parlamentare bicamerale di inchiesta che aveva il compito di scoprire se e come i nostri servizi segreti avessero utilizzato le informazioni dei colleghi inglesi sugli agenti russi durante la guerra fredda. Quella commissione (la più ostacolata, diffamata, derisa, e dimenticata anche se gli atti del Parlamento dimostrano che scoprì molto di più del previsto) fu varata dal Parlamento in seguito alle voci, insinuazioni, accuse, seguite alla pubblicazione del libro L’Archivio Mitrokhin scritto dall’ex archivista del Kgb Vasili Mitrokhin e da Christopher Andrew, storico di fiducia del servizio segreto inglese.
In Italia scoppiò una guerra civile delle parole tra i comunisti che si accusavano l’un l’altro di essere stati al soldo del Kgb mentre un’altra parte li accusava di essere stati al soldo della Cia. Fu fatto un drammatico polverone nel corso del quale almeno 5 persone persero la vita nell’indifferenza generale. L’ultimo fu Sasha Litvinenko, quello avvelenato con il polonio visto isu tutti gli schermi del mondo prima che morisse E non gliene frega assolutamente niente a nessuno della verità di come andarono realmente le cose, di chi era colpevole e di che cosa: oggi sembra che si voglia giocare di nuovo la stessa carta sussurrando un segreto – non poi troppo segreto perché si tratta solo di una informativa – in cui si rivelerebbe che i russi hanno speso una modestissima quantità di denaro per influenzare le politiche di paesi stranieri. Ma i russi non hanno nessun bisogno di spendere e spandere per ottenere questo risultato. Ci sono paesi – e certamente tra questi l’Italia – in cui una parte della dirigenza e dell’intellighenzia si trova naturalmente e gratuitamente dalla parte dei russi sia in versione sovietica che putiniana senza alcuna soluzione di continuità.
Io nella mia vita giornalistica che ha ormai superato i sessant’anni ricordo benissimo tutte le spie russe che venivano a trovare i giornalisti nelle redazioni di quasi tutti i giornali in cui ho lavorato. Ed è facilissimo vedere sugli schermi, o sulle pagine, soltanto osservando le omissioni, le riduzioni di evidenza, le esaltazioni laddove ti aspetteresti un tono basso, la manina e la luna russa che suona con agevolezza tutte le musiche che vuole sia nel la politica parlamentare che sulla stampa stampata. E non parliamo poi della comunicazione televisiva che conta molto più dei social totalmente sopravvalutati per la mania del correre dietro a personaggi insignificanti come gli influencer. Questo modo di agire ricorda quello dei guardiani dello zoo che vanno a portare il cibo ai grandi felini in gabbia. Quando arrivano col secchio della carne le bestie si agitano, ruggiscono, frustano l’aria con la coda, poi mangiano i loro bocconi e se ne tornano tranquille nelle loro tane. Non esiste e non esisterà mai alcuna lista di coloro i quali agiscono perché pagati dai russi. Come mi disse davanti a tutta la commissione il capo dello spionaggio sovietico a Roma, «noi non abbiamo mai avuto bisogno di spendere un centesimo per avere informazioni perché dietro la nostra porta c’è la fila dei volontari che corrono al nostro soccorso e non si tratta solo dei comunisti, anzi i comunisti li teniamo alla larga perché non vogliamo che si compromettano con noi». Si riferiva evidentemente al periodo in cui il partito comunista esisteva e aveva l’obbligo tassativo di non consentire ai suoi iscritti di lavorare per i sovietici proprio per evitare possibili scandali.
Oggi è evidentissimo che in Italia agisce, come sempre ha agito, un partito filorusso a prescindere che non ha a che vedere né col comunismo né col capitalismo ma semplicemente con gli interessi della Russia. Da anni e anni assistiamo alla pantomima delle continue richieste di abrogare le sanzioni comminate alla Russia per avere riportato la guerra in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale aggredendo paesi europei come la Georgia e poi l’Ucraina, prima nel 2014 occupandone la Crimea con un’armata di soldati senza mostrine senza gradi e poi con l’operazione militare speciale del 24 febbraio scorso. In Italia la reazione però è sempre stata e resta del tutto automatica: una gran parte dei nostri opinion makers hanno protestato vivacemente soltanto per contestare l’invio delle armi agli aggrediti, quelle armi che oggi permettono agli stessi aggrediti di difendersi con efficacia dagli aggressori. Ma soltanto in Italia accade che seriamente si finga che ci sia un approfondito dibattito fra chi vuole schierarsi con gli aggrediti e chi con gli aggressori. Naturalmente questa operazione non viene condotta in maniera così rozza e non c’è filorusso che non inizi la sua perorazione contro l’invio di armi all’Ucraina senza premettere con voce contrita che “naturalmente condanniamo nel modo più deciso l’aggressione di Putin all’Ucraina”.
Ora il fatto che la Russia spende una ragionevole quantità di soldi per alimentare la propaganda a suo favore, è non solo previsto e banale, ma rende piuttosto ridicolo anche chi finge di scandalizzarsi. Avendo svolto molte inchieste giornalistiche sulle influenze della Cia in Italia a partire dal 1947 so come tutti che gli americani hanno finanziato largamente giornali, politici e partiti e hanno fatto a mio parere benissimo perché permettevano di contrapporre una spesa ingente a quella che i comunisti potevano spendere. In Italia si sono già viste commissioni d’inchiesta e procedimenti giudiziari nati e abortiti per indagare sugli agenti e gli anni della vecchia Guerra fredda che sembra oggi sempre la stessa. Le dichiarazioni americane, finora prive di qualsiasi corredo, finiscono per fare il gioco del nemico proprio per la fragilità e la vaghezza con cui sono state formulate, tanto che le stesse fonti americane hanno indicato una dozzina di lontanissimi Paesi extraeuropei, mentre in Italia salivano all’onore della cronaca i nomi di due partiti di centrodestra e del Movimento Cinque stelle.
Risultato? Molte banali levate di scudi di chi grida allo scandalo, simmetriche e altrettanto inutili rispetto a quelle di chi pretende la verità (da chi? dagli americani che hanno preso l’iniziativa di rivelare senza rivelare?) e chi – con raffinatezza intellettuale – si delizia all’idea che l’Italia cada preda di un nuovo maccartismo, una nuova “caccia alle streghe”, seguendo il titolo della commedia di Arthur Miller che dette il nome a un’epoca: quella della persecuzione degli intellettuali sospettati di essere agenti sovietici e oggi di Putin. Avendo compiuto i miei sessanta anni da giornalista, più quattro dedicati all’insabbiata inchiesta sugli influencer russi, mi viene il sospetto che il Segretario di Stato americano sia caduto nel gioco di specchi in cui i russi sono davvero i maestri assoluti.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Fondi russi, gli altarini di Repubblica: cos'ha pubblicato per sei anni. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022
L'Italia s' è desta, La Repubblica no. Fanno i segugi nel quotidiano di Maurizio Molinari, masi sono scordati i loro precedenti specifici. Recenti, recentissimi. Ogni giorno ci raccontano di quattrini arrivati da Mosca, mai quelli che sono passati dalle loro parti. La memoria tocca rinfrescarla nei nostri archivi o anche su Google. Mica c'è solo - se c'è, anche se Gabrielli e Urso, sottosegretario ai servizi e presidente del Copasir smentiscono- la politica. I finanziamenti opachi li prendeva ieri chi li denuncia oggi. Se li sono scordati quei soldi dalla Russia, i signori di Repubblica. Prima della guerra all'Ucraina sono arrivati con certezza anche a loro. No, non ci passa per la testa di dire che stanno con Kiev perché Mosca non caccia più moneta, ma davvero le lezioni di etica, fasulle, potrebbero risparmiarcele. Ieri, ad esempio, ci hanno raccontato la bufala dei finanziamenti russi a Lega e Fdi, ma senza uno straccio di prova, di indizio. Voci, che chiunque può far circolare. Tanto in Italia non ci sarà un solo magistrato pronto a sanzionare le balle da campagna elettorale.
LINEE POLITICHE
Ma intanto il puzzo arriva. Lo porta Kurt Volker, ex ambasciatore Usa alla Nato, che si fa intervistare dal quotidiano della Gedi: «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l'Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fdi da voi». Alè, pure la Meloni adesso. La domanda è obbligata: «Davvero l'allarme riguarda anche Fratelli d'Italia?», chiede Repubblica. «Non ho prove dirette personali, ma è un ritornello costante che c'è stata qualche assistenza. Se guarda bene la loro linea politica, alcuni aspetti riflettono le posizioni russe». Ma complimenti per lo scoop, senza «prove dirette personali»: intanto lo diciamo. Improvvisamente dalla "home" di Twitter spunta un messaggio di aprile del Fatto quotidiano: «Quando chiuse con la Repubblica, Russia Today offrì 1,5 milioni di euro l'anno al Sole 24 ore. Ripetiamo la domanda a Rep: quanto vi dava Mosca per gli spot?». Forse non hanno "prove dirette" sui soldi alla Gran casa della sinistra editoriale. E però non si può fare la morale, "senza prove", da una testata che le "prove" invece se le può far contestare agevolmente.
FINANZIATO DA MOSCA
Perché sono stati sei anni belli ed evidentemente generosi, quelli dal 2010 al 2016. Ogni mese i lettori di Repubblica erano deliziati da un supplemento intitolato Russia Oggi. Era il derivato di Russia Today, poi messo al bando in Occidente sotto l'accusa più pesante: emanazione mediatica dei voleri di Vladimir Putin. Ricordiamo che il quotidiano allora lo dirigeva Ezio Mauro che non nascondeva il suo legame con il supplemento impacchettato ogni trenta giorni dal Cremlino. Perché c'era un annuncio a "spiegare" la pubblicazione dell'inserto, «realizzato senza la partecipazione dei giornali e dei redattori di Repubblica. È finanziato dai proventi dell'attività pubblicitaria e dagli sponsor commerciali, così come da mezzi di enti russi». E chi lo realizzava quel giornale ospitato non gratis da Repubblica? La redazione si chiamava Rossiyskaya Gazeta, quotidiano a sua volta finanziato da Mosca. Insomma, per sei anni uno dei maggiori quotidiani del nostro paese ha concesso spazio alle tesi di Putin attraverso una rivista megafono della Russia. Avrebbero potuto chiedere a uno dei colleghi di Rossiyskaya Gazeta un editoriale su «quanto ci costa la politica italiana». Non conveniva, sennò il flusso dei soldi di Mosca in redazione sarebbe stato immediatamente bloccato. Nel nome della democrazia e della libertà di stampa.
La rivelazione degli 007 americani. Dalla Russia almeno 300 milioni ai partiti di 24 Paesi, l’Italia chiede chiarimenti. Linkiesta il 14 Settembre 2022.
Non sono stati rivelati al momenti i nomi coinvolti. Roma ha chiesto maggiori informazioni, soprattutto in vista delle elezioni del 25 settembre. La Lega, intanto, ha già fatto sapere di voler querelare chiunque associ il nome del Carroccio a questa vicenda. L’ex ambasciatore Volker punta il dito contro Salvini, Meloni e Berlusconi
La Russia ha speso almeno trecento milioni di dollari, a partire dal 2014, cioè dall’anno dell’annessione della Crimea, per finanziare partiti politici, think tank e candidati di 24 Paesi e influenzare così i risultati elettorali. La rivelazione è contenuta in un report dell’intelligence americana di cui ha parlato in un briefing con i giornalisti un alto funzionario dell’amministrazione Biden. Mentre il Dipartimento di Stato rendeva noto un cablogramma inviato dal segretario di Stato Antony Blinken a numerose ambasciate e consolati Usa all’estero – molti dei quali in Europa, Africa e Asia del Sud – manifestando le preoccupazioni americane e spiegando ai funzionari come rispondere, con misure che vanno dalle sanzioni economiche al bando dei viaggi.
Non sono stati resi pubblici né le nazioni bersaglio del soft power russo, né i partiti o i dirigenti coinvolti in questo schema. Ma gli Stati Uniti ritengono che i 300 milioni siano una parte di uno sforzo economico più esteso da parte russa.
Il Washington Post, citando fonti anonime del governo americano, riporta che tra i partiti coinvolti ci sono anche candidati alla presidenza. Tra gli oltre venti paesi interessati ci sarebbero Albania, Montenegro, Madagascar e forse anche l’Ecuador. Si parla anche di un Paese asiatico non identificato, in cui l’ambasciatore russo avrebbe dato milioni di dollari in contanti a un candidato. Gli altri Paesi e politici coinvolti non sono stati rivelati, ma sono concentrati soprattutto in Europa.
«Facendo luce sul finanziamento politico segreto russo e sui tentativi di minare i processi democratici, stiamo avvisando questi partiti e candidati stranieri che se accettano segretamente denaro di Mosca, noi possiamo denunciarli e lo faremo», dice una fonte dell’amministrazione al quotidiano americano. I funzionari, sempre secondo il Washington Post, hanno affermato che le forze legate al Cremlino hanno utilizzato società di comodo, think tank e altri mezzi per influenzare gli eventi politici, a volte a beneficio di gruppi di estrema destra. Il cablo nomina gli oligarchi russi coinvolti negli «schemi di finanziamento», tra cui Yevgeniy Prigozhin e Aleksandr Babakov.
Materiale potenzialmente esplosivo soprattutto in Italia, che tra 11 giorni andrà alle urne. Roma – come spiega Repubblica – ha chiesto a Washington tramite i canali ufficiali di intelligence se l’Italia è parte del dossier e l’identità degli eventuali politici finiti nella rete. Ma gli Stati Uniti mantengono ancora una certa riservatezza. È più probabile quindi che i nomi escano prima da fonti americane che da canali italiani ufficiali. O che magari vengano rilanciati dai media statunitensi.
Palazzo Chigi avrebbe preso molto sul serio la questione, soprattutto in vista del 25 settembre. Unanime la reazione dei partiti italiani, che hanno chiesto al Copasir di fare chiarezza e comunicare eventualmente al Parlamento le informazioni che arrivano dal Paese alleato.
Ieri, in serata, intanto la Lega in una nota ha già fatto sapere di voler querelare chiunque associ il nome della Lega a questa vicenda.
Ma nell’intervista rilasciata a Paolo Mastrolilli di Repubblica, l’ex ambasciatore americano alla Nato Kurt Volker fa esplicitamente i nomi di Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l’Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri Paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d’Italia da voi», dice.
Come? «Per promuovere la loro narrazione. A volte i fondi vanno ai partiti in Europa, o anche ai singoli politici, con pagamenti diretti oppure affari conclusi da compagnie russe che beneficiano questi politici, creando in loro un interesse diretto ad aiutare Mosca».
L’ambasciatore ammette di non avere prove dirette personali, «ma è un ritornello costante che c’è stata qualche forma di assistenza». E poi, aggiunge, «la Lega è in circolazione da parecchio tempo ed era noto che riflettesse le prospettive russe. Fratelli d’Italia è una formazione più recente, anche se erede di altri partiti, ed è cresciuta in maniera straordinaria nell’ultimo anno. Ciò obbliga a porsi domande su quali sono le fonti dei loro finanziamenti, delle posizioni prese e dell’aumento della popolarità».
E secondo l’ambasciatore, ci sono sospetti anche riguardo Forza Italia. «È interessante che Berlusconi non fosse così filo russo, quando aveva fatto il premier la prima e la seconda volta, ma alla terza è completamente cambiato. Ha sviluppato uno stretto rapporto personale con Putin, e forti relazioni di business con la Russia», sostiene Volker.
Mosca Connection. Ci sarebbe anche l’Italia nel dossier americano sui soldi russi ai partiti. Linkiesta il 15 Settembre 2022.
Secondo quanto scrive Repubblica, citando «una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato», ci sarebbero informazioni anche sul nostro Paese nel report redatto dagli 007 Usa. Ma per il momento i nomi dei politici che hanno preso soldi da Mosca non vengono divulgati. Secondo Di Maio, potrebbero arrivare presto altri dettagli
Con la nota del segretario di Stato americano Antony Blinken recapitata a Palazzo Chigi e alla Farnesina sulla penetrazione dell’influenza russa nei Paesi europei, a Roma è iniziata la caccia ai nomi. Al momento, non filtra nulla. Il documento con i dettagli è secretato. Ma, secondo quanto scrive Repubblica, citando «una fonte molto autorevole, con diretta conoscenza dei fatti, che ne ha discusso con i vertici del dipartimento di Stato», l’Italia ci sarebbe eccome nel dossier americano sulla corruzione russa nel mondo. E non poteva essere altrimenti, considerando i rapporti con Mosca costruiti negli ultimi decenni da diversi partiti rilevanti. E questo alimenta molti dubbi sulle elezioni del 25 settembre e il futuro assetto del governo italiano.
È possibile che il nostro governo e i servizi di intelligence non siano ancora stati informati dei dettagli perché, dopo l’annuncio dei giorni scorsi, Washington ha deciso di procedere per passi, in base a necessità e circostanze. Ieri però il portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, ha confermato che «condivideremo con i Paesi alleati le informazioni classificate di intelligence raccolte sulle attività della Russia per influenzare i processi politici nelle democrazie». Quindi se ci sono nomi di politici o partiti che hanno ricevuto favori, e magari violato la legge, prima o poi Roma verrà informata.
Un portavoce del dipartimento di Stato spiega così la logica a Repubblica: «Non entreremo in specifiche informazioni di intelligence, ma siamo stati chiari sulla nostra preoccupazione per l’attività della Russia per influenzare il processo democratico in vari paesi del mondo, inclusi gli Stati Uniti. La nostra preoccupazione per l’attività di Mosca in questo senso non riguarda un Paese, ma è di natura globale, mentre continuiamo ad affrontare le sue sfide contro le società democratiche». La fonte quindi ha chiarito così la strategia: «L’influenza politica segreta russa rappresenta una sfida importante per gli Usa e altre democrazie in tutto il mondo. Abbiamo lavorato per esporla mentre la scopriamo. Abbiamo, e continueremo a lavorare con i nostri alleati e partner in tutto il mondo, per denunciare gli sforzi di influenza maligna della Russia e aiutare altri paesi a difendersi da questa attività». Quanto alla pubblicazione di nomi e cognomi, «non abbiamo ulteriori informazioni da discutere sui Paesi specifici, in merito a questo argomento». E «si tratta di una decisione deliberata», ha spiegato Ned Price, perché ora era importante denunciare la minaccia di Mosca a livello globale, ma nel dettaglio dei singoli Paesi coinvolti l’intelligence lavorerà con discrezione.
Il rapporto inviato a Roma è stato redatto dal Consiglio per la sicurezza nazionale della Casa Bianca ed è composto da un mix di informazioni di intelligence e “open source”, ossia già disponibili pubblicamente. Però non può essere divulgato nella sua interezza, perché contiene diversi capitoli classificati. La ragione per cui Washington ha deciso di procedere con la denuncia è simile a quella che ha portato alla progressiva declassificazione e pubblicazione delle manovre militari russe, alla vigilia e dopo l’invasione dell’Ucraina. I servizi americani, tra l’altro, hanno raccolto negli anni una grande quantità di informazioni sulla corruzione condotta dal Cremlino. Ora quindi le pubblicano, e soprattutto le condividono con i Paesi alleati più colpiti, allo scopo di metterli in condizione di reagire e fermare Mosca.
Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha spiegato che dopo la nota potrebbero arrivare altre rivelazioni, accennando alla possibilità che almeno un altro dossier venga recapitato all’esecutivo italiano.
La notizia, chiaramente, ha messo in subbuglio i partiti italiani a pochi giorni dal voto. E in particolare la coalizione di destra. Il leader della Lega Matteo Salvini è stato il primo a esporsi, dopo aver minacciato querele: «Mi hanno processato come bieco spione russo e invece non era vero niente. Abbiamo chiacchierato sul nulla». Giorgia Meloni ha chiesto «chiarezza» sul caso e Guido Crosetto ha evocato addirittura «l’alto tradimento».
Mentre Adolfo Urso, capo del Copasir di Fratelli d’Italia, dall’America, dove si trova in missione per Giorgia Meloni, inizialmente ha detto: «Non ci sono italiani nel dossier americano». E ha convocato in tutta fretta per domani l’audizione di Franco Gabrielli al Copasir. Poi Urso a Washington ha incontrato il presidente democratico della Commissione intelligence del Senato, Mark Warner, e il repubblicano Richard Burr. Al termine dei colloqui, il suo tono è cambiato, fa notare Repubblica. «L’amministrazione Usa fornisca immediate ed esaurienti informazioni al governo italiano sul dossier sui finanziamenti russi a partiti ed esponenti politici di alcuni Paesi», ha detto. «È necessario fare subito assoluta chiarezza. Siamo in campagna elettorale e abbiamo il dovere di tutelare le istituzioni democratiche e di evitare ogni forma di delegittimazione».
Unfit to lead. Salvini è inadeguato a governare, ma risparmiamoci il processo alle intenzioni sui soldi dalla Russia. Andrea Cangini su L'inkiesta il 16 Settembre 2022
Finora la notizia sui presunti finanziamenti del Cremlino ai partiti europei non ha portato a elementi concreti di colpevolezza. Non bisogna indulgere nella cultura del sospetto. Basta guardare la storia politica del leader della Lega per capire la sua mediocrità
Ci sono ottime ed evidenti ragioni politiche interne e internazionali per considerare Matteo Salvini inadeguato a ricoprire funzioni di governo, ragioni che rischiano di essere eclissate dal fuoco di sbarramento mediatico innescato dalle rivelazioni sui finanziamenti russi.
Rivelazioni che, per il momento, non hanno rivelato nulla. Nulla di concreto: né un nome, né un fatto, né una circostanza. Per ora si tratta di un processo alle intenzioni. Un processo mediatico ispirato dalla cultura del sospetto.
Un sospetto legittimamente dovuto alle passate scelte politiche filoputiniane di Matteo Salvini e alle sue ambiguità presenti sull’Ucraina. Ma comunque un processo alle intenzioni. Intenzioni criminali, per giunta. Un metodo oggettivamente scorretto, poco garantista e nella realtà destinato a puntellare il sempre più precario segretario della Lega Salvini premier, un tempo “Lega Nord”.
In attesa di eventuali prove sui soldi russi e sulla eventuale ricattabilità di Matteo Salvini, il metodo liberale imporrebbe di attenersi ai fatti. Ai fatti della politica interna e ai fatti, mai come oggi qualificanti, della politica internazionale. Ne abbiamo già a sufficienza per esprimere un giudizio lapidario.
Rublodollari e moralismi. Gratuito o mercenario, il sostegno a Putin è un alto tradimento. Carmelo Palma su L'inkiesta il 16 Settembre 2022
Al di là di stucchevoli processi mediatici sulle presunte mazzette del Cremlino ai partiti italiani, è così rilevante sapere se l’amore dichiarato per il dittatore russo di Salvini e Berlusconi sia stato sincero o pagato? O se il pacifismo anti-ucraino del Movimento 5 stelle sia stato fatturato? È una questione di responsabilità politica, non solo penale
Scommetto un euro che dei trecento milioni di rublodollari, di cui i servizi americani seguono le tracce in Europa e rendono noto di avere una contabilità abbastanza precisa, neppure una mazzetta sarà trovata in Italia nelle tasche o nei conti dei molti indiziati speciali della benevolenza del Cremlino.
Non lo dico – sia chiaro – per fiducia nell’onestà degli amici italiani di Putin, che sono tanti e pure tanto bisognosi, né per sfiducia nelle buone intenzioni dell’intelligence Usa. Non è in discussione, ovviamente, che il regime putiniano, alla pari di qualunque organizzazione mafiosa, usi la corruzione economica, quanto il ricatto e l’intimidazione, come strumento di infiltrazione, reclutamento e condizionamento politico.
A essere in discussione è che queste operazioni speciali possano essere contestate, accertate e sanzionate in sede giudiziaria come se fossero le bustarelle di Mario Chiesa. Per quanto malconciati siano gli apparati russi, c’è da dubitare che ignorino le tecniche, alla portata di qualunque organizzazione criminale transnazionale, per movimentare montagne di soldi invisibili.
Per altro verso, sia detto in generale, varrebbe la pena di essere prudenti circa il vantaggio di montare processi mediatici usando a spizzichi e bocconi gli stralci dei dossier degli apparati di sicurezza, come altri fanno con le intercettazioni ricettate nelle segrete stanze delle procure. Anche perché al gioco dei veri o finti dossier potrebbero iniziare a giocare anche i russi. Così, in ogni caso, non si fa una buona giustizia, ma neppure una buona politica, meno che mai antitotalitaria.
A partire da questa vicenda, è invece più interessante e secondo me urgente riflettere sul fatto che a suscitare interesse e riprovazione e a far gridare al tradimento non sia la militanza apertamente collaborazionistica di una grande parte della politica italiana con l’avvelenatore in chief di Mosca, ma il possibile emolumento per il servizio prestato.
Davvero è così rilevante sapere se l’amore dichiarato per Putin di Salvini e Berlusconi sia stato sincero o mercenario, se il pacifismo anti-ucraino del Movimento 5 stelle e della sinistra senza se e senza ma, prima e dopo il 24 febbraio 2022, sia stato pro bono o fatturato e se il ruffiano relativismo sulla complessità della questione russa, che ha portato la meglio gioventù e i venerati maestri della politica italiana, a destra come a sinistra, a tenere bordone al macellaio del Cremlino e a menare scandalo per le sanzioni e per l’isolamento di Mosca, sia stato remunerato o l’unica remunerazione concessa sia stata la considerazione e l’amicizia del grande capo della satrapia cekista?
In un Paese come l’Italia, abituata al voyeurismo giudiziario e quindi a eccitarsi e indignarsi solo guardando la politica dal buco della serratura delle inchieste e dei processi, sembra che l’accusa di putinismo, che oggi la generalità dei putiniani rigetta sdegnosamente, possa essere dimostrata unicamente portando le prove di una corruzione economica o di un guadagno colpevole.
Il che conferma che la cultura di Tangentopoli non ha solo imbarbarito, ma anche instupidito l’Italia, stabilendo l’equivalenza tra lo scandalo e l’illecito e tra la responsabilità politica e quella penale. Quindi, alla fine, se non c’è un reato, se non si trovano i piccioli, se non si trovano ad esempio le piste, cancellate proprio da parte russa, del dopo Metropol, allora non c’è nulla di cui rispondere, vero?
Se Salvini eleggeva Mosca a Gerusalemme della diaspora sovranista, se Meloni esecrava le «folli sanzioni» alla Russia dopo l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea, se Berlusconi giurava in mondovisione sulla caratura democratica del suo amico particolare, se Prodi denunciava l’errore dell’ostracismo di Putin e ostentava ricambiato familiarità col capobanda moscovita, sdilinquendosi in complimenti sulla sua abilità economica e politica, se insomma accadeva tutto questo e moltissimo altro di uguale o di simile, possiamo dire che in realtà non è successo niente e non si è consumato alcun oltraggio alla causa della verità e della libertà, della pace e della sicurezza, se questa difesa di Putin non è stata contraccambiata almeno da un piccolo cadeau?
Possibile che pure sugli affari internazionali, cioè sulle questioni più radicalmente esistenziali per la nostra democrazia, la misura della qualità, dell’onestà e della lealtà patriottica della classe politica sia misurata da un metro così stupidamente moralistico
Strumenti di pressione. La lunga storia dell’influenza esercitata da Putin per destabilizzare l’Occidente. Maurizio Stefanini Linkiesta il 15 Settembre 2022.
Le rivelazioni del Dipartimento di Stato americano sui soldi dati da Mosca alle formazioni politiche europee non sono una sorpresa perché accompagnano una fitta e variegata serie di operazioni, anche social, che da tempo abbiamo purtroppo imparato a conoscere
La Russia di Putin usa i finanziamenti, ma i suoi strumenti di influenza sono soprattutto altri. Lo stesso alto funzionario dell’amministrazione Biden, che in una conference call ha riferito di come all’intelligence americana risultino almeno 300 milioni di dollari in trasferimenti segreti a partiti politici, dirigenti e politici stranieri in 24 Paesi a partire dal 2014 ha subito aggiunto come gli Stati Uniti si aspettino comunque nei prossimi mesi un utilizzo sempre maggiore dei mezzi di influenza coperta da parte dei russi. Con l’obiettivo di minare le sanzioni internazionali per la guerra in Ucraina e mantenere la sua influenza nel mondo.
Quando si parla delle operazioni con cui in passato il Cremlino è stato accusato di avere influenzato la politica straniera, come con la Brexit, l’elezione di Trump, la protesta separatista in Catalogna, la sconfitta del referendum di Renz, l’agitazione No Vax o la richiesta di impeachment a Mattarella per favorire la formazione del governo giallo-verde, il riferimento è essenzialmente a un lavorio fatto sulle piattaforme social. In particolare, attraverso quella Internet Research Agency di San Pietroburgo che si è meritata il soprannome di «fabbrica dei troll», e il cui finanziatore è Yevgeny Prigozhin. Il «cuoco di Putin» che – su un altro campo – sempre per rafforzare l’influenza russa ha inventato la compagnia di ventura Wagner.
Il Dipartimento di Stato ha fatto sapere di avere inviato la relativa documentazione alle ambasciate e ao consolati nei Paesi interessati, ma a quanto pare secondo i servizi americani sarebbe solo la punta dell’iceberg. Quei 300 milioni, spiegano, non sono che una cifra minima, e probabilmente Mosca ha preferito trasferire probabilmente altri fondi in modo coperto. Non vengono fatti nomi o citati Paesi, ma il Dipartimento di Stato è sicuro di poterli fornire presto. Non è chiaro se ci sia un problema di accertamenti o decrittazione, o se piuttosto i nomi vengano tenuti in sospeso per tenere qualcuno sotto pressione.
Ma il fatto che i finanziamenti non siano neanche il principale strumento di influenza di Putin, ad esempio, era stato espresso dal politologo ucraino Anton Shekhovtsov quando nel 2017 era venuto a Roma per un convegno sulla strategia di influenza della Russia in Europa organizzato dall’Atlantic Council e dall’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici.
Visiting Fellow all’austriaco Institute for Human Sciences, tra i massimi esperti nei rapporti tra Putin e i movimenti populisti di destra e di sinistra, autore di un libro sulla storia dell’attrazione reciproca tra la Russia sovietica e post-sovietica e il fascismo e radicalismo di destra, Shekhovtsov spiegò in particolare che all’epoca «l’evidenza più forte per un finanziamento vero e proprio dalla Russia riguarda solo un gruppuscolo di estrema destra polacco non molto influente».
In effetti, ci sarebbero anche i 9 milioni di euro che nel 2017 il partito di Marine Le Pen ottenne in prestito dalla First Czech Russian Bank: fondata nel 1996 con capitali di Praga e di Mosca, acquisita nel 2002 dalla StroyTransGaz , la società russa che costruisce i gasdotti per la Gazprom. Lo scorso 20 aprile il presidente francese Emmanuel Macron glielo rinfacciò durante un dibattito elettorale, e lei rispose: «Se sono stata costretta ad andare a fare un prestito all’estero è perché nessuna banca francese ha accettato di concedermelo. Sono una donna assolutamente libera». L’idea di Shekhovtsov era che «non è corretto dire che è stata finanziata dalla Russia. Ha ricevuto soldi in prestito, ma dovrà restituirli». Va detto che secondo successive inchieste di Le Monde e Mediapart la Le Pen avrebbe chiesto a banche russe 40 milioni.
Poi, nel febbraio del 2019, fu rivelata la la storia dell’incontro che il 18 ottobre 2018 ci sarebbe stato all’hotel Metropol di Mosca tra tre italiani e alcuni russi non identificati. Tra gli italiani c’è Gianluca Savoini, esponente leghista proveniente dall’estrema destra, presidente dell’associazione Lombardia Russia, già portavoce di Salvini, e grande tessitore di rapporti tra la Russia e la Lega. Si parla di una trattativa per la vendita di petrolio dalla quale, secondo gli accordi, dovrebbero risultare dei fondi neri per il finanziamento della campagna elettorale della Lega in vista delle elezioni europee: 3 milioni di tonnellate di gasolio da far arrivare all’Eni, per un valore di 1 miliardo e mezzo di dollari, 65 milioni dei quali per le casse della Lega.
Savoini, in particolare, fornisce il contesto politico della trattativa, spiegando che la Lega insieme all’alleanza sovranista vuole «cambiare l’Europa. La nuova Europa deve essere molto vicina alla Russia». Il giorno prima, il 17 ottobre, sempre a Mosca, l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini aveva partecipato a un incontro organizzato da Confindustria al Lotte Hotel, al quale era presente anche Savoini. In realtà, molti analisti si dissero subito certi che sotto dovessero esserci i servizi russi, per il fatto che l’Hotel Metropol è notoriamente sotto stretto controllo del Fsb. Ma nessuno si sbilanciò se fosse on regolamento di conti nei servizi russi stessi, o piuttosto un «avvertimento» a Salvini, che in quel momento si stava avvicinando a Trump, e aveva anche proposto al Cremlino di fare una «prima mossa» in Ucraina.
In realtà, un rapporto organico tra Lega e regime di Putin esiste nella forma di un patto di cooperazione col partito putiniano Russia Unita. Firmato a Mosca il 6 marzo del 2017, scadeva il 6 marzo 2022, ma in mancanza di comunicazione è stato rinnovato automaticamente fino al 6 marzo 2027. Come ricordava sempre Shekhovtsov, la Lega ha poi votato sistematicamente posizioni pro-Putin al Parlamento Europeo all’interno di un gruppo in cui fa parte di un nucleo duro filo-Cremlino, assieme al partito di Marine Le Pen e all’Fpö austriaco. Di quest’ultimo partito si può ricordare come il 18 maggio 2019 Heinz-Christian Strache diede le dimissioni da presidente, oltre che da vicecancelliere e ministro del Servizio Civile e dello Sport, in seguito alla pubblicazione da parte della Suddeutsche Zeitung e dello Spiegel di un video girato nel 2017 a Ibiza in cui Strache accettava offerte di corruzione dalla sedicente nipote di un oligarca russo, che in realtà era una giornalista d’inchiesta. Insomma, come la Lega anche la Fpö si è mostrata filo-Putin, è apparsa disposta a prendere soldi dalla Russia, ma non c’è evidenza che li abbia presi. Da ricordare che accanto a Strache a dirsi disposto a prendere 250 milioni di euro era il compagno di partito Johann Gudenus; noto come «uomo dei russi», e figlio di un colonnello negazionista dell’Olocausto.
Nello stesso gruppo figura anche Alternative für Deutschland (Afd). In un’inchiesta congiunta del 2019 dello Spiegel, della Zdf e della Bbc sui tentativi del Cremlino di influenzare le Legislative del 2017 saltò fuori un documento russo sul deputato Afd Markus Frohnmaier come «uno dei parlamentari che sarà sotto assoluto controllo». Secondo un’informativa di un’intelligence dell’Ue in mano all’emittente britannica, Frohnmaier avrebbe chiesto aiuto ai russi per la campagna del 2017 in cambio della fedeltà poi in politica estera. Sempre durante quella campagna tre esponenti della Afd sarebbero volati a Mosca con biglietti pagati dai russi. Effettivamente in questi mesi Afd sta facendo una campagna durissima contro le sanzioni, al punto che il cancelliere Scholz la ha definita «partito della Russia».
Insomma, ci sono sospetti di finanziamenti, e ci sono evidenze di appoggi. In Italia riguardano non solo la Lega ma anche i Cinque Stelle e Forza Italia. In passato anche Fratelli d’Italia, che però sembra avere ora cambiato linea in modo radicale. È possibile che le due cose siano state collegate? Tutti e tre i partiti del centrodestra sono stati in realtà tirati in ballo in una intervista dell’ex-ambasciatore Usa presso la Nato di Bush, Kurt Volker. «Le simpatie per la Russia della Lega e di Berlusconi erano note, ma ora il ritornello costante è che anche Fratelli d’Italia abbia ricevuto qualche aiuto», ha detto. «Sapevamo da anni che i russi spendono per influenzare le elezioni in tutto l’Occidente. Cercano di promuovere la divisione nelle nostre società e fra i nostri paesi. Questi 300 milioni non hanno fruttato molto, però hanno migliorato le prospettive di alcuni partiti, come quello di Le Pen in Francia e Fratelli d’Italia da voi».
Ovviamente, la cosa ha provocato minacce di querela e smentite, e si è detto addirittura che l’Italia tra i 24 Paesi non ci sarebbe. Lo stesso Volker ammette che non ha «prove dirette personali, ma è un ritornello costante che c’è stata qualche assistenza. Se guarda bene la loro linea politica, alcuni aspetti riflettono le posizioni russe».
Ma forse la cosa interessante è che pure secondo Volker «il Cremlino cerca di promuovere da anni la divisione nelle nostre società: l’uso più semplice dei fondi è coi social media». Era appunto anche la tesi di Shekhovtsov. «A volte i fondi vanno ai partiti in Europa, o anche ai singoli politici, con pagamenti diretti oppure affari conclusi da compagnie russe che beneficiano questi politici, creando in loro un interesse diretto ad aiutare Mosca», ha aggiunto Volker. Ma la sua domanda di Volker su come Fratelli d’Italia sia «cresciuta in maniera straordinaria nell’ultimo anno» e dunque «su quali sono le fonti dei loro finanziamenti, delle posizioni prese e dell’aumento della popolarità» trova però come prima risposta proprio il fatto che Fratelli d’Italia come unico grande partito di opposizione alla compagine di unità nazionale di Draghi ha raccolto un vento di protesta di cui è stata componente quell’agitazione No Vax che la «fabbrica dei troll» ha pompato.
Così come per far eleggere Trump aveva pompato la storia di «Hillary Clinon pedofila» o per favorire la Brexit aveva pompato fake anti-Ue.
DAGONEWS il 12 agosto 2022.
Steven Seagal è apparso sui media statali russi per difendere la sua visita nella prigione dove i prigionieri di guerra ucraini sono stati bruciati vivi il mese scorso.
L'ex attore, cittadino russo dal 2016, ha detto di essere andato a vedere le "prove" di quello che è successo, prima di ripetere a pappagallo la propaganda del Cremlino, ripetendo che la colpa dei morti era di Kiev.
Seagal, 70 anni, ha continuato a parlare di sé stesso come un "diplomatico" e ha detto che sta producendo un documentario "imparziale" sulla guerra in Ucraina nonostante professi il suo amore e la sua ammirazione per Vladimir Putin. La prigione di Olenivka, in un'area del Donbass occupata dalle forze filo-russe, è stata incendiata il 29 luglio con la morte di circa 50 prigionieri di guerra ucraini. Intervistato da Vladimir Solovyov, Seagal ha detto: «Posso dirtelo con la certezza del miliardo per cento, non era una bomba che poteva esplodere da terra».
Esperto di arti marzial, buddista, ha recitato in decine di film d'azione negli anni '90, ma la sua carriera è andata in pezzi quando è stato accusato da più co-protagoniste di violenza sessuale e di aver maltrattato diversi stuntman sul set.
Dopo una breve carriera in una band soul, ha iniziato a frequentare la Russia intorno al 2014 - l'ultima volta che Putin ha invaso l'Ucraina - definendo l'attacco "molto ragionevole".
Più o meno nello stesso periodo ha bollato Putin come "uno dei più grandi leader mondiali", per poi diventare cittadino russo due anni dopo.
Nel 2017 gli è stato vietato l'ingresso in Ucraina, considerato una "minaccia alla sicurezza nazionale" e nel 2018 è stato nominato dallo stesso Putin inviato speciale della Russia per migliorare i legami con gli Stati Uniti. Ora vuole fare un documentario “imparziale” sulla guerra.
Da rainews.it l'8 agosto 2022.
"Taiwan non è circondata dalla Cina, Taiwan è parte della Cina: è scritto in un trattato riconosciuto a livello internazionale sin dal 1948, prendilo e leggilo!", risponde piccato Roger Waters durante un'intervista esclusiva alla Cnn. Il breve video che riprende la leggenda del rock sottolineare le ragioni cinesi sulla questione Taiwan, viene molto commentato sui social.
Il cofondatore dei Pink Floyd attualmente impegnato nel suo tour ‘This Is Not A Drill’ aveva già scritto post su Twitter in merito alla guerra in Ucraina. Nell'intervista integrale rilasciata a Michael Smerconish della Cnn non esita a commentare anche la guerra in Ucraina e la posizione americana con chiari riferimenti alla linea intrapresa dal presidente Joe Biden. La conversazione si sposta poi sulla Cina e Taiwan.
Durante l’intervista, il conduttore ha messo in discussione gli elementi apertamente politici dello spettacolo di Waters, in particolare il momento in cui Waters mostra un montaggio di “War Criminals” con una foto di Joe Biden. “Beh, tanto per cominciare sta alimentando il fuoco in Ucraina“, ha risposto Waters. “È un crimine enorme. Perché gli Stati Uniti d’America non incoraggiano [Volodymyr] Zelensky a negoziare, evitando la necessità di questa orribile, orrenda guerra?”.
“Ma lei sta dando la colpa alla parte che è stata invasa“, ha risposto Smerconish. “Ha invertito le cose“.
“Beh, per qualsiasi guerra si può dire…quando è iniziata? Bisogna guardare alla storia e si può dire: ‘Beh, è iniziata in questo giorno’. Si può dire che è iniziata nel 2008… Questa guerra riguarda fondamentalmente l’azione e la reazione della NATO che si spinge fino al confine russo, cosa che aveva promesso di non fare quando Gorbaciov negoziò il ritiro dell’URSS dall’intera Europa orientale“.
“E il nostro ruolo di liberatori?“. Ha replicato Smerconish.
“Non abbiamo alcun ruolo di liberatori“, ha risposto Waters, poi i due hanno continuato a discutere della storia della Seconda guerra mondiale. “Ti suggerirei, Michael, di andare a leggere un po’ di più e poi cercare di capire cosa farebbero gli Stati Uniti se i cinesi mettessero missili con armamento nucleare in Messico e Canada…“.
“La prossima volta che senti i guerrafondai tintinnare e affilare le sciabole sull'Ucraina o da qualche parte, leggi questi "ricordi di famiglia della seconda guerra mondiale”, di questo tipo russo. "La vita è una cosa così semplice, ma crudele" di Vladimir Putin - Ricordi di famiglia della seconda guerra mondiale, ha scritto il chitarrista tra i più famosi della storia del rock su Twitter.
Dietro alla caduta del governo Draghi c’è la manona di Putin? È quello che si chiede anche il Financial Times, in un articolo di Amy Kazmin che analizza lo “spettro” delle interferenze russe sulle elezioni in Italia.
Scrive Kazmin: “Da quando il governo di Draghi è imploso il mese scorso, gli italiani hanno speculato sul fatto che Vladimir Putin abbia contribuito a preparare la cacciata del primo ministro come vendetta per la sua dura posizione sull'invasione dell'Ucraina da parte della Russia.
Il trio di politici che hanno staccato la spina a Draghi - l'anti-establishment Giuseppe Conte del Movimento Cinque Stelle, Matteo Salvini della Lega, di destra e lo stesso Berlusconi - sono noti per i loro rapporti storicamente amichevoli con Putin e il suo partito Russia Unita.
Sebbene gli analisti sostengano che tutti e tre i leader avessero motivazioni politiche interne convincenti per le loro decisioni, ciò non ha placato le speculazioni secondo cui Mosca avrebbe colluso con i membri scontenti della coalizione di Draghi per far cadere il primo ministro.
Nel suo ultimo discorso al Parlamento prima delle dimissioni, lo stesso Draghi ha avvertito che l'Italia deve "intensificare gli sforzi per combattere le interferenze della Russia e di altre autocrazie nella nostra politica, nella nostra società", anche se non ha fornito dettagli - né ha esplicitamente suggerito un complotto straniero contro di lui.
Eppure questa idea è ora al centro della retorica della campagna elettorale per le elezioni lampo di settembre. [...]
Conte era agitato da una recente scissione del partito e desideroso di rafforzare le sue credenziali da ribelle anti-establishment. Salvini e Berlusconi stavano tenendo d'occhio i sondaggi che li davano entrambi in perdita di consensi a vantaggio del sempre più popolare Fratelli d'Italia di estrema destra di Giorgia Meloni, ma anche in bilico per una vittoria elettorale decisiva se si fossero alleati con la Meloni.
Ma secondo gli analisti italiani, in mezzo ai calcoli di politica interna, incombevano anche fattori geopolitici.
"È un dato di fatto che Draghi sia stato fatto fuori dai tre partiti che hanno i legami più stretti con il Cremlino", sostiene Nathalie Tocci, direttore dell'Istituto Affari Internazionali di Roma. "È anche un fatto che Draghi non era esattamente amato dal Cremlino", ha aggiunto.
Dopo l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia, Draghi ha voltato le spalle ai legami tradizionalmente stretti dell'Italia con Mosca. È stato in prima linea nella dura risposta dell'UE al Cremlino, spingendo le sanzioni contro la banca centrale russa e sostenendo l'Ucraina come paese candidato a entrare nell'UE, una posizione che ha scontentato i membri del suo governo di unità nazionale.
"Politici importanti come Salvini e Berlusconi hanno chiaramente sentimenti di amicizia e legami con la Russia, soprattutto con la Russia di Putin", dice Stefano Stefanini, ex ambasciatore italiano alla Nato. "Il loro sostegno alla posizione italiana, europea e della NATO sull'Ucraina è stato, nel migliore dei casi, debole".
A maggio, Salvini aveva annunciato un suo "viaggio di pace" a Mosca organizzato dall'ambasciata russa a Roma, che aveva confermato di aver acquistato i biglietti aerei del politico. Il viaggio è stato annullato tra la rabbia dell'opinione pubblica e le proteste di altri membri del governo. Ma la scorsa settimana La Stampa, un importante quotidiano italiano, ha riportato che le discussioni della Lega con Mosca non si sono fermate lì.
In un articolo in prima pagina, La Stampa ha citato documenti di intelligence che sostengono che il diplomatico russo con sede a Roma Oleg Kostyukov abbia chiesto a maggio a un alto rappresentante della Lega se il partito avrebbe ritirato i ministri dal gabinetto di Draghi.
"Ciò che è strano è che a maggio nessuno - nessun osservatore - in Italia parlava della caduta del gabinetto Draghi - non così rapidamente almeno", ha dichiarato al Financial Times Jacopo Iacoboni, autore dell'articolo.
Iacoboni, autore di “Oligarchi. Come gli amici di Putin stanno comprando l'Italia”, ha aggiunto: "Non credo che i russi abbiano da soli il potere di far cadere Draghi, ma di sicuro hanno la capacità di amplificare, di seminare zizzania e di usare utili idioti".
Salvini ha liquidato il servizio de La Stampa come "fake news". Anche Mosca ha respinto la notizia. "Non è vero. La Russia non ha nulla a che fare con i processi di politica interna in Italia", ha dichiarato al Financial Times il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. Ma diversi partiti rivali italiani e analisti indipendenti hanno chiesto che si indaghi sulla questione.
Le probabilità di un'inchiesta sulle presunte interferenze russe sono scarse. Il comitato parlamentare italiano per la sicurezza nazionale è presieduto da un deputato di Fratelli d'Italia (Adolfo Urso) che ha già escluso un'indagine sulla Lega, che ora è un suo alleato elettorale.
"Penso che questo meriti un'indagine adeguata", ha detto Tocci. In che misura questi ministri sono stati incoraggiati dal Cremlino a votare contro il governo o a far dimettere i loro ministri...". È in corso una guerra contro l'Europa e c'è uno Stato nemico che cerca di intromettersi nel vostro processo democratico. Che abbiano successo o meno, dovreste essere preoccupati".
Da la7.it il 30 Agosto 2022.
PD. Elly Schlein: "Non è con le armi che si risolve il conflitto. Ho visto il protagonismo di Usa e Cina, vorrei vedere un ruolo più forte dell'Unione europea. Rapporti tra Lega e Putin? Sono preoccupata, anche delle interferenze nella campagna elettorale"
Estratto dall'articolo di Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 7 Settembre 2022.
"Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente". È interessante che questo giudizio non venga dall'amministrazione Biden, ma da un ex alto funzionario nella Casa Bianca di Donald Trump. Già analista della Cia, Julia Friedlander era stata consigliere per l'Europa nell'Office of Terrorism and Financial Intelligence del dipartimento al Tesoro, e dal 2017 al 2019 Director for European Union, Southern Europe, and Economic Affairs al Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Oggi è il ceo di Atlantik-Brücke, associazione non-profit al servizio dell'amicizia tra Germania e Usa, e da Berlino segue attentamente gli sviluppi geopolitici in Europa e le relazioni con Mosca.
Come giudica i rapporti fra i politici europei e la Russia?
"Ci sono due categorie. Quelli che vedono un beneficio per il loro Paese mantenendo buone relazioni con Mosca, e quelli che invece lo fanno per guadagni politici personali. Cioè sono pronti a dare alla Russia, in cambio di quello che è quasi certamente un supporto finanziario. Qui si va a Salvini, Orbán e altri.
Il problema è che non è facile tracciare questi collegamenti economici. Usano le shelf company, compagnie inattive che offrono donazioni alle campagne politiche, o lobbisti informali che spingono certi contratti, che riflettono gli interessi russi. Quindi è difficile provare che il Cremlino abbia staccato un assegno per Marine Le Pen, ma è interessante studiare connessioni e intermediari".
Salvini a quale categoria appartiene?
"Penso che abbia un interesse politico personale. Assolutamente".
Basandosi su cosa?
"Ci sono connessioni ideologiche, ma anche obiettivi economici".
Quali sono i meccanismi?
"Usano le shelf company, quelle che agiscono a nome degli interessi russi, gli oligarchi, o direttamente il Cremlino; oppure lavorano attraverso intermediari finanziari, o parti terze in Europa. Così sembra che ricevi una donazione da un Paese europeo, una corporation italiana che dà soldi, ma non è davvero italiana. Può essere un'azienda italiana, ma registrata da qualche parte in Europa. Ciò rende difficile capire che è il beneficiante e il beneficiato. Sono donazioni anonime o semi-anonime, non necessariamente perché sentono che il candidato non vuole si sappia da dove vengono i soldi, ma perché complicano il lavoro delle autorità per tracciarle".
Un'ipotesi è l'uso di compagnie agroalimentari che conducono affari formalmente legittimi, ma poi donano parte dei profitti.
"Certo, è credibile".
Ha sentito le registrazioni del braccio destro di Salvini per la Russia, Gianluca Savoini, all'Hotel Metropol di Mosca?
"Ho letto i rapporti. Forse parlavano di un side deal, un accordo sottobanco in cui usavano l'industria energetica come mezzo per riciclare soldi per la Lega, o Salvini stesso, ad esempio con falsi contratti. È un modo molto comune di riciclare i soldi, si chiama 'trade based money laundering'. Usi quello che sembra un contratto legittimo, con i soldi per i finanziamenti attaccati ad ogni tipo di attività economiche". [...]
Giorgia Meloni ha promesso che se sarà premier l'Italia non diventerà l'anello debole con Mosca. Riuscirà a mantenere l'impegno, se dipenderà dalla Lega per governare?
"Mi pare un modo, se vuole essere premier, di dimostrare che l'Italia non diventerà un pariah in Europa abbandonando le sanzioni, e presentarsi come un candidato di estrema destra accettabile".
È credibile, considerando ad esempio la sua alleanza con Orbán?
"L'Italia non è l'Ungheria. È nel G7, ha forti legami militari con Nato e Usa. La mia impressione è che anche se sarà soggetta alle pressioni dei partner, difficilmente seguirà l'Ungheria".
Perché Salvini è andato a Cernobbio con le slide contro le sanzioni? Idea sua, o ne ha parlato con i russi?
"Forse. Oppure voleva dire: ci ho provato. Mostrare che cerca di opporsi alle sanzioni, ma tutti gli fanno pressione, e deve cedere perché l'intera Ue lo stringe, e l'Italia ha bisogno dei soldi di Bruxelles. Serve ad avere una scusa, almeno ha baciato l'anello".
Perché i russi si aspettano che adempia?
"Certo, si aspettano che dai. Ma, se confronti i soldi e il supporto che l'Italia riceve dalla Ue, credo che quanto offre Mosca non sarà mai sufficiente".
Estratto dall'articolo di Fernando M. Magliaro per “Il Messaggero” il 7 Settembre 2022.
«Non temo il fascismo, temo il dilettantismo, il dare risposte semplicistiche a problemi complessi». Non usa la diplomazia Pier Ferdinando Casini intervenendo al convegno L'influenza del quadro internazionale sulle elezioni italiane organizzato nella prestigiosa sede della Fondazione don Luigi Sturzo a Roma. Insieme a Bruno Tabacci, Lucio D'Ubaldo, Claudio Mancini e Simona Colarizzi, Casini è stato molto netto: «Le forze politiche che chiedono oggi l'intervento di Draghi sulle bollette sono le stesse che hanno fatto cadere Draghi rendendo l'Italia debole ed ingovernabile in questa tempesta e sono gli stessi che guardano a Putin. Credo che la gente debba riflettere. È una cosa di irresponsabilità totale. A causa di questi atteggiamenti dilettanteschi rischiamo tra qualche mese di trovarci in una tempesta perfetta. A fronte di questo il Pd è l'unico argine».
Poi l'affondo secco contro il leader della Lega, Matteo Salvini: «Ogni volta che Salvini dice una cosa, il giorno dopo il Cremlino interviene per avallare. Il gioco è così grave che la Meloni non sa come districarsi perché il rischio vero non è solo per l'Italia ma anche per lei, che sia la vittima designata». […]
“Lega e M5S sono soci: hanno un asse segreto filo-Putin”, la rivelazione di Vincenzo Presutto. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Settembre 2022
Vuota il sacco il senatore Vincenzo Presutto, braccio destro di Luigi Di Maio e co-fondatore di Impegno Civico (di cui è capolista per il Senato in Campania). Vuole fare luce sul mistero di quella nottata politicamente buia, democraticamente scivolosa – quella tra il 27 e il 28 gennaio – quando la giostra impazzita dei nomi proiettò quello di Elisabetta Belloni sul Quirinale. «L’accordo sul capo del Dis sembrava fatto, fu proposto all’unisono da Matteo Salvini e Giuseppe Conte e fatto accettare prima a Giorgia Meloni e poi a Enrico Letta, sembrò fatta tanto che perfino Grillo twittò per metterci il cappello», ricostruisce. «Era una trappola per la tenuta delle istituzioni. Serviva a produrre un terremoto: far cadere il governo Draghi, andare alle urne subito e rimettere in discussione la posizione atlantica italiana». Una manovra organizzata in quell’asse mai scisso tra Lega e M5S che secondo il Senatore, che ha rappresentato il Movimento in commissione Bilancio a Palazzo Madama fino a quattro mesi fa, doveva scardinare la storia e gettare alle ortiche Draghi e Mattarella in un colpo solo.
Perché parla adesso?
Perché è tutto più chiaro, a bocce ferme. Nitido.
Il M5S e la Lega sono più uniti di quanto sembra, ci dice?
Salvini e Conte hanno stabilito un’intesa profonda proprio dagli albori della legislatura, che è iniziata con la fine della coalizione di centrodestra e l’accordo forte e inaspettato tra i due partiti.
I russi dietro la caduta di Draghi, l’incontro tra il diplomatico di Putin e l’uomo di Salvini: “I vostri ministri si dimettono?”
Inchiesta della Stampa su rapporti con Putin e terremoto giudiziario a Terracina: chi c’è dietro gli scandali di Lega e FdI
Come è emerso Conte in quel frangente?
Lo ha presentato Alfonso Bonafede, che l’aveva conosciuto a Firenze. Non ha mai convinto davvero Beppe Grillo, mentre con Salvini l’asse è stato subito forte. Tanto che Conte si presentò inizialmente dicendo di avere una posizione intermedia tra Lega e Movimento, di essere esattamente a metà tra i due, e per questo fu indicato come Premier”.
Di Maio lo ha voluto e appoggiato a lungo, in una prima fase.
Di Maio ha preso coscienza piuttosto presto che qualcosa non andava. Anche nella gestione della pandemia, con l’arrivo dei militari russi e le continue aperture di credito alla Cina, alla tecnologia cinese nelle istituzioni. Da ministro degli Esteri, Di Maio ha potuto verificare che certe scivolate su Europa e Nato di Conte e Salvini non erano dettate solo dal populismo come matrice ma come matrioska.
E così hanno ricostruito un’intesa non per Belloni al Colle ma per andare al voto in primavera, proprio all’inizio della guerra tra Mosca e Kiev.
Esattamente. Una intesa segreta che voleva usare il Quirinale come grimaldello per un Parlamento nuovo e dunque una maggioranza filorussa o comunque meno schiacciata su Nato e Usa.
Un momento, l’invasione dell’Ucraina avviene il 24 febbraio.
A volerle vedere, c’erano informazioni sulle intenzioni di Putin. C’era chi sapeva cosa stava per accadere. Anche la nostra intelligence – per quanto mi è stato detto – aveva contezza dei movimenti di truppe al confine, degli arruolamenti straordinari a Mosca, dei treni carichi di mezzi militari: tutti segnali che gli analisti avevano registrato e che da noi qualcuno voleva interpretare con una maggioranza dall’orientamento opposto a quello di Mario Draghi.
Poi alla fine ce l’hanno fatta, Draghi a casa e tutti al voto.
Mesi dopo, ma con lo stesso asse. Noncuranti dell’emergenza gas, del Pnrr, della legge di bilancio.
Il M5S era un’isola, nella politica italiana. Questo di Conte cos’è?
Il M5S non esiste più, in realtà. È stato annientato dalla gestione fallimentare di Conte, che adesso ne ha fatto un suo partitino personale. Con il suo arrivo è iniziato un processo di involuzione serio e strano. Caratterizzato dall’estirpare tutti i principi fondativi del Movimento, fino a richiedere il 2 per mille. Che sono comunque contributi pubblici, per chi non lo avesse capito.
E Impegno Civico, come lo definisce?
Una forza stabilizzatrice. Di centrosinistra moderato. Europeista, atlantista. Orgogliosa del lavoro fatto con il governo Draghi e impegnata per darvi continuità anche nel futuro, e per tenere l’Italia lontana da tentazioni pericolose.
È vero che Di Maio ha ricevuto input e garanzie istituzionali per fare l’operazione scissione?
Va chiesto a lui. Posso dire che nel governo erano informati per tempo e che auspice della scissione fu senz’altro Bruno Tabacci, che ha seguito l’iniziativa dal principio è sempre stato vicino a Draghi e a Mattarella.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
L’accordo Salvini-Mosca: i retroscena sulle posizioni della Lega in campagna elettorale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Settembre 2022.
Il quotidiano La Stampa svela l’accordo aveva durata quinquennale, quindi fino allo scorso marzo, ma alla scadenza si è rinnovato tacitamente per altri 5 anni, visto che nessuna delle due parti ha manifestato la volontà di recedere. Dunque, è tuttora in vigore.
Quello riprodotto qui sotto è il testo pubblicato oggi dal quotidiano La Stampa, dell’accordo politico sottoscritto dalla Lega di Matteo Salvini con Russia Unita, il partito del presidente russo Vladimir Putin: lo stesso accordo che sabato sera il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha indicato come una delle ragioni della contrarietà del leader leghista alle sanzioni contro il Cremlino. È stato siglato a Mosca il 6 marzo 2017, poco più di un anno prima che la Lega arrivasse al governo.
A firmarlo con Salvini è stato Sergei Zheleniak, vice segretario generale per le relazioni internazionali di Russia Unita. Il quale già all’epoca era sotto sanzioni da parte di Ue e Stati Uniti, per il suo ruolo nell’occupazione della Crimea nel 2014, come lo è ora per l’invasione dell’Ucraina. L’accordo aveva durata quinquennale, quindi fino allo scorso marzo, ma alla scadenza si è rinnovato tacitamente per altri 5 anni, visto che nessuna delle due parti ha manifestato la volontà di recedere. Dunque, è tuttora in vigore.
Salvini sulla piazza Rossa con la t-shirt di Putin Salvini con Gianluca Savoini sulla piazza Rossa
Il Contratto Lega-Russia Unita
Il partito politico nazionale russo “Russia Unita” rappresentato dal Vice Segretario Generale del Consiglio per le Relazioni Internazionali S.V. Zhelezniak che agisce a titolo dello Statuto del Partito e della deliberazione del Presidium del Consiglio Generale del Partito del 28 Novembre 2016 da una parte, e dall’altra parte il partito politico “Lega Nord”, nella persona di Presidente del partito Matteo Salvini di seguito denominate “Parti”
– basandosi su un partenariato paritario e confidenziale tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;
– esprimendo la volontà di facilitare l’espansione e l’approfondimento della cooperazione multilaterale e la collaborazione tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;
– tenendo conto che i rapporti tra i partiti sono una parte importante delle relazioni russo-italiane e sono finalizzate al loro pieno sviluppo;
– sulla base dei principi di sovranità statale, rispetto reciproco, non interferenza reciproca negli affari interni di ciascuno, partenariato paritario, affidabile e reciprocamente vantaggioso;
Hanno concordato quanto segue:
1 Le Parti si consulteranno e si scambieranno informazioni su temi di attualità della situazione nella Federazione Russa e nella Repubblica Italiana, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco.
2 Le Parti si scambieranno regolarmente delegazioni di partito a vari livelli, per organizzare riunioni di esperti, così come condurre altre attività bilaterali.
3 Le Parti promuovono attivamente le relazioni tra i partiti e i contatti a livello regionale.
4 Le Parti promuovono la creazione di relazioni tra i deputati della Duma di Stato dell’Assemblea Federale della Federazione Russa e l’organo legislativo della Repubblica Italiana, eletti dal partito politico nazionale russo “Russia Unita” e il partito politico “Lega Nord”, e anche organizzano lo scambio di esperienze in attività legislative.
Matteo Salvini e Vladimir Putin
5 Le Parti organizzeranno sotto gli auspici di seminari bilaterali e multilaterali, convegni, “tavole rotonde” sui temi più attuali delle relazioni russo-italiane, invitando una vasta gamma di professionisti e rappresentanti della società civile.
6 Le Parti promuovono attivamente lo sviluppo di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e la collaborazione di organizzazioni giovanili, femminili, culturali, umanitarie, ecc. al fine di rafforzare l’amicizia, la formazione giovanile nello spirito di patriottismo e di operosità.
7 Le Parti promuovono la cooperazione nei settori dell’economia, del commercio e degli investimenti tra i due Paesi.
8 Il presente accordo entra in vigore all’atto della firma dei rappresentanti autorizzati delle Parti e ha una validità di 5 anni. L’accordo è automaticamente prorogato per successivi periodi di cinque anni, a meno che una delle Parti notifichi all’altra Parte entro e non oltre 6 mesi prima della scadenza dell’accordo la sua intenzione alla cessazione dello stesso.
9 L’accordo è concluso a Mosca il 6 marzo 2017, ed è redatto in due copie, in due esemplari autentici, in lingua russa e italiana.
10 Il presente accordo non è legalmente vincolante ed è solo una manifestazione di interesse delle Parti nella interazione e cooperazione. Redazione CdG 1947
Da “La Stampa” il 5 settembre 2022.
Quello riprodotto qui sotto è il testo dell'accordo politico sottoscritto dalla Lega di Matteo Salvini con Russia Unita, il partito del presidente russo Vladimir Putin: lo stesso accordo che sabato sera il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha indicato come una delle ragioni della contrarietà del leader leghista alle sanzioni contro il Cremlino.
È stato siglato a Mosca il 6 marzo 2017, poco più di un anno prima che la Lega arrivasse al governo. A firmarlo con Salvini è stato Sergei Zheleniak, vice segretario generale per le relazioni internazionali di Russia Unita. Il quale già all'epoca era sotto sanzioni da parte di Ue e Stati Uniti, per il suo ruolo nell'occupazione della Crimea nel 2014, come lo è ora per l'invasione dell'Ucraina.
L'accordo aveva durata quinquennale, quindi fino allo scorso marzo, ma alla scadenza si è rinnovato tacitamente per altri 5 anni, visto che nessuna delle due parti ha manifestato la volontà di recedere. Dunque, è tuttora in vigore.
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Il partito politico nazionale russo "Russia Unita" rappresentato dal Vice Segretario Generale del Consiglio per le Relazioni Internazionali S.V. Zhelezniak che agisce a titolo dello Statuto del Partito e della deliberazione del Presidium del Consiglio Generale del Partito del 28 Novembre 2016 da una parte, e dall'altra parte il partito politico "Lega Nord", nella persona di Presidente del partito Matteo Salvini di seguito denominate "Parti" - basandosi su un partenariato paritario e confidenziale tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;
- esprimendo la volontà di facilitare l'espansione e l'approfondimento della cooperazione multilaterale e la collaborazione tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;
-tenendo conto che i rapporti tra i partiti sono una parte importante delle relazioni russo-italiane e sono finalizzate al loro pieno sviluppo;
- sulla base dei principi di sovranità statale, rispetto reciproco, non interferenza reciproca negli affari interni di ciascuno, partenariato paritario, affidabile e reciprocamente vantaggioso; Hanno concordato quanto segue:
1 Le Parti si consulteranno e si scambieranno informazioni su temi di attualità della situazione nella Federazione Russa e nella Repubblica Italiana, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco.
2 Le Parti si scambieranno regolarmente delegazioni di partito a vari livelli, per organizzare riunioni di esperti, così come condurre altre attività bilaterali.
3 Le Parti promuovono attivamente le relazioni tra i partiti e i contatti a livello regionale.
4 Le Parti promuovono la creazione di relazioni tra i deputati della Duma di Stato dell'Assemblea Federale della Federazione Russa e l'organo legislativo della Repubblica Italiana, eletti dal partito politico nazionale russo "Russia Unita" e il partito politico "Lega Nord", e anche organizzano lo scambio di esperienze in attività legislative.
5 Le Parti organizzeranno sotto gli auspici di seminari bilaterali e multilaterali, convegni, "tavole rotonde" sui temi più attuali delle relazioni russo-italiane, invitando una vasta gamma di professionisti e rappresentanti della società civile.
6 Le Parti promuovono attivamente lo sviluppo di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e la collaborazione di organizzazioni giovanili, femminili, culturali, umanitarie, ecc. al fine di rafforzare l'amicizia, la formazione giovanile nello spirito di patriottismo e di operosità.
7 Le Parti promuovono la cooperazione nei settori dell'economia, del commercio e degli investimenti tra i due Paesi.
8 Il presente accordo entra in vigore all'atto della firma dei rappresentanti autorizzati delle Parti e ha una validità di 5 anni. L'accordo è automaticamente prorogato per successivi periodi di cinque anni, a meno che una delle Parti notifichi all'altra Parte entro e non oltre 6 mesi prima della scadenza dell'accordo la sua intenzione alla cessazione dello stesso.
9 L'accordo è concluso a Mosca il 6 marzo 2017, ed è redatto in due copie, in due esemplari autentici, in lingua russa e italiana. l10Il presente accordo non è legalmente vincolante ed è solo una manifestazione di interesse delle Parti nella interazione e cooperazione.
Ora Salvini querela sulle "ombre russe". Pd e Di Maio insistono. Replica alle "insinuazioni" dell'ex Cia. Ma la sinistra vuole una commissione. Francesco Boezi l'8 Settembre 2022 su Il Giornale.
Matteo Salvini e la Lega continuano a non avere intenzione di far passare le accuse di filo-putinismo senza reagire: il Carroccio annuncia la difesa «in ogni sede opportuna contro le parole di Julia Friedlander e il quotidiano che le ha pubblicate». «Penso che Matteo Salvini abbia un interesse politico personale nel suo rapporto con la Russia. Assolutamente», ha detto l'ex analista Cia, attraverso un'intervista rilasciata a Repubblica. «Ci sono connessioni ideologiche, ma anche obiettivi economici», ha aggiunto la Friedlander, che si è occupata anche del Vecchio continente per la Casa Bianca ai tempi della gestione Trump.
La nota del partito guidato dall'ex ministro dell'Interno è incisiva: «Ennesime insinuazioni, zeppe di dubbi e condizionali, contro la Lega e Matteo Salvini che si difenderanno in ogni sede opportuna contro le parole di Julia Friedlander e il quotidiano che le ha pubblicate. A differenza del gruppo editoriale che per anni ha diffuso in allegato Russia Oggi - osservano da via Bellerio - , la Lega non ha ricevuto finanziamenti da Mosca».
La narrativa della sinistra è ormai monolitica: la ricerca di argomenti reali in grado di mettere in crisi la coalizione di centrodestra non è andata a buon fine. La narrativa impostata per provare a battere l'avversario, compresa questo topos delle «ombre russe», è fallimentare ma ormai bisogna seguirla. Tant'è che dal Pd insistono: «I rapporti tra Salvini e Putin sono pieni di ombre inquietanti. La sicurezza nazionale non è uno scherzo. Se sarò eletto ripresenterò subito, opportunamente aggiornato, il ddl 1587 a mia prima firma volto a istituire su questo tema una commissione bicamerale d'inchiesta», ha twittato il senatore Dem Dario Parrini, allegando proprio l'intervista dell'ex analista Cia al quotidiano diretto da Maurizio Molinari. In gergo si direbbe un tentativo di crocifissione, peraltro basata sul nulla.
L'eco alla richiesta della formazione di Enrico Letta proviene dalla fonte più scontata: Luigi Di Maio, che non è neppure certo di riconquistare un seggio in Parlamento. «Io chiedo l'istituzione di una commissione di inchiesta parlamentare che accerti legami tra partiti e russi. La Lega ha un accordo con Russia unita, il partito di Putin. Queste cose vanno accertate, nel nostro paese ci sono più ombre che luci», dichiara il ministro degli Esteri e leader del neo-partitino Impegno civico a Radio 24. La coalizione di centrosinistra parla all'unisono. E non potrebbe essere altrimenti, se non altro perché è lo stesso Letta a usare le medesime tonalità. «Le parole di Putin oggi confermano che le sanzioni sono la strada giusta e funzionano. Questo distrugge la retorica di Salvini che difende il suo amico Putin. Mi chiedo che interessi difenda Salvini, se quelli della Russia o dell'Europa» annota a Cagliari il segretario, durante una conferenza stampa. Per la replica il Carroccio schiera l'artiglieria pesante, ossia i tre ministri del governo d'unità nazionale: «Letta è troppo nervoso, si dia una calmata. Farebbe meglio a parlare di problemi concreti della gente e non di sceneggiature di fantasia. Le elezioni si vincono con le proprie idee e non sperando in qualche aiutino esterno», si legge in una nota firmata da Giancarlo Giorgetti, Erika Stefani e Massimo Garavaglia.
«Da lui, alleato in Europa di Schroeder, principale lobbista del Cremlino, non accettiamo alcuna lezione: il partito che in Ue più volte ha votato a favore di Mosca è il Pd, come certificato da studi indipendenti», chiosa Marco Zanni, europarlamentare e presidente del gruppo Id.
Estratto dall'articolo di Luciano Capone per “Il Foglio” l'8 settembre 2022.
Non è possibile stabilire se ci sia un coordinamento a livello europeo, ma di sicuro c’è una coincidenza. Negli ultimi giorni Matteo Salvini ha intensificato le sue critiche alle sanzioni occidentali contro il regime di Vladimir Putin: “Non stanno facendo male alla Russia, che sta guadagnando centinaia di migliaia di miliardi in più. Stanno facendo male a noi, per cui è evidente che ci sia qualcosa da ripensare”, ha dichiarato.
Le uscite del leader della Lega non sono un caso isolato, ma si inseriscono in un fenomeno europeo che si è intensificato praticamente in simultanea tra i partiti del gruppo europeo “Identità e Democrazia”, quello di cui fa parte la Lega. Il gruppo euroscettico di estrema destra, attualmente presieduto dal leghista Marco Zanni, è quello che storicamente in Europa ha manifestato più vicinanza alla Russia di Putin. […]
In simultanea. Pochi giorni prima che il leader della Lega partisse con le sue dichiarazioni a raffica contro le sanzioni, si era mossa in Germania Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra che esprime il vicepresidente del gruppo ID. Tino Chrupalla, il leader di AfD, ha invitato i membri del proprio partito a prendere parte alle manifestazioni antigovernative – la più importante si terrà l’8 ottobre a Berlino – per chiedere la rimozione delle sanzioni alla Russia (“Prima gli interessi tedeschi della guerra economica”) e l’apertura del gasdotto Nord Stream 2, che è stata sospesa a causa dell’invasione dell’Ucraina.
Proprio ieri, dal forum economico di Vladivostok, Putin ha dichiarato che “c’è solo un modo” per l’Europa per avere il gas: “In Germania ci sono manifestazioni che chiedono l’attivazione del Nord Stream 2. Siamo pronti a farlo domani, basta premere un pulsante. Ma non siamo stati noi a imporre le sanzioni a Nord Stream 2”.
Sulla stessa linea di pensiero c’è Marine Le Pen, l’altra grande leader della destra filorussa europea. Qualche settimana fa, in una conferenza stampa, la presidente del Rassemblement National ha detto che le sanzioni “sono un fallimento”, “fanno soffrire gli europei” e pertanto vanno tolte.
Gli alleati austriaci della Fpö, il partito che come la Lega aveva siglato un accordo con il partito di Putin, a fine agosto hanno chiesto un referendum contro le sanzioni: “Non hanno alcun effetto sulla guerra, ma stanno alimentando l’inflazione e danneggiano l’economia nazionale”.
Il 3 settembre, a Praga c’è stata un’importante manifestazione contro le sanzioni alla Russia a piazza San Venceslao, la stessa invasa dai carri armati sovietici nel 1968, organizzata dal partito di estrema destra Spd, alleato della Lega in Europa, contro il governo di Petr Fiala, che a Bruxelles è alleato di Giorgia Meloni. […]
Ma in questo scenario l’Italia è un’anomalia. Perché se nel resto d’Europa i partiti della destra filorussa sono ovunque all’opposizione, la Lega di Salvini è l’unico che molto probabilmente andrà al governo. Il posizionamento rispetto alla Russia è diventato una discriminante in Europa, ed è anche ciò che divide, da un lato, la destra conservatrice guidata da Meloni e dai polacchi del Pis, e dall’altro la destra filorussa di Salvini e Le Pen. Per l’Italia avere al governo un partito che sostiene l’agenda Putin sarebbe un problema di credibilità internazionale, e quindi di interesse nazionale.
Estratto dell'articolo di Valerio Valentini per “Il Foglio” l'8 settembre 2022.
(...) “Lascio la Lega dopo trenta anni”. Raffaele Volpi. Fuori dal Carroccio. Si stenta a crederlo. “Lo faccio ora perché nell’esaurirsi dell’impegno parlamentare finisce il vincolo più sacro della democrazia ovvero quello con gli elettori che mi hanno votato. E ancora lo faccio ora perché voglio togliere qualsiasi equivoco su mie eventuali aspettative derivanti dal voto del 25 settembre”.
Leghista di lunghissimo corso, ma di estrazione democristiana. E’ stato sottosegretario alla Difesa nel Conte I, quello di marca gialloverde: il primo leghista nella storia a varcare coi galloni di uomo di governo Palazzo Baracchini. Poi presidente del Copasir nel Conte II. “In entrambi i miei incarichi ho cercato di dare autorevolezza e credibilità alle istituzioni che rappresentavo e sempre nell’interesse dell’Italia. Da presidente ho guidato il Copasir in uno dei momenti più bui della nostra storia, quello della pandemia, portando il Comitato a essere centrale tra i presìdi democratici del paese”.
Una stagione, quella dei lockdown, che Volpi ha trascorso con un certo disagio, nel suo partito. “Da bresciano ho vissuto il Covid nel suo epicentro perdendo anche alcuni amici. Ho sostenuto i provvedimenti difficili e a volte impopolari ma che ho ritenuto utili per arginare il virus. Proprio in quel frangente non ho potuto apprezzare le posizioni, a volte opache, del mio partito, che non ha mai voluto arginare alcune voci interne, minoritarie ma rumorose, che ammiccavano a No vax e negazionisti fino al punto di partecipare alle loro manifestazioni”. Poi il precipizio della guerra in Ucraina, il suo sforzo nel cercare di tenere dritta la barra del Carroccio sul terreno della geopolitica. Anche qui con molta fatica, anche qui con la sensazione che tutto fosse un po’ inutile.
“Dall’osservatorio privilegiato del Copasir ho cercato di trasferire ai vertici del partito, sempre nel perimetro del lecito, valutazioni di scenario, dalla Libia al Mediterraneo, dai rapporti con gli alleati alla guerra in Ucraina, fornendo elementi per analisi di geopolitica. Purtroppo nelle poche brevi occasioni in cui ho potuto avanzare le mie tesi, sempre con spirito di servizio, ho percepito solo un distaccato disinteresse”. Che poi forse sta qui, l’elemento politico più rilevante, alla base delle scelte di Salvini.
Al di là delle riconoscenze tradite, delle promesse non rispettate, degli sgarbi che sempre s’accompagnano alla definizione delle liste elettorali, è difficile non notare come dagli elenchi delle candidature della Lega siano stati sacrificati molti degli atlantisti del partito. Quelli, per capirci, che le dichiarazioni di stima a Putin, o i viaggi a Mosca con Antonio Capuano e Sergej Razov, non li hanno mai graditi. “Io non posso che confermare la mia convinta visione atlantista. Una visione che non si limita, come pensa qualcuno, all’acronimo Nato, ma investe una ampia condivisione di valori che sono l’essenza stessa dello spirito dell’occidente e che non possono essere negoziabili. Sulla feroce aggressione della Russia all’Ucraina non ho quindi potuto apprezzare certe ambiguità e certi distinguo, a partire da quelli sugli aiuti militari da inviare a Kyiv. Tentennamenti incomprensibili, essendo convinto che lì vi sia una frontiera di valori, di libertà e di legalità che vada difesa”.
Inutile chiedere un giudizio, allora, sulla decisione di sfiduciare Draghi da parte di Salvini. “Ho sostenuto l’ingresso della Lega nel governo Draghi convinto che oltre a essere una necessità per l’Italia fosse anche una occasione per dimostrare che il partito avesse raggiunto una spendibile autorevolezza nazionale ed internazionale. Ma mai mi sarei immaginato che fin da subito si sarebbe palesato, in modo più o meno evidente, un atteggiamento dicotomico tra segreteria e delegazione al governo: sino al punto di non pubblicizzare quasi le attività e i corposi provvedimenti varati dai nostri ministri..." (...)
Stefano Iannaccone per tpi.it l'8 settembre 2022.
L’Enit parla ancora russo. L’agenzia nazionale del turismo, che agisce sotto l’egida del Ministero del leghista Massimo Garavaglia, continua a pagare in rubli, perché non potrebbe essere altrimenti: la sede di Mosca risulta tuttora aperta. Nel secondo trimestre 2022 risultano varie operazioni economiche, portate ovviamente a termine con la moneta russa.
In particolare ci sono tre diversi pagamenti effettuati alla GlavUpDK pri MID Rossii, sigla di una società di proprietà statale che gestisce, con il controllo del ministero degli Esteri, le proprietà pubbliche. Secondo quanto riferisce il sito ufficiale, nel dettaglio fornisce «una serie di servizi molto ricercati alla comunità diplomatica, ai clienti aziendali e privati».
Il primo bonifico di 94.500 rubli è datato 22 aprile, il secondo è del 17 maggio e ammonta invece a 123.480 rubli, mentre a giugno il saldo è stato di 82.320 rubli. Il totale della spesa, alla voce «servizi generali» è di 300mila rubli.
Inevitabilmente poi, proseguono i pagamenti dei canoni per la società che fornisce il servizio di telecomunicazione, la moscovita Pao Mts, che da marzo a giugno sono stati di oltre 60mila euro. L’Enit, interpellata da TPI, spiega che «nel secondo trimestre non sono stati effettuati pagamenti dall’Italia in Russia» in quanto «la sede ha funzionato con i residui dall’inizio dell’anno».
E sulla decisione di non chiudere la struttura a Mosca, l’agenzia ribadisce che «l’area di competenza di Enit Mosca comprende 15 Paesi dell’area post-sovietica tra cui l’Azerbaijan, l’Armenia, la Georgia, l’Uzbekistan, il Kazakistan e Paesi Baltici». Quindi a Mosca ci si occupa di altro. E si va avanti così, anche perché lo stesso fanno gli altri Paesi competitor. Mal comune, mezzo gaudio.
Il ventre molle. Vittorio Macioce su Il Giornale il 7 settembre 2022.
La realtà è che Putin non sta vincendo questa guerra senza senso. Nulla è andato come davvero sperava. L'Ucraina doveva essere il suo capolavoro strategico, una mossa intravista dietro le debolezze dell'impero americano, spaccato dalla variabile Trump e dall'incapacità di non riconoscersi più come uno, pure nelle sue mille diversità. È da lì che un po' viene l'azzardo di Mosca, solo che adesso non solo la Russia ha un presente di miseria, ma ogni giorno che passa perde pezzi del suo futuro, perché le sanzioni qualcosa hanno fatto. La Russia è fuori dal mondo e deve raccattare la carità cinese. È un prezzo più alto di quanto si pensi. È chiaro che la discussione pubblica guarda invece ai costi occidentali della guerra. La controffensiva di Putin ha incrementato l'inflazione in Europa e ci pone davanti a una crisi energetica che evoca l'austerità del 1973. Da lì però l'Italia è riemersa, la grande Russia invece rischia un inverno molto più lungo. Le difficoltà di Putin non si vedono solo sul campo militare ed economico. Si leggono anche nella smania, ormai smaccata, della propaganda spicciola per destabilizzare le odiate democrazie europee. Putin è convinto che in questo momento il ventre molle sia l'Italia. È lì che vede il fronte politico e sociale più instabile. Le parole via Telegram di Maria Zakharova, portavoce del ministero degli Esteri, assomigliano al lancio di biglietti aerei sulle città alla fine delle due grandi guerre mondiali. Il tema come sempre è quello del complotto. «Quando la laboriosa economia italiana crollerà, gli yankees la compreranno a buon mercato». Vi state sacrificando per nulla. È un pensiero che punta alle viscere e serve a creare paura e sospetti. Ora l'Italia sembra il terreno adatto per questo genere di cose. Siamo un Paese che deve comprare energia e siamo nel pieno di una campagna elettorale dove già si evoca la paura di una sorta di apocalisse ideologica. La propaganda spicciola è merce di tutti i giorni. Non è difficile spacciarne altra. Di chi è la colpa di un inverno a bassa energia? La Russia può giocare su un sentimento anti americano che ha radici profonde e su chi da anni predica contro il capitalismo e sogna un passo indietro: l'etica della decrescita. È un sentimento che si respira nella sinistra nostalgica, in una certa destra e che per anni è stato la bandiera del grillismo. Non è un caso che Giuseppe Conte, che in realtà non viene da questa cultura, negli ultimi tempi stia cercando di incarnarla, mettendoci di suo una spolverata di vecchio assistenzialismo. Trump, che sta giocando una partita tutta sua, lo indica da lontano come un punto di riferimento. Putin lo vede come una speranza. Conte, peraltro, si affretta a smarcarsi: se fossi capo del governo chiederei sanzioni più pesanti. Putin, però, non si aspetta una risposta strettamente politica, ma sociale e di piazza. Quello che invece non sa è che Conte ha molte facce, sa come promuoverle, ma di certo non è, al di là delle sue stesse parole, un avvocato del popolo.
I finti atlantisti rossi anti Nato. Dal dopoguerra in avanti la politica estera è stata uno dei temi principali delle campagne elettorali italiane. Francesco Giubilei il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.
Dal dopoguerra in avanti la politica estera è stata uno dei temi principali delle campagne elettorali italiane. Già dalle elezioni del 48, la Democrazia Cristiana sottolineava il pericolo di votare per il Partito Comunista per i suoi legami con l'Unione Sovietica («nella cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no»). Un argomento che ha tenuto banco fino alla caduta del muro di Berlino contrapponendo le forze politiche garanti del collocamento occidentale e atlantista dell'Italia a chi invece non solo intratteneva rapporti con l'Urss ma riceveva finanziamenti. Anche in questa campagna elettorale la politica estera, complice il conflitto in Ucraina, è entrata a pieno titolo nel dibattito, non tanto per parlare di proposte e idee utili al ruolo internazionale dell'Italia, quanto per avanzare critiche ai propri avversari. Una tendenza iniziata, ca va sans dire, dalla sinistra che si è fatta promotrice di una serie di virulenti attacchi nei confronti del centrodestra (peraltro senza risparmiare nessuno dei partiti, da Forza Italia alla Lega passando per Fratelli d'Italia) colpevole di essere filo russo, putinista, nemico dell'Europa.
A ciò si aggiunge il mantra del centrodestra isolato in Europa e a livello internazionale nato da un equivoco di fondo: per la sinistra italiana essere attaccati da giornali e leader internazionali progressisti equivale a non avere relazioni e rapporti europei e occidentali.
La realtà è ben diversa e, a giudicare dai partiti che compongono le coalizioni, chi può garantire una maggiore affidabilità internazionale dell'Italia è proprio la destra, non solo a parole ma anche a fatti a partire dai voti parlamentari e dal posizionamento atlantista avuto durante gli ultimi governi di centrodestra.
Al contrario, il Pd si è alleato con Sinistra italiana e Fratoianni che, proprio pochi giorni fa, ha votato contro l'adesione di Svezia e Finlandia alla NATO. Come si concilia questa posizione con la tanto sbandierata agenda Draghi è un mistero ma lo stesso si può dire sui temi economici, energetici e sociali della sinistra radicale del no a tutto.
Non vanno meglio le cose in casa Movimento Cinque Stelle la cui linea in politica estera garantisce tutt'altro che affidabilità, non a caso fu Giuseppe Conte a firmare il memorandum d'intesa sulla via della seta con la Cina durante il suo governo. Il pericolo di uno sbandamento filo-cinese dell'Italia sembra per il momento scongiurato ma non sono ancora ben chiari i rapporti tra molti esponenti di spicco della sinistra e il governo di Xi Jinping.
Invece di puntare il dito contro i propri avversari, bisognerebbe parlare di temi concreti e su questo dovrebbe concentrarsi il centrodestra realizzando un programma basato sul perseguimento dell'interesse nazionale e su tre aree d'azione prioritarie: Mediterraneo, Balcani e Nord Africa. Un programma da portare avanti avendo ben chiaro il nostro collocamento internazionale: in Europa e Occidente.
Se ne andranno in Russia i «putinetti» d’Italia? Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 6 Agosto 2022.
L’invito diffuso dall’ambasciata di Mosca in Spagna è in rete. Magnifica donne, cibo e economia del Paese, ma è poco probabile che convinca qualcuno a trasferirsi
Uno scorcio di Mosca
Mio nonno Paolo e mio zio Mauro — entrambi medici condotti — erano rilegatori compulsivi ed ecumenici. Per cinquant’anni, prima l’uno e poi l’altro, hanno conservato riviste e rotocalchi, senza preclusioni sociali o politiche. «Il Borghese» e «Oggi», «Panorama» e «Grazia», «Vie d’Italia» e «Il Tempo», «La Domenica del Corriere» e «La Difesa della Razza». C’è anche la rivista «Unione Sovietica», tra tutte la più recente.
Sfogliare oggi «Unione Sovietica» — «Pubblicata in 22 lingue!», informa lo strillo in copertina — fa tenerezza. Annate 1989 e 1990: l’ultimo, disperato tentativo dell’Urss di dare un senso alla propria esistenza. C’è lo sforzo, quasi commovente, di dipingere i successi di un regime in liquidazione. Nel 1991 ho vissuto a Mosca, e ho assistito al gran finale. Le bandiere rosse venivano vendute in saldo, e i ragazzi ci facevano i jeans.
Per quale motivo sono andato a riprendere la raccolta «Unione Sovietica», che riposava dentro la sua rilegatura scarlatta? Perché mi sono imbattuto nello spot diffuso dall’ambasciata russa in Spagna, nel quale s’invitano gli europei a trasferirsi in Russia. Il video fa tenerezza: come quella rivista di trent’anni fa.
Forse qualcuno di voi l’ha intercettato in rete. Una voce maschile fuori campo esclama, in inglese: «Cucina deliziosa! Donne meravigliose! Gas a buon mercato! Letteratura di livello mondiale! Balletto! Suolo fertile! Acqua ed elettricità in abbondanza! Taxi e consegne a basso costo! Valori tradizionali, cristianità, no cancel culture! Vodka! Un’economia in grado di sopportare migliaia di sanzioni! È tempo di trasferirsi in Russia. Non aspettate, l’inverno sta arrivando».
La Russia, in effetti, è affascinante. E i propagandisti hanno tralasciato altre eccellenze (la metropolitana di Mosca, i cetrioli in salamoia, il gelato alla crema, i treni della notte). Ma possiamo dirlo? Ascoltando lo spot di regime vengono in mente slogan alternativi, più realistici: «Una guerra in corso! Inflazione e recessione! Censura ubiqua! Oppositori arrestati o soppressi! Religione al servizio del potere! Alcolismo diffuso, la più bassa aspettativa di vita in Europa! Corruzione endemica! Arricchimenti strabilianti dei leader!».
Comunque: lo spot è in rete, l’invito in Russia è aperto. Lo accetteranno i putinetti d’Italia, quelli che hanno aggiunto la bandierina russa sul profilo social e applaudono lo stupro dell’Ucraina? Sarebbe coerente, ma non accadrà. Resteranno qui. Continueranno a scrivere stupidaggini e crudeltà dalle loro pensioni sul mare, mentre digeriscono gli spaghetti con le vongole.
L'Orso incontra il Dragone: alle radici dell'amicizia tra Cina e Russia. Andrea Muratore il 24 Luglio 2022 su Il Giornale.
Federico Giuliani ed Emanuel Pietrobon nel saggio L'Orso e il Dragone (La Vela, 2022) parlano delle prospettive e delle radici storiche dell'amicizia politica tra Cina e Russia. Ma anche di ciò che può minarne l'incedere
Quella tra Cina e Russia è una partnership strategica a tutto campo, una "non-alleanza" tra due importanti attori che stanno trovando però in un'amiciza politica consolidata una via per cooperare attivamente nell'ordine del mondo globalizzato. Anche dopo l'invasione russa dell'Ucraina la Cina, pur non prendendo apertamente posizione contro Kiev, non si è unita al coro di chi accusava la Federazione Russa di crimini o gravi errori geopolitici, limitandosi a perorare la causa del dialogo e a farsi portavoce dell'idea secondo cui nulla nei rapporti con Mosca sarebbe mutato.
Il rapporto tra Cina e Russia si è scongelato, dopo i decenni di tensioni dell'era della Guerra Fredda tra le due grandi potenze comuniste, tra il 1989 e il 1991. Erano gli anni di Buonanotte, Signor Lenin, delle prime crociere congiunte sull'Amur narrate da Tiziano Terzani, del ritorno di fiamma del "Grande Gioco" centroasiatico. Erano gli anni, soprattutto, in cui i demiurghi americani del Project for a New American Century in campo repubblicano e gli economisti democratici figli di BlackRock e Goldman Sachs costruivano da presupposti diversi il mito del mondo unipolare, della globalizzazione plasmata intrinsecamente attorno a Washington. In trent'anni la crisi di rigetto ha iniziato a plasmare il nuovo rapporto sino-cinese. Di cui scrivono, con grande competenza, Federico Giuliani ed Emanuel Pietrobon nel saggio L'Orso e il Dragone (La Vela, 2022).
Quello di Giuliani e Pietrobon, arricchito dalla prefazione dell'analista geopolitico Salvatore Santangelo e dalla postfazione del direttore di Vision and Global Trends Tiberio Graziani, è un libro coraggioso per un'ampia serie di motivi. In primo luogo, perché frutto del lavoro complementare di due analisti con focus differenti: Pietrobon è esperto principalmente di spazio post-sovietico, mentre Giuliani ha un'attenzione primaria alla Cina. In secondo luogo, perché legge il rapporto sino-russo in termini pragmatici e senza filtri. In altre parole, sfatando sia gli allarmisti che pensano a un asse sino-russo in grado di trasformarsi in alleanza militare capace di minacciare l'Occidente che i fan della "Nuova Eurasia" desiderosi di cercare nella partnership sino-russa il seme di un nuovo Sol dell'Avvenire. Infine, perché offrono un primo tentativo di sistematizzare il rapporto sino-russo nel quadro del grande caos generale, segnato da transizione multipolare e Guerra Fredda 2.0, del mondo della globalizzazione.
Ed è alla luce della globalizzazione che Giuliani e Pietrobon leggono il rapporto sino-russo, accelerato a partire dal 1999, definito "anno del destino": l'anno in cui la globalizzazione si mostrò come processo di matrice economica, geopolitica e militare statunitense con i bombardamenti della Jugoslavia, che colpirono al cuore il territorio della Serbia storicamente legata alla Russia e furono caratterizzati anche dall'ambiguo caso della distruzione dell'ambasciata cinese di Belgrado. Il meccanismo di azione-reazione partì lì e si dipanò mano a mano che le basi dell'ordine globale venivano meno: le Guerre al Terrore portarono all'esaltazione della valenza geopolitica dell'Asia Centrale, cuore comune degli interessi geopolitici dei due Paesi; la crisi finanziaria del 2007-2008 ha visto la Russia resistere anche in virtù del rapporto con una Cina rampante; dal 2014 in avanti, inoltre, energia, accordi tecnologici e commerci hanno plasmato il rapporto Mosca-Pechino nel quadro di un costante deterioramento delle relazioni con l'Occidente.
Russia e Cina plasmano un rapporto che cambia l'Eurasia perchè capace di governare le sue numerose contraddizioni: è presentato come paritario pur presentandosi come frutto dell'intesa tra una nazione rampante come la Cina e un impero in declino come la Russia; si dà una sostanza di organizzazione internazionale (come ad esempio l'Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai) pur essendo un patto di interessi bilaterale; dribbla le aree di comune confronto, ad esempio in aree come il Kazakistan, presentando progetti di cooperazione e sviluppo come volano della crescita delle relazioni; si presenta come intesa costruttiva pur essendo, in fin dei conti, nata sulla scia del timore comune per l'egemonia americana. In nuce, l'asse russo-cinese è il perno di una transizione multipolare molto contrastata e che da tempo prende piede ma che in diversi contesti regionali sta vedendo muoversi verso una crescente assertività attori come India, Turchia, Iran, Etiopia, Nigeria.
"Quella tra Cina e Russia", scrivono gli autori, "non è un'alleanza: è un'intesa". Risulta "l'equivalente contemporaneo dell'intesa amichevole franco-britannica in chiave antitedesca di inizo Novecento". Xi Jinping e Vladimir Putin hanno portato alla massima tensione questo rapporto superando "incomprensioni, diffidenza e paure ancestrali" che non possono che riemergere quando si toccano gli scenari di confine. La "paura gialla" russa, il timore di uno straripamento demografico dei cinesi della Manciuria nella semispopolata Siberia, si somma alla percepita minaccia di una trasformazione in satellite economico e, dunque, geopolitico.
La Cina, al contempo, teme che l'aggressività e il realismo offensivo di Mosca possano indirettamente sabotare i suoi piani di sviluppo attraverso il commercio, minare le Nuove Vie della Seta, financo compattare una "Nato mondiale" alle sue porte di casa. Vi è poi, in sostanza, il fattore umano: Xi Jinping e Putin hanno portato all'estremo il loro rapporto, rinverdendo la relazione diplomatica tra i due Paesi grazie a una totale intesa personale, ma non è detto che chi gli succederà farà altrettanto. E il grande paradosso è questo: il rapporto tra due Stati-civiltà è oggi più che mai appeso all'intesa tra due uomini. Forse rappresenta questo lo scoglio più importante, come Pietrobon e Giuliani fanno notare. Ma solo la storia saprà dire se quello percorso dall'Orso e il Dragone è destinato a essere un tratto di strada comune per due potenze di grande peso o l'iniizio di una lunga marcia capace di accelerare la transizione verso un sistema multipolare.
L’ombra di Henry Kissinger e la natura dell'intesa Russia-Cina. Federico Giuliani e Emanuel Pietrobon il 24 Luglio 2022 su Il Giornale.
Per gentile concessione dell'editore La Vela pubblichiamo un estratto del libro "L'orso e il Dragone. Russia e Cina, un'intesa per cambiare il mondo" di Federico Giuliani ed Emanuel Pietrobon
Quella tra Russia e Cina non è un’alleanza: è un’intesa. È l’equivalente contemporaneo dell’Intesa amichevole franco-britannica in chiave antitedesca di inizio Novecento. La storia insegna che poche alleanze durano all’erosione del tempo, ai machiavelli mefistofelici dell’Uomo, e che facilmente si sfaldano dopo che l’obiettivo fondativo è stato raggiunto. Se Mosca e Pechino riusciranno a essere l’eccezione alla regola, diventando i configuratori di una relazione speciale inossidabile simile a quella angloamericana, potrà stabilirlo soltanto la storia.
Il futuro cela un numero di insidie finanche maggiore a quelle del presente, e le prospettive di vita dell’Intesa sino-russa sono complicate dallo spettro sempreverde di Henry Kissinger, lo Stratega del xx secolo e l’autore di quella celebre “diplomazia triangolare” che permise agli Stati Uniti di vincere la guerra fredda mettendo sovietici e cinesi gli uni contro gli altri. Se Russia e Cina vogliono che il loro asse non imploda su se stesso, dovranno lavorare ai limiti e alle debolezze che ne rendono fragile la base e tenere in considerazione la plausibilità di nuovi tranelli kissingeriani da parte americana. Perché, come affermava il genio della diplomazia Henry Palmerstone, nessun equilibrio è realmente eterno: solo l’interesse nazionale lo è. E l’interesse nazionale degli Stati Uniti, eredi dell’Impero britannico, è il boicottaggio degli assi strategici tra le grandi potenze tellurocratiche dell’Eurasia al fine dell’egemonia sulla stessa.
L’esigenza cinese
La Cina non può fare a meno dell’Occidente. È grazie al commercio con il mondo occidentale che Pechino è diventato il gigante asiatico che conosciamo oggi. Pur senza democratizzarsi, come invece pensavano erroneamente i leader statunitensi ed europei, il Dragone ha sfruttato al massimo il contatto con Stati Uniti ed Unione europea. In un certo senso, possiamo affermare che la Cina ha mantenuto intatto il proprio hardware, modernizzandolo anno dopo anno in base alle esigenze del momento, adottando il software occidentale. Fuori di metafora, il Partito Comunista cinese non ha concesso quelle improbabili aperture che, secondo una credenza diffusa nell’opinione pubblica dei primi anni Duemila, avrebbero gradualmente trasformato la Repubblica Popolare in una democrazia. L’hardware, ovvero il sistema valoriale-politico, è rimasto sempre lo stesso: ovvero quel “socialismo con caratteristiche cinesi” piantato da Mao Tse-Tung, coltivato da Deng Xiaoping, perfezionato dai vari Jiang Zemin e Hu Jintao, e reso un pilastro assoluto da Xi Jinping. A cambiare, semmai, è stato il software. Pechino ha preso confidenza con certi concetti occidentali quali capitalismo e libero mercato, finanza ed economia globalizzata, Borsa e multinazionali, e in pochi decenni ha superato il “maestro” senza tuttavia snaturarsi più di tanto. In tutto questo, Pechino offre al mondo un modello ben diverso rispetto a quello incarnato dagli Stati Uniti, ma allo stesso tempo non ha alcuna intenzione di muovere guerre contro chicchessia. Al contrario, il governo cinese ha tutto l’interesse di non chiudere la porta (economica ma non solo) a una buona parte dell’Occidente, Europa in primis. È in un contesto del genere che prende forma la “triangolazione necessaria” tra Cina, Russia e Occidente. Pechino è l’ago della bilancia.
Imparare dal passato: dove sbagliarono i russi
Nikita Krusciov, successore di Josif Stalin, si fece promotore di un nuovo corso politico, incardinato sulla dottrina della “coesistenza pacifica” e avente come meta la “destalinizzazione”, sin dall’assunzione del comando. La linea Krusciov era pragmatica, in quanto mirante al recupero dei rapporti con la Iugoslavia e alla costruzione di un rapporto basato sulla prevedibilità con gli Stati Uniti: per questo si sarebbe scontrata con gli ultramontanisti dello stalinismo, capitanati dalla Repubblica Popolare Cinese, che accusavano il Cremlino di “revisionismo”. Mao Tse-Tung credeva che l’apertura agli Stati Uniti di Krusciov avrebbe inevitabilmente comportato un raffreddamento delle relazioni sino-sovietiche e, per di più, aveva accolto con un certo disagio la brutale soppressione dei moti ungheresi del 1956, intravedendo in quell’intervento la possibilità di future interferenze sovietiche in aree di interesse comune, perché sotto influenza comunista, ma magari localizzate in Asia orientale. Il fragoroso silenzio sovietico durante la crisi di Taiwan del 1958, poi, deteriorò ulteriormente le relazioni tra le due potenze-guida del mondo comunista. Mao e Krusciov non riuscivano a comprendersi, perché l’uno ideologizzato e impulsivo e l’altro pragmatico e, per certi versi, ambiguo. Questa incompatibilità caratteriale fu il principale motivo alla base della rottura sino-sovietica. Kissinger non creò nulla: si limitò ad alimentare le incomprensioni esistenti, trasformando una palla di neve in una valanga. Il Cremlino, inoltre, ebbe alcuni atteggiamenti ambigui in alcuni fascicoli, dall’immobilismo a Taiwan al presunto appoggio ai moti antigovernativi in Tibet, che giocarono un ruolo-chiave nell’incoraggiare Mao a “rompere”. La Cina, Mao ne era convinto, sarebbe stata sacrificata da Krusciov se si fosse presentata l’occasione al tavolo dei negoziati con gli Stati Uniti. Trattare con Kissinger, alla luce del crescendo di conflitti con l’Unione Sovietica – sfociati brevemente in guerra nel 1969 –, fu visto come essenziale nell’ottica di prevenire un tradimento ritenuto alle porte.
Non è tutto oro quello che luccica
Incomprensioni, diffidenza e paure ancestrali. I limiti dell’Intesa cordiale di oggi sono gli stessi di ieri, quelli, cioè, che causarono la lenta deflagrazione dell’Amicizia sino-sovietica. È vero che Xi e Putin sono due pragmatici, che tra l’altro hanno saputo sviluppare un ottimo e intenso rapporto extralavorativo, ma il dilemma dell’incomprensione non riguarda loro. Riguarda chi li succederà. I due capi di stato stanno commettendo l’errore tipico dei monarchi illuminati, quello di non pensare alla trasmissione del potere, all’istituzionalizzazione del carisma, e questo peserà tanto sulle dinamiche domestiche dei loro paesi quanto sulle loro relazioni con il mondo. Non è detto, in breve, che gli eredi di Putin e Xi saranno all’altezza dei predecessori, così come non è detto che vorranno seguire le loro orme. La storia insegna che tutto è possibile, che l’amico di oggi è il nemico di domani, e Russia e Cina non sono l’eccezione a questa regola.
La diffidenza è tipica delle grandi potenze, che non conoscono il significato della parola “alleanza” ma sono alla ricerca costante di “vassalli”. Gli Stati Uniti come la Russia. La Turchia come la Cina. È una condizione che lo stratega Edward Luttwak ha definito l’“autismo delle grandi potenze”, che non ha risparmiato l’Intesa cordiale russo-cinese. La diffidenza, come si è visto, ha sinora rallentato in maniera significativa l’espansione della collaborazione all’Artico, dove la Russia si è limitata ad accettare iniezioni di renminbi nel settore del gas naturale liquefatto ma guardandosi bene dall’amalgamare le teoricamente complementari Rotta del Mare del Nord e Via della Seta Polare – cosa, invece, non accaduta in Asia centrale, dove uee e bri costituiscono crescentemente un tutt’uno integrato.
E dietro la vetrina luccicante, inoltre, non va dimenticata né sottovalutata l’esistenza del fenomeno dello spionaggio, in ogni sua forma – politico e industriale –, come ricordato dall’arresto eclatante di Valery Mitko, il presidente dell’Accademia artica delle scienze di San Pietroburgo tradotto in carcere nel 2020 per aver passato segreti di stato ai servizi cinesi. Le paure ancestrali sono dure a morire, resistono allo scorrere del tempo, al passare dei secoli, e non potrebbe essere altrimenti: l’Intesa amichevole è un mezzo per un fine, non è tattica ma strategica, ed è intrinsecamente antistorica, dato che Russia e Cina rivaleggiano e guerreggiano per l’egemonia su Asia centrale ed Estremo Oriente sin dal xvii secolo.
Non è soltanto lo spettro di Kissinger l’unica incognita nel futuro delle relazioni tra le due potenze: è anche, e soprattutto, l’ombra dell’Amur. L’ombra dell’Amur è la paura della Russia di diventare socio di minoranza del partenariato, di diventare satellite del pianeta Cina, con tutto ciò che questo comporta: dalla perdita di influenza nell’estero vicino alla “colonizzazione” dei territori ad est degli Urali. La “paura gialla” in salsa russa ha natura primordiale, in quanto risalente all’epoca delle guerre tra gli zar e la dinastia Qing, ed è tanto bistrattata dalla classe dirigente della Russia europea quanto percepita da quei nove milioni di siberiani contermini naturalmente e costantemente ad oltre novanta milioni di cinesi. Una pressione demografica enorme, sorgente di timori comprensibili, che negli anni recenti ha significato la crescita dirompente di partiti nazionalisti e l’arretramento di Russia Unita e che ha assunto anche altre forme, come le dimostrazioni popolari contro il disboscamento selvaggio della Siberia – le cui foreste soddisfano il 30% del fabbisogno di legname del mercato cinese – e per la protezione del lago Baikal – la cui trasformazione in fonte d’acqua per il mercato cinese fu bloccata da un forte moto di protesta nel 2019.
L’aquila americana sorpresa dall’alleanza dell’orso col dragone. Stefano Magni su Inside Over il 24 luglio 2022.
Esiste già, di fatto, un blocco sino-russo. La Russia ha invaso l’Ucraina con il beneplacito della Cina. Pechino tuttora sta fornendo all’alleato materie prime, materiali dual use e chip, aiutandone di fatto lo sforzo bellico. Il nuovo libro di Federico Giuliani ed Emanuel Pietrobon, L’Orso e il Dragone – Russia e Cina, un’intesa per cambiare il mondo, descrive genesi e motivazioni di questa alleanza “empia”, tattica, rivolta contro l’Occidente. Come mai gli Usa non se ne sono accorti? Il riavvicinamento fra le due potenze è iniziato nel 1999, secondo i due autori ed è stato formalizzato la prima volta nel 2001. Effettivamente, basta guardare i voti all’Onu, per accorgersi che Mosca e Pechino, nell’ultimo ventennio, hanno sempre parlato con una sola voce. E allora perché gli Usa si sono fatti cogliere impreparati?
Dall’11 settembre 2001, gli Usa hanno considerato solo la guerra al terrorismo e si sono preparati, nella peggiore delle ipotesi, a scontrarsi con “rogue states”. Lo scenario più grave a cui gli Usa pensavano era quello di un eventuale conflitto con l’Iran, o con la Corea del Nord. Il Pentagono non si è attrezzato per un confronto mondiale contro due potenze continentali. Non sono mai stati varati, negli ultimi trent’anni, nuovi programmi paragonabili a quelli della Guerra fredda con l’Urss. Il deterrente nucleare è ridotto ai minimi termini e si basa ancora sui vecchi armamenti della Guerra fredda. Il nuovo scudo anti-missile potrebbe intercettare, al massimo, poche decine di ordigni (dalla Corea del Nord, eventualmente dall’Iran). Le forze convenzionali, limitate e altamente professionalizzate, sono utili a combattere piccole guerre lontane. Il punto è che, fino a tempi recentissimi, le amministrazioni Usa non hanno mai considerato seriamente la Russia e la Cina come potenziali nemici.
Dopo la fine del confronto ideologico con l’Urss, gli Usa hanno cercato di costruire un ordine internazionale liberale basato sulla sicurezza collettiva, sui diritti umani e su regole condivise, nel quale inserire, una volta riformate, sia la Cina che la Russia. Ed hanno considerato queste ultime come potenze “in transizione” dal comunismo alla democrazia liberale, dunque integrabili in futuro.
Il blocco sino-russo nasce da un duplice fallimento della democrazia che non è stato compreso in tempo. Il primo è il fallimento della rivoluzione in Cina, il 4 giugno 1989: mentre in Polonia si votava per la prima volta in un sistema multi-partitico, a Pechino i carri armati schiacciavano la protesta di studenti e operai che chiedevano la democrazia. La Cina è rimasta comunista: il Partito ha saputo adattarsi ai tempi nuovi, adottando elementi di economia di mercato, pur mantenendo le leve del potere politico. Il secondo è il fallimento della transizione della Russia dal comunismo al liberalismo, dopo la dissoluzione dell’Urss. Il processo riformatore si arrestò bruscamente con la crisi costituzionale dell’autunno 1993, la lotta fra potere presidenziale e parlamentare conclusasi con il cannoneggiamento del parlamento. Eltsin, il presidente riformatore filo-occidentale, vinse la battaglia contro il blocco parlamentare nazional-comunista, ma si rese conto che non avrebbe potuto permettersi una guerra civile e da allora in poi rallentò le riforme che avrebbero dovuto traghettare la Russia fuori dal sistema sovietico. La classe dirigente nostalgica dell’Urss riprese il sopravvento in men che non si dica.
Nonostante la retorica del Cremlino sulle “umiliazioni” occidentali, gli Usa hanno sempre aiutato la Russia post-sovietica a completare la sua transizione: incoraggiandone le riforme, sostenendola economicamente, ammettendola nel G7 (pur non avendo un’economia all’altezza) e considerandola come partner per la sicurezza sia nella firma del Nato-Russia Founding Act (1997), sia soprattutto nella fondazione del Nato-Russia Council (2002). Gli Usa chiusero un occhio di fronte alla massiccia violazione di diritti umani in Cecenia, così come sulla svolta autoritaria del governo, diventata evidente soprattutto sotto Putin. Le mosse più “aggressive”, come l’accoglimento nella Nato dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia e poi tre della stessa ex Urss (Estonia, Lettonia e Lituania), sono state compiute in modo da evitare di provocare Mosca: fino al 2014, non sono neppure state stanziate truppe alleate nei nuovi territori, tuttora non vi sono schierate armi nucleari. L’intervento della Nato nel Kosovo, nel 1999, era inteso come il primo esperimento di sicurezza collettiva europea, per prevenire un nuovo bagno di sangue quando la memoria del massacro di Srebrenica (1995) era ancora viva. L’opposizione russa all’intervento non venne vista come una “nuova guerra fredda”, ma solo come una divergenza politica risolvibile pacificamente.
L’ottimismo americano sulla transizione russa crollò solamente nel 2008, quando, ad una prima apertura della Nato a Georgia e Ucraina, Putin rispose invadendo la Georgia. Tuttavia, il presidente Barack Obama già dall’anno successivo varò una politica di distensione (il “reset” e “restart”) dando ancora credito alla volontà russa di entrare a far parte del mondo delle democrazie. La Russia divenne una potenza avversaria, agli occhi degli Stati Uniti, solo nel 2014, quando alla rivoluzione del Maidan in Ucraina, Putin rispose con l’annessione della Crimea e con l’appoggio della guerriglia separatista nel Donbass.
Per quanto riguarda la Cina, gli Usa furono ancora più ottimisti: credettero di renderla più incline alle riforme solamente inserendola nelle istituzioni dell’economia internazionale. Dopo il massacro di piazza Tienanmen, nel 1989, l’amministrazione Bush aveva imposto dure sanzioni, ma il successore Bill Clinton iniziò a lavorare, sin da subito, per introdurre il regime di Pechino nei salotti buoni della globalizzazione. Il culmine di questa politica, ereditata dalla prima amministrazione Bush, fu l’ammissione della Repubblica Popolare nel Wto, nel 2001. Come la Russia non avrebbe avuto il diritto di entrare nel G7, nemmeno la Cina aveva i numeri per entrare nel Wto, non essendo neppure un’economia di mercato.
Nell’arco del decennio successivo divenne abbastanza chiaro che la Cina avrebbe sfruttato l’arricchimento della globalizzazione, non per riformarsi in senso democratico, ma per rilanciare la sua potenza militare e di farlo a scapito degli Stati Uniti. Nonostante nel mondo accademico si parlasse sempre più frequentemente della “guerra fredda del futuro”, il mondo della politica americana continuò a trattare la Cina come un partner, al massimo come un concorrente economico. Nemmeno il “Pivot to Asia” di Obama (2011), dunque il ri-orientamento della politica estera e di sicurezza statunitense verso il Pacifico, produsse un sensibile aumento della presenza militare americana per il contenimento della Cina. Solo con l’amministrazione Trump, nel 2017, si incominciò a vedere qualcosa di simile ad una nuova alleanza militare, con il Quad (dialogo quadrilaterale, con Giappone, India e Australia) per contenere l’espansionismo di Pechino.
L’assertività della Cina divenne evidente con la repressione di Hong Kong. L’ex colonia britannica, restituita alla Cina nel 1997, avrebbe dovuto mantenere piena autonomia fino al 2047, ma, violando i patti, la Cina l’ha assorbita nel 2019. A nulla servirono le proteste oceaniche dei poveri abitanti della ricca città portuale, passati di colpo dal vivere in un angolo britannico in Asia al regime comunista cinese. Per Taiwan si teme tuttora l’aggressione militare. Al processo di centralizzazione segue anche un inasprimento della repressione interna, soprattutto ai danni della minoranza degli uiguri e una retorica ideologica e bellicosa che non ha precedenti nella Cina post-maoista. Di fronte a questi sviluppi gli americani stanno appena incominciando a prepararsi ad un confronto con Pechino. Ma in Asia orientale non esiste alcun equivalente della Nato.
Russia e Cina sono rimaste questioni separate agli occhi di tutte e cinque le amministrazioni che hanno governato nell’ultimo trentennio. A Washington, fino a tempi recentissimi, nessuno le ha considerate come un “blocco” militare avversario. La Russia, appunto, è stata inserita nell’agenda di politica europea come problema di transizione dal comunismo alla democrazia. La Cina nell’agenda economica come concorrente di primo piano e (forse) anche avversario militare, ma solo nel futuro.
Sicuramente, nessun presidente del passato ha mai pianificato una strategia per contenere, su due fronti, un “blocco sino-russo”. Uno scenario simile non è mai esistito, neppure nella fiction. Biden sarà in grado di cambiare passo? Lo vuole fare?
Piccola Mosca. L’atteggiamento ambiguo della Svizzera sulle sanzioni alla Russia. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.
Le banche nazionali elvetiche gestiscono circa 150 miliardi di dollari di clienti vicini al Cremlino. Berna dice di volersi accodare all’Ue, ma non sta facendo abbastanza contro la cerchia ristretta di Vladimir Putin
La Svizzera è impegnata a punire la Russia per l’invasione dell’Ucraina così come fanno gli altri Paesi europei. Almeno all’apparenza. Nei fatti, le promesse di sanzioni da parte di Berna non si sono tradotte in grossi movimenti contro le aziende russe che operano sul territorio. E la sensazione è che la piccola nazione alpina non stia facendo abbastanza contro il Cremlino e la cerchia ristretta di Vladimir Putin.
«Ancora oggi infatti l’80% delle materie prime russe arriva sul mercato attraverso la Svizzera, soprattutto passando da Zug. Le banche svizzere gestiscono circa 150 miliardi di dollari di clienti russi, secondo l’associazione bancaria del Paese», scrive il Wall Street Journal. Mentre per il gruppo di trasparenza Public Eye di Zurigo, 32 degli oligarchi più vicini a Putin hanno proprietà, conti bancari o attività commerciali in Svizzera.
Molti hanno case o aziende a Zug. Al punto che il partito di opposizione cittadino da qualche tempo ha iniziato a portare i visitatori in un tour delle proprietà degli oligarchi e i giornali nazionali hanno soprannominato Zug la “Piccola Mosca”.
I legami del regime di Putin con la Zug risalgono ai primi giorni della sua presidenza e a una cerimonia nel tentacolare palazzo in stile art nouveau del Canton Zugo, il Teatro Casino. Nei giorni in cui l’esercito russo bombardava la repubblica cecena, nel 2002, Putin ricevette il “Premio per la pace di Zug” dal Forum per il disarmo nucleare.
Non è un caso che quest’anno molti degli oligarchi che investono a Zug non siano stati toccati dalle sanzioni. Tra questi c’è anche Roman Abramovich, maggiore azionista di Evraz Plc, un’azienda siderurgica e mineraria russa che ha una filiale commerciale nel cantone. Evraz è stata sanzionata nel Regno Unito, dove è quotata alla Borsa di Londra, ma non è stata sanzionata in Svizzera.
Nei primi quattro mesi dall’inizio dell’invasione, le autorità svizzere hanno congelato 6,8 miliardi di dollari di beni finanziari russi e 15 tra case e altre proprietà, secondo la Segreteria di Stato per gli Affari Economici, nota anche come Seco, l’ente incaricato dell’attuazione delle sanzioni stesse.
Sembrano numeri enormi, anche perché il resto dell’Unione europea ha congelato 14 miliardi di dollari di beni di oligarchi, tra cui fondi, barche, elicotteri e proprietà immobiliari, e altri 20 miliardi di dollari di riserve della banca centrale russa. Ma in più i Paesi dell’Unione hanno bloccato circa 200 miliardi di dollari di transazioni finanziarie. E, come detto, per la Svizzera passa una grossa quota del mercato russo.
Per questo motivo gli Stati Uniti hanno chiesto ai funzionari svizzeri di fare di più per individuare il denaro e le proprietà russe. «Invece di permettere alla Russia di abusare del sistema finanziario globale, dovrebbero opporsi», ha detto il senatore Roger Wicker, presidente della Commissione statunitense per la sicurezza e la cooperazione, che promuove i diritti umani, la sicurezza militare e la cooperazione economica.
Il governo di Berna ha respinto ogni tipo di critica sottolineando che sta facendo tutto il possibile per dare la caccia alle attività inserite nella lista nera da parte di Bruxelles. «È chiaro che il volume delle sanzioni contro la Russia e la Bielorussia, così come la velocità con cui sono state adottate, crea alcune sfide per le autorità che devono porle in opera, in Svizzera e altrove», ha dichiarato una portavoce della Seco.
La Svizzera ha uno status riconosciuto di hub finanziario globale, eppure le sue autorità di regolamentazione lavorano con risorse piuttosto limitate: fino a poco tempo fa la Seco aveva solo 10 funzionari dedicati alle sanzioni, poi il governo ne ha assunti altri cinque.
C’è anche un problema legato alla segretezza dei documenti relativi alle grandi società: «Banchieri svizzeri e attivisti per la trasparenza sostengono che negli ultimi anni miliardi di dollari di beni di clienti russi sono stati trasferiti a nome di coniugi e figli, un fenomeno che si è accelerato nel periodo precedente la guerra», scrive il Wall Street Journal.
Un esempio che spiega questa dinamica è quello di Andrey Melnichenko, uno dei più ricchi oligarchi russi, da tempo residente in Svizzera. Berna lo ha sanzionato a inizio anno, mettendosi in scia dell’Unione europea.
Lo scorso 9 marzo, Bruxelles ha aggiunto il nome di Melnichenko alla sua lista nera, descrivendolo come membro della «cerchia più stretta di Vladimir Putin», spiegando che è coinvolto in attività vitali per il governo di Mosca. In Italia, ad esempio, la polizia ha sequestrato il suo yacht, il più grande del mondo.
Tra le sanzioni a Melnichenko però non rientra la EuroChem Ag, un’azienda fondata da lui nel 2001 che è cresciuta fino a diventare uno dei principali produttori di fertilizzanti al mondo, con un fatturato 2021 di 10,2 miliardi di dollari.
L’azienda non è stata toccata perché il giorno prima dell’annuncio delle sanzioni, secondo un documento firmato dal direttore finanziario di EuroChem, il magnate ha rinunciato ai suoi interessi presenti in un trust cipriota che deteneva il pacchetto azionario della società. E la moglie di Melnichenko, Aleksandra, un’ex popstar serba, è rimasta l’unica beneficiaria del trust.
«Dal momento che Melnichenko non possiede, detiene né controlla più alcun fondo o risorsa economica del Gruppo EuroChem, il Gruppo EuroChem e i membri del Gruppo EuroChem non sono soggetti alle misure di congelamento dei beni dell’Unione europea», scrive il Wall Street Journal, citando come fonte un documento del Gruppo. Poi il 28 marzo, la Seco a sua volta ha stabilito che non ci sarebbe stato bisogno di congelare i beni o conti bancari di Eurochem.
La situazione è cambiata a giugno, quando la Commissione europea ha contrastato la decisione della Seco, stabilendo che la moglie di Melnichenko traeva indebiti vantaggi dal marito e doveva essere sanzionata.
La Svizzera ci ha messo un po’ ma ha seguito l’esempio inserendo Aleksandra Melnichenko nella lista nera, ma rinunciando ancora una volta a sanzionare EuroChem.
Zitti e…Mosca.
"Putin si sta solo difendendo": la follia comunista. Giuseppe De Lorenzo il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.
Dopo le polemiche per il volantino con la "Z" dell'invasione russa in Ucraina, gli esponenti del Pci non fanno marcia indietro.
Alla parete ci sono Lenin e Stalin, due "pilastri della dottrina marxista". Ovunque sventolano bandiere rosse del Partito Comunista Italiano, falce e martello di memoria sovietica, addirittura le mascherine Ffp2 sono marchiate col simbolo della compianta (per loro) Unione Sovietica. Non è un caso, evidentemente, se il volantino delle polemiche, quello con la "Z" simbolo dell'invasione russa in Ucraina, sia uscito da queste stanze di un circolo comunista di Zagarolo.
Storia nota, forse ricorderete. In occasione della "festa della vittoria", domenica 8 maggio, la sezione del Pci Monti Prenestini-Casilina ha organizzato una commemorazione dei soldati che hanno liberato "l'Europa dal nazifascismo". E poco importa se buona parte del merito va dato ai soldati americani e inglesi, qui il punto è che il volantino con cui la sezione locale ha pubblicizzato l'evento mostra al posto della "Z" di "Zagarolo" il marchio apposto sui carri armati di Putin, con tanto di coccarda di San Giorgio.
Dopo la feroce polemica, e lo sdegno del Comune, dal circolo non rinnegano ma cercano di arrampicarsi sugli specchi. Intervistati da Quarta Repubblica, spiegano che "la Z sta anche sui veicoli che portano viveri e aiuti alla popolazione, non solo quella del Donbass ma anche quella ucraina". Sull'origine del conflitto, invece, non ci sono dubbi: "Questa è una guerra dichiarata chiaramente e apertamente dalla Nato". Un conflitto alimentato dal "capitalismo" mentre "Putin è uno che si deve difendere". Ognuno ha la sua teoria: "I genocidi? Dove sono? Fateceli vedere, documentateceli". E ancora: "Io voglio le immagini vere, non quelle finte".
Il segretario Pci, Mauro Alboresi, lo spiega chiaramente: "Quel nastro è il simbolo che da sempre ricorda la vittoria dell'Unione Sovietica nei confronti della Germania nazista". Ed era opportuno metterlo sui volantini, con tanto di "Z"? "Non è e non era una provocazione". O forse sì. Ma poco importa: pugni chiusi, e via.
IL POPOLO COMUNISTA IN QUATTRO GENERAZIONI. Da la Repubblica.it il 27.09.1991
"Quando ero piccolo mi dicevano 'Stai lontano dai comunisti' . Poi ho scoperto che in casa mia tutti erano iscritti al Pci, tranne il nonno, che era socialista. Non sono ancora riuscito a capire perchè mi dicevano così...". Alessandro Benvenuti conserva l' aria stralunata di quando era nei Giancattivi con Francesco Nuti e Athina Cenci. Nel suo ultimo film, Zitti e Mosca, che ha scritto con Ugo Chiti, e di cui è regista e interprete, racconta il travagliato passaggio dal Pci al Pds. La storia, interpretata da 50 personaggi, è ambientata durante una Festa dell' Unità a Campiobbi, in luglio. "Il mese è importante" spiega "e ho messo una scritta subito dopo i titoli con la data, per non creare equivoci. Dopo il golpe di Mosca tutti mi dicevano che avevo avuto una gran fortuna, che era una bella pubblicità per il film. Ma come si può essere così cinici?". Il film esce la prossima settimana, dopo l' anteprima al festival ' Europacinema' di Viareggio. "Zitti e Mosca è soprattutto un film sull' amicizia, sulla mia gente. Per noi, in Toscana, una festa dell' Unità resta sempre un luogo d' incontro. Infatti ci vengono tutti, anche i socialisti vanno a mangiare da quelli del Pds. E' l' affresco di un paese, visto da quattro generazioni; l' aspetto politico c' è, ma è marginale". Nel film ci sono i sentimenti, le delusioni e le speranze del popolo comunista. C' è Corpo (Novello Novelli), il vecchio partigiano deluso dal partito, stanco delle chiacchiere di Botolo, Smith e Bacci, compagni di un tempo ormai troppo lontano. Chiama Occhetto ' Occhialino' , tiene in casa una gigantografia di Berlinguer. E' un uomo deluso, che in un momento buio penserà anche al suicidio. "E' vero che ha perso un partito" spiega Benvenuti, che ci tiene molto a restituire una loro autonomia ai personaggi "ma avrà un regalo più bello dalla vita, diventerà nonno". Ci sono poi Setto, Kinder, Brioss, il gruppo dei giovani che della politica se ne infischiano e sono vagamente vitelloni; la terza storia, la più intimista, racconta i riflessi delle scelte politiche nella vita privata. Qualcuno si riconoscerà nella coppia formata da Athina Cenci e Massimo Ghini (un po' D' Alema e un po' Veltroni), ex fidanzati che si rincontrano nel paese: lei è Mara, una compagna all' antica, cossuttiana, che continua ad archiviare scritti e documenti del padre, comunista importante, eroe della Resistenza; lui è Massimo, è un dirigente del Pds che arriva da Roma per il comizio di chiusura della festa. Il quarto filo conduttore è quello dei bambini, che fantasticano sul 'mostro rosso' venuto dall' Unione Sovietica per colpire i comunisti "buoni". Benvenuti dice di "votare se c' è da votare" e di essersi occupato "suo malgrado" di politica: con i Giancattivi e poi lavorando per l' Arci. I dirigenti del Pds hanno fornito le strutture per allestire il set della Festa dell' Unità, ma non hanno condiviso alcune battute colorite della sceneggiatura. "Nel film c' è un grande rispetto per i militanti, per le vecchie generazioni, per i partigiani, per i giovani che credono nel Pds" dice Benvenuti "Spero di aver saputo raccontare con grazia, con la giusta leggerezza: il film non è un saggio politico". Massimo Ghini e Athina Cenci hanno vissuto da militanti il doloroso passaggio dal Pci al Pds. Ghini ha costruito con cura il suo dirigente del Pds, che ha un bel sorriso aperto e guarda al futuro; ha incontrato Walter Veltroni, si è ispirato a lui, ne ha studiato i toni e il modo di fare. "Ci ho messo tutto me stesso, il momento politico che racconta il film mi appartiene, l' ho vissuto in prima persona. Ma quando giravamo alla Festa dell' Unità non mi sembrava più neanche un film, tutto era naturale, vero. Anche il ristorante vegetariano vuoto: i vecchi compagni preferiscono le tagliatelle al ragù...". Athina Cenci è combattiva e ironica: "In genere sono svelta, mi basta girare un solo ciak. Ma la scena in cui mi scontro con Massimo l' ho dovuta ripetere dieci volte, non ce la facevo proprio. Credo che per molti sarà una vera tragedia. Simbolicamente rappresenta il figlio che uccide il padre, proprio perché lo ama. Per me Gorbaciov e Occhetto sono due eroi, ma in molti non la pensano così. Posso capirlo: odiamo chi ci costringe a non essere più figli, a diventare autonomi". Il film si chiude con un' immagine simbolica: Ghini non potrà finire il suo comizio, partono prima i fuochi d' artificio. "In fondo è giusto così" dice Benvenuti "nessuno può dire l' ultima parola su un momento storico in continua evoluzione". SILVIA FUMAROLA il 27 settembre 1991 sez.
Zitti e Mosca di Marco Travaglio il 25 Febbraio 2022
L’attacco criminale di Putin all’Ucraina è un post scriptum degli imperialismi del XX secolo, totalmente fuori sincrono rispetto al comune sentire delle opinioni pubbliche mondiali. Non solo per le nuove generazioni che la guerra, fredda o guerreggiata che fosse, l’hanno letta sui libri di storia, ma anche per quelle che l’hanno vissuta e poi archiviata. Per questo lascia la gente senza parole e rende false e vuote le parole dei governanti che ne sono prodighi. Quelli che menano le danze, Putin e Biden, sono due cascami del Novecento che stanno per compiere 70 e 80 anni, formattati mentalmente nel vecchio mondo che ora rispunta dalla tomba come gli zombi. Con una differenza: Putin parla a un popolo che non dimentica nulla, tantomeno la sua vocazione nazionalista ancora frustrata dal crollo dell’Urss e dalle provocazioni dell’Occidente che ha fatto di tutto per umiliarlo, violando l’impegno di non allargare la Nato a Est; Biden parla a un popolo che non ricorda quasi nulla, salvo i tributi di sangue pagati a far guerre in giro per il mondo, perdendole drasticamente tutte dal 1945. Quindi la guerra non toglie consensi a Putin (a meno che la perda), ma ne toglierebbe parecchi a Biden (che già ne ha pochi) col rischio che ne approfitti la terza potenza, quella tragicamente più al passo coi tempi: la Cina. Quanto a noi, cittadini della cosiddetta Europa, pagheremo il solito tributo di soldi per conto terzi, passando da uno stato d’emergenza (sanitario) a un altro (bellico). Con l’aggravante - per noi italiani - di doverci pure sorbire il cinepanettone delle Sturmtruppen in servizio permanente effettivo, che trasformano le peggiori tragedie nell’eterna commedia all’italiana.
“Noi l’avevamo detto”. È il mantra dei Nando Mericoni a mezzo stampa (“Pronto-Amerega-me-senti?”), che da tre mesi si calano l’elmetto sul capino e rilanciano ogni giorno le veline della Cia sull’invasione russa “tra oggi e domani” e ora, dopo aver fatto e rifatto lo stesso titolo fasullo, si vantano di averci azzeccato. Come se il compito dell’informazione fosse ripetere cento volte una fake news sotto dettatura (“oggi piove”) e poi, quando la centunesima volta si avvera, fingere che fosse sempre stata vera (“visto che oggi piove?”). E come se drammatizzare urlando “Al lupo! Al lupo!” non fosse il modo migliore per sdrammatizzare: un regalo al lupo che, quando arriva, non ci crede o non si scandalizza più nessuno. Ora semmai qualcuno si chiede come mai l’amico americano, se sapeva tutto da mesi, ha lasciato l’Ucraina così impreparata e sola dinanzi all’attacco.
“Legalità internazionale”. Bei tempi quando qualche governo poteva insegnarla agli altri.
Oggi non ci sono “buoni” titolati a dare lezioni ai “cattivi” russi, visto che Usa e Ue si sono macchiati di guerre illegali e criminali (peggio ancora se avallate dall’Onu) in ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia e via bombardando.
“Ci vorrebbe l’Europa”. Fa il paio col “non ci sono più le mezze stagioni”. L’Europa politica e militare non è mai nata per non dispiacere al residuato bellico della Nato (a 31 anni dalla fine del Patto di Varsavia), con alleati indecenti come la Turchia (impegnata a sterminare i curdi nel silenzio degli atlantisti). Finché accetteremo che lo Zio Sam faccia casini in giro lasciandoci il conto da pagare, in termini di migranti (Libia e Afghanistan), terrorismo (Iraq), affari mancati (Cina) e bollette (Ucraina), resteremo il vaso di coccio fra due potenze che si rafforzano a scapito nostro. E piangere sull’Europa che non c’è non sarà solo inutile: sarà ridicolo.
“Tremenda vendetta!”. Posto che, in base ai trattati, la Nato non può inviare truppe in Ucraina, la reazione sarà in forma di parole e di sanzioni. Le parole abbondano e mettono tutti d’accordo. Ma Putin le snobba, anzi le capitalizza agli occhi del suo popolo e del suo establishment (che l’altroieri era tutt’altro che allineato e coperto). Altra cosa sono le sanzioni, che per la Ue escludono gas e banche, per gli Usa no. Su questo conta Mosca: quando si passerà dalle parole ai fatti, il fronte occidentale si rivelerà pura finzione.
“Abbasso i putiniani!”. La caccia agli amici di Putin scatenata dai giornaloni e dal Pd c’entra poco con la guerra in Ucraina e molto con le guerricciole da buvette di Montecitorio: serve a screditare Salvini (che con e sulla Russia ne ha dette e fatte di tutti i colori, ma Putin manco lo conosce) e Conte (reo di un approccio multilaterale in politica estera, peraltro in linea con la tradizione diplomatica italiana, da Moro ad Andreotti, da Prodi a D’Alema allo stesso Frattini). Altrimenti sul banco degli imputati ci sarebbe anzitutto B., quello dei festini con l’amico Vlady nella dacia e a villa Certosa, delle sceneggiate a base di lettoni e plaid trapuntati, delle leccatine alle democrazie-modello di Putin e Lukashenko. Invece è tutto prescritto, in vista del campo largo di Letta (zio e nipote).
“Finché c’è guerra non si tratta”. È la linea di Biden, dunque di Draghi. Ma quando si dovrebbe trattare: in tempo di pace? I negoziati servono quando si combatte, per ottenere tregue e poi trattati. E a mediare non è adatto chi è intruppato in una fazione. Perciò servirebbe, in Europa, qualcuno che tenga una postura più terza e meno appiattita sugli Usa. O almeno che si levi l’elmetto, guardi al di là del proprio naso e scopra ciò che è ovvio dalla notte dei tempi: gli amici te li puoi scegliere, i nemici no.
Tratto da: Il Fatto Quotidiano
Zitti e Mosca. Se Grillo preferisce Putin a Draghi. Mattia Soldi il 31/03/2021 su formiche.net.
Il fondatore del Movimento Cinque Stelle rilancia su Facebook un post del suo blog che tuona contro il “maccartismo” Usa verso Cina e Russia. Intanto il governo Draghi è nel mezzo di un’escalation diplomatica con Mosca e Di Maio ha appena cacciato due spioni russi. Non solo Xi, anche Putin fa vedere “le stelle” al Movimento
Che dire, il tempismo è da campioni. Probabilmente non casuale. Beppe Grillo tuona contro il “maccartismo” degli Usa contro la Russia. A poche ore dall’arresto di una spia russa che stava rubando segreti militari a Roma. Dalla sua espulsione disposta dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio. Dalla convocazione dell’ambasciatore russo Sergei Razov. Insomma, da un clamoroso calcio del governo Draghi a Vladimir Putin.
Mentre la diplomazia e l’intelligence italiana fanno i conti con la vendita di segreti militari a un ufficiale russo da parte di un capitano di fregata della Marina italiana arrestato martedì sera, piovono fulmini e saette dal guru e fondatore del Movimento Cinque Stelle. Contro gli Stati Uniti, ovviamente.
Su Facebook grillo posta un articolo del suo blog (onore riservato ai contributi più amati dal leader) firmato da Fabio Massimo Parenti, vecchia conoscenza del portale, professore alla China Foreign Affairs University di Pechino. “Se molti pensavano che il duo Trump-Pompeo fosse pericoloso, che dire di Biden-Blinken? – scrive l’ “Elevato” a corredo del post – invece di costruire nuove fondamenta per una più ampia cooperazione internazionale – soprattutto considerando che stiamo vivendo un periodo di molteplici crisi globali – Biden-Blinken identificano nemici – con toni bellicosi nei confronti di Russia e Cina – attribuendo responsabilità sempre e solo agli “altri””.
Dunque l’analisi di Parenti, esperto di Cina e firma spesso ospitata sul giornale ufficiale del Partito comunista cinese, il Global Times. “Gli Usa sono i benvenuti nella costruzione di un destino condiviso e di una cooperazione tra pari finalizzata a creare beni comuni e risolvere problemi comuni. Si parta dal prendere atto che il mondo è già cambiato e non accetta più i diktat di Washington (o di qualsiasi altro egemone) che insieme a pochi sodali suole autodefinirsi ‘comunità internazionale”.
In verità l’articolo in bella vista sul blog è una lunga giaculatoria contro la politica cinese di Biden. Le accuse di “genocidio” degli uiguri in Xinjiang rivolte dal segretario di Stato Antony Blinken, sentenzia Parenti, si basano “fonti inaffidabili e dati inverificabili” e il loro vero obiettivo è “destabilizzare lo Xinjiang per colpire la Bri (Belt and Road Initiative, ndr)”.
È Grillo, forse non a caso, a specificare nel cappello che la difesa a spada tratta riguarda “Russia e Cina”, quando ormai le agenzie italiane battono da ore sull’escalation diplomatica fra Roma e Mosca.
E pensare che proprio il volto più noto del Movimento, Di Maio, ha deciso questa volta di alzare l’asticella convocando l’ambasciatore russo e ordinando l’immediata espulsione di due funzionari coinvolti, con tanto di post al vetriolo per confermare la “ferma protesta del governo italiano” per una “vicenda gravissima”.
Zitti e Mosca. Prima o poi bisognerà fare i conti coi danni fatti dal putinismo in Italia. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 5 Marzo 2022.
Prodi e Berlusconi hanno legittimato il dittatore russo, malgrado ammazzasse i suoi oppositori come un capomafia. Poi sono arrivati i politici tifosi che hanno eletto il gerarca come alfiere dei valori cristiani contro il relativismo. Per rimediare dovrebbero fare un voto del silenzio tutti coloro che hanno definito inique le sanzioni al Cremlino dopo il 2014.
Ai servi sciocchi e volenterosi del Cremlino, che da anni spiegano che Putin è un bene o comunque non è tutto il male che si vorrebbe far credere, la flessibilità trasformistica della politica italiana darà modo, ovviamente, di redimere l’amore e l’amicizia passata in una dolorosa compunzione, esibita come prova di resipiscenza. Tutti, ora, delusi o sorpresi o sconvolti dal Grande Dittatore e desiderosi di pace.
Ai più fortunati, cioè ai più presentabili, sarà possibile anche contestualizzare le aperture di credito all’avvelenatore di Mosca, alla luce di quanto è successo, come tentativo di arginarne la ferocia vellicandone l’orgoglio e il narcisismo o ingolosendone l’interesse. Insomma, come un malriuscito esercizio di necessitato realismo.
Sbaglia però chi pensa che il putinismo italiano sia stato concentrato nelle suburre populiste e sovraniste dei Manlio Di Stefano e Gianluca Savoini, Alessandro Di Battista e Matteo Salvini, Vito Rosario Petrocelli e Maurizio Marrone, e sia destinato a estinguersi con l’emarginazione di queste frange e l’istituzionalizzazione atlantica ed europeista di grillini, leghisti e post-fascisti.
Il putinismo italiano non è stato affatto un fenomeno da sbandati, svitati e avventurieri, o di estremisti ora ai margini della politica che conta.
Il putinismo è stato il cuore della politica internazionale dell’Italia per due decenni ed è stato impersonato dai massimi rappresentanti del bipolarismo italiano, Silvio Berlusconi e Romano Prodi, in due versioni diverse, ma non opposte e neppure alternative.
Al di là degli aspetti di folclore e di colore che hanno compromesso assai più fortemente il Cavaliere – dalle feste di compleanno, al lettone regalato dal leader russo per le sue notti magiche – Prodi e Berlusconi hanno condiviso nelle relazioni con Putin il principio della imprescindibilità e per certi versi della “provvidenzialità” della leadership putiniana, come forma d’ordine politica preferibile, perché più caratteristicamente russa, al disordine seguito al disfacimento sovietico.
Ancora più radicalmente, Prodi e Berlusconi hanno ritenuto che per gli interessi dell’Europa e dell’Italia il putinismo fosse un fattore di stabilità (di stabilità!) e che la causa della democratizzazione della Russia e della sua emancipazione dai fantasmi e dalle frustrazioni del fallimento dell’Urss e dei sogni imperiali fosse in sé pericolosa per la libertà e sicurezza e dell’Europa. Putin è la Russia, e la Russia è Putin, al bando le fantasie democratiche. Di qui i colloqui ripetuti, le interviste comprensive, lo sforzo di dialogo ininterrotto e regolare e anche mediaticamente rivendicato, da parte di entrambi i campioni del bipolarismo all’italiano. Entrambi amici, confidenti e consiglieri del capopalazzo del Cremlino e orgogliosi di esserlo.
Sia Prodi che Berlusconi sono stati convinti che legittimare Putin, malgrado ammazzasse i suoi oppositori come un capomafia, pure vantandosene, era il modo migliore per non fare esplodere né la Russia, né l’Europa. «L’Ue sta sbagliando» e «abbiamo bisogno della Russia»: anche dopo l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea.
A far divergere Berlusconi e Prodi non è stato quindi il giudizio su Putin ma la strategia di legittimazione da seguire, che per Berlusconi era quella dell’inglobamento surrealistico della Russia nella Nato per un unico governo militare del mondo e per Prodi quello della contestuale amicizia con Mosca e Washington, a suggello della centralità di un’Europa equidistante ed equivicina, amica di tutti e nemica di nessuno.
Lasciamo pure da parte il razzismo implicito nella persuasione che i russi siano immeritevoli di libertà politica e stato di diritto e per destino storico debbano essere sudditi di un potere assoluto. Ma il putinismo adulto di Prodi e Berlusconi, a differenza di quello infantile e sperticato della teppa populista e sovranista, è stato il sostrato su cui si è appoggiata la strategia di ricatto e di condizionamento del Cremlino, con la sua infiltrazione nei gangli del sistema accademico, dell’informazione e della comunicazione, perfettamente raccontata da Massimiliano Di Pasquale e Luigi Sergio Germani ne L’ influenza russa sulla cultura, sul mondo accademico e sui think tank italiani.
A valle e non in contraddizione con tutto questo si è sviluppato il putinismo para-squadristico dei «Forza Putin», che, mischiando i vecchi riflessi anti-atlantisti della sinistra comunista e post-comunista e le fobie antimondialiste della destra fascista e post fascista, ha eletto il gerarca maggiore di tutte le Russie ora a difensore del mondo libero contro il dominio americano, ora ad alfiere dei valori dell’Occidente e della Cristianità contro il relativismo e l’immoralismo Lgbt.
In Italia, a essere state attivamente antiputiniane in questo ventennio sono state piccole minoranze intellettuali liberal-progressiste e liberal-conservatrici senza nessuna vera influenza politica. Non hanno toccato palla e hanno fatto per vent’anni la figura delle Cassandre sfigate, continuamente schernite dai realisti amici del Cremlino, che ancora pochi giorni prima dell’invasione di massa dell’Ucraina irridevano l’isteria degli allarmi americani e cianciavano di un fantomatico negoziato europeo.
Insomma, con il putinismo, presto o tardi (speriamo prestissimo), dovrà fare i conti la Russia. Ma, da subito, i conti bisogna iniziare a farli anche in Italia.
Si potrebbe partire dal lodo, per così dire, del silenzio: tutti quelli che hanno dichiarato eccessive, sbagliate e inique le sanzioni alla Russia dopo la prima fase dell’invasione dell’Ucraina del 2014, auspicandone o reclamandone il superamento, da adesso in poi stanno zitti, fino alla fine di Putin. Una fine auspicabilmente civile, da imputato al Tribunale penale internazionale dell’Aja, non la fine incivile e barbara che lui ha fatto fare da sempre ai suoi oppositori. La fine di Slobodan Milosevic, non quella di Anna Politkovskaja.
D’accordo Berlusconi, Prodi, Salvini, Conte, D’Alema, Di Maio, Meloni, Emiliano, Zaia… (l’elenco potrebbe lungamente continuare)? Fate tutti un bel silenzio bipartisan?
«Mai con…»: a sinistra si schifano tutti. Ma non era il regno dell’inclusione e della tolleranza? Michele Pezza sabato 23 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Chi l’avrebbe mai detto: quelli che ci fracassano i timpani con la ineluttabilità della open society (non c’entra nulla George Soros), la società inclusiva, aperta e senza confini ora si fracassano la testa a colpi di veti, minacce e dispetti. Li sentite pure voi, no? Letta che dice «mai con Renzi», il quale aggiunge «mai con Conte», che a sua volta avverte «mai con Calenda», che per non essere da meno intima «mai con Di Maio». Benvenuti nella sinistra ex-post e neodraghiana, apoteosi della discriminazione, del rifiuto, del pregiudizio. Un allucinante babele politica che ove mai diventasse coalizione di governo ci riporterebbe di colpo ai tempi epici dell’Unione prodiana disintegrata in un amen dai distinguo dei vari Rossi, Turigliatto e Malavenda.
A sinistra impazzano veti e dispetti
Per sfortuna loro e per fortuna nostra (e dell’Italia) i sondaggi dicono altro. Ma l’abuso del «mai con…» è fenomeno interessante da osservare proprio perché impazza a sinistra, patria di elezione (almeno a chiacchiere) della virtù della tolleranza, dell’accoglienza e della fraternità. Baggianate. Le cronache politiche di questi giorni di introduzione alla campagna elettorale ci dimostrano quanto invece i suoi esponenti siano in realtà soprattutto arcigni custodi del proprio orticello. Ironia della sorte è stato proprio Mastella, il re degli ortolani, a sottolinearlo: «Così – ha avvertito – non andiamo da nessuna parte». Ha ragione: il problema esiste.
L’effetto-spocchia è un boomerang
D’altra parte, puoi inventarti tutti i fascismi della storia e della preistoria, ma quale credibilità potrebbe avere uno schieramento che va da Brunetta e Fratoianni, passando per Calenda e Speranza? Nessuna, evidentemente. Al confronto, la proposta di dare 1000 euro ad ogni pensionato e ad ogni casalinga già lanciata da Berlusconi ha quanto meno il pregio di dirottare l’attenzione dalle formule ai programmi. Ma tant’è: la sinistra è talmente inzuppata di spocchia, è talmente sicura di poter intortare tutti (o quasi) con le sue menate sull’agenda-Draghi da non rendersi conto del penoso teatrino che ha allestito in queste ore. Meglio così. Meglio, soprattutto, osservare in silenzio. E da lontano. Come diceva Napoleone: «Non interrompere mai il tuo nemico mentre sta facendo un errore». Perciò, zitti e mosca!
Crisi di governo, Mosca esulta: «Fuori un altro». New York Times: «Draghi è un titano». Il Cremlino spera ora di «ripristinare buoni rapporti» con l'Italia. Il Nyt riporta le preoccupazioni occidentali sulla possibilità che l'uscita di Draghi apra le porte in Italia a forze solidali con Putin. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sus il 16 Luglio 2022.
Le foto pubblicate da Medvedev di Johnson e Draghi con accanto il punto interrogativo: chi sarà il prossimo premier che "salterà"?
A FESTEGGIARE le dimissioni (‘’in sonno’’ fino a mercoledì) del governo Draghi non sono stati soltanto i cinghiali, i gabbiani e i topi, preoccupati di non potersi procurare il cibo a buon mercato, qualora il Comune di Roma riuscisse a costruire un termovalorizzatore.
Probabilmente anche le associazioni più intransigenti dei tassinari (quelle più responsabili hanno sottoscritto accordi di convivenza con Uber) hanno sperato che, saltando anticipatamente la legislatura, non venisse approvato il ddl sulla concorrenza recante il contestato articolo 10.
SALONI DEL CREMLINO IN FESTA
Ma i toni più festosi sono risuonati nei saloni del Cremlino. Il primo ad esultare sui social è stato Dmitrij Medvedev, ex colomba divenuto implacabile falco del regime, che ha postato una foto del recente vertice dei leader del G7 con due vistose croci di colore rosso sulle effigi di Boris Johnson e di Mario Draghi, corredate da un punto di domanda maligna su chi sarà il prossimo (con la speranza che si tratti di Joe Biden, sconfitto alle elezioni di medio-termine).
Poi ieri ha preso una posizione ufficiale lo stesso Cremlino, augurandosi un superamento della crisi in Italia in grado di ripristinare buoni rapporti con la Federazione russa. D’altra parte, chi ha potuto seguire ieri mattina la rassegna della stampa internazionale si è accorto che sia i principali quotidiani europei che quelli americani hanno dato un gran rilievo al caso Italia.
L’agenzia Ansa ha riportato ampi brani di un articolo del New York Times che rappresentano adeguatamente le preoccupazioni presenti in tutte le Cancellerie del mondo occidentale. «Mario Draghi, da quando è entrato in carica come presidente del Consiglio all’inizio del 2021 – ha scritto il New York Times – ha guidato il Paese fuori dai giorni peggiori della pandemia di Covid e ha inserito nel governo tante persone altamente qualificate ed esperti che hanno scosso l’Italia dal suo malessere politico ed economico».
NYT: «DRAGHI UN TITANO»
Il quotidiano della Grande Mela definisce il premier un «titano d’Europa, spesso chiamato Super Mario per aver salvato l’euro da presidente della Banca centrale europea, ha immediatamente rafforzato la posizione internazionale dell’Italia e la fiducia degli investitori».
«La promessa della sua mano ferma al volante – prosegue il Nyt – ha aiutato l’Italia a ricevere più di 200 miliardi di euro dall’Europa, una somma che ha dato all’Italia le migliori possibilità di modernizzazione degli ultimi decenni. Draghi ha portato una crescita moderata in Italia, ha apportato riforme al suo sistema giudiziario e a quello fiscale, ha snellito la burocrazia e ha trovato diverse fonti di energia lontano dalla Russia, comprese le rinnovabili».
Durante il suo governo, aggiunge l’autorevole quotidiano, Draghi «ha reso fuori moda il populismo e la competenza un fattore da ammirare, e ha riposizionato l’Italia come forza affidabile per i valori democratici in Europa».
Poi, sempre secondo il quotidiano americano, «forse la cosa più cruciale fatta da Draghi è stata spingere l’Italia, che ha spesso mantenuto una relazione stretta e ambigua con la Russia, nel mainstream europeo sulle questioni del sostegno all’Ucraina e delle sanzioni contro la Russia».
Infine il Nyt ricorda che «l’Italia è stata la prima grande nazione occidentale a sostenere pubblicamente l’eventuale adesione dell’Ucraina all’Unione europea».
L’INCOGNITA “GIUSEPPI”
Ma il commento non si limita a parlare del passato prossimo; il Nyt ipotizza anche un futuro altrettanto prossimo, prevedendo che a questo punto che un’uscita di Draghi dal governo «aprirà le porte a forze che sono molto più solidali con Putin».
Che dire? C’era bisogno di varcare l’Oceano per leggere un’analisi di quanto sta succedendo in Italia? In queste ultime ore più o meno tutti gli osservatori hanno descritto la mossa di “Giuseppi’’ come un’avventura, una sorta di suicidio assistito, incomprensibile e controproducente per la stessa grama prospettiva di ciò che resta del M5S. Di Conte si è detto di tutto, fino a trattarlo come un poveretto che non capisce ciò che fa e si lascia trascinare dai sentimenti rancorosi dei primi “terrapiattisti’’ del movimento, i quali – l’applauso al Senato lo confermerebbe – si sentono finalmente liberi di tornare alle barricate contro il sistema.
Polonio, il cortigiano della reggia di Elsinore, invitava sempre a cercare una logica nella follia. Giuseppe Conte è pur sempre un personaggio che, provenendo dal nulla, è riuscito a diventare presidente del Consiglio in ben due governi sostenuti da maggioranze diverse. È stato in grado di accreditarsi a livello internazionale in breve tempo come non era mai riuscito a Matteo Renzi.
Dopo la caduta del suo secondo governo, il Pd di Nicola Zingaretti tentò in ogni modo di trovare una maggioranza – anche raccogliticcia – che gli consentisse di restare in sella, come possibile federatore di uno schieramento progressista. È stato il principale alleato di Enrico Letta nella costruzione del cosiddetto “campo largo” Nei giorni scorsi, quando ormai erano evidenti le intenzioni del M5S al Senato, Pierluigi Bersani ha sostenuto che Conte era stato disarcionato da una congiura di palazzo e che errori e limiti da parte dei grillini c’erano stati, ma che loro «hanno percepito ostilità o disprezzo ovunque si voltassero. Esiste un concetto che si chiama dignità: non è la fase in cui si sta attaccati alla sedia, ma la fase in cui c’è da difendere la dignità».
LE CHANCE DI CONTE
Le cronache, poi, hanno raccontato di un diverbio nell’ultima riunione del Consiglio dei ministri tra Andrea Orlando e Roberto Cingolani, da cui si potrebbe supporre che la sinistra del Pd sia accusata di aver lavorato per Conte. Col passare delle ore, però, alcuni passaggi che sembravano incomprensibili, si rivelano meditati.
Gli apprezzamenti del Cremlino non vi sarebbero mai stati se quel regime non riconoscesse a Conte di avere delle chance. Se proviamo a mettere insieme i pezzi del puzzle non possiamo non utilizzare ciò che ha dichiarato lo scorso 1° luglio Michele Santoro in una intervista a Il Foglio.
«La prima cosa da fare sarebbe liberarsi dall’incubo della variante Grillo – ha detto Santoro – Mettersela alle spalle. Chiudere con il grande comico inafferrabile, che a volte emerge dall’ombra per poi reimmergersi a seconda dei suoi sbalzi umorali. Questo periodo va chiuso. Altrimenti non si va avanti. La seconda cosa da fare sarebbe poi quella di uscire da questa coalizione di governo, perché è la condizione necessaria per poter svolgere un ruolo politico importante anche sulla questione della guerra. E intorno alla questione della guerra si può ricostruire un’offerta politica a sinistra. Ma Conte deve dimostrare che ci crede veramente. Non come ha fatto con la risoluzione sull’invio delle armi». Sono esattamente le cose che Conte ha eseguito.
La politica internazionale – dopo la guerra in Ucraina – è tornata a essere divisiva e a condizionare l’azione dei governi. Esistono le condizioni in Italia, nella prospettiva di un progressivo logoramento del quadro geopolitico, per la costruzione di un polo filo putiniano o comunque – come ha scritto il Nyt – per la discesa in campo di «forze che sono molto più solidali con Putin».
Conte sarebbe più credibile se conducesse una campagna elettorale “pacifista’’ e, soprattutto, potrebbe entrare in sintonia con forze potenti che si muovono e si muoveranno sempre più sullo scenario internazionale. Ma questi sono di converso i motivi che indurranno Mario Draghi a bere il calice amaro della permanenza al governo, sia pure in una condizione più logorata che difficile.
Il tweet di Navalny e l'attacco di Kiev: "L'amico di Putin fa cadere Draghi". Roberto Fabbri il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.
Messaggio social di Vladimir Milov, braccio destro dell'oppositore russo. Il consigliere di Zelensky: "Non lasciamo che Mosca usi lo scontro politico per minare le democrazie e fermare l'invio di armi".
Mario Draghi è un capofila della dura - e soprattutto coesa, il che non era affatto scontato all'inizio - reazione europea all'aggressione russa all'Ucraina. Senza compromessi sulle sanzioni a Mosca, deciso in favore dell'ammissione di Kiev nell'Unione Europea e sull'invio delle armi necessarie al Paese attaccato per difendersi. Senza dimenticare il suo ruolo politico attivo e determinato per fissare un prezzo massimo per il gas. Tutte cose che il Cremlino non ha apprezzato. Nello scintillante palazzo del potere putiniano hanno ben presente che Draghi, con l'azione del suo governo, ha fatto piazza pulita di quel filorussianesimo più o meno sotterraneo che aveva caratterizzato le scelte dell'Italia nel passato, in particolare ai tempi del gialloverde «Conte I» in cui non ci si faceva problemi a esprimere simpatie e a stendere tappeti rossi reali e virtuali per dittatori euroasiatici.
Nel resto d'Europa e in America dove a differenza che da noi la partecipazione alla Nato e alla stessa Ue non viene vissuta da troppi sia a sinistra che a destra come un obbligo mal sopportato si percepisce più chiaramente la rilevanza del cambiamento di rotta che Draghi ha saputo imporre e che non si vuole veder svanire: un cambio di sentimento, prima ancora che di sostanza politica. Che pure c'è stata eccome, e basterebbe ricordare che su quel treno diretto a Kiev il mese scorso era stato il premier italiano a insistere con Emmanuel Macron e Olaf Scholz, argomentando lucidamente fino a persuaderli della necessità di esprimere una comune, concreta e inequivocabile posizione di sostegno a Kiev da parte delle tre principali potenze dell'Unione.
Ora, checché ne dicano al Cremlino e al ministero degli Esteri russo, le difficoltà politiche di Macron, del premier britannico Boris Johnson e adesso quelle di Draghi in Italia non vengono affatto vissute con il distaccato rispetto per gli affari interni altrui. Piuttosto, come ha fatto notare il ministro degli Esteri Di Maio, nei palazzi del potere di Mosca si brinda ad esse più che volentieri. E Di Maio (fresco di addio al mondo ambiguo dei Cinquestelle, che ben conosce e che secondo fonti dell'entourage di Joe Biden avrebbe goduto di finanziamenti russi in nero) non è il solo a notare la solare evidenza di ciò che ha definito l'offerta a Putin da parte di Giuseppe Conte della testa di Draghi su un piatto d'argento: il leader del M5S avrà certamente come priorità quella di salvare le fortune del suo partito in agonia, ma se appena si solleva lo sguardo dalle miserie dei tatticismi politici italiani giocati sulla tolda del Titanic, è impossibile non accorgersi del favore colossale che egli ha fatto a Vladimir Putin. Ed è legittimo chiedersi nell'interesse di chi, e su eventuale input di chi, abbia ritenuto di infliggere proprio adesso un tale danno al fronte occidentale.
In Russia e in Ucraina simili preoccupazioni vengono espresse più direttamente. Vladimir Milov, che vent'anni fa fu giovanissimo viceministro russo dell'Energia ai tempi della prima presidenza Putin per poi passare nei ranghi di Scelta Democratica con l'oppositore Aleksei Navalny, scrive secco e chiaro in un tweet che «l'amico di Putin Giuseppe Conte sta cercando di far cadere il governo di Mario Draghi in Italia». E da Kiev dove si è ben capito cosa ci sia realmente in ballo arriva l'accorato appello-denuncia di Mikhaylo Podolyak: «La tradizionale lotta politica interna nei Paesi occidentali non deve toccare l'unità su questioni fondamentali per il bene e per il male come la fornitura di armi all'Ucraina. Non possiamo permettere al Cremlino scrive il primo consigliere del presidente Volodymyr Zelensky di usare la competizione politica come arma per minare le democrazie».
Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 18 luglio 2022.
Meno male che c'è il subcomandante Dibba. Perché mentre noi ce ne stiamo qui tranquilli a occuparci di banali faccenducole - governi che cadono, inflazione che galoppa e contagi che dilagano - Alessandro Di Battista viaggia senza sosta per «comprendere il mondo e raccontarlo».
Oddio, non tutto il mondo: in questo momento sta girando la Russia (uno dei pochi timbri mancanti sul suo passaporto, dove ci sono già quelli di Argentina, Panama, Nicaragua, Cile, Guatemala, Cuba, Costa Rica, Colombia, Belize, Ecuador, Iran, Bolivia e Paraguay). Raccontarci l'impero di Putin.
Impresa ammirevole, perché parliamo dello Stato più grande del pianeta, con 11 fusi orari diversi. E lui lo fa, generosamente, per conto di noi pigroni stanziali. Per farci conoscere «quello che pensano dall'altra parte». Rivelandoci una realtà sorprendente.
Per esempio, lui che era partito da Roma convinto che le sanzioni hanno fallito e che il popolo russo è con Putin, una volta a Mosca ha scoperto - e ce lo ha raccontato in un memorabile reportage - che le sanzioni hanno fallito e il popolo russo è con Putin. Ma siccome lui è un instancabile cercatore di verità, non si è fermato qui.
E senza farsi intimorire da quel regime che sbatte in cella chiunque osi mostrare in pubblico anche un cartello bianco senza alcuna scritta, l'esploratore Di Battista ha trovato le prove che «le sanzioni hanno messo d'accordo persone che prima non lo erano affatto», e che «più ci si allontana da Mosca più aumentano i supporter di Putin».
Così lui è andato il più lontano possibile. Ieri è arrivato a Irkutsk, una delle più grandi città della Siberia: la terra del gelo dove prima gli zar e poi Stalin deportarono milioni di polacchi, ceceni, caraci, ingusci, balcari, tedeschi e cabardi, e dove oggi finiscono gli ucraini trascinati via dal Donbass. Ma non sono loro, quelli che lui sta cercando a Irkutsk, dove l'Unione Sovietica sembra sopravvivere surgelata nei palazzi staliniani.
No, lui cerca qualcosa di più importante. Se a Mosca le sanzioni hanno messo d'accordo gli avversari di prima, avrà pensato lui che conosce il mondo, qui che siamo a cinquemila chilometri devono essere accaduti miracoli. Lui, ne siamo sicuri, li scoprirà presto. E li rivelerà a noi uomini di poca fede: nella prossima puntata del Dibba Tour.
Da Pechino a Caracas, i flirt grillini col "nemico". Francesco Maria Del Vigo il 17 Luglio 2022 su Il Giornale.
I grillini flirtano con i putiniani e venerano lo zar? C'è poco da stupirsi.
I grillini flirtano con i putiniani e venerano lo zar? C'è poco da stupirsi. Nulla di nuovo sotto il cielo stellato di un Movimento che, fin dai suoi albori, ha sempre subito l'irresistibile fascino delle dittature e delle autocrazie. Non c'è niente da fare, loro, di fronte alle limitazioni delle libertà personali, a regimi e regimetti, dittatori e presunti tali, si sciolgono. Da Chavez a Morales, dalla Cina di Xi agli ayatollah iraniani. E, giusto per non farsi mancare nulla, hanno anche strizzato l'occhio ai terroristi islamici.
Il numero uno delle sbandate è Di Battista, che è un po' come il compagno di classe del Liceo che s'innamora sempre delle ragazze sbagliate. Nel 2014, sul blog di Grillo, si sdilinquisce per gli jihadisti mozza teste e suggerisce di trattare con loro e «smetterla di considerarli come disumani».
Ineffabile.
L'anno dopo il Che Guevara di Roma Nord organizza un convegno a Montecitorio in cui si esaltano i regimi chiavisti. Nel 2017 una delegazione grillina (della quale fanno parte Manlio Di Stefano e Vito Petrocelli) vola in Venezuela per le commemorazioni dei quattro anni dalla scomparsa di Chavez. I rapporti tra Caracas e i pentastellati sono così stretti che nel 2020 il quotidiano spagnolo Abc pubblica una indiscrezione secondo la quale il Movimento, nel 2010, avrebbe ricevuto dal regime un finanziamento da 3,5 milioni di euro. Tutto assolutamente smentito da Casaleggio. Ma tutto altamente verosimile. D'altronde Maduro spendeva elogi per il partito dell'ex comico, ritenendolo «promotore di un movimento di sinistra, rivoluzionario e anticapitalista nella Repubblica italiana». Tutto torna, i compagni della decrescita (in)felice, l'asse internazionale rosso di chi detesta la finanza, pensa che il capitalismo sia solo predatorio e idolatra lo stato e lo statalismo è ben saldo.
Ma le liaisons dangereuses con i «cattivi» non finiscono qui. Storica l'intervista di Beppe Grillo a un giornale israeliano, nel 2012, nella quale difende il modello Ahmadinejad in base alle testimonianze del suocero e del cugino (che sono iraniani). Mitologici i reportage dell'immarcescibile Di Battista che, inviato in una iperuranica Persia felix, descrive Teheran come la capitale mondiale della sicurezza e del benessere. D'altronde ha avuto un'impressione molto simile anche in Russia, da dove ha inviato i suoi più recenti articoli. Ultima, ma non per importanza, la corrispondenza di amorosi sensi con la Cina di Xi Jinping, che ha portato, durante il primo governo Conte, alla celeberrima Via della Seta. Ora tocca alla Russia di Vladimir Putin. Ma - ne siamo certi - appena salterà fuori un nuovo autocrate, loro saranno già lì, pronti ad adularlo e a farsi manovrare.
Roberto Fabbri per il Giornale il 16 luglio 2022.
Perfettamente indifferenti ai massacri di civili ucraini perpetrati dalla loro «operazione speciale» (guai a chiamarla guerra: Vladimir Putin non gradisce, dunque è galera immediata per chi si azzarda, ma sotto le bombe si muore lo stesso), ai piani alti di Mosca se la ridono. E ridono di noi italiani, purtroppo.
Ridono delle pene in cui si dibatte il nostro premier, spinto a un passo dal gettare definitivamente la spugna dalla inqualificabile iniziativa del suo predecessore, che pur di recuperare (ed è tutt' altro che detto) qualche punticino nei sondaggi elettorali non esita a mettere a repentaglio non solo il prezioso e faticoso lavoro di questo governo d'emergenza assoluta, ma l'immagine e il ruolo stesso del nostro Paese sulla scena internazionale.
A Mosca se la godono un mondo a vedere Mario Draghi, l'uomo che ha restituito all'Italia stabilità, credibilità e una inequivocabile posizione atlantista così sgradite a Putin, alle prese con le beghe di un partito di dilettanti allo sbando, con i ricatti di un leader mediocre e incapace di indicare una linea coerente che non sia appunto quella di distruggere con i più vari pretesti quella stabilità, quella credibilità e quell'atlantismo.
E mentre si ascolta la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova augurarsi fin d'ora che il prossimo governo italiano sia finalmente meno asservito agli interessi degli Stati Uniti, non si può fare a meno di farsi qualche preoccupata domanda, rileggendo le pagine di un'autrice informata come Catherine Belton in Gli uomini di Putin, in cui si ricorda citando fonti americane come il Movimento Cinque Stelle fosse incluso nella lista dei partiti europei anti sistema che la Russia sosterrebbe con fondi neri.
Senza dimenticare la «passione cinese» della leadership pentastellata culminata nella misteriosa visita di Beppe Grillo nel giugno dell'anno scorso all'ambasciata cinese a Roma a cui un imbarazzato Giuseppe Conte aveva preferito, all'ultimo momento, non partecipare.
Che sia vero (come sostenne apertis verbis Giorgia Meloni) o falso che il M5S sia la quinta colonna della Cina e forse anche della Russia di Putin che con la Cina va a braccetto in Italia, rimane il fatto che a Mosca l'iniziativa di quel partito che ha quasi disarcionato Mario Draghi è piaciuta tantissimo.
L'eterno numero due di Putin Dmitry Medvedev, che già gli aveva dato rozzamente del mangiaspaghetti per aver partecipato con gli omologhi francese e tedesco a una visita ufficiale a Kiev per esprimere sostegno all'Ucraina, non aveva perso tempo due giorni fa a chiedersi beffardo sui social chi sarebbe stato il prossimo leader occidentale a seguire la strada del declino già imboccata da Boris Johnson e Mario Draghi.
Poi è arrivata, immancabile, la Zakharova. La quale, con il suo innato senso del rispetto per chi non la pensa come Cremlino comanda, ha detto papale papale del nostro ministro degli Esteri che «non capisce niente di ciò di cui si occupa».
Luigi Di Maio si era permesso di osservare (cosa in cui è finalmente diventato bravissimo) un'evidenza, e cioè che Conte ha offerto a Putin su un vassoio d'argento la testa di Draghi e che a Mosca si brinda per le sue dimissioni. Ma la portavoce di Sergei Lavrov (che invece è un maestro nel nasconderle, le evidenze, e la lista è chilometrica) pretende che questa ovvietà sia un'invenzione della Farnesina. Al Cremlino avrebbero invece ben chiaro che si tratti di un affare interno italiano, «limitandosi» ad auspicare che il nostro prossimo governo prenda finalmente le distanze da Washington: il che poi significa che dovremmo rompere l'unità della Nato come il suo boss tanto gradirebbe. Alla faccia del limitarsi.
A completare la trinità dei commenti dei vertici russi è arrivato il più vicino di tutti a Putin, ovvero il suo portavoce Dmitry Peshkov. Anche per lui, il destino di Draghi è affare interno italiano. Chiaro il messaggio sottinteso: non siamo i mandanti di niente e di nessuno.
Dagospia il 21 luglio 2022. CHE COINCIDENZA: IL GIORNO DOPO LA CADUTA DI DRAGHI PER MANO DEI FILO-PUTINIANI SALVINI, BERLUSCONI E CONTE, LE FORNITURE DI GAS RUSSO ALL’ITALIA AUMENTANO DEL 71% - IACOBONI: “PUTIN STA GIOCANDO AL GATTO COL TOPO CON LA POLITICA ITALIANA” – DI MAIO SULLA STESSA LINEA DI CALENDA: “NON È UN CASO CHE IL GOVERNO SIA STATO BUTTATO GIÙ DA DUE FORZE POLITICHE CHE STRIZZANO L’OCCHIOLINO AL PRESIDENTE RUSSO”
Tornano a aumentare le forniture di gas di Gazprom all'Italia, +71% rispetto al giorno precedente.
(da 21 a 36 milioni di metri cubi)
Putin sta giocando al gatto col topo con la politica italiana
— jacopo iacoboni (@jacopo_iacoboni) July 21, 2022
(ANSA il 21 luglio 2022) - "Non è un caso che il governo sia stato buttato giù da due forze politiche che strizzano l'occhiolino a Vladimir Putin". Lo ha detto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, leader di Ipf.
Le forniture di gas russo attraverso il Nord Stream 1, riaperto stamane, sono arrivate al livello del 40%, come prima che il gasdotto fosse chiuso per manutenzione, l'11 luglio scorso.
Lo riferisce la Tass citando il consorzio Nord Stream AG. Il gasdotto ha riaperto come previsto alle 07.00 ora di Mosca (le 06.00 ora italiana). Secondo l'operatore ucraino per il trasporto del gas Ogtsu, continuano anche le forniture della Gazprom attraverso l'Ucraina, che oggi dovrebbero arrivare a 42,4 milioni di metri cubi.
Tornano ad aumentare le forniture del gas dalla Russia verso l'Italia, con una crescita rispetto al giorno precedente del 71,4%. A comunicare il cambiamento del flusso è l'Eni sul proprio sito.
"Gazprom ha comunicato per la giornata di oggi la consegna di volumi di gas pari a circa 36 milioni di metri cubi, a fronte di consegne giornaliere pari a circa 21 milioni di metri cubi effettuate nei giorni scorsi - afferma la società energetica italiana - Eni si riserva di comunicare eventuali aggiornamenti nel caso in cui vi fossero ulteriori variazioni significative nelle quantità in consegna comunicate da Gazprom".
Carlo Nordio, interferenza russa sulla crisi? "Inorridito da Berlusconi e Salvini". Libero Quotidiano il 22 luglio 2022
Clamoroso (e inatteso) strappo di Carlo Nordio con il centrodestra di governo. Il magistrato, ospite della War Room di Enrico Cisnetto, riflette sulla crisi di governo che ha portato alla caduta di Mario Draghi e ai sospetti, avanzati soprattutto da sinistra, di "interferenza russa" in quanto accaduto negli ultimi 2 giorni in Parlamento. "Non abbiamo prove - premette Nordio - ma le coincidenze sono diventate indizi gravi, precisi e concordanti". Parole clamorose, per diversi motivi. Primo fra tutti, perché Nordio è considerato dai retroscenisti e commentatori della politica italiana molto vicino a Fratelli d'Italia, il partito che da mesi chiede agli alleati Lega e Forza Italia di togliere la fiducia al governo di unità nazionale. Secondo, proprio Nordio è stato inserito da vari indiscreti nel novero del toto-ministri del possibile, futuro governo di Giorgia Meloni, favorita per Palazzo Chigi con l'appoggio (più o meno lieto) di Matteo Salvini e Silvio Berlusconi.
"Sono rimasto inorridito dalle parole di Berlusconi e Salvini che rappresentavano una sorta di endorsement a Putin. L'aggressione russa all'Ucraina è folle, criminale e ingiustificata, e sarebbe inammissibile un governo che non sostenesse, in politica estera, la linea di Draghi, ovvero un sostegno all'Ucraina senza se e senza ma", incalza Nordio, il "ministro della Giustizia" in pectore di un "governo Meloni".
Si intrecciano di nuovo, dunque, le pulsioni anti-guerra e la realpolitik di governo. Peraltro, va detto per non generarle ulteriori equivoci, Fratelli d'Italia si è subito schierata senza se e senza ma con la fornitura di armi italiane a Kiev in una chiave pienamente atlantica e filo-Nato. Un problema che, probabilmente, si potrebbe riproporre anche nel caso il centrodestra andrà al governo.
«Non capisco Berlusconi. La fine di questo esecutivo è opera del putinismo». Intervista a un ex "colonnello" del Cavaliere, che critica la scelta di far cadere il Governo Draghi. «Silvio ha perso l'occasione per riaffermarsi come leader politico moderato». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 22 luglio 2022.
Fabrizio Cicchitto, ex colonnello berlusconiano e presidente di Riformismo& Libertà, giudica «incomprensibile» la scelta di Forza Italia di non votare la fiducia a Draghi, spiega che «un’area di centro draghista come ispirazione si può formare, anche a causa della incredibile perdita di peso per l’Italia dopo questo disastro» e sulla fine del campo largo è netto: «la razionalità vorrebbe che l’alleanza Pd- M5S sia ormai tramontata, ma tra la razionalità e la realtà, purtroppo, spesso c’è differenza».
Presidente Cicchitto, che idea si è fatto della crisi di governo?
Abbiamo assistito a un atto di assoluta follia, irrazionalità e nichilismo. In questo momento gravano una serie di questioni già di per sé terribili: la pandemia non si è risolta, la guerra è tuttora in corso, ci sono inflazione e il rischio recessione. Per questo Draghi garantiva a tutti, destra, centro e sinistra, una guida forte e sicura. E in più era un ombrello per l’Italia, nel senso che le condizioni del debito pubblico e della scarsa qualità della classe dirigente sono chiare a tutta l’Europa, che a sua volta non brilla. Un’Italia che distrugge questo ombrello perde credibilità in Europa e nel mondo.
C’è chi dice che a Mosca si festeggia: pensa anche lei che ci sia un legame tra la crisi di governo e il regime di Putin?
Se vogliamo leggerla con una qualche intonazione globale, questa crisi comporta come dato oggettivo la scomparsa dell’Italia dal quadro internazionale e il fatto che si sono mosse in modo convergente per arrivare a questo risultato tre forze fortemente indiziate dal punto di vista dello inesistente o scarso atlantismo, scarso o inesistente europeismo e significativo putinismo, la dice lunga. Vale per Conte, vale per Salvini, per il quale c’è un’intera bibliografia che prova quanto sia profondo il suo putinismo, e vale per certi aspetti anche per Berlusconi.
Proviamo ad analizzare cosa ha mosso il comportamento di questi tre leader, a partire da Conte.
Conte è una monade impazzita da parecchio tempo e per analizzare le sue mosse ci sono due ipotesi. La prima è che sia animato da un folle spirito di vendetta contro l’usurpatore Draghi, accentuata dalla frequentazione con quell’anima nera di Travaglio. La seconda ipotesi è che abbia un riferimento internazionale ben preciso, tanto che una delle prime questioni poste a Draghi riguardava le armi inviate all’Ucraina. L’unico scopo della sua politica ormai da settimane era far cadere il governo Draghi. Da un certo punto in poi il Pd non ha più controllato Conte e lui è andato in libera uscita.
Ed è stato poi accompagnato da Salvini e Berlusconi. Pensa che Salvini guadagnerà da quanto accaduto?
Salvini è mosso da avventurismo e putinismo. Ha voluto mettere di fronte a un fatto compiuto tutta la vasta area della Lega che era contrarissima alla crisi. Ha paura della Meloni, ha capito che bisognava cogliere al volo qualunque occasione per tirarsi fuori da questa situazione e Conte gli ha servito un assist formidabile. E questo dimostra la nequizia di Conte. Gli ha consentito un colpo di mano che tuttavia va contro il Nord, il mondo imprenditoriale e le associazioni di categoria.
Rimane Berlusconi, che lei conosce bene. Cosa l’ha spinto a non votare la fiducia a Draghi?
Il comportamento di Berlusconi è il meno comprensibile. Aveva una straordinaria occasione per riaffermarsi come leader politico moderato e liberale del centrodestra, bloccando Salvini e prendendo in mano la situazione. Invece si è schiacciato totalmente sulla Lega e ha determinato lo sfascio complessivo del quadro. Non esiste più il centrodestra, ci sono due destre in concorrenza più un appendice di centro opaca e che sta perdendo colpi. Si riaffacciano figure come Tremonti, che aveva un solo scopo nella vita, cioè quello di far fuori Berlusconi e prenderne il posto ma gli è andata male per una questione di sillabe: invece di Tremonti venne fuori Monti.
E così il sostegno a Draghi è arrivato soltanto da Pd più la galassia centrista. Pensa che da qui possa nascere un terzo polo in vista del voto?
Un’area di centro draghista come ispirazione si può formare, anche a causa della incredibile perdita di peso per l’Italia dopo questo disastro. Tale scenario può essere alimentato anche da figure come Gelmini, Brunetta e Carfagna, e ne possono fare parte anche i vari Toti e Quagliariello. Insomma tutta quella galassia che con Draghi al governo aveva uno spazio relativo, mentre con Draghi colpito e affondato può ergersi a paladina del draghismo. Il punto è se viene meno il complesso napoleonico tra Renzi e Calenda. Bisogna capire se, di fronte all’idea di elezioni anticipate riescono a mettersi d’accordo. Il paese è molto preoccupato, bisognerà anche vedere la reazione dei mercati e dello spread che al momento non è positiva.
Come giudica il comportamento del Pd in questa crisi e nell’ultimo periodo?
I compagni del Pd, che hanno nel loro retaggio storico un Pci esperto in vigilanza rivoluzionaria, ne hanno avuta zero. Hanno scelto come alleato fondamentale Conte, tanto che la parte più a sinistra del Pd l’aveva presentato come punto di riferimento del polo progressista. Addirittura a guai in corso Bettini è arrivato a dire che Conte ha posto seri problemi di natura sociale senza provocare la crisi di governo. Uno che dice una cosa del genere significa non solo che sta in Thailandia, ma che ci sta senza leggere i giornali o guardare le televisioni.
Ieri però Letta ha detto che il campo largo è finito. Che ne pensa?
La razionalità vorrebbe che l’ipotesi del campo largo sia ormai tramontata, ma tra la razionalità e la realtà, purtroppo, spesso c’è differenza.
Da liberoquotidiano.it il 21 luglio 2022
Strano ma vero, Edward Luttwak si scaglia contro Matteo Salvini e Silvio Berlusconi. L'economista statunitense non ha apprezzato la crisi di governo e le conseguenti dimissioni di Mario Draghi. Il suo timore è che di questa instabilità possa trarre vantaggio il Cremlino. "Visto in TV Draghi in piedi con Di Maio alla sua sinistra e Guerini sulla sua destra -la squadra che ha tenuto l'Italia nel patto Atlantico con (piccole) forniture di armi all'Ukraina. Contro ci sono gli amici di Putin: Berlusconi, Conte, Salvini + i "Pacifisti", inutili".
Insomma, il tweet è chiarissimo e Luttwak prende una netta posizione contro Forza Italia, la Lega e il Movimento 5 Stelle che a suo dire hanno messo il presidente del Consiglio alla porta. Lo stesso premier che ha concesso l'invio di armi al Paese invaso dalla Russia. D'altronde la teoria del politologo in fatto di rifornimenti non è mai stata un mistero.
"Ci sono due possibilità - scriveva settimane addietro -: o i Paesi occidentali mandano uomini, forze terrestri, in Ucraina, o l'esercito ucraino deve arrendersi. C'è anche la possibilità di inviare volontari addestrati, molti danesi e finlandesi stanno ad esempio andando a combattere con gli ucraini. Ormai le armi richieste, efficaci e sofisticate, stanno arrivando in Ucraina, ma mancano gli uomini".
E non era da meno contro coloro che sull'invio di armi la pensavano diversamente: "I veri amici della Russia sono nemici dei dittatori Russi. Coloro che difendono l'aggressione, quelli che vogliono sabotare gli aiuti a chi si difende". Da qui lo sfogo anti-Conte, Salvini e Berlusconi.
5S filo Putin? Se Di Maio sa parli, o taccia per sempre. «Non è un caso che il governo sia stato buttato giù da due forze politiche che strizzano l’occhiolino a Vladimir Putin», dice il titolare della Farnesina. Che forse deve qualche spiegazione ai cittadini prima di tuffarsi così nella campagna elettorale estiva...Rocco Vazzana su Il Dubbio il 22 luglio 2022.
«Non è un caso che il governo sia stato buttato giù da due forze politiche che strizzano l’occhiolino a Vladimir Putin». Da un mese esatto, da quando cioè ha lasciato il Movimento 5 Stelle e abiurato alla sua storia, Luigi Di Maio non pensa ad altro che ad attaccare quello che lui definisce il “partito di Conte”. Normale, dunque, che continui a martellare contro i suoi ex colleghi «irresponsabili» nel giorno delle dimissioni irrevocabili di Mario Draghi che segnano, inevitabilmente, l’imminente fine della sua esperienza al ministero degli Esteri.
Solo che Luigi Di Maio, tecnicamente, alla Farnesina siede ancora e, visto l’aplomb istituzionale che si è cucito addosso, farebbe bene a evitare di lanciare accuse di “intelligenza col nemico” russo nei confronti di un partito politico italiano. A meno che non abbia prove inequivocabili di possibili relazioni pericolose tra il Movimento 5 Stelle e il Cremlino. Ma anche se le avesse, Di Maio dovrebbe fornire qualche spiegazione in più ai cittadini prima di lanciare accuse e tuffarsi così nella campagna elettorale estiva. Perché il leader di “Insieme per il futuro” non è solo a capo di un ministero importante da cui potrebbero passare informazioni sensibili su possibili alle “interazioni” tra Putin e la politica italiana, è anche stato a capo di quel partito, il Movimento 5 Stelle, contro cui oggi punta il dito. Di Maio, dunque, dall’alto del suo osservatorio più che privilegiato sul grillismo, sa qualcosa su cui gli elettori dovrebbero essere informati? E se sì, perché ne parla solo ora e non ha denunciato prima, quando era il numero uno dei 5S, eventuali comportamenti opachi del suo ex partito? «Io ho fatto una battaglia interna al Movimento per collocarlo dalla parte giusta della storia, della Nato e dell’Unione europea», si limita a dire adesso, dopo aver sganciato l’ennesima “bomba” Di Maio. «Quando ho visto che non era più possibile me ne sono andato». Ma il Di Maio che oggi accusa Conte è lo stesso Di Maio che in epoca giallo-verde firmava con Xi Jinping il memorandum di adesione dell’Italia alla “Nuova via della seta” mandando su tutte le furie l’alleato d’oltreoceano? O è lo stesso Di Maio che nel febbraio del 2019 – con le mostrine di vice premier, ministro dello Sviluppo economico, ministro del Lavoro e capo politico del M5S – si scagliava pubblicamente contro le sanzioni a Mosca? Un errore contro cui «ci battiamo e ci batteremo, non perché siamo filorussi o filoamericani, ma perché siamo filoitaliani», diceva non troppo tempo fa, quando ancora, evidentemente, non aveva trovato l’uscita per la «parte giusta della storia». Ora che il ministro ha imbocatto un nuovo percorso e cambiato legittimamente idea su molte cose, non cada però nel vecchio vizio populista di attaccare gli avversari con allusioni e insulti gratuiti. Se Di Maio sa che Conte, o chi per lui, ha intrattenuto rapporti di qualche tipo con Mosca parli. E spieghi. Oppure farebbe bene a tacere.
Anna Zafesova per “La Stampa” il 22 luglio 2022.
«Per la Russia, l'Italia è un Paese sovrano e indipendente, che non dovrebbe dipendere da nessuno»: la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova abbandona i suoi tradizionali toni polemici per commentare la crisi di governo in Italia con apparente distacco.
Nessun commento sferzante, «l'operato del governo Draghi dovrebbe essere valutato dagli italiani», dice la portavoce della diplomazia russa, rispondendo a una domanda sulle eventuali influenze di Mosca nel voler destabilizzare un Paese importante della Unione Europea e della Nato.
Mario Draghi era stato più che esplicito nel chiedere, nel suo discorso al parlamento, di «bloccare le interferenze russe nella nostra politica e nella nostra società», ma Zakharova non contrattacca a questa accusa, mostrandosi stupita «per la necessità interna di spiegare quello che succede con fattori esterni». Subito dopo però arriva una frecciatina caustica: «Se l'Italia non viene considerata sovrana altrove, questo non ha nulla a che fare con la Russia».
La parola chiave qui è «sovrana», utilizzata nello stesso senso in cui la utilizzano i sovranisti, con una allusione abbastanza esplicita ai rappresentanti delle forze politiche antieuropeiste che ritengono l'impegno euroatlantico dell'Italia una «schiavitù».
Zakharova però nega che la Russia nutra simpatie e preferenze: «Non sosterremo alcun partito nelle elezioni italiane, come invece fanno Usa e Ue», dice, per poi dichiarare come priorità del rapporto con l'Italia «lo sviluppo di una vantaggiosa cooperazione».
Un altro messaggio, stavolta ai «pragmatici» che chiedono di togliere le sanzioni alla Russia per non penalizzare il Made in Italy. L'incremento dell'erogazione del gas russo all'Italia il giorno dopo la caduta del governo Draghi potrebbe essere una coincidenza come un segnale più che chiaro sui vantaggi che potrebbe avere un Paese europeo che, come minimo, si ritira dalla prima linea della solidarietà occidentale con l'Ucraina.
L'ex presidente Dmitry Medvedev, ormai la voce più aggressiva della propaganda russa, ieri ha scritto un post sugli «europei comuni che soffriranno un freddo terribile nelle loro case», e sui loro leader «stupidelli» che sarebbero stati «ingannati cinicamente»: un riassunto sprezzante dell'idea più volte espressa dal Cremlino che lo scontro globale si svolge tra Russia e Usa, e che gli europei sono soltanto pedine.
Lo stesso Medvedev qualche giorno fa aveva pubblicato le foto di Boris Johnson e di Mario Draghi con accanto una sagoma nera con il punto interrogativo, e i canali Telegram dei politologi e blogger filoputiniani esultano per la «caduta dei governi occidentali», per «i codardi che scappano» per non pagare le conseguenze della guerra, e per la «rottura della prima coalizione pro-Ucraina dell'Europa. Aleksandr Dughin, l'ideologo del nazionalismo estremo russo che aveva teorizzato una «rivoluzione conservatrice» degli europei contro il «liberalismo americano», annovera Draghi tra i «leader russofobi» già caduti vittime della loro presa di posizione.
C'è chi si chiede se il prossimo sarà Macron o Scholz, o fa altri commenti che mostrano innanzitutto la fondamentale incomprensione di molti esperti russi dei meccanismi della politica occidentale, e in particolare di una democrazia parlamentare intricata come quella italiana.
Sui social girano anche filmati di manifestazioni oceaniche di «italiani che festeggiano le dimissioni di Draghi» (a giudicare dalla quantità di bandiere italiane, il filmato risale a qualche celebrazione per una vittoria della nazionale di calcio) e altri fake simili.
Il boomerang della propaganda colpisce i propagandisti stessi, e la tv di Stato che martella tutti i giorni i russi con reportage sugli «europei disperati caduti in miseria» e «un inverno in cui gli occidentali dovranno scegliere se mangiare o scaldarsi» alla fine li convince, e li aiuta a creare una retorica che potrebbe venire esportata massicciamente nella campagna elettorale.
Il politologo dissidente Ivan Preobrazhensky avverte che dall'Italia potrebbe arrivare un problema che «tutta l'Ue dovrà affrontare già nelle prossime settimane: come gestire i populisti, i neofascisti e gli amici di Putin».
I tanti brindisi a Mosca e lo sconcerto di Washington. Roberto Fabbri su Il Giornale il 21 luglio 2022.
La principale reazione che arriva da oltre confine alla caduta del governo Draghi è di sconcerto. Doveva essere l'esecutivo affidato a un fuoriclasse e sostenuto da tutti per salvare l'Italia e invece è caduto come un qualsiasi Fanfani VII balneare della Prima Repubblica. Come se la politica italiana non fosse in grado di capire cosa c'è realmente in gioco. Da Bruxelles e Washington ci si sforza di dominare la stupefazione, ma rimane la sostanza dell'accaduto: non è stato solo Conte a far cadere Draghi, ma anche una scelta decisiva nei numeri da parte del centrodestra. Scelta che non molti si aspettavano, oltrefrontiera, e che nessuno comprende.
Il commissario italiano Ue all'Economia Paolo Gentiloni prima spara a zero («Il balletto degli irresponsabili contro Draghi può provocare una tempesta perfetta»), poi ricorre ai toni del patriottismo: «Ora è il tempo di voler bene all'Italia: ci aspettano mesi difficili, ma siamo un grande Paese». Sui giornali francesi e inglesi i toni sono di asciutta perplessità: «Tre partiti negano la fiducia a Draghi», titola il Figaro, mentre il Guardian sceglie una foto di Draghi affranto e spiega che «Il premier italiano fallisce il tentativo di rianimare il suo governo».
Da Washington arrivano i commenti tipici della benevola potenza imperiale. «Non esprimiamo pareri sulle questioni politiche interne dice un portavoce della Casa Bianca - , gli Stati Uniti rispettano e sostengono il processo costituzionale italiano. L'Italia è uno stretto alleato, la nostra partnership forte è fondata sui valori condivisi della democrazia, dei diritti umani e della prosperità economica. Continueremo a lavorare insieme a stretto contatto su varie importanti priorità, compreso il sostegno all'Ucraina contro l'aggressione da parte russa».
Il quotidiano Washington Post è meno diplomatico: «Il governo italiano si è spaccato tra i rancori. La giornata che era iniziata con Draghi che sarebbe potuto restare alla guida del governo si è conclusa tra le recriminazioni, con divisioni sempre più profonde e con la quasi certezza di elezioni in autunno che favoriranno un gruppo di partiti di centro e di estrema destra». Per il quotidiano della capitale Usa «a questo punto il futuro dell'Italia potrebbe essere molto diverso: è molto probabile che il prossimo governo metta insieme partiti nazionalisti e di centrodestra compresi alcuni che hanno avuto posizioni euroscettiche e filorusse».
Anche il Washington Post nota che nei giorni scorsi alcuni politici vicini a Draghi avevano avvertito che la crisi italiana faceva il gioco di Putin. E questa polemica è continuata anche ieri, mentre il governo italiano collassava, tra i portavoce dei ministeri degli esteri russo e italiano. La signora Maria Zakharova ha preso di mira il nostro ministro Luigi Di Maio, ridicolizzandolo perché «alla ricerca di cause esterne in Russia per i fallimenti del suo governo». «Siamo stupefatti ha detto la portavoce di Sergei Lavrov -. A leggere i giornali italiani i nostri ambasciatori avrebbero il potere di cambiare i governi occidentali con un paio di telefonate»: chiaro il riferimento alle accuse rivolte a Conte di servire gli interessi di Mosca. Il portavoce di Di Maio ha replicato che ancor prima dell'inizio di questa crisi di governo qualcuno a Mosca non ha fatto altro che intervenire nel nostro dibattito politico interno, con continue e gravi ingerenze».
Calenda: "Il governo è stato cacciato dai filo-Putin". Huffpost il 20 Luglio 2022.
Il leader di Azione ha twittato, postando le foto di Conte e Berlusconi in compagnia del presidente russo Putin e del leader leghista Salvini con indosso la nota maglietta col ritratto del numero uno del Cremlino.
"Sarà un caso, ma il governo più serio e atlantista della storia recente viene mandato a casa da tutti quelli che hanno sostenuto posizioni filoputiniane. Sarà un caso". Lo scrive su Twitter il segretario di Azione Carlo Calenda, corredando il post con le foto di Conte e Berlusconi in compagnia del presidente russo Putin e del leader leghista Salvini con indosso la nota maglietta con il ritratto del numero uno del Cremlino.
A pronunciarsi via social giunge anche il politologo americano Edward Luttwak, che tweetta: "Visto in tv Draghi in piedi con Di Maio alla sua sinistra e Guerini sulla sua destra, la squadra che ha tenuto l'Italia nel patto Atlantico con (piccole) forniture di armi all'Ucraina. Contro ci sono gli amici di Putin: Berlusconi, Conte Salvini + i "Pacifisti", inutili".
Gli «storici» rapporti tra Putin e i politici italiani. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 24 febbraio 2022.
La galassia di amici e simpatizzanti del presidente russo Vladimir Putin è storicamente vasta e trasversale: ecco le diverse posizioni, da destra a sinistra.
Lunedì mattina, un signore brevilineo con loden verde, sigaro e occhiali scuri passeggiava in via Turati a Milano.
Nulla di strano, se non fosse che rivedere dopo qualche mese l’inconfondibile figura di Gianluca Savoini è un corto circuito che in un secondo riallaccia i fili: l’hotel Metropol di Mosca, gli oligarchi delle società petrolifere, i servizi segreti, le foto sulla piazza Rossa di Mosca dell’ex presidente dell’associazione Lombardia-Russia abbracciato con Matteo Salvini.
E poi, il Donbass, i venti di guerra in Ucraina. E appunto Salvini, a Strasburgo, con la maglietta di Putin, che postava sui social: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!».
Quello dei filo-putiniani italiani è storicamente un partito trasversale, che attraversa gli schieramenti da sinistra a destra, con motivazioni diverse.
Partito di simpatizzanti o di pragmatici, che sarà messo duramente alla prova (e magari cambierà linea o rinnegherà certe posizioni del passato) di fronte aifolli bombardamenti di Kiev.
In un libro pubblicato dalla Columbia University Press (ne parla Linkiesta) si dividono in due categorie i filo putiniani: i neo-euroasianisti e i Russlandversteher.
I primi, normalmente schierati a destra, vedono nel regime sovietico un modello sociale e politico da imitare e contestano Nato e Ue da posizioni ultra nazionaliste e sovraniste.
Più numeroso il gruppo dei Russlandversteher, termine che si può tradurre con «simpatizzanti». Che hanno una posizione pragmatica, con solidi agganci storici. È la posizione che oggi potremmo riassumere nello slogan (che riecheggia l’antico «Morire per Danzica?»): «Morire di freddo per l’Ucraina?».
Quanto, cioè, siamo disposti a cedere, in termini di potere economico e di costi provocati dalla mancanza del gas russo, pur di difendere il popolo ucraino?
La ragion pratica degli affari ha guidato molti in passato. Si è fatta prevalere la convergenza degli interessi sulla fermezza nei principi. Secondo i simpatizzanti filorussi, i veri nemici dell’Occidente sono la Cina e l’Islam (radicale, ma anche no). Gli autori della parte italiana del saggio, Luigi Germani e Massimiliano Di Pasquale, ricordano che il 24 ottobre del 1909 Vittorio Emanuele III e Nicola II firmarono a Racconigi un’alleanza tra Italia e impero zarista. Le relazioni tra Italia fascista e Urss restarono sempre floride. Il regime enfatizzò le malefatte dei comunisti in Spagna, ma tacque sull’Holomodor («sterminio per fame»), il genocidio di milioni di ucraini uccisi dalla carestia provocata dalla collettivizzazione forzata.
Ma quali sono i politici attuali simpatizzanti e filo putiniani? Vediamoli, partito per partito.
Lega
La fascinazione leghista è quella verso l’uomo forte, virilmente autoritario, sbrigativo (o peggio) con la dissidenza.
Il primo storico simpatizzante, lo abbiamo visto, è Matteo Salvini. Che in questi giorni ha espresso posizioni «pacifiste» (panciafichiste, si sarebbe detto nella prima guerra mondiale), frenando sulle sanzioni (ma questa mattina ha «condannato con fermezza ogni aggressione militare», auspicando «l'immediato stop alle violenze»).
Nel 2018, a Mosca, disse: «Mi sento più a casa qui che in Europa».
Savoini fu l’ufficiale di collegamento tra la Lega di Umberto Bossi (filo serba ai tempi del Kosovo) e Aleksandr Dugin, analista politico russo legato al Cremlino, noto per le sue opinioni scioviniste e fasciste. L’ex parlamentare «destro» Mario Borghezio è sempre stato filo putiniano: «Putin difende lo spazio vitale della Russia di fronte alla manovre della Nato». Spazio vitale, un caso probabilmente l’uso di questo termine. Ma spazio vitale è il «lebensraum», termine usato da Hitler nel suo Mein Kampf per intendere i territori dell’Europa orientale germanofoni. Stefania Pucciarelli, sottosegretaria leghista alla Difesa, ribalta gli argomenti di chi critica il «Capitano»: «Semmai, i buoni rapporti di Salvini con la Russia possono essere un elemento che agevola un dialogo positivo tra Roma e Mosca».
L’onorevole Luca Paolini, riferisce sul Foglio Valerio Valentini, chiarisce da che parte sta: «La verità è che siamo una colonia americana. Biden imporrà sanzioni e a pagarne le conseguenze saremo noi». Il deputato veronese Vito Comencini, tra passione e politica (ha sposato la russa Natalia Dandarova) coltiva rapporti stretti con la Crimea e con il Donbass.
Solo i bombardamenti hanno provocato un soprassalto nella Lega. E ieri Matteo Salvini ha annunciato che non rinnoverà l’accordo di cooperazione siglato il 6 marzo del 2017 tra l’allora Lega Nord e Russia Unita, il partito di Putin.
Movimento 5 Stelle
Il grillo-leghismo vede da sempre la Russia come un punto di riferimento e la Nato come un intralcio (anche se questa mattina il leader M5S Giuseppe Conte ha espresso «Ferma condanna per l'attacco russo che precipita la situazione e allontana ogni soluzione diplomatica»).
Vito Petrocelli, presidente della commissione Esteri del Senato, è putiniano doc e non ha cambiato posizione. Definisce «immonda» la «propaganda» degli Stati Uniti e dice: «Le ragioni non stanno affatto tutte dalla parte dell’Occidente e di Kiev».
Il dualismo Conte-Di Maio raggiunge vette notevoli anche in politica estera. Il ministro degli Esteri è saldamente filo atlantico (per convenienza o convinzione), l’ex premier ha invece flirtato con Alessandro Di Battista, filo putiniano a oltranza. L’altra sera sono andati a cena insieme e hanno certamente affrontato l’argomento. Del resto Di Battista è stato chiaro: «La Russia non sta invadendo l’Ucraina. Giustamente chiede garanzie sulla sua neutralità. Un’entrata di Kiev nella Nato sarebbe una minaccia inaccettabile». Sembra di sentir parlare Vladimir, con accento di Roma nord.
Come non ricordare anche Manlio Di Stefano, che nel 2016 definiva l’Ucraina «uno Stato fantoccio della Nato (Usa e Ue)». Per lui, nel 2014 in Ucraina ci fu «un colpo di Stato» che mandò al potere «un governo composto da convinti neo-nazisti e dalla peggior tecnocrazia finanziaria internazionale». Di Stefano si opponeva, come tutto il Movimento, alle sanzioni per l’annessione della Crimea e partecipava volentieri ai congressi di Russia unita, il partito di Putin. Ora è sottosegretario agli Esteri e si è allineato. Non è dato sapere se abbia cambiato idea o se rimanga sottotraccia per necessità. Certo è che, in quella posizione, non rappresenta in modo plastico la linea politica del governo Draghi.
Forza Italia
«L’amico Putin». La frase è entrata nel lessico comune e dà conto dei rapporti vantati da Silvio Berlusconi quando era presidente del Consiglio. Anche visivamente ci si ricorda bene di un Cavaliere in colbacco, nella dacia sul mar Nero di Vladimir, che lo ha ospitato spesso: ma «non ci sono stati contatti» tra i due nelle ultime, drammatiche ore.
Ad accompagnarlo nei suoi viaggi era di solito Valentino Valentini, deputato di Forza Italia, che nel 2005 fu insignito dal leader russo dell’Ordine di Lomonosov. Poi c’è Franco Frattini, che ha pagato con l’esclusione da una candidatura al Quirinale le sue posizioni filorusse. Il presidente del Consiglio di Stato, ex ministro degli Esteri, vantava «ottime relazioni» con le autorità russe. E fu lui a firmare l’accordo tra la Link di Vincenzo Scotti e l’università di Mosca . Frattini viene insignito della docenza onoraria all’Accademia diplomatica del ministero degli Esteri della Federazione russa. E nel 2018 garantisce per Giuseppe Conte davanti al ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov.
Sinistra e Pd
Romano Prodi non è certo sospettabile di atteggiamenti ostili agli Stati Uniti, alla Nato e all’atlantismo. Ma è anche un politico pragmatico. Tanto che qualche giorno fa a Piazza Pulita ha detto: «Draghi alzi il telefono e chiami Putin per fare un accordo con la Russia». Il motivo lo spiegava così: «Per anni abbiamo ricevuto il gas prima dall’Unione Sovietica e poi dalla Russia con contratti a lungo termine che favorivano i russi ma che in fondo ci davano sicurezza. Poi abbiamo preferito il libero mercato che all’inizio ci ha favoriti ma adesso ha dato il manico del coltello nelle mani di Putin».
Prodi spiega che «noi siamo diversi dagli altri, è questo che dobbiamo capire. L’Italia nel gas è particolarmente vulnerabile». E quindi serve (o almeno serviva, prima dei bombardamenti di Kiev) una realpolitik , un’intesa cordiale con Putin, anche se nel frattempo sta invadendo l’Ucraina e l’Occidente minaccia sanzioni. Il Giornale lo ha prontamente paragonato a Salvini: «Se chiamano lui putiniano, che chiede il dialogo, perché non Prodi?».
Nel 2018, Putin disse: «In Italia ho ottimi rapporti personali con Berlusconi e Prodi».
Nel 2015, intervistato da Aldo Cazzullo, Prodi spiegò: «Se l’obiettivo è portare l’Ucraina nella Nato, allora crei tensioni irreversibili». Alla domanda in cui gli si faceva notare l’accusa di essere «troppo morbido con Putin», rispose: «Duro o morbido non sono concetti politici. Puoi essere duro se ti conviene, o morbido se ti conviene; non puoi fare il duro se te ne vengono solo danni. Isolare la Russia è un danno».
Inutile dire che, all’estrema sinistra, Rifondazione comunista dice «no alla guerra in Ucraina e all’espansionismo della Nato» e no «alle forze etno-nazionaliste collaborazioniste con il nazismo».
E Matteo Renzi (nel board della società russa di car sharing Delimobil)? Fino ad oggi aveva parlato poco della vicenda, poi (oggi) sono arrivate le dimissioni da Delimobil e la condanna: « Inaccettabile l'attacco russo in Ucraina. L'Italia sia come sempre al fianco di Europa e Stati Uniti in nome della libertà e dei valori».
“Colpa dei sovranisti pagati da Putin”. La folle teoria di Annunziata su Draghi. Claudio Romiti su Nicolaporro.it il 25 Luglio 2022
La Rai servizio pubblico si arricchisce di un’altra perla sul piano di una informazione equilibrata. Artefice di questa straordinaria performance, che se stessimo negli States meriterebbe la candidatura al premio Pulitzer, è Lucia Annunziata, conduttrice di Mezz’ora in più, in onda la domenica pomeriggio su Rai3.
Durante la lunga intervista a Enrico Letta, la giornalista Campana ha tentato di fornire in imbarazzante assist al segretario dem, proponendogli una versione di natura complottistica della caduta del governo di larghe intese guidato dall’ex presidente della Bce.
Questo il suo stupefacente intervento: “Io penso che Draghi non poteva assolutamente stare con un governo che diventava non solo in parte, ma della parte che in Europa sollevava più problemi. E non sono tanto gli uomini di Conte, quanto gli uomini di Salvini. Io credo, detto in sintesi per i nostri telespettatori (sigh), dietro il grande tema di questa rottura. E lui (Draghi) un passaggio lo ha fatto nel suo discorso, citando chi ha tentato di rompere la nostra opposizione a Putin, dentro questa storia c’è ancora, secondo me, il tema internazionale del fronte sovranista che è stato pagato e ha appoggiato Putin. È stato pagato prima, perché questo lo sappiamo, ed ha appoggiato Putin prima contro l’Europa e adesso sulla questione della guerra.”
Ovviamente, chiamato dalla stessa conduttrice ad esprimere un parere su codesta sua strabiliante analisi geopolitica in stile caciottaro, il buon Letta ha cercato di salvarsi in calcio d’angolo con un complicato giro di parole. In pratica, sostanzialmente smentendo la tesi fantascientifica della sua intervistatrice, il leader del Pd si è limitato a dire che indubbiamente i russi avranno stappato la vodka per festeggiare la caduta di Draghi, ma aggiungendo che sono altre le ragioni che hanno condotto quest’ultimo a rassegnare le dimissioni.
Ora, al di là delle usuali sgrammaticature tipiche di Lucia Annunziata, è stupefacente che un osservatore ben pagato coi quattrini del contribuente possa permettersi il lusso di sparare ipotesi tanto surreali, quanto maldestramente finalizzate a demonizzare ancora una volta i cattivoni della destra italiana, presunti sodali del cattivone mondiale per antonomasia, ovvero Vladimir Putin l’autocrate.
In questo senso delle due l’una: o la nostra, in una campagna elettorale che si prospetta piuttosto infuocata, ha voluto portare il suo non richiesto contributo alla causa di una sinistra confusa e perennemente alla ricerca del suo introvabile centro di gravità, oppure ella crede seriamente all’ipotesi delirante di un Draghi che compie l’harakiri politico per non consegnare il Paese all’orso russo.
Un quest’ultimo caso mi sentirei di consigliare sommessamente alla signora Annunziata di farsi vedere, ma da un professionista molto bravo. Claudio Romiti, 25 luglio 2022
Quelli che tifano per Putin in Italia. Angelo Panebianco su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.
Forse solo i 5 Stelle assumeranno una posizione chiara pro-Putin, soprattutto se avrà un ruolo di rilievo Alessandro Di Battista. Altri prenderanno posizioni meno esplicite, ma altrettanto preoccupanti.
Nella campagna elettorale italiana c’è un convitato di pietra, Vladimir Putin. Sicuramente grato a coloro che hanno tolto di mezzo quello che considerava un suo inflessibile nemico (Draghi), il quale, per giunta, in virtù del proprio prestigio personale, era molto influente nello schieramento occidentale. Putin, presumibilmente, si aspetta dalle elezioni italiane l’uno o l’altro di due esiti. O un’Italia resa instabile dal voto o la vittoria di uno schieramento nel quale abbiano peso e responsabilità partiti che gli sono amici o, comunque, non ostili. Entrambi gli esiti farebbero comodo alla Russia.
In condizioni completamente mutate stiamo per assistere (anzi, per partecipare) a una nuova edizione delle elezioni del 18 aprile 1948. Anche oggi, come allora, l’Italia è chiamata a fare una scelta di campo. Ma con la fondamentale differenza che allora il campo occidentale era dotato di una fortissima leadership in grado di dare compattezza al suo sistema di alleanze nel confronto con l’Unione Sovietica mentre oggi il campo è pieno di buche, malmesso, diviso. Per le ragioni che ha indicato Federico Rampini ( Corriere del 24 luglio).
L’ormai debolissimo Biden si avvia a diventare, dopo che, nelle elezioni di metà mandato, presumibilmente, avrà perso la maggioranza al Congresso, una «anatra zoppa». Molti ipotizzano che Putin stia aspettando proprio quel momento per trattare con gli occidentali, da una posizione di forza, il futuro dell’Ucraina. Macron non ha la maggioranza in un Parlamento pieno zeppo, a destra come a sinistra, di amici di Putin. Non è per caso che la putiniana Marine Le Pen si sia complimentata con i suoi sodali italiani per avere fatto cadere Draghi. La Germania è guidata da un debole cancelliere che non sa a che santo votarsi e, più in generale, da una classe dirigente che non ha ancora deciso che cosa il proprio Paese debba fare da grande. Una Germania debole significa, in prospettiva, una Unione europea tendenzialmente allo sbando. Per inciso, è inutile continuare ad invocare, in questa fase, un’Unione politicamente forte, un esercito europeo, e tutti i soliti argomenti del repertorio «europeisticamente corretto». Nulla di tutto ciò ci sarà mai se prima l’Europa non avrà affrontato e risolto i suoi problemi di leadership. Per ora, e per il futuro prevedibile, ciò non sembra possibile. Anzi, bisogna dire che, date le difficili condizioni in cui opera, l’Unione stia facendo del suo meglio per proteggere i suoi affiliati dalle turbolenze in atto. Alle suddette difficoltà dell’Occidente possiamo anche aggiungere la presenza di una quinta colonna di Putin entro l’Unione europea (Orbán) e di una Turchia che resta nella Nato solo perché si tratta di una carta, fra le molte che usa, che le fa comodo ai fini della sua autonoma politica di potenza. Anche se e quando tale politica entra in conflitto con gli interessi occidentali.
Tutti coloro che pensano che quello occidentale sia il peggior mondo possibile esclusi tutti gli altri, si sono rallegrati quando, dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Nato si è di colpo rivitalizzata, i governi occidentali si sono ricompattati, Svezia e Finlandia si sono precipitate sotto l’ombrello militare occidentale. Si disse: Putin ha perso, scommetteva su un Occidente diviso e impotente, e invece lo ha rivitalizzato di colpo, gli ha dato una nuova «missione comune». Insieme ai cinesi, si disse, Putin dava per scontato che le deboli e decadenti democrazie occidentali avrebbero manifestato anche in questa occasione tutta la loro impotenza. A dimostrazione del fatto che, come Putin e i dirigenti cinesi pensano, il mondo futuro appartiene al potere autocratico, appartiene a loro. Bene, si pensò, è successo il contrario.
Forse abbiamo venduto troppo presto la pelle dell’orso. Gli elementi di debolezza delle democrazie su cui le grandi potenze autocratiche scommettono non sono una loro invenzione, esistono realmente. Le società aperte e libere occidentali sono vulnerabilissime. È anche vero che proprio i principii di libertà su cui si fondano sono il loro punto di forza: rendono il loro modo di vita più attraente di quello consentito dalle potenze autoritarie e generano una grande forza sia morale che economica, incentivando e aggregando le molteplici iniziative dei singoli. Ma anche le potenze autoritarie hanno, oltre che vistose debolezze, punti di forza, il principale dei quali è che non devono rendere conto a nessuno di crimini e misfatti. La partita è dunque apertissima e non è possibile sapere al momento chi saranno alla fine i vincitori e chi i vinti.
Torniamo alle faccende di casa nostra, alla campagna elettorale. Sappiamo già quasi tutto. Non si confronteranno «liberisti» e «statalisti» (il liberismo, se per tale si intende una politica alla Thatcher, non ha mai avuto corso in Italia). Ma modi diversi per amministrare la massiccia presenza dello Stato nell’economia e nella vita pubblica italiana. Ci sarà anche qualche flebile voce a favore della concorrenza (cruciale nella cosiddetta «agenda Draghi») a fronte di un tuttora potentissimo Paese dei «fasci e delle corporazioni»: tassisti e bagnini non sono affatto gli unici che beneficiano della possibilità di scaricare sui consumatori i costi delle proprie rendite di posizione. Forse l’Europa sarà presente nella campagna elettorale. Nel senso che tutti diranno di volere usare i fondi del Pnrr. Ma non tutti parleranno delle riforme (giustizia, Pubblica amministrazione e, appunto, concorrenza) necessarie per usufruirne.
Ci sarà un modo sicuro per sapere chi è schierato con chi, nel braccio di ferro planetario fra democrazie e autocrazie. Molti degli avversari di Draghi e che disapprovavano le sue scelte, cercheranno, durante la campagna elettorale, di parlare il meno possibile di politica internazionale. Si limiteranno a dire qualche banalità a favore della «pace», glissando sul fatto che la guerra non l’hanno voluta gli occidentali ma Putin. Si concentreranno invece sulle questioni interne ove è più facile mimetizzarsi. Faranno il possibile per non far capire agli elettori che c’è in ballo, prima di tutto, una scelta di campo.
Fra i nemici dell’alleanza occidentale, forse solo i 5 Stelle assumeranno una posizione chiara, esplicita, pro-Putin. Soprattutto se, nel confronto elettorale, avrà un ruolo di rilievo Alessandro Di Battista. Gli altri, alla domanda «Lei è d’accordo con la politica estera di Draghi?», risponderanno «Sì, ma». Dove il «ma» sta per «ma anche no». Con i ringraziamenti di Vladimir Putin.
Ombre russe sulla crisi. Augusto Minzolini il 16 Luglio 2022 su Il Giornale.
Dopo la mossa dei 5 Stelle Mosca esulta: il nuovo premier non sia filo Usa. Pressing di Washington per Draghi. Ue: Putin cerca di destabilizzare i governi.
Magari saranno solo congetture ma è più facile spiegare la folle crisi di governo italiana inquadrandola con il grandangolo della politica internazionale che non attraverso le lenti del cortile di casa nostra. Alla notizia delle dimissioni del nostro Premier al Cremlino hanno brindato, il «falco» Medvedev ha sfoderato il solito sarcasmo («dopo Johnson e Draghi chi sarà il prossimo?»), mentre l'ineffabile Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri Lavrov, ha auspicato «un nuovo governo non asservito agli interessi americani». Inutile dire che, invece, la Casa Bianca ha indossato il lutto. In fondo in Europa tra la debolezza di Macron e i calcoli di Scholz, Draghi è diventato un interlocutore privilegiato di Washington specie per la guerra in Ucraina. Per non parlare della Ue. Il portavoce di Ursula von der Leyen ha addirittura ammesso che «la Russia tenta di destabilizzare l'Unione e gli Stati membri».
Per cui la follia di Giuseppe Conte se per la politica interna può essere paragonata ad un mezzo suicidio, a livello internazionale ha una chiave di lettura. Nessuno può dimenticare i rapporti con Mosca dell'ex premier nel suo primo governo. Le ombre. E, alla prova dei fatti, il capo grillino ha commesso quel «draghicidio» tanto auspicato da Mosca che Matteo Salvini (da anni sospettato di aver ricevuto finanziamenti da Putin) non ha commesso. Per dire che «i fatti» alla fine rendono giustizia rispetto alle inchieste di qualche settimanale.
Vista in quest'ottica la pazza crisi è foriera di una serie di conseguenze di non poco conto. Può un partito, in questo caso i grillini, mettere in crisi un governo impegnato in prima fila, insieme agli alleati, in un drammatico confronto con la Russia senza pagarne dazio? Può essere considerato ancora affidabile? A queste domande dovrebbe rispondere innanzitutto Enrico Letta che lo ha scelto come alleato. È come se il Psi avesse messo in crisi all'epoca il governo guidato da Francesco Cossiga sugli euromissili. Per cui dopo una crisi provocata con tanta leggerezza (e incoscienza) si pone per Conte e i suoi una sorta di fattore «P» (Putin) che li rende poco raccomandabili per una maggioranza di governo. Una riedizione, riveduta e corretta, del fattore «K» (cioè il rapporto con il comunismo internazionale): la motivazione che tenne il Pci per decenni fuori dall'area di governo.
La verità è che Conte e i suoi non si sono resi conto del cambio di fase a livello internazionale, del ritorno di una nuova Cortina di ferro. E hanno giocato con il fuoco.
Di contro c'è un problema anche per un Mario Draghi che è molto restio a tornare sui suoi passi (a Palazzo Chigi l'ipotesi che va per la maggiore è una conferma delle dimissioni nel dibattito di mercoledì): se la crisi ha una sua valenza sullo scacchiere geopolitico, può il premier che ha caratterizzato la sua azione a Palazzo Chigi nel rapporto stretto con gli Stati Uniti abbandonare il campo, se da Washington gli fosse chiesto di restare? Sarebbe davvero complicato per un personaggio con la storia di Draghi, che è sempre stato attento ai segnali che arrivavano dal mondo anglosassone, dire di «no». Ecco perché più delle promesse dei partiti di governo, delle giravolte grilline, degli appelli alla responsabilità del Quirinale, nella mente di un Premier stufo non poco delle miserie della politica italiana, possono aprire un varco le valutazioni di carattere internazionale e i richiami dello zio Sam.
Feluche, toghe e barbe finte. Augusto Minzolini il 29 Luglio 2022 su Il Giornale.
Siamo tra i Paesi occidentali che si sono mostrati più solidali con l'Ucraina e ci vuole poco per rendersi conto che la nuova cortina di ferro non passa poi così distante da noi.
Premessa: il 16 luglio, per primi, aprimmo Il Giornale con il titolo fortunato «Ombre russe sulla crisi». Non bisogna essere dei Pico della Mirandola per intuire che con una crisi internazionale di queste proporzioni gli occhi del mondo sono puntati da mesi anche su di noi: siamo tra i Paesi occidentali che si sono mostrati più solidali con l'Ucraina e, visto che siamo tornati indietro di sessant'anni, ci vuole poco per rendersi conto che la nuova cortina di ferro non passa poi così distante da noi. Quindi ci attenzionano da Mosca, ma non solo. Motivo per cui bisogna muoversi con i piedi di piombo nelle congetture e nelle suggestioni. Altrimenti si rischia che questa campagna elettorale, già avvelenata di suo, sia condizionata da feluche straniere, barbe finte e immancabili toghe italiane.
Ora, tirare in ballo Matteo Salvini su Putin e sulla Russia purtroppo è diventato uno sport nazionale. La Stampa ieri ha scritto di un documento di intelligence che racconta l'aneddoto di un funzionario dell'ambasciata russa che durante i giorni della crisi avrebbe chiesto ad un personaggio che passa per essere un collaboratore del leader del Carroccio se la Lega fosse intenzionata a ritirare i suoi ministri dal governo. Il capo dei nostri servizi ha smentito l'esistenza di questa documentazione nei file degli 007 italiani. La Stampa ha confermato. Ora bisogna capire se quel dossier esiste, è attendibile e, nel caso, di quale intelligence si tratta. Se straniera o nostrana.
Il punto, però, non riguarda tanto la veridicità dei documenti, visto che in un momento del genere di «spy story» pullula il globo. Semmai, l'importante è non scambiare lucciole per lanterne per non rischiare di creare delle interferenze sul voto che in un secondo momento, conclusa la campagna elettorale, risultino del tutto false. In questo la sinistra è maestra, tant'è che ieri Enrico Letta si è presentato davanti alle telecamere per pronunciare il suo j'accuse contro Salvini, indossando i pantaloni di Le Carrè e la giacca di Ian Fleming.
La verità è che in questo caso c'è un dato che smentisce la ricostruzione degli anonimi 007: la miccia sotto il governo Draghi è stata accesa da Giuseppe Conte, cioè il personaggio che fino a tre settimane fa Letta aveva scelto come interlocutore privilegiato. Se lui non avesse messo in moto il meccanismo della crisi, avremmo ancora Draghi a Palazzo Chigi e le urne chiuse. Salvini, anche volendo, non avrebbe potuto far nulla. È un dato incontestabile per chiunque sia onesto sul piano intellettuale. Come pure non si può dimenticare che le riserve sulle armi a Kiev di Salvini si sono fermate alle parole, mentre è stato Conte a fare passi in Parlamento per chiedere al governo un cambio di rotta. E ancora: mentre la tournée a Mosca del leader della Lega si è fermata ai depliant dell'agenzia di viaggio, il Dibba che divide con Giuseppi la leadership dei pasdaran grillini ha trascorso settimane a zonzo fra Siberia e Cremlino. Quindi, se si vuol parlare di «fattore P», cioè di Putin, quello investe soprattutto Conte e non Salvini. Il primo a saperlo dovrebbe essere Luigi Di Maio se non è stato alla Farnesina solo di passaggio.
P.S. Questo non toglie che Salvini per evitare una campagna elettorale in cui si parli solo di «fascismo» o di «fattore P», non debba dire parole chiare sull'atlantismo e sull'Ucraina. Siamo di nuovo alla guerra fredda ed è complicato, se non impossibile, andare al governo senza aver dato garanzie ai nostri alleati internazionali.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 28 luglio 2022.
In una campagna elettorale già tesa emergono elementi nuovi sul rapporto tra Matteo Salvini e la Russia, che illuminano di una luce inquietante anche la caduta di Mario Draghi, e gli eventi accaduti negli ultimi due mesi di vita del governo.
Secondo documenti d'intelligence che La Stampa ha potuto visionare, alla fine di maggio Oleg Kostyukov, importante funzionario dell'ambasciata russa, domanda a un emissario del leader leghista se i loro ministri sono «intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi». Lasciando quindi agli atti un interesse fattuale di Mosca alla «destabilizzazione» dell'Italia.
In quei giorni Salvini e il M5S stanno scatenando l'offensiva contro l'allora premier, rispettivamente, con la campagna d'opinione e la risoluzione parlamentare che punta a chiedere il no all'invio delle armi in Ucraina, e i russi ritengono giunto il momento di poter esplicitare il passo più grave: Kostuykov domanda al consigliere per i rapporti internazionali del leader della Lega Salvini, Antonio Capuano - un ex deputato napoletano di Forza Italia, oggi non più parlamentare, che in passato sostenne di aver aiutato l'allora ministro Frattini in alcuni dossier internazionali - se i leghisti si vogliono ritirare dal governo, in sostanza facendolo cadere.
«Il diplomatico, facendo trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del Governo italiano con questa operazione, avrebbe chiesto se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni dal Governo
Kostuykov, «vicario dell'ufficio politico dell'ambasciata russa a Roma», è l'uomo che, come forse ricorderete, compra materialmente in quei giorni i biglietti aerei per la tentata, e poi abortita, "missione di pace" di Salvini a Mosca. Biglietti che il capo leghista ha spiegato poi di aver rimborsato.
Ma ovviamente il problema non è solo quello: mentre aiutavano ad acquistare i biglietti, i russi si interessavano alle sorti del governo italiano.
Tutto questo avviene in una serie di conversazioni tra il 27 e il 28 maggio 2022. Il 26, il giorno prima, Draghi ha parlato al telefono con Putin per provare a sbloccare la crisi del grano, uscirà dalla telefonata con un amaro «non ho visto spiragli di pace». Con una mano Putin parla con Draghi. Con l'altra mano, i funzionari russi si adoperano con la Lega, contro Draghi.
In tutta la primavera del 2022 l'attivismo russo in Italia è stato attentamente monitorato. A inizio di maggio del 2022 Capuano sarebbe contattato «da una esponente (non si fa il nome di questa donna, ndr) del partito di Vladimir Putin, Russia Unita, che, informata della missione programmata per il leader del Carroccio, si sarebbe offerta di supportare il Consulente di Salvini nell'organizzazione della trasferta, suggerendogli in prima battuta di prelevare il denaro necessario per effettuare tutti i pagamenti previsti nel corso della trasferta, da convertire in rubli in loco, essendo inutilizzabili carte di credito e bonifici bancari. In tale contesto, il Consulente avrebbe riferito di incontri già fissati con il Ministro Sergej Lavrov - con il quale sarebbe stato programmato un pranzo per il 6 maggio 2022 - e con il Presidente della Camera Alta dell'Assemblea Federale russa, Valentina Matvienko».
Matvienko, piccola parentesi, è una oligarca non da poco: possiede una straordinaria proprietà in Italia, sulla costa di Pesaro, 26 ettari di territorio, 650 metri di costa disponibile e totalmente privatizzata, casa di 774 metri quadrati. È una delle funzionarie più potenti del regime del Cremlino, quella che il 23 febbraio 2022 ha firmato la richiesta di truppe russe all'estero, ossia l'entrata in guerra della Russia con l'invasione dell'Ucraina.
Una donna che è naturalmente sotto sanzioni dell'Ue - addirittura fin dalla prima ondata, il 21 marzo 2014, assieme a uomini come Vladislav Surkov, allora consigliere di Putin, il "mago del Cremlino", e Sergey Narishkin, oggi capo del Svr, i servizi esteri russi. Non è chiaro perché questa magione non sia stata sequestrata, nel momento in cui scriviamo.
Matvienko viene da una lunga storia sovietica, prima nel Komsomol, il Comitato della Gioventù Sovietica, poi nel Partito e nel Servizio diplomatico. Sostiene Kamil Galeev, fellow del Wilson Center e esperto di storia sovietica, che, parlando in linea generale, le giovani donne del Komsomol svolgevano per lo più compiti di accompagnatrici in quella Unione sovietica brutalmente sessista: «Le ragazze stereotipate del Komsomol che aspiravano alla carriera partecipavano spesso a saune con i capi, in Urss era chiamato "l'escort service"».
Lavrov, Matvienko, forse anche Putin: questa è la triade che i russi promettono di far incontrare al capo della Lega a Mosca. Il 19 maggio 2022 Salvini aveva già incontrato «riservatamente l'Ambasciatore russo, con il quale avrebbe discusso anche dell'eventuale viaggio di Papa Francesco in Russia, ravvisando uno spiraglio circa la possibilità che esso si concretizzi alla luce della disponibilità del diplomatico, che avrebbe unicamente posto una non meglio identificata condizione, ritenuta tuttavia superabile».
Il 27 maggio, in Vaticano, il cardinale di Stato Pietro Parolin vede Salvini e, appunto, il consulente Capuano, che evidentemente non è un mitomane. E qui entra in gioco la disponibilità di un terzo Paese, non del tutto amichevole con Mario Draghi: la Turchia di Recep Tayyip Erdogan - che Draghi definì senza tanti giri di parole «un dittatore». Apprendiamo che «la logistica del viaggio dovrebbe prevedere uno scalo intermedio in Turchia, prima di arrivare a Mosca».
In questo contesto si inserisce la vicenda specifica - già diventata pubblica, e confermata anche dall'ambasciata russa - dei voli che il capo leghista non riesce ad acquistare. Gli viene in aiuto Oleg Kostyukov.
Finora però non si era mai saputo il tenore dei colloqui tra il russo e il consulente del leader leghista. Kostyukov, dettaglio notevole, sarebbe il figlio di Igor Kostyukov, il capo del Gru, i servizi militari di Mosca, pezzo grossissimo dell'apparato putiniano. Abbiamo chiesto all'ambasciata russa a Roma una conferma o smentita sui legami tra i due, non abbiamo ricevuto alcuna risposta.
La sera del 27 maggio l'ambasciata russa manda per sms a Capuano i biglietti aerei di Salvini. Il quale riceve conferma che oltre al pranzo con Lavrov, ci sarà un incontro «fissato per martedì 31 maggio 2022», con Dmitry Medvedev, l'uomo che in questi mesi si è dimostrato il più falco dei falchi del Cremlino, e che 50 giorni dopo, alla caduta di Draghi, esulterà postando su Telegram una foto del premier italiano e di Boris Johnson, e la didascalia «chi sarà il prossimo?».
«Salvini - veniamo a sapere - avrebbe precisato che il suo obiettivo sarebbe di riuscire ad ottenere qualcosa a livello mediatico, fosse anche soltanto "una pacca sulla spalla"». Già era campagna elettorale?
Nella scena di questa spericolata operazione - che i russi dunque legano non solo a questioni internazionali, ma anche ad affari interni italiani che non dovrebbero riguardarli - gli americani si accorgono dei movimenti e cercano di marcarli, e depotenziarli.
«Capuano sarebbe stato contattato da un soggetto dell'ambasciata americana a Roma, che si sarebbe detto molto interessato al viaggio del senatore Salvini a Mosca, pur non avendone ancora compreso la reale finalità.
Capuano avrebbe risposto di non poter fornire dettagli (agli americani)», e avrebbe rilanciato la palla chiedendo di vedere eventualmente dopo il viaggio in Russia l'allora incaricato d'affari dell'ambasciata Usa, sollecitandolo a organizzare un incontro del leader leghista «con esponenti di altissimo livello a Washington».
Gli americani, sappiamo da fonti qualificate, ovviamente non daranno mai seguito a questa cosa. Ma continueranno a tenere discretamente d'occhio questa vicenda.
Dopo l'ultimo contatto coi russi, che annuncia la decisione di Salvini di rinunciare all'impresa, Kostyukov compie l'opera.
Di fronte a un Capuano in agitazione per la possibile irritazione del Cremlino, lo rassicura «di non preoccuparsi per gli impatti su Mosca»: «Parallele evidenze attesterebbero che il diplomatico russo, dopo il colloquio con Capuano, avrebbe lasciato la propria residenza per recarsi all'Ambasciata russa a Roma dove si sarebbe trattenuto per circa un'ora, verosimilmente allo scopo di tenere comunicazioni riservate con Mosca».
Il viaggio leghista a Mosca è fallito, ma c'è ampio e soddisfacente materiale per l'operazione-caduta di Draghi. Tutto questo avviene due mesi prima dell'impallinamento di Draghi, quando tutti gli attori si muovono ancora nel regno delle possibilità, e commettono dunque qualche spericolatezza. Non sappiamo cosa succede nell'ultimo mese e mezzo, se gli interessi russi per le scelte dei ministri italiani si siano riappalesati.
Certo fanno impressione, a rileggerle in questa luce, le parole pronunciate dal premier italiano in quello che resta il suo ultimo discorso in Senato: «In politica estera, abbiamo assistito a tentativi di indebolire il sostegno del governo verso l'Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del presidente Putin».
(ANSA il 29 luglio 2022) - Il Copasir due settimane fa aveva già lanciato l'allarme sulle possibili ingerenze esterne sulle elezioni, oggi al centro del dibattito politico dopo le rivelazioni fatte da 'La Stampa' sulle interlocuzioni tra la Lega e Mosca.
Lo rivela oggi “Il Foglio”, pubblicando lo stralcio di una lettera inviata 14 giorni fa da Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, ai presidenti di Senato e Camera, Elisabetta Casellati e Roberto Fico.
"Vi chiedo di sensibilizzare il Parlamento a occuparsi delle possibili ingerenze esterne sugli eletti in vista dei prossimi mesi", scriveva Urso, quando ancora il governo Draghi non era caduto e non era iniziata la campagna elettorale.
Nella lettera del presidente del Copasir, secondo quanto riportato da “Il Foglio”, si faceva riferimento anche a una risoluzione del 9 marzo votata dal Parlamento europeo "sulle ingerenze straniere nella politica dei paesi Ue e sulla disinformazione frutto del lavoro svolto dalla speciale commissione istituita dal Pe".
'Il Foglio' ricorda che nella relazione approvata da Strasburgo sul giro di vite alle ingerenze straniere nella vita politica degli altri Paesi "si menzionava anche il rapporto tra alcuni partiti europei e la Russia. In particolare Russia unita, partito di Vladimir Putin.
E cioè i famosi "accordi di cooperazione" tra il partito di Mosca e la Lega nord. Senza dimenticare l'austriaco Freiheitliche Partei Österreichs, il francese Rassemblement National, il tedesco Afd, gli ungheresi Fidesz e Jobbik e il Brexit Party nel Regno Unito".
Marco Galluzzo per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2022.
La verifica è partita. E Adolfo Urso, esponente dei Fratelli d'Italia, presidente del Copasir dal 9 giugno dello scorso anno, ne discute con gli altri componenti del Comitato quando sottolinea che è già stato chiesto ai vertici della nostra intelligence se ci sono evidenze di ingerenze straniere sugli interessi strategici nazionali. Ma non solo.
Perché la stessa domanda in forma scritta è stata posta al sottosegretario Gabrielli che ha risposto con un documento che è secretato ma che è sostanzialmente negativo. E almeno altre 3 volte nel corso delle audizioni con i vertici dei nostri servizi di sicurezza, la risposta è stata sempre la stessa: secondo le attività svolte da parte dei nostri apparati non ci sono evidenze di un ruolo invasivo della Russia nelle dinamiche politiche interne al nostro Paese.
Sull'autenticità o la provenienza delle rivelazioni emerse sui contatti fra esponenti dell'ambasciata russa in Italia e persone vicine alla Lega, Urso non vuole esprimersi, ma si sente di mettere la mano sul fuoco sull'attività dei nostri 007: sono mesi che il Comitato ha un'interlocuzione con i servizi sulle possibili ingerenze di Mosca nelle dinamiche politiche interne, le risposte ricevute sono state sempre le stesse e rassicuranti.
Perché - questa è la linea - non esistono elementi che dicano che i nostri interessi nazionali sono stati intaccati, compromessi, eterodiretti.
Urso lo ha detto anche a chiare lettere prima di partecipare ad una riunione del suo partito: «Ha già chiarito il sottosegretario Gabrielli con una dichiarazione che non lascia adito a dubbi. Il Comitato si è occupato di questa vicenda in tempi non sospetti ottenendo informazioni e rassicurazioni dall'autorità di governo e dall'intelligence. Credo che la dichiarazione di Gabrielli sia sufficiente a evitare che il Copasir sia usato per campagne elettorali. Noi siamo un'istituzione e dobbiamo garantire anche questo».
L'atteggiamento e la postura di Urso sono dunque allineati ad un profilo istituzionale che cerca di sottrarsi a qualsiasi tipo di strumentalizzazione di eventuali notizie di stampa.
Viene da chiedersi, di fronte a quanto scritto dal quotidiano La Stampa, di quali fonti di intelligence si tratti se non sono italiane: nelle conversazioni ufficiose delle ultime ore, in cui fanno capolino anche esponenti del Copasir, non si tralascia alcuna ipotesi, compresa quella che alcune intercettazioni siano di marca straniera.
Ovviamente tutto è fonte di valutazione, anche eventuali millanterie, o dinamiche che tanto assomigliano ad un'ingerenza sui nostri interessi ma che evidentemente i nostri servizi "pesano" in modo diverso.
Sembra di capire che eventuali contatti, relazioni, tentativi di accreditare un'influenza sulla nostra politica, vengano seguiti e osservati sino al punto del riscontro di efficacia, che al momento, almeno nella versione ufficiale, non è mai arrivato.
Altra cosa è dire che i russi non ci provino, ma questo non riguarda il perimetro di controllo del Copasir, che per mandato segue l'attività dei nostri Servizi e cerca di capire se sono mai emerse prove di un'ingerenza straniera che abbia colpito gli interessi nazionali in modo efficace.
C'è poi il dato di una campagna elettorale che è già entrata nel vivo e da questo punto di vista Urso non ha alcuna intenzione di cedere alle richieste del Pd, o di Italia Viva, o di altri partiti, di aprire un programma nuovo di audizioni con al centro Salvini e le relazioni di esponenti vicini alla Lega con la Russia: la prossima settimana il capo del Dis, Elisabetta Belloni, verrà ascoltata dal Comitato sulla guerra in Ucraina, la situazione in Libia, ma ufficialmente l'agenda non cambia.
Ciò non toglie che «tutti possono chiedere quello che vogliono», continua Urso, ma guai a strumentalizzare l'attività del Comitato per finalità di campagna elettorale. Sarebbe inammissibile. Certo, ricorda Urso, la Russia negli ultimi sette anni nei confronti dei Paesi europei ha prodotto 14 mila fake news che sono state documentate, poco meno di 200 al mese, e tante riguardano anche l'Italia: notizie false, filmati costruiti artificialmente, una macchina di disinformazione monitorata in modo chirurgico sia Washington che a Bruxelles. Ma questa è un'altra storia.
IL MANAGER VICINO A URSO CHE LAVORA PER PUTIN IN UE
Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 5 agosto 2022.
Lungo il percorso di "atlantizzazione" di Giorgia Meloni e del suo partito, Fratelli d'Italia - «siamo quelli che più di tutti garantiscono la collocazione atlantica dell'Italia" ha detto la segretaria appena qualche giorno fa - c'è un signore che rischia di creare a tutti qualche imbarazzo.
È un importante manager francese che ha passato metà della sua vita in Italia, dove ancora ha amici e affari, e che da qualche anno si è trasferito a Mosca. Dove lavora come consigliore degli uomini di Putin con un compito preciso: creare relazioni in Europa.
In Italia questo signore, Emmanuel Gout, è un grande amico di Fratelli d'Italia. Sostenitore di uno dei suoi uomini più importanti e credibili, soprattutto sui temi della difesa e della sicurezza nazionale: Adolfo Urso, il presidente del Copasir, uno dei curriculum più spendibili per il partito della Meloni. Gout è infatti nel comitato scientifico della fondazione di Urso, Farefuturo, oltre a essere stato uno dei suoi finanziatori nel corso della scorsa campagna elettorale.
Il punto, si diceva, è che Gout non è un pensatore qualsiasi. Ma è considerato, dalle intelligence europee, uno dei principali agenti di influenza russa in Europa. Una convinzione che deriva non soltanto dalle posizioni pubbliche che il manager ha ripetutamente preso, ancora di più negli ultimi mesi con l'inizio del conflitto ucraino, ma da una serie di elementi fattuali.
Gout nasce come manager dell'informazione, nella sua Francia con France +. Quando in Italia parte l'avventura di Tele + viene chiamato per la sua esperienza specifica a guidare l'esperienza della pay tv in Italia. Diventa poi presidente del parco giochi di Cinecittà a Roma per poi tornare nel 2017 in Francia. Non in un momento qualsiasi ma nel corso della campagna elettorale per le presidenziali: Macron da un lato, Marine Le Pen dall'altro. Gout si schiera a favore di Le Pen in maniera decisa.
E soprattutto lo fa accanto a un canale di informazione, Rt France, interamente pagato dalla Russia. Un canale che diventò il principale antagonista di Macron nel corso della campagna elettorale. Il sostegno a Le Pen di RT non bastò: En Marche vinse, ma Rt rilanciò con l'apertura di un canale tv di informazione dal budget di 100 milioni (chiaramente russi), scegliendo proprio Gout come responsabile dei rapporti politici.
Da Rt sono nati Sputnik e tutti gli altri sistemi di disinformazione che la Russia ha utilizzato per inquinare le democrazie europee, messe al bando ora dall'Ue. L'amico di FdI ha continuato a lavorare in questi anni: ha un sito, un canale Telegram e YouTube (Terrabellum.fr) dove campeggia a tutta pagina una foto di Vladimir Putin.
Ha fortemente contestato le politiche europee sul Covid («anche una malattia psichiatrica che colpisce principalmente le vittime del lockdown»), e dall'inizio del conflitto ha sempre fatto sentire la vicinanza alla Russia. Secondo informazioni di intelligence, in Francia è stato l'uomo di collegamento tra Eric Zemmour, il candidato di estrema destra alle ultime presidenziali, e Putin. Ed è stato inoltre uno dei grandi mediatori, negli ultimi mesi, tra la Russia e il Vaticano.
Bene: che ci fa uno così con FdI? Come può essere nella Fondazione del presidente del Copasir? «Le posizioni della nostra Fondazione - dice Urso - sono sempre state a tutela dell'Occidente e contro i sistemi autoritari, Cina e Russia. Conosco le posizioni di Gout, che ovviamente non condivido, e lui conosce benissimo le mie che mi sembra siano chiarissime. Siamo però in una democrazia e ciascuno può esprimere le sue opinioni».
LA REPLICA DI EMMANUEL GOUT A “REPUBBLICA”
Buongiorno,
Vi prego di pubblicare il diritto di risposta a seguito della vostra pubblicazione del venerdì 5 agosto 2022 «il manager vicino a Urso… »
Egregio Dott. Foschini, senza entrare in tutti particolari, a contraddire tutto ciò che scrive a mio proposito sono le mie stesse pubblicazioni e prese di posizione che si possono facilmente ritrovare - ma che evidentemente Lei non ha preso il tempo di consultare - in farefuturofondazione.it (Link per quanta riguarda Terrabellum dove potrà notare le mie dichiarazioni sull’Italia) o in fine sul mio blog personale emmanuelgout.com
Senza contare l’attribuzione di dichiarazioni false sul Covid o la responsabilità presso TV che non esistono: France +.
Triste giornalismo.
Distinti saluti, Emmanuel Gout”
Da Ansa il 30 luglio 2022.
"Posso dire, per quello che è a conoscenza dei Servizi segreti italiani, che attività volte a favorire la caduta del governo Draghi da parte di questa interlocuzione non ci sono state. E' questa forse la cosa che può interessare di più". Lo ha detto Franco Gabrielli, Autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, dal palco de 'Il libro possibile' a Vieste. Gabrielli ha risposto alle domande su presunti contatti tra il consigliere di Salvini, Antonio Capuano, e il funzionario dell'ambasciata russa a Roma, Oleg Kostyukov. Una notizia, secondo Gabrielli, arrivata "in un momento nel quale il Paese ha bisogno di grande serenità".
"La mia presa di posizione di ieri, che non ha voluto minimamente entrare nel merito della cosa - ha sottolineato il sottosegretario -, è un intervento volto soprattutto a tutelare il sistema dell'intelligence del nostro paese". Secondo Gabrielli, "se il tema è far chiarire al senatore Salvini quali sono le sue posizioni nei confronti della Federazione Russa, non serve evocare cose di questo genere. E' una complicazione e rischia anche di spostare il problema".
"Stiamo entrando in campagna elettorale - ha aggiunto il sottosegretario - quella è la sede nella quale, in qualche modo, qualcuno esporrà le sue posizioni". "Ma - ha rilevato - tirare per la giacca una serie di situazioni, attribuirle in maniera apodittica, tra l'altro anche lì decontestualizzando, credo non si renda un servizio soprattutto all'opinione pubblica che si deve fare una idea. Posso dire, per quello che è a conoscenza dei servizi segreti italiani, attività volte a favorire la caduta del governo Draghi da parte di questa interlocuzione non ci sono state. E' questa forse la cosa che può interessare di più".
Rita Cavallaro per “L’Identità” il 4 agosto 2022.
Ci sono i servizi segreti deviati dietro le intercettazioni sulle ombre russe. L’intelligence italiana è scossa dalla caccia agli agenti infedeli. Sì è scatenato l’inferno nell’intelligence italiana, scossa dalla caccia agli infedeli e minata nell’affidabilità degli 007. Il timore che dietro un qualsiasi agente si nasconda una spia che si muove per soldi, interesse politico o amicizia ha generato un cortocircuito nei rapporti con le altre agenzie di sicurezza dei paesi “alleati”.
Il risultato è che l’immagine dei servizi segreti nostrani è stata così tanto macchiata dalla macchina del fango da essere arrivati alle porte sbattute in faccia, alla frattura diplomatica con le agenzie straniere e all’immediata interruzione dello scambio di informazioni tra le spie internazionali e i nostri agenti. Una situazione di isolamento resa critica dal momento storico italiano, con una guerra alle porte e lo spettro di un autunno caldo sul fronte sociale ma freddo per la crisi del gas.
Una mancanza di controllo che le alte sfere cercano di tenere celata, ma che è venuta fuori in tutta la sua drammaticità, svelata, senza volerlo, dallo stesso sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli, così concentrato sulla propaganda del suo libro da non essersi reso conto di quanto le sue parole per smentire le ombre russe siano diventate una conferma di aspetti più gravi.
Per minimizzare un problema inesistente, ovvero la mano di Putin sulla caduta dell’Esecutivo Draghi, Gabrielli ha sganciato una bomba: l’esistenza di servizi deviati che si muovono al soldo di 007 stranieri. A confermare la circostanza le dichiarazioni del direttore de La Stampa, Massimo Giannini, il quale, a seguito della smentita, si è visto costretto a pubblicare le intercettazioni, che seguono la divulgazione delle liste dei putiniani.
Già con la pubblicazione di quei nomi sul Corriere, lo stesso capo degli 007 aveva annunciato la missione di scovare la manina che aveva consegnato quella lista e, dietro questo pretesto, ha dato vita a epurazioni “scientifiche” che hanno portato alla cacciata da Aisi, Aise e Dis di agenti sgraditi.
Poco importa se Gabrielli, l’uomo che nella realtà non controlla i Servizi, in questi mesi non sia riuscito a portare a termine la sua mission. In mancanza del responsabile le epurazioni erano partite all’insegna di una guerra senza quartiere, come vi avevamo annunciato un mese fa proprio su L’Identità, e oggi la ricerca degli infedeli si è acutizzata all’insegna dell’individuazione di quei pezzi deviati a cui Gabrielli, in modo criptico, fa riferimento durante la presentazione del suo libro a Vieste.
“Per quello che è a conoscenza dei servizi italiani, attività volte a favorire la caduta del governo Draghi da parte di queste interlocuzioni non ci sono state”, ha sottolineato. “La mia presa di posizione è un intervento volto soprattutto a tutelare il sistema dell’intelligence del nostro Paese. Se il tema è far chiarire al senatore Salvini quali sono le sue posizioni nei confronti della Federazione Russa, non serve evocare cose di questo genere. È una complicazione e rischia anche di spostare il problema”, ha detto. “Tutelare il sistema dell’intelligence”, “evocare cose di questo genere” e “complicazione” sono le parole chiave che, abbinate ai concetti successivi, rendono evidente la faccenda.
Gabrielli ha aggiunto che nella vicenda c’è una certezza: la presenza di “infedeli” nei servizi segreti, qualcuno che ha in mente obiettivi che con la sicurezza nazionale hanno poco a che fare e che si è divertito a far circolare carte false “per i motivi più disparati: amicizia, simpatia, soldi, convincimento politico, o perché magari vuol fare dispetto a qualcun altro”.
Ma l’azione “punitiva” non è servita a dissuadere gli agenti deviati dall’azione di dossieraggio, alimentando la fuoriuscita di documenti e rendendo palese l’esistenza di infedeli. Anche perché le intercettazioni preventive passano al vaglio autorizzativo del procuratore generale della Repubblica, per cui è difficile che un giornalista come Giannini non sia in grado di verificare la veridicità dei documenti.
Il sottosegretario, riferendosi alle epurazioni, ha specificato: “Qualcuno è già andato, e non ci fermiamo lì”. E ha motivato la rimozione con lo spettro degli agenti infedeli. Le fattispecie indicate, se corrispondenti al vero, costituiscono reato. Se il sottosegretario ha mandato via spie deviate dovrà quantomeno avere le prove dell’infedeltà. E queste prove, che ipotizzano reati penali, devono essere trasmesse all’autorità giudiziaria, che ha l’obbligo dell’azione penale.
Esiste un fascicolo sulla scrivania di qualche magistrato? Improbabile, perché è palese quanto queste condotte non portino a nulla, visto che continuano a uscire le intercettazioni e le persone mandate via sono state rimosse prima delle “ombre russe”. Quindi Gabrielli ha cacciato gli agenti sbagliati. Se la fuga di veline non si ferma vuol dire che c’è un gruppo, non identificato, che sta lavorando contro lo Stato: servizi deviati, alti dirigenti infedeli che stanno facendo di tutto prima del voto, per facilitare la cacciata di innocenti.
E Draghi cosa fa per fermare una situazione così allarmante? Da Palazzo Chigi non si muove foglia che Draghi non voglia e allora c’è solo una spiegazione: queste spie italiane non stanno agendo agli ordini della nostra intelligence, ma al soldo di qualche servizio segreto straniero. Ormai lo hanno capito anche le spie degli altri Paesi “alleati”, tanto che siamo arrivati al punto che gli altri 007 non si fidano più degli italiani. Potranno mai condividere operazioni in Libia, Medio Oriente, Ucraina, quando due quotidiani così importanti confermano in tv la provenienza dall’intelligence delle notizie pubblicate?
È opportuno che il sottosegretario con delega ai Servizi giri per l’Italia propagandando il suo libro e annunci la cacciata di agenti infedeli? Omettendo invece di avere inserito, qualche giorno fa, il suo segretario personale quando era in polizia, Luca Scognamillo, come capo di gabinetto del Dis, uno che non ha mai fatto l’agente segreto al vertice del coordinamento dell’intelligence. Vuol dire che nei servizi vanno solo i fidelizzati all’orientamento politico di Gabrielli, in uno spoils system così abbondantemente consolidato. Resta un mistero l’obiettivo alla base di questa occupazione. Tanto che, chi viene mandato via ripete: allora la fedeltà è a Gabrielli e non allo Stato? Ai posteri l’ardua sentenza.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 29 luglio 2022.
Le rivelazioni, pubblicate da La Stampa ieri, sulla sequenza e alcuni dei contenuti riservati dei contatti avvenuti a maggio scorso tra un emissario di Matteo Salvini e i russi dell'ambasciata a Roma, hanno innescato una polemica politica assai aspra, specialmente su uno degli elementi di fatto che abbiamo raccontato, e non sono stati smentiti nel merito da nessuno dei diretti interessati: la domanda, rivolta dai russi al consulente di Salvini, se i ministri leghisti fossero orientati a dimettersi. Siamo a fine maggio, la caduta di Draghi non è minimamente all'ordine del giorno di nessuna agenda e nessun osservatore, eppure i russi s' informano e domandano sul punto. Oggi La Stampa è in grado di rivelare diversi altri dettagli interessanti.
Antonio Capuano, colui che viene indicato come «consulente per i rapporti internazionali del leader della Lega», nei contatti avuti la sera del 27 maggio con l'ambasciata russa non viene solo informato del piano d'incontri fissato dai russi per Salvini a Mosca (un pranzo con Serghey Lavrov e un incontro con Dmitry Medvedev), entrambi per il 31 maggio, ma chiede qualcosa di più. Stando a quanto risulta a La Stampa, il consulente tenta il colpo grosso, e ci va vicino, o almeno gli viene fatto balenare: «In aggiunta, Capuano auspicherebbe anche un possibile incontro di Salvini con il presidente Putin, sempre nella giornata del 31 maggio».
Il leader della Lega ha minimizzato l'entità del suo rapporto con l'ex deputato campano di Forza Italia, oggi cittadino comune sprovvisto delle tutele parlamentari, sostenendo che non si tratta neanche di un leghista. Ma che non agisse di testa sua è testimoniato da diverse circostanze convergenti, compresa la sua presenza all'incontro in Vaticano con Pietro Parolin, il 27 maggio. E fu anche abbastanza candidamente dichiarato da Capuano stesso quando - emersa la vicenda dei biglietti aerei (nello scorso giugno) - spiegò alcune cose in alcune interviste.
Uno, disse che «i russi hanno capito che Salvini voleva spendersi davvero. E lo hanno invitato a fare altri passi». Due, che l'interlocutore era «l'ambasciatore. Il segretario ha spiegato il suo progetto in quattro punti. Dall'altra parte è arrivata un'apertura di credito» (il piano comprendeva quattro tappe: trovare un luogo per intavolare le trattative di pace; dare compiti di garanzia a tre Paesi, Italia, Francia e Germania; il cessate il fuoco; il viaggio di una altissima personalità nelle zone interessate). Non è chiaro se l'altissima personalità nella quale speravano potesse essere addirittura il Papa, come sembra dal contenuto dei colloqui nell'incontro con Parolin.
Di fronte a chi lo ha sospettato di possibili millanterie, Capuano rispose «la verità è che io sono apprezzato dalle ambasciate di mezzo mondo e questo a qualcuno dà fastidio». Un'affermazione che, per quanto spettacolare, sembra trovare qualche indizio fattuale. Perché usava il plurale? A La Stampa risulta per esempio che l'emissario di Salvini non si sarebbe limitato ai contatti con i russi, avrebbe cercato di fare da sponda in qualche modo, almeno in una occasione, anche con i cinesi.
Un mese prima degli eventi di maggio raccontati ieri, cioè nell'aprile 2022, Capuano si sarebbe confrontato con il capo della sezione politica dell'ambasciata cinese in Italia, Zhang Yanyu, proprio «per riferirgli di una missione programmata dal leader della Lega a Mosca dal 3 al 7 maggio, finalizzata a incontrare Istituzioni, Ministro degli esteri e Presidente russi». I cinesi insomma vengono a sapere della possibile missione russa (inizialmente prevista a inizio, non a fine maggio) di un membro decisivo della maggioranza Draghi, quando ancora lo stesso premier italiano non ne è informato.
Russia e Cina, separatamente, sanno, Italia no. Capuano si muove «chiedendo al diplomatico cinese la possibilità di organizzare, prima di rientrare dalla Russia, un incontro a Pechino con il Ministro degli esteri cinese, Wang Yi». Il consulente spiega ai cinesi che l'intento di Salvini è promuovere la pace, e si mostra anche a conoscenza di presunte dinamiche interne del governo italiano, quando dice che «anche il governo italiano avrebbe poi sostenuto» questa «posizione».
Una serie singolare di movimenti, insomma, spendono anche il nome del governo italiano con Stati che non appartengono al nostro sistema tradizionale di alleanze europee e atlantiche. E che probabilmente sono lieti di aprire porte e orecchie a questi abboccamenti. Capuano è così interessato anche a una sorta di coinvolgimento dei cinesi, da proporre di superare eventuali restrizioni dovute alla pandemia organizzando l'incontro da remoto, nella sede dell'ambasciata cinese.
Non siamo a conoscenza se la cosa abbia avuto un seguito, non è citata alcuna reazione cinese, ma un movimentismo del consulente a tutto campo è attestato. Quando il viaggio a Mosca infine tramonta, il leader leghista avrebbe riferito a Capuano stesso delle critiche ricevute da molti dei leghisti, e degli «attacchi ricevuti da parte dei leader politici bipartisan, compresa Giorgia Meloni». Negli angoli della vicenda ricompare una spaccatura Salvini-Meloni, e coincide con una campagna elettorale in cui non sarà facile far combaciare tutti i tasselli del puzzle.
Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 30 luglio 2022.
Proprio nei giorni in cui l'emissario di Matteo Salvini entra nel vivo dei contatti con i russi per organizzare la missione del leader leghista a Mosca - con una serie di colloqui il cui contenuto è stato in parte rivelato da La Stampa - caso vuole che anche Silvio Berlusconi torni su posizioni pubbliche assai più gradite all'amico Putin, dopo che per un periodo era sembrato sia pure vagamente distanziarsene.
Il 20 maggio - il giorno dopo uno degli incontri tra Matteo Salvini e l'ambasciatore Razov - il Cavaliere, tenuto per mano a Napoli dalla fidanzata Marta Fascina, dichiara: «Credo che l'Europa debba fare una proposta comune di pace cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin». Pochi giorni prima, da Treviglio, ha criticato Joe Biden, e l'invio di armi all'Ucraina nella forma decisa dal governo Draghi: «Putin non tratta con chi gli dà del "criminale". Mandiamo armi, anche noi siamo in guerra». Carlo Calenda chiosa: «Qui siamo oltre Salvini». Il consulente di Salvini, Antonio Capuano, usa proprio in quei giorni parole molto simili con i russi, e prima ancora con il capo della sezione politica dell'ambasciata cinese: l'intento del viaggio di Salvini sarebbe «preparare la pace», dice.
Berlusconi comincia anche a tenere la posizione sulle sanzioni che più piace a Mosca: «Hanno fatto molto male all'economia sovietica», ma: «hanno fatto male anche a noi».
Sembra rifiorire un amore mai spento. Nel mercoledì della crisi, proprio Marta Fascina, e Licia Ronzulli, lo isoleranno dalle telefonate che cercano di convincerlo a non sfiduciare Draghi.
La storia del rapporto tra Berlusconi e Putin risale ovviamente molto indietro, in parte nota in parte tuttora in progress, e fece preoccupare tantissimo gli americani. «Quali investimenti personali hanno (Berlusconi e Putin), che possono guidare le loro scelte in politica estera?». La domanda fu girata nel novembre del 2010 dal Dipartimento di Stato, allora guidato da Hillary Clinton, all'ambasciata americana a Roma.
Nel 2008 l'ambasciatore americano in Italia, Ronald Spogli, in un cablo spedito al Dipartimento di Stato e alla Cia, e pubblicato dalla Wikileaks di allora, riferiva a Washington che la natura del rapporto tra Berlusconi e Putin era «difficile da determinare»: «Berlusconi ammira lo stile di governo macho, deciso e autoritario di Putin, che il premier italiano crede corrisponda al suo. () L'ambasciatore georgiano a Roma ci ha detto che il governo della Georgia ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti da eventuali condotte sviluppate da Gazprom in coordinamento con Eni». Il Cavaliere, l'unica volta che rispose, per iscritto, negò tutto.
L'ambasciatore georgiano non smentì mai.
Di sicuro nell'era Berlusconi l'Eni nel maggio del 2005 firma un accordo che avrebbe consentito a Gazprom Export di rivendere gas russo direttamente ai consumatori italiani. La storia finisce nel 2008 anche all'attenzione della Commissione europea, gravi opacità ricostruite così nel 2008 in un saggio di Roman Kupchinsky per Eurasia Daily Monitor: una società viennese, Central Energy Italian Gas Holding (Ceigh) - parte di un gruppo più grande, Centrex Group - avrebbe dovuto avere un ruolo importante in quel lucrativo accordo Russia-Italia.
Questa Central Energy Italian Gas Holding era controllata al 41,6 per cento da Centrex e da Gas AG, al 25 per cento da Zmb (la sussidiaria tedesca di Gazprom Export, ossia in pratica da Mosca), e al 33 per cento da due società milanesi, Hexagon Prima e Hexagon Seconda, registrate allo stesso indirizzo di Milano, e intestate a Bruno Mentasti Granelli, l'ex patron di San Pellegrino. Il saggio di Kupchinsky trasformò la cosa in uno scandalo internazionale. L'accordo con Centrex fu cancellato. Ve ne furono altri? Ci furono rumors di un giacimento di gas kazako direttamente controllato dal Cavaliere. «Assolute sciocchezze», replicò Berlusconi.
Forse il vero uomo del Cavaliere in Russia non è stato tanto Valentino Valentini, che certo andava e veniva da Mosca, quanto Angelo Codignoni, uomo di Silvio nei media russi, quello che istruisce Yuri Kovalchuk, oligarca putiniano e azionista principale di Bank Rossiya, su come creare l'impero tv del Cremlino. Il nome di Codignoni, scomparso nell'estate del 2021, è da pochi mesi riemerso anche nei Pandora papers, come beneficiario di una serie di trasferimenti milionari di soldi dalla Russia a tre società offshore di Codignoni a Montecarlo, Panama, British Virgin Islands. Le transazioni russe verso Codignoni sono tuttora al vaglio di diversi giornalisti investigativi internazionali.
Documenti che naturalmente i russi per primi potrebbero avere. Quanto resta delle tracce del passato del Cavaliere e la Russia? Fu il Cavaliere a sostituire alla guida dell'Eni Vittorio Mincato, che obiettava sulla vicenda Centrex, con Paolo Scaroni. I contratti tra Gazprom e Italia diventano trentennali. L'energia era tutto, per la relazione Berlusconi-Putin. Ma anche il divertimento, il real estate, le vacanze. Le figlie di Putin, Katya e Masha, furono in vacanza a Porto Rotondo assieme a Barbara, la figlia più giovane di Berlusconi, nel 2002: lo stesso anno in cui Berlusconi vanta gli accordi, cui voleva legare la sua eredità geopolitica, di Pratica di mare. L'anno dopo, nel 2003, arrivò a Villa Certosa Putin stesso, con foto ormai celebri (indimenticabili anche quelle di Berlusconi col colbacco a Sochi).
Sono gli anni in cui la Costa Smeralda diventa un paradiso per oligarchi russi: Alisher Usmanov, che a un certo punto voleva anche comprare il Milan, di certo compra sette ville fantastiche (poi sequestrate dal premier Draghi); Roman Abramovich, che ancora nell'agosto 2021 vara il suo nuovo megayacht Solaris a Olbia, e andava alle feste da Berlusconi in cui Mariano Apicella stornellava Oci Ciornie; Oleg Deripaska. Quella Sardegna degli oligarchi che, per tanti anni, hanno visto in Berlusconi l'amico numero uno, e certi amori non possono finire mai.
Estratto dell’articolo di Marco Galluzzo per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2022.
[…] Viene da chiedersi, di fronte a quanto scritto dal quotidiano La Stampa , di quali fonti di intelligence si tratti se non sono italiane: nelle conversazioni ufficiose delle ultime ore, in cui fanno capolino anche esponenti del Copasir, non si tralascia alcuna ipotesi, compresa quella che alcune intercettazioni siano di marca straniera.
Ovviamente tutto è fonte di valutazione, anche eventuali millanterie, o dinamiche che tanto assomigliano ad un'ingerenza sui nostri interessi ma che evidentemente i nostri servizi "pesano" in modo diverso. […]
Jacopo Iacoboni per "La Stampa" il 31 luglio 2022.
Oleg Kostyukov - il funzionario dell'ambasciata russa al centro di un caso per il contenuto di alcuni suoi colloqui di fine maggio con l'emissario di Salvini, in uno dei quali si mostra troppo interessato alle sorti del governo di Mario Draghi - non è, nonostante la giovane età, un novizio del nostro Paese. Né lui né la sua famiglia. Sui social in russo le sue pagine sono state cancellate, ma internet non cancella mai tutto del tutto. Scopriamo per esempio che è un giovane che ama tantissimo, da anni, Milano, che ha fotografie in Brera, che nel concerto di Marylin Manson a Milano era nel backstage abbracciato al cantante. Che adora le sorelle.
Curiosità e vita di un ragazzo normale, ma forse con un qualche accesso speciale alle cose.
Poi, all'improvviso, dal 2014 spariscono le sue tracce. Puf, come se fossero tutte buttate giù all'improvviso. Come se fosse entrato in una seconda vita. La sua, vita. Secondo una delle fonti de La Stampa, Kostyukov è «senza alcun dubbio il figlio del capo del Gru», i servizi segreti militari di Mosca. Il giornalista russo che lo scrisse per primo, Serghey Ezhov, ci ha confermato di essersi occupato tanto di lui e della sorella. Arrivando a queste conclusioni, sulla base di una serie di documenti catastali.
«Il capo dell'intelligence militare (ammiraglio Igor Kostyukov) è stato nominato capo della direzione principale di Stato maggiore generale alla fine del 2018, e l'anno successivo i suoi figli adulti sono diventati proprietari di immobili costosi». Un terreno a Lipka e un altro di 12 ettari nella comunità residenziale esclusiva di Beliye Rosy 1. Un appartamento di Oleg in 2a Chernogryazskaya Street, Mosca, la sua Mercedes-Benz Gle 350 d 4Matic e la Mercedes-Benz C200 della sorella Alena. Una delle proprietà è stimata 200 milioni di rubli: del tutto incompatibili con lo stipendio ministeriale di un milione e mezzo di rubli annui (circa 24mila euro).
In definitiva: siamo del tutto sicuri che il giovane Oleg sia solo il vicario dell'ufficio politico dell'ambasciata russa?
La Stampa ha chiesto ripetutamente per iscritto all'ambasciata russa a Roma una conferma o smentita della notizia che Oleg sia il figlio del capo del Gru. Non abbiamo mai ricevuto nessuna risposta. Neanche in questi giorni.
Igor Kostyukov è sotto sanzioni occidentali, e per accuse gravissime, non solo per l'interferenza elettorale russa nelle elezioni Usa del 2016 (quando era vice di Igor Korobov), ma per aver coordinato l'operazione di avvelenamento in Gran Bretagna di Sergey Skripal. Korobov muore all'improvviso nel 2018, dopo una serie di "epic fail" dello spionaggio russo che potrebbero aver irritato non poco Putin. Il quale a quel punto, per la prima volta, mette un ammiraglio a capo del Gru.
Un fedelissimo è dire poco. Igor Kostyukov è un ufficiale dello spionaggio russo notissimo. In ambienti di intelligence occidentali vi sono pochi dubbi sul fatto che sia stato in per alcuni anni il capo del Gru in Italia. Il figlio è un figlio d'arte? Di sicuro Oleg, in documenti visionati da La Stampa, sembra commettere qualche spericolatezza. Parla troppo. E probabilmente si fa pedinare senza pratiche sufficienti di contropedinamento. Se così fosse, l'intelligence italiana avrebbe - al di là delle smentite che non smentiscono - fatto molto bene il suo lavoro: marcando strettamente affinché i tentativi russi di "destabilizzazione" non andassero a buon fine.
Certo è che Oleg non sembra limitarsi a un protocollare lavoro diplomatico. Il quotidiano Il Domani ha rivelato che il 1 ottobre 2014 - due settimane prima di una stretta di mano a Milano che Matteo Salvini riesce a ottenere con Vladimir Putin - una transazione del russo fu segnalata come sospetta dall'antiriciclaggio: «Oleg Kostyukov, addetto consolare del consolato generale della Federazione Russa, ha convertito in contanti in data 1 ottobre 2014, 25 mila dollari, e il 14 ottobre, 100 mila dollari, senza farli transitare dal proprio conto corrente e senza esibire alcuna dichiarazione doganale.
Il sospetto è nato dal fatto che il cliente ha motivato l'operazione come cambio per utilizzo delegazione russa presente in Italia per vertice Eurasia, ma senza operare sul conto corrente consolare». Tutto quel cash pare strano per pagare le cene della delegazione. Le carte di credito dei russi in Italia sono un filone aureo, dentro questa guerra ibrida.
Massimo Giannini per “La Stampa” il 29 luglio 2022.
Siamo consapevoli di quanto siano delicati i nuovi dettagli sul Russia-gate della Lega, emersi dal retroscena di Jacopo Iacoboni pubblicato ieri sul nostro giornale.
I colloqui riservati tra Antonio Capuano, emissario di Via Bellerio, e Oleg Kostyukov, numero due dell'Ambasciata russa a Roma, deflagrano in piena campagna elettorale.
Confermano l'esistenza di un legame particolare tra il Cremlino e il Carroccio. Gettano una luce nuova e diversa anche sulla caduta di Draghi.
Evidenziano per la prima volta un possibile nesso causale tra il supporto dei diplomatici di Putin al "viaggio di pace" di Salvini a Mosca e il ritiro dei ministri leghisti dal governo.
Ci rendiamo conto dell'enorme rilevanza politica di questi fatti. Per questo, di fronte alle reazioni sdegnate e alle smentite scontate, ci teniamo a confermare tutto quello che abbiamo scritto.
A ribadire che i dettagli sugli incontri e sulle conversazioni tra Kostyukov e Capuano sono contenuti in documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence comunicato a suo tempo ai competenti livelli istituzionali.
Dunque, è la Lega che deve spiegare una volta per tutte al Parlamento e al Paese le sue "relazioni pericolose" in politica estera.
Noi non dobbiamo chiarire alcunché: il nostro lavoro, come sempre, è ispirato solo alla ricerca della verità e al senso di responsabilità.
Abbiamo una certezza e coltiviamo una speranza. La certezza è che alla Stampa non ci sono "servi sciocchi" della sinistra. La speranza è che nella Lega non ci siano "utili idioti" della Russia.
Le cattive influenze. La nuova ossessione della sinistra è quella delle "ingerenze straniere". Francesco Maria Del Vigo il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.
La nuova ossessione della sinistra è quella delle «ingerenze straniere». Non è neppure una strategia politica ma, piuttosto, una condizione psicologica: la rimozione della realtà. Quindi la stampa engagé e gli intellettuali in trincea - terminate le munizioni - s'inventano manine, piani nascosti, messaggi occulti. L'ultimo trend è la Russia, che starebbe brigando per far vincere il centrodestra. Ma, a prescindere dal fatto che fa sorridere che a muovere questa critica siano i discendenti diretti di quel Partito comunista che per decenni è stato ampiamente foraggiato dall'Unione Sovietica, in questa accusa qualcosa non torna. La scommessa di Mosca, infatti, sarebbe piuttosto autolesionista, visto che Silvio Berlusconi è sempre stato - da tempi non sospetti - un campione di filo atlantismo e ha preso nettamente le distanze dal Putin invasore; Giorgia Meloni ha dimostrato con chiarezza di essere posizionata fermamente nella parte occidentale dello scacchiere mondiale e Matteo Salvini li segue a ruota. Certo, il leader della Lega in passato ha prestato il fianco a qualche strumentalizzazione, ma la strada imboccata negli ultimi mesi - e che deve seguire con maggiore tenacia - non lascia margine a dubbi.
Altro che russi, americani, agenti segreti e ambasciatori trafficoni. I segugi della sinistra più avvelenata possono smettere di frugare, siamo in grado di anticipare loro in esclusiva chi si nasconde dietro le pesantissime ingerenze sulle prossime elezioni: gli italiani. Quel popolo che la gauche elitaria guarda dall'alto verso il basso. È loro l'unica vera influenza che pesa veramente sulle urne e sono loro, fino a prova contraria, gli unici detentori della volontà popolare. Anche se dovesse vincere il centrodestra perché - pensate un po' -, la democrazia prevede anche l'alternanza. Comprendiamo quanto sia difficile da accettare, ma è così. Piuttosto, una certa sinistra, invece di giocare a Risiko con gli avversari politici, dovrebbe fare i conti in casa propria e sdraiarsi sul lettino per fare un po' di autoanalisi su quelle pulsioni filo-palestinesi che la attraversano da anni, senza aver mai trovato una soluzione. Come abbiamo dimostrato dalle colonne di questo quotidiano, pubblicando i post e i tweet contro lo Stato d'Israele del candidato del Pd Raffaele La Regina. Perché il tarlo dell'antisemitismo non ha mai smesso di abitare quella parte, in tutte le sue forme. E flirtare con la sinistra radicale, vezzeggiare i centri sociali e coccolare tutti gli estremisti in grado di portare anche solo una manciata di voti è il modo migliore per dare ossigeno a questo sottobosco. Il Pd e Letta, nel corso degli anni, avrebbero dovuto impararlo, invece di accusare sempre la destra di un razzismo che nel frattempo stava germogliando nel loro orticello.
La Regina è l'ultimo, ma non l'unico, esponente di quel virus anti occidentale e anti americano che ammorba la sinistra italiana, da Nicola Fratoianni a Laura Boldrini, passando per gli ex (e forse anche futuri) alleati del Pd, quei Cinque stelle che non hanno mai perso l'occasione per inginocchiarsi e baciare la pantofola dell'autocrate di turno, possibilmente di fede marxista. Ecco, queste sono cattive influenze. Ma noi confidiamo nell'antivirus delle urne e, specialmente, nelle benedette e democraticissime ingerenze degli elettori italiani.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 19 agosto 2022.
In uno scenario elettorale già scosso dalle rivelazioni su azioni russe in Italia contro il governo di Mario Draghi, avvenute usando l'ambasciata russa come centro di interferenza in Italia, e politici amici di Mosca come possibili destinatari di pressioni e "suggerimenti" , ieri un nuovo caso ha riacutizzato i timori che il lavoro di Mosca sull'Italia sia in pieno corso. È indicativo - nell'economia delle operazioni russe in Italia - che sia toccato a Dmitry Medvedev innescarlo, un uomo che in questi anni è passato dal farsi le foto portato in braccio da Berlusconi o nella Sylicon Valley con Steve Jobs, alle invettive più radicali contro l'Occidente corrotto.
Mostrando una Russia ormai senza più infingimenti nelle operazioni di interferenza estera in Italia, Medvedev ha esortato in sostanza a punire i politici che hanno colpito Mosca con le sanzioni (Draghi in primis, ma tutti quelli che ne hanno sostenuto attivamente le politiche), e a premiare gli amici di Putin, a meno di voler passare un inverno al freddo.
«Vorremmo vedere i cittadini europei non solo esprimere il malcontento per le azioni dei loro governi», ha scritto su Telegram, «ma anche dire qualcosa di più coerente.
Ad esempio, che li chiamino a rendere conto, punendoli per la loro evidente stupidità. I voti degli elettori sono una potente leva di influenza. Chiamate i vostri idioti a rendere conto. E vi ascolteremo. Il vantaggio è evidente: l'inverno è molto più caldo e confortevole in compagnia della Russia che in uno splendido isolamento con la stufa a gas spenta».
Chi è Medvedev lo spiega meglio di tantii altri Maria Pevchik - capo del team investigativo della Fondazione Navalny - che ha indagato sulle sue presunte proprietà in Italia: «Quando ti senti una persona inutile e patetica, come Dmitry Medvedev, provi a reinventarti», dice Pevchik. «Avrebbe potuto radersi la testa o cominciare ad andare in palestra. Invece si è reinventato come un falco».
Medvedev negò di essere il beneficiario reale di una grande tenuta in Chianti, che la Fondazione Navalny ritiene invece sua, dietro un prestanome. Senza altri dubbi.
Secondo Ekaterina Schulmann, Medvedev «sta cercando di salvarsi dall'oblio politico sconfiggendo Erode e di conseguenza presentandosi come candidato nell'Apprentice show per il Cremlino».
Anche per questo si è posto come referente per le ops russe in Italia. E in questo sta usando il suo ruolo di vicepresidente del Consiglio di sicurezza nazionale russo, in grado dunque di parlare con i capi dei servizi - uno dei quali, Igor Kostyukov, capo del Gru, è a lungo stato di stanza a Roma, dove oggi c'è il figlio Oleg, il funzionario dei contatti con l'emissario di Salvini, e dell'operazione per indebolire Draghi.
Quando è caduto Draghi, è Medvedev che ha postato esultante la foto di Draghi e Boris Johnson caduti. È lui che viene mandato avanti per rivendicare le operazioni, senza neanche più nasconderle, uno degli yesmen più infaticabili della cerchia di Vladimir Putin fin dai tempi della cooperativa Ozero, gli amici di giovinezza di Putin con i quali lanciò l'assalto al potere e alle risorse della Russia post sovietica.
Naturalmente la cosa non può più passare inosservata. I servizi sono molto allertati. Il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, lavora da tempo per istituire una commissione d'inchiesta «su rapporti tra leader e partiti italiani e il mondo economico-finanziario russo».
La cosa è assai interessante perché Di Maio non solo conosce i dossier della Farnesina, ma conosce anche il M5S, una delle forze politiche che in questi anni sono state più vicine alla Russia, oltre ovviamente alla Lega e a Silvio Berlusconi, amico personale di Putin.
Non è sfuggito a chi monitora queste operazioni l'attivismo in questi mesi di Maria Zakharova, e anche dell'ambasciata russa, per proporre ospiti russi alle tv italiane. All'epoca dell'operazione "Dalla Russia con amore" , gli "aiuti" russi sul Covid, gestita direttamente dall'allora premier Conte con Putin, e collegati a una operazione di propaganda con presenza anche di intelligence militare russa su suolo di un Paese Nato, tutto fu gestito a Palazzo Chigi, bypassando la Farnesina e la Difesa.
E ieri il ministro Lorenzo Guerini ha risposto a Medvedev che «i' consigli' di chi tenta di interferire con i processi democratici saranno rispediti al mittente». Una Commissione potrebbe far emergere cose improprie avvenute? In un'intervista registrata a Mosca non molti giorni fa con Giorgio Bianchi, free lance italiano simpatetico con Mosca, Zakharova esordì ridendo compiaciuta per negare che Mosca avesse contribuito alla caduta di Draghi: «Che cosa abbiamo combinato adesso?».
Sandro De Riccardis per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.
Tra i silenzi degli indagati e il muro di gomma di Mosca di fronte alle rogatorie dei pm di Milano, l'inchiesta sulla trattativa al Metropol rischia di concludersi, a dicembre, senza fare luce sulla compravendita di gas che avrebbe dovuto portare circa 65 milioni di dollari nelle casse della Lega.
Il 18 ottobre 2018 nella hall dell'hotel moscovita Gianluca Savoini, l'ex portavoce di Matteo Salvini e presidente dell'associazione Lombardia-Russia, l'avvocato Gianluca Meranda e il broker finanziario Francesco Vannucci incontrano tre emissari del Cremlino: Ilya Yakunin, vicino al parlamentare Vladimir Pligin e all'allora ministro dell'Energia Dmitry Kozak; Yury Burundukov, legato all'oligarca nazionalista russo Konstantin Malofeev; Andrey Kharchenko, ex agente dei servizi segreti.
Tutti e sei sono indagati ora a Milano per corruzione internazionale. Almeno due di loro, Yakunin e Kharchenko, sono considerati vicinissimi proprio ad Aleksandr Dugin, di cui parla Savoini nell'audio di Buzzfeed. «Abbiamo creato questo triumvirato, io, te e lui, che deve lavorare in questo modo - dice in maniera criptica a Miranda - . Solo noi tre. Un compartimento stagno. Anche ieri Aleksander ha detto che la cosa importante è che siamo solo noi. Tu, io, rappresentiamo il collegamento con entrambi, l'italiano e il loro "lato politico". Solo noi. Nessun altro».
In effetti, il 17 ottobre Savoini incontra Dugin davanti al Metropol. E lo stesso giorno l'allora vicepremier Matteo Salvini, a Mosca per un evento di Confindustria Russia, avrebbe incontrato il suo omologo russo Dmitry Kozak. Coi pm i tre italiani si avvalgono della facoltà di non rispondere. E anche le rogatorie in Russia restano lettera morta. Dopo mesi di silenzio, Mosca risponde chiedendo quesiti più dettagliati. Poi la guerra in Ucraina chiude ogni comunicazione. E ora, dopo l'ultima proroga di due mesi fa, l'inchiesta rischia di essere archiviata a dicembre.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 agosto 2022.
Nell'affaire Metropol, la trattativa in un hotel di Mosca per un presunto finanziamento russo di 65 milioni alla Lega - su cui è ancora in corso un'indagine a Milano per corruzione internazionale - assieme a un emissario della Lega, Gianluca Savoini, due dei russi identificati come parte della conversazione erano Andrey Kharchenko e Ilya Yakunin.
Kharchenko è uno dei collaboratori stretti di Alexandr Dugin, il filosofo del rossobrunismo eurasiano che probabilmente era il vero bersaglio dell'autobomba esplosa nella notte di sabato a Mosca. Dugin è stato in realtà dietro tutta quella partita, e dietro molte altre, in Europa e in Italia.
Non è solo un intellettuale, quell'uomo che vediamo nei fermo immagine davanti alla macchina esplosa della figlia, con le mani nei capelli, e Kharchenko non è solo il suo migliore allievo laureato. Il filosofo è figlio di un dirigente del Kgb, e Karchenko - rivelò Bellingcat - viaggiava con un passaporto speciale che di solito viene rilasciato solo dagli Esteri russi, per lo più agli uomini dei servizi. Insomma, filosofo molto particolare, Dugin.
Non perché sia particolarmente vicino a Putin - non lo è affatto - ma perché è stato coscientemente usato dal Cremlino per una serie di operazioni di propaganda e penetrazione nei partiti e nei media occidentali, proprio quell'Occidente che la sua "Quarta teoria politica" disprezza, cercando di congiungere separatismo etnico di estrema destra e anticapitalismo e anti Nato di estrema sinistra.
Fu così che Dugin è entrato in Italia. A metà tra agitatore culturale e servizi segreti. Savoini lo porta a Milano già nel 2015, plenipotenziario di Tsaargrad, il network dall'oligarca Malofeev. I libri come ottimo pretesto geopolitico.
Quel giorno Dugin ha accanto Maurizio Murelli, militante neofascista già condannato negli Anni 70. Anni dopo, nell'estate 2018 della nascita del governo Lega-M5S, un tour duginiano lanciato da Savoini vedrà Dugin approdare sulla terrazza di Casa Pound, con il segretaro Simone Di Stefano, ancora Murelli e, moderatore, Giulietto Chiesa. Estrema destra e estrema sinistra.
Nel marzo scorso fu fatta trapelare dal Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky una mail che riferiva di un altro incontro, che i russi stavano organizzando nel novembre 2017, tra Salvini e il team di Malofeev e Dugin: «Per novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell'Hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell'incontro», scriveva Mikhail Yakushev, numero due di Malofeev, oligarca plurisanzionato fin dall'annessione illegale della Crimea nel 2014, che finanziò ampiamente.
In un'altra mail il team russo di Tsaargrad scrive che bisogna creare in Europa una rete di partiti, di estrema destra (Lega, Le Pen, Wilders) «ma anche euroscettici», chiamata "Altintern" (citazione del vecchio Comintern): «Senza il nostro impegno attivo e il sostegno tangibile ai partiti conservatori europei, la loro popolarità e influenza in Europa continueranno a diminuire».
Dugin pensava anche al M5S. E lo disse a chiare lettere al sito web di Defend Democracy Press. Se a italiani, tedeschi e francesi fosse stata data la possibilità di ritirarsi, affermò, «sarebbe successo il giorno dopo»: «Se lo chiedessimo oggi agli italiani, ovviamente se ne andrebbero anche loro.
E sappiamo che lo chiedono Lega Nord e Cinque Stelle. Dobbiamo affrontare la verità: l'Unione europea sta cadendo a pezzi; è la fine della Torre di Babele, basata sulla geopolitica atlantica e sul sistema di valori liberale». «L'Italia è oggi l'avanguardia geopolitica della Quarta Teoria Politica» spiegò Dugin lodando Giuseppe Conte e il suo primo governo: «L'unione tra Lega e Cinque Stelle è il primo passo storico verso l'affermazione irreversibile del populismo e il passaggio a un mondo multipolare».
Per questo, disse, quel governo italiano era un partner naturale del Cremlino. Di certo foto e amici imbarazzanti tornano a galla: ieri per esempio l'estremista di ultradestra americano James Porrazzo ha twittato una foto di Darya Dugina, chiamandola «una guerriera che sapeva che sarebbe potuto succedere», e in questa foto "Dari" è proprio accanto a Salvini.
Filo Putin e pro Orsini, la capolista di Azione che imbarazza Calenda. Stefano Baldolini su La Repubblica il 23 Agosto 2022
Stefania Modestino D'Angelo, docente di italiano, contro Biden e Zelensky. Plausi per Lukashenko. Von der Leyen "una cameriera", Macron "fattorino". La replica: "Sono atlantista, post strumentalizzati". Il leader di Azione: "Nostro errore non avere verificato i post"
Una filoputiniana e 'orsiniana' nelle liste di Carlo Calenda. La guerra in Ucraina? "Provocata dall'avidità degli Usa, dagli oltranzisti anti Putin". Zelensky? "Nemico del suo popolo". E ancora: "Da nazista a eroe del Pd". Ursula von Der Leyen e Macron? "Una cameriera" e "un fattorino". Parole e pensieri postati in gran quantità su facebook da Stefania Modestino D'Angelo, capolista al Senato nel listino plurinominale di Caserta per il Terzo polo.
Problemi di 'classe dirigente'? La candidata ‘filo-Putin’ capolista a Caserta con Calenda: per Modestino “Macron fattorino” e von der Leyen “sguattera”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 23 Agosto 2022
Il problema del ‘passato social’ dei cosiddetti “giovani candidati” del Partito Democratico, dal caso La Regina a Sarracino, si sta allargando anche agli altri partiti. Non solo a destra, dove Giorgia Meloni è finita nella bufera nei giorni scorsi per un video del 1996 in cui una poco più che maggiorenne militante di destra ad una tv francese descriveva Mussolini “un buon politico, il migliore degli ultimi 50 anni”, ma anche nel ‘Terzo Polo’ riformista.
‘Colpa’ di Stefania Modestino, candidata come capolista del tandem Azione-Italia Viva nel collegio proporzionale al Senato della Campania 2, quello che comprende le province di Caserta, Salerno, Avellino e Benevento.
Docente e giornalista, un passato nel Partito Democratico, la Modestino è stata scelta dal partito di Carlo Calenda come capolista al Senato, avendo dall’altra parte alla Camera un compagno di avventura dal curriculum pesante come il generale Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore dell’Aeronautica Militare e della difesa.
Ma basta dare una rapida occhiata al profilo della professoressa, docente di latino e italiano, per scoprire che le sue idee politiche contrastano in maniera piuttosto netta con quelle del ‘Terzo Polo’ in cui è candidata, in particolare nella politica estera che per il duo Calenda-Renzi da programma deve seguire la scia di quanto tracciato dal premier Mario Draghi.
Così sull’Ucraina si trovano sul profilo social della Modestino condivisioni a raffica degli interventi di Alessandro Orsini e Donatella Di Cesare, il primo sociologo della Luiss, la seconda filosofa, entrambi tacciato di ‘filo-putinismo’ per le loro opinioni sul conflitto scatenato dalla Russia. Italia che, per la Modestino, per la decisione di inviare aiuti a Kiev “adesso è la femme de chambre di Biden”, la donna delle pulizie del presidente Usa.
Non va meglio nel giudizio su Ursula von der Leyen, la presidente tedesca della Commissione europea, modello di Calenda nella sua elezione all’importante carica (grazie all’accordo tra popolari e socialisti a Bruxelles) per un governo in Italia sul ‘modello Ursula’ per tenere fuori sovranisti e populisti. Per la Modestino la von der Leyen è una “femme de chambre”, giudizio costante per la docente, rispetto ai padri fondatori dell’Europa, mentre Emmanuel Macron “un fattorino”.
Nel mare magnum di post al veleno della candidata del ‘Terzo Polo’, c’è spazio anche per il complottismo. Protagonista ancora una volta Ursula von der Leyen: nel pubblicare un articolo online (del 28 gennaio scorso) sulle critiche alla presidente della Commissione Ue per degli sms scambiati col Ceo di Pfizer, Modestino scrive infatti che “questi rapporti tra la lady Europa e il ceo di Pfizer potrebbero cambiare molte valutazioni sui vaccini e sui loro costi” e che “con sti vaccini avete giocato sporco”.
E di complottismo è ‘vittima’ anche il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che per la candidata di Azione in un post del 26 febbraio, a due giorni dallo scoppiare del conflitto, “si è messo in salvo a Leolopoli(o forse all’estero) diffondendo filmati registrati giorni fa…ma come si fa a non considerarlo un nemico del suo popolo”, chiede ai suo followers.
Il 22 febbraio, alla vigilia della guerra, Modestino si lanciava invece in una previsione sulle tensioni tra Russia e Ucraina in cui evidenziava come “la storia darà ragione a Putin mentre per Francia e Germania possiamo già parlare di pasticcio diplomatico su ogni fronte”.
La pubblicazione dei primi articoli online (tra cui quello del Riformista) sulle sue posizioni hanno spinto già questa mattina la Modestino a cancellare i post ‘incriminati’. Quindi il tentativo di ‘mettere una pezza’ alla questione, col tentativo della docente candidata con Azione di giustificare le sue posizioni: Modestino si dice “convintamente atlantista e europeista”, condannando “l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin non solo come pacifista, ma perché sono convinta che sia essenziale il valore della indipendenza dei popoli e degli Stati”.
Modestino scrivere quindi di ritenere “utile alla democrazia la pluralità di pensiero ed è questo che mi consente di rispettare anche posizioni non condivise. Il pensiero unico è la morte del pensiero e di una intera società, e questo è innegabile: nella storia il pensiero unico fu di coloro che condannarono Galileo ed è la condizione per abolire non solo ogni forma di conoscenza, ma è la condizione più pericolosa per la democrazia. Questo è quello che da sempre provo ad insegnare ai mei alunni”.
Un putiferio che ha costretto lo stesso Calenda ad intervenire pubblicamente sulla candidatura scomoda della Modestino, precisando via social che “la signora in questione è stata segnalata dal territorio, è un’insegnante e giornalista impegnata nel sociale a Caserta. Errore nostro non aver verificato i post su politica estera. Me ne assumo la responsabilità. Stiamo gestendo la cosa”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Da repubblica.it il 28 agosto 2022.
Un necrologio con la foto di Darya Dugina e la scritta "assassinata dall'odio anti russo". E' apparso in giro a Rimini nelle ultime ore.
La figlia del filosofo e politologo russo Aleksandr Dugin, ideologo di Vladimir Putin, Dugina, morta lo scorso 21 agosto, è stata vittima di un attentato, per mano dell'intelligence ucraina secondo la versione delle autorità russe: la donna è saltata in aria mentre era alla guida dell'auto del padre.
In ricordo della defunta una ventina di persone hanno partecipato a Rimini a una Santa Messa di suffragio oggi, domenica 28 agosto, celebrata nel Santuario della Madonna della Misericordia.
Il necrologio è firmato: "Le amiche e amici della Russia". Il parroco, don Sebastiano Benedettini, ha affermato di non essere a conoscenza e ha chiesto ai promotori dell'iniziativa di togliere dai manifesti quella frase sull'odio anti russo, ma è rimasto inascoltato.
Davide Gasparini, uno degli autori, ha rassicurato che non c'è "alcuna intenzione di schierarsi sul piano politico", ma si tratterebbe solo di "un'esposizione pacifica del proprio pensiero".
Da iltempo.it il 28 agosto 2022.
Il botta e risposta sui social tra Matteo Salvini e Roberto Saviano rischia di finire in tribunale. Il leader della Lega, rispondendo al solito attacco pretestuoso di Roberto Saviano, annuncia la querela. A innescare la miccia è proprio lo scrittore di Gomorra che su Facebook accusa Salvini e Berlusconi di essere "i più fedeli sostenitori di Putin" e definendo i rapporti tra i leader "indecorosi e ambigui".
E nella foto allegata al post, l'accusa più pesante che scatena la reazione di Salvini. "La notizia della spia russa infiltrata per 10 anni in Italia non deve stupire. I reali agenti che hanno agito per Putin senza nascondersi e senza documenti dell'Fsb sono Matteo Salvini e Silvio Berlusconi" scrive Saviano.
Sono accuse molto forti e inaccettabili quelle nei confronti dei due leader politici del centrodestra. Forse lo scrittore napoletano ha travisato la storia della spia russa infiltrata nella base Nato di Napoli, rilanciata qualche giorno fa dalle colonne del quotidiano La Repubblica. La donna, si legge sul quotidiano, sarebbe riuscita ad avvicinare personalità in vista del potere militare, ma non è chiaro quali informazioni sia riuscita a ottenere.
In ogni caso Salvini risponde a tono alla provocazione dello scrittore: "Io ho sempre difeso l'interesse nazionale italiano, nel mio Paese e nel mondo, a testa alta" scrive Salvini spiegando come "a prendere i soldi dei russi per anni sono stati i comunisti tanto cari a Saviano, non certo i leghisti".
Poi il leader della Lega rivendica i risultati del suo operato: "Da ministro ho combattuto le mafie coi fatti, con leggi e sequestri, abbattendone ville e confiscandone patrimoni. C'è chi chiacchiera e copia, c'è chi fa e ottiene risultati" prosegue Salvini. Ma è nel post scriptum che è riservata la mossa di Salvini: "Caro Roberto, hai vinto una querela che spero servirà a portare soldi a qualche associazione di volontariato che combatte la mafia coi fatti, non con le parole".
Loro di Mosca. Le relazioni ambigue tra Putin e i partiti bipopulisti italiani. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 20 Agosto 2022
La galleria degli orrori e connivenze dei nostri politici con il Cremlino è lunga: da Manlio Di Stefano che da grillino accusò l’Occidente di aver fatto in Ucraina un golpe ai danni di Mosca al patto di cooperazione tra Lega e Russia Unita rinnovato automaticamente fino al 2027. Ma anche la delegazione di Forza Italia che definì regolari le elezioni della farlocca repubblica separatista di Donetsk
LaPresse
Quando ci fu il caso Savoini, molti analisti si dissero certi che ci fossero dietro i Servizi russi, per il fatto che l’Hotel Metropol è notoriamente sotto stretto controllo del Fsb. Il dubbio era semmai un altro. Un regolamento di conti nei Servizi russi stessi? O non un piuttosto «avvertimento» a Salvini, che in quel momento si stava avvicinando a Donald Trump, e aveva anche proposto al Cremlino di fare una «prima mossa» in Ucraina?
Quando Luigi Di Maio, da ministro degli Esteri ancora nei Cinquestelle, si schierò con l’Ucraina dopo l’aggressione russa, su chat e Telegram apparvero minacce del tipo «Putin manda qualcuno ad ammazzarlo»: «Di Maio con una spranga nel cervello»; «ti faranno fuori». E si sa che a San Pietroburgo il Cremlino mantiene una fabbrica dei troll che spesso monta campagne anche in Italia. Ad esempio, quando chiese l’impeachment di Sergio Mattarella.
Precedenti da tener presente, quando su Telegram l’ex presidente della Federazione russa e attuale vicepresidente del consiglio di sicurezza nazionale Dmitrij Medvedev scrive che alle urne «vorremmo vedere i cittadini europei non solo esprimere il malcontento per le azioni dei loro governi, ma anche dire qualcosa di più coerente. Ad esempio, che li chiamino a rendere conto, punendoli per la loro evidente stupidità».
Una battuta di un personaggio che conta sempre di meno, e che per di più da un po’ di tempo quando esterna sembra farlo in condizioni di ebrezza etilica? Oppure, un altro avvertimento? Di Maio, che ormai dai Cinquestelle è uscito proprio per la rottura di Conte sulla questione ucraina, è stato netto sulla «ingerenza preoccupante del governo russo nelle elezioni italiane». Il Partito Democratico, pur lontano erede di un partito che in ere politiche remote era finanziato dall’Urss, ha chiesto ai partiti del centrodestra di prendere le distanze da Medvedev. Salvini, in effetti, non lo ha fatto: «Non mi interessano gli insulti del Pd. Voteranno gli italiani e non russi, cinesi ed eschimesi. All’estero possono dire quello che vogliono ma non mi interessa fare polemica col resto del mondo».
Va detto che in questo momento l’approccio di Salvini è isolato. Per Forza Italia la presidente della Commissione Esteri del Senato Stefania Craxi, dopo aver ricordato che Medvedev è «un signore che ci sta poco con la testa» il cui problema è piuttosto «di ordine politico o sanitario», ha riconosciuto che «sicuramente da anni la Russia ha messo in pratica in Italia e in tutta Europa un forte sistema di disinformazione e di ingerenze». Pur aggiungendo che «in questi 30 anni tutti hanno provato a instaurare un dialogo euro-russo con Vladimir Putin. Ricordo Romano Prodi quando era presidente della Commissione. Silvio Berlusconi a Pratica di Mare. Ci ha provato anche Angela Merkel. Abbiamo tutti sbagliato. Vuole che glielo dica? È stata un’illusione, ci siamo cascati».
Per Fratelli d’Italia, è il presidente del Copasir Adolfo Urso a parlare di «punta dell’iceberg» di un sistema «di ingerenze straniere nelle democrazie occidentali». Mentre Conte parla di intromissione «inopportuna e pericolosa». Lo stesso Conte, però, ha provocato una crisi di governo che ha oggettivamente fatto comodo al Cremlino. Fratelli d’Italia ha in questo momento una linea atlantica senza tentennamenti, ma secondo un suo stile tipico Giorgia Meloni ha cancellato i post su Facebook in cui ancora il 18 marzo 2018 faceva i «complimenti a Vladimir Putin per la sua quarta elezione a presidente della Federazione russa. La volontà del popolo in queste elezioni russe appare inequivocabile».
Quanto a Forza Italia, è stata l’invasione dell’Ucraina a far saltare una lectio magistralis di Putin che era stata organizzata dall’Universitas Libertatis di Berlusconi. «Putin non l’ho sentito di recente. Eravamo molto amici, ho fatto due telefonate all’inizio di questa operazione e non ho avuto risposte» ha spiegato lo stesso Berlusconi. «Dopo questo mi sono astenuto da ulteriori tentativi». Ha però aspettato aprile per condannare espressamente la guerra. Ha pure spiegato che se lo avessero eletto presidente sarebbe potuto «andare a ripetere con Putin» quanto fatto nel 2008. «Lo tenni al telefono cinque ore e gli dissi “sappi che se domani mattina invadi la Georgia divorzi dall’Unione Europea, dalla Nato e dagli Usa”».
C’è in teoria una differenza tra l’approccio di Berlusconi e quello di Salvini. La Lega ha infatti con Putin un rapporto tra partito e partito, da quando il 6 marzo del 2017 Salvini ha firmato a Mosca un patto di cooperazione con Russia Unita, il partito del dittatore. Quell’accordo scadeva il 6 marzo 2022, ma in mancanza di comunicazione è stato rinnovato automaticamente fino al 6 marzo 2027. Forza Italia sta invece nel Ppe e i pur chiassosi rapporti di amicizia intrattenuti tra Berlusconi e Putin sono nati in incontri tra di loro come uomini di Stato, e non come rapporti tra forze politica. Un atlantista indubbio come Antonio Martino spiegava nelle interviste che il loro obiettivo era stato quello di tirare la Russia dalla parte dell’Occidente, piuttosto che fare la fronda alla Nato.
Però Forza Italia assieme alla Lega ha promosso il voto con cui Veneto, Lombardia e Liguria riconobbero l’annessione della Crimea alla Russia, anche se poi dopo lo scoppio di questa guerra la decisione è stata annullata. E nel 2014 quattro esponenti di Forza Italia si recarono nel Donbass come osservatori alle elezioni della repubblica separatista di Donetsk, attestando che era stato «tutto regolare». Tra di loro anche Lucio Malan, ora passato con Fratelli d’Italia.
La cosa singolare è che, in modo assolutamente speculare al Pd oggi ultra-atlantista pur essendo erede del filo-sovietico Pci, in realtà forze politiche più di recente filo-Putin in passato avevano un atteggiamento opposto. I due ex Nicola Biondo e Marco Canestrari nel loro libro “Supernova I segreti, le bugie e i tradimenti del MoVimento 5 Stelle: storia vera di una nuova casta che si pretendeva anticasta”, testimoniano ad esempio che «fino al 2014, in coincidenza con la guerra in Ucraina, la Russia e Putin erano fuori dagli interessi del Movimento grillino. «Noi chiediamo che il governo venga a riferire in aula al più presto sugli oscuri affari con lo zar russo», chiede il gruppo Cinquestelle alla Camera quando Putin arriva in Italia. «Cosa significa Unione Europea se Putin annuncia l’intervento armato in Ucraina e noi non facciamo niente?», chiede angosciato nel marzo 2014 Roberto Fico.
Eppure, come spiegano sempre Biondo e Canestrari, «nel giro di un anno dalle parole di Fico, Putin passerà da essere l’uomo nero della politica mondiale allo statista di riferimento per il Movimento 5 stelle». Secondo loro, per un colpo di fulmine tra Alessandro Di Battista e Sergei Zheleznyak: un imprenditore proveniente dal mondo della comunicazione e della pubblicità già deputato putiniano del 2007, che nel 2012 diventa vice-presidente della Duma. Secondo un’analisi dell’Atlantic Council, sarebbe stato invece Davide Casaleggio in persona a decidere la svolta filo-russa nella primavera del 2015. Però anche secondo Biondo e Canestrari, «Putin è uno che tira, il suo nome produce traffico sulla rete».
Già nel giugno del 2014 la deputata Marta Grande fa alla Camera una denuncia demenziale, denunciando gli ucraini per cannibalismo ai danni dei russi sulle immagini di un film di fantascienza. Un anno dopo i Cinquestelle lanciano una campagna contro le sanzioni alla Russia, mentre sul blog di Grillo Di Stefano accusa l’Occidente di aver fatto in Ucraina un golpe. Una delegazione dei Cinquestelle va poi in Crimea, mentre i siti di area Cinquestelle si riempiono di contenuti RT e Sputnik. Di Battista come vice-presidente della Commissione Esteri della Camera è uno dei tre personaggi chiave di questa linea, assieme al capogruppo Cinquestelle alla Commissione Esteri della Camera Manlio Di Stefano e al capogruppo al Senato Petrocelli. Ma sarebbe stato Casaleggio a monitorare da vicino il processo.
Anche la Lega delle origini era anti-russa. Simpatizzando infatti per principio con ogni separatismo, tendeva a identificare la lotta per l’indipendenza della Padania dall’Italia con la rivolta delle nazioni oppresse contro l’Unione Sovietica. È con la Guerra del Kosovo che la Lega diventata filo-serba, per evidente antipatia verso un’Albania bollata come esportatrice di clandestini. Il 24 marzo 1999, quando la Nato inizia a bombardare la Serbia, i tre deputati della Lega nord, Enrico Cavalliere, Oreste Rossi e Luca Bagliani salgono su un’automobile e partono alla volta di Belgrado, per cercare di «evitare la guerra», mentre Bossi tuona contro gli americani «dominati dai framassoni e dai banchieri», «bambinoni a stelle e strisce». Il 23 aprile, al culmine della campagna di bombardamenti, Bossi stesso va a Belgrado bombardata per incontrare Milosevic per un’ora e mezzo.
La Lega ridiventa filo-Usa dopo l’11 settembre 2001, per riflesso anti-islamico che però considera il Putin della guerra ai ceceni un alleato strategico. Nel frattempo, l’ideologo del neo-nazionalismo russo Aleksandr Dugin inizia a essere popolare in certi ambienti di estrema destra, ancora molto minoritari, ma già in contatto con la Lega. Tra 2013 e 2014 la Lega inizia dunque a stabilire stretti legami con personaggi dell’entourage di Konstantin Malofeev: oligarca ultranazionalista e ultraortodosso. Nel febbraio 2014 è creata la Associazione Culturale Lombardia Russia, per facilitare lo sviluppo di rapporti non solo di affari ma anche politici.
Presidente della Acrl è Gianluca Savoini: giornalista e russologo storico della Lega. Iscritto al partito dal 1991 dopo essere passato per il gruppo di estrema destra Orion, che secondo il suo fondatore Maurizio Murelli aveva deciso apposta di infiltrare la Lega «perché debole culturalmente». Nominato portavoce da Salvini dopo il suo arrivo alla segreteria, il 18 dicembre 2013 Savoini è già riuscito a far intervenire Komov al congresso della Lega. Nel marzo del 2014 la Lega manda osservatori al referendum organizzato da Mosca in Crimea per legittimare l’annessione. E dal 2014 Salvini inizia a viaggiare a Mosca, esaltando Putin. Rapporti appunto sfociati nell’accordo tra partiti del 2017.
Ma bisogna ricordare che un fondo russofobo da residuo anticomunista c’è ancora nel centro-destra che vince le elezioni del 2001, e che istituisce Commissioni d’Inchiesta sul Dossier Mitrokhin e sui Telekom Serbia: appunto per cercare complicità della sinistra vecchia e nuova con despoti comunisti vecchi e nuovi. Presidente della Commissione Mitrokhin era il senatore Paolo Guzzanti, che nell’ottobre del 2008 ruppe clamorosamente con Berlusconi accusandolo di «far vomitare» per la sua posizione sulla guerra della Georgia. «Berlusconi ha superato se stesso paragonando il presidente georgiano Saakashvili a Saddam», disse. Può essere considerata la data che certifica la sterzata filo-Putin anche di Forza Italia.
Estratto dell’articolo di Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 20 agosto 2022.
Nel giorno in cui il Copasir, di cui è il presidente, approva all'unanimità la relazione sui dossier trattati nella legislatura dando indicazioni al Parlamento su come agire per rafforzare la tutela della sicurezza nazionale, Adolfo Urso lancia un appello a tutti i partiti. […]
Ma il problema dell'ingerenza di potenze straniere ostili sul voto è reale o no?
«Al di là della carnevalata di Medvedev, certo che è reale. E non solo ora che si vota, ma da almeno 10 anni. La Russia e la Cina sono regimi autoritari che in maniera pervasiva agiscono da tempo attraverso propaganda, fake news, sistemi di spionaggio: Mosca si muove soprattutto attraverso le ambasciate e la guerra ibrida cibernetica, Pechino più con la potenza imprenditoriale, con gli istituti di cultura. Entrambe poi ricorrono al cosiddetto elite capture, ovvero il reclutamento in grandi imprese di ex premier spesso o leader di Paesi occidentali, con incarichi di prestigio molto remunerati».
Anche italiani?
«No, nei dossier europei dove si fanno anche nomi non c'è nessun italiano. […]».
[…] «Regimi come Russia e Cina non aspettano altro che poter dire che le democrazie non funzionano più, che i voti non servono a niente […] Per loro è un regalo poter dire che i loro sistemi illiberali sono funzionali alla modernità e le nostre democrazie no. Non offriamo loro il fianco delegittimandoci a vicenda, demonizzandoci: non aspettano altro».
A questo proposito: il caso della premier finlandese Marin la insospettisce?
«Non ho elementi per dirlo, ma non mi stupirebbe se dietro quei video ci fosse un'operazione di disinformazione. Spesso la Russia mira a colpire la credibilità degli avversari, mentre la Cina agisce più esaltando la propria capacità economica. Ma sono comunque entrambi regimi che mirano all'accerchiamento dell'Europa[…]».
Estratto dell’articolo di Francesco Bechis per “il Messaggero” il 20 agosto 2022.
Ombre russe sulla campagna elettorale italiana. A lanciare l'allarme è la relazione annuale del Copasir. «Preoccupati dalla pervasività della ingerenza russa, le nostre agenzie di informazione e sicurezza e il comitato da diversi mesi stanno monitorando la situazione», si legge nel rapporto licenziato ieri dal comitato di controllo dell'intelligence. «Risulta indispensabile valutare i rischi per la sicurezza nazionale, legati alla possibile percezione che l'Italia sia maggiormente vulnerabile e permeabile all'influenza russa».
La politica italiana è entrata nel mirino della macchina di propaganda del Cremlino. E l'ingerenza va aumentando man mano che le elezioni si avvicinano. […] «L'opera di diffusione di false notizie riconducibili alla Federazione Russa risponde a una strategia già operativa da tempo e che in questi mesi ha trovato ulteriore consolidamento si legge nel documento.
Una campagna di disinformazione, riprende, che trova spazio «nell'ambito dei canali di informazione pubblica e privata attraverso soggetti che vengono ospitati e partecipano ad alcune trasmissioni con l'intento di veicolare la disinformazione e il tentativo di condizionare o comunque inquinare il processo di formazione delle libere opinioni che è un caposaldo delle società democratiche».
La frecciatina è rivolta agli ospiti filorussi nei talk show italiani […] Ma la tv non è l'unico canale per traghettare le fake russe nel dibattito politico italiano. «È stato altresì osservato che la propaganda azionata dal Cremlino si avvale di agenzie di stampa online controllate che pubblicano i propri contenuti in diverse lingue - compreso l'italiano - con decine di milioni di visualizzazioni, nella maggior parte dei casi del pubblico più giovane».
[…] «siti di propaganda e disinformazione di cui sono ignoti i sostenitori, le fonti di finanziamento e che non forniscono evidenze sui fatti narrati», avvisano i parlamentari del comitato bipartisan. Web, tv, social network. In campo ci sono attori diversi […] nel mirino degli 007, riferisce il Copasir, ci sono anche facilitatori italiani che «si adoperano come agenti di influenza e di disinformazione e che vantano rapporti con canali anche culturali della Federazione russa». […]
Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 16 settembre 2022.
La notizia arriva la sera di martedì 13 settembre e ha un effetto deflagrante sull'Italia, dove si sta consumando una campagna elettorale senza esclusione di colpi: il Cremlino ha finanziato partiti ed esponenti politici occidentali con 300 milioni di euro, per creare una zona di influenza positiva. E sono gli Stati Uniti ad avvertire di questo continuo passaggio di denaro che è partito sin dal 2014. Washington, però, non fa nomi né cita partiti specifici. Così dopo giorni di polemiche furiose e di sospetti, oggi il sottosegretario Franco Gabrielli, autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, andrà al Copasir per riferire che l'Italia non è presente in questi dossier: tre in tutto, uno dei quali secretato. Viene citata qui e là, ma senza specifici riferimenti.
I report dell'intelligence americana sul denaro elargito dalla Russia a Paesi amici, comprendono la stessa America, alla quale il segretario di Stato Anthony Blinken ha voluto inviare un messaggio in vista delle elezioni di midterm e dell'accanita campagna elettorale che Trump sta mettendo in atto.
I CHIARIMENTI La conferma che il nostro Paese fosse fuori dalla black list l'ha avuta direttamente il premier Mario Draghi che ha chiamato Blinken per chiedere chiarimenti. Altrettanto ha fatto con il capocentro Cia di stanza a Roma, il direttore dell'Aise, Giovanni Caravelli. E sarebbero arrivate rassicurazioni: il documento esiste, ma non si hanno segnalazioni specifiche sull'Italia e non esistono nomi o partiti.
Di vero c'è, però, che il sistema Mosca esiste ed è stato ampiamente segnalato dall'intelligence di mezzo mondo. Il passaggio non avviene con la consegna di denaro direttamente agli esponenti politici, ma attraverso think tank, fondazioni, istituti di cultura, aziende.
Alla Farnesina è stata anche notificata una nota di sintesi del dossier, ma è priva di indicazioni precise, e fa riferimento a quanto già uscito sulla stampa, ossia degli investimenti russi dal 2014 in poi in almeno venti paesi dell'Occidente.
Il caso può dirsi chiuso? Non ancora. Altri documenti potrebbero circolare. «Siamo in continuo contatto con gli americani - interviene il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio -, sia adesso sia nei prossimi giorni per tutti gli ulteriori aggiornamenti».
Il dossier più recente, quello che ha agitato in maggior modo le acque in Italia, è un cable contrassegnato come «sensibile» ma non classificato. Contiene una serie di talking point che i diplomatici Usa dovranno sollevare con i governi che li ospitano in merito alla supposta interferenza russa.
E, infatti, si stanno già svolgendo diversi briefing nelle ambasciate interessate. Si tratta di informazioni declassificate di un report dell'intelligence Usa, sulla scia di quanto già fatto dalla Casa Bianca per smascherare le mosse del Cremlino in Ucraina. Informazioni che sono state condivise con i governi dei Paesi alleati coinvolti.
I TARGET L'informativa non indica specifici target russi e non è la prima volta che l'intelligence Usa denuncia una campagna di influenza a suon di finanziamenti sui partiti nazionalisti, anti europei e di estrema destra che rappresentano circa il 20% del Parlamento europeo.
Alla National Intelligence guidata nel 2016 da James Clapper, il Congresso americano aveva assegnato l'incarico di controllare i finanziamenti russi degli ultimi 10 anni ai partiti europei, missione tuttora in corso. Anche allora non trapelarono i partiti coinvolti ma nel mirino finirono forze politiche in Francia, Paesi Bassi, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca e Italia, con la Lega di Matteo Salvini che ha negato ogni coinvolgimento.
Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 20 agosto 2022.
Luigi Di Maio ha avuto un'ottima idea. Ha detto alla Stampa che nella prossima legislatura occorrerà creare una commissione d'inchiesta per «indagare i rapporti tra i leader dei partiti italiani e alcuni mondi politici e finanziari russi. Perché sono successe delle cose assurde». Ad esempio che l'ambasciatore a Roma, Sergey Razov, abbia «fatto un endorsement alla risoluzione di Conte sull'Ucraina».
Anche se lanciata come strumento di polemica elettorale contro Giuseppe Conte e Matteo Salvini, la proposta del ministro degli Esteri è da apprezzare. E' necessario fare luce sui rapporti che altri Stati possono aver avuto con i leader e gli uomini di governo italiani, e sulle manovre per dirottare la nostra politica estera. Una simile inchiesta, però, non può limitarsi alla Russia.
C'è un'altra grande potenza che ha provato a ledere il nostro rapporto storico con gli Stati Uniti, e Di Maio lo sa bene, perché è la Cina.
Ecco, la commissione da lui proposta, che a norma di Costituzione procederà «alle indagini e agli esami con gli stessi poteri e le stesse limitazioni dell'autorità giudiziaria», oltre a lavorare sulle intromissioni di Mosca dovrebbe investigare su quelle di Pechino, e senza ignorare le ingerenze di Razov dovrebbe preoccuparsi di ciò che ha fatto Li Junhua, che dal luglio del 2019 è ambasciatore del regime cinese a Roma.
Per cominciare, la commissione potrebbe usare quei poteri per scoprire cosa ha fatto il fondatore, capo politico e infine garante dei Cinque Stelle nei suoi tanti colloqui con Li, svoltisi sia nella sede diplomatica cinese, sia nella residenza privata dell'ambasciatore. Un rapporto che pare iniziato nel 2013 col predecessore di Li, quando Beppe Grillo sarebbe entrato per la prima volta nell'ambasciata assieme a Gianroberto Casaleggio.
«Se qualcuno volesse sponsorizzare, in maniera pubblica ma riservata, un partito come il M5S, potrebbe usare una società privata come la Casaleggio associati», è l'ipotesi sulle intenzioni cinesi fatta da Marco Canestrari, ex dipendente della Casaleggio Associati, in un'intervista a Il Dubbio.
Di sicuro il rapporto ha dato buoni frutti. Il più evidente è stato la conversione di Grillo, sul cui blog, ancora nel 2017, si denunciavano «le conseguenze catastrofiche dell'apertura commerciale alla Cina». Due anni dopo il comico pubblicava sul web la foto che lo ritraeva assieme a Li, a testimonianza di «un piacevole incontro». E ora quello stesso blog è tutto zucchero e miele per il leader cinese Xi Jinping, il quale ci indica persino «un approccio unico ed efficace per costruire la pace» in Ucraina.
La commissione d'inchiesta non potrebbe chiamare a testimoniare l'ambasciatore né indagare sudi lui, ma nulla impedirebbe di farlo con Grillo. Anche per capire quali interessi avesse il rappresentante di Pechino, e quali argomenti abbia usato per far cambiare idea al comico, e con lui a tutti i Cinque Stelle.
Perché l'altro al quale quella commissione avrebbe tante domande da fare è proprio Di Maio. Nel marzo del 2019 l'allora vicepremier, ministro dello Sviluppo e capo del M5S, firmò, alla presenza di Xi e Conte, il memorandum che segnava l'ingresso dell'Italia nella «Belt and Road Initiative», la nuova «Via della Seta», lo strumento di collaborazione economica che la Cina usa per legare a sé, anche politicamente, i Paesi asiatici, africani ed europei, con una predilezione per quelli gravati da un alto debito pubblico.
Un evento destabilizzante per la politica estera italiana.
Come nota la relazione del Copasir approvata ieri, «l'ingerenza e le ambizioni globali di Pechino sono apparse evidenti in occasione del memorandum sulla Nuova Via della Seta e di 29 accordi commerciali e istituzionali tra Roma e Pechino». Senza fare «alcun passaggio parlamentare, l'Italia è diventata il primo Paese del G7 a sottoscrivere un accordo sul discusso maxipiano infrastrutturale della Repubblica Popolare».
Da Washington chiesero in tutti i modi a Di Maio e Conte di non farlo. Il portavoce del consiglio nazionale per la sicurezza Usa disse che l'Italia era «una preoccupazione speciale. Premendo perché firmi, la Cina pare credere che l'Italia sia economicamente vulnerabile o politicamente manipolabile». E l'ambasciatore a Roma, Lewis M. Eisenberg, avvisò che «gli Usa non possono condividere informazioni con Paesi che adottano tecnologie cinesi, siamo seriamente preoccupati sull'interoperabilità Nato».
E' dovuto arrivare Mario Draghi per raddrizzare le cose, e Di Maio è stato lestissimo a sposare l'atlantismo del premier. Gli interrogativi però restano e sono tanti. Si sommano a quelli sollevati a suo tempo da Matteo Renzi, che ha chiesto una commissione d'inchiesta «sulle mascherine, sui ventilatori e sugli acquisti dalla Cina» decisi dal governo Conte durante la pandemia. Perché Di Maio ha ragione, «cose assurde» in questi anni ne sono successe, ma non riguardano solo i suoi avversari, né solo la Russia.
La Pravda smentisce le accuse della sinistra: "Meloni troppo filo Nato". Mosca critica l'atlantismo della leader di Fdi Ma l'ingerenza non fa gioco al Pd. Che tace. Fausto Biloslavo il 21 Agosto 2022 su Il Giornale.
Tutti zitti se da Mosca attaccano Giorgia Meloni per le posizioni atlantiste e pro Ucraina. Silenzio assordante rispetto ad un paio di giorni fa quando le provocazioni russe sulle elezioni in Italia, interpretate in maniera strumentale come filo centro destra, hanno scatenato un assalto verbale da guerra alle porte.
Adesso la Pravda scrive che «la potenziale nuova premier italiana, Giorgia Meloni, ha scelto la strada del caos» colpevole di avere affermato «che sarà una ferma atlantista e sostenitrice dell'Ucraina» e per questo motivo «porterà l'Italia in una crisi ancora più profonda».
Titolo ad effetto sul sito del quotidiano erede dell'organo ufficiale del regime comunista sovietico ai tempi della guerra fredda. L'articolo è un affondo a Meloni e alla sue aspirazioni a guidare l'Italia, ma nessuno si scandalizza. Se Meloni viene attaccata dalla Pravda per la scelta di schierarsi con il mondo libero la sinistra fa finta di niente.
La testata accusa in rete la leader di Fratelli d'Italia, sostenendo che «Meloni pone un chiaro accento sull'immagine, più che sull'interesse nazionale». Tutto l'articolo, fedele alla linea del Cremlino, punta a dimostrare che la posizione atlantista è sbagliata e controproducente per gli interessi nazionali e le aziende italiane nel pieno della crisi del gas. E bolla Meloni come «ex euroscettica» che «ora non osa esserlo e si comprende perché: nella situazione attuale dell'Unione europea, non sarebbe in grado di definire un programma di coalizione né di qualificarsi per le elezioni». Poi si scaglia contro il supposto «silenzio sulla sua opposizione all'immigrazione e su quella che ha definito la lobby Lgbt». In realtà proprio in questi giorni si è consumato un duro botta e risposta sul contrasto agli sbarchi con il segretario del Pd, Enrico Letta.
Il presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza, Adolfo Urso, senatore di Fratelli d'Italia, ha subito evidenziato: «Non mi sembra di aver notato dichiarazioni di esponenti del governo o di leader politici a difesa di Giorgia Meloni così duramente attaccata dalla Pravda per le sue posizioni europee e atlantiche. È proprio in questi momenti che occorre dimostrare il massimo di unità nel difendere la sovranità nazionale da ogni tentativo di ingerenza straniera».
La Pravda, evocando il caos, dipinge un inesistente pericolo per il paese se Giorgia Meloni diventasse premier, che parte dal filo atlantismo fumo negli occhi per Mosca. Per assurdo le conclusioni sono simili ai rivali politici italiani che denunciano, al contrario, una linea morbida con Mosca e lo spettro infondato del fascismo.
Andrea Delmastro, deputato e capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Esteri, sottolinea che «il violento attacco della Pravda avvicina incredibilmente la grammatica del Cremlino a quella del centrosinistra».
Primo Di Nicola, capogruppo al Senato di Impegno Civico, prova a ribaltare la frittata tirando fuori la solita storia «dell'alleanza» di Meloni «con autocrati alla Orban o alla polacca». Forse il suo capo partito e ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, dovrebbe spiegargli che il premier ungherese fa ancora parte dall'Unione europea e il governo polacco è il più fermo sostenitore di Kiev contro i russi.
Timidamente, Lia Quartapelle, responsabile esteri nella segreteria Pd, prendendola molto alla lontana, ricorda che «il Copasir denuncia le ingerenze russe e cinesi. Non possono esserci posizioni elettoralistiche o silenzi e ambiguità di comodo». Sulla Pravda neanche una parola.
Giampaolo Rossi e Gennaro Sangiuliano: due filoputiniani alla corte di Giorgia Meloni. Susanna Turco su L'Espresso il 19 Agosto 2022.
Tweet, blog e dichiarazioni che un po’ imbarazzano un po’ fanno comodo al mondo di Fratelli d’Italia. Tracce lasciate da due fra gli intellettuali più ascoltati dalla leader di Fdi (l’ex del Cda Rai è l’uomo che sta scrivendo il programma). Da Putin salvatore della Russia a Putin vittima del complotto delle lite. Ma ce ne è anche per Mattarella. Gran finale: la «pelata del Duce»
Ma chi l’ha detto che in Fratelli d’Italia non c’è classe dirigente. Ispirata forse dalla stessa ambivalenza da vedo/non vedo che evidentemente scoraggia in Fratelli d’Italia pubblicazione social di messaggi su Ucraina e la Russia, Giorgia Meloni ha stretti a corte- ne valuta anche la candidatura in Parlamento, in questi caotici giorni di trattative sulle liste – due sopraffini intellettuali, fra gli altri.
Gennaro Sangiuliano, attuale direttore del Tg2, nel cuore sempre il sogno di salire di testata oltre ogni ridotta di destra, ma anche perennemente in predicato di una candidatura, sì come instancabilmente egli si offre (in questi mesi soprattutto) di presentare eventi con tutti i protagonisti della destra, a una settimana di distanza (l’ha fatto con la Versiliana, l’aveva fatto in primavera con le varie convention).
Giampaolo Rossi, archeologo di formazione, assai ascoltato dalla leader di Fdi, ex consigliere di una Rai dove non disdegnerebbe di tornare ma puntando ancora più in alto, ora impegnato nella stesura del programma di Fratelli d’Italia come fece un anno fa per l’indimenticabile aspirante sindaco di Roma Enrico Michetti. «Penso che Putin sia il punto più avanzato che un Paese come la Russia, con il suo bagaglio storico, possa consentirsi in questo momento», ha detto l’uno alla presentazione del suo libro al festival Come il vento nel mare, nell’estate 2019. «Ecco perché bisogna punire la Russia di Putin: per educare il resto del mondo. Guai a chi si oppone ai disegni del nuovo ordine mondiale imposti dall’elite e dai fedeli scudieri che governano le democrazie occidentali», ha scritto l’altro nella primavera 2018.
Due soffici filoputiniani che oggi benissimo s’adatterebbero interpretare gli umori di quella fetta di elettorato che la destra meloniana porta in pancia senza troppi strepiti (tutto fa brodo, del resto).
Sarà per questo che tutt’ora la rete pullula dei loro pensieri. Svolti anni fa. Attualissimi, per certi versi. «Putin ha dato identità, orgoglio, visione e progetto ad un paese che era umiliato e disastrato», spiegava Sangiuliano nel 2018, ai tempi dell’uscita della sua biografia su Putin, “vita di uno zar”. «Ha dato stabilità politica, condizioni di vita migliori, per la prima volta si è creata una classe media e le condizioni di vita sono oggettivamente migliorate», diceva al Tempo il 17 marzo di quell’anno, mentre sui media dominava il caso dell’avvelenamento da Novichok della ex spia russa, naturalizzata britannica, Sergej Skripal. «Putin avrebbe potuto ordinarlo? Ma che interesse poteva avere a far uccidere un signore in pensione (…) il sospetto è che forse Theresa May abbia un interesse politico a cavalcare questa vicenda», diceva Sangiuliano nell’intervista.
Stessa linea esternava, sul suo blog, Giampaolo Rossi, aggiungendo sempre il 17 marzo 2018 che «l’immagine dei soldati di sua maestà che si aggirano con le tute anti-batteriologiche (…) è la perfetta icona di cui il mainstream ha bisogno per spaventare l’opinione pubblica e additare Mosca come un pericolo per l’occidente». Perché, continuava, «Putin paga l’aver combattuto e sconfitto Daesh, l’aver impedito l’abbattimento del regime di Assad (…) Ecco perché bisogna punire la Russia di Putin: per educare il resto del mondo».
Un po’ tranchant? Rossi, «marinettiano» per autodefinizione, non si nasconde dietro le parole. Con Putin e non solo.
Sempre in quella feconda primavera del 2018, non si risparmiò col capo dello Stato Sergio Mattarella, all’epoca impegnato nell’operazione ostetrica di far nascere un governo dalle elezioni del 4 marzo.
Dandogli su twitter del Dracula, come abbiamo raccontato, e praticamente del golpista («con Mattarella siamo ad uno stadio successivo della fine della nostra sovranità: #Napolitano aveva abbattuto un governo legittimo; #Mattarella ha impedito che nascesse. Lo step successivo sarà cancellare definitivamente il parlamento. #euro #golpe).
Bisogna invece risalire ancora indietro per ritrovare Mussolini. Non solo per il «video eccezionale del 1927 di un Mussolini inedito e americano» (29 luglio 2016). Ma soprattutto per la questione del paragone tra Grillo e Mussolini. «Questa storia è insopportabile, il problema è estetico», spiegava Rossi, con il rimando a un post che si può dire definitivo, risalente all’aprile 2013. Il cuore del ragionamento: «Grillo non sarà mai Mussolini per ragioni estetiche. Per esempio: c’è qualcuno che ha il coraggio di paragonare il ditino moralista, gli occhietti socchiusi, la vocina gracchiante di Grillo, ai pugni sui fianchi, lo sguardo allucinato e la voce roboante dell’uomo della Provvidenza? E c’è qualche stilista che potrebbe preferire la polo sgualcita che malcela l’indole borghese, con la virilità della camicia nera che anticipava di settant’anni lo stile Armani? E poi, si possono paragonare le piazze riempite dai volti livorosi e arcigni degli sbandieratori del Che con le adunate gloriose e piene di tricolori e moschetti? (…) e dietro la pelata del Duce c’era una generazione ardita e legionaria plasmata nelle trincee della grande guerra; invece spostando la chioma di Grillo, si incontra una generazione stanca e annoiata, cresciuta su Facebook e che sa a malapena che la bandiera italiana ha tre colori».
Insomma «non c’è paragone: Grillo sta a Mussolini come la foto di Obama che mangia un panino da Mc Donald sta al Napoleone sul cavallo rampante dipinto da Jacques Louis David». Nel frattempo, Grillo è sbiadito tra questioni giudiziarie. Tutti gli altri stanno ancora lì, le «adunate gloriose» non sappiamo.
Le buone relazioni. Quello che spaventa di Salvini è che non gliene frega niente dei crimini russi in Ucraina.
Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 2 Agosto 2022.
Il segretario della Lega, rispondendo alle accuse per le sue frequentazioni dell’ambasciata russa, ha sottolineato che bisogna tenersi pronti perché «prima o poi questa guerra finirà», segno del suo totale disinteresse della strategia di invasione e distruzione da parte di Mosca
Nei giorni scorsi le cronache si sono gettate, a mio parere, su di una “non notizia”: lo scoop della Stampa. Che Matteo Salvini abbia intrattenuto rapporti con l’ambasciata russa e con faccendieri come Antonio Capuano è un segreto di Pulcinella, perché fu proprio il leader della Lega ad ammetterlo e a vantarsene. Salvini (o chi per lui) ha frequentato l’ambasciata quando si era messo in testo di andare a Mosca per farsi ricevere da Putin (almeno da Lavrov) e promuovere il cessate il fuoco in Ucraina.
È plausibile che in questi colloqui si sia parlato della situazione italiana e che qualche interlocutore di rango (a conoscenza degli antichi amori, mai smentiti, di Salvini per Putin e informato dalla semplice lettura dei quotidiani, della sofferenza con la quale il capo del partito federato (non pentito) con Russia unita faceva parte di un governo considerato tra i più occidentali dal Cremlino) abbia chiesto all’ex Capitano quali fossero le sue reali intenzioni.
Anche la smentita di Franco Gabrielli non riguardava l’incontro, ma teneva a precisare che il verbale non proveniva dai nostri servizi, come a dire che gli uffici non perdono il loro tempo a carpire quello che è arcinoto da anni.
Non mi pare che invece sia data importanza a una dichiarazione del leader della Lega, rilasciata nello stesso momento in cui definiva «fesserie» le indiscrezioni della Stampa, senza smentirle (come invece ha fatto Forza Italia nel caso delle presunte telefonate di Berlusconi). «Noi alleati dei Paesi occidentali, ma non significa non volere anche buoni rapporti con Putin», perché – ha aggiunto Salvini – prima o poi questa guerra finirà.
Questa dichiarazione, rilasciata in campagna elettorale nelle stesse ore in cui Giorgia Meloni sentiva l’esigenza di schierarsi – davanti alla Direzione di FdI – con gli eroi di Kyjiv è la prova di quale sia l’effettiva posizione di Salvini se fosse un autorevole componente di un nuovo governo e di una diversa maggioranza. Putin è un amico che ha sbagliato ed è incorso in questa fastidiosa circostanza che lo costringe a massacrare un popolo. Ma, tutto sommato, si tratta di un episodio che non mette in crisi un rapporto di amicizia. Quando la guerra finirà (ovvero in Ucraina o in buona parte di essa resteranno solo macerie e fosse comuni) tutto potrà tornare come prima, perché, a parere di Salvini, non esiste un imperialismo russo alla ricerca di radicale trasformazione dell’equilibrio geopolitico, non è nelle intenzioni del Cremlino sconfiggere l’Occidente, ricattando l’Europa per la sua dipendenza energetica.
Per prendere conoscenza delle intenzioni dello Zar del Cremlino è consigliata la lettura di un saggio dello storico slavista francese Nicolas Werth (“Putin historien en chef”) che raccoglie i testi di scritti e discorsi di Vladimir Putin. Giustamente quell’antologia è stata paragonata (da un noto editorialista) al “Mein Kampf” di Adolf Hitler per tanti motivi, in particolare, perché a Putin (come a suo tempo a Hitler) non può essere imputata nessuna dissimulazione: ambedue hanno fatto quanto avevano annunciato. Anche se non erano stati creduti.
Ecco i progetti di Putin per quanto riguarda l’Ucraina: da Zelensky all’ultimo cittadino ucraino sono tutti colpevoli, perché «la denazificazione è necessaria quando una parte significativa del popolo – molto probabilmente la maggioranza – viene dominata e trascinata dal regime nazista nella sua politica. Cioè quando l’ipotesi “il popolo è buono – il governo è cattivo” non funziona». Poi Putin passa a spiegare in che cosa consiste la denazificazione: «È un insieme di misure nei confronti della massa nazificata della popolazione, che tecnicamente non può essere punita direttamente come criminale di guerra. I nazisti che hanno preso le armi devono essere distrutti il più possibile sul campo di battaglia (…….) I criminali di guerra e i nazisti attivi devono essere puniti in modo sommario ed esemplare. È necessario procedere a una liquidazione totale. Tutte le organizzazioni che si sono legate alla pratica del nazismo devono essere eliminate e messe al bando».
L’ulteriore denazificazione di questa massa di popolazione consiste nella rieducazione, che si ottiene attraverso la repressione ideologica (soppressione) degli atteggiamenti nazisti e una dura censura: non solo nella sfera politica, ma necessariamente anche in quella della cultura e dell’istruzione. Tutto ciò perché il nazismo «ucraino rappresenta per la pace e la Russia una minaccia non minore, ma maggiore del nazismo tedesco di Hitler». Quale sarà il destino di questa nazione tanto pericolosa? «Evidentemente, il nome “Ucraina” non può essere mantenuto come titolo di una formazione statale completamente denazificata sul territorio liberato dal regime nazista (…) Il riscatto dal senso di colpa nei confronti della Russia per averla trattata come un nemico può realizzarsi solo affidandosi alla Russia nei processi di ricostruzione, rigenerazione e sviluppo».
Quanto al quadro geopolitico post-bellico, secondo Putin, potrebbe sopravvivere un’Ucraina ostile alla Russia, ma forzatamente neutrale e smilitarizzata, con un nazismo formalmente bandito. Gli «odiatori della Russia» andranno lì. Che questa Ucraina residua rimanga neutrale sarebbe garantita «probabilmente» da una presenza militare russa permanente sul suo territorio. «Dalla linea di alienazione e fino al confine russo sarebbe il territorio di potenziale integrazione nella civiltà russa, antifascista nel suo intimo».
Ecco, dunque, come potrebbe finire quella maledetta guerra che ha creato dei problemi ai buoni rapporti con la Russia, costringendoci a diversificare le fonti di approvvigionamento energetico, a praticare le sanzioni, a mandare mezzi militari a Kiev, a consolidare l’appartenenza alle alleanze occidentali e alle loro istituzioni.
Credo che a questo punto non si possa evitare una domanda. Che cosa si sarebbe pensato se un importante politico inglese, durante la seconda guerra mondiale, avesse detto: «Prima o poi questo Hitler finirà di invadere altre nazioni e di sterminare gli ebrei. Così potremo riprendere buone relazioni con la Germania»?
Lucia Annunziata per “La Stampa” l'1 agosto 2022.
Questa che segue è la ricostruzione del primo scontro fra Europa e Salvini, per altro perso dal leghista, che, come si ricorderà, proprio su questo perderà il Governo, nel 2019, per mano del suo alleato di allora, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. La ricostruzione è tratta dal libro «L’inquilino», storia dei governi degli ultimi dieci anni, che sta per uscire per Feltrinelli.
Il caso dei fondi russi
Il 10 luglio del 2019, il sito americano BuzzFeed annuncia di essere in possesso di una registrazione del colloquio a Mosca in cui si discute delle modalità per erogare fondi al partito di Salvini. È lo stesso colloquio di cui aveva parlato l’Espresso 6 mesi prima. Ma stavolta c’è un’incontrovertibile prova: un audio.
«Sei uomini si incontrano per una riunione di lavoro la mattina del 18 ottobre dell’anno scorso tra il rumore di tazzine e l’opulenza delle colonne di marmo dell’iconico Hotel Metropol di Mosca, per parlare di progetti mirati a una “grande alleanza”. I sei uomini - tre russi e tre italiani - si riuniscono sotto la spettacolare volta dipinta della lobby, avendo anche loro in mente un’operazione storica. Formalmente stanno trattando un accordo per una partita di petrolio; il vero scopo è quello di indebolire le democrazie liberali e formare una nuova Europa nazionalista allineata con Mosca».
L’audio racconta come i sei uomini discutano con cura i vari modi per poter “inviare segretamente” decine di milioni di dollari della Russia per colui che è definito «il più forte leader europeo di estrema destra».
La conversazione registrata dal sito americano riprende e conferma in maniera definitiva l’inchiesta dell’Espresso nel racconto degli inviati Giovanni Tizian e Stefano Vergine, pubblicato il 24 febbraio 2018. Il piano è quello di una falsa vendita di 3 milioni di tonnellate di gasolio da vendere tramite un’azienda italiana (nell’audio si parla di Eni, che smentisce subito) per sostenere con un finto scambio commerciale i sovranisti alle vicine europee. «Non sappiamo se l’affare sia stato concluso», scrive l’Espresso. Salvini si attaccherà proprio a questo «non ho visto un rublo» per la sua difesa.
Ma l’audio del sito americano rivela una vicinanza politica imbarazzante a un certo sottobosco politico russo, personaggi vicini a Putin che lavorano non solo con Salvini ma con le maggiori figure del sovranismo europeo.
Per dirla con Marco Minniti, predecessore di Salvini al Viminale, la questione non è il finanziamento ma quello di «una possibile soggezione del Ministro degli Interni, Matteo Salvini, nei confronti della Russia». Minniti inquadra la posta in gioco di quel che succede a Mosca.
«In Russia si sta certamente giocando una importante e delicata partita con l’Europa, Matteo Salvini ricopre la massima carica dello Stato in materia di sicurezza nazionale per questo il ministro deve venire a chiarire in Parlamento non in diretta su Facebook».
Salvini, insomma, è parte di un nuovo “grande gioco” politico fra Russia ed Europa. Il problema infatti non è la sua collocazione, ma il suo ruolo nella costruzione di quello che, anche nel colloquio riportato da BuzzFeed, i russi con cui parlano i salviniani definiscono come il progetto di «indebolire le democrazie liberali e formare una nuova Europa nazionalista allineata con Mosca».
Le elezioni europee del 2019 tuttavia non danno la vittoria al fronte “antieuropa” come sperato dai sovranisti. Il risultato elettorale complessivo del voto di maggio consente alle forze europeiste di isolare i nazionalisti.
La rottura della maggioranza del governo italiano si consuma infatti in Europa prima ancora che in Italia. I 5 Stelle votano a favore della Von der Leyen, incassando loro la vicepresidenza che sarebbe dovuta andare alla Lega. Von Der Leyen si rivelerà una pedina fondamentale contro i sovranisti.
Un altro deludente evento segna il destino di Salvini in quel periodo: il viaggio a Washington del 17 giugno programmato per capitalizzare sul fronte delle relazioni atlantiche la grande vittoria alle europee di maggio, si rivela un altro schiaffo. Ci si aspetta molto da questa visita. E in Europa la si osserva con attenzione. I grandi giornali americani (fra cui Time Magazine, che mette Salvini fra i cento uomini più influenti del mondo) lo considerano un leader «alla Trump».
Ma il viaggio non va esattamente così. Salvini vede Mike Pompeo, segretario di Stato, e il vicepresidente Mike Pence. Probabilmente avrà dato spiegazioni sulle mille e contraddittorie alleanze dell’Italia gialloverde a trazione leghista - Putin, innanzitutto, ma anche tutte le altre “stranezze geopolitiche”, agli occhi di Washington, del governo populista, come la forte relazione con la Cina e il Venezuela; ed è probabile che qualcuno a Washington ricordi ancora il vecchio amore per Saddam e per Milosevic, esaltati dai ruspantissimi leghisti all’epoca della guerra con la Jugoslavia negli Anni 90.
È ancora a Washington, lì dove le cose che avvengono in Occidente si sanno tutte, che si trova una spiegazione di come abbia funzionato quel primo scontro che, ripetiamo, ha fatto cadere Salvini e il suo governo con i 5S. Nel luglio di quel 2019 vado dunque a Washington. Il lavoro fatto viene poi pubblicato su Huffington Post, per cui allora lavoravo, il 23 luglio del 2019 - e non viene mai smentito.
Dietro il Russiagate, secondo le opinioni che raccolsi, si vedevano i segnali di un nuovo attivismo dei Servizi tedeschi contro i sovranisti, di un diverso modo di interpretare la propria leadership sul vecchio continente e di un’America decisa a non lasciare campo a Putin.
La manina che più efficacemente potrebbe aver lavorato contro i sovranisti italiani sarebbe tedesca. Nel quadro di una “riattivizzazione” a tutto campo della strategia della Germania per difendere l’Europa dal risorgente nazionalismo, e dalla Russia di Vladimir Putin - un’uscita dal tradizionale schema della leadership “riluttante” che ha caratterizzato la Germania nel Dopoguerra.
Passo intrapreso con il consenso/conoscenza della Francia e della Gran Bretagna, nonché degli Stati Uniti, a dispetto delle affermazioni di rutilante simpatia che il presidente americano Donald Trump ha sempre espresso nei confronti del leader russo Putin.
Questa è la storia che circola tra le due sponde dell’Atlantico in risposta alla sola domanda che interessa fuori dall’Italia sul caso Salvini/Mosca: chi ha incastrato il leader della Lega, vice premier e ministro dell’Interno italiano? Domanda non da spy story - anche se, come vedremo, di spy story è tutto il tono della vicenda - ma di pura politica.
La vicenda dei rapporti Lega/Mosca, comunque la si voglia interpretare, fuori dall’Italia ha colpito perché segnala alle élite della politica estera occidentale la necessità di fare, dopo le recenti elezioni per il governo di Bruxelles, i conti con il nuovo assetto interno dell’Europa e dei rapporti inter-atlantici.
Nei sensibilissimi think tank americani, o nelle sfere dei professionisti della politica globale, alcune novità sono state immediatamente registrate. Va detto anche che, al momento, alla domanda su chi abbia incastrato Salvini nessuno ha risposta certa, ma solo serie ipotesi.
Il campanello d’allarme che avverte di un nuovo clima in Europa suona proprio nella capitale di uno stato simbolo, un luogo che è stato un passaggio cruciale del conflitto europeo del secolo scorso: l’Austria. Il 17 maggio di quest’anno, a poche ore dal nuovo voto europeo, per il quale le urne si aprono dal 23 al 26, viene reso pubblico un video che riguarda il politico più discusso e più in ascesa dell’Austria, Heinz-Christian Strache, leader del partito di estrema destra, il Freedom Party.
Nel video, girato nel 2017 in una villa di Ibiza, Strache e un suo collega, parlano per sei ore di donazioni illegittime al partito, con una donna che si presenta come la nipote di un oligarca russo, che vuole influenzare la politica austriaca con il suo denaro. La donna vuole comprare il 50 per cento di un grande giornale austriaco, per aiutare il Freedom Party.
Strache, che si impegna a darle in cambio ricchi contratti di Stato, tira in mezzo anche il sovranista Viktor Orban, dicendo di voler «costruire un panorama mediatico» come quello in Ungheria - in ammirazione della politica di chiusura dei media in quel Paese.
L’incontro era una trappola. Il video viene passato ai media tedeschi e in poche ore porta alle dimissioni di Strache, cancella l’Austria dalle elezioni europee, e distrugge il Governo austriaco, che si avvia a nuove elezioni questo settembre.
Per molti versi la vicenda sembra una storia molto locale, di un Paese da sempre attraversato da una forte corrente di estremismo di destra. Ma la lezione nel cuore dell’Europa centrale viene ben capita. Il Freedom Party di Strache è stato fondato da un neo nazista e si dichiara amico della Russia.
Il giovane cancelliere Sebastian Kurz forma una coalizione con questo partito, nel 2017, ricevendo molte critiche, incluso dalla Germania, nell’idea che i conservatori moderati possano a loro volta servire a moderare, con l’inclusione nel governo, i neonazi.
Strategia che fallisce miseramente. Ma il potenziale impatto dello scandalo accende l’attenzione internazionale su quel che può accadere nel resto dell’Europa. Alina Polyakova, esperta di questioni di estrema destra per il Brookings Institute di Washington, scrive sul New York Times che la vicenda prova che gli estremisti non possono essere moderati, anche quando entrano al Governo.
«Altri politici europei che si trovano a confrontare con una destra estrema dovrebbero capirlo. A fronte di tutta la retorica di sovranità nazionale regolarmente celebrata da Marine Le Pen, Matteo Salvini e altri leader populisti, la caduta di Strache prova che tutte queste idee sono solo copertura di opportunismo e ipocrisia».
Che i populisti siano un pericolo da fermare è un’idea che assume una forte valenza proprio intorno a quello scandalo, nelle ore immediatamente a ridosso dell’apertura delle urne per le europee.
Chi c’è dietro quella trappola? Molti parlano degli stessi russi, ma molti vi vedono un ruolo tedesco - magari non di organizzazione, ma certamente di facilitazione. Sono i giornali tedeschi che riverberano lo scandalo, il tema del pericolo populista; ma è soprattutto Vienna a far scattare l’associazione con la Germania. Dire Austria ha avuto a lungo il significato, ed è vero ancora oggi, di dire Germania.
Dalla tragica avanguardia antisemita della “Notte dei cristalli” nel 1938, alla guerra pericolosa e sottile degli anni della Guerra Fredda, appunto. L’influenza della Germania è ancora oggi molto estesa, nei Paesi dell’Est. I rapporti fra Russia e Germania sono nella storia europea fra i più stretti: persino nella divisione creata dal Muro, quando la Germania era il cuore e il confine di un conflitto per la sopravvivenza di due modi di vedere l’Europa, questi rapporti sono rimasti intrecciatissimi.
Proprio per questo, nella Guerra Fredda gli inglesi e gli americani in prima fila contro la Russia si sono sempre basati sulla struttura operativa, inteso come uomini, conoscenze, contatti, costituita dalla rete tedesca - spesso delle due parti della Germania.
L’ 8 luglio, meno di due mesi dopo la tempesta austriaca, arriva un’altra pubblicazione, quella degli audio di un gruppo di leghisti che, suppostamente a nome della Lega di Matteo Salvini, tratta un finanziamento illegale con dei russi a tutt’oggi non identificati. La trattativa non va in porto nemmeno questa volta, come non era andata in porto quella di Ibiza. Le somiglianze con il caso austriaco sono però sorprendenti: i due avvenimenti sono la fotocopia l’uno dell’altro. E il parallelismo non va perso.
La Lega si difende dallo scandalo, sottolineando l’aspetto geopolitico della trappola, cita i Servizi, parla dei francesi, della Massoneria. Gli avversari della Lega evocano la possibilità che gli stessi russi avrebbero tradito il proprio alleato - per fare un favore all’America, per scaricare un alleato che ha tradito le aspettative. Ma la storia che siano gli stessi russi è in parte troppo contraddittoria. Seguendo invece la pista della “operatività” e del “cui prodest”, si arriva molto più vicini a una pista più politicamente fondata.
La trappola stavolta viene resa nota per vie americane, Buzzfeed e New York Times. E non è audace sostenere che è questo il passaggio che serve: laddove la questione austriaca era molto europea, il rapporto con Mosca di Matteo Salvini, vincitore delle elezioni europee e astro nascente del nazionalismo europeo, ci porta dritti diritti agli americani, che pure, nel 2019, dovrebbero essere alleati del leader leghista tanto quanto Putin.
E la domanda che si pone è: Washington sapeva o meno? Gli Usa sono stati protagonisti o solo spettatori? E sono stati contenti o meno? Ma non è forse l’amministrazione Trump amica di Salvini e dialogante con Putin?
Questa definizione, che dal nostro lato dell’Atlantico, è una opinione indiscussa, a Washington non è invece tale. L’America non sta con Putin e non intende lasciare via libera alla Russia in Europa. Il rapporto fra Putin e i nazionalisti europei ha finito con il diventare una sfida frontale alla sovranità europea, i nazionalisti visti come la quinta colonna, la “porta di servizio” attraverso cui la Russia rientra in Europa.
Intanto, la scena politica sembra ampiamente appoggiare l’ipotesi di una Germania che allarga il proprio campo di azione. Che il primo atto della presidente Von der Leyen sia stato quello di non incontrare Salvini e di allontanare i voti leghisti è un altro segno di una lotta che si sposta dal controllo delle spese delle nazioni alla sfida diretta.
Così come inequivocabili sono state le parole di Angela Merkel, nei primi giorni del nuovo governo europeo, sul tema oggi più sensibile - il nazismo e il pericolo di una destra che ritorna in Europa. Nel discorso di commemorazione del fallito attentato ad Adolf Hitler, Merkel ha collegato l’evento al presente della Germania: «Questo giorno ci ricorda non solo chi agì nel 20 luglio del 1944, ma tutti coloro che si sono opposti al regime nazista. Oggi siamo ugualmente obbligati a opporci a tutte le tendenze che cercano di distruggere la democrazia. Compreso l’estremismo di destra».
È stato questo l’inizio di un nuovo ruolo, più “interventista” dell’Europa nella difesa della propria stabilità? La guerra che la Russia ha portato nel nostro continente, attaccando l’Ucraina, e contro cui l’Europa ha reagito, prova che non stiamo parlando di sciocchezze.
Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 29 luglio 2022.
"Ho parlato con l'ambasciatore Razov, mi ha spiegato che la Russia...". Mercoledì scorso. Sono le ore folli che precedono la crisi di governo. Silvio Berlusconi alza il telefono, prima di eclissarsi a metà giornata e non rispondere al cellulare per almeno un'ora. Chiama un paio dei suoi ministri. Contatta alcuni parlamentari azzurri. Si confida con diversi big accorsi a Villa Grande, dove si sta consumando la cacciata di Mario Draghi.
A tutti, il Cavaliere consegna alcune critiche sui presunti errori in politica estera del premier che sta per silurare. E a un certo punto si lascia sfuggire una vera e propria rivelazione: "Ho parlato con l'ambasciatore russo in Italia Razov. Mi ha spiegato le loro ragioni, cosa ha fatto Zelensky". Di più: "Mi ha raccontato che è stata l'Ucraina a provocare ventimila vittime nelle zone contese. E che l'invasione era necessaria perché il rischio era che l'Ucraina attaccasse la Russia".
Al di là dell'enormità della tesi, che stravolge tutti i recenti eventi della crisi ucraina, il Cavaliere rende noto qualcosa che noto non era: il leader di uno dei partiti di maggioranza che non voterà la fiducia al presidente del Consiglio - lui, sì, attestato su una linea atlantica - è entrato in contatto con il terminale diplomatico di Mosca in Italia. Con chi cioè, ai massimi livelli, brinderà all'affossamento dell'ex banchiere.
E d'altra parte, non è un mistero che Silvio Berlusconi sia sensibile alle ragioni di Mosca. Il suo rapporto con Putin è antico, consolidato, cementato in passato dalla sintonia su numerosi dossier. Nulla o quasi è cambiato dopo l'attacco di Mosca all'Ucraina. Al 24 febbraio sono seguiti giorni di silenzio.
Poi è arrivata una prima, moderata presa di posizione contro l'aggressione. Infine il Cavaliere è tornato a sposare le tesi dello Zar. Secondo diverse fonti, la virata è nata dopo un primo contatto con i russi. E si è concretizzata il 20 maggio scorso.
A Napoli per un evento di Forza Italia, l'ex premier critica la Nato e rilancia: "L'Europa deve fare una proposta di pace cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin. Inviare armi significa essere cobelligeranti". In quelle settimane pressioni della diplomazia americana giungono fino a Gianni Letta, per comprendere la linea del Cavaliere. Ma dura poco. Berlusconi non si spende per Kiev. Fino alla telefonata con Razov, rivelata dallo stesso leader.
L'ambasciata russa in Italia è anche il canale con cui Salvini tiene i contatti con Mosca. Il teatro di incontri con Razov subito dopo l'avvio della guerra. Secondo alcune indiscrezioni, il leghista avrebbe ripreso a frequentare la sede diplomatica nelle ultime settimane. Tre o quattro volte tra fine giugno e fine luglio, ospite di Razov o del suo vice.
Lo staff di Salvini, pur rivendicando i colloqui del passato, sostiene però che "gli ultimi contatti del segretario con l'ambasciata risalgono a maggio". Repubblica ha chiesto un commento anche all'ambasciata russa, senza ottenere risposta. Fonti di intelligence escludono, invece, che ci possa essere stato un controllo del lavoro di parlamentari o leader politici, oggi come nei mesi scorsi.
Diverso è il discorso dal punto di vista russo: come dimostra il caso Biot, l'ambasciata lavora da tempo come centrale del controspionaggio. Per influire, in qualche modo, sulle vicende politiche interne.
Di certo, il dialogo tra Berlusconi, Salvini e la diplomazia russa imbarazza Giorgia Meloni. Già nel mirino della stampa internazionale, deve provare a distinguersi dagli alleati. E rassicurare l'attuale amministrazione Usa, che ha memoria dei suoi passati rapporti con Donald Trump. "Saremo garanti senza ambiguità della collocazione italiana - promette - e dell'assoluto sostegno all'eroica battaglia del popolo ucraino".
Sono tutte novità che si aggiungono a quanto pubblicato ieri dalla Stampa sui contatti avuti il 27 e 28 maggio dal consigliere di Salvini per i rapporti internazionali, Antonio Capuano, con Oleg Kostyukov, un funzionario dell'ambasciata russa, nel periodo in cui Carroccio e 5S si opponevano all'invio di armi a Kiev.
Il funzionario avrebbe chiesto se i ministri leghisti fossero intenzionati a dimettersi. Il leader del Carroccio ha replicato parlando di "fake news". Il sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli ha negato un ruolo dell'intelligence italiana nella vicenda. Enrico Letta e Luigi Di Maio denunciano però queste "rivelazioni inquietanti". E anche Fratelli d'Italia attacca: "Le questioni di carattere internazionale vanno chiarite e approfondite".
Il quotidiano di Belpietro: abbiamo pubblicato la notizia nel giugno scorso. Che ci sia della malafede è evidente. Redazione di Open.online.it il 29 luglio 2022.
Nel giallo dell’incontro tra Oleg Kostyukov e Antonio Capuano, che voleva organizzare un viaggio a Mosca per Matteo Salvini, oggi La Verità attacca La Stampa. Il giornale fondato da Maurizio Belpietro segnala che aveva pubblicato già un mese fa la storia su Salvini a Mosca citando presunti documenti degli 007. E in più, scrive Giacomo Amadori, associa i fatti alla caduta del governo Draghi. Mentre nella loro interpretazione il Capitano ha rinunciato al viaggio proprio per evitare danni all’esecutivo. «Nella serata del 28 maggio Capuano avrebbe spiegato ai suoi interlocutori dell’ambasciata (Kostyukov, ndr) che il leader della Lega sarebbe tornato sui suoi passi anche per evitare di danneggiare con la sua decisione l’esecutivo. I russi, da parte loro, avrebbero negato possibili ripercussioni su Mosca per la fuga di notizie e si sarebbero mostrati interessati a sapere se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo», è la frase presente nell’articolo pubblicato nel giugno scorso.
Amadori scrive anche che l’autore dell’articolo su La Stampa, ovvero Jacopo Iacoboni, ha citato il quotidiano di Belpietro in un pezzo comparso sul giornale torinese il 17 giugno che parlava dell’acquisto dei biglietti da parte di Kostyukov. E proprio in quell’articolo si raccontava la questione delle dimissioni dei ministri della Lega. Il direttore Belpietro va all’attacco: «Perché trasporre la notizia fino a farla coincidere con i giorni della crisi, quasi che la domanda su una possibile uscita dal governo da parte della Lega fosse riconducibile alla caduta del governo Draghi? La risposta credo che ognuno la possa fornire da sé. Con il polverone si cerca di far credere che esista un legame tra la crisi di governo e il contatto fra il consigliere di Salvini e i russi, quasi che la prima sia stata ispirata da Mosca. Che ci sia della malafede pare evidente. Evidentemente, la disperazione – di perdere le elezioni – fa brutti scherzi».
Giacomo Amadori per “La Verità” il 30 luglio 2022.
In Italia è nato un nuovo modello di giornalismo investigativo basato su inchieste di riporto. Ecco le semplici regole: leggere le esclusive della Verità, cercare qualche pezza o qualche fonte che li confermi, ripubblicarli praticamente tali e quali qualche settimana dopo, ma con titoli a caratteri cubitali così da suscitare un'«eco assai maggiore», come ha evidenziato qualcuno.
Avvalorando la tesi che, in un mondo di lettori distratti, non è importante se la notizia sia nuova, ma quanto sia strillata. Una lezione confermata dai pigri redattori di siti e tv che in questi giorni hanno rilanciato a più riprese i presunti «scoop» della Stampa sugli abboccamenti di Matteo Salvini e del suo ex consigliere per i rapporti internazionali, Antonio Capuano, con l'ambasciata russa.
E poco importa che qualcuno possa accorgersi delle scopiazzature, tanto, come recita il vecchio adagio, non esiste niente di più inedito di quanto già edito. Il Pulitzer di questo nuovo tipo di giornalismo è Jacopo Iacoboni, arcigna firma atlantista in servizio permanente effettivo contro l'invasore fu bolscevico.
Se ci fosse una guerra in Corea lui sarebbe embedded a Seul, se ci fosse un nuovo Vietnam, lui invierebbe febbrili reportage da Hanoi, se qualcuno rialzasse la cortina di ferro lui scriverebbe accovacciato ai bordi del ponte di Glienicke, meglio conosciuto come Ponte delle spie, in stile Montanelli con una Lettera 22 sulle ginocchia.
Non è un mestiere trascurabile quello del defensor libertatis a mani nude. E lui si applica moltissimo. Usando per i suoi pezzi qualunque cartuccella gli si passi sottobanco. È stato foraggiato dalla Bestia renziana quando Renzi era un baluardo anti Putin e filo Obama con posto nel cda di una società moscovita. Ma quando si è interrotto il flusso informativo che partiva da Rignano sull'Arno, il nostro paladino dei valori occidentali ha iniziato a cercare veline altrove. Rischiando qualche inciampo.
Come gli è accaduto l'altro ieri, quando ha riferito baldanzoso di aver «visionato documenti di intelligence» sui legami tra Salvini, Capuano e i russi. Subito il sottosegretario con delega ai servizi segreti Franco Gabrielli ha bollato come «prive di ogni fondamento le indiscrezioni apparse sul quotidiano La Stampa, in merito all'attribuzione all'Intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra l'avvocato Capuano e rappresentanti dell'ambasciata della Federazione Russa in Italia, per far cadere il governo Draghi».
Ma la smentita di Gabrielli («scontata» per il direttore del quotidiano torinese Massimo Giannini) si presta a varie interpretazioni. Ha negato l'esistenza di intercettazioni o il significato che ne ha dato La Stampa?
A noi pare che escluda che la crisi di governo sia mai stata tema di discussione con i diplomatici russi.
Di fronte alla rettifica di Gabrielli, il quotidiano torinese ha dovuto innestare la retromarcia, che ha aggiustato il tiro più sul contenitore che sul contenuto: «I dettagli sugli incontri e sulle conversazioni tra Kostyukov (Oleg, importante funzionario dell'ambasciata russa a Roma, ndr) e Capuano sono contenuti in documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence comunicato a suo tempo ai competenti livelli istituzionali» ha vergato Giannini.
«Documenti informali di sintesi», in pratica veline compilate con l'inchiostro simpatico, riassunti di ipotetici colloqui probabilmente mai trascritti in modo ufficiale. In sostanza annotazioni fantasma inutilizzabili.
Ma Iacoboni, ieri, ha proseguito nella sua opera di «scoopista del mese dopo» e ha offerto ai suoi lettori un'altra notizia pubblicata l'11 giugno sulla Verità.
Se possibile con un titolo («Lega, da Mosca a Pechino») sparato a caratteri ancor più grandi di quelli usati due giorni fa. A cui seguiva questo sottotitolo: «Nuove rivelazioni segrete nelle sintesi dei documenti degli 007. I contatti dell'emissario di Salvini con l'ambasciata a Roma. Progettava una missione in Cina di ritorno da viaggio in Russia».
Nel corpo dell'articolo era riportato quanto segue: «Nell'aprile 2022 Capuano si sarebbe confrontato con il capo della sezione politica dell'ambasciata cinese in Italia, Zhang Yanyu, proprio "per riferirgli di una missione programmata dal leader della Lega a Mosca dal 3 al 7 maggio, finalizzata a incontrare Istituzioni, Ministro degli esteri e Presidente russi". I cinesi insomma vengono a sapere della possibile missione russa (inizialmente prevista a inizio, non a fine maggio) di un membro decisivo della maggioranza Draghi, quando ancora lo stesso premier italiano non ne è informato. Russia e Cina, separatamente, sanno, Italia no».
Una considerazione quasi certamente errata visto che Capuano, mentre quei fatti accadevano, era monitorato dalla nostra intelligence, a causa dei suoi rapporti con spie di Mosca.
Comunque noi, l'11 giugno, avevamo offerto ai nostri lettori informazioni più dettagliate sui rapporti tra la Lega e l'ambasciata cinese mediati da Capuano. Avevamo ricordato che pochi giorni dopo l'intervento a favore di Taipei del parlamentare del Carroccio Paolo Formentini, che era riuscito a far approvare una mozione a favore dell'isola secessionista, «il capo della sezione pubblica dell'ambasciata cinese in Italia Zhang Yanyu si sarebbe lamentato con Capuano per l'associazione fatta da Formentini tra Taiwan e l'Ucraina, un parallelismo che non sarebbe per nulla piaciuto nemmeno al ministero degli Esteri di Pechino».
Quindi avevamo aggiunto un capitoletto, anticipando di quaranta giorni lo «scoop» della Stampa, sul possibile ruolo dei diplomatici cinesi nella delicata trasferta russa di Salvini. Leggiamo: «A inizio marzo Capuano avrebbe fatto incontrare Salvini, che per mesi aveva attaccato la Cina su temi come il 5G, con Zhang e con l'ambasciatore Li Junhua per iniziare un avvicinamento tra la Lega e il Paese del Dragone. E quando Salvini ha deciso di andare in visita a Mosca Capuano ha subito coinvolto i diplomatici cinesi di stanza a Roma».
A onor del vero Iacoboni ha riferito anche questo: «Capuano si muove "chiedendo al diplomatico cinese la possibilità di organizzare, prima di rientrare dalla Russia, un incontro a Pechino con il Ministro degli esteri cinese, Wang Yi" [] Capuano è così interessato anche a una sorta di coinvolgimento dei cinesi, da proporre di superare eventuali restrizioni dovute alla pandemia organizzando l'incontro da remoto, nella sede dell'ambasciata cinese».
Peccato che pure questa parte fosse già stata anticipata dalla Verità: «Capuano a fine aprile ha anche sondato la possibilità di organizzare dopo la visita a Mosca e prima di rientrare in Italia, un incontro a Pechino per Salvini con il ministro degli Esteri cinese Wang Yi per portare avanti l'ambizioso piano di pace del leader leghista. Un meeting che, vista l'emergenza Covid, si sarebbe potuto anche tenere da remoto da Roma».
E avevamo arricchito la notizia con questo particolare: «Addirittura è stata accarezzata l'ipotesi di tenere un tavolo di pace tra russi e ucraini in Italia, presso l'ambasciata cinese della Capitale». Qualcuno obietterà che Iacoboni, a proposito delle trattative con l'ambasciata russa, ieri abbia riportato un ulteriore passaggio del presunto brogliaccio in suo possesso.
Questo: «In aggiunta Capuano auspicherebbe anche un possibile incontro di Salvini con il presidente Putin, sempre nella giornata del 31 maggio». Mentre leggevamo, abbiamo avuto un déjà vu. Forse perché sulla Verità del 10 giugno avevamo scritto: «Capuano, in aggiunta, avrebbe auspicato anche un possibile incontro di Salvini con il presidente Putin sempre nella giornata del 31 maggio».
Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 28 Luglio 2022.
I rapporti tra Matteo Salvini e uomini dell'ambasciata russa in Italia continuano ad agitare la politica. A giugno la notizia degli incontri segreti del leghista e del suo consigliere diplomatico Antonio Capuano con l'ambasciatore Sergey Razov (raccontate da Domani) e quella sull'acquisto dei biglietti aerei per l'asserito “viaggio di pace” a Mosca del Capitano (un’esclusiva della Verità) avevano creato imbarazzo al partito e polemiche.
Ieri un nuovo retroscena della Stampa ha aggiunto dettagli interessanti alla liaison tra il Carroccio e gli emissari di Vladimir Putin. Che riguardano alcuni colloqui avvenuti lo scorso fine maggio tra Capuano e Oleg Kostyukov, il capo dell'ufficio politico dell'ambasciata già finito sulle cronache per aver anticipato i soldi dei voli, poi restituiti dalla Lega.
Secondo il quotidiano torinese – che cita e virgoletta le parole di un presunto documento informale dell'intelligence - durante uno di questi colloqui il funzionario russo domanderebbe a Capuano se i ministri della Lega sarebbero «intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi». Un quesito che farebbe «trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del governo italiano con questa operazione».
Draghi, atlantista e convinto assertore dall'aiuto militare all'Ucraina sempre contrastato dalla Lega (e dai Cinque Stelle), è caduto poco più di un mese dopo il colloquio riportato dal giornale. Per tutta la giornata il centrosinistra ha chiesto a Salvini di spiegare se la scelta di non dare la fiducia a Draghi sia stata o meno condizionata dalle pressioni dei russi. Salvini e i suoi uomini hanno reagito parlando di una «panzana».
Salvini ha pure anticipato una smentita istituzionale all'articolo, arrivata in effetti da Franco Gabrielli pochi minuti dopo. Il sottosegretario con delega ai servizi segreti ha detto che «l'attribuzione all'intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra Capuano e rappresentanti dell'ambasciata russa per far cadere il governo Draghi sono prive di ogni fondamento». La Stampa ha confermato lo scoop e l'esistenza di documenti, seppur definendoli «una sintesi informale dell'intelligence sulla vicenda, comunicata ai competenti livelli istituzionali». Ossia, allo stesso Gabrielli, che però dice che le informazioni non sono attribuibili al comparto che sovrintende.
Dunque, chi mente? Esistono o meno carte delle nostre agenzie di sicurezza che riportano frasi in cui Kostyukov (figlio del comandante del Gru, i servizi militari russi) in cui si fanno domande o pressioni sul consigliere di Salvini per fare cadere un esecutivo non gradito?
Domani ha sentito fonti interne al comparto, funzionari russi e autorevoli esponenti governativi vicino al dossier, e può aggiungere qualche tassello. Testimonianze che evidenziano soprattutto come all'origine dell'episodio ci sia stata un'operazione di spionaggio dei nostri servizi, che hanno effettuato – scopre adesso Domani - intercettazioni preventive sul telefono di Capuano.
Il contenuto di alcune conversazione captate tra il russo e l'avvocato di Frattaminore sono poi finite – forse a causa di qualche fonte interna ai servizi o alla catena di funzionari al Dis e a palazzo Chigi che conoscevano i fatti – prima alla Verità (che aveva già dato l’identica notizia di ieri il 10 giugno) e poi alla Stampa (che ieri l'ha rilanciata con eco assai maggiore).
Una fuga di notizie che in queste ore sta preoccupando le nostre agenzie di sicurezza, in primis l'Aisi di Mario Parente e poi il Dis di Elisabetta Belloni: quasi mai intercettazioni preventive effettuate dai servizi a cittadini italiani o stranieri sono arrivate in tempo reale – seppur secondo Gabrielli in maniera imprecisa e non mediata dall'intelligence – sui media.
Partiamo dalla sera primo marzo 2022. L'invasione di Mosca dell'Ucraina è iniziata da pochi giorni, e Salvini e Capuano varcano il portone dell'ambasciata russa a Roma. Forse non sanno che villa Abamelek sul Gianicolo è uno dei palazzi più sorvegliati d'Italia. Non solo dalla polizia per normali questioni di sicurezza, ma anche dal nostro controspionaggio dell'Aisi e dai servizi segreti americani.
Capuano è pure segnalato dall'antiriciclaggio, ed è noto da tempo per avere eccellenti rapporti con l'ambasciatori mediorientali. Dopo la sua seconda visita in ambasciata, seguendo la prassi (che prevederebbe una richiesta alla procura generale in caso di captazione) la nostra intelligence decide di intercettare il telefono del legale campano. I nostri 007 vogliono capire chi sono i suoi interlocutori, e se dietro l'attivismo del neo consigliere diplomatico di Salvini ci siano rischi per la sicurezza nazionale.
A fine maggio il telefono di Capuano diventa caldissimo. Lui e Salvini hanno infatti deciso, d'accordo con Razov, di partire per la Russia e incontrare pezzi grossi del Cremlino, compreso il ministro degli esteri Lavrov. I nostri agenti ascoltano tutto, compreso il pasticcio dell'acquisto dei biglietti: la Lega non riesce a comprarli per via delle sanzioni, così il capo dell’ufficio politico Kostyukov si offre di comprali di tasca sua, anticipando la somma in rubli. Il viaggio, poi, salta quando l'ipotesi di una visita a Mosca di Salvini finisce sui giornali.
A giugno il caso riesplode prima su Domani, che svela cene e incontri tra Razov e Salvini, e poi sulla Verità che pubblica la vicenda dei biglietti aerei, conosciuta a pochissimi uomini della cerchia del leader leghista. Salvini si domanda chi possa averla spifferata al giornale amico, e comincia a sospettare di qualche talpa all'interno dei nostri apparati di sicurezza. «È in quel momento che abbiamo capito che Capuano probabilmente era stato intercettato», spiegano alcuni fedelissimi del leghista.
Il 10 giugno la Verità pubblica un articolo sugli affari di Capuano. Anche stavolta, le informazioni sembrano provenire da fonti che hanno ascoltato direttamente i colloqui. Nelle righe finali, viene riporta esattamente la notizia pubblicata ieri dalla Stampa. Senza citare fonti né documenti di intelligence, La Verità scrive: «Nella serata del 28 maggio...i russi (parlando con Capuano, ndr) da parte loro si sarebbero mostrati interessati a sapere se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni del governo». Un testo identico a quello del documento ufficioso citato dal foglio torinese.
Fonti diplomatiche russe negano a Domani che ci sia mai stata da parte di Mosca alcuna operazione di sabotaggio dell'odiato Draghi, e che in quei giorni «sui giornali italiani era un susseguirsi di dichiarazioni della Lega contro il governo sulla questione del ddl Concorrenza e dei balneari». Insomma, pure se Kostyukov avesse fatto la domanda a Capuano sui ministri, non si trattava per i russi di una pressione sulla Lega per far cadere il governo, ma di una semplice curiosità politica, suppur certamente interessata. Abbiamo provato a chiamare il funzionario per sapere se avesse fatto quella domanda e a qual fine, ma senza successo.
La vecchia notizia dalla Verità torna in prima pagina sulla Stampa, e assume un sapore assai più rilevante: non solo perché intanto il governo è davvero caduto anche per mano della Lega, ma perché viene citato un documento dell'intelligence che conterrebbe virgolettati precisi di quei colloqui.
Nel pezzo non parla mai di intercettazioni da parte del controspionaggio, ma diversi testimoni spiegano a Domani che il contenuto delle telefonate tra Capuano e Kostyukov verrebbe proprio dalle “preventive” ordinate mesi prima dall’Aisi. Ma perché Gabrielli scrive dunque una nota così netta? Perché vuole proteggere l'intelligence tenendola fuori dalla tenzone elettorale. E perché, conoscendo bene il contenuto delle telefonate (come ovvio che sia, essendo autorità delegata), in assenza di trascrizioni e documenti ufficiali delle stesse vuole buttare acqua sul fuoco delle polemiche politiche. Perché nelle interlocuzioni registrate della coppia non ci sarebbero indicazioni di operazioni, come scrive Gabrielli, «per far cadere il governo Draghi».
Qualcuno nell'Aisi dice che non esisterebbe nemmeno una corrispondenza letterale tra le registrazioni dei colloqui e le frasi virgolettate uscite sui giornali, ma il tema è secondario. Le interlocuzioni tra russi, Salvini e Capuano ci sono state eccome, e la nuova vicenda pone senza dubbio ulteriori interrogativi sulla natura dei reali rapporti tra Salvini e la Russia, e sul perché il leghista si sia affidato a uno come Capuano.
Quante intercettazioni inedite di Capuano hanno ancora in mano i nostri servizi e/o altri soggetti di apparati stranieri? E chi e perché – anche se a spizzichi e bocconi – ha fatto uscire materiale segreto così dirompente?
È quello che si chiede oggi Salvini, che sa bene che lui stesso potrebbe essere stato registrato nel caso avesse chiamato il telefono del consulente.
Il problema politico è triplice. Perché il segretario di un partito che si appresta a governare, invece di fare mea culpa per le sue frequentazioni pericolose, denuncia complotti. Ma la verità che da Gianluca Savoini, protagonista dello scandalo Metropol, all'avvocato Capuano è lui e la sua corte la causa primaria delle sue sventure.
Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per "Domani" il 30 luglio 2022.
Il 17 ottobre 2014, a Milano, Matteo Salvini ha incontrato Vladimir Putin. Un caffè al volo dopo una convention sull’Eurasia. Forse il primo incontro tra il capo della Lega e il presidente della federazione russa. In quei giorni però l’antiriciclaggio italiana fa una scoperta, uno strano giro di denaro in contatti subito segnalato come sospetto: 125mila dollari movimentati da un alto funzionario dell’ambasciata russa in Italia, Oleg Kostyukov, lo stesso che in questi mesi ha curato le relazioni con Matteo Salvini e il suo consulente improvvisato, Antonio Capuano, l’avvocato di Frattaminore (Napoli) con un passato in Forza Italia e relazioni con il mondo della diplomazia soprattutto mediorientale.
«Oleg Kostyukov, addetto consolare del consolato generale della Federazione russa, ha convertito in contanti in data 1 ottobre 2014, 25mila dollari, e il 14 ottobre, 100mila dollari, senza farli transitare dal proprio conto corrente e senza esibire alcuna dichiarazione doganale.
Inoltre il sospetto è nato dal fatto che il cliente ha motivato l’operazione come cambio per utilizzo delegazione russa presente in Italia per vertice Eurasia, ma senza operare sul conto corrente consolare».
Perché non utilizzare le carte di credito collegate ai conti diplomatici?, è la domanda che i detective finanziari si sono posti. La segnalazione è stata poi girata ai reparti speciali della finanza, senza grandi risultati. Possibile che la truppa diplomatica al seguito di Putin avesse necessità di così tanta liquidità per spese di routine?
O quelle somme servivano ad altro? I documenti ottenuti da Domani non aggiungono nulla sulla meta di quel malloppo, certamente però collocano la movimentazione pochissimi giorni prima dell’arrivo del presidente russo a Milano e del suo incontro con il capo della Lega. E rivelano la giustificazione data da Kustykov all’istituto di credito: servivano alla delegazione in arrivo in Italia per il vertice Eurasia.
«Con Putin venti minuti di incontro, cordiale e costruttivo. Abbiamo parlato di immigrazione, di pace, di imprese italiane, di valori comuni, di un’altra Europa possibile», aveva annunciato trionfante il Capitano sui social.
Lo stesso giorno era accaduto un evento storico: Putin aveva incontrato l’allora presidente ucraino Petro Poroshenko, riaprendo così uno spiraglio che poi porterà agli accordi di Minsk 2.
Le cronache dell’epoca ricordano che Putin ha fatto di tutto per dedicare qualche minuto a Salvini, mentre non ha trovato il tempo per salutare il vecchio amico Silvio Berlusconi. Al fianco del leader leghista era presente Gianluca Savoini, l’ex portavoce di Matteo e protagonista, quattro anni più tardi, della trattativa dell’hotel Metropol durante la quale si è discusso di un maxi piano di finanziamento russo al partito.
Nella stessa sala con Putin c’era Sergey Razov, l’ambasciatore in Italia incontrato da Salvini in gran segreto nei mesi scorsi per discutere di pace in Ucraina.
Torniamo però ai soldi in contanti messi a disposizione da Oleg Kostyukov, oggi al centro delle cronache per i suoi rapporti con la Lega: c’era lui all’ambasciata durante gli incontri tra Salvini, il consulente Capuano e l’ambasciatore Razov; è lui che ha parlato con Capuano dopo gli incontri; e ancora lui che ha anticipato i soldi per i biglietti dei voli per Mosca sui quali avrebbero dovuto viaggiare Salvini e il suo consigliere. Viaggio in cui il leader della Lega e il consulente avevano programmato, coordinandosi con l’ambasciata russa a Roma, incontri di alto livello con l’obiettivo di promuovere un piano di pace elaborato da Capuano e Salvini. La gita a Mosca è stata poi annullata per le polemiche.
Kostykov è un alto funzionario dell’ambasciata russa a Roma, con ogni probabilità il figlio del capo dei servizi segreti militari (Gru) di Mosca alle dirette dipendenze del ministero della Difesa, impegnato in prima linea nell’invasione dell’Ucraina.
Parentela mai confermata ma neppure smentita dall’ambasciata in Italia. Secondo i giornalisti investigativi di Insider, la famiglia Kostyukov ha accumulato ricchezze enormi e l’ha reinvestita nel settore immobiliare. L’inchiesta giornalistica cita Oleg come uno dei protagonisti di questi affari, e manovre finanziarie, il quale, contattato, non ha risposto a Insider e neanche a Domani.
Kostyukov junior è il vicario dell’ufficio politico dell’ambasciata. Alcuni anni fa è stato anche addetto del consolato generale di Russia a Milano e ha lavorato a stretto con Alexei Paramonov, pezzo grosso del ministero degli Esteri di Putin e a marzo scorso dato per certo come sostituto dell’attuale ambasciatore russo presso la Santa sede.
(ANSA il 28 luglio 2022) - L'ambasciata russa in Italia non commenta quanto pubblicato oggi da La Stampa su un presunto colloquio tra un funzionario della sede diplomatica e un emissario di Matteo Salvini.
"L'ambasciata non ha nulla da aggiungere a quello che è già stato detto in giugno", riferisce una fonte.
In giugno l'ambasciata aveva reso noto di avere "assistito Salvini e le persone che lo accompagnavano nell'acquisto dei biglietti aerei" per il suo viaggio a Mosca previsto per il 29 maggio, poi cancellato.
L'ambasciata aveva aggiunto che la cifra era stata restituita da Salvini e che il rimborso sarebbe avvenuto anche se il viaggio ci fosse stato.
Da tag43.it il 28 luglio 2022.
«Fesserie». Matteo Salvini ha commentato così il retroscena della Stampa sull’incontro tra il suo consigliere Antonio Capuano, e il diplomatico russo Oleg Kostyukov, avvenuto due mesi prima della caduta di Draghi, proprio nel periodo in cui Lega e M5s si proclamavano contrari a un nuovo invio di armi all’Ucraina.
Come riporta La Stampa, che cita un documento dell’intelligence, Kostyukov avrebbe contattato il consigliere per i rapporti internazionali del leader della Lega Capuano chiedendogli se i ministri del Carroccio fossero intenzionati a dimettersi dal governo, in modo da farlo cadere. Non è la prima volta che Kostyukov viene accostato a Salvini: vicario dell’ufficio politico dell’ambasciata russa a Roma, aveva comprato a Salvini i biglietti aerei per Mosca in vista della missione poi saltata.
Oleg Kostyukov, suo padre è dal 2018 il capo di uno dei servizi di intelligence di Mosca
Ma chi è veramente Oleg Kostyukov? Secondo quanto scoperto da The Insider, il 35enne sarebbe figlio dell’ammiraglio Igor Kostyukov, che dal 2018 è a capo del Gru, ovvero uno dei servizi di intelligence di Mosca, direttamente dipendente dal ministero della Difesa. Il padre è sotto sanzioni occidentali per la sua presunta interferenza nelle elezioni americane; per l’avvelenamento dell’ex spia russa Sergei Skripal, avvenuta a marzo a Salisbury, in Inghilterra; per gli attacchi informatici al Bundestag avvenuti nel 2015 e nel 2018. L’ambasciata non ha mai confermato la parentela, ma i documenti pubblicati da The Insider non lascerebbero dubbi.
Insieme alla sorella Alena Solomonova (che ha cambiato cognome dopo il matrimonio) avrebbero un patrimonio quantificabile in 200 milioni di rubli (3,2 milioni di euro), incompatibile con i rispettivi salari e, tra l’altro con numerose proprietà terriere e immobiliari non acquistate a loro nome. Solomonova, sposata con un uomo la cui azienda ha dichiarato bancarotta, gestisce il gruppo di società Regions, di proprietà del deputato della Duma Zelimkhan Mutsoyev e di suo fratello, il cittadino britannico Amirkhan Mori. Il sospetto, evidenzia The Insider, è che dietro ci sia la munifica mano del padre, il quale a sua volta avrebbe ottenuto ingenti somme di denaro una volta arrivato al vertice del Gru.
Il diplomatico Oleg Kostyukov in passato ha lavorato anche con Alexei Paramonov, direttore del Primo dipartimento europeo del ministero degli Esteri russo, che a marzo aveva puntato il dito contro il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, accusandolo di essere tra i principali ispiratori di una campagna antirussa nel governo, a seguito dell’attacco all’Ucraina: intervistato da Ria Novosti, Paramonov aveva ricordato l’aiuto fornito dalla Russia al nostro Paese a inizio 2020, in piena emergenza pandemica. Aiuto che però, come hanno dimostrato varie inchieste, fu tutt’altro che disinteressato e gratuito. Secondo un articolo pubblicato il mese scorso su La Stampa, Kostyukov potrebbe presto diventare ambasciatore della Federazione Russa presso la Santa Sede.
Giovanni Tizian E Nello Trocchia per “Domani” il 30 luglio 2022.
«Mi massacrano per screditarlo», « la stampa con me ha fatto uno schifo », «gli incontri all’ambasciata? Non lo so quanti sono». Antonio Capuano nel suo racconto omette molte cose e indossa mille abiti. Curioso che non ricordi neppure il numero dei summit dai russi.
Il misterioso consulente di Matteo Salvini per gli affari esteri, più che per le sue doti diplomatiche colpisce per le mezze frasi, le smentite e i rocamboleschi giri di parole. Dice, ma soprattutto non dice nell’ora e più di incontro nel suo studio nei giorni caldi in cui Domani aveva raccontato degli incontri segreti in ambasciata tra Capuano, Razov e Salvini. Cosa nasconde?
Capuano ha un passato in Forza Italia prima dell’avventura leghista. «Sono stato deputato dal 2001 al 2006. Io ho pagato un prezzo notevole, ero contro il sistema politico di Cosentino (l’ex sottosegretario all’economia e coordinatore campano di Forza Italia, ndr) e così non sono stato ricandidato», dice in versione martire. Ma c’è sempre una seconda possibilità e l’avvocato trova sponda in un altro partito di centrodestra. Negli ultimi tempi si è avvicinato alla Lega e si è trovato così all’improvviso consigliere del leader leghista Salvini su un fantomatico piano di pace da proporre alla Russia.
Dopo la notizia degli incontri in ambasciata, era scomparso dai radar, quando è tornato nuovamente protagonista della politica italiana perché un funzionario dell’ambasciata russa gli avrebbe chiesto notizie in merito alle possibili dimissioni dei ministri leghisti dal governo di Mario Draghi.
Domani, a fine maggio, ha rivelato l’incontro tra l’ambasciatore russo Razov e Salvini. Una cena che risale al marzo scorso, presente anche Capuano. In quei giorni avevamo chiesto un incontro all’ex deputato forzista, che ci ha dato appuntamento nel suo studio romano. «Sono tra i primi contribuenti italiani, io pago tasse e sono tra il 4 per cento che paga di più. Seguo da consulente legale diversi connazionali impegnati in investimenti all’estero e lavoro con diverse ambasciate», dice Capuano. Quali ambasciate? «Ma ve le devo dire tutte? Bahrain, Afghanistan, Kuwait», replica. All’appello ne manca certamente qualcuna, ma persino su questa domanda è in affanno.
Ogni risposta prevede una rettifica, un passo indietro e una smentita. Capuano è così, prima esplicita poi ritratta. «Facciamo un esempio, se c’è un’azienda che vuole investire in Ucraina mi chiama e la assisto», dice. Quindi lavora anche con l’Ucraina? Capuano si ritrae: «Solo un esempio».
Ma lei chi è, come dobbiamo presentarla? «No, no per favore. Poi devo andare in tribunale a difendermi, non voglio», risponde. Ma le abbiamo chiesto solo come si definisce? Capuano borbotta, arranca, si inalbera. Si inerpica in tortuosi giri di parole e, anche per dire cosa fa nella vita, impiega minuti. «Faccio l’avvocato, punto».
A Capuano chiediamo anche dei soldi in arrivo dal Kuwait segnalati dall’antiriciclaggio come sospetti. E su questo ha preparato carte e documenti. «Quelli sono i soldi per l’acquisto di una casa, un prestito di un imprenditore, un uomo d’affari, si chiama Ibrahim e si muove nell’area del Golfo». Persino su Ibrahim cambia versione più volte in dieci minuti. Perché presta soldi a Capuano e consorte? «Perché è un familiare della mia compagna, li restituiamo nel giro di due anni, in pratica è una persona cara. Lui aveva investito in obbligazioni nel nostro paese» e ora ci dà un prestito «per il nostro progetto di vita».
È l’unico momento del nostro incontro durante il quale si mostra meno indisposto e più propenso a parlare seppure su molte cose glissi. Appena cambiamo argomento tornano le giravolte dialettiche. Il consulente non vuole rispondere alle domande sul suo ruolo nella Lega. Chi l’ha chiamato nel partito? L’idea di incontrare l’ambasciatore russo in Italia è stata una sua idea o di Salvini? Silenzio, agita le mani, difende il capo. «Hanno detto che ero nell’elenco dei consulenti dell’ambasciata russa. Uno schifo, uno schifo. Una roba che ha detto anche un segretario di un partito, Letta (segretario del Pd, ndr), che ha detto che io sono consulente dell’ambasciata russa. Assurdo», dice in versione indignato.
«Massacrarmi per screditarlo non è giusto», dice Capuano riferendosi a Salvini. Ma non chiarisce né l’origine degli incontri né il numero (sappiamo per certo che sono tre oltre la cena). Niente: cambia versione in continuazione, fa scena muta dicendo di essere pronto ad andare al Copasir e di aver avvisato la procura. Per una denuncia? Ma Capuano è sibillino, non chiarisce, lascia tutto in sospeso, nell’opacità. Ma conosce l’ambasciatore Razov? «Non conosco nessuno», dice e rimanda tutto a un appuntamento successivo nel quale rivelerà ogni dettaglio, ma poi scompare. Il consigliere del leader leghista, sparisce, si dilegua. Ora emergono nuovi dettagli sul suo lavoro di pontiere tra la Lega e gli amici russi. Capuano ricontattato risponde alla chiamata ma ricomincia la sceneggiata del silenzio. Per proteggere chi?
Il caso del piano "di pace" infiamma la campagna elettorale. Ombre russe sul governo Draghi, nuovi retroscena sulla missione Salvini-Capuano: “Progettavano un viaggio anche in Cina”. Redazione su Il Riformista il 29 Luglio 2022.
La “smentita istituzionale” annunciata da Matteo Salvini non è bastata: il segretario della Lega resta al centro del presunto caso delle “Ombre Russe” dietro la crisi politica che ha portato alla fine del governo Draghi. Una vicenda esplosa sulle colonne del quotidiano La Stampa che ieri ha pubblicato un retroscena, scritto a partire da documenti di una non meglio specificata intelligence, sui contatti tra il funzionario dell’ambasciata russa in Italia Oleg Kostyukov e l’emissario del leader del Carroccio Antonio Capuano. È il seguito della vicenda del viaggio emersa nei mesi scorsi.
Kostyukov, secondo il retroscena, avrebbe chiesto a fine maggio all’emissario se “i ministri leghisti sono intenzionati a dimettersi?”. Le nuove indiscrezioni di stampa pubblicate oggi riguardano il seguito della vicenda: un presunto incontro tra Salvini e Putin, un altro con l’ex premier Dmitry Medvedev e un contatto anche con l’ambasciata cinese in Italia organizzate sempre nell’ambito della “missione di pace” dell’ex ministro dell’Interno. “Fesserie”, aveva già replicato ieri Salvini annunciando una “smentita istituzionale”. Dichiarazione che era arrivata in giornata, quella dell’Autorità delegata alla sicurezza della Repubblica, il sottosegretario Enrico Gabrielli.
“Le notizie apparse sul quotidiano La Stampa, circa l’attribuzione all’intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra l’Avvocato Capuano e rappresentanti dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia, per far cadere il Governo Draghi, sono prive di ogni fondamento come già riferito al Copasir, in occasione di analoghi articoli, apparsi nei mesi scorsi”. Il direttore del quotidiano Massimo Gianni aveva tuttavia risposto parlando di “documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence comunicato a suo tempo ai competenti livelli istituzionali”.
I nuovi retroscena pubblicati oggi parlano dell’ambasciata russa che informava Capuano della possibilità di un incontro a Mosca tra Salvini e Medvedev, che negli ultimi mesi si è reso protagonista di dichiarazioni molto dure nei confronti di Nato, Occidente ed Europa inclusa l’Italia. Capuano avrebbe puntato anche a un incontro con Putin con l’intenzione di proporre l’Italia in un ruolo di garanzia per trattare il cessate il fuoco in Ucraina. La Stampa riporta inoltre di un contatto nell’aprile del 2022 tra Capuano e il capo della sezione politica dell’ambasciata cinese in Italia Zhang Yanyu: l’obiettivo sarebbe stato incontrare a Pechino, di ritorno da Mosca, il ministro degli Esteri Wang Yi.
Il governo Draghi sarebbe stato all’oscuro di tutto: una missione di pace organizzata in autonomia. Capuano, sempre secondo quanto riportato da La Stampa, avrebbe sostenuto invece che “anche il governo italiano avrebbe poi sostenuto” questa “posizione”, ovvero il proposito di promuovere la pace. L’ambasciata russa in Italia già ieri non aveva aggiunto niente alle smentite dei mesi scorsi: “L’ambasciata non ha nulla da aggiungere a quello che è già stato detto in giugno”, riferisce una fonte citata dall’Ansa. In giugno l’ambasciata aveva reso noto di avere “assistito Salvini e le persone che lo accompagnavano nell’acquisto dei biglietti aerei” per il suo viaggio a Mosca previsto per il 29 maggio, poi cancellato. L’ambasciata aveva aggiunto che la cifra era stata restituita da Salvini e che il rimborso sarebbe avvenuto anche se il viaggio ci fosse stato.
L’assistenza russa sarebbe stata infatti necessaria per organizzare il viaggio a causa delle sanzioni imposte dall’Occidente e dall’Italia a Mosca, che di fatto hanno sospeso i collegamenti tra Roma e Mosca e non avrebbero permesso l’acquisto dei biglietti di Aeroflot dall’Europa. La missione sarebbe stata programmata dal 3 al 7 maggio. Le conversazioni tra Capuano e Kostyukov sulla situazione del governo italiano avrebbero avuto luogo tra il 27 e il 28 maggio, mentre il giorno prima, il 26 maggio, il presidente del Consiglio Mario Draghi tenta di sbloccare la crisi del grano parlando al telefono con Putin.
Dure le prese di posizione del centrosinistra sul caso: il segretario del Partito Democratico Enrico Letta ha dichiarato di voler sapere “se è stato Putin a far cadere il governo Draghi”, anche il leader di Italia Viva Matteo Renzi si aspetta “un’immediata indagine del Copasir”, quello di Azione Carlo Calenda parla di “tre forze filoputiniane” che avrebbero fatto cadere il governo, il ministro degli Esteri ex Movimento 5 Stelle Luigi Di Maio mette in allerta dalle “influenze russe su questa campagna elettorale”. Il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani ha sostenuto l’alleato parlando di “campagna denigratoria”, il capogruppo di Fratelli d’Italia Francesco Lollobrigida ha invece parlato di richiesta di verifica “legittima. Confido che nessuna insinuazione trovi riscontro, che nessuno abbia remato contro l’Italia e l’Occidente”.
Manina di destra o di sinistra? Inchiesta della Stampa su rapporti con Putin e terremoto giudiziario a Terracina: chi c’è dietro gli scandali di Lega e FdI. Claudia Fusani su Il Riformista il 29 Luglio 2022.
Diciamo che un “colpo” per uno non fa male a nessuno. Di certo, tra i due, è assai meglio assestato quello diretto a Matteo Salvini perché ipotizzare “ombre russe dietro la crisi di governo italiana” e che il Capitano possa essere una di quelle, è un fango assai più difficile da levare. Serio, è anche doc nel senso che ha il timbro di una procura, quello diretto a Fratelli d’Italia: “Indagato a Terracina l’ex portavoce di Giorgia Meloni”, l’ipotesi è turbativa d’asta, l’inchiesta mare è quella che vede arrestata (domiciliari) per corruzione la ormai ex sindaca di Terracina Roberta Tintari, qui eletta nel 2020 con il centrodestra. “Solo” indagini, per carità, garantisti fino al terzo grado di giudizio. E però è un venticello che si alza e soffia.
“Adesso comincerà il fango contro di me” ha messo le mani avanti Giorgia Meloni due giorni dopo la caduta del governo Draghi, l’avvio della campagna elettorale e l’inizio dell’ultimo miglio che dovrebbe portarla alla guida di palazzo Chigi. La leader di Fratelli d’Italia ce l’aveva in quelle ore con i titoli della stampa estera e italiana che evocavano il rischio fascismo. Ma il pensiero vero era ed è già ad eventuali inchieste e dossieraggi che possono essere armati nelle prossime sette settimana. La voglia di vincere è tanta. Quella di perdere pure. Non stiamo dicendo che ci sia una regia tra le due cose. E però si sa come si dice, “accidenti alle coincidenze”. E le coincidenze portano a dire che nel centrodestra sarà battaglia fino all’ultimo giorno.
Alla faccia dell’alleanza. Non c’è dubbio che “Le ombre russe dietro la crisi” (titolo de la Stampa di ieri mattina) siano il colpo meglio assestato. Target: Salvini e la Lega. Il quotidiano pubblica ampli stralci di report d’intelligence (italiana?) che raccontano come “a fine maggio il funzionario dell’ambasciata russa a Roma Oleg Kostyukov si sia informato con l’ex deputato Antonio Capuano e ora consulente per l’estero di Matteo Salvini, circa le intenzioni dei ministri leghisti a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi”. Siamo nel pieno dello scontro di Lega e M5s contro l’invio di armi in Ucraina. Salvini gira l’Italia al grido “pace” – come se il governo volesse la guerra – e Conte punta il dito contro l’escalation di armi e il fallimento della diplomazia (quindi Di Maio). Sono i partiti del Conte 1 che tra il 2018 e il 2019 non ebbero dubbi su stringere patti con Russia unita, il partito di Putin.
È l’asse populista giallo-verde che torna, in piena guerra e in pieno regime sanzionatorio contro Mosca, a sollevare distinguo, mostrarsi incerti e comprensivi col governo russo, contro la Ue e la Nato. Contro Draghi. “Il diplomatico – cioè Kostyukov – fece trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del governo italiano” si legge nell’articolo. Tanto basta per scatenare i partiti di centrosinistra, chiedere l’intervento del Copasir, informative ed approfondimenti. Azione parla di “tradimento”. Gennaro Migliore di Italia Viva chiede “l’informativa del governo”. Letta parla di rivelazioni “inquietanti” e denuncia come “questa campagna elettorale sia iniziata malissimo”. Tanto basta per dare corpo al convitato di pietra di questa crisi di governo: il partito di Putin che ha manovrato per far cadere Draghi e indebolire il fronte occidentale.
Gongola, in silenzio Fratelli d’Italia. Zitta e muta Forza Italia. La Lega derubrica al “solito fango contro di noi”. Palazzo Chigi decide di intervenire. “Per tutelare le istituzioni” dice il sottosegretario alla Presidenza del consiglio con delega ai Servizi segreti Franco Gabrielli. In una nota ufficiale, fa sapere che “le indiscrezioni in merito all’attribuzione all’intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra l’avvocato Capuano e rappresentanti dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia, per far cadere il governo Draghi, sono prive di ogni fondamento come già riferito al Copasir, in occasione di analoghi articoli apparsi nei mesi scorsi”. Gabrielli fa molto probabilmente riferimento ad un’inchiesta pubblicata ai primi di giugno su il quotidiano La Verità diretto da Maurizio Belpietro dove si raccontava dell’acquisto del biglietto aereo per Mosca in favore del segretario Salvini da parte del solerte Kostyukov. Oltre ai biglietti, anche allora furono pubblicate frasi in cui i funzionari dell’ambasciata chiedevano a Capuano se i ministri leghisti fossero prossimi alle dimissioni.
Solo che la crisi allora non era all’ordine del giorno. Ma la figuraccia di e con Capuano aveva già prodotto tutta la sua potenzialità e discredito. Insomma, di quel primo articolo su La Verità si sono perse le tracce. La crisi di governo e la campagna elettorale hanno dato nuova luce a quelle frasi tratte da documenti e ricostruite in modo tale da dare corpo alla tesi del partito di Putin che avrebbe mosso i fili della crisi di governo italiana. La manina che ha messo in giro questa roba può essere a sinistra, senza dubbio. Ma anche a destra: la Verità, che aveva già scovato quelle carte, non può essere certo annoverata tra le testate con simpatie di centrosinistra.
Palazzo Chigi resta fermo in quella che ritiene essere la sua mission principale finché resta al governo: “Tutelare le istituzioni da un gioco al massacro”. Chi conosce bene la storia spiega che “in tutto questo non c’è una regia, piuttosto un modo per buttarla in caciara”. Ed è vero che “non ci sono evidenze circa il coinvolgimento di Salvini o di qualche suo scagnozzo per far cadere il governo su input russo”. Questo risulta già agli atti del Copasir. Ma questo è il clima. E la campagna elettorale si connota di pessimi presagi.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
In Onda, ombre russe dietro la crisi? La risposta di Floris lascia senza parole Giannini e De Gregorio. Giada Oricchio su Il Tempo il 30 luglio 2022.
"Le ingerenze russe non faranno cambiare idea di voto agli italiani". È questa l'opinione di Giovanni Floris, conduttore del programma Di Martedì. Ospite dei colleghi David Parenzo e Concita De Gregorio a In Onda, il talk politico di LA7, Floris si dice convinto che al momento del voto, il prossimo 25 settembre, sarà ininfluente lo scoop del quotidiano La Stampa su un forte interessamento dell'ambasciata russa con Antonio Capuano, uomo di fiducia di Matteo Salvini per la politica estera, sulla possibilità di ritirare i ministri leghisti e far cadere il governo Draghi.
Il giornalista ha osservato: "Faccio i miei complimenti a Giannini per le rivelazioni però dal punto di vista del consenso non credo che queste notizie cambino l'orientamento dell'elettorato. Anzi, di solito radicalizzano l'atteggiamento: chi non amava Salvini continuerà a non amarlo e chi lo apprezzava avrà altri motivi per apprezzarlo". Floris ha fatto notare, infatti, che le simpatie putiniste del leader della Lega è cosa risaputa, basti ricordare la maglietta con il volto di Vladimir Putin e il pollice all'insu' e le frasi "sono più tranquillo a Mosca che a Bruxelles" o "scambierei due Mattarella per mezzo Putin". Lo stesso vale per Silvio Berlusconi, fondatore di Forza Italia: "Non dipende da una telefonata sapere che Berlusconi e Putin passavano le vacanze nella dacia. Sono problemi loro", ha detto Floris prima di andare al vero nocciolo della questione: "Ogni elezione è costellata di scandali che ci ricordano chi andiamo a votare, ma gli italiani lo sanno bene. Dal punto di vista del consenso è tutto sul piatto, è un fatto inquietante, ma chi si doveva inquietare si è già inquietato". Gli altri semplicemente non ritengono l'argomento rilevante.
Otto e mezzo, Cacciari perde la pazienza sul caso Cremlino: sbotta con Sallusti e zittisce Floris. Giada Oricchio su Il Tempo il 10 giugno 2022.
“Cremlino palazzo di me***a?”. Massimo Cacciari perde le staffe con Alessandro Sallusti e Giovanni Floris, temporaneo padrone di casa a "Otto e Mezzo". Durante la puntata di giovedì 9 giugno, il direttore del quotidiano Libero ha ribadito di aver usato l’espressione forte “Cremlino palazzo di m***a”, durante l’ultima puntata del programma Non è l’Arena, in quanto luogo dove si sono decise le più grandi tragedie dell’umanità. Interrogato sul punto dal conduttore, il filosofo Cacciari, spazientito e irritato, ha sospirato: “Non posso fare la storia del Cremlino, abbia pazienza…”.
Floris ha osato chiedergli cosa intendesse dire e il professore è sbottato e ha zittito il conduttore: “Cosa vuole che intenda?! Quello che dico! Immaginate voi! Una persona poco più che analfabeta dovrebbe sapere cos’è il Cremlino, lì c’è stata Caterina la Grande. C’è stato Stalin? Sì come a Berlino c’è stato Hitler e a Roma Mussolini, non per questo Palazzo Chigi diventa di me**a!”.
Sallusti lo ha interrotto insistendo sul fatto che davanti a una guerra non si può pensare a esaltare l’architettura del palazzo di Vladimir Putin e Cacciari è andato su tutte le furie: “E allora parli lei! Per l’amor di Dio, cosa volete che discuta con Sallusti di cosa rappresenta la Russia!”, “Non siamo a un convegno di storia” ha replicato il direttore.
In precedenza, Cacciari aveva definito “gravissimo” l’intervento dei servizi segreti sulla lista di presunti filoputiniani, pubblicata dal Corriere della Sera: “Non è grave la pubblicazione, ma che qualcuno abbia promosso l’indagine dell’intelligence al di là dei risultati farseschi”.
In Onda, Massimo Giannini attacca Giorgia Meloni sul caso Lega-Russia: “Non ha mosso un dito”. Giada Oricchio su Il Tempo il 30 luglio 2022.
"Ombre russe sulla Lega per far cadere il governo Draghi? Meloni si è smarcata". In questi giorni, La Stampa ha fatto lo scoop su una presunta richiesta di Oleg Kostyukov, “importante funzionario dell'ambasciata russa” in Italia ad Antonio Capuano, consigliere di Matteo Salvini, sull’intenzione dei ministri leghisti di rassegnare le dimissioni dal governo Draghi. Notizia bollata come fake news dalla Lega.
Il direttore del quotidiano Massimo Giannini, ospite del talk politico In Onda su LA7, ha confermato l’esistenza di intercettazioni con dettagli specifici: “Per la prima volta sembra esserci un nesso causale tra la Lega e l’ambasciata russa e il risultato della caduta del governo Draghi di lì a poco. Il secondo aspetto è la reazione della Meloni ieri, ha colpito ieri”. Giannini ha scandito queste parole: “Non ha mosso un solo dito per difendere l’alleato. Viceversa ha parlato ai suoi e al Paese dicendo che Fratelli d’Italia è al fianco dell’eroico popolo ucraino e che un eventuale governo di centrodestra rispetterà tutti gli impegni internazionali dell’Italia. Non ha detto è una campagna contro di noi, sono notizie false. Zero! Sta cercando di guadagnare un altro quarto di nobiltà, sta cercando di rosicchiare un altro po’ di credibilità sul fronte internazionale”.
Il conduttore David Parenzo gli ha fatto eco: “Meloni ha preferito smarcarsi” e lo stesso la collega Concita De Gregorio: “Vuole accreditarsi come leader”. Parenzo ha concluso notando che la presidente di Fratelli d’Italia, partito in testa ai sondaggi insieme al Pd, aveva mandato un messaggio in bottiglia anche a Silvio Berlusconi: “Un’agenzia ha appena battuto le dichiarazioni di Meloni: "Invito gli alleati a non fare promesse che non si possono mantenere’”.
In Onda, Guido Crosetto inchioda Lega e Forza Italia: “Cosa devono dire su Russia e Cina”. Giada Oricchio su Il Tempo il 28 luglio 2022
“Giorgia Meloni cristallina. Gli altri da che parte stanno?”. Guido Crosetto, imprenditore e tra i fondatori di Fratelli d’Italia, in collegamento con In Onda, il talk politico di LA7, giovedì 28 luglio, sgombera il campo da ogni ambiguità dopo l’articolo di Jacopo Iacoboni su colloqui segreti a fine maggio tra la Lega e il funzionario dell’ambasciata russa Kostyukov sulla possibile caduta del governo Draghi. Ombre che si allungano sulla campagna elettorale. L’ex deputato parte da un presupposto: “Non è pensabile che quando c’è una guerra qualcuno tratta con il nemico all’insaputa di una parte del Paese.
Oltre la politica, ci deve essere il rispetto dello Stato, delle istituzioni e dei ruoli. Quando c’è una guerra tratta solo il ministero degli Esteri, il governo con atti ufficiali e attraverso il Parlamento”. L’imprenditore - parte della stampa lo vede ministro nel futuro esecutivo di centrodestra nonostante le ripetute smentite del diretto interessato - ha premuto sull’acceleratore: “Ogni partito deve dichiarare esplicitamente agli elettori da che parte sta in un momento come questo. Forza Italia e Lega, una volta al governo, dovranno prendere posizione come ha fatto oggi Meloni. Devono farlo necessariamente sulla politica estera”. E ha rivelato che la dichiarazione inequivocabile della leader di FdI (“Totale sostegno all’Ucraina, siamo garanti della collocazione atlantista dell’Italia”) l’ha messa in difficoltà davanti a terzi e sui social: “Hanno accusato Meloni di essere dalla parte di Draghi, non è vero, ma su questo tema è sempre stata coerente. Per questo dico che tutti gli elettori devono sapere con chiarezza cosa pensano tutti i partiti, dalla Lega a PD, sulla Russia e anche sul rapporto con la Cina”. I co-conduttori gli hanno fatto ascoltare le parole di Giuseppe Conte, presidente del M5s, sulla guerra: “Non ho mai avuto contatti con i russi, noi tuteliamo l’interesse nazionale, noi siamo patrioti” e Crosetto ha sorriso compiaciuto: “Sono tutti patrioti, ha vinto la Meloni!”.
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 22 agosto 2022
Nell'affaire Metropol, la trattativa in un hotel di Mosca per un presunto finanziamento russo di 65 milioni alla Lega - su cui è ancora in corso un'indagine a Milano per corruzione internazionale - assieme a un emissario della Lega, Gianluca Savoini, due dei russi identificati come parte della conversazione erano Andrey Kharchenko e Ilya Yakunin.
Kharchenko è uno dei collaboratori stretti di Alexandr Dugin, il filosofo del rossobrunismo eurasiano che probabilmente era il vero bersaglio dell'autobomba esplosa nella notte di sabato a Mosca. Dugin è stato in realtà dietro tutta quella partita, e dietro molte altre, in Europa e in Italia.
Non è solo un intellettuale, quell'uomo che vediamo nei fermo immagine davanti alla macchina esplosa della figlia, con le mani nei capelli, e Kharchenko non è solo il suo migliore allievo laureato. Il filosofo è figlio di un dirigente del Kgb, e Karchenko - rivelò Bellingcat - viaggiava con un passaporto speciale che di solito viene rilasciato solo dagli Esteri russi, per lo più agli uomini dei servizi. Insomma, filosofo molto particolare, Dugin.
Non perché sia particolarmente vicino a Putin - non lo è affatto - ma perché è stato coscientemente usato dal Cremlino per una serie di operazioni di propaganda e penetrazione nei partiti e nei media occidentali, proprio quell'Occidente che la sua "Quarta teoria politica" disprezza, cercando di congiungere separatismo etnico di estrema destra e anticapitalismo e anti Nato di estrema sinistra.
Fu così che Dugin è entrato in Italia. A metà tra agitatore culturale e servizi segreti. Savoini lo porta a Milano già nel 2015, plenipotenziario di Tsaargrad, il network dall'oligarca Malofeev. I libri come ottimo pretesto geopolitico.
Quel giorno Dugin ha accanto Maurizio Murelli, militante neofascista già condannato negli Anni 70. Anni dopo, nell'estate 2018 della nascita del governo Lega-M5S, un tour duginiano lanciato da Savoini vedrà Dugin approdare sulla terrazza di Casa Pound, con il segretario Simone Di Stefano, ancora Murelli e, moderatore, Giulietto Chiesa. Estrema destra e estrema sinistra.
Nel marzo scorso fu fatta trapelare dal Dossier Center di Mikhail Khodorkovsky una mail che riferiva di un altro incontro, che i russi stavano organizzando nel novembre 2017, tra Salvini e il team di Malofeev e Dugin: «Per novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell'Hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell'incontro», scriveva Mikhail Yakushev, numero due di Malofeev, oligarca plurisanzionato fin dall'annessione illegale della Crimea nel 2014, che finanziò ampiamente.
In un'altra mail il team russo di Tsaargrad scrive che bisogna creare in Europa una rete di partiti, di estrema destra (Lega, Le Pen, Wilders) «ma anche euroscettici», chiamata "Altintern" (citazione del vecchio Comintern): «Senza il nostro impegno attivo e il sostegno tangibile ai partiti conservatori europei, la loro popolarità e influenza in Europa continueranno a diminuire».
Dugin pensava anche al M5S. E lo disse a chiare lettere al sito web di Defend Democracy Press. Se a italiani, tedeschi e francesi fosse stata data la possibilità di ritirarsi, affermò, «sarebbe successo il giorno dopo»: «Se lo chiedessimo oggi agli italiani, ovviamente se ne andrebbero anche loro.
E sappiamo che lo chiedono Lega Nord e Cinque Stelle. Dobbiamo affrontare la verità: l'Unione europea sta cadendo a pezzi; è la fine della Torre di Babele, basata sulla geopolitica atlantica e sul sistema di valori liberale». «L'Italia è oggi l'avanguardia geopolitica della Quarta Teoria Politica» spiegò Dugin lodando Giuseppe Conte e il suo primo governo: «L'unione tra Lega e Cinque Stelle è il primo passo storico verso l'affermazione irreversibile del populismo e il passaggio a un mondo multipolare».
Per questo, disse, quel governo italiano era un partner naturale del Cremlino. Di certo foto e amici imbarazzanti tornano a galla: ieri per esempio l'estremista di ultradestra americano James Porrazzo ha twittato una foto di Darya Dugina, chiamandola «una guerriera che sapeva che sarebbe potuto succedere», e in questa foto "Dari" è proprio accanto a Salvini.
(ANSA il 23 settembre 2022) - "Il Ppe ha condannato l'invasione russa fin dal primo giorno. In modo inequivocabile. Ha sostenuto e guidato le sanzioni contro la Russia. Incrollabilmente. Ha sostenuto l'invio di aiuti militari e umanitari all'Ucraina. Con fermezza. I tentativi di suggerire il contrario sono assurdi. Punto". Lo ha scritto in un tweet il segretario generale del Partito Popolare europeo, Thanasis Bakolas. In un precedente tweet, dopo le polemiche sulle parole di Berlusconi, il Ppe aveva sottolineato come "la posizione di Forza Italia è cristallina: sostiene l'Ucraina nella lotta alla guerra illegale della Russia".
(ANSA il 23 settembre 2022) - Nessun commento della Commissione europea sulle parole del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, sulla guerra in Ucraina. "No comment", è stata la risposta netta del portavoce della presidente von der Leyen, Eric Mamer, rispondendo a una domanda durante il briefing quotidiano con la stampa. Il portavoce Ue per gli Affari esteri, Peter Stano, ha annuito sorridendo.
(ANSA il 23 settembre 2022) - Quelle di Berlusconi su Putin "son parole scandalose e gravissime. Mi chiedo e chiedo a Meloni se le condivide e se gli italiani possano condividerle. Peraltro sono parole sconclusionate; gli aiuti li ha votati Berlusconi stesso con Fi sostenendo Draghi. Siamo oltre l'immaginabile, sono parole che fanno piacere a Putin. Se domenica sera se vince la destra il primo felice sarebbe Putin. Noi siamo sempre contro l'aggressore che come dice lo stesso Berlusconi, 'usa le truppe per mettere le persone perbene'". Lo ha detto il segretario del Pd Enrico Letta a Radio Anch'io.
Ugo Magri per “la Stampa” il 23 settembre 2022.
Grande comiziante Berlusconi non lo è stato mai. Perfino negli anni d'oro pativa il confronto con la parlantina sciolta di Gianfranco Fini e con quella ruspante però efficace di Umberto Bossi. Al confronto, Silvio suscitava sbadigli; in compenso prendeva molti più voti di quei due messi insieme, per cui nelle grandi kermesse con gli alleati il Cav era sempre l'ultimo a salire sul palco prendendosi tutti gli onori.
Ieri invece, nella manifestazione a Piazza del Popolo, gli è stato assegnato il ruolo meno nobile dell'apripista, del rompighiaccio, della vecchia gloria incaricata di scaldare la platea in attesa dei veri protagonisti: Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Già questa collocazione minore rende plasticamente l'idea delle reali gerarchie nel centrodestra, in pratica chi comanda davvero, sollevando parecchi dubbi sul ruolo di garante dell'alleanza che Berlusconi promette di svolgere.
L'uomo, gliene va dato atto, ce l'ha messa tutta sfoggiando una tempra insospettabile in chi il 29 settembre prossimo spegnerà 86 candeline. Ha tentato senza successo una gag delle sue, fingendo di stupirsi («ma chi ha pagato questo qua? » ) per la pioggia di riconoscimenti con cui un ignoto presentatore l'ha chiamato sul palco.
Nei successivi venti minuti non ha fatto altro che autocelebrarsi, rievocando per la milionesima volta i suoi passati governi, quando quelli che si recheranno a votare per la prima volta ancora non erano nati. Prevedibile, déjà vu. Molto meno efficace di quando si lancia su TikTok, oppure accoppa un moscone in diretta tivù: il miglior Berlusconi, ieri come oggi, è quello che nessuno si aspetta.
Estratto dall’articolo di Stefano Baldolini per repubblica.it il 23 settembre 2022.
Calenda: "Berlusconi con Putin e i suoi aguzzini. Queste sono le tue 'persone perbene'? Vergognati e scusati"
"Queste sono le tue 'persone perbene'? Berlusconi. Vergognati. E scusati. Altro che moderato ed europeista. Con Putin e i suoi aguzzini". Lo scrive su Twitter Carlo Calenda, leader di Azione.
Letta: "Berlusconi scandaloso, legittima Putin"
"È una frase grave, scandalosa, ha detto una cosa a cui crede. E questo è il concetto di 'perbene' che ha Berlusconi. Se vincessero loro domenica sera, Putin brinderebbe. Si autorizza ad andare con i carri armati nel paese vicino, è questo che ha detto Berlusconi". Lo dice Enrico Letta a la7 a all'Aria che tira. Quello che è successo ieri sera da Vespa è "incredibile, ed è incredibile non ci sia una ribellione". Quella di Berlusconi è "una frase liberticida e anti democratica".
Salvini sulle parole di Berlusconi: "Non le interpreto"
Imbarazzo anche da parte di Matteo Salvini sulle parole del leader forzista su Putin e Zelensky. "Berlusconi dice che Putin è stato spinto a invadere l'Ucraina, voleva mettere persone perbene a Kiev? Non mi fate interpretare, io dico che faremo di tutto per fermare la guerra quando saremo al governo. Ma prima il giudizio su Putin era positivo da parte da tutti, ma ora giustificazioni per chi invade non ce ne sono".
Carfagna, frasi Berlusconi? Feci bene a lasciare partito
"E' un'affermazione molto grave e personalmente una frase che mi dice due cose a partire dal fatto che feci bene a lasciare il partito, sono sempre più convinta che sia stata una cosa giusta". Lo ha detto il ministro del Sud e della Coesione Mara Carfagna commentando a margine di una conferenza stampa a Napoli la frase di Berlusconi su Putin che avrebbe messo le "persone perbene" a governare l'Ucraina al posto di Zelensky.
Carfagna sottolinea anche che "il sostegno di alcuni partiti alla politica estera del Governo Draghi era un sostegno solo di facciata e in questa direzione vanno dichiarazioni di Conte e altri partiti, sono i tre partiti che hanno votato la sfiducia al Governo. La volontà di non farlo proseguire era anche sulla mancata condivisione sulle scelte più imprtanti nella politica estera italiana degli ultimi 70 anni e questo mi preoccupa".
(ANSA) - Nessun commento della Commissione europea sulle parole del leader di Forza Italia, Silvio BERLUSCONI, sulla guerra in Ucraina. "No comment", è stata la risposta netta del portavoce della presidente von der Leyen, Eric Mamer, rispondendo a una domanda durante il briefing quotidiano con la stampa. Il portavoce Ue per gli Affari esteri, Peter Stano, ha annuito sorridendo.
(Nova) - "Amici di Orban, amici di Putin: questa e' la destra italiana": cosi' il sottosegretario agli Affari europei, Enzo Amendola, su Twitter ha commentato le dichiarazioni rilasciate ieri dal leader di Forza Italia, Silvio , in merito alla necessita' di sostituire il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky. Amendola ha definito "gravi" le parole dell'ex presidente del Consiglio. "Domenica sono in gioco il futuro dell'Italia, la collocazione internazionale, lo stato di Diritto come fondamento dell'Ue. La scelta e' netta", ha aggiunto Amendola.
Traduzione dell’articolo di Matt Murphy per bbc.com il 23 settembre 2022.
L'ex premier italiano Silvio Berlusconi ha difeso l'invasione dell'Ucraina da parte di Vladimir Putin, affermando che il leader russo è stato "spinto" nel conflitto. L'ottantacinquenne ha affermato che le truppe russe dovevano sostituire il governo con "persone decenti" e poi andarsene.
Il tre volte premier italiano è un alleato di lunga data del presidente russo. Questo fine settimana il suo partito dovrebbe prendere il potere come parte di una coalizione di destra nelle elezioni generali in Italia.
Berlusconi ha dichiarato alla TV italiana che la narrazione secondo cui il governo ucraino starebbe massacrando i russofoni nell'est del Paese è stata creata dai media di Mosca. Ha detto che la notizia, spinta dalle forze separatiste e dai politici nazionalisti del governo russo, non ha lasciato a Putin altra scelta se non quella di lanciare un'invasione limitata.
"Putin è stato spinto dalla popolazione russa, dal suo partito e dai suoi ministri a inventare questa operazione speciale", ha detto. "Le truppe avrebbero dovuto entrare, raggiungere Kiev in una settimana, sostituire il governo Zelensky con persone decenti e una settimana dopo tornare", ha aggiunto Berlusconi.
"Invece hanno trovato una resistenza inaspettata, che è stata poi alimentata da armi di ogni tipo provenienti dall'Occidente". I leader dell'opposizione hanno subito condannato i commenti di Berlusconi, con il leader del Partito Centrista Carlo Calenda che lo ha accusato di parlare "come un generale di Putin".
Enrico Letta, del Partito Democratico di centro-sinistra, ha detto che l'intervento dimostra che se le elezioni di domenica saranno "favorevoli alla destra, la persona più felice sarà Putin". Ma venerdì Berlusconi ha cercato di chiarire i suoi commenti, dicendo che le sue opinioni erano state "eccessivamente semplificate".
Dagoreport il 23 settembre 2022.
Avrà tanto scopato e goduto, e tanto ci ha fatto divertire con i suoi siparietti maramaldi, le barzellette oscene, le olgettine smutandate, le intercettazioni porcelline e una lunga storia di gag, gag-ate e schitarrate con Apicella. Ma a 86 anni, e in pieno decadimento fisico (lo hanno dovuto accompagnare a braccio sul palco per la chiusura della campagna elettorale), è ora che nonno Silvio si ritiri a vita privata.
Il suo delirante discorso su Putin, che in Ucraina voleva “sostituire Zelensky con un governo di persone perbene” (come a dire che Zelensky è un farabutto), è l’ultimo inciampo di un Cav ormai disarcionato dalla realtà e da se stesso. Ha concionato neanche fosse un generale moscovita che propone i suoi piani di guerra: “Le truppe russe, secondo me, dovevano fermarsi intorno a Kiev”.
Le sue parole hanno creato un casotto di proporzioni bibliche. Dal Quirinale al Ppe, dalla Commissione europea all’Intelligence, sono tutti sbigottiti per le dichiarazioni deliranti di Berlusconi. Nessun ex premier occidentale si era mai espresso in questi termini dallo scoppio della guerra in Ucraina.
Il risibile tentativo del Cav di mettere una pezza è anche peggiore del buco: “Riferivo quello che alcuni raccontano senza nessuna adesione del mio pensiero”. Praticamente ha descritto se stesso come un pappagallo che rilancia sconclusionate teorie altrui. E meno male che doveva essere lui il perno euro-responsabile della coalizione di centrodestra. Invece ne è ormai l'elemento più instabile, e incontrollabile. Qualcuno lo aiuti! Soccorretelo! Salvatelo! Soprattutto da se stesso e dalla senescenza che toglie vitalità ai corpi cavernosi ma anche alle sinapsi.
(ANSA il 23 settembre 2022) - "Bastava vedere tutta l'intervista, non solo la frase estrapolata eccessivamente semplificata per capire quale sia il mio pensiero, che è noto da tempo. L'aggressione all'Ucraina è ingiustificabile e inaccettabile, la posizione di Fi è chiara: saremo sempre con l'Ue e la Nato". Lo scrive sui social Silvio Berlusconi, leader di Fi a proposito di quanto detto ieri a Porta a Porta in merito alla guerra in Ucraina.
(ANSA il 23 settembre 2022) - "Riferivo quello che alcuni raccontano senza nessuna adesione del mio pensiero a quel racconto. Forse sono stato frainteso facevo solo il "cronista" riferendo il pensiero di altri. L'aggressione all'Ucraina è ingiustificabile e inaccettabile, la posizione di Forza Italia chiara e netta: non potremo mai in nessun modo e per nessuna ragione rompere la nostra partecipazione all'Unione europea e all'Alleanza atlantica". Lo scrive Silvio Berlusconi su facebook di quanto detto ieri sulla guerra in Ucraina.
(ANSA il 23 settembre 2022) - "È scioccante sentire queste parole. Forse Manfred Weber (Ppe) ha qualcosa da dire a riguardo?". Così via Twitter la presidente del gruppo dei Socialisti e democratici all'Eurocamera, la socialista spagnola Iratxe Garcia Perez, commenta le parole del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, in merito alla guerra in Ucraina.
L'oligarca Medvedchuk e l'ex leader Yanukovych: ecco le "persone perbene" che Putin voleva al posto di Zelensky. Corrado Zunino su La Repubblica il 23 Settembre 2022.
L'ex oligarca ucraino Viktor Medvedchuk, al momento dell'arresto il 12 aprile scorso .
Le dichiarazioni di Berlusconi rimettono sotto i riflettori due uomini con cui la Russia avrebbe voluto cambiare "in una settimana" la presidenza di Kiev. L'avvocato è stato appena liberato come contropartita per i soldati di Azov. Il presidente cacciato vive dal 2014 in esilio in Russia
Putin, ha detto Silvio Berlusconi a Porta a Porta, con l'operazione speciale voleva sostituire "in una settimana" il presidente Volodymyr Zelensky, legittimamente e largamente eletto nella primavera del 2019 alla guida dell'Ucraina, con alcune "persone perbene". Detto che la guerra lampo dell'Armata con la Z prevedeva la presa di Kiev in tre giorni, con migliaia di parà russi in discesa sulla capitale dall'aeroporto di Hostomel, chi sono le "persone perbene" che Putin avrebbe voluto piazzare - come accaduto in diverse repubbliche ex sovietiche - al comando dell'Ucraina?
Il portavoce di Zelensky chiede a Berlusconi come può fidarsi di Putin. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 23 settembre 2022
Dopo la giustificazione del presidente russo da parte del leader di Forza Italia in tv, l’Ucraina invita a votare candidati che «abbiano e seguano i giusti principi morali». Meloni e Salvini difendono l’alleato: «Ha detto che era una versione di altri»
Silvio Berlusconi ha fatto arrabbiare pure l’Ucraina. Per il leader di Forza Italia, Putin sarebbe stato costretto a invadere l’Ucraina per «sostituire Zelensky – il presidente ucraino - con un governo di persone perbene», ha detto lui stesso giovedì sera a Porta a porta su Rai1. Una versione dei fatti in parte rettificata il giorno dopo: «Sono stato frainteso, era una versione di altri», ha scritto sui suoi canali social, ma il portavoce del presidente dell’Ucraina lo ha comunque criticato.
«Putin è al potere da più di 20 anni. Ha ucciso o imprigionato gli avversari politici. Ha mandato un esercito di assassini stupratori nel territorio di uno Stato sovrano», ha detto a Repubblica Seriiy Nykyforov. E ancora: «Putin ha organizzato un massacro in Siria, è responsabile dell'abbattimento di un aereo passeggeri con 300 persone nel 2014. E ora minaccia le armi nucleari. Quindi, se capiamo bene, Berlusconi si fida di lui e usa il suo esempio per definire chi è persona rispettabile e chi no?»
Alla vigilia delle elezioni del 25 settembre, il portavoce di Volodymyr Zelensky ha aggiunto: «È essenziale che i cittadini scelgano candidati che abbiano e seguano i giusti principi morali».
LA RETTIFICA
Berlusconi dice di essere stato frainteso e ha pubblicato un post sui social: «Bastava vedere tutta l'intervista - e non solo una frase estrapolata, sintetica per motivi di tempo, come si sa la semplificazione a volte è errata - per capire quale sia il mio pensiero, che peraltro è noto da tempo».
Ha aggiunto: «Riferivo quello che alcuni raccontano senza nessuna adesione del mio pensiero a quel racconto. Forse sono stato frainteso facevo solo il "cronista” riferendo il pensiero di altri», spiega.
Dopo la sua prima risposta per cui anche il conduttore Bruno Vespa aveva specificato che «anche Zelensky è una persona per bene», Berlusconi aveva assicurato che l’Italia resterà dalla parte dell’Ucraina: «L’aggressione all’Ucraina è ingiustificabile e inaccettabile, la posizione di Forza Italia chiara e netta: non potremo mai in nessun modo e per nessuna ragione rompere la nostra partecipazione all'Unione europea e all'Alleanza atlantica». Sui suoi account ha pubblicato solo quella parte.
Giorgia Meloni e Matteo Salvini, i leader di Fratelli d’Italia e Lega alleati di Berlusconi, hanno cercato di placare le polemiche. «Se Berlusconi si è corretto va bene così», ha detto Salvini. Meloni ha ricordato che il centrodestra ha sempre votato a favore dell’Ucraina in Parlamento e la linea sarà quella: «Questo c'è scritto sul programma del centrodestra, mi pare che Berlusconi - ha detto rispondendo ai giornalisti a margine dell'evento a Bagnoli con i giovani del partito - abbia anch’egli spiegato che le parole che aveva espresso erano non un’interpretazione del suo pensiero ma un’interpretazione del pensiero di altri».
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Gli orfani di Stalin indignati da Mosca. La colonnina di mercurio sale e segna temperature elettorali da punto di fusione. Francesco Maria Del Vigo il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.
La colonnina di mercurio sale e segna temperature elettorali da punto di fusione. E a fondersi è, soprattutto, la ragionevolezza. Mancano ancora quasi due mesi alle elezioni e la stampa di sinistra ha già iniziato a raschiare il fondo del barile. Ieri, su Repubblica, i primi segnali di cortocircuito sono stati evidenti. Il giorno prima La Stampa (stesso gruppo editoriale) aveva pubblicato fantomatici report sui rapporti tra uomini della Lega e quelli del Cremlino, con conseguente ira della sinistra per le insopportabili ingerenze di Putin sulla politica italiana. Esplosa la prima cartuccia però, ne serviva subito un'altra da sparare contro il soldato Salvini, perché lui, si sa, è abituato ai colpi e non è mica facile buttarlo giù: i romanzi di appendice sulle liaison con Putin non bastano. Allora l'idea geniale del quotidiano diretto da Molinari: aggiungerci anche gli immigrati, da utilizzare come spauracchio contro il centrodestra. Una pennellata d'artista. Tenetevi ben saldi perché la sceneggiatura è da equilibrismo circense: i russi spingerebbero i barconi pieni di migranti dalla Cirenaica in Italia per mettere sotto pressione il Paese e quindi avvantaggiare elettoralmente il leader della Lega. Praticamente tutto il mondo ruota attorno a Salvini: secondo questa logica, molto poco logica, chissà che l'escherichia coli nell'Adriatico non sia una contromossa anti russa per mettere in difficoltà il salviniano Papeete. In questo racconto fantascientifico da ombrellone la sinistra cuoce nello stesso pentolone tutte le sue ossessioni: dal mito dei migranti (che strumentalizza con grande disinvoltura) al complottismo su Mosca.
Proprio loro, nipotini di un Pci che per decenni ha preso soldi dall'Unione Sovietica. Alla faccia delle ingerenze straniere E siamo solo alla fine di luglio. Tra agosto e settembre probabilmente inizieranno a captare segnali dallo spazio per dimostrare pericolose connessioni tra Salvini e i marziani. D'altronde c'erano già i fascisti, ci vuole un attimo a catapultarci pure i leghisti.
Dopo le manovre russo cinesi. America ed Europa devono capire che al mondo non c’è solo l’Occidente: la crisi mondiale vista con gli occhi di Gramsci. Michele Prospero su Il Riformista il 24 Agosto 2022
Le “grandi manovre d’Oriente” (e anche l’invito a Mosca per il G20 in Indonesia) smontano pezzi importanti del dispositivo ideologico di una guerra ineluttabile tra democrazia e autocrazia che viene attualmente utilizzato come il principale schema interpretativo delle relazioni internazionali. Insieme alle autocrazie di Russia, Bielorussia, Tagikistan e Cina ha partecipato infatti alle esercitazioni militari congiunte anche l’India. Ovvero, la più grande democrazia mondiale che vanta una storia di “modernizzazione” in cui molto pronunciata è l’influenza occidentale.
L’Europa e l’America trascurano quel fenomeno politico rilevante rappresentato dalle molteplici esperienze di statualità che nel mondo seguono percorsi alternativi rispetto a quelli liberaldemocratici tracciati dall’Occidente. Con una impostazione dei rapporti internazionali nei termini di un generale scontro di civiltà tra mondo libero e Stati canaglia, le sorti dei valori democratici e l’avanzata della cultura dei diritti fondamentali non migliorano di sicuro. Miliardi di persone, che non vivono sotto l’ombrello delle liberaldemocrazie, non possono essere sacrificati sull’altare del loro regime politico interno assunto quale misura dell’asimmetrica legittimazione posseduta dagli Stati nelle relazioni internazionali.
Enumerando gli “elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati”, Gramsci nei Quaderni (Q. 4, (XVIII), p. 38 bis) ne elencava tre: “1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare”. A questi tre indicatori di carattere quantitativo egli aggiungeva, come quarto indice da considerare, anche “un elemento imponderabile”, cioè quello che rimarca “la posizione ideologica che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia”. Il possesso di tutti questi ingredienti conferisce una spiccata capacità di influenza (“un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza”) dato che, oltre alla forza effettuale (che mostra la vittoria prevedibile sulla base del dispiegamento delle milizie), dispensa allo Stato una forza ipotetica capace di condizionamento. In virtù di questa calcolabilità delle prerogative militari, economiche ed ideologiche, alla grande potenza riesce possibile “ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere”.
Le relazioni internazionali esprimono, secondo l’approccio di Gramsci, un terreno di rapporti interstatali dal carattere asimmetrico perché in essi gioca, accanto alla stretta effettualità della potenza, un ruolo cruciale il momento dell’egemonia. “Il modo in cui si esprime l’essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l’influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione”.
Non conta, dunque, solo la giuridica prerogativa di un territorio di essere un soggetto formalmente presente nelle arene delle relazioni internazionali. Va presa in considerazione anche la sostanziale possibilità di esprimere una posizione incisiva ed esercitare una visibile influenza nelle cose del mondo. Questi requisiti connessi alla capacità di influenza e direzione accompagnano solo poche delle entità statali. Una “direzione autonoma” non si esaurisce nel riconoscimento giuridico di essere parte degli attori che sono ospitati negli organismi delle Nazioni Unite; serve una effettuale condizione che mostri, nelle relazioni con gli altri, i segni dell’autonomia ovvero della forza.
Accanto a Stati che dispongono di significative risorse per esercitare un “influsso” e avere una certa “ripercussione” nei processi politici, esistono delle statualità con una rilevanza pari allo zero. Si incontrano poi altre e più grandi entità politiche organizzate dotate di una forza tale che consente loro di rivendicare il ruolo di potenza egemone. Questi Paesi sono in grado di esercitare pressioni, concordare aiuti, fornire assistenza e quindi di proporsi come Stati guida alla testa di una alleanza di nazioni che si contendono, con altre aggregazioni, il governo del mondo. Con lo scioglimento del Patto di Varsavia, gli Stati Uniti hanno coltivato la sensazione reale di essere entrati in un mondo divenuto ormai unipolare. Sulla base della supremazia, spalancata plasticamente con il collasso storico del nemico della lunga guerra fredda, il punto 4 di Gramsci, quello cioè relativo alla ideologia, è diventato il caposaldo di una operazione condotta nel solco della “fine della storia”, con le potenze del bene, dei diritti, della democrazia, autorizzate a celebrare il loro trionfo irreversibile.
Questa pax imperiale americana è durata poco perché tutte le potenze escluse, umiliate, marginali, o anche in ascesa, si sono variamente riaffacciate sulla scena. Perso il richiamo del numero 4 (la mobilitazione ideologica) che accompagnò il grande mito sovietico, alla riesumazione della potenza nazionalista e bellicosa dell’autocrazia russa contribuiscono il punto 1 (estensione territoriale, con risorse naturali di notevole rilevanza) e il punto 3 (la forza militare, con il possesso di armi atomiche). Anche se il punto 2 (la consistenza del “potenziale economico”) non è paragonabile a quello vantato dalla superiore macchina americana, il territorio pieno di risorse energetiche attribuisce alla Russia un potere di ricatto capace di indebolire la capacità produttiva delle potenze industriali occidentali.
Trascurare la rinascita russa e, addirittura, “abbaiare” con i simboli della Nato ai confini, adottando una strategia di puro contenimento militare con allargamenti ai limiti della intransigenza nei vecchi territori di influenza sovietica, non sono le sole politiche possibili verso Mosca. Il risentimento e l’esplosione dell’orgoglio nazionale dell’impero ferito (che ha un’ampia estensione territoriale, ma senza “una popolazione adeguata, naturalmente” per condurre davvero una minacciosa politica di espansione e conquista continentale) conducono a fenomeni bellici prolungati che rendono più complesso, e meno vantaggioso per l’America stessa ma soprattutto per i satelliti europei, il governo del mondo attraversato da nuove polarizzazioni militari.
Secondo Gramsci, “nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica”. Nel caso specifico russo, si tratta di una territorialità di carattere pluri-continentale che mostra il governo di Mosca sospingere i propri progetti ora verso Occidente, ora verso Oriente. Mentre Pechino venne attratta in passato dagli Usa in efficaci politiche di contenimento dell’espansionismo sovietico, oggi la Cina è sospinta per ragioni tattiche verso Mosca che organizza i molteplici centri di resistenza al dominio americano. Un capolavoro con tracce di insipienza tattico-storica degli strateghi Usa ha condotto, come naturale reazione precauzionale-difensiva, verso un’alleanza tra due grandi Paesi (storicamente rivali) che accantonano differenze e convergono in una comune istanza di contenimento dell’Impero a stelle e strisce.
La Cina è la sola grande potenza che può già oggi cominciare a competere con gli Usa sulle quattro variabili indicate da Gramsci (anche nella dimensione militare e navale, infatti, sembra ormai aver imboccato la strada per colmare il divario) e ciò giustifica la crescente accentuazione del sentimento di rivalità che caratterizza l’America ossessionata dal pericolo di un sorpasso. E’ vero che il profilo ideologico non è più quello di sessant’anni fa, ma una narrazione e un simbolismo caratterizzati dal richiamo al marxismo (espressione della cultura occidentale) rimangono pur sempre nella iconografia del regime di Pechino. Se, come suggerisce Gramsci, “nella forza economica è da distinguere la capacità industriale e agricola (forze produttive) dalla capacità finanziaria”, si comprende in radice il timore serpeggiante nel governo americano.
Il potere statunitense percepisce che la globalizzazione, proprio da Clinton accelerata, ha minato la tradizionale egemonia nordamericana nell’economia-mondo e ha corroso persino la sovranità del dollaro e della borsa (anche sul versante finanziario Pechino sfida apertamente gli Usa con minacce e ritirate). Dinanzi alle “grandi manovre d’Oriente”, l’America può continuare nella battaglia frontale attirando a rimorchio un’Europa che grazie alla sua memoria storico-giuridica serve all’Impero per condurre in maniera più credibile la battaglia n. 4 (per la democrazia e i diritti). Ma alla sfida per il riconoscimento lanciata da Russia, Cina, India e Iran, Stati assai influenti e provvisti di una autonoma capacità di decisione nel campo della politica estera, l’Occidente non può rispondere spingendo semplicemente sulla leva militare.
Un accomodamento politico creativo alla spinosa emergenza di Taiwan va pure escogitata, e con tempestività. La cooperazione, il multilateralismo, la soluzione diplomatica agli obiettivi di potenza alla fine rappresentano una opzione meno costosa, più pacifica e più utile agli stessi interessi occidentali in declino e chiamati necessariamente a ridefinirsi su basi diverse, alla luce dei nuovi equilibri visibili su scala mondiale. Michele Prospero
Yankee Go Home. L’antiamericanismo ha i capelli bianchi ma è ancora vivo e lotta contro di noi. Mario Lavia su L'Inkiesta il 16 Agosto 2022
La guerra di Putin all’Ucraina ha fatto riaffiorare dal retrobottega di alcuni settori progressisti della società italiana l’odio per gli Stati Uniti, stavolta mascherato da “pacifismo”
A quanti italiani piacerebbe urlare «yankee go home». Purtroppo per loro, non possono farlo perché gli Stati Uniti non stanno invadendo nessuno. Anzi, aiutano chi è stato invaso. Ma per gli antiamericani, magari con qualche capello bianco, è sempre colpa dello Zio Sam. La guerra della Russia di Vladimir Putin all’Ucraina ha resuscitato un sentimento che non si riteneva più così largo: l’ostilità, ai confini dell’odio, verso gli americani, anche da parte di settori progressisti della società italiana improvvisamente auto-frullatisi in una macchina del tempo che li ha riportati indietro di decenni.
È come se tutto il grumo anticapitalista e antimperialista del secolo scorso fosse riaffiorato dal retrobottega della cultura italiana sotto le insegne di un “pacifismo” spesso ipocritamente contrario all’uso delle armi in favore del Paese occupato: un Vietnam al contrario. Perché, se all’epoca la sinistra inneggiava alle armi fornite dall’Unione sovietica al “piccolo popolo dei contadini” oggi l’accusa all’America di Joe Biden è di sfruttare la guerra di Putin per rafforzare il proprio dominio sull’Europa e per finanziare l’industria delle armi: si riesuma lo spauracchio dell’egemonia americana che avrebbe ridotto l’Italia all’obbediente servilismo in chiave anti-sinistra. « Ahi serva Italia, di dolore ostello, / nave sanza nocchiere in gran tempesta, / non donna di province, ma bordello! »: siamo sempre lì, a Dante, per gli italiani che si sentono schiavi di Washington. Con la differenza che il Poeta aveva ragione.
Si sa che la sinistra italiana, cresciuta in quello strano e riuscito mix tra senso patrio e filosovietismo inventato da Palmiro Togliatti, non si è mai sentita amica degli Stati Uniti, nemmeno dopo il 25 aprile del 1945: gli stessi partigiani soffrivano il dualismo con gli angloamericani, salvo scrutare i cieli in attesa dei rifornimenti scaricati dagli aerei di Franklin Delano Roosevelt. E, soprattutto, la narrazione della Resistenza è stata sempre – comprensibilmente, peraltro, perché faceva parte del mito del “riscatto nazionale” – un fatto tutto italiano, mentre la Normandia e gli sbarchi in Sicilia e ad Anzio sono sempre rimasti sullo sfondo, o quasi. I romani per esempio non hanno mai dimenticato la ferita del bombardamento americano del quartiere popolare di San Lorenzo: anche per questo la sinistra della Capitale non ha mai amato l’America.
Togliatti, tornato in Italia, ignorava chi fosse Gary Cooper. D’altra parte, il Pci era un “partito fratello” del Pcus, il partito comunista sovietico, e, almeno fino agli anni Ottanta, una parte rilevante del suo cuore ha battuto lì, mentre più tardi l’antiamericanismo si è nutrito dell’ostilità nei confronti di Ronald Reagan, dei Bush e infine di Donald Trump (Barack Obama essendo risultato, alla fine, una mera parentesi).
Nell’animus della sinistra italiana, l’America è quella che nel 1947 si intromette e fa in modo di cacciare le sinistre dal governo e che, con la breve parentesi del kennedysmo, ha sempre svolto per la sinistra un ruolo regressivo e antidemocratico. E non che non vi siano solidi argomenti e episodi sconcertanti a favore di tutte queste tesi. Ma oggi si vede quanto siano stati insufficienti, e in fondo tattici, i tentativi di Enrico Berlinguer di espellere l’antiamericanismo dalla mentalità, anche a livello di massa, di una parte rilevante della sinistra italiana. Laddove non mancano mai, poi, gli antiamericani di professione, di tarda derivazione sessantottina, una parte dei quali – basti vedere certi talk show – hanno aperte simpatie putiniste, in odio all’Occidente e al capitalismo. Yankee go home», appunto. E la questione inquietante di oggi non è criticare gli americani, ma considerarli il Nemico (mentre dall’altra parte c’è una dittatura che massacra un popolo sovrano!).
Soltanto la chiara posizione filoatlantica del Pd di Enrico Letta e la fermezza di Mario Draghi hanno potuto arginare un possibile dilagare di un sentimento popolare ostile all’Occidente, incoraggiato peraltro da diversi leader politici, da Matteo Salvini a Giuseppe Conte fino a Silvio Berlusconi. E certo non è un caso che si tratti, specie per quello che riguarda i primi due, dei leader dell’antipolitica e del populismo più superficiale – una volta si sarebbe detto “qualunquista” – che soffia sul quadro politico italiano.
Viene da chiedersi se qualche chilo di antiamericanismo non sgorghi proprio da un insito disprezzo verso la politica e le istituzioni, da un antagonismo di massa nei confronti dell’establishment (o della ricchezza) e dallo scetticismo dell’italiano medio verso quel diritto alla felicità sancito dalla Costituzione americana. Insomma, è plausibile ritenere che il populismo, con il suo carico di vittimismo, passività e invidia sociale, rechi nella sua pancia una robusta dose di antiamericanismo. Ma neppure il mondo cattolico ha mai amato gli Stati Uniti, per profonde ragioni dottrinali, morali e culturali. Al suo interno convivono, in una sorta di dualismo, l’atlantismo di Alcide De Gasperi e l’europeismo antiamericano di Giuseppe Dossetti. Dal punto di vista strettamente politico, a prevalere è stata la linea del primo, incarnata da Aldo Moro e Beniamino Andreatta (non a caso il maestro di Letta). E, tuttavia, un solido scetticismo ostile persino alla grande cultura americana – dal cinema alla musica – ha sempre albergato in quei cattolici che a quella cultura preferiscono l’Europa del dubbio e dell’incertezza esistenziale, della colpa e del sacrificio, dentro una visione antiedonistica e antindividualista.
Il punto è proprio questo: la sinistra e i cattolici, se è consentita questa schematizzazione, tendono a privilegiare l’uguaglianza più che la libertà. Scelgono, cioè, la centralità dello Stato e la solidarietà (i cattolici) e il conflitto di classe (la sinistra) rispetto al primato del cittadino e alla società aperta. Per tutti loro l’America, con i suoi sogni e, certamente, con le sue clamorose ingiustizie, non è, come indicava Alexis de Tocqueville, il futuro del mondo, ma è semmai un “legno storto” che non piacerà mai. Quanto alla destra, la posizione atlantista di Giorgia Meloni è soprattutto dovuta a una scelta tattica e superficiale, peraltro in totale contrasto con la sua empatia per un superputiniano come Viktor Orbán. E non si deve dimenticare l’innamoramento di Giorgia per The Donald, residuale scoria dell’eterna ammirazione della destra per l’uomo forte, con il corrispondente odio per l’America democratica che contribuì in modo decisivo a distruggere il fascismo italiano.
Ecco dunque che nel momento in cui Biden ha dato la sensazione di voler assumere la leadership della comunità democratica mondiale molti hanno visto in questo l’attacco finale al multilateralismo e la ripresa della tentazione egemonica e dominante degli Stati Uniti. È come se la grande frattura che ha opposto per secoli l’America liberale all’Europa cattolica – momentaneamente ricomposta con la Seconda guerra mondiale e riallargatasi poi nei decenni successivi e di nuovo apparentemente sanata con il crollo del Muro di Berlino – fosse adesso nuovamente esplosa, pur nel paradosso della denuncia comune dell’imperialismo russo.
Tutto questo ribollire non distingue tra Joe Biden e Donald Trump: si tratta in ogni caso di fermare il dominio americano sul mondo, anche se questo dovesse passare per la capitolazione del popolo ucraino – d’altronde, in Italia c’è da tempo chi auspica la resa di Volodymyr Zelensky – e persino per una cessione di ulteriore potere d’influenza alla cricca di Putin. È insomma un vagheggiamento, non si sa quanto consapevole, di un ritorno alla Guerra fredda e ai blocchi contrapposti: addirittura, qualche tardo-dossettiano evoca questo scenario come indispensabile per far emergere un ruolo nuovo dell’Europa.
Così, a restare filoamericani sono i settori della politica meno impastoiati con i residui ideologici del passato, cioè alcuni dirigenti del Pd, laici e i riformisti di vario conio: a occhio, una minoranza.
Matteo Salvini e la Russia, Marco Travaglio smonta il finto scoop. Il Tempo il 29 luglio 2022.
Russiagate, arriva l'avvocato difensore che non t'aspetti. Sul caso del dossier russo e dei presunti rapporti tra Lega e Cremlino, scende in campo perfino il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, che prende di petto il giornalista della Stampa Jacopo Iacoboni. Travaglio lo scrive nero su bianco nell'editoriale pubblicato sul suo giornale venerdì 29 luglio. E rivela che, in un primo momento, anche il Fatto stava per cadere nella trappola ma poi ha aperto gli occhi e si è tenuto alla larga dal quello che poi si sarebbe rivelato un finto scoop.
Nel suo editoriale, Travaglio definisce il caso come una vera e propria "trappola della Stampa". E ancora: "Ci ha aperto gli occhi una prova più rocciosa della smentita di Gabrielli: la firma di Jacopo Iacoboni" che "vede Putin dappertutto”. Il direttore del Fatto Quotidiano affonda il colpo e scarica interamente su Draghi la responsabile della recente caduta del governo. “Se la caduta di Draghi l'avesse voluta Putin - scrive Travaglio - il suo primo complice sarebbe Draghi che vi si è impegnato più di lui: per fare un dispetto a Putin gli sarebbe bastato non insultare la Lega e i 5Stelle mentre chiedeva loro la fiducia. Invece si è sfiduciato da solo, putiniano che non è altro”.
Berlusconi e le telefonate con l’ambasciatore russo: "Mi ha spiegato la verità sulla guerra". Tommaso Ciriaco su La Repubblica il 29 Luglio 2022.
Durante la crisi di governo, contatti con Razov: "L'Ucraina voleva attaccare Mosca". Meloni: "FdI con Kiev"
"Ho parlato con l'ambasciatore Razov, mi ha spiegato che la Russia...". Mercoledì scorso. Sono le ore folli che precedono la crisi di governo. Silvio Berlusconi alza il telefono, prima di eclissarsi a metà giornata e non rispondere al cellulare per almeno un'ora. Chiama un paio dei suoi ministri. Contatta alcuni parlamentari azzurri. Si confida con diversi big accorsi a Villa Grande, dove si sta consumando la cacciata di Mario Draghi.
(ANSA il 29 luglio 2022) - "Leggiamo con profondo stupore una fantasiosa ricostruzione del quotidiano "Repubblica", relativa alle ore precedenti alla caduta del governo Draghi. Stupisce che uno dei più grandi quotidiani italiani dia spazio a illazioni non soltanto infondate, ma che vanno nella direzione esattamente opposta rispetto alle nostre convinzioni e ai nostri comportamenti".
E' quanto si legge in una nota di Forza Italia in merito ad un articolo di Repubblica dal titolo 'Le telefonate di Berlusconi con l'ambasciatore russo 'Mi ha spiegato la verità''. Nell'articolo si racconta che Berlusconi nel giorno della caduta del governo Draghi avrebbe parlato con diversi dirigenti e ministri azzurri criticando alcune scelte di politica estera dell'esecutivo e confidando loro di aver parlato con l'ambasciatore russo in Italia che avrebbe spiegato all'ex premier le ragioni di Mosca, che era stata l'Ucraina a fare ventimila vittime nelle zone contese e che l'invasione era necessaria perchè il rischio era che Kiev attaccasse la Russia.
"Innanzitutto - prosegue la nota - è sconcertante l'idea che un leader si faccia suggerire dall'ambasciatore di un paese straniero valutazioni di politica internazionale. Un leader della caratura internazionale di Silvio Berlusconi, quando desidera avere contatti con leader stranieri lo fa al massimo livello, cosa che con la Russia non avviene da molto tempo. Tutto questo farebbe addirittura sorridere, se non fossimo di fronte ad una delle peggiori tragedie del nostro tempo.
La crisi Ucraina ha portato guerra, morte e distruzioni alle soglie dell'Europa, come conseguenza di una guerra scatenata dalla Russia in violazione del diritto internazionale. La nostra posizione su questo è perfettamente allineata con quella del Governo Italiano, dell'Unione Europea e degli Stati Uniti. La solidarietà atlantica per noi è una cosa seria, è il cardine della nostra politica estera. Questo non ci impedisce di provare profondo dolore per le vittime e le distruzioni e di auspicare, come farebbe ogni persona ragionevole, che si trovi una strada diplomatica per far cessare questo massacro".
"Lo abbiamo detto e ripetuto in tante occasioni ufficiali e Forza Italia lo ha tradotto in concreto con gli atti legislativi e le risoluzioni votate in Parlamento. Forse sarebbe più utile raccontare questi, che sono fatti ben chiari e visibili, piuttosto che raccogliere pettegolezzi mal interpretati o addirittura inventati di sana pianta".
Tommaso Ciriaco per “la Repubblica” il 29 luglio 2022.
"Ho parlato con l'ambasciatore Razov, mi ha spiegato che la Russia...". Mercoledì scorso. Sono le ore folli che precedono la crisi di governo. Silvio Berlusconi alza il telefono, prima di eclissarsi a metà giornata e non rispondere al cellulare per almeno un'ora. Chiama un paio dei suoi ministri. Contatta alcuni parlamentari azzurri. Si confida con diversi big accorsi a Villa Grande, dove si sta consumando la cacciata di Mario Draghi.
A tutti, il Cavaliere consegna alcune critiche sui presunti errori in politica estera del premier che sta per silurare. E a un certo punto si lascia sfuggire una vera e propria rivelazione: "Ho parlato con l'ambasciatore russo in Italia Razov. Mi ha spiegato le loro ragioni, cosa ha fatto Zelensky". Di più: "Mi ha raccontato che è stata l'Ucraina a provocare ventimila vittime nelle zone contese. E che l'invasione era necessaria perché il rischio era che l'Ucraina attaccasse la Russia".
Al di là dell'enormità della tesi, che stravolge tutti i recenti eventi della crisi ucraina, il Cavaliere rende noto qualcosa che noto non era: il leader di uno dei partiti di maggioranza che non voterà la fiducia al presidente del Consiglio - lui, sì, attestato su una linea atlantica - è entrato in contatto con il terminale diplomatico di Mosca in Italia. Con chi cioè, ai massimi livelli, brinderà all'affossamento dell'ex banchiere.
E d'altra parte, non è un mistero che Silvio Berlusconi sia sensibile alle ragioni di Mosca. Il suo rapporto con Putin è antico, consolidato, cementato in passato dalla sintonia su numerosi dossier. Nulla o quasi è cambiato dopo l'attacco di Mosca all'Ucraina. Al 24 febbraio sono seguiti giorni di silenzio.
Poi è arrivata una prima, moderata presa di posizione contro l'aggressione. Infine il Cavaliere è tornato a sposare le tesi dello Zar. Secondo diverse fonti, la virata è nata dopo un primo contatto con i russi. E si è concretizzata il 20 maggio scorso.
A Napoli per un evento di Forza Italia, l'ex premier critica la Nato e rilancia: "L'Europa deve fare una proposta di pace cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin. Inviare armi significa essere cobelligeranti". In quelle settimane pressioni della diplomazia americana giungono fino a Gianni Letta, per comprendere la linea del Cavaliere. Ma dura poco. Berlusconi non si spende per Kiev. Fino alla telefonata con Razov, rivelata dallo stesso leader.
L'ambasciata russa in Italia è anche il canale con cui Salvini tiene i contatti con Mosca. Il teatro di incontri con Razov subito dopo l'avvio della guerra. Secondo alcune indiscrezioni, il leghista avrebbe ripreso a frequentare la sede diplomatica nelle ultime settimane. Tre o quattro volte tra fine giugno e fine luglio, ospite di Razov o del suo vice.
Lo staff di Salvini, pur rivendicando i colloqui del passato, sostiene però che "gli ultimi contatti del segretario con l'ambasciata risalgono a maggio". Repubblica ha chiesto un commento anche all'ambasciata russa, senza ottenere risposta. Fonti di intelligence escludono, invece, che ci possa essere stato un controllo del lavoro di parlamentari o leader politici, oggi come nei mesi scorsi.
Diverso è il discorso dal punto di vista russo: come dimostra il caso Biot, l'ambasciata lavora da tempo come centrale del controspionaggio. Per influire, in qualche modo, sulle vicende politiche interne.
Di certo, il dialogo tra Berlusconi, Salvini e la diplomazia russa imbarazza Giorgia Meloni. Già nel mirino della stampa internazionale, deve provare a distinguersi dagli alleati. E rassicurare l'attuale amministrazione Usa, che ha memoria dei suoi passati rapporti con Donald Trump. "Saremo garanti senza ambiguità della collocazione italiana - promette - e dell'assoluto sostegno all'eroica battaglia del popolo ucraino".
Sono tutte novità che si aggiungono a quanto pubblicato ieri dalla Stampa sui contatti avuti il 27 e 28 maggio dal consigliere di Salvini per i rapporti internazionali, Antonio Capuano, con Oleg Kostyukov, un funzionario dell'ambasciata russa, nel periodo in cui Carroccio e 5S si opponevano all'invio di armi a Kiev.
Il funzionario avrebbe chiesto se i ministri leghisti fossero intenzionati a dimettersi. Il leader del Carroccio ha replicato parlando di "fake news". Il sottosegretario con delega ai Servizi Franco Gabrielli ha negato un ruolo dell'intelligence italiana nella vicenda. Enrico Letta e Luigi Di Maio denunciano però queste "rivelazioni inquietanti". E anche Fratelli d'Italia attacca: "Le questioni di carattere internazionale vanno chiarite e approfondite".
Estratto dell’articolo di Francesco Olivo per “la Stampa” il 29 luglio 2022.
La Lega si sente accerchiata: da una parte vede in azione quella che chiama la «macchina del fango», dall'altra avverte la paura che ci siano apparati, non meglio precisati, pronti a colpire nel momento più delicato. Le rivelazioni de La Stampa sui contatti tra il consigliere di Matteo Salvini, Antonio Capuano, e un funzionario dell'ambasciata russa, Oleg Kostyukov guastano il clima ottimista nel centrodestra […]
C'è un precedente che in via Bellerio ricordano con fastidio: la visita di Salvini in Polonia del marzo scorso, quando il segretario fu contestato al confine con l'Ucraina dal sindaco di Przemy, che esibì una maglietta con il volto di Putin, indossata anni prima dal segretario della Lega. In molti nel cerchio ristretto salviniano ritengono che si sia trattata di un'imboscata montata ad arte per esporlo a una figuraccia che fece il giro del mondo.
[…]Tra i dirigenti leghisti il timore che potessero arrivare nuovi dettagli sui rapporti di Salvini con i russi è sempre stato presente. Quel viaggio mai fatto a Mosca ha suscitato grande perplessità, nel migliore dei casi, all'interno del partito. Quando sui giornali sono emersi i dettagli dell'organizzazione persino un partito monolitico come la Lega ha vacillato, e il segretario ha dovuto trascorrere molto tempo a spiegare i suoi movimenti.
L'aspetto che più ha indispettito i dirigenti del Carroccio, anche quelli vicinissimi a Salvini, come il suo vice Lorenzo Fontana, era proprio il ruolo di Antonio Capuano, l'ex deputato di Forza Italia, diventato consulente che apriva le porte delle ambasciate. Allora c'era una campagna elettorale, quella delle amministrative, finita con una sconfitta, oggi la posta in gioco è più alta. Nel Carroccio sperano che non tornino i fantasmi dell'ambasciata russa.
Massimo Giannini insulta Lega e Salvini: "Utili idioti". Libero Quotidiano il 29 luglio 2022.
Massimo Giannini, nel suo editoriale su La Stampa, difende quanto il suo stesso giornale ha scritto sulle presunte ingerenze russe su Matteo Salvini per la caduta del governo di Mario Draghi. "Siamo consapevoli di quanto siano delicati i nuovi dettagli sul Russia-gate della Lega, emersi dal retroscena di Jacopo Iacoboni pubblicato ieri sul nostro giornale. I colloqui riservati tra Antonio Capuano, emissario di Via Bellerio, e Oleg Kostyukov, numero due dell'Ambasciata russa a Roma, deflagrano in piena campagna elettorale. Confermano l'esistenza di un legame particolare tra il Cremlino e il Carroccio. Gettano una luce nuova e diversa anche sulla caduta di Draghi. Evidenziano per la prima volta un possibile nesso causale tra il supporto dei diplomatici di Putin al 'viaggio di pace' di Salvini a Mosca e il ritiro dei ministri leghisti dal governo".
Quindi il direttore de La Stampa contrattacca chi ha accusato il suo giornale di produrre fake news: "Ci rendiamo conto dell'enorme rilevanza politica di questi fatti. Per questo, di fronte alle reazioni sdegnate e alle smentite scontate, ci teniamo a confermare tutto quello che abbiamo scritto. A ribadire che i dettagli sugli incontri e sulle conversazioni tra Kostyukov e Capuano sono contenuti in documenti informali di sintesi del lavoro di intelligence comunicato a suo tempo ai competenti livelli istituzionali. Dunque, è la Lega che deve spiegare una volta per tutte al Parlamento e al Paese le sue 'relazioni pericolose' in politica estera. Noi non dobbiamo chiarire alcunché". E conclude durissimo: "La certezza è che alla Stampa non ci sono 'servi sciocchi' della sinistra. La speranza è che nella Lega non ci siano 'utili idioti' della Russia".
I DOCUMENTI DELL’ANTIRICICLAGGIO SUL FUNZIONARIO RUSSO DEL VIAGGIO A MOSCA DI MATTEO. Quei 125mila euro in contanti per il convegno con Salvini e Putin. EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 30 luglio 2022
Il 17 ottobre 2014, a Milano, Matteo Salvini ha incontrato Vladimir Putin. Un saluto rapido, un caffè al volo dopo un importante convention sull’Eurasia che si teneva in quei giorni nel capoluogo lombardo. Forse il primo incontro tra il capo della Lega e il presidente della federazione russa.
In quei giorni però l’antiriciclaggio italiana fa una scoperta, uno strano giro di denaro in contatti subito segnalato come sospetto. Si trattava di 125 mila dollari movimentati da un alto funzionario dell’ambasciata russa in Italia.
E precisamente da quel funzionario che di nome fa Oleg Kostyukov, lo stesso che in questi mesi ha curato le relazioni con Matteo Salvini e il suo consulente improvvisato, Antonio Capuano, l’avvocato di Frattaminore (Napoli) con un passato in Forza Italia e stabili relazioni con il mondo della diplomazia soprattutto mediorientale.
EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN
Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 29 luglio 2022.
I rapporti tra Matteo Salvini e uomini dell'ambasciata russa in Italia continuano ad agitare la politica. A giugno la notizia degli incontri segreti del leghista e del suo consigliere diplomatico Antonio Capuano con l'ambasciatore Sergey Razov (raccontate da Domani) e quella sull'acquisto dei biglietti aerei per l'asserito “viaggio di pace” a Mosca del Capitano (un’esclusiva della Verità) avevano creato imbarazzo al partito e polemiche.
Ieri un nuovo retroscena della Stampa ha aggiunto dettagli interessanti alla liaison tra il Carroccio e gli emissari di Vladimir Putin. Che riguardano alcuni colloqui avvenuti lo scorso fine maggio tra Capuano e Oleg Kostyukov, il capo dell'ufficio politico dell'ambasciata già finito sulle cronache per aver anticipato i soldi dei voli, poi restituiti dalla Lega.
Secondo il quotidiano torinese – che cita e virgoletta le parole di un presunto documento informale dell'intelligence - durante uno di questi colloqui il funzionario russo domanderebbe a Capuano se i ministri della Lega sarebbero «intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi». Un quesito che farebbe «trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del governo italiano con questa operazione».
Draghi, atlantista e convinto assertore dall'aiuto militare all'Ucraina sempre contrastato dalla Lega (e dai Cinque Stelle), è caduto poco più di un mese dopo il colloquio riportato dal giornale. Per tutta la giornata il centrosinistra ha chiesto a Salvini di spiegare se la scelta di non dare la fiducia a Draghi sia stata o meno condizionata dalle pressioni dei russi. Salvini e i suoi uomini hanno reagito parlando di una «panzana».
Salvini ha pure anticipato una smentita istituzionale all'articolo, arrivata in effetti da Franco Gabrielli pochi minuti dopo. Il sottosegretario con delega ai servizi segreti ha detto che «l'attribuzione all'intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra Capuano e rappresentanti dell'ambasciata russa per far cadere il governo Draghi sono prive di ogni fondamento». La Stampa ha confermato lo scoop e l'esistenza di documenti, seppur definendoli «una sintesi informale dell'intelligence sulla vicenda, comunicata ai competenti livelli istituzionali». Ossia, allo stesso Gabrielli, che però dice che le informazioni non sono attribuibili al comparto che sovrintende.
Dunque, chi mente? Esistono o meno carte delle nostre agenzie di sicurezza che riportano frasi in cui Kostyukov (figlio del comandante del Gru, i servizi militari russi) in cui si fanno domande o pressioni sul consigliere di Salvini per fare cadere un esecutivo non gradito?
Domani ha sentito fonti interne al comparto, funzionari russi e autorevoli esponenti governativi vicino al dossier, e può aggiungere qualche tassello. Testimonianze che evidenziano soprattutto come all'origine dell'episodio ci sia stata un'operazione di spionaggio dei nostri servizi, che hanno effettuato – scopre adesso Domani - intercettazioni preventive sul telefono di Capuano.
Il contenuto di alcune conversazione captate tra il russo e l'avvocato di Frattaminore sono poi finite – forse a causa di qualche fonte interna ai servizi o alla catena di funzionari al Dis e a palazzo Chigi che conoscevano i fatti – prima alla Verità (che aveva già dato l’identica notizia di ieri il 10 giugno) e poi alla Stampa (che ieri l'ha rilanciata con eco assai maggiore).
Una fuga di notizie che in queste ore sta preoccupando le nostre agenzie di sicurezza, in primis l'Aisi di Mario Parente e poi il Dis di Elisabetta Belloni: quasi mai intercettazioni preventive effettuate dai servizi a cittadini italiani o stranieri sono arrivate in tempo reale – seppur secondo Gabrielli in maniera imprecisa e non mediata dall'intelligence – sui media.
Partiamo dalla sera primo marzo 2022. L'invasione di Mosca dell'Ucraina è iniziata da pochi giorni, e Salvini e Capuano varcano il portone dell'ambasciata russa a Roma. Forse non sanno che villa Abamelek sul Gianicolo è uno dei palazzi più sorvegliati d'Italia. Non solo dalla polizia per normali questioni di sicurezza, ma anche dal nostro controspionaggio dell'Aisi e dai servizi segreti americani.
Capuano è pure segnalato dall'antiriciclaggio, ed è noto da tempo per avere eccellenti rapporti con l'ambasciatori mediorientali. Dopo la sua seconda visita in ambasciata, seguendo la prassi (che prevederebbe una richiesta alla procura generale in caso di captazione) la nostra intelligence decide di intercettare il telefono del legale campano. I nostri 007 vogliono capire chi sono i suoi interlocutori, e se dietro l'attivismo del neo consigliere diplomatico di Salvini ci siano rischi per la sicurezza nazionale.
A fine maggio il telefono di Capuano diventa caldissimo. Lui e Salvini hanno infatti deciso, d'accordo con Razov, di partire per la Russia e incontrare pezzi grossi del Cremlino, compreso il ministro degli esteri Lavrov. I nostri agenti ascoltano tutto, compreso il pasticcio dell'acquisto dei biglietti: la Lega non riesce a comprarli per via delle sanzioni, così il capo dell’ufficio politico Kostyukov si offre di comprali di tasca sua, anticipando la somma in rubli. Il viaggio, poi, salta quando l'ipotesi di una visita a Mosca di Salvini finisce sui giornali.
A giugno il caso riesplode prima su Domani, che svela cene e incontri tra Razov e Salvini, e poi sulla Verità che pubblica la vicenda dei biglietti aerei, conosciuta a pochissimi uomini della cerchia del leader leghista. Salvini si domanda chi possa averla spifferata al giornale amico, e comincia a sospettare di qualche talpa all'interno dei nostri apparati di sicurezza. «È in quel momento che abbiamo capito che Capuano probabilmente era stato intercettato», spiegano alcuni fedelissimi del leghista.
Il 10 giugno la Verità pubblica un articolo sugli affari di Capuano. Anche stavolta, le informazioni sembrano provenire da fonti che hanno ascoltato direttamente i colloqui. Nelle righe finali, viene riporta esattamente la notizia pubblicata ieri dalla Stampa. Senza citare fonti né documenti di intelligence, La Verità scrive: «Nella serata del 28 maggio...i russi (parlando con Capuano, ndr) da parte loro si sarebbero mostrati interessati a sapere se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni del governo». Un testo identico a quello del documento ufficioso citato dal foglio torinese.
Fonti diplomatiche russe negano a Domani che ci sia mai stata da parte di Mosca alcuna operazione di sabotaggio dell'odiato Draghi, e che in quei giorni «sui giornali italiani era un susseguirsi di dichiarazioni della Lega contro il governo sulla questione del ddl Concorrenza e dei balneari». Insomma, pure se Kostyukov avesse fatto la domanda a Capuano sui ministri, non si trattava per i russi di una pressione sulla Lega per far cadere il governo, ma di una semplice curiosità politica, suppur certamente interessata. Abbiamo provato a chiamare il funzionario per sapere se avesse fatto quella domanda e a qual fine, ma senza successo.
La vecchia notizia dalla Verità torna in prima pagina sulla Stampa, e assume un sapore assai più rilevante: non solo perché intanto il governo è davvero caduto anche per mano della Lega, ma perché viene citato un documento dell'intelligence che conterrebbe virgolettati precisi di quei colloqui.
Nel pezzo non parla mai di intercettazioni da parte del controspionaggio, ma diversi testimoni spiegano a Domani che il contenuto delle telefonate tra Capuano e Kostyukov verrebbe proprio dalle “preventive” ordinate mesi prima dall’Aisi. Ma perché Gabrielli scrive dunque una nota così netta? Perché vuole proteggere l'intelligence tenendola fuori dalla tenzone elettorale. E perché, conoscendo bene il contenuto delle telefonate (come ovvio che sia, essendo autorità delegata), in assenza di trascrizioni e documenti ufficiali delle stesse vuole buttare acqua sul fuoco delle polemiche politiche. Perché nelle interlocuzioni registrate della coppia non ci sarebbero indicazioni di operazioni, come scrive Gabrielli, «per far cadere il governo Draghi».
Qualcuno nell'Aisi dice che non esisterebbe nemmeno una corrispondenza letterale tra le registrazioni dei colloqui e le frasi virgolettate uscite sui giornali, ma il tema è secondario. Le interlocuzioni tra russi, Salvini e Capuano ci sono state eccome, e la nuova vicenda pone senza dubbio ulteriori interrogativi sulla natura dei reali rapporti tra Salvini e la Russia, e sul perché il leghista si sia affidato a uno come Capuano.
Quante intercettazioni inedite di Capuano hanno ancora in mano i nostri servizi e/o altri soggetti di apparati stranieri? E chi e perché – anche se a spizzichi e bocconi – ha fatto uscire materiale segreto così dirompente?
È quello che si chiede oggi Salvini, che sa bene che lui stesso potrebbe essere stato registrato nel caso avesse chiamato il telefono del consulente.
Il problema politico è triplice. Perché il segretario di un partito che si appresta a governare, invece di fare mea culpa per le sue frequentazioni pericolose, denuncia complotti. Ma la verità che da Gianluca Savoini, protagonista dello scandalo Metropol, all'avvocato Capuano è lui e la sua corte la causa primaria delle sue sventure.
Le rivelazioni (vere) de “La Stampa” sui rapporti fra la Russia e Lega agitano la politica. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Luglio 2022.
Nel merito il leader della Lega non smentisce i fatti riportati nell’articolo pubblicato ieri dal quotidiano La Stampa. A cominciare dai contatti tra un funzionario dell’ambasciata russa a Roma e il suo consigliere per i rapporti internazionali, l’avvocato Antonio Capuano ex parlamentare di Forza Italia
E’ scoppiata una vera e propria bufera politica sulle presunte ingerenze russe nella caduta del governo Draghi rivelate dal quotidiano La Stampa, al leader della Lega sono arrivati durissimi attacchi dalla sinistra, con pressanti richieste di chiarimenti. Per Matteo Salvini sono solo “fesserie” e “fake news“.
Enrico Letta segretario del Pd ha annunciato interrogazioni parlamentari e chiede al Copasir di approfondire la vicenda, definendo “inquietanti” le notizie pubblicate: “Sarebbe una cosa di una gravità senza fine“. Secondo il segretario del Pd, “questa campagna elettorale inizia nel modo peggiore, con una grandissima macchia. Vogliamo sapere se è stato Putin a far cadere il governo Draghi”. Richiesta rilanciata, nell’aula della Camera, dalla deputata dem Lia Quartapelle, la quale sollecita un’informativa urgente del governo, scatenando forti proteste dai banchi del centrodestra. Uno scontro che si ripete al Senato, tra il senatore “dem” Dario Parrini e il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo.
Una sollecitazione che viene ritenuta “legittima” anche dagli alleati di Fratelli d’Italia: “Le questioni di carattere internazionale vanno chiarite e approfondite“, afferma il capogruppo alla Camera Francesco Lollobrigida. Un atteggiamento prudente in linea con il messaggio filo-atlantico lanciato da Giorgia Meloni, in occasione della direzione del partito: “Saremo garanti, senza ambiguità, della collocazione italiana e dell’assoluto sostegno all’eroica battaglia del popolo ucraino – dice la leader di FdI – Un’Italia guidata da noi e dal centrodestra sarà affidabile sui tavoli internazionali“. Dichiarazioni che non sono proprio una mano tesa all’alleato Salvini in difficoltà.
Letta lancia anche un appello a vigilare per “garantire che la campagna elettorale si svolgerà senza influenze esterne da parte della Russia“. Il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, si limita a dichiarare che “le ingerenze straniere nei processi elettorali sono oggetto di attenzione anche in Italia”. La stessa attenzione che predica il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, il quale invita Salvini a “spiegare queste sue relazioni con la Russia, negli stessi giorni in cui si faceva pagare in rubli il biglietto per Mosca” ed attacca il Movimento 5 stelle: “Questo tentativo da parte russa di far ritirare i ministri della Lega – spiega – fa il paio con l’endorsement dell’ambasciatore russo alla bozza di risoluzione del partito di Conte sulla questione Ucraina”.
Giuseppe Conte replica definendole solo “corbellerie“, visto che “il sottoscritto non è andato in nessuna ambasciata russa, non ha avuto contatti con esponenti del governo russo, perché noi queste cose non le facciamo – spiega – Salvini deve chiarire nelle sedi opportune, non possiamo permetterci opacità in un momento così delicato“.
Nel merito il leader della Lega non smentisce i fatti riportati nell’articolo pubblicato ieri dal quotidiano La Stampa. A cominciare dai contatti tra un funzionario dell’ambasciata russa a Roma e il suo consigliere per i rapporti internazionali, l’avvocato Antonio Capuano ex parlamentare di Forza Italia. In una delle conversazioni, circa due mesi prima della caduta del governo Draghi, il diplomatico si informava sulle intenzioni dei ministri leghisti, se fossero pronti a dimettersi. Salvini prova minimizzare: “Io ho lavorato e lavoro per la pace e per cercare di fermare questa maledetta guerra. Figurati se vado a parlare di ministri e viceministri – dice a Radio24 – mi sembra la solita fantasia in cui c’è Putin, c’è il fascismo, il razzismo, il nazismo, il sovranismo“.
I ministri leghisti, quelli che avrebbero dovuto mollare il governo, diffondono una nota congiunta: “Dimissioni su richiesta di Putin? Si, su Marte – scrivono Giorgetti, Garavaglia e Stefani – Qualcuno ha preso un colpo di sole molto serio“. In realtà, il caso viene preso molto sul serio anche fuori dall’Italia: da Washington, ad esempio, fonti diplomatiche dell’amministrazione americana esprimono “seria preoccupazione” per la vicenda.
A spegnere le polemiche evidentemente non è bastata la nota di smentita firmata dal sottosegretario Franco Gabrielli, che ha la delega alla Sicurezza della Repubblica: “Le notizie circa l’attribuzione all’intelligence nazionale di asserite interlocuzioni tra l’avvocato Capuano e rappresentanti dell’ambasciata russa in Italia, per far cadere il governo Draghi, sono prive di ogni fondamento“. Precisazione doverosa dal punto di vista istituzionale, che però non smonta la ricostruzione fatta nell’articolo, tanto che la direzione de La Stampa conferma che “i documenti visionati dal nostro giornale sono una sintesi informale del lavoro d’intelligence sulla vicenda“.
Secondo quanto risulta anche a chi scrive, quanto emerso dagli articoli del quotidiano La Stampa è assolutamente veritiero, anche se resta da chiedersi: chi aveva interesse di far uscire dai “servizi” italiani questa velina che da origine alle notizie di stampa ? Come avrebbe mai potuto il sottosegretario Gabrielli confermare la veridicità di quanto trapelato ? Se lo avesse fatto avrebbe avrebbe delegittimato a livello internazionale i nostri “servizi” esteri. Ed un uomo di Stato come Gabrielli queste cose le sa molto bene.
In una campagna elettorale già tesa emergono elementi nuovi sul rapporto tra Matteo Salvini e la Russia, che illuminano di una luce inquietante anche la caduta di Mario Draghi, e gli eventi accaduti negli ultimi due mesi di vita del governo.
Secondo documenti d’intelligence che La Stampa ha potuto visionare, alla fine di maggio Oleg Kostyukov, importante funzionario dell’ambasciata russa, domanda a un emissario del leader leghista se i loro ministri sono «intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo Draghi». Lasciando quindi agli atti un interesse fattuale di Mosca alla «destabilizzazione» dell’Italia. In quei giorni Salvini e il M5S stanno scatenando l’offensiva contro l’allora premier, rispettivamente, con la campagna d’opinione e la risoluzione parlamentare che punta a chiedere il no all’invio delle armi in Ucraina, e i russi ritengono giunto il momento di poter esplicitare il passo più grave: Kostuykov domanda al consigliere per i rapporti internazionali del leader della Lega Salvini, Antonio Capuano – un ex deputato napoletano di Forza Italia, oggi non più parlamentare, che in passato sostenne di aver aiutato l’allora ministro Frattini in alcuni dossier internazionali – se i leghisti si vogliono ritirare dal governo, in sostanza facendolo cadere. «Il diplomatico, facendo trasparire il possibile interesse russo a destabilizzare gli equilibri del Governo italiano con questa operazione, avrebbe chiesto se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni dal Governo».
Kostuykov, «vicario dell’ufficio politico dell’ambasciata russa a Roma», è l’uomo che, come forse ricorderete, compra materialmente in quei giorni i biglietti aerei per la tentata, e poi abortita, “missione di pace” di Salvini a Mosca. Biglietti che il capo leghista ha spiegato poi di aver rimborsato. Ma ovviamente il problema non è solo quello: mentre aiutavano ad acquistare i biglietti, i russi si interessavano alle sorti del governo italiano. Tutto questo avviene in una serie di conversazioni tra il 27 e il 28 maggio 2022. Il 26, il giorno prima, Draghi ha parlato al telefono con Putin per provare a sbloccare la crisi del grano, uscirà dalla telefonata con un amaro “non ho visto spiragli di pace“. Con una mano Putin parla con Draghi. Con l’altra mano, i funzionari russi si adoperano con la Lega, contro Draghi.
In tutta la primavera del 2022 l’attivismo russo in Italia è stato attentamente monitorato. A inizio di maggio del 2022 Capuano sarebbe contattato “da una esponente (non si fa il nome di questa donna, ndr) del partito di Vladimir Putin, Russia Unita, che, informata della missione programmata per il leader del Carroccio, si sarebbe offerta di supportare il Consulente di Salvini nell’organizzazione della trasferta, suggerendogli in prima battuta di prelevare il denaro necessario per effettuare tutti i pagamenti previsti nel corso della trasferta, da convertire in rubli in loco, essendo inutilizzabili carte di credito e bonifici bancari. In tale contesto, il Consulente avrebbe riferito di incontri già fissati con il Ministro Sergej Lavrov – con il quale sarebbe stato programmato un pranzo per il 6 maggio 2022 – e con il Presidente della Camera Alta dell’Assemblea Federale russa, Valentina Matvienko“.
Matvienko, piccola parentesi, è una oligarca non da poco: possiede una straordinaria proprietà in Italia, sulla costa di Pesaro, 26 ettari di territorio, 650 metri di costa disponibile e totalmente privatizzata, casa di 774 metri quadrati. È una delle funzionarie più potenti del regime del Cremlino, quella che il 23 febbraio 2022 ha firmato la richiesta di truppe russe all’estero, ossia l’entrata in guerra della Russia con l’invasione dell’Ucraina. Una donna che è naturalmente sotto sanzioni dell’Ue – addirittura fin dalla prima ondata, il 21 marzo 2014, assieme a uomini come Vladislav Surkov, allora consigliere di Putin, il “mago del Cremlino”, e Sergey Narishkin, oggi capo del Svr, i servizi esteri russi. Non è chiaro perché questa magione non sia stata sequestrata, nel momento in cui scriviamo.
Matvienko viene da una lunga storia sovietica, prima nel Komsomol, il Comitato della Gioventù Sovietica, poi nel Partito e nel Servizio diplomatico. Sostiene Kamil Galeev, fellow del Wilson Center e esperto di storia sovietica, che, parlando in linea generale, le giovani donne del Komsomol svolgevano per lo più compiti di accompagnatrici in quella Unione sovietica brutalmente sessista: «Le ragazze stereotipate del Komsomol che aspiravano alla carriera partecipavano spesso a saune con i capi, in Urss era chiamato “l’escort service”“.
Lavrov, Matvienko, forse anche Putin: questa è la triade che i russi promettono di far incontrare al capo della Lega a Mosca. Il 19 maggio 2022 Salvini aveva già incontrato “riservatamente l’Ambasciatore russo, con il quale avrebbe discusso anche dell’eventuale viaggio di Papa Francesco in Russia, ravvisando uno spiraglio circa la possibilità che esso si concretizzi alla luce della disponibilità del diplomatico, che avrebbe unicamente posto una non meglio identificata condizione, ritenuta tuttavia superabile“.
Il 27 maggio, in Vaticano, il cardinale di Stato Pietro Parolin vede Salvini e, appunto, il consulente Capuano, che evidentemente non è un mitomane. E qui entra in gioco la disponibilità di un terzo Paese, non del tutto amichevole con Mario Draghi: la Turchia di Recep Tayyip Erdogan – che Draghi definì senza tanti giri di parole «un dittatore». Apprendiamo che “la logistica del viaggio dovrebbe prevedere uno scalo intermedio in Turchia, prima di arrivare a Mosca“. In questo contesto si inserisce la vicenda specifica – già diventata pubblica, e confermata anche dall’ambasciata russa – dei voli che il capo leghista non riesce ad acquistare. Gli viene in aiuto Oleg Kostyukov. Finora però non si era mai saputo il tenore dei colloqui tra il russo e il consulente del leader leghista. Kostyukov, dettaglio notevole, sarebbe il figlio di Igor Kostyukov, il capo del Gru, i servizi militari di Mosca, pezzo grossissimo dell’apparato putiniano. Abbiamo chiesto all’ambasciata russa a Roma una conferma o smentita sui legami tra i due, non abbiamo ricevuto alcuna risposta.
La sera del 27 maggio l’ambasciata russa manda per sms a Capuano i biglietti aerei di Salvini. Il quale riceve conferma che oltre al pranzo con Lavrov, ci sarà un incontro «fissato per martedì 31 maggio 2022», con Dmitry Medvedev, l’uomo che in questi mesi si è dimostrato il più falco dei falchi del Cremlino, e che 50 giorni dopo, alla caduta di Draghi, esulterà postando su Telegram una foto del premier italiano e di Boris Johnson, e la didascalia «chi sarà il prossimo?».
«Salvini – veniamo a sapere – avrebbe precisato che il suo obiettivo sarebbe di riuscire ad ottenere qualcosa a livello mediatico, fosse anche soltanto “una pacca sulla spalla”». Già era campagna elettorale?
Nella scena di questa spericolata operazione – che i russi dunque legano non solo a questioni internazionali, ma anche ad affari interni italiani che non dovrebbero riguardarli – gli americani si accorgono dei movimenti e cercano di marcarli, e depotenziarli. “Capuano sarebbe stato contattato da un soggetto dell’ambasciata americana a Roma, che si sarebbe detto molto interessato al viaggio del senatore Salvini a Mosca, pur non avendone ancora compreso la reale finalità. Capuano avrebbe risposto di non poter fornire dettagli (agli americani)”, e avrebbe rilanciato la palla chiedendo di vedere eventualmente dopo il viaggio in Russia l’allora incaricato d’affari dell’ambasciata Usa, sollecitandolo a organizzare un incontro del leader leghista “con esponenti di altissimo livello a Washington”. Gli americani, sappiamo da fonti qualificate, ovviamente non daranno mai seguito a questa cosa. Ma continueranno a tenere discretamente d’occhio questa vicenda.
Dopo l’ultimo contatto coi russi, che annuncia la decisione di Salvini di rinunciare all’impresa, Kostyukov compie l’opera. Di fronte a un Capuano in agitazione per la possibile irritazione del Cremlino, lo rassicura «di non preoccuparsi per gli impatti su Mosca»: «Parallele evidenze attesterebbero che il diplomatico russo, dopo il colloquio con Capuano, avrebbe lasciato la propria residenza per recarsi all’Ambasciata russa a Roma dove si sarebbe trattenuto per circa un’ora, verosimilmente allo scopo di tenere comunicazioni riservate con Mosca». Il viaggio leghista a Mosca è fallito, ma c’è ampio e soddisfacente materiale per l’operazione-caduta di Draghi.
Tutto questo avviene due mesi prima dell’impallinamento di Draghi, quando tutti gli attori si muovono ancora nel regno delle possibilità, e commettono dunque qualche spericolatezza. Non sappiamo cosa succede nell’ultimo mese e mezzo, se gli interessi russi per le scelte dei ministri italiani si siano riappalesati. Certo fanno impressione, a rileggerle in questa luce, le parole pronunciate dal premier italiano in quello che resta il suo ultimo discorso in Senato: «In politica estera, abbiamo assistito a tentativi di indebolire il sostegno del governo verso l’Ucraina, di fiaccare la nostra opposizione al disegno del presidente Putin». Redazione CdG 1947
Che scoperta! Non servono indagini per sapere che Salvini non sta dalla parte del mondo libero. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 30 Luglio 2022.
A definire la posizione della Lega e del suo leader bastano i silenzi che ha avuto sull’invasione di Putin, mentre il sostegno (incerto) alla giusta linea Draghi è sempre stato dato obtorto collo, solo per opportunismo e non per convinzione politica.
È stato necessario prenderlo nella flagranza della figura da tonto in Polonia, con quel sindaco che gli srotolava in faccia la sua ex maglietta con l’immagine del despota russo, per estorcergli una mezza parola di condanna dell’aggressione all’Ucraina. Ma non ci piove che se fosse stato per Salvini non solo quel riconoscimento obtorto collo non ci sarebbe stato, ma nemmeno sarebbero stati presi i provvedimenti a sostegno della difesa degli aggrediti.
Le polemiche di questi giorni sull’azione della Lega contaminata da probabilissime interferenze non meriterebbero nemmeno gli accertamenti di cui si vagheggia, perché basta e avanza considerare ciò che non da oggi è sotto gli occhi di tutti: e cioè che Matteo Salvini e il suo partito, a parte le invocazioni di pace buone per il comizio del pacifista comunista sindacalista collaborazionista, non hanno speso autonomamente una parola di censura, non hanno intrapreso nessuna iniziativa e insomma non hanno fatto nulla, letteralmente nulla, per rendere chiaro che stavano dalla parte del mondo libero e contro quella che ad esso si è opposto con le armi, con le stragi, con gli stupri di massa, con le deportazioni.
La realtà è che Matteo Salvini e la Lega molto malvolentieri si sono costretti a condividere l’azione di governo e il percorso delle sanzioni, e l’hanno fatto – sempre nel modo ambiguo e sostanzialmente esitante di cui abbondantemente hanno dato prova – non per convinzione ma per necessità: la bieca necessità di manutenzione del proprio accreditamento, perché uscire dal governo dichiarando quel che davvero pensavano, e cioè bisognava che i russi fossero lasciati in pace e ‘sticazzi la resistenza degli ucraini, li avrebbe spediti a raccogliere consenso in consorzio con quelli per cui i profughi sono passanti e con Sua Eccellenza il punto di riferimento fortissimo di tutti i terzi mandati.
Non c’è proprio nulla da indagare su Salvini e sulla Lega.
Manuale di interferenza. Come la Russia organizza le sue operazioni politiche all’estero. Michelangelo Freyrie su L'Inkiesta il 30 Luglio 2022.
L’approccio tentacolare del Cremlino, dismessi gli agit-prop di epoca sovietica, si insinua con operazioni di influenza efficaci proprio perché affidate a più attori locali. L’obiettivo è quello di rompere la coesione tra Paesi europei e indebolire le democrazie.
Se la potenza militare del Cremlino, che continua a mietere vittime in Ucraina e in altri Paesi, è una pallida imitazione di quell’Armata Rossa che per decenni ha tenuto sotto scacco mezzo mondo, allo stesso modo nemmeno le operazioni clandestine orchestrate da Mosca sono paragonabili alle vaste reti di agitatori e agenti sotto copertura che facevano capo al KGB all’apice del proprio potere. Come dimostrano i dibattiti di questi giorni sui rapporti fra la Russia e la Lega di Salvini la presenza russa in Europa si è trasformata. Pensare alla vicinanza fra partiti ed esponenti politici al Cremlino immaginandoli come dei “Manchurian candidate” pilotati (o, al contrario, degli “utili idioti” sempre di sovietica memoria) sarebbe sbagliato e soprattutto impedisce di capire perché l’influenza russa sia spesso così efficace.
La realtà è che le operazioni di influenza russe, oggi, sono raramente guidate da una campagna centralizzata né puntano a sovvertire completamente l’ordine costituzionale dei Paesi attaccati. Le “misure attive”, come erano definite in epoca sovietica, sono oggi più improvvisate, anche se rimangono gestite da professionisti. Gli strumenti a disposizione sono tanti: finanziamenti più o meno occulti (come i crediti concessi all’allora Front National nella campagna elettorale francese del 2017), propaganda mirata sui social con mobilitazione di bot (come nelle presidenziali americane del 2016), disinformazione (sui vaccini o migranti).
Tuttavia, per capire come le autorità russe provino a influenzare singoli partiti o più ampiamente la politica di altri Paesi, bisogna considerare due questioni.
Prima di tutto, le operazioni di influenza sono un’estensione della logica di guerra che si è impadronita della politica estera russa. Come faceva notare l’accademico Andrei Kortunov qualche anno fa, una logica di guerra tende alla sconfitta del proprio nemico costi quel che costi; la logica politica tenta di mediare obiettivi contrastanti fra avversari. Con il definitivo cambio di registro russo, ogni strumento è lecito per abbattere la coesione del campo occidentale. L’Unione Europea, in particolare, si presta particolarmente bene a causa della prevalenza dell’unanimità in decisioni di politica estera.
In secondo luogo, il supporto diretto a politici stranieri è strettamente legato all’ambizione russa di dominare lo spazio informativo europeo. È un desiderio che viene da lontano. Mosca è convinta che il crollo dell’URSS, le primavere arabe e le cosiddette “rivoluzioni colorate” nello spazio post-sovietico, siano state il risultato di operazioni di influenza americane e che di conseguenza dominare l’ecosistema informativo sia la chiave per qualsiasi tipo di vittoria.
Come sul campo di battaglia, seminare confusione e influenzare le decisioni dell’avversario amplificano e aprono la strada all’utilizzo dell’hard power economico e militare. Ciò significa, in ogni situazione, sfruttare e adattarsi alla situazione locale. Questo non è un approccio solo russo, ma Mosca si distingue perché, diversamente dalle questioni militari, concede molto più spazio di manovra sia alle iniziative dei singoli attori sul terreno sia a coloro che all’interno nell’apparato statale meglio conoscono i diversi contesti nazionali. Ambasciate, il servizio culturale Rostrudnichestvo, agenzie di sicurezza o anche oligarchi e figure vicine a Putin agiscono quasi sempre autonomamente, nella speranza di soddisfare il Cremlino e dimostrare la propria utilità, giustificando la propria posizione nella costellazione del potere.
La scelta di quale formazione politica sostenere (e come) è quindi estremamente opportunistica e non corrisponde sempre a indicazioni da Mosca, dove tuttavia si apprezza avere a disposizione diverse opzioni e potenziali alleati.
Questo opportunismo significa anche che spesso sono proprio quelli che ricevono gli aiuti da Mosca a cercare supporto presso i loro referenti russi. Spinti da trattamenti di favore e riconoscimento diplomatico da quella che rimane comunque una potenza nucleare, questi individui si fanno sostanzialmente carico di ancorare le preferenze politiche del Cremlino alle specifiche situazioni politiche e di convertire le operazioni rivolte alle élite in una propaganda fruibile dall’intera popolazione. Uno scetticismo diffuso nei confronti della NATO diventa così sostegno all’invasione dell’Ucraina; il malessere economico si trasforma in opposizione alle sanzioni. Spesso non è necessario un vero scambio di favori, perché gli agenti dell’influenza russa non devono adattare posizioni nuove. It takes two to tango.
Insomma, è improbabile che qualcuno a Mosca pensi che supportando l’estremismo in Europa si riuscirà a portare dal proprio lato della barricata i Paesi europei. Non si può parlare di un grande piano di sovversione russo o di una quinta colonna. Però è proprio per questo che le operazioni di influenza russe sono incredibilmente resilienti ed efficaci. Lasciando gran parte del lavoro ad attori locali e limitandosi ad amplificare posizioni già presenti nell’agone politico, le autorità russe possono spostare quei pochi punti percentuali in un’elezione (o ammorbidire emendamenti di legge, o dare l’ultima spintarella all’Orbán di turno a porre un veto in Europa) sufficienti per complicare immensamente la macchina decisionale europea e incrinare i rapporti fra alleati.
Quello che colpisce, semmai, è che tutto ciò possa avvenire abbastanza alla luce del sole senza particolari conseguenze. Fino a pochi anni fa, l’influenza russa funzionava soprattutto nello spazio post-sovietico, dove la corruzione endemica e strutture sociali dominate da oligarchi permettevano sostegni diretti e, in un certo senso, normalizzati.
Tutto ciò non sembrava possibile in una democrazia, dove l’ingerenza diretta di una potenza straniera dovrebbe decretare la morte elettorale di un partito politico. Ma in un dibattito pubblico avvelenato, dove ognuno sceglie di credere in ciò che preferisce, dove la "plausible deniability" è diventata superflua e dove conta mobilitare il maggior numero di bolle informative per vincere un’elezione, l’approccio tentacolare russo è uno che permette apparentemente di federare gli interessi dei gruppi politici più diversi. Siamo in uno scenario in cui il dialogo diretto con Mosca può essere presentato sia come ragion di Stato che come asse contro il “liberalismo gender e woke”. E a quel punto, a che serve una rete di agitprop?
I 5stelle e i rapporti con Mosca. Il Giornale svela i veri “amici di Putin”. Il Tempo il 29 luglio 2022
I rapporti con Mosca e la politica estera incendiano la campagna elettorale italiana. Dopo la bufera lanciata dalle pagine del quotidiano La Stampa, sui legami tra la Lega di Matteo Salvini e un funzionario dell'ambasciata russa far cadere il governo Draghi, già smentite sonoramente da Salvini che le ha definite "fake news" seguito dal sottosegretario Gabrielli che ha puntualizzato l'estraneità dei servizi segreti nella vicenda, il Giornale svela chi sono i "veri amici di Putin".
Se Salvini deve chiarire nelle sedi opportune quali sono i rapporti tra il suo partito e l'ambasciata di Mosca anche i 5 stelle avrebbero qualcosa da spiegare. Da Giuseppe Conte a Di Battista, ecco tutti i grillini che dovrebbero "arrossire" per le loro passate posizioni filo putiniane. Proprio il leader pentastellato, ricorda Il Giornale, a giugno scorso ricevette un endorsement dall'ambasciatore di Mosca Sergey Razov sul no alle armi a Kiev. Ma andando indietro nel tempo, Conte dovrebbe ricordarsi che quando era premier "elogiava «l'amico Putin» e si metteva d'accordo con lui per la discussa missione dei militari russi nella Bergamo martoriata dal Covid. E poi c'è Beppe Grillo, che nel 2017 in un'intervista al settimanale francese Journal du Dimanche annotava: «La politica internazionale ha bisogno di uomini forti come Donald Trump e Vladimir Putin»" sottolinea Il Giornale.
Ma c'è anche l'ex grillino Di Battista, che potrebbe rientrare nel Movimento per le prossime elezioni, appena tornato da un viaggio in Russia per realizzare dei reportage per Il Fatto Quotidiano. "In rete si trovano ancora le foto di Di Battista e Di Stefano sorridenti accanto ai due fedelissimi di Putin Robert Shlegel e Sergey Zheleznyak. E c'è da dire che erano passati solo due anni dall'annessione russa della Crimea e dalle conseguenti sanzioni ai danni del Cremlino" spiega il Giornale, mettendo in dubbio la ritrovata fede atlantista del sottosegretario alla Farnesina Manlio Di Stefano. "Solo qualche anno fa il braccio destro di Luigi Di Maio era il capofila del putinismo all'italiana. L'ex grillino, a giugno del 2015, alla Camera dei Deputati parlava così delle rivolte europeiste del 2014 a Kiev: «Un colpo di stato finanziato da Europa e Usa». Oggi risultano particolarmente sinistre le sue parole su un governo ucraino capeggiato da «convinti neonazisti». E ancora, sempre Di Stefano due anni dopo è stato il protagonista di una spedizione alla volta di Mosca per partecipare al congresso di Russia" proprio insieme a Di Battista.
E ancora, continua il Giornale, anche Chiara Appendino, l'ex sindaca di Torino era una frequentatrice abituale del Forum Economico di San Pietroburgo. Ma tornando ad oggi ai Cinque Stelle si potrebbero chiedere se è vero che tra i "papabili per candidarsi alle politiche nelle liste dei pentastellati ci siano nomi come quelli di Alessandro Orsini e Michele Santoro. Entrambi contrari agli aiuti militari all'Ucraina e accusati di filo-putinismo". Infine ci sono anche l'ex grillino Vito Petrocelli, cacciato dalla presidenza della Commissione Esteri del Senato per le sue posizioni vicine al Cremlino e la senatrice Bianca Laura Granato, che ha dichiarato dopo lo scoppio della guerra in Ucraina diceva che «Putin sta combattendo una battaglia per tutti noi».
Omissione impossibile. La sinistra s’indigna per le pressioni russe sulla Lega, dimenticandosi di Conte. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 29 Luglio 2022.
Dinanzi alle rivelazioni della Stampa, Letta attacca la destra mentre il grosso del suo gruppo dirigente ripete che la crisi dell’esecutivo è una colpa imperdonabile di Salvini, Berlusconi e un altro che sul momento proprio non gli viene in mente.
Difficile dire se faccia più ridere sentire Giuseppe Conte sostenere che Matteo Salvini debba chiarire i suoi legami con la Russia e quanto questi legami abbiano pesato nella caduta del governo Draghi (provocata da Conte), o il fatto che a sottolineare la contraddizione sia Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri del governo Conte che nel 2020 correva ad accogliere i mezzi corazzati dell’esercito russo in aeroporto. Su youtube si trovano ancora le sue conferenze stampa notturne da Pratica di Mare, in cui elenca con entusiasmo il gran numero di Antonov in arrivo («uno dei più grandi aerei al mondo!»).
Sono solo alcune delle surreali reazioni all’articolo di Jacopo Iacoboni pubblicato ieri dalla Stampa, secondo cui a fine maggio un funzionario dell’ambasciata russa avrebbe domandato a un emissario di Salvini se i ministri leghisti fossero intenzionati a dimettersi. Tra le reazioni più significative va certamente segnalata la dichiarazione di Enrico Letta, che attacca direttamente il leader della Lega, domandandosi se dietro la caduta del governo Draghi ci sia dunque Putin, salvo dimenticarsi di rivolgere la stessa domanda a chi quella crisi l’ha aperta. Ricordiamolo un’altra volta agli smemorati: Conte e il Movimento 5 stelle.
Non si tratta di dimenticanze, in verità, ma di una deliberata e reiterata omissione, che si accompagna al tentativo di cancellare le tracce delle proprie scelte, nel momento in cui si profila in tutta la sua gravità il peso delle conseguenze. Da giorni quotidiani e tv evocano infatti un possibile cappotto del centrodestra, con un risultato che permetterebbe alla coalizione guidata da Giorgia Meloni di riscrivere a proprio piacimento la Costituzione, scegliere tutte le autorità di controllo e di garanzia, fare insomma un sol boccone dell’intero sistema di pesi e contrappesi che garantisce il regolare funzionamento della democrazia e dello stato di diritto (pericolo accentuato dal taglio populista dei parlamentari voluto dai grillini e sposato, all’ultimo momento, pure dal Pd).
Il fatto che il centrodestra abbia la possibilità di far deragliare la democrazia italiana non significa che lo farà, naturalmente. Lungi da me fare processi alle intenzioni. Il problema è che Meloni e Salvini fanno a gara per conquistarsi le simpatie di Viktor Orbán, che in Ungheria ha già fatto esattamente questo. Indipendentemente da rivelazioni e retroscena sui rapporti con i funzionari del Cremlino, i profili instagram dei leader del centrodestra e i loro selfie sorridenti con il teorico (e pratico) della “democrazia illiberale”, principale alleato di Putin in Europa, offrono dunque sufficienti motivi di inquietudine.
Vorrei poter credere che il Pd, cioè il partito che più di ogni altro dovrebbe impedire questo esito, dopo averlo in mille modi propiziato (dal taglio dei parlamentari alla mancata riforma della legge elettorale, alla legittimazione di Conte quale statista e punto di riferimento dei progressisti), si fosse almeno reso conto degli errori commessi e intendesse emendarsene. Invece c’è al suo interno persino chi ha il coraggio di chiedere esplicitamente di riannodare i fili con i cinquestelle, mentre Letta si limita a svicolare e il grosso del suo gruppo dirigente ripete che la caduta del governo Draghi è una colpa imperdonabile di Salvini, Berlusconi e un altro che sul momento proprio non gli viene in mente.
Intendiamoci, se il loro svicolare fosse solo dettato dal desiderio di non perdere voti in campagna elettorale, si potrebbe anche capire. Se però la rimozione del passato fosse anche un modo per tenersi una porta aperta, per oggi o per domani, sarebbe imperdonabile.
Cose strane. Augusto Minzolini il 9 Luglio 2022 su Il Giornale.
Nessuno è amante della dietrologia o si nutre di complottismo, ma le ultime 48 ore hanno mostrato quanto sia fragile l'Occidente nei due emisferi.
Diceva Giulio Andreotti, una personalità politica che si è formata e ha vissuto negli anni della Guerra fredda, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca. Nessuno è amante della dietrologia o si nutre di complottismo, ma le ultime 48 ore hanno mostrato quanto sia fragile l'Occidente nei due emisferi. L'Occidente europeo, impegnato ad appoggiare l'Ucraina contro l'aggressione russa, da un momento all'altro si è scoperto debole nei suoi governi di riferimento (lo abbiamo scritto sul Giornale proprio ieri): a Parigi, Berlino e Roma la situazione è delicata; a Londra addirittura è stato silurato Boris Johnson, il grande alleato di Zelensky, per cui il Paese avrà un vertice dimezzato per qualche mese. Una manna per Vladimir Putin. Sempre ieri è stato reso noto un rapporto dell'Fbi e del servizio segreto inglese MI5, che descrive nel Pacifico una situazione da pre-guerra, legata, ovviamente, alle mire espansionistiche di Pechino su Taiwan.
Ebbene, 12 ore dopo, l'ex-premier giapponese Shinzo Abe, uno degli avversari della Cina, il «costruttore» della cosiddetta Nato del Pacifico, l'uomo che più di tutti aveva messo sotto i riflettori la questione Taiwan, il padre politico dell'attuale primo ministro, è stato ucciso durante un comizio. L'assassino è Tetsuya Yamagami, un ex-militare come quel Lee Harvey Oswald che uccise John Kennedy e che, secondo le ultime carte desecretate a Washington alla fine dello scorso anno, incontrò un agente del Kgb prima dell'attentato. Dicono che sia un pazzo, ma è la versione di comodo che si usa quando non si riesce a spiegare o non si vuole spiegare un gesto. L'assassino, però, deve avere un minimo di cervello se è riuscito a costruire con le sue mani un'arma da fuoco camuffata da obiettivo fotografico: un manufatto complicato che ricorda la cinepresa usata dagli inviati di Bin Laden per uccidere il Leone del Panshir, Massud, prima di impadronirsi dell'Afghanistan. Roba da servizi segreti.
Ma, a parte le congetture, la morte di Abe destabilizza il Paese di riferimento degli Stati Uniti nel Pacifico e elimina dalla scena politica un personaggio che ha passato i suoi ultimi anni a dare l'allarme al Giappone e agli alleati sulle vere finalità della politica cinese. Al di là che ci sia un piano dietro a tutto questo o meno, si può constatare che l'obiettivo di indebolire l'Occidente in quella parte del mondo è stato centrato. Così Pechino può affidare la condanna dell'attentato ai «portavoce» dei ministeri competenti, mentre Xi resta in silenzio.
Detto questo, al netto di ogni sospetto, non ci si può nascondere che nell'epoca della guerra ibrida avvengono cose davvero strane. Prima c'è stata una moria di oligarchi russi, casualmente tutti quelli che non condividevano la politica dello Zar. Ora i governi dei Paesi più alleati a Washington, in Europa come nel Pacifico, hanno problemi. E, come un tempo, ora ci sono pure gli attentati eccellenti. Della serie le verità nascoste. Se non c'è un'intelligenza in tutto questo poco ci manca, anche perché, come si dice, un indizio è un indizio, due sono una coincidenza, ma tre sono una prova. Ciò che è avvenuto è un monito all'Occidente a stare in allerta perché il mondo cambia ma non sempre come vorremmo.
Maurizio Stefanini per “Libero quotidiano” l'11 luglio 2022.
l delitto di Shinzo Abe resta pieno di interrogativi: ne parliamo con Pio D'Emilia, yamatologo e corrispondente di Sky News dall'Asia Orientale. Residente in Giappone da 30 anni, è talmente inserito nella realtà locale che ha fatto anche il traduttore e il ghost writer per leader politici nipponici.
Tetsuya Yamagami l'assassino: davvero era solo un pazzoide?
«Come sempre in questi casi, si stanno scatenando un po' tutti. Ne ho lette di tutti i colori. Ma l'ipotesi più accreditata è che Yamagami fosse convinto che Abe fosse legato alla Chiesa dell'Unificazione del reverendo Moon. Sua madre ne era adepta, e sarebbe andata fallita per tutte le donazioni fatte. In realtà questo contatto tra Abe e la chiesa di Moon non risulta da nessuna parte, e poi questa setta era in auge 30 anni fa.
Altri hanno addirittura detto che voleva celebrare l'anniversario dell'esecuzione per impiccagione di Shoko Asahara: il capo di quella setta Aum Shinriky che aveva usato il sarin nel 1995 per l'attentato alla metropolitana di Tokyo che provocò 13 morti e 6200 intossicati».
Solo speculazioni?
«Giornalisti locali, polizia, autorità hanno tutto il diritto di speculare e andare avanti con le loro ipotesi, ma per noi osservatori stranieri esterni è più importante concentrarsi su due elementi. Primo: come è stato possibile arrivare così semplicemente a un ex-premier, che in qualunque altro Paese del mondo sarebbe stato protetto adeguatamente?
Nel video si vede roba da cartone animato. Le guardie del corpo, che sono prese da una sezione speciale della polizia, stanno ferme! Tra il primo e il secondo colpo, quello micidiale e definitivo, è passato quasi un minuto. Ma gli hanno dato tutto il tempo possibile per sparare di nuovo. In Italia lo avrebbero bloccato, negli Stati Uniti gli avrebbero sparato, in Giappone sono rimasti con le mani in alto come a dire "calmi, calmi, che succede?".
A parte il fatto che in altri Paesi nessuno si sarebbe potuto avvicinare con un ordigno, sia pure rudimentale. Lo avrebbero perquisito. E qui c'è il secondo punto: come ha fatto questo signore a procurarsi un'arma in un Paese dove anche procurarsi una semplice pistola è difficilissimo? Qui gli unici ad avere le armi da fuoco sono i poliziotti, e neanche tutti, e i mafiosi. Ma né gli uni né gli altri le usano».
Ci sono speculazioni su come abbia costruito l'arma.
«Addirittura c'è chi sostiene che se la sia fatta in casa con due tubi e un'altra parte prodotta con le famose stampanti a 3D. In un Paese tranquillo la scorta non si aspettava di dover agire.
Ma in un Paese tecnologico in fondo fabbricarsi un'arma in casa con stampanti laser di nuova generazione non dovrebbe essere una cosa straordinaria».
Ci sono polemiche?
«Sì. In un Paese dove un fatto del genere era assolutamente improponibile e impensabile, ciò potrebbe portare a un ripensamento già a livello politico. Già qualcuno dice che bisognerebbe adottare un nuovo sistema. Questo è un Paese dove molta gente esce senza chiudere la porta. Le macchine non vengono chiuse, le biciclette hanno delle catenine che in Italia ti ci puliresti i denti. Siamo rimasti comunque tutti molto scioccati e rattristati, aldilà di alcune sue posizioni politiche che non condividevo».
Qual è l'eredità politica di Abe?
«Ovviamente, adesso è in corso una santificazione, sulla quale io non mi adeguo assolutamente. Io continuo a ritenere che sia stato un pessimo leader, che ha portato il Giappone indietro invece che avanti. Lo ha allontanato dalla comunità internazionale. Ha fatto tabula rasa dei rapporti con la Corea e la Cina. Ha fatto calare il Pil, nonostante tutta la pubblicità che è stata fatta alla sua Abenomics. Ha fatto aumentare la disoccupazione.
Però come persona in privato era assolutamente gradevole, simpatica. Io lo ho conosciuto appunto anche fuori dalla politica, e ci dispiace molto, ripeto, perché era comunque un grande leader, ed era sempre pronto sia a discutere, sia alla battuta. Cosa non comune tra la tribù politica giapponese».
Non è mancato chi ha tirato in ballo tutti gli scheletri nell'armadio del Giappone. Dalle mancate scuse per la Seconda Guerra Mondiale alla natura oligarchica della società.
«Ma questo che c'entra? L'assassino è una persona fuori di testa del tipo di cui purtroppo tutto il mondo pullula, che ha agito in un Paese dove al massimo finora ci si ammazzava con armi da taglio. Certo, la stampa si interroga. Siamo alla vigilia di possibili azioni del genere? Allora sì che l'humus armonico della società giapponese potrebbe essere messo in difficoltà. Ma i dibattiti sulla Seconda Guerra Mondale o la democrazia incompiuta, che pure è giusto farli, non c'entrano con questo squilibrato. Non è un comunista, non è un terrorista, non ha un gruppo dietro».
Ci fu il caso di Shoko...
«Quello però era più politico. Era una setta con migliaia di sostenitori. Qua non ci vedo nessuna programmazione, nessun rischio di attentato alla democrazia. Si tratta semmai di disagio sociale. In Giappone c'è più gente che muore di karoshi, cioè per il troppo lavoro, che di incidenti automobilistici».
Vinnytsia, Italia. Non è più guerra, è genocidio degli ucraini (e gli utili idioti del Cremlino affondano Draghi). Christian Rocca su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.
Lo spettacolo osceno di un avvocaticchio che, nel pieno dell’aggressione all’Europa e col pretesto di un inceneritore, costringe alle dimissioni il più autorevole uomo politico dell’Occidente non è la notizia più agghiacciante della giornata. La notizia più agghiacciante è l’attacco russo ai una città a sud ovest di Kyjiv. E la crisi italiana avrà conseguenze anche sull’invasione dell’Ucraina
Lo spettacolo osceno di un avvocaticchio senz’arte né parte che, nel pieno di un drammatico attacco all’Europa ordito da un criminale ammirato dal suo movimento di cinque deficienti, fa cadere il governo guidato dal più autorevole uomo politico dell’emisfero occidentale, con il pretesto surreale di non voler costruire un termovalorizzatore nella città che i suoi babbei e la sua babbea hanno trasformato in una discarica a cielo aperto, è il segno di questi tempi impazziti, di ‘a fessa mmano a ‘e criature, e di volenterosi complici del populismo non meno colpevoli di questo disastro annunciato che costerà miliardi di euro ai cittadini italiani tra spread, rientro degli investimenti esteri e poderosi crolli in borsa, senza contare gli effetti negativi della mancanza di un governo capace di meritarsi i finanziamenti europei post Covid.
Eppure questa non è la notizia più agghiacciante della giornata.
La notizia più agghiacciante della giornata è l’attacco missilistico russo contro un centro commerciale, un palazzo di uffici e una clinica oncologica di Vinnytsia, in Ucraina, a sud ovest di Kyjiv, a migliaia di chilometri dal fronte del Donbas, eseguito con due missili Kalibr ad alta precisione il cui margine di errore è di due-quattro metri e che quindi sono stati puntati proprio lì, sul cuore pulsante di una città e su un ospedale per malati di cancro, in pieno centro e in pieno giorno, alle dieci e trenta del mattino, con l’unico obiettivo di massimizzare il numero delle vittime civili ucraine.
I russi hanno assassinato almeno ventitré persone, tra cui tre bambini, i feriti gravi sono oltre cinquanta, i dispersi altrettanto.
Una delle bambine uccise dal terrorismo russo, Lisa di tre anni, aveva la Sindrome di Down e stava andando con la madre Iryna dal medico. È stata filmata fino a qualche istante prima dell’esplosione, mentre spingeva il passeggino davanti alla mamma orgogliosa di quella bimba speciale.
Le fotografie successive all’attacco mostrano Lisa a terra, immobile e coperta da detriti e da quel che è rimasto del passeggino. La mamma, Iryna, ha perso una gamba e molto più di una gamba.
La Russia è uno Stato terrorista, guidato da una cosca di mafiosi paranoici e popolato da milioni di volenterosi carnefici di ucraini e delle libertà occidentali, a questo punto altrettanto colpevoli dei loro leader o perché incapaci di fermare la mattanza orchestrata dal Cremlino o perché conniventi con le politiche stragiste di Putin e con i suoi crimini contro l’umanità.
Non è più una guerra, quella della Russia all’Ucraina. È un genocidio, dichiarato, pianificato, in via di esecuzione.
Mario Draghi è stato uno dei leader occidentali, con Joe Biden e Boris Johnson, ad averlo capito perfettamente e pur avendo provato più volte a far ragionare Putin è stato l’architetto delle sanzioni internazionali e della risposta unitaria del mondo libero.
Giuseppe Conte, invece, si è opposto all’invio di armi offensive all’Ucraina, non sia mai che potessero offendere Putin, un dittatore ricevuto a Roma come un Papa e al quale ha concesso di far sfilare l’esercito russo da sud a nord dell’Italia durante il lockdown.
Oggi parleremo tutti della sfiducia dei Cinquestelle al governo e delle dimissioni di Draghi, ma non della strage di innocenti a Vinnytsia, né del genocidio ucraino né dei brindisi al Cremlino per la caduta di Draghi e di Johnson, come da tweet di quel pesce lesso di Medvedev, l’ex Robin di Putin.
Parleremo, però, delle operazioni politiche speciali condotte in Bieloitalia dai facilitatori e dagli utili idioti dei criminali di Mosca. Non parleremo di Vinnytsia, dunque, ma del fronte italiano del genocidio ucraino pianificato dai russi.
L'ombra di Mosca sullo strappo M5s: "Il nuovo premier? Meglio che non sia asservito agli Usa". Roberto Fabbri il 16 Luglio 2022 su Il Giornale.
La Russia osserva i fatti italiani: i 5 Stelle ritenuti tra i partiti più vicini. Zakharova, portavoce di Lavrov: "Di Maio? Non capisce niente".
Perfettamente indifferenti ai massacri di civili ucraini perpetrati dalla loro «operazione speciale» (guai a chiamarla guerra: Vladimir Putin non gradisce, dunque è galera immediata per chi si azzarda, ma sotto le bombe si muore lo stesso), ai piani alti di Mosca se la ridono. E ridono di noi italiani, purtroppo. Ridono delle pene in cui si dibatte il nostro premier, spinto a un passo dal gettare definitivamente la spugna dalla inqualificabile iniziativa del suo predecessore, che pur di recuperare (ed è tutt'altro che detto) qualche punticino nei sondaggi elettorali non esita a mettere a repentaglio non solo il prezioso e faticoso lavoro di questo governo d'emergenza assoluta, ma l'immagine e il ruolo stesso del nostro Paese sulla scena internazionale.
A Mosca se la godono un mondo a vedere Mario Draghi, l'uomo che ha restituito all'Italia stabilità, credibilità e una inequivocabile posizione atlantista così sgradite a Putin, alle prese con le beghe di un partito di dilettanti allo sbando, con i ricatti di un leader mediocre e incapace di indicare una linea coerente che non sia appunto quella di distruggere con i più vari pretesti quella stabilità, quella credibilità e quell'atlantismo. E mentre si ascolta la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova augurarsi fin d'ora che il prossimo governo italiano sia finalmente meno asservito agli interessi degli Stati Uniti, non si può fare a meno di farsi qualche preoccupata domanda, rileggendo le pagine di un'autrice informata come Catherine Belton in Gli uomini di Putin, in cui si ricorda citando fonti americane come il Movimento Cinque Stelle fosse incluso nella lista dei partiti europei anti sistema che la Russia sosterrebbe con fondi neri. Senza dimenticare la «passione cinese» della leadership pentastellata culminata nella misteriosa visita di Beppe Grillo nel giugno dell'anno scorso all'ambasciata cinese a Roma a cui un imbarazzato Giuseppe Conte aveva preferito, all'ultimo momento, non partecipare.
Che sia vero (come sostenne apertis verbis Giorgia Meloni) o falso che il M5S sia la quinta colonna della Cina e forse anche della Russia di Putin che con la Cina va a braccetto in Italia, rimane il fatto che a Mosca l'iniziativa di quel partito che ha quasi disarcionato Mario Draghi è piaciuta tantissimo. L'eterno numero due di Putin Dmitry Medvedev, che già gli aveva dato rozzamente del mangiaspaghetti per aver partecipato con gli omologhi francese e tedesco a una visita ufficiale a Kiev per esprimere sostegno all'Ucraina, non aveva perso tempo due giorni fa a chiedersi beffardo sui social chi sarebbe stato il prossimo leader occidentale a seguire la strada del declino già imboccata da Boris Johnson e Mario Draghi. Poi è arrivata, immancabile, la Zakharova. La quale, con il suo innato senso del rispetto per chi non la pensa come Cremlino comanda, ha detto papale papale del nostro ministro degli Esteri che «non capisce niente di ciò di cui si occupa». Luigi Di Maio si era permesso di osservare (cosa in cui è finalmente diventato bravissimo) un'evidenza, e cioè che Conte ha offerto a Putin su un vassoio d'argento la testa di Draghi e che a Mosca si brinda per le sue dimissioni. Ma la portavoce di Sergei Lavrov (che invece è un maestro nel nasconderle, le evidenze, e la lista è chilometrica) pretende che questa ovvietà sia un'invenzione della Farnesina. Al Cremlino avrebbero invece ben chiaro che si tratti di un affare interno italiano, «limitandosi» ad auspicare che il nostro prossimo governo prenda finalmente le distanze da Washington: il che poi significa che dovremmo rompere l'unità della Nato come il suo boss tanto gradirebbe. Alla faccia del limitarsi.
A completare la trinità dei commenti dei vertici russi è arrivato il più vicino di tutti a Putin, ovvero il suo portavoce Dmitry Peshkov. Anche per lui, il destino di Draghi è affare interno italiano. Chiaro il messaggio sottinteso: non siamo i mandanti di niente e di nessuno.
(ANSA il 15 luglio 2022) - "Gli sviluppi politici a Roma sono un affare interno italiano. Noi auguriamo all'Italia tutto il bene possibile, e di riuscire a superare i problemi creati dai precedenti governi. Noi vogliamo avere buoni rapporti con l'Italia". Lo ha detto all'ANSA la portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova. "Non solo i responsabili, ma la maggioranza del popolo russo - ha aggiunto la portavoce - considerano l'Italia come un buon partner. Abbiamo molte cose in comune, e obiettivi comuni".
Da corriere.it il 15 luglio 2022.
Il New York Times ha pubblicato un articolo sulla crisi del governo italiano, nel quale analizza anche le ripercussioni a livello europeo di questa situazione. Dalla stabilità — spiega — l’Italia si è improvvisamente trovata sull’orlo del caos. «L’uscita di Draghi sarebbe traumatica per l’Italia» sottolinea l’articolo, parlando di «inaspettata crisi di governo, teatrini e macchinazioni dietro le quinte» che hanno «lasciato l’Italia in uno stato di animazione sospesa e creato una potenziale calamità per l’Europa che cerca un fronte unito contro l’aggressione della Russia in Ucraina e affronta un’ondata di infezioni Covid e crisi energetica».
E di come «la possibile uscita di Draghi apra la porta a forze che sono più bendisposte nei confronti di Putin».
Lo scossone per l'Unione europea è citato in questo passaggio: «Se Mattarella o i partiti politici non riuscissero a convincere Draghi a restare, questo significherebbe instabilità non solo per l’Italia, ma per tutta l’Europa, e in un momento precario» mentre l’Ue, «di cui Draghi è convinto sostenitore, lotta per mantenere l’unità di fronte all’aggressione in Ucraina da parte del presidente russo Vladimir Putin».
Inoltre, il Nyt ricorda come Draghi abbia «portato fuori» l’Italia «dai giorni peggiori della pandemia» e di come abbia «riempito il governo di esperti altamente qualificati» che hanno fatto uscire il Paese «dal suo malessere politico ed economico».
E di come Draghi abbia «immediatamente rafforzato la postura internazionale dell’Italia e la fiducia degli investitori». E di come i 200 miliardi di euro del Pnrr, per «l’Italia siano la migliore opportunità di modernizzazione da decenni». Draghi «ha reso il populismo fuori moda e la competenza ammirevole, ha riposizionato l’Italia come una forza affidabile per i valori democratici in Europa».
“Draghi resti al suo posto”. Lo auspica tutta la comunità internazionale. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2022.
Da Bruxelles a Washington messaggi per spingere verso una soluzione della crisi. La presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola: "Per garantire stabilità all’Europa abbiamo bisogno della sua autorevolezza "
Il pressing su Mario Draghi per far sì che resti al timone del governo italiano s’intensifica a Bruxelles a Washington. Dalla capitale dell’Unione europea sono arrivati messaggi in questo senso dai leader di tutti gli schieramenti politici della maggioranza che sostiene Ursula von der Leyen. Il consigliere americano per la sicurezza nazionale Jake Sullivan, ha reso noto che il presidente USA Joe Biden “segue molto da vicino quanto avviene a Roma e che ha un profondo rispetto per il premier Draghi”. La Casa Bianca è ben consapevole di avere a Palazzo Chigi un alleato prezioso ed autorevole e quindi auspica per la continuità del suo governo.
Il socialdemocratico Frans Timmermans, numero due della Commissione Europea, ha scelto di rilanciare un tweet di Enrico Letta per affermare che “Draghi è un partner autorevole nel contesto europeo e internazionale e che il suo contributo in questo difficile momento storico è importante per l’Italia e per l’Ue“. Roberta Metsola, presidente del Parlamento europeo ed esponente dei popolari, ha premesso che “in Europa serve la stabilità e che siccome l’Italia è uno Stato membro importante e fondatore, abbiamo bisogno che mantenga il suo ruolo di leadership all’interno dell’Unione europea, soprattutto in questi tempi difficili“.
Ancor più incisivo Stéphane Séjourné, leader e capogruppo di Renew Europe gli eurodeputati liberali, vicinissimo a Emmanuel Macron per il quale non ci possono essere alternative: “Sosteniamo gli sforzi dei partiti della nostra famiglia politica per trovare una soluzione che riconfermi il governo Draghi”.
Diverse cancellerie si sono messe in contatto con Palazzo Chigi per chiedere informazioni e chiarimenti sui possibili sviluppi della crisi in corso, dopo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha respinto le dimissioni di Mario Draghi. Giovedì, cioè il giorno dopo dell’intervento del premier italiano in Parlamento, è prevista la riunione della Banca Centrale Europea che darà il via libera all’aumento dei tassi. Non sono attese sorprese: come previsto ci sarà un aumento di 25 punti base e verranno presentate le caratteristiche del cosiddetto scudo anti-spread, ma l’intervento sui tassi previsto per settembre è ancora tutto da definire.
Il timore più grande è che l’instabilità politica italiana si trasformi in instabilità economica, innescando una spirale in grado potenzialmente di danneggiare l’intera Eurozona. A Bruxelles sanno molto bene che le acque saranno già molto agitate in autunno, tra frenata del Pil, aumento dell’inflazione e molto probabilmente una crisi delle forniture energetiche. Per questo c’è l’auspicio e la speranza che l’Italia possa ricomporre al più presto la crisi politica per proseguire verso un’ordinata conclusione della legislatura. E mai in passato si era vista la comunità politica internazionale sostenere un premier di un altro Paese-
“Tutti gli attori politici farebbero bene a risolvere questa situazione il più rapidamente possibile“, ha sollecitato il tedesco Markus Ferber, esponente del Ppe nella commissione Affari Economici dell’Europarlamento, ben noto per le sue posizioni da “falco”. Il politico della Csu intravede seri rischi per la stabilità finanziaria: “L’Italia potrebbe ritrovarsi presto in guai peggiori che potrebbero rendere nervosi i mercati”.
Da Bruxelles Ursula von der Leyen e Charles Michel hanno adottato la linea del silenzio per non essere accusati di interferenze, ma stanno seguendo entrambi con grande attenzione tutto quello che succede nei “palazzi” del potere a Roma. Dall’entourage di Von der Leyen confermano quanto già fatto filtrare 24 ore prima e cioè che la presidente della Commissione “lavora molto bene insieme con il primo ministro Draghi”. Anche la vicepresidente Margrethe Vestager ha assicurato di essere “molto soddisfatta della collaborazione con i ministri” del governo Draghi, citando esplicitamente “Vittorio Colao sui dossier digitali“, ma anche “i ministri delle Finanze (Daniele Franco, ndr) e dell’Energia (Roberto Cingolani, ndr)”.
Incalzato dalle domande dei giornalisti sulle possibili manovre del Cremlino per indebolire i governi europei, il portavoce dell’Alto Rappresentante Josep Borrell ha affermato che “la Russia tenta di destabilizzare l’Ue” anche attraverso la politica domestica nei vari Stati europei. “Attori interni, anche politici, possono essere parte degli sforzi della Russia per destabilizzare l’Ue con attacchi ibridi“, ha poi aggiunto Peter Stano, precisando però che il suo è un discorso in generale e non riferito in modo particolare all’Italia. Redazione CdG 1947
Mosca gode per la caduta dei leader europei. Marco Gervasoni il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.
A Mosca si festeggia. L'ex presidente Medvedev posta una foto di Boris Johnson e di Mario Draghi e si chiede chi sarà il prossimo.
A Mosca si festeggia. L'ex presidente Medvedev posta una foto di Boris Johnson e di Mario Draghi e si chiede chi sarà il prossimo. Putin voleva la testa dei due leader e nel giro di pochi giorni ha avuto entrambe. E se, nella caduta di Johnson, non hanno certo giocato sui conservatori pressioni esterne, almeno per quanto ne sappiamo, non metteremmo la mano sul fuoco per quanto riguarda il pugnalamento di Draghi. Entrambi a oggi sono ancora premier, il primo già dimissionario, il secondo non ancora. Ma, se anche Draghi rinascesse, non avrebbe più comunque la forza e l'autorevolezza che l'avevano reso il leader della Ue più combattivo contro il despota russo. Sembrano passati mesi dalla recentissima foto di Draghi in carrozza verso Kiev con Scholz e Macron: icona di una Italia protagonista, che il successore di Draghi, quello eventuale di prima o quello dopo le elezioni, non riuscirà più a ripetere. E anche il BoJo dei viaggi continui a Kiev, tutto finito. Con una importante differenza: chiunque a Londra prenderà il suo posto, non muterà la linea britannica contro l'invasione russa. Mentre è molto probabile che nessun successore di Draghi avrà il medesimo carisma nel rappresentare un simbolo di civiltà e di occidente contro Putin. Un altro elemento hanno in comune l'ex premier inglese e l'ex presidente del consiglio italiano: sono state vittime della democrazia parlamentare. Biden e Macron non corrono infatti rischi del genere: la loro legittimità nasce da un voto popolare diretto e non possono essere estromessi, eccezion fatta per una procedura di messa in stato di accusa. Ora la domanda è più che lecita: può l'istituto parlamentare, sia nelle forme rodate ed efficienti di Westminster che in quelle usurate di Roma, essere adeguato alle sfide delle dittature plebiscitarie dei Putin, degli Orban, degli Erdogan? E ancor più allo scenario di guerra dei prossimi anni, che vede contrapposti il fronte occidentale e un rinnovato asse del male, per dirla con Bush jr, tra Russia, Cina e Iran? La domanda è ovviamente retorica e la risposta è, purtroppo, negativa. Con leadership forti e autorevoli bruciate dalla dissoluzione dei partiti politici, dalle regole parlamentari spesso vetuste, da sistemi illogici come il nostro doppio cameralismo (ah se si fosse abolito il Senato!) o, nel Regno Unito, decadenti come la Camera dei Lord, l'Occidente è destinato, in un tempo forse più breve di quanto si immagini, a soccombere. O la democrazia rappresentativa rinascerà in forme più solide ed organizzate, oppure potrebbe, anche da noi, essere sostituita da regimi plebiscitari dal profumo orientale. Un profumo che annuncia la morte della libertà.
Operazione politica speciale. Che strano, Conte e Salvini alleati per indebolire il peggiore nemico di Putin nell’Ue. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.
Con le dimissioni di Draghi, il dittatore russo potrebbe togliersi dai piedi il suo avversario europeo più deciso, capace anche di trascinare i ben più malleabili Scholz e Macron a un intransigente allineamento atlantista. Le ironiche coincidenze che i malpensanti potrebbero interpretare come un disegno
Come qualcuno ricorderà, quando cadde il Governo Conte-bis Goffredo Bettini evocò un golpe realizzato «per una convergenza di interessi nazionali e internazionali che non lo ritenevano sufficientemente disponibile ad assecondarli e dunque, per loro, inaffidabile».
Visto che gli intellettuali progressisti doc, in genere, pensano che gettare il sasso e ritirare la mano sia una prova di commendevole moderazione politica e intellettuale e hanno un senso della responsabilità a misura della loro ipocrisia, Bettini non concluse, come avrebbe dovuto, paragonando Giuseppe Conte a Salvador Allende e Mario Draghi ad Augusto Pinochet, ma sostenne al contrario che «nel vuoto e nell’incertezza» che si era «determinata, il presidente Mattarella ha saputo mettere a disposizione della Repubblica Mario Draghi. Una grande personalità. Una risposta di emergenza a una situazione di emergenza».
Proviamo a usare per gioco – sia chiaro: solo per gioco – con maggiore rigore e radicalità lo schema di Bettini nell’interpretare premesse, conseguenze e beneficiari della crisi aperta dall’ex fortissimo riferimento del mondo progressista. Proviamo – sia chiaro: solo per gioco – a tirare il sasso e a non ritirare la mano.
La scaturigine di questa crisi è in uno scandalo autoprodotto nel côté contiano. L’intervista confezionata da Il Fatto a Domenico De Masi circa la richiesta di Draghi a Grillo di fare fuori l’ex capo del Governo dalla guida dei 5 Stelle, che sarebbe stata confermata da alcuni fantomatici messaggi scritti, di cui però nessuno ha confermato l’esistenza, ha rappresentato una bufala giornalistica totale, ma una mossa politica rilevante, perché ha permesso di eccitare l’incazzatura di tutti i pentastellati che si sentivano traditi dal fedifrago Luigi Di Maio.
Come insegnano i maestri della dissonanza cognitiva di scuola moscovita, perché qualcuno faccia quello che tu vuoi, devi fare in modo che sia lui a volerlo. E per incamminare il tumulto di parlamentari impazziti e in scadenza verso un esito compiutamente nichilista, bastava fare percepire e desiderare loro la defenestrazione di Draghi come un supremo atto di giustizia e un risarcimento dell’affronto subito.
Così mentre Grillo, che era sceso a Roma a scaricare Di Maio e a blindare il Governo («non si fa una crisi su un cazzo di inceneritore»), se ne tornava a casa malmostoso e sfiduciato, Alessandro Di Battista se ne partiva per la Russia, a fare straordinari reportage su Il Fatto, che raccontano di quanto i russi siano orgogliosi di Putin, i ristoranti siano pieni e le sanzioni non facciano un baffo al valoroso popolo in arme contro l’aggressione della Nato.
Intanto Conte incontrava accigliato Draghi chiedendo rispetto – il massimo valore politico, nell’era della suscettibilità universale – e consegnava all’usurpatore di Palazzo Chigi papelli di richieste urgenti, ma differibili, per allungare il brodo del negoziato e il logoramento dell’esecutivo.
Infine Conte decideva di togliere la fiducia a Draghi proprio sul «cazzo di inceneritore» su cui Grillo aveva detto: transeat, per poi esibirsi in una eccezionale supercazzola dorotea, in cui spiegava che non intendeva così uscire dalla maggioranza, ma non intendeva neppure rimanervi a queste condizioni, dando modo all’altro grande interprete del putinismo pacifista tricolore, Salvini, di dichiarare che il Governo era finito e la legislatura era chiusa. Posizione su cui sembra finalmente ricompattarsi, dopo un lustro, l’intero centro-destra, storicamente unito anche da simpatie e frequentazioni putiniane.
Ora che Draghi ha rassegnato le dimissioni, se tutto va come deve andare, Putin si sarà finalmente tolto dai piedi il suo avversario europeo più deciso, capace anche di trascinare i ben più malleabili Scholz e Macron a un intransigente allineamento atlantista. Col che non si vuole certo dire – ci mancherebbe – che in Italia sia in corso un’operazione politica speciale della Russia. Si vuole solo ironicamente illuminare un insieme casuale di coincidenze, dietro a cui qualche malpensante potrebbe intravedere perfino un disegno.
Gianluca Di Feo per “la Repubblica” il 7 Luglio 2022.
«All'interno del governo sostenuto da Movimento 5 stelle e Lega, nel 2018, c'è chi ha pensato di poter compiere uno scarto rispetto al tradizionale atlantismo dell'Italia. Durante quei mesi, in una riunione alla quale partecipo in qualità di capo di stato maggiore della Difesa, ascolto un esponente dell'esecutivo giallo- verde teorizzare che l'Italia dovrebbe cominciare a essere equidistante tra due "poli di amicizia internazionale". Al "polo" americano, infatti, lo Stato - in tutte le sue articolazioni, militare inclusa - dovrà affiancare il "polo" russo».
La testimonianza è straordinaria e di attendibilità fuori discussione: quella del generale Claudio Graziano, che dopo avere comandato le forze armate ha supervisionato la nascita della Difesa Europea. E in Missione , il libro che ha scritto con Marco Valerio Lo Prete pubblicato dalla Luiss University Press, traccia proprio il passaggio "dalla Guerra Fredda alla Difesa Europea".
Un percorso in cui a un certo punto il nostro Paese ha rischiato di perdere ogni bussola strategica, come dimostra il racconto del consiglio dei ministri del primo governo Conte: «Nel momento in cui mi viene chiesto un parere in proposito, espongo perché mi sembra una scelta avventata». Nella sua riservatezza, il generale non fa il nome del ministro che aveva sostenuto «la linea dell'equidistanza » tra Mosca e Washington, addirittura teorizzata dopo l'annessione della Crimea.
Ma Graziano ha ben chiara la «costante della Storia e della geopolitica: l'obiettivo della Russia è sempre stato quello di incrinare l'unità euro-atlantica (e in subordine europea) e, in quanto superpotenza continentale, di riuscire ad affacciarsi sul Mar Mediterraneo per meglio opporsi alle potenze marine occidentali. Il divide et impera rimane la strategia di fondo di Mosca verso l'Europa».
Questo è solo uno dei tanti retroscena svelati nel volume in cui il generale ha sintetizzato una carriera eccezionale, che si è appena conclusa dopo mezzo secolo di servizio in uniforme per iniziarne un'altra alla presidenza di Fincantieri.
Nessun ufficiale italiano ha gestito così tante operazioni delicate: Mozambico, Balcani, Afghanistan, Libano. Le ricostruisce tutte con una ricchezza di episodi inediti.
Come il racconto del raid che permise a soli cento alpini paracadutisti di riconquistare la valle di Musay, in Afghanistan: un obiettivo che secondo i comandi Nato avrebbe richiesto migliaia di uomini, raggiunto invece con pochi ranger e senza sparare un solo colpo.
Ed è impressionante la cronaca della prima del Nabucco, diretta da Riccardo Muti, al Teatro dell'Opera in cui viene deciso l'intervento contro Gheddafi: «Nel primo intervallo, appena appresa la notizia della Risoluzione dell'Onu, viene organizzata una sorta di riunione di governo in una sala riservata del teatro.
In quella sede viene espresso un parere favorevole per un pieno impegno italiano al fianco degli alleati per porre fine alle violenze contro i civili perpetrate da Gheddafi. Terminato il Nabucco, ci riuniamo di nuovo in una saletta del teatro, questa volta alla presenza del presidente Napolitano. Il ministro degli Esteri Frattini si collega telefonicamente.
I ministri presenti (ndr tra cui il premier Berlusconi e quello della Difesa La Russa) contribuiscono per la loro parte di responsabilità. Quando usciamo dal Teatro dell'Opera, è stato dunque concordato che l'Italia interverrà militarmente in Libia».
Cambia il governo ed ecco un'altra rivelazione: «Nel 2015 ai nostri militari è richiesto di lavorare con maggiore incisività sul "secondo cerchio" della strategia per la Libia, ipotizzando una soluzione per rendere inutilizzabili i barconi sui quali sono trasportate decine di migliaia di migranti.
Elaboriamo un piano che prevede l'ingresso di forze speciali della Marina in alcuni porti libici sul tratto della costa della Tripolitania da cui provenivano la maggior parte dei migranti, per affondare i natanti pronti all'uso mentre sono ormeggiati. Tuttavia il rischio, non eliminabile nonostante le predisposizioni più accurate, che l'azione possa provocare vittime civili o militari lascia l'opzione nell'ambito delle pianificazioni di studio ipotetiche».
Il libro ha il grande pregio di fare comprendere quanto sia stata rivoluzionata l'identità dei nostri militari nell'ultimo ventennio, quando l'abbandono della leva fa nascere una forza di professionisti «considerati in modo unanime protagonisti nell'opera di proiezione dell'influenza e dell'immagine dell'Italia all'estero».
Per rendersene conto basta leggere il capitolo sul Libano, dove il contingente Onu comandato da Graziano ha sugellato il difficile cessate il fuoco con Israele alternando la deterrenza dei blindati alla diplomazia dei colloqui faccia a faccia. Da vero alpino, il generale è sempre diretto, non risparmia critiche e ammette gli errori.
Come nel caso della ritirata da Kabul: «Bisogna essere onesti e riconoscere che nel 2021 abbiamo assistito a una pesante sconfitta di tutto l'Occidente - più coinvolto che in Vietnam, dove gli Usa combattevano praticamente da soli - e di parte di quello in cui abbiamo creduto negli ultimi vent' anni. Abbiamo fallito infatti nel raggiungere le condizioni politiche che ci eravamo prefissati, necessarie per costruire nel Paese un'alternativa democratica ai talebani».
E da questa disfatta che nasce la spinta per una Difesa europea autonoma, resa urgente poi dall'invasione dell'Ucraina: un percorso teorizzato da Altero Spinelli nel Manifesto di Ventotene. E Graziano cita proprio l'ultimo discorso di Spinelli all'Europarlamento: «Non un invito a sognare, ma un invito a operare».
Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 5 luglio 2022.
[…] I russi fanno propaganda, ma non ci credono: non potendo o non volendo occupare (e soprattutto tenere) l'intera Ucraina, hanno misurato le forze in campo e si sono concentrati sul Donbass e la striscia sul mar Nero, con qualche diversivo a Kiev e Kharkhiv (senza mai entrarci) per allontanare le truppe ucraine dal centro del fuoco.
La Nato invece non s' è limitata a sparare la sua propaganda a colpi di "Vincere e vincerete" (anzi "Armiamoli e morite") e "Putin ha le ore contate": ma ha finito per crederci e, quel che è peggio, per illudere gli ucraini. Ha programmato tutta la strategia sull'Ucraina non in base ai rapporti di forze iniziali (incolmabili, salvo inviare quelle truppe che nessuno nella Nato vuol inviare) e alle notizie dal campo.
Ma su slogan totalmente sganciati dalla realtà. Ora che purtroppo il Donbass e la striscia sul mar Nero sono in mano a Mosca, le sanzioni dissanguano l'Ue più della Russia e l'isolamento e la caduta di Putin si rivelano pie illusioni, qualcuno smetterà di credere alle balle che racconta?
Qualche ministro si dimetterà o si scuserà o almeno caccerà i capi dell'intelligence più stupida della storia? E chi sarà il primo leader d'Europa a dire che il re è nudo, a prendere atto del fallimento e a invertire la rotta dalla via delle armi a quella dei negoziati, possibilmente prima che l'Ucraina sparisca dalla carta geografica?
Si accettano scommesse.
Estratto dell’articolo di Alessandro Di Battista per “il Fatto quotidiano” il 5 luglio 2022.
[…] A Mosca gli effetti delle sanzioni si sentono relativamente. I prezzi sono aumentati, ma meno di quanto non siano aumentati in Europa. Il rublo è forte e, seppur con maggiori difficoltà, le persone vivono normalmente invadendo i ristoranti, i parchi pubblici e i centri commerciali, dove i negozi di abbigliamento occidentale vengono sostituiti da marchi russi. Ma Mosca non è tutta la Russia. Più ci si allontana da Mosca e più - sebbene gli effetti delle sanzioni si sentano maggiormente - aumentano i supporter di Putin. Lo si misura anche dal numero di "Z" sulle auto, sui muri ai bordi delle strade e sulle vetrine dei negozi. A Mosca è difficile vederne una.
A oggi le sanzioni non hanno portato né al collasso dell'economia russa, né alla defenestrazione di Putin, né a rapidi negoziati. Al contrario, hanno messo d'accordo persone che prima non lo erano affatto. C'è chi pende dalle labbra di Putin: per lo più sessanta-settantenni che hanno vissuto sulla loro pelle il crollo dell'Urss e la catastrofe dell'èra Eltsin. Per loro, Putin ha ridato forza e orgoglio al Paese. […]
Poi ci sono quelli che non hanno mai visto Putin di buon occhio (per molte ragioni, anche diametralmente opposte) o addirittura lo detestano: eppure reputano ipocrite le sanzioni. C'è chi si domanda perché l'Europa non le abbia imposte agli Stati Uniti quando bombardavano Iraq, Afghanistan e Libia. C'è chi, da oppositore di Putin, ritiene che le sanzioni non facciano altro che rafforzarlo. […]
[…] A Mosca i Vkusno i Tocka (Delizioso e Basta), i fast food che stanno rimpiazzando i McDonald's, vanno a gonfie vele. […] Se gli obiettivi delle sanzioni sono quelli menzionati dai leader europei, a oggi non sono stati raggiunti. Se poi le sanzioni sono state imposte per recidere il legame politico, economico e culturale (per certi versi i russi sono molto più "europei" di quanto non lo siano gli inglesi) tra Europa e Russia, allora sì, stanno funzionando. Occorrerà vedere chi ne trarrà vantaggio. […]
Vladimir Putin, "soldi a utili idioti": come vince la battaglia interna (e cosa c'entra Di Battista). Carlo Nicolato su Libero Quotidiano il 06 luglio 2022
La Russia tiene botta? Se dessimo ascolto a quanto ci racconta Di Battista da Mosca non solo gli effetti catastrofici delle sanzioni preconizzati dall'Occidente non si stanno palesando, ma addirittura la Russia starebbe quasi meglio di noi che siamo rimasti vittima delle stesse misure varate per annichilirla. Se l'inviato Di Battista non si attenesse alla propaganda del Cremlino sarebbe probabilmente cacciato a calci dal Paese ma il suo reportage rimane comunque un documento per capire quale sia la nuova narrativa di Putin da qualche settimana uscito dalla modalità crisi, in cui appariva aggressivo e minaccioso, e rientrato in quella della "normalità" del leader paternalistico, rilassato e sicuro di sé, la sua dimensione di sempre insomma. Putin ha smesso di minacciare con le armi nucleari quella metà di mondo definito «feccia» ed è tornato a paragonarsi a Pietro il Grande, a raccontare, proprio come Di Battista, che le sanzioni gli stanno facendo un baffo presentandosi al vertice dei Brics nella veste del vincitore, di quello che la Divina Provvidenza ortodossa gli ha consegnato le chiavi per creare un mondo alternativo a quello comandato dal dollaro.
QUESTIONE DI IMMAGINE
«Lo shock iniziale è passato e le cose si sono rivelate non poi così male», ha detto Abbas Gallyamov, ex ghost writer di Vladimir, ora riparato in Israele. «Capisce che la sua legittimità si basa sull'essere forte e attivo, sulla recitazione e sull'immagine vincente», ha continuato Gallyamov, e fondamentale per lui è che nel suo Paese tutto sia come sempre, che si torni all'apparente normalità, che l'«operazione speciale» in Ucraina appaia come qualcosa sotto controllo e comunque lontana. Anche nel campo dell'informazione è finita l'emergenza e a parte qualche caso più o meno isolato, come quello di Maria Ponomarenko rinchiusa in un manicomio e di altri che si sono dimessi (lasciando spesso il Paese), per la gran parte dei giornalisti è bastato un aumento di stipendio del 20% e lo stretto controllo delle informazioni date per il ritorno alla normalità. «Va bene protestare, ma chi paga i nostri mutui se per orgoglio lasciamo il posto di lavoro?» ha detto un giornalista della rete pubblica Rossija 1 al Moscow Times.
Ma non solo, c'è una sorta di ostracismo generalizzato in stile sovietico contro i "dissidenti" con il quale poi non è facile convivere. «Stavo pensando di smettere» ha detto un altro giornalista di Rossija 1, «ma i soldi sono importanti. Speravo che i colloqui di pace avrebbero ottenuto dei risultati. Inoltre, il nostro management ci ha parlato, ci ha calmato e ha detto che avremmo dovuto pensare a noi stessi». La normalizzazione passa dunque anche per Di Battista che in Russia, non a caso, fa il giornalista: «Gli effetti delle sanzioni si sentono relativamente», dice l'ex deputato dei 5 Stelle, «i prezzi sono aumentati, ma meno di quanto non siano aumentati in Europa». I dati ufficiali ci dicono l'esatto contrario con un inflazione in Europa che è di poco oltre l'8% e quella in Russia del 14%. Ma l'importante è l'effetto normalità di cui anche Di Battista parla esplicitamente: «Il rublo è forte e, seppur con maggiori difficoltà, le persone vivono normalmente invadendo i ristoranti, i parchi pubblici e i centri commerciali, dove i negozi di abbigliamento occidentale vengono sostituiti da marchi russi».
Stanno perfino tornando gli oligarchi e alcuni di quelli che avevano lasciato la Russia per paura di un tracollo economico. Sono pochi per la verità, e sono soprattutto quelli che sono riparati in Paesi dove non è facile ottenere un visto di rifugiato, ma sono funzionali. Tra il bastone e la carota anche in questo caso Putin ha preferito usare quest'ultima non ascoltando le sirene di quelli che invocavano vendetta. Tra questi c'era ad esempio il leader di "Russia Sobria" Sultan Khamzaev che chiedeva che agli espatriati venissero requisiti tutti i beni così come dispone la legge sulle "fake news" relative alla guerra in Ucraina, ma Putin ha preferito non dargli retta lasciando che le pecore smarrite tornassero all'ovile. E dimostrare al resto del mondo che l'Occidente ha fallito. La Russia tiene botta? È quello che Putin vuole farci credere.
Rampini demolisce lo storico in diretta La7: "Arrogante, snob, bifolchi, imbecilli". Libero Quotidiano il 29 giugno 2022
Lite in diretta a L'aria che tira - Estate, su La7, nella puntata del 29 giugno, tra Federico Rampini e Angelo D'Orsi. "Mi dispiace che Rampini abbia assunto in modo totale il punto di vista Nato", tuona lo storico. "I giornalisti, gli intellettuali, dovrebbero pensare all'interesse del popolo ucraino, Zelensky non è in grado di rappresentarlo visto che sta mandando al massacro il suo popolo". Ma il giornalista sbotta e attacca: “Con quale arroganza si permette di dire che vanno a morire perché qualcuno glielo dice? Lei ha l’arroganza snob di chi tratta i popoli come bifolchi, degli imbecilli, degli idioti che sacrificano la loro vita perché glielo dice qualcuno perché sono manipolati da un leader. L'eroica resistenza del popolo ucraino è un fatto di massa". E ancora, affonda Rampini: "Questo è lo snobismo intellettuale dell'accademico. Ma naturalmente dietro c'è la Nato...”.
"Ma con quale arroganza un giornalista esperto di tutto e quindi di niente si permette di..:", sbotta D'Orsi che però non può finire la frase perché viene interrotto dal conduttore che chiede di rispettare tutti. "Non sono esperto di tutto e di niente, quando uno non ha argomenti insulta gli altri", ribatte Rampini. "Questa guerra è combattuta dagli eserciti, la resistenza del popolo è una invenzione ideologica. Ci sarebbe da dire anche sull'idea di nazione Ucraina che è inventata..."
I bieloitaliani. Tu chiamale se vuoi proscrizioni, ma in realtà sono liste di descrizione del putinismo. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta l'1 Luglio 2022.
Segnalare le bugie storiografiche, la negazione della verità e le teorie del complotto ripetute a pappagallo servirà a futura memoria (se la memoria avrà un futuro)
Dovremmo fare a capirci un pochetto, sulle liste di proscrizione.
Se io metto in rassegna le cose dette e scritte qui da noi in un quadrimestre di operazioni speciali, con i nomi di chi le ha dette e scritte, che cosa faccio? Una lista di proscrizione?
Io capisco che a questi je rode, come la foto che li ritrae mentre si scaccolano, come l’audio da cui ridonda il congiuntivo deviato, come il video che reitera in versione pacifista la coazione del braccio teso alla Stranamore, ma non è proscrizione: è descrizione.
A segnare l’inizio del corso informazionista 2puntoZeta è il cippo del 25 Febbraio 2022: «Putin? Putin sta puntando sui suoi obiettivi, e nel frattempo cerca di non spaventare la popolazione», e da lì alle ricognizioni più recenti, che indugiano sulle responsabilità «del regime ucraino», è una meravigliosa avventura di covi nazisti camuffati da ospedali, di armi nascoste tra i cavolfiori e le barbabietole dei supermercati, di manichini adibiti a cadaveri, di bossoli mancanti alla prova del colpo alla nuca, di satelliti americani che nascondono gli indizi della messinscena, di «passanti» che la propaganda della Nato spaccia per profughi.
E allora vediamo di intenderci. Se la leggiadra giornalista, alla notizia dello stupro di donne e bambini, si affretta ad anteporre che «però, chissà, in guerra la verità è la prima vittima», io, ricordandolo, che faccio? Proscrivo? Se il pensoso inviato, con il bel viso pieno di rughe democratiche scavate dall’aratro della stronzaggine, commenta lo slalom dei blindati tra i cadaveri di Bucha spiegando che gli ucraini sarebbero capacissimi di essersi inventati tutto, e io riporto lo sproposito, che faccio? Proscrivo? Se le fesserie del geopolitologo eternato in imbalsamazione nella teca di Telecinquestelle sono adoperate per spiegare il nesso eziologico tra l’oltranzismo atlantico e l’ospedale incenerito, uno che virgoletta l’oscena turpitudine che fa? Proscrive? Se il pacifista comunista sindacalista fa volantinaggio della vignetta con Putin e Zelensky accomunati dal braccio fasciato di svastica, e tu registri e rinfacci l’infamia, che fai? Proscrivi?
Stiamo assistendo a una specie di raffinazione del protocollo goebbelsiano, per cui il mendacio, la contraffazione, la contro-verità falsaria, l’immondizia storiografica, la panzana magliara, non si accreditano nella ripetizione: ma nell’innominabilità. La guerra dei russi è colpa dell’Occidente e degli ucraini che lo preferiscono, dunque è colpa dell’Occidente e degli ucraini che lo preferiscono se i russi fanno un secondo Holodomor. Puoi dirlo, e hai diritto di non sentirti dire che l’hai detto, perché dirti che l’hai detto equivale a proscriverti.
Francesco Grignetti per “la Stampa” l'1 luglio 2022.
Diventa un caso che imbarazza il Pd, il convegno sulla presunta disinformazione filo-russa. Si saranno stra-pentiti gli esponenti dem Andrea Romano e Lia Quartapelle, assieme a Riccardo Magi di +Europa, per aver fatto da sponda a due fondazioni, la Federazione italiana diritti umani e la Open Dialogue Foundation, che hanno redatto il rapporto «Disinformazione sul conflitto russo-ucraino».
Già, perché il punto di vista delle due fondazioni non poteva essere più partigiano e semplicistico, arrivando al paradosso di etichettare come filoputiniani non solo una bella fetta di giornalisti, ma persino due divulgatori di indiscussa indipendenza intellettuale quali Corrado Augias e Alessandro Barbero. D'altra parte, il vizio di fondo del rapporto si coglie già nelle prime righe, quando si definisce il servizio pubblico televisivo «rappresentativo del sistema politico e dello Stato stesso».
Anche se Andrea Romano ha tenuto il punto, Quartapelle e Magi se ne sono tirati fuori, denunciando il rischio di «liste di proscrizione» e anzi difendendo il lavoro di chi riporta anche il pensiero dell'altra parte. Secondo le due Fondazioni, invece, tutto è disinformazione. È sufficiente, come nel caso dell'inviato Rai Alessandro Cassieri, aver firmato reportage dal Donbass occupato dai russi perché «secondo la legge ucraina, rappresenta attraversamento illegale dei confini». E così si criticano tantissimi giornalisti, da Marc Innaro a Gian Micalessin, Eva Giovannini, Sigfrido Ranucci, Toni Capuozzo; famosi commentatori come Alessandro Orsini, Donatella Di Cesare, Barbara Spinelli. Persino il regista statunitense Oliver Stone.
Ben difficile etichettarli come agenti della disinformazione putiniana. Tantomeno può esserlo Corrado Augias, il quale ha reagito con il suo proverbiale aplomb britannico: «Cadono le braccia. Non per l'accusa insensata ma per i suoi estensori. Mi chiedo dove prendano le loro informazioni, con quale criterio, quale preparazione, le valutino».
Il giorno dopo, comunque, è polemica. «È legittimo chiedersi - polemizza la Lega - se la linea del partito guidato da Letta sia istituire liste di proscrizione vincolanti per il servizio pubblico». Come dice anche Nicola Fratoianni, di Sinistra italiana: «La vicenda si è conclusa in modo farsesco, fra indignazione, imbarazzi e pernacchie». E però è indignatissimo Beppe Giulietti, già parlamentare di sinistra, ex segretario del sindacato dei giornalisti Rai: «Guai a chi esce dal binario prestabilito, dalla linea del governo interpretata secondo i criteri degli Stati Uniti o della Nato. Siamo in guerra, è il sottotesto. Quindi, o di qua o di là».
Eva Giovannini nella lista di proscrizione del Pd: un caso per Lucia Annunziata in Rai. Gianluca Veneziani Libero Quotidiano l'01 luglio 2022
È una faccenda sinistra, con tanto di tiri mancini. Lo scontro tra politicanti rossi e loro teste pensanti, col pretesto della diversa posizione sulla guerra in Ucraina, cela la delegittimazione da parte del Pd della propria classe intellettuale. Uno psicodramma che si consuma nella forma di una decapitazione, visto che a finire sotto la scure, o meglio sotto la ghigliottina, sono appunto le teste della sinistra.
L'ultimo capitolo di questo attacco all'intellighenzia si è consumato due giorni fa allorché il Pd ha presentato alla Camera una nuova lista di proscrizione, «un pasticciato rapporto» lo definisce Il Fatto quotidiano, contro gli intellò tacciabili di simpatie putiniane. La novità, rispetto ad altri cataloghi di "nemici dell'Occidente", è che nell'elenco dem figurano tra i reprobi soprattutto prof, scrittori e giornalisti di sinistra, parte integrante del suo establishment mediatico-culturale, insomma espressione e incarnazione del potere "rosso".
Tra i nomi si leggono quelli di Corrado Augias e Alessandro Barbero, di Donatella Di Cesare e Barbara Spinelli; e giornaliste di sinistra come Valentina Petrini ed Eva Giovannini (che lavora per il programma di Lucia Annunziata). Illoro torto sarebbe quello di aver promosso una narrazione anti-occidentale o addirittura pro-russa, osando intervistare (anche ben prima della guerra) personalità ritenute vicine a Putin o provando a contestualizzare e storicizzare il conflitto. Sommo reato agli occhi dei dem intolleranti a ogni dissenso, tanto più se è dissenso ragionato. Il fenomeno è l'esito di un processo che vede la sinistra politica accanirsi contro voci più o meno organiche al proprio mondo che si azzardano a fare il controcanto. Lo si era visto con Cacciari o Freccero al tempo del Covid, lo si è visto con gli attacchi ripetuti alla Berlinguer, rea di non piegarsi al Pensiero Unico di Rai-dem. Questa prassi evidenzia da un lato il masochismo dei compagni che bersagliano proprio coloro che garantiscono alla sinistra in tv, sui giornali e nelle università l'egemonia culturale. Il delirio di onnipotenza dei politici dem è credere di poter fare a meno sia delle braccia che delle menti, degli operai così come degli intellettuali. Dopo aver abbandonato fabbriche e periferie, la sinistra si sbarazza pure dei luoghi del sapere: nei salotti buoni non c'è spazio per le librerie... Allo stesso tempo questo atteggiamento repressivo verso scrittori e prof è coerente con la storia della sinistra. La caccia al pensatore dissidente e la sua messa alla gogna o la sua epurazione fanno venire in mente i processi cui furono sottoposti gli intellettuali giudicati difformi rispetto al potere al tempo della Rivoluzione Francese e dell'Unione Sovietica. L'unico modo per poter essere riabilitati allora era subire un altro processo, di rieducazione e correzione, oggi diremmo di politicamente corretto. Chi si ostinava a pensare con la propria testa rischiava di perderla, la testa. Il Terrore giacobino insegna.
Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 30 luglio 2022.
Se tutto è disinformazione, nulla è disinformazione. L'assunto è banale, ma nel marasma comunicativo generato dalla prima guerra in Europa del ventunesimo secolo c'è chi, ancora, ci scivola su.
La buccia di banana, questa volta, è stato il report "Disinformazione sul conflitto russo- ucraino" curato dalle ong Federazione italiana diritti umani e Open Dialogue, e presentato martedì in Parlamento in una conferenza stampa con l'onorevole del Pd Andrea Romano: annunciato come lavoro di tracciamento di casi di chiara disinformazione pro Cremlino, è invece un pentolone dove tutto si mischia - opinioni, fatti, versioni, interviste - e dove tutto, quindi, si perde.
Le trenta pagine cominciano così: «Dall'inizio del conflitto in Ucraina, speculazioni e contenuti propagandistici sono stati diffusi sul web e nei media italiani».
Segue un elenco di servizi individuati come propaganda se non propriamente dettata dalla Russia comunque favorevoli a Vladimir Putin: ci sono gli interventi del corrispondente Rai da Mosca Marc Innaro, le ospitate di Alessandro Orsini e Donatella Di Cesare a #Cartabianca su Rai Tre, un'intervista allo scrittore russo Nikolai Lilin, la puntata della trasmissione "Rebus" del 27 febbraio dove Corrado Augias discuteva con lo storico Alessandro Barbero, l'intervista di Oliver Stone a Putin, alcuni articoli del Fatto Quotidiano e gli interventi di Toni Capuozzo su Mediaset.
Il punto è che - a differenza di quanto ha deciso l'Unione Europea definendo i criteri della disinformazione e bloccando Russia Today e Sputnik - il dossier non prova neanche a distinguere tra opinioni personali e fake news: si limita a gettare nell'unico calderone cose ben diverse tra loro.
La questione è diventata, inevitabilmente, politica: la partecipazione di un esponente del Pd alla conferenza stampa, e l'annunciata presenza di altri due parlamentari (Lia Quartapelle del Pd e Riccardo Magi di +Europa) annullata all'ultimo momento, ha scatenato un putiferio, facendo piovere sul partito accuse di "caccia alle streghe", "liste di proscrizione", "fatwa".
Le due ong spiegano che per disinformazione intendono «la diffusione non di opinioni, che sono legittime, ma di fatti, dati e argomentazioni che non trovano riscontro nella realtà» e sostengono che Pd e + Europa non abbiano avuto alcun ruolo nella stesura del report. Repubblica ha chiesto ad Andrea Romano il motivo del suo "patrocinio" (è lui ad aver prenotato la sala alla Camera per l'evento): «Perché credo che il tema della penetrazione della disinformazione russa in Italia sia sotto gli occhi di tutti.
Purtroppo cammina anche sulle gambe di giornalisti validissimi che, spesso in modo inconsapevole, non contrappongono alla disinformazione putiniana i fatti per come essi sono. E i fatti vengono sempre prima delle opinioni che sono tutte legittime». Magi e Quartapelle hanno disertato l'evento dopo aver letto il report, e non per caso.
«Guardiamola in positivo: l'errore è sostenere che tutto sia disinformazione », dice Quartapelle. «Dobbiamo distinguere cosa lo è da cosa non lo è, per poterla combattere. Questo episodio è l'occasione per discutere con serietà sull'argomento».
Magi sottolinea il pericolo insito in ricerche pur animate, in linea di principio, da obiettivi condivisibili: «Il dossier confonde piani diversi, rischiando di creare liste di proscrizione che hanno coinvolto professionisti impegnati da anni per una informazione circostanziata sulla Russia. La stampa libera è uno dei punti di forza delle nostre democrazie. I bavagli, le pagelle di conformità, lasciamole a quei regimi che poco hanno di democratico».
Corrado Augias per “la Repubblica” il 30 luglio 2022.
Dunque, putiniano. Questa l'accusa nei miei confronti contenuta in un documento presentato in sede parlamentare. Cadono le braccia. Non per l'accusa insensata ma per i suoi estensori. Mi chiedo dove prendano le loro informazioni, con quale criterio, quale preparazione, le valutino.
Sono andato con la memoria alla ricerca di una possibile fonte. Credo di averla trovata nel fatto che, nel corso del programma Rebus (Raitre), ho detto che bisogna anche tenere presenti le ragioni storiche che possono aver motivato il dittatore russo nella sua aggressione all'Ucraina.
Il sottotitolo del programma è il celebre motto virgiliano "Rerum cognoscere causas", cercare di capire perché le cose avvengono.
È evidente che anche un tiranno come Putin avrà avuto bisogno di trovare ai suoi stessi occhi una qualche giustificazione all'aggressione e ai crimini che ne sono derivati.
Questa giustificazione può averla trovata in un'idea che percorre la storia russa, attraversa i secoli dagli zar a Dostoevskij a lui stesso: l'idea di un impero che non è né Occidente né Oriente, quindi titolato a congiungere idue mondi in nome di una sua peculiare forza morale. «È ora che io passi alla storia», dichiarò Putin a un giornalista russo nel 2013.
Traggo queste informazioni da un saggio appena pubblicato dall'editore Neri Pozza: "L'idea russa" di Bengt Jangfeldt. L'autore, insegna all'università di Stoccolma, è uno dei maggiori studiosi di letteratura russa. La sua visione storica è illuminante. Fëdor Michajlovi Dostoevskij scriveva: «C'è una sola verità, e solo un popolo può avere un vero Dio. L'unico popolo portatore di Dio è il russo».
Questa idea, forse dovrei dire questo ideale, ognuno poi lo declina come può e sa. Il livello di Putin non è certo paragonabile a quello di un gigante della letteratura mondiale. Né idee come queste possono avere, nel mondo contemporaneo, un'applicazione politico-militare.
La Russia non ha mai conosciuto gli avanzamenti che in Occidente consideriamo fondamentali. Non ha mai avuto quella divisione dei poteri che resta uno dei principi giuridici fondamentali dello Stato di diritto e della democrazia liberale. Non esiste un Montesquieu russo. Putin ha ricavato anche da questa storia così peculiare, che noi consideriamo mutila, la giustificazione alla guerra contro un Paese vicino avviato sulla strada della democrazia.
C'è un altro saggio illuminante, che ho appena recensito per il Venerdì. Lo ha scritto Masha Gessen, nata a Mosca poi naturalizzata americana. Il sottotitolo parafrasa un dramma di Brecht: "L'improbabile ascesa di Vladimir Putin". Descrive con un accattivante stile narrativo la conquista del potere da parte di un uomo che non s' è risparmiato nulla per arrivare alla sua posizione e, ora, per mantenerla. Avevamo tutto sotto gli occhi da tempo, scrive Gessen, e ci siamo rifiutati di vedere. Esorto gli estensori dell'accusa a coltivare la lettura e, volendo, a qualche parola di rammarico.
Augias sulla propaganda pro russia: "Scusate, ma filoputiniano a chi? Corrado Augias su L'Espresso il 30 giugno 2022.
L'intervento dello scrittore, dopo la diffusione del report sulla disinformazione che ha scatenato polemiche.
Dunque, putiniano. Questa l'accusa nei miei confronti contenuta in un documento presentato in sede parlamentare. Cadono le braccia. Non per l'accusa insensata ma per i suoi estensori. Mi chiedo dove prendano le loro informazioni, con quale criterio, quale preparazione, le valutino. Sono andato con la memoria alla ricerca di una possibile fonte. Credo di averla trovata nel fatto che, nel corso del programma Rebus (Raitre), ho detto che bisogna anche tenere presenti le ragioni storiche che possono aver motivato il dittatore russo nella sua aggressione all'Ucraina.
Il giornalista: “Mi cadono le braccia”. Filo-Putin, spunta una nuova lista di proscrizione (che imbarazza il Pd): anche Augias tra i propagandisti dello Zar. Redazione su Il Riformista il 30 Giugno 2022.
È diventato il genere letterario dell’estate: le liste di proscrizione dei filo-Putin. Dopo il caso Corriere della Sera, con la pubblicazione di nomi e foto dei presunti sostenitori dello Zar russo e la successiva corsa di Copasir e servizi segreti a smentire il dossier, ora è il turno di un nuovo report che questa volta mette in imbarazzo il Partito Democratico.
Tutto nasce dalla presentazione, avvenuta martedì con una conferenza stampa in Parlamento, del dossier “Disinformazione sul conflitto russo-ucraino” curato dalle ong Federazione italiana diritti umani e Open Dialogue. All’appuntamento è presente il deputato Dem Andrea Romano, mentre all’ultimo momento danno buca gli altri due parlamentari che dovevano intervenire all’incontro: la collega Pd Lia Quartapelle e il deputato di +Europa Riccardo Magi.
Il motivo è presto detto: il dossier è un caleidoscopio di opinioni, interviste, un mare magnum in cui tutto viene tacciato di filo-putinismo. Così nel report delle due ong, che a Repubblica sottolineando come Pd e +Europa non hanno avuto ruolo nella stesura del dossier, finiscono Alessandro Orsini e Donatella Di Cesare per i loro interventi a Cartabianca su Rai3, ma anche Oliver Stone per il documentario-intervista a Putin e Corrado Augias, per una intervista allo storico Alessandro Barbero, oltre al giornalista e inviato di guerra Toni Capuozzo, collaboratore tra l’altro anche della web tv del Riformista.
Come sottolinea la stessa Repubblica, che sulle sue pagine aveva dato spazio a una delle prime liste di proscrizione dei ‘putinisti’, quella di Gianni Riotta, il dossier presentato in Parlamento “si limita a gettare nell’unico calderone cose ben diverse tra loro”, non riuscendo a distinguere tra opinioni personali e vere e proprie fake news.
È la tesi sostenuta ad esempio da Magi, che ha disertato l’incontro: “Il dossier confonde piani diversi, rischiando di creare liste di proscrizione che hanno coinvolto professionisti impegnati da anni per una informazione circostanziata sulla Russia. La stampa libera è uno dei punti di forza delle nostre democrazie. I bavagli, le pagelle di conformità, lasciamole a quei regimi che poco hanno di democratico”.
Ma la risposta migliore al clima da ‘caccia alle streghe’ arriva proprio da uno dei nomi presenti nel report, Corrado Augias. Dalle pagine di Repubblica il giornalista replica così infatti alla lista di proscrizione: “Cadono le braccia. Non per l’accusa insensata ma per i suoi estensori. Mi chiedo dove prendano le loro informazioni, con quale criterio, quale preparazione, le valutino. Sono andato con la memoria alla ricerca di una possibile fonte. Credo di averla trovata nel fatto che, nel corso del programma Rebus (Raitre), ho detto che bisogna anche tenere presenti le ragioni storiche che possono aver motivato il dittatore russo nella sua aggressione all’Ucraina. Il sottotitolo del programma è il celebre motto virgiliano “Rerum cognoscere causas”, cercare di capire perché le cose avvengono”. Quindi l’invito alle ong che hanno prodotto il dossier: “Esorto gli estensori dell’accusa a coltivare la lettura e, volendo, a qualche parola di rammarico”.
Propaganda pro Russia: "Augias e Oliver Stone putiniani". Il report che imbarazza il Pd. Giuliano Foschini, Fabio Tonacci su La Repubblica il 30 giugno 2022.
Presentato alla Camera un rapporto patrocinato dal dem Romano. Scoppia la polemica. Disertano Magi e Quartapelle: "Non tutto è disinformazione".
Se tutto è disinformazione, nulla è disinformazione. L'assunto è banale, ma nel marasma comunicativo generato dalla prima guerra in Europa del ventunesimo secolo c'è chi, ancora, ci scivola su. La buccia di banana, questa volta, è stato il report "Disinformazione sul conflitto russo-ucraino" curato dalle ong Federazione italiana diritti umani e Open Dialogue, e presentato martedì in Parlamento in una conferenza stampa con l'onorevole del Pd Andrea Romano: annunciato come lavoro di tracciamento di casi di chiara disinformazione pro Cremlino, è invece un pentolone dove tutto si mischia - opinioni, fatti, versioni, interviste - e dove tutto, quindi, si perde.
Le trenta pagine cominciano così: "Dall'inizio del conflitto in Ucraina, speculazioni e contenuti propagandistici sono stati diffusi sul web e nei media italiani". Segue un elenco di servizi individuati come propaganda se non propriamente dettata dalla Russia comunque favorevoli a Vladimir Putin: ci sono gli interventi del corrispondente Rai da Mosca Marc Innaro, le ospitate di Alessandro Orsini e Donatella Di Cesare a #Cartabianca su Rai Tre, un'intervista allo scrittore russo Nikolai Lilin, la puntata della trasmissione "Rebus" del 27 febbraio dove Corrado Augias discuteva con lo storico Alessandro Barbero, l'intervista di Oliver Stone a Putin, alcuni articoli del Fatto Quotidiano e gli interventi di Toni Capuozzo su Mediaset.
Il punto è che - a differenza di quanto ha deciso l'Unione europea definendo i criteri della disinformazione e bloccando Russia Today e Sputnik - il dossier non prova neanche a distinguere tra opinioni personali e fake news: si limita a gettare nell'unico calderone cose ben diverse tra loro. La questione è diventata, inevitabilmente, politica: la partecipazione di un esponente del Pd alla conferenza stampa, e l'annunciata presenza di altri due parlamentari (Lia Quartapelle del Pd e Riccardo Magi di +Europa) annullata all'ultimo momento, ha scatenato un putiferio, facendo piovere sul partito accuse di "caccia alle streghe", "liste di proscrizione", "fatwa".
Le due ong spiegano che per disinformazione intendono "la diffusione non di opinioni, che sono legittime, ma di fatti, dati e argomentazioni che non trovano riscontro nella realtà" e sostengono che Pd e + Europa non abbiano avuto alcun ruolo nella stesura del report. Repubblica ha chiesto ad Andrea Romano il motivo del suo "patrocinio" (è lui ad aver prenotato la sala alla Camera per l'evento): "Perché credo che il tema della penetrazione della disinformazione russa in Italia sia sotto gli occhi di tutti. Purtroppo cammina anche sulle gambe di giornalisti validissimi che, spesso in modo inconsapevole, non contrappongono alla disinformazione putiniana i fatti per come essi sono.
E i fatti vengono sempre prima delle opinioni che sono tutte legittime". Magi e Quartapelle hanno disertato l'evento dopo aver letto il report, e non per caso. "Guardiamola in positivo: l'errore è sostenere che tutto sia disinformazione", dice Quartapelle. "Dobbiamo distinguere cosa lo è da cosa non lo è, per poterla combattere. Questo episodio è l'occasione per discutere con serietà sull'argomento". Magi sottolinea il pericolo insito in ricerche pur animate, in linea di principio, da obiettivi condivisibili: "Il dossier confonde piani diversi, rischiando di creare liste di proscrizione che hanno coinvolto professionisti impegnati da anni per una informazione circostanziata sulla Russia. La stampa libera è uno dei punti di forza delle nostre democrazie. I bavagli, le pagelle di conformità, lasciamole a quei regimi che poco hanno di democratico".
Io, inserito nella lista nera da putiniano. Messo alla gogna da quei Dem filo Urss. Gian Micalessin il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.
All'indice per il deputato del Pd Romano per un documentario del 2017 e per l'ingresso in Ucraina dalla Crimea. Senza senso.
Cari lettori, mi hanno scoperto, sono uno vergognoso putiniano e merito la gogna. O peggio. La gogna già c'è. L'ha allestita martedì in una sala del Parlamento il deputato dem Andrea Romano presentando con toni da Prefetto della Santa Inquisizione la ricerca Disinformazione sul conflitto russo ucraino preparato dalla Fondazione Diritti Umani e da una Fondazione Open, emanazione del filantropo George Soros. La «ricerca» sarebbe irrilevante se non fosse lesiva dei più elementari principi sulla libertà d'espressione e d'opinione. Le sue trenta paginette, degne più di un'aula delle elementari che non della Camera, si limitano ad elencare alcuni «virgolettati» sul conflitto in Ucraina attribuiti a una ventina fra giornalisti, commentatori e ricercatori protagonisti di cronache o programmi televisivi. Tra questi spiccano non solo il nome del corrispondente Rai da Mosca Marc Innaro, dell'inviato Mediaset Toni Capuozzo e dell'abusato professor Alessandro Orsini, ma persino quello del regista Usa Oliver Stone colpevole di aver intervistato Vladimir Putin. Poi c'è il dossier a mio nome.
La mia prima macchia è un documentario, poco gradito a Kiev, messo in onda nel 2017 dal programma di Nicola Porro Quarta Repubblica. In quel documentario alcuni militanti georgiani, mai pagati per i loro servizi criminali, mi confessano di essere i veri esecutori della strage di dimostranti del febbraio 2014 attribuita alla polizia di Viktor Janukovich. Una strage che portò alla cacciata del presidente filo-russo e all'instaurazione di un governo allineato con Usa e Ue. Per gli autori della ricerca fanno testo solo le tesi ucraine che, guarda caso, liquidano come false le confessioni dei cecchini georgiani. Ovviamente il tutto omettendo la regola fondamentale dell'informazione che impone di sentire i diretti interessati, ovvero il sottoscritto. Se l'avessero fatto avrebbero scoperto che prima di trasformarmi in presunto putiniano ho iniziato la mia carriera seguendo, fin dal 1983, i mujaheddin afghani in lotta con i sovietici. E che in Afghanistan sono tornato con i marines statunitensi e con i soldati italiani per raccontare la guerra della Nato ai talebani. E magari avrei potuto aggiungervi i reportage in Cecenia dove nel 1994 prima e nel 2000, quando a Mosca c'era già Putin, seguii le imprese dei ribelli anti russi.
Ma per la nuova Santa Inquisizione filo-Kiev questi trascorsi contano poco rispetto alle mie colpe attuali. Il 16 marzo scorso dopo aver realizzato uno dei primi servizi nelle zone occupate dai russi, ho venduto il servizio al Tg1 ignorando, a detta dei miei detrattori, che entrare in Ucraina dalla Crimea occupata «rappresenterebbe una violazione della legislazione ucraina». Una logica assolutamente becera in base alla quale anche in Afghanistan e in Cecenia avrei dovuto tener conto dei divieti di Mosca ai giornalisti stranieri. E ancor più becero è il silenzio sui contenuti del servizio da Melitopol in cui davo voce agli abitanti pronti a condannare l'invasione russa. Stessa logica strumentale utilizzata per mettere alla berlina la cronaca da Donetsk in cui, a maggio, ricordavo i sentimenti della popolazione delle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Donetsk decisi a pretendere l'esecuzione dei militanti del Reggimento Azov protagonisti, dal 2014 al 2022, di una dura repressione degli esponenti filorussi.
Ma non c'è da stupirsi. Come spiega l'«inquisitore» Andrea Romano: «Un conto è il pluralismo e la libera circolazione delle idee... un altro il trattamento paritario di ogni opinione». Come dire le tue idee valgono solo se identiche alle mie. Un pensiero non degno, forse, di Voltaire, ma ben in linea con le regole di un'Urss dove i dissidenti si curavano in manicomio. Un'Urss di cui molti compagni di quel Pd in cui milita Romano hanno negato per decenni i crimini.
Le citazioni possibili – Capuozzo e il grano dal Canada. Per non parlar del ferro...Michelangelo Coltelli il 30 Giuno 2022 su butac.it
Ci avete segnalato una citazione che sta diventando molto virale online, lo sta diventando grazie al soggetto che si dice l’abbia pronunciata: Toni Capuozzo, nel meme indicato come Tony.
Il meme con la citazione è questo:
La frase ve la riporto anche in formato testuale, per chi fatichi a leggere il meme da device:
Vi stanno facendo credere che arriva tutto dall’Ucraina; grano, gas, ferro, petrolio, concimi, semenze, tutto il mondo ne dipende.
-Prendiamo come esempio il grano, fin’ora è sempre arrivato da Canada.
Cari amici tutto questo gioco, serve solo a far aumentare i prezzi e far fallire e svendere quel poco che c’è rimasto in l’Italia.
Ma voi non ci arrivate.
Ma in realtà, se cerchiamo la frase specifica online, ci accorgiamo che il primo ad averla riportata in rete nell’ultimo mese è un normale utente di Facebook che l’ha condivisa unita a un altro meme, sempre con la faccia di Tony Capuozzo:
Prima di lui, sempre virgolettata, e con qualche mancanza, ma senza firma, l’aveva riportata l’utente Twitter Sabrina F. @itsmeback_ che aveva scritto questo post il 29 maggio 2022:
Ma non ho trovato a oggi alcuna evidenza che la frase di sopra sia stata detta da Capuozzo, e onestamente, vista la parte sul grano, vorrei ben sperare che un giornalista con l’esperienza che ha lui non possa cadere in una frase così superficiale e mal documentata.
Prendiamo come esempio il grano, fin’ora è sempre arrivato da Canada
Solo chi ignora i fatti può scrivere quanto sopra, e per verificare il dato basta cercare in pochi secondi su un qualsiasi motore di ricerca “l’Italia importa grano? E da dove?” Due domande a cui in parte rispondeva Il Fatto Alimentare, con un articolo del 2013 dove riportavano che:
Il nostro Paese è il principale produttore di grano duro al mondo insieme al Canada. Però circa il 50% della nostra produzione di pasta viene esportata, ed è una voce importante della bilancia commerciale. Per quanto riguarda il grano tenero ne importiamo soprattutto dalla Francia, anche se negli ultimi anni sono aumentati gli arrivi da paesi dell’Est che fanno parte dell’Unione Europea (Ungheria, Romania, Polonia) – ma anche dalla Russia. Questi Paesi rappresentano complessivamente il 25/30% delle esportazioni mondiali.
Sia chiaro, con questo non vogliamo fare l’errore di Carlo Calenda che sosteneva qualche mese fa che dall’Ucraina e dalla Russia arrivasse il 30% delle importazioni di grano, anche questo non è affatto vero. Come riportato da Pagella Politica su dati Istat elaborati da ISMEA:
L’anno scorso il nostro Paese ha infatti importato poco più di 96 mila tonnellate di grano tenero dalla Russia e circa 122 mila dall’Ucraina: messi insieme, fanno il 3,2 per cento di tutto il grano tenero importato nel 2021 dall’Italia. La percentuale scende se si guarda al commercio del grano duro: l’anno scorso l’Italia ne ha importato zero tonnellate dall’Ucraina e oltre 57 mila tonnellate dalla Russia, il 2,5 per cento sul totale. Mettendo insieme grano duro e quello tenero, il peso dei due Paesi in guerra sulle importazioni italiane è di circa il 4 per cento, una percentuale molto più bassa del «30 per cento» indicato dal leader di Azione.
Quindi è vero che l’Italia dall’Ucraina non importa molto grano, ma sempre Pagella Politica spiegava che:
Il ruolo marginale di Russia e Ucraina, per quanto riguarda il commercio di grano con il nostro Paese, è stato sottolineato anche da Ismea il 9 marzo, in un’analisi sugli attuali scambi commerciali sui cereali a livello internazionale. La stessa Ismea ha però evidenziato (pag. 3) come Russia e Ucraina abbiano un grande peso sul commercio internazionale di grano e come la guerra tra questi due Paesi possa influenzare al rialzo il prezzo di questa materia prima.
Russia e Ucraina rappresentano infatti rispettivamente il 21 per cento e il 10 per cento di tutte le esportazioni globali di grano tenero, che tra il 2018 e il 2020 hanno avuto un valore complessivo di quasi 178 milioni di tonnellate (cifra 15 volte superiore all’export globale del grano duro).
Detto ciò, a noi interessava verificare se Capuozzo avesse mai riportato quella frase nella sua interezza, e durante le nostre ricerche non ne abbiamo trovato traccia. Tuttavia non possiamo esser certi che non l’abbia detta in una delle sue infinite comparsate in TV, quello che però possiamo certificare è che dall’Ucraina importiamo svariate cose, alcune più di altre, come potete vedere in questa tabella realizzata da InfoMercatiEsteri sulla base di dati ISTAT:
Se guardate il dato Prodotti in metallo vi accorgete di come quella voce da sola rappresenti i due terzi delle importazioni dal Paese, ulteriore segno che chi ha detto il virgolettato resta persona poco informata, che sia o meno Toni Capuozzo.
Non possiamo aggiungere altro.
Ultima follia alla Camera: il convegno filo-putiniano. Pasquale Napolitano il 29 Giugno 2022 su Il Giornale.
Montecitorio ospita il dibattito "Guerra e pace": "L'invasione russa è solo un'operazione speciale"
La Camera dei deputati apre le porte agli «amici di Putin». Appuntamento per il 6 luglio prossimo. Alle ore 18, tutti precettati: la sala stampa di Montecitorio ospiterà il dibattito «Guerra e Pace». Titolo innocuo, se non fosse per il testo che accompagna l'invito all'evento. Alcuni passaggi del testo sono emblematici: «A oltre quattro mesi dall'inizio dell'operazione speciale militare in Ucraina secondo la versione russa o invasione secondo la speculare versione euroatlantica cominciano a emergere le prime avvisaglie di una frattura all'interno del cosiddetto fronte occidentale che si riflette nelle società civili dei vari paesi europei». E dunque, per i promotori dell'incontro, ospitato in Parlamento, l'invasione russa viene derubricata a «speculare versione euroatlantica».
Scorrendo l'elenco dei relatori spuntano i nomi di tre parlamentari che in questi mesi hanno sostenuto le ragioni del Cremlino. La senatrice Bianca Laura Granato, che durante le comunicazioni del premier Draghi, prima del vertice europeo, ha attaccato frontalmente la posizione pro-Ucraina del governo. Andando avanti, ecco il nome di Pino Cabras, deputato del Gruppo Misto-Alternativa, da sempre critico rispetto alla linea Nato. E poi il terzo parlamentare è Jessica Costanzo (Italexit), altra voce critica sulla difesa dell'Ucraina. A introdurre i lavori sarà Tiberio Graziani, esperto di geopolitica ed economia internazionale, presidente di Vision and Global Trends-International Institute for Global Analyses, piattaforma internazionale impegnata a promuovere il dialogo tra le civiltà e a monitorare le dinamiche legate ai processi di globalizzazione.
L'incontro-dibattito diventa un processo alla scelta dell'esecutivo guidato da Mario Draghi di schierarsi dalla parte dell'Ucraina nel conflitto. Posizione ribadita in un altro passaggio del testo che fa da cornice all'invito: «Le scelte a favore di una guerra di resistenza senza se e senza ma sostenute dal governo e dal Parlamento, in assenza di una libera e pubblica valutazione e sulla base del semplicistico schema aggredito-aggressore, che non tiene conto della guerra del Donbass iniziata otto anni fa, siano state influenzate dagli interessi della Nato, dell'amministrazione Biden anziché dagli interessi concreti del Paese». C'è chi etichetta l'evento come propaganda russa. Ma per i promotori è semplice confronto. Un dibattito che arriva dopo le polemiche per le famose liste dei putiniani. E che ora rischia di innescare nuove tensioni tra filo russi e filo ucraini. Intanto, nella giornata di ieri, il presidente del Copasir, Adolfo Urso ha rilanciato l'allarme sui rischi di infiltrazione cinese e russa nell'opinione pubblica italiana: «Siamo consapevoli che l'Italia appare più vulnerabile per quanto riguarda la disinformazione e la manipolazione anche perché è un Paese di frontiera rispetto alla potenza russa e alla penetrazione cinese e anche perché siamo un target loro».
Mario Gerevini per “L’Economia – Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.
Il patriarca Kirill, la moglie dell'ex primo ministro Medvedev, la conduttrice della tv di Stato Nailya Asker-Zade e altri dirigenti russi di altissimo livello hanno viaggiato con lussuosi jet privati che partivano dagli hangar di una piccola e apparentemente insignificante società di San Marino.
La sconosciuta Skyline Aviation, sede in via Consiglio dei Sessanta 99 (10 minuti dalla Rocca, 20 da Rimini), con il suo Gulfstream G450 da 40 milioni e i suoi 3 Bombardier è finita a sorpresa nel mirino del dipartimento del Tesoro americano che dà la caccia ai patrimoni degli oligarchi più vicini al Cremlino.
Poche burocratiche righe ufficiali affogate tra centinaia di nomi nel lungo dossier del 2 giugno che sancisce una nuova «stretta» di Biden sui russi. Al di là degli effetti pratici limitati (il provvedimento del Tesoro di Washington colpisce beni e transazioni solo sul territorio americano) il messaggio è chiaro: colpiamo a 360 gradi.
Sullo sfondo si intravede una storia ancora poco nitida nella quale il ruolo di Skyline sarebbe quello di una società di copertura, in mezzo alla Romagna, della grande banca pubblica russa Vtb, da vent' anni feudo incontrastato di un putiniano di ferro (e per questo plurisanzionato), Andrej Kostin.
Il rapporto Usa
Gli americani hanno inserito nella lista nera Skyline Aviation per i suoi voli in Crimea e in Ucraina identificando in particolare un aeromobile con sigla T7-OKY. La società sammarinese, oltre a gestirlo, avrebbe anche un interesse nella proprietà.
Uno schema proprietario in base al quale jet controllati da Vtb Bank sono finiti a società offshore del capo dello staff dell'amministratore delegato Kostin. E sarebbe proprio questo collaboratore strettissimo di Kostin, di cui non viene fatto il nome, a gestire ancora i jet privati attraverso Skyline. Kostin e Vtb sono già stati colpiti dalle sanzioni e ora tocca alla collegata Skyline e all'aereo T7-OKY, evidentemente considerati beni riconducibili, seppure indirettamente, a loro.
Proviamo a capirci di più. Innanzitutto: perché a Mosca nel 2016 decidono di creare una compagnia aerea privata proprio nel microstato? Poche tasse, pratiche rapide e una certa anacronistica riservatezza (i soci delle aziende sammarinesi non sono pubblici) aiutano, soprattutto se la diplomazia ha seminato.
L'asse con la Russia si era fatto molto stretto negli ultimi anni, culminando con la visita nel 2019 del ministro degli esteri Sergej Lavrov, atterrato con un aereo di Stato a Rimini il 20 marzo e ripartito il mattino del 21 marzo dopo i festeggiamenti in Romagna dei suoi 69 anni. Dalla Russia è poi arrivato Sputnik che ha vaccinato gran parte dei 33 mila sammarinesi.
La licenza della Rocca
L'aggressione all'Ucraina ha rotto la luna di miele con Putin. San Marino, rinunciando come la Svizzera alla sua storica neutralità, ha appoggiato le sanzioni finendo nella lista nera di Mosca. E nell'organigramma della rete diplomatica è stato cancellato Vladimir Lisin, l'industriale dell'acciaio moscovita, dal 2002 console onorario di San Marino in Russia.
La Skyline aveva ricevuto sei anni fa dall'Autorità per l'aviazione civile di San Marino il Coa (certificato di operatore aereo) cioè la licenza per tutto il mondo al trasporto aereo non di linea di passeggeri, con il prefisso nazionale di registrazione «T7».
La sede è allo stesso domicilio dell'Autorità per l'aviazione di San Marino. Skyline risulta però oggi in liquidazione con licenza sospesa. L'uomo che l'ha gestita per anni, Oleg Gurov, un russo di 54 anni, dallo scorso novembre è il liquidatore. Non è chiaro che fine abbiano fatto nel frattempo i cinque aerei: un Bombardier Global Express (45 milioni di dollari, 950 km/h, 11mila km di autonomia, fino a 19 passeggeri), altri due business jet della stessa famiglia, ma con prestazioni leggermente inferiori e il Gulfstream G450 da 40 milioni che può trasportare da 14 a 19 passeggeri a oltre 900 km/h per oltre 6mila km.
I viaggi del patriarca
Su questo lussuoso jet con «targa» T7-ZZZ ha viaggiato più volte il patriarca di Mosca Kirill. Così raccontavano le inchieste condotte negli anni scorsi dal blogger russo Alexei Navalny , in carcere dal 2021, e da altri siti russi di informazione libera, secondo i quali i registri di viaggio venivano manipolati.
Ma incrociando i tracciati dei voli con i movimenti ufficiali di vari esponenti della nomenclatura russa, è stato appurato, per esempio, che il Gulfstream T7-ZZZ il 25 agosto 2017 era a Kurgan, a pochi metri da Kirill, quando l'arcivescovo ortodosso arrivò nella città della Russia siberiana per una sua visita ufficiale. Non sarebbe stato l'unico volo del patriarca sul lussuoso jet.
Secondo la Chiesa ortodossa i responsabili di questi servizi sono mecenati privati. Secondo altre fonti, lo stesso aeromobile è stato utilizzato anche dall'ex capo di stato maggiore del Cremlino Sergey Ivanov, dal vice primo ministro Yuri Trutnev, dal fiduciario di Putin, Nikolai Tsukanov e da diversi alti funzionari.
Sui Bombardier della compagnia sammarinese Skyline hanno viaggiato, invece, Svetlana Medvedeva, moglie dell'ex primo ministro Dmitry Medvedev e la giornalista televisiva Nailya Asker-Zade che da anni avrebbe una relazione con il numero uno di Vtb Bank, Kostin. Servizi privati offerti con il denaro della banca pubblica? In realtà non è chiaro di chi sia Skyline anche se per gli americani c'è un collegamento con Vtb.
Però il liquidatore Oleg Gurov risulta essere direttore anche di un'altra compagnia, la russa Business Aero che utilizzava veivoli di proprietà della Vtb. E chi è uno dei due azionisti della Business Aero? Alexander Vorontsov, capo dello staff di Kostin. Tra l'altro Skyline e Business Aero utilizzano lo stesso server di posta. Quindi Skyline anche se non ha un rapporto diretto, trasparente e ufficiale con Vtb è direttamente collegata a una società russa del capo dello staff di Kostin. E con i suoi aerei ha scarrozzato per anni a 7mila euro all'ora i fortunati appartenenti al cerchio magico del potere del Cremlino, e dintorni.
Chi pensa male di Mosca? Sondaggio sulla Russia di Putin: nelle democrazie è vista in modo negativo, nei paesi autoritari no. Enrico Franceschini su La Repubblica il 30 maggio 2022.
Le democrazie hanno una cattiva opinione della Russia di Putin. I paesi autoritari hanno un’opinione positiva della Russia di Putin. Ce lo si poteva aspettare, ma questa divaricazione dell’opinione pubblica mondiale è ora confermata da un ampio sondaggio citato stamane dal Guardian di Londra. Utile soprattutto a chi, nei paesi democratici occidentali, davanti alla guerra in Ucraina parteggia per Mosca: adesso può sapere con certezza chi gli fa compagnia a livello globale.
Nel rilevamento statistico condotto dalla think tank Alliance for Democracies risulta che in Europa il 55 per cento della popolazione è a favore di rompere le relazioni economiche con la Russia come ritorsione per l’invasione dell’Ucraina decisa da Vladimir Putin. In Asia, viceversa, la maggioranza degli interpellati sono contrari a rompere i legami con Mosca a causa della guerra contro Kiev. E in America Latina i pareri sono sostanzialmente divisi a metà.
Una visione negativa della Russia di Putin, secondo il sondaggio, è limitata ai paesi europei, agli Stati Uniti e alle altre democrazie liberali della terra. Una visione positiva della Russia di Putin è rimasta, a dispetto della guerra, in Cina, Indonesia, Egitto, Vietnam, Algeria, Marocco, Malesia, Pakistan e Arabia Saudita: sono questi i “compagni di strada” di coloro che in Italia e in altri paesi occidentali simpatizzano con Mosca.
Il Cremlino può usare il sondaggio per sottolineare che non è vero che tutto il mondo è schierato con l’Ucraina. L’Occidente può usarlo per dimostrare che le democrazie stanno con Kiev, i paesi autocratici o scarsamente democratici stanno con Mosca. Le nazioni dove emerge maggiormente la critica verso Putin sono Polonia (87 per cento di opinioni negative verso la Russia odierna), Portogallo (79 per cento), Svezia (77), Italia e Regno Unito (65), Usa e Germania (62).
Da notare che in varie parti del mondo un’opinione favorevole a mantenere relazioni economiche con la Russia non impedisce di provare solidarietà per l’Ucraina. La maggioranza degli interpellati in Asia e in America Latina, per esempio, afferma che la Nato dovrebbe fare di più per aiutare Kiev. In America Latina, il 62 per cento pensa che la Nato abbia fatto troppo poco per l’Ucraina. In Europa, il 43 per cento pensa che la Nato abbia fatto troppo poco per Kiev e l’11 per cento pensa invece che abbia fatto troppo. In Cina, il 34 per cento ritiene che la Nato abbia fatto troppo. A livello globale, quasi metà degli interpellati, il 46 per cento, afferma che la Nato non ha fatto abbastanza per l’Ucraina e l’11 per cento che ha fatto troppo.
Le opinioni negative sulla Cina non sono diffuse come quelle sulla Russia. I britannici sono il popolo più disposto a tagliare i legami con Pechino se la Cina invadesse Taiwan.
Jacopo Iacoboni per lastampa.it il 27 maggio 2022.
«Quali investimenti personali hanno [Berlusconi e Putin], che possono guidare le loro scelte in politica estera?». La domanda fu girata nel novembre del 2010 dal Dipartimento di Stato, allora guidato da Hillary Clinton, all’ambasciata americana a Roma.
Gli americani erano (e rimarranno) convinti che il rapporto tra Silvio Berlusconi e Vladimir Putin non fosse politico ma di affari, che tra Silvio e Vladimir ci sia stato qualcosa di più che gli innocenti regali come il celebre lettone di Putin.
Come che sia, fu una stagione perigliosa e oscura. Il cui interesse si riaccende ora, nel pieno dell’aggressione della Russia all’Ucraina, e con le esternazioni filoputiniane del Cavaliere curiosamente riemerse.
Nel 2008 l’ambasciatore americano in Italia, Ronald Spogli, in un cablo spedito al Dipartimento di Stato e alla Cia, e rivelato dalla Wikileaks di allora, riferiva a Washington che la natura del rapporto tra Berlusconi e Putin era «difficile da determinare»: «Berlusconi ammira lo stile di governo macho, deciso e autoritario di Putin, che il premier italiano crede corrisponda al suo. (…)
L’ambasciatore georgiano a Roma ci ha detto che il governo della Georgia ritiene che Putin abbia promesso a Berlusconi una percentuale dei profitti da eventuali condotte sviluppate da Gazprom in coordinamento con Eni».
Il Cavaliere, l’unica volta che rispose, per iscritto, negò tutto. L’ambasciatore georgiano non smentì mai.
Di sicuro sotto Berlusconi l’Eni diventa – da prima grande azienda pubblica italiana – una specie di cavalleria del re nei settori di gas e petrolio.
C’è soprattutto una storia, che tantissimi osservatori e commissioni parlamentari giudicarono opaca: nel maggio del 2005 Eni firma un accordo che avrebbe consentito a Gazprom Export di rivendere gas russo direttamente ai consumatori italiani.
La storia finisce nel 2008 anche all’attenzione della Commissione europea.
Una commissione parlamentare italiana aveva scoperto diverse gravi opacità, ricostruite così nel 2008 in un saggio di Roman Kupchinsky per «Eurasia Daily Monitor»: una società viennese, Central Energy Italian Gas Holding (Ceigh) – parte di un gruppo più grande, Centrex Group – avrebbe dovuto avere un ruolo importante in quel lucrativo accordo Russia-Italia.
Questa Central Energy Italian Gas Holding era controllata al 41,6 per cento da Centrex e da Gas AG, al 25 per cento da Zmb (la sussidiaria tedesca di Gazprom Export, ossia in pratica da Mosca), e al 33 per cento da due società milanesi, Hexagon Prima e Hexagon Seconda, registrate allo stesso indirizzo di Milano, e intestate a Bruno Mentasti Granelli, l’ex patron di San Pellegrino.
Circolò allora una battuta, in Eni. «Che c’entra Mentasti col gas?». «Beh, con l’acqua gasata sempre di gas si tratta, in fondo». Il saggio di Kupchinsky trasformò la cosa in uno scandalo internazionale.
L’accordo con Centrex fu cancellato. Ve ne furono altri? Ci furono rumor di un giacimento di gas kazako direttamente controllato dal Cavaliere. «Assolute sciocchezze», replicò lui.
Forse il vero uomo del Cavaliere a Mosca non è stato tanto Valentino Valentini, che certo andava e veniva da Mosca, quanto il trasversale banchiere Antonio Fallico, e Angelo Codignoni, uomo di Silvio nei media in Russia, praticamente quello che istruisce Yuri Kovalchuk, oligarca putiniano e azionista principale di Bank Rossiya, su come creare l’impero tv del Cremlino: quello dal quale oggi i vari Vladimir Solovyov, Margarita Simonyan, Olga Skabeyeva, fanno ogni sera la loro propaganda bellica più scatenata contro l’Ucraina e l’Occidente.
Fallico ha raccontato a Catherine Belton nel suo strepitoso libro “Putin’s People” che Berlusconi faceva parte già negli anni ottanta del network economico e di influenza sovietico.
Fu grazie a questo che i film Fininvest conquistarono un assai profittevole spazio in prime time sulla tv di stato russa fin da allora.
Il banchiere narrò anche, a La Sicilia, che «negli anni 1986-88 Berlusconi, che aveva una sua casa editrice, Silvio Berlusconi editore, mi ha contattato perché interessato ad allargare le sue attività economiche anche nel mondo sovietico. Così diventai consulente di Fininvest.
Quando nel 2004 aprimmo a Mosca la nostra sussidiaria, Zao Banca Intesa, Berlusconi ci fece la gradita sorpresa di presenziare all’inaugurazione insieme al premier russo di allora, Mikhail Fradkov».
Legami che insomma arrivano da lontano e furono solo riattivati, negli anni delle trattative energetiche con Putin che allarmarono gli americani e la Cia.
È accertato che fu il Cavaliere a sostituire alla guida dell’Eni Vittorio Mincato, che obiettava sulla vicenda Centrex, con Paolo Scaroni. I contratti tra Gazprom e Italia diventano trentennali. Nel novembre 2008 Berlusconi a Mosca aveva incontrato il presidente russo, che allora era Dmitry Medvedev, e sottoscritto anche un accordo che prevedeva la costruzione di reattori nucleari di terza e quarta generazione in Italia (la cosa poi naufragò).
L’energia era tutto, per la relazione Berlusconi-Putin. Ma anche il divertimento, il real estate, le vacanze. Le figlie di Putin, “Katya” e “Masha”, furono in vacanza a Porto Rotondo assieme a Barbara, la figlia più giovane di Berlusconi, nel 2022: lo stesso anno in cui Berlusconi vanta gli accordi, a suo dire epocali, di Pratica di mare. Lanno dopo, nel 2003, arrivò a Villa Certosa Putin stesso, con foto ormai celebri (indimenticabili anche quelle di Berlusconi col colbacco a Sochi).
Sono gli anni in cui la Costa Smeralda diventa un paradiso per oligarchi russi, Alisher Usmanov, che a un certo punto voleva anche comprare il Milan, di certo compra sette ville fantastiche (un paio oggi sequestrate da Mario Draghi), Roman Abramovich, che ancora nell’agosto 2012 vara il suo nuovo megayacht Solaris a Olbia, e andava alle feste da Berlusconi in cui Mariano Apicella stornellava Oci Ciornie, Oleg Deripaska, Vasily Anisimov, al quale vendette Villa Tulipano a Porto Cervo (Veronica Lario vendette invece Villa Minerva al re russo della vodka, Tariko Roustam), fino alle feste a Villa Violina di Usmanov, dove nel 2012 cantò anche Sting, forse per la sorella di Putin.
Con una mano cantava “Russians”, con l’altra suonava per i russians, simbolo di una stagione doppia e ambigua. Quasi tutti, oggi, sono sotto sanzioni, e non possono più mettere piede in Europa.
Cicchitto: «Berlusconi imbarazzante con se stesso a causa degli affari con Putin». Parla l’ex colonnello del Cav. «Se non ci trovassimo in questa situazione, con Draghi a Palazzo Chigi e Mattarella al Colle, saremmo di fronte a un disastro. Poi certo, il quadro sia nel centrodestra che nel centrosinistra è terrificante». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 25 maggio 2022.
Fabrizio Cicchitto, ex colonnello berlusconiano e ora presidente di Riformismo& Libertà, spiega che sulla guerra «Berlusconi è imbarazzante verso se stesso» e che da questo derivano tutti gli scontri in Forza Italia. «Gelmini è in un vicolo sempre più stretto – spiega ma anche dall’altra parte non sono messi meglio perché sulla guerra Lega e M5S sono inattendibili allo stesso modo».
Presidente Cicchitto, pensa che i dissidi in Forza Italia porteranno a una rottura nel partito?
Non sono il mago Otelma e non so come andrà a finire, ma dico che la situazione è paradossale. Tajani e Ronzulli hanno da sempre una corsia preferenziale verso Salvini, perché pensano che seguendolo riuscirebbe a far eleggere dai venti ai trenta amici loro. Quindi insistono nella vicinanza con la Lega a prescindere dal quadro internazionale, verso il quale peraltro Tajani dovrebbe essere sensibile, visti i ruoli che ha svolto in passato. Se a ciò aggiungiamo che in Lombardia, regione importantissima e peraltro luogo d’origine della Gelmini, la gestione del partito viene affidata a Ronzulli, ecco che Gelmini si ritrova in un vicolo molto stretto. Dopodiché c’è un problema politico di collocazione internazionale.
Cioè?
Forza Italia è nata sul rapporto con il Ppe, con gli Usa e con l’Ue, non su quello con Putin. Se c’è qualcuno che pensa di aggregare una maggioranza contro l’Europa, vedi le ultime battute di Salvini, non ha capito in che mondo viviamo.
Da dove arrivano tutti questi problemi di Forza Italia?
I problemi in Forza Italia derivano da due fattori: gli automatismi psicologici che scattano in Berlusconi quando parla di Putin, dovuti a pregressi rapporti sia di affari che personali; dal rapporto di Tajani e Ronzulli con Salvini, che è l’inattendibilità fatta a persona. Non mi sento di fare previsioni di nessun tipo su un eventuale rottura nel partito, ma aggiungo che sarebbe vitale per l’Italia una legge proporzionale.
A proposito di questo, pensa che si riuscirà a cambiare la legge elettorale?
Non so se questo avverrà, ma viste le differenze esistenti tra i partiti sia nel centrodestra che nel centrosinistra, una legge proporzionale darebbe margini alla mediazione politica. Se invece prevalgono tendenze maggioritarie il rischio è che nel 2023, messo da parte Draghi, tutta Europa vedrebbe in quale realtà disastrosa vive l’Italia. Andremmo allo sbando sia rispetto alle politiche europee che rispetto alla politica estera. Draghi ha dato rispettabilità internazionale all’Italia e una relativa stabilità interna.
«Stabilità interna», con tutte queste polemiche tra i partiti di maggioranza?
Innanzitutto occorre dire che dobbiamo a tre fattori, cioè al Signore, all’entourage di Mattarella e a Renzi, se oggi ci troviamo nella situazione ottimale, cioè con Mattarella presidente della Repubblica e Draghi presidente del Consiglio. Se non ci trovassimo in questa situazione saremmo di fronte a un disastro. Poi certo, il quadro sia nel centrodestra che nel centrosinistra è terrificante.
Ce lo descrive?
Quando sarà tolto di mezzo Draghi, cioè probabilmente al termine della legislatura, entrambe le coalizioni mostreranno il proprio livello di inattendibilità. Solo in Italia con una pandemia ancora in corso e una guerra ai nostri confini si discute dei balneari. Ma il punto decisivo è la politica estera. Nel centrosinistra, sulla linea atlantica c’è una buona parte del Pd più Calenda, Bonino e Renzi. Ma non c’è il M5S. Quando leggo che Zingaretti, che è un buon presidente di Regione, dice che l’alleanza strategica è quella con il M5S, evidentemente reputa poco importante ciò che sta accadendo e prevalenti i minimi fatti di casa.
Eppure il M5S, pur avendo una posizione diversa da quella di Draghi, ha sempre garantito il proprio sostegno in Aula.
La Russia sta alzando il tiro e di fronte a questo il M5S dice che abbiamo già dato abbastanza, quando tra l’altro le cifre sugli aiuti militari forniti ci collocano quasi all’ultimo posto nel mondo. Per fortuna ci sono Usa e Gb. Quando Conte dice di eliminare gli aiuti militari, o è un cretino o è amico di Putin. Ai posteri l’ardua sentenza. A fronte ovviamente di un Enrico Letta che ha assunto una posizione netta.
Nel centrodestra ci sono posizioni ancora più diversificate, che ne pensa?
Nel centrodestra la situazione è raccapricciante. Per fortuna Meloni ha assunto una posizione chiara sul piano atlantico, ma va detto che la stessa Meloni, assieme a Salvini, ha dato il peggio sulla pandemia, contestando il green pass e, nel caso di Salvini, addirittura le mascherine e il distanziamento sociale, fino a cavalcare in parte i no vax. Sulla guerra, la Lega è inattendibile quanto il M5S, perché Salvini è un falso pacifista e un amico di Putin. Poi c’è Berlusconi.
E qui torniamo agli scontri di cui abbiamo parlato all’inizio.
Berlusconi è imbarazzante verso se stesso. Nei giorni pari è atlantista, nei giorni dispari filoputiniano. Sembra quasi che quando parla spontaneamente riemerga non solo la sua amicizia con Putin ma gli errori fatti nel gas. Quando sento parlare del gas da cercare in Algeria, ricordo che alle origini Enrico Mattei finanziò il fronte di liberazione nazionale algerino. Fino a una ventina di anni fa l’Eni importava dall’Algeria il 20 per cento del gas, poi con Scaroni, amico di Berlusconi, la cifra è arrivata al 10 per cento mentre il gas importato dalla Russia è arrivato al 38 per cento del nostro fabbisogno. È da qui che nascono tutti i problemi.
Quel malcelato putinismo di alcuni leader. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.
Com’è difficile trovare l’alba dentro l’imbrunire. Senza giri di parole, venerdì Silvio Berlusconi ha consigliato all’Ucraina di arrendersi: «Io credo che l’Europa unita deve fare una proposta di pace, cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin». Riferita a problemi così drammatici, la parola «domande» assume un suono grottesco.
La presa di posizione di Berlusconi (tardivamente corretta sabato) ha lasciato esterrefatti molti esponenti storici di Forza Italia. Giuliano Urbani, uno dei fondatori del partito, ha criticato duramente il filoputinismo del vecchio leader. «Berlusconi ha pronunciato quelle parole ambigue senz’altro per il rapporto di amicizia che lo lega ancora a Putin». Irritata anche Mariastella Gelmini: «Dannose le ambiguità pro Putin. Ci siamo chiamati in passato “Popolo della libertà”, per la quale gli ucraini stanno combattendo». A pensarla come Berlusconi è rimasta solo Licia Ronzulli. O viceversa.
Lasciamo perdere la vecchia amicizia e i racconti stravaganti sul lettone regalato da Putin, ma l’impressione è che il nuovo zar sia in credito di qualcosa, altrimenti non si spiegherebbe tanto malcelato putinismo da parte di alcuni leader italiani.
Anche nei momenti più tragici, il creditore è così premuroso da non lasciarti mai solo.
«Premesso che». Tutte le scuse dei filo putiniani per non condannare l’aggressione all’Ucraina. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 23 Maggio 2022.
Dalla guerra del Vietnam a Big Pharma, ecco l’elenco non lontano dalla realtà delle giustificazioni patetiche addotte da chi fa il gioco del Cremlino.
Premesso che. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che l’Occidente ha le sue colpe. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che la Nato è la continuazione armata della logica imperial-capitalista. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che gli americani hanno fatto la guerra in Vietnam.
Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che in Iraq non c’erano le armi chimiche. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che Israele occupa i Territori. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che negli Stati Uniti ci sono le cure mediche solo per i ricchi. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che Draghi stava alla Goldman Sachs. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che Zelensky ha la villa al Forte dei Marmi. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che c’è la deriva paleoliberista.
Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che c’è lo sfruttamento dei campesinos. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che c’è la deforestazione dell’Amazzonia. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che Big Pharma è tutta in mano agli ebrei, e anche Hollywood. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che c’era il malgoverno Dc. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che in Via Fani c’era la CIA.
Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che il padronato della finanza apolide vuole abolire lo statuto dei lavoratori. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che nell’acciaieria chissà cosa facevano e poi c’era il pronipote dell’estetista di Boris Johnson. Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che Joe Biden è un gran maleducato.
Premesso che la Russia ha aggredito l’Ucraina, resta che dopotutto non è mica una Repubblica democratica fondata sul lavoro e quindi andiamoci piano prima di dare giudizi.
Ora, premesso che sono stronzi, non farebbero prima a omettere la premessa e a dire che la guerra all’Ucraina è infine sacrosanta? Sarebbe meno complesso, diciamo.
I cavalieri del grande centro tra pacifismi e nemici. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.
Vi fanno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Li accomuna l’esibita devozione (intermittente nel caso di Salvini) nei confronti di Papa Francesco. Oltre a un’autentica passione per lo scostamento di bilancio, al non essere ossessionati dal rispetto delle regole europee (compresi gli impegni assunti con il Pnrr)
Le parole pronunciate da Silvio Berlusconi, tre giorni fa, all’uscita dal ristorante «Cicciotto a Marechiaro» davano un’innegabile sensazione di schiettezza. Maggiore, l’autenticità, di quella rintracciabile nelle declamazioni dello stesso Berlusconi il giorno successivo alla Mostra d’Oltremare. Fuori dal locale napoletano, l’ex presidente del Consiglio aveva detto in modo nitido che — fosse per lui — si dovrebbe smettere di dare armi all’Ucraina; che, qualora si decidesse di continuare a fornire armamenti alla resistenza antirussa, bisognerebbe farlo di nascosto; e che l’Europa dovrebbe impegnarsi a costringere Zelensky a prestare ascolto alle indicazioni che gli vengono da Putin. Una cosa, quest’ultima, che fin qui non aveva proposto neanche Vito Rosario Petrocelli.
L’indomani, alla convention di Forza Italia, Berlusconi è stato meno sorprendente limitandosi a rievocare la propria militanza atlantica risalente al 1948 (stavolta omettendo però ogni menzione di Putin). E a richiamare il rischio che l’Africa venga lasciata in mano ai cinesi. Senza tralasciare l’appello per un coordinamento militare comune della Ue. Evocazione, quella dell’«esercito europeo», alquanto diffusa nel discorso pubblico italiano, ad uso di chi intenda manifestare una qualche presa di distanze dagli Stati Uniti.
Berlusconi ovviamente non si è poi sentito in obbligo di rettificare quel che aveva detto all’uscita dalla trattoria. Parole venute dal cuore, pronunciate nella consapevolezza che avrebbero avuto la dirompenza di un missile piovuto dalla Russia sulla politica italiana. Con conseguenze fin d’ora ben individuabili.
L’allocuzione da «Cicciotto a Marechiaro» ha aperto la via per la nascita — all’insegna del no alle armi all’Ucraina — di un nuovo Grande Centro del quale faranno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Schieramento al quale Berlusconi porterà in dote l’ancoraggio al Partito popolare europeo. E che costituirà una sorta di approdo naturale per tre partiti anomali che hanno fatto la storia di questi trent’anni (Berlusconi più degli altri, quasi venti). M5S, Lega e Fi hanno all’attivo d’aver ottenuto, in fasi diverse del trentennio, alcuni ragguardevoli record di voti. Favorite (talvolta danneggiate) dalla presenza di leader impegnativi.
Tre formazioni che non hanno un’autentica parentela con la storia della Prima Repubblica. Né — eccezion fatta (forse) per Forza Italia — con i filoni tradizionali della politica europea. Tre partiti che nel corso della loro vita hanno dato prova di non essere refrattari ai cambiamenti di orizzonte, di strategia e di alleanze. Anche repentini. E che, per il motivo di cui si è appena detto, hanno come tallone d’Achille il non potersi fidare l’uno dell’altro. Li accomuna, però, l’esibita devozione (intermittente nel caso di Salvini) nei confronti di Papa Francesco. Oltre a un’autentica passione per lo scostamento di bilancio, al non essere ossessionati dal rispetto delle regole europee (compresi gli impegni assunti con il Piano nazionale di ripresa e resilienza). In politica estera, sono uniti da un’ostinata ricerca di orizzonti sempre nuovi. Ad est, s’intende.
Questo Grande Centro è già oggi largamente maggioritario in Parlamento. E, se rimarrà intatta la legge elettorale, al momento della composizione delle liste sarà determinante per entrambi gli schieramenti, centrodestra e centrosinistra. Ma, anche se si adottasse un sistema proporzionale, questo insieme di partiti, nelle nuove Camere, avrà quasi certamente i numeri per condizionare ogni possibile maggioranza. A meno che, nel Parlamento rinnovato, non si costituisca un asse tra Fratelli d’Italia, il partito di Enrico Letta e quelli di Centro. Un asse — però — assai improbabile.
Quanto a chi fa affidamento sulle potenziali secessioni dei Di Maio, Gelmini o Fedriga, va osservato che nelle retrovie della sinistra e dello stesso Pd si annidano truppe di dubbiosi pronte a rimpiazzare gli eventuali secessionisti ricongiungendosi al M5S nel nome dell’ostilità agli Stati Uniti e alla Nato. Truppe peraltro già ben visibili.
In attesa delle elezioni del 2023, si può notare che il minimo comun denominatore di questo Grande Centro, oltre alla quasi esibita antipatia per la causa di Kiev, è una ben individuabile avversione nei confronti di Mario Draghi nonché dell’attuale governo. Si intravedono dunque per l’esecutivo draghiano settimane, mesi di inferno: il percorso di qui alla fine della legislatura sarà disseminato di trappole e mine.
Unico particolare trascurato dai nuovi «partigiani della pace» è l’impegno atlantista di cui, negli ultimi tre mesi, ha dato prova il Capo dello Stato. Un impegno manifestato senza dubbi, incertezze, esitazioni. E che, proprio per questo, potrebbe riservare qualche sorpresa.
Giuliano Ferrara per “il Foglio” il 23 maggio 2022.
A Berlusconi Napoli fa male, gli dà letteralmente alla testa, lo rimbecillisce, lo mette in uno stato stuporoso e lo incita immancabilmente a dare di sé un’immagine molto giocosa, molto privata, e un tantino avventurosa.
Un conto però sono i giochi d’amore, le passioncelle, la mondanità cortigiana, i narcisismi maschili, storie rosa più o meno eleganti che appartengono al privato di un uomo pubblico e meriterebbero un trattamento meno scioccamente puritano di quello che continua a essergli riservato da requisitorie moralistiche in giudizio, intollerabili, un altro conto è la guerra, che ha cause e conseguenze diverse. Qui la cosa si fa seria, e persino seriosa, e bisogna fare attenzione, provare a dare il meglio e non il peggio di sé stessi, il che non è sempre facile ma si può almeno tentare.
Il leggendario Cav. si è impiastricciato in una dichiarazione di ambiente napoletano troppo goffa e leggera per essere annoverata tra le sue migliori, e stavolta il suo mentire sapendo di smentire (Vergassola) ha qualcosa di allarmante. So che è solo esuberanza e gusto della follia e della scanzonata libido comunicandi. Una volta mi chiamò Boris Johnson, giornalista anche lui zuzzurellone per lo Spectator, per chiedermi un contatto con il presidente. Perché no?
Gli diedi il numero. Ma subito feci il numero per avvertire il mio amato Berlusconi: guardi che BoJo, insieme con quell’altro tipo bizzarro, la incastrerà in una conversazione o intervista il cui scopo è épater les bourgeois, dare scandalo, faccia attenzione.
Stavolta in Sardegna, non a Napoli eccezionalmente, le cose andarono come dovevano ahimè andare, e ne risultò, dalla conversazione spericolata, un giudizio turistico sul confino dorato sotto il fascismo e sulle solite cose buone fatte da Mussolini, con altre amenità. Se avverti Berlusconi di stare attento, le cose possono andare peggio ancora che senza messe in guardia.
Naturalmente Berlusconi produce sempre un effetto verità, le sue gaffe sono la chiave della sua affidabilità come oracolo politico. Ha detto letteralmente che l’Europa deve convincere l’Ucraina a dare a Putin quello che chiede, ha parlato come un Travaglio qualsiasi, e ora lo sgabello glielo spolverano a lui. Ma ha anche riassunto, in breve, occamisticamente, tagliando i concetti col rasoio, quello che i pensatori cosiddetti “realisti” sostengono nel loro linguaggio sorvegliato e accademico, nel loro sopracciò.
La sproporzione di forza e il bisogno di rassicurazione mondiale sul terreno dell’economia e della stabilità sono tali, dicono i guru del realismo, che bisogna affrettarsi a trovare una via d’uscita per Putin, assecondando al tutto o in parte, meglio in parte, gli scopi di conquista territoriale e simbolica alla base della sua invasione di un paese di oltre quaranta milioni di abitanti, con le conseguenze che si conoscono a Bucha e a Mariupol.
Tolto il timbro geopolitico, andando all’osso come sempre fa il grande comunicatore, si arriva al risultato: dare a Putin quello che chiede, ecco che cosa deve cercare di fare l’occidente o almeno la sua parte venusiana, l’Europa. Il che è evidentemente una bestialità politica, un errore peggiore di ogni crimine.
E’ un peccato, oltre che una delusione. Berlusconi non si dovrebbe mai spingere più a sud di Pratica di Mare, luogo in cui sperimentò con abilità e con i suoi mezzi amicali di businessman abituato alla stretta di mano il tentativo legittimo di aiutare a costruire una situazione di sicurezza in ambito Nato alla quale fosse possibile associare in un modo o nell’altro la Russia.
In un’epoca che è mille epoche fa, prima della Crimea e del Donbas, forse anche in virtù del suo isolamento domestico e del blasone che gli apportava l’amicizia schröderiana con Putin, visto che Berlusconi non è l’unico businessman di stato, con la differenza che lui è businessman di mestiere e non un lobbista acquisito, aveva visto giusto. Poi si è spinto fino a Napoli.
Matteo Salvini difende Silvio Berlusconi e litiga con Mariastella Gelmini: “Dovrebbe contare prima di criticare”. Il Tempo il 22 maggio 2022
Stoccate a vicenda nel centrodestra, con ancora una volta Mariastella Gelmini protagonista. Dopo i problemi interni a Forza Italia è stato Matteo Salvini, leader della Lega, ad attaccare il ministro per gli Affari regionali e le autonomie, che ha definito ambiguo l’atteggiamento dell’ex presidente del Consiglio sulla guerra in Ucraina: “Prima di criticare Silvio Berlusconi qualcuno dovrebbe contare fino a cinque. Con tutto il rispetto Silvio Berlusconi è Silvio Berlusconi, con tutto quello che ha fatto nella vita. A uno può piacere o meno, ma lascia traccia nella storia del nostro Paese”.
La replica di Gelmini non si è fatta attendere: “Invito il segretario della Lega, Matteo Salvini, a rispettare il dibattito interno ad un partito che, per il momento, non è il suo. Ho posto in Forza Italia un tema di linea politica su una posizione che comprendo bene non sia quella di Salvini, ma che riguarda la collocazione europeista ed atlantista di Forza Italia. Un problema che evidentemente esiste, visto che per due volte il partito è dovuto intervenire a chiarire, a prescindere da me”. Le frizioni nel partito azzurro non sono state evidentemente ancora superate.
Da “Libero quotidiano” l'1 giugno 2022.
L'uscita del neopacifista Michele Santoro lascia tanto spiazzati che risulta complesso darle un titolo: "Incredibili convergenze"? O piuttosto, visto il momento, "Il bacio della morte"? Perché scoprire che il teletribuno si schiera al fianco di Matteo Salvini è cosa inedita e mica così esaltante.
«Sono solidale con lui», spiega Santoro in collegamento a "L'Aria che tira" su La7 dal "Capranichetta" di Roma dove, con altri promotori dell'iniziativa "Pace proibita", ha rilanciato il tema dell'informazione del servizio pubblico sulla guerra, dopo che già aveva "proposto" un «bombardamento sulla Rai» colpevole a suo dire di informazione a senso unico.
«Il povero Salvini ha spiegato Santoro non è mai stato massacrato così dal sistema politico per tutte le cacchiate che ha detto in carriera, e ora che ha cercato di fare qualcosa per andare incontro alla pace viene massacrato da tutti. Mancano solo i bombardamenti della Nato su Salvini», ha ironizzato mostrandosi capace di un trasformismo di alto livello. Santoro è infatti quello che, nel 2019, commentava così il caso immigrati della nave Mare Jonio: «Mi vergogno di essere italiano, mi vergogno di avere un Ministro dell'Interno che si chiama Matteo Salvini. Dovete arrestarlo. È un pericolo per la nostra democrazia». Arrivando perfino a difendere il disegnatore Vauro che sul suo sito aveva pubblicato, nell'encomiabile rubrica Zecca, il "manifesto" «Sette modi per uccidere Salvini».
Poroshenko: "A Salvini chiedo: nel 1939 quale leader di partito avrebbe incontrato Hitler?" Emanuele Lauria su La Repubblica il 2 giugno 2022.
L'ex presidente Ucraino da Rotterdam: "Con Draghi l'Italia ha abbandonato l'illusione di garantire la sicurezza Ue con un rapporto con Putin"
Benedice la linea dura di Biden e Johnson contro Putin, loda il governo di Mario Draghi per il sostegno allo status dell'Ucraina come Paese candidato a entrare nell'Ue e liquida Matteo Salvini che voleva volare a Mosca: "Gli domando solo una cosa: secondo lui, nel '39, Chamberlain avrebbe chiesto un incontro a Hitler?". Petro Poroshenko è l'imprenditore che ha guidato l'Ucraina prima di Zelenski: a Rotterdam è stato uno degli ospiti d'onore del congresso del Partito popolare europeo, che ieri si è concluso con l'intervento della presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen e con l'elezione dei vicepresidenti, fra cui il coordinatore di Fi Antonio Tajani.
Michele Santoro scatenato a Controcorrente. Botte da orbi con Federico Rampini: insulto agli ucraini. Federica Pascale su Il Tempo l'1 giugno 2022.
“Circa 100 giorni fa ho detto esattamente quello che sarebbe accaduto questa sera” afferma Michele Santoro dallo studio di Controcorrente, il talk show politico condotto da Veronica Gentili in prima serata su Rete4. Durante la puntata di mercoledì 1 giugno, il giornalista si è preso una rivincita spiegando che tutto ciò che sta accadendo oggi sul fronte della guerra in Ucraina, invasa dalla truppe russe di Vladimir Putin, andando allo scontro frontale con Federico Rampini del Corriere della sera.
“Di fronte alla superiorità dell'esercito russo sarebbero state inviate delle armi molto più efficaci per contrastare l'avanzata dei russi. Queste armi sarebbero state dei missili in grado di colpire anche in territorio russo. Questo avrebbe provocato un'escalation e a questo punto rischiamo veramente una catastrofe nucleare” riassume Santoro, che avverte: “Se questa mossa si rivelasse capace di arrestare Putin, e di portarlo sull'orlo di una sconfitta militare, diventerebbe veramente concreta la possibilità che lui usi un'arma nucleare tattica”. Questa la paura più grande in Europa, e meno negli Stati Uniti, che partecipano alle negoziazioni in corso, forniscono armi all’Ucraina ogni volta che il presidente ucraino Zelensky lo richiede, ma restano geograficamente lontani e più sereni rispetto a Paesi come l’Italia, troppo vicina per fare mosse azzardate.
A commentare la posizione dell’America c’è Rampini, presente in studio, che difende la superpotenza: “L'America fin dall'inizio ha detto che non avrebbe mandato soldati, e infatti non lo fa. Ha detto che non avrebbe fatto la no fly zone che Zelensky ha chiesto a oltranza, e Biden ha detto no perché non voglio rischiare”. Controbatte Santoro, che invece non è per niente convinto della buona fede degli americani: “Possiamo essere tranquilli che gli americani sono sul campo, se poi siano collegati in smart working questo non te lo posso dire, però sicuramente stanno partecipando direttamente alle azioni militari. Stanno puntando i cannoni e saranno loro a puntare i missili.” “La cosa grave – continua Santoro - è che lo faranno senza che noi abbiamo partecipato a queste decisioni, e ci troviamo in una guerra che sta già producendo miseria in una maniera sconsiderata per il mondo e che presto diventerà miseria anche per gran parte della popolazione italiana, creando un baratro tra la condizione dei privilegiati e la condizione di quelli che sono già stremati da due anni di pandemia”.
L’editorialista del Corriere della Sera corre a rispondere, sottolineando l’eroicità del popolo ucraino che non può essere ridotta a strumento degli Usa: “Tanti parlano di una guerra per procura ma per procura vuol dire che l'America sta usando gli ucraini, e questo trovo che è un argomento offensivo. È un insulto nei confronti di un popolo che eroicamente si batte per difendere la propria vita, la propria Patria, le proprie famiglie, la propria democrazia e la propria libertà. Descriverli come dei burattini dell'America francamente è una cosa disgustosa e rivoltante.”
Controcorrente, Maria Giovanna Maglie asfalta Michele Santoro: "Vi ricordate chi era? Quel forcaiolo..." su Libero Quotidiano il 03 giugno 2022
Maria Giovanna Maglie contro Michele Santoro. Il giornalista, ex volto Rai, ospite di Controcorrente si è lasciato andare a un lungo attacco contro la tv. Il motivo? L'informazione di parte. Il riferimento di Santoro è alla guerra in Ucraina. A suo dire "la fabbrica delle notizie sono i giornali e le televisioni. Alle undici di sera in tv arriva Santoro quando dalle sei e mezza del mattino c'è un massacro continuo che snocciola l'orrore sempre uguale".
L'ex conduttore di Annozero si scaglia contro i giornalisti italiani che non hanno spiegato ai telespettatori perché il commissario per i diritti umani dell'Ucraina, Lyudmila Denisova, è stata fatta dimettere dal presidente Volodymyr Zelensky. "Lo dico io" ha spiegato a Veronica Gentili: "Aveva parlato di stupri di massa sistematici da parte dell'esercito russo e detto che c'erano bambini violentati da pedofili, e ovviamente che l'esercito russo era composto quasi esclusivamente da pedofili. Bene, è stata liquidata perché ha detto un mare di balle".
E a chi come Giorgio La Porta, assistente del leghista Antonio Maria Rinaldi, elogia Santoro, la Maglie replica: "Non esageriamo a sperticarci in lodi. Sarà bene ricordare che TV faceva Santoro Faziosa. Propaganda. Forcaiola". La Porta aveva infatti scritto che "in pochi secondi Santoro ha massacrato la propaganda di Stato che qualcuno si ostina a chiamare informazione. Chissà perché abbiamo perso 17 posizioni in un anno nella classifica sulla libertà di stampa!! Io voglio Santoro in Rai".
Francesco Merlo per “la Repubblica” il 3 giugno 2022.
Matteo Salvini non andrà da Putin, ma forse lo vedremo con Antonio Ingroia, guest star alla festa del Fatto Quotidiano . E magari terrà pure una lectio magistralis alla Luiss, Dipartimento Semivip, introdotto da Alessandro Orsini, da Donatella Di Cesare e dal generale Fabio Mini.
Di sicuro, da quando è diventato l'idolo dei suoi nemici, Salvini, soprattutto nella Lega, non gode più del rispetto che l'Italia malandrina riserva al gabbamondo di talento, ma è assediato da quel dileggio del gabbato che si contagia e cresce per ammiccamenti, risolini, sdegni compiaciuti e stupori. Difeso, nientemeno, da Santoro e Travaglio, ha ceduto il dito medio ai fracassoni del vaffa. Ed è persino trattato come compagno di strada da Marco Rizzo, il segretario dei comunisti.
E non crediate che ci siamo convertiti pure noi alla satira perché davvero l'Italia ha perduto lo sciamannato leader del "sovranismo" e della "destra di popolo" e si ritrova il re dei Giufà e dei Bertoldo.
Il leader che diceva «castriamo gli stupratori e i pedofili» e «spariamo ai ladri» è finito truffato dall'avvocato napoletano Antonio Capuano che, altro che Fontana di Trevi!, gli ha venduto il Vaticano, il Papa, Parolin, il cattivissimo ministro degli Esteri russo Lavrov e ovviamente un piano di pace in quattro punti che «Francesco non benedice, ma lascia fare », «e anche Putin lo apprezza».
I nostri Conchita Sannino e Giuliano Foschini hanno raccontato che Salvini si è pure consegnato all'indimenticabile signora Francesca Immacolata Chaouqui, che con Capuano, contro Capuano, sotto e sopra Capuano, è la papessa della "banda della magliara", la stessa che portò Salvini in Polonia, proprio al confine con l'Ucraina, a farsi disprezzare dal sindaco di Przemysl che, rifiutando con sdegno la sua solidarietà, gli mostrò la maglietta con la faccia di Putin che lo stesso Salvini aveva indossato sulla Piazza Rossa: «Vieni che ti faccio un regalo».
Salvini balbettava nell'inglese basico che è la lingua del turismo: «Sorry, we are here for to help, sorry sorry».
Dunque adesso Chaouqui e Capuano, che in questa ciurma di finti pacifisti sono i soli professionisti, sia pure della finzione, due falsi autentici, due veri e dunque onestissimi truffatori, l'un contro l'altra si contendono Salvini.
Lei contro lui: «Guardate che per un leader della caratura di Matteo Salvini è facilissimo farsi ricevere da un ambasciatore di un qualsiasi paese, prendere un appuntamento. Non c'è bisogno mica di un mediatore ». Ma lui è orgoglioso dei quattro incontri, della cena «per la pace», e si vanta e racconta dettagli: «Fu l'ambasciatore Razov a chiedergli se se la sentiva di giocare la partita. E Matteo ha detto sì. Sono indignato per come viene trattato. Vuole portare la pace e lo massacrano».
E in tanti dicono che quest' ambasciatore russo Sergey Razov riesce ad essere misterioso a Roma, la città col cece in bocca, dove nessuno si tiene niente.
«Ma che misterioso», mi dicono i diplomatici italiani. «Il solo mistero è come mai, dopo ben nove anni da ambasciatore, non spiccichi una sola parola d'italiano. Chissà cosa capisce di lui Salvini e cosa lui capisce di Salvini».
E va detto che questa Russia di Roma, con la quale Salvini «rivendica» di avere fatto «incontri nell'esclusivo interesse della pace e nell'interesse nazionale italiano », non è quella del cupo Dostoevskij, ma quella grottesca e comica del Cechov dei primi racconti (Bur, traduzioni di Alfredo Polledro): il punto esclamativo, le esagerazioni, gli equivoci, le umoresche.
E quasi non sembra vero che anche al Lega di Salvini faccia la fine della Lega di Bossi, travolta dall'Italia delle truffe e delle apparenze borgesiane.
La vecchia Lega secessionista fu sepolta dagli scandali del familismo sgangherato del Bossi vecchio e malato, decaduta insieme al corpo dello sciamano che era stato duro e puro ma poi, politicamente imbalsamato, aveva trasformato il partito in una banda di terroni padani, avidi, corrotti e soprattutto ridicoli.
Adesso Salvini finisce "suonato" nella Roma di Francesca Immacolata Chaouqui, un circo di maggiordomi del Papa e di cardinali infedeli, con nomi affascinanti e felliniani che cito a memoria: dal cardinale Jean-Louis Tauran alla contessa Marisa Pinto Olori del Poggio, e poi la Fondazione "Messaggeri della Pace" e la Commissione Cosea che aveva l'incarico di riformare le finanze della Santa Sede.
A questi fantasmi dei Vatileaks bisogna aggiungere i russi di Roma, non solo le trenta spie che sono state espulse dal governo italiano, le tigri del Gru nei ristoranti attorno a Campo di Fiori, l'intelligence militare, il Kgb putiniano in pizzeria, il condominio sull'Aurelia antica, che aveva come modello il famigerato Hotel Metropol di Mosca, dove passò anche Savoini, il presidente della Associazione Lombardia-Russia, quello della famosa presunta stecca, fedelissimo prima di Bossi e Maroni e, infine e soprattutto, di Salvini.
E la Chaouqui introduce nuove figure in questo teatro: «La Lega ha uno staff dedicato alla politica estera, più che qualificato.
C'è gente come Lorenzo Fontana o Maria Giovanna Maglie, dei grandi professionisti che sono delegati al rapporto con le ambasciate. Non ne servono altre. Non ne servono!».
Neppure quell'altra eroina degli scandali vaticani Cecilia Marogna, che i giornali chiamano "la dama del cardinale" perché era molto legata ad Angelo Becciu.
È la rivale di Francesca Chaouqui ma è amica di Capuano e di Salvini. Povero Salvini, difficile dire quanto durerà questo suo frollare nella Roma dei truffatori e dei finti pacifisti, dai neocomunsti a Casa Pound, ma è certo che il vecchio leader razzista non c'è più.
E noi non lo rimpiangeremo. Al suo posto c'è il super credulone, perfetto compare dei truffatori. Totò riusciva a vendere la Fontana di Trevi perché la offriva alla persone giuste, il suo genio truffaldino trovava l'incastro fertile nell'ottusità fatta di dollari di certi americani a Roma. Allo stesso modo Capuano, la Chaouqui e tutte le altre maschere di questo imbroglio hanno costruito la patacca pacifista contando sull'eterna sintonia tra truffati e truffatori. Anche in politica la furbizia e la stupidità si ingravidano a vicenda.
L’ora più grottesca. Il servilismo dei putiniani e quella similitudine tra 1941 e 2022. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 3 Giugno 2022.
Se Putin rivolgendosi a Zelensky ripetesse lo stesso immondo appello che Hitler inviò a Churchill più di 80 anni fa per terminare il conflitto mantenendo i territori ingiustamente presi (un appello che gli inglesi rimandarono al mittente), in Italia candiderebbero il macellaio del Cremlino al Nobel per la Pace.
Sono nato il 9 febbraio del 1941. Quando voglio dare un senso alla mia storia mi soffermo sulla carta geopolitica dell’Europa quando iniziavo il mio cammino nel mondo. In quell’anno si concluse una fase importante della seconda guerra mondiale: l’avanzata nazista raggiunse la sua massima espansione; ma nello stesso tempo l’anno si chiuse con l’entrata in guerra degli Stati Uniti.
Ricapitoliamo brevemente la situazione dall’inizio delle ostilità fino a tutto il 1941. La Germania diede inizio alla guerra invadendo la Polonia, il primo settembre 1939, in combutta con l’Urss che poche settimane dopo invase la parte orientale di quello sventurato Paese. Il Regno Unito e la Francia reagirono dichiarando guerra alla Germania. Ed è per questi motivi che Alessandro Orsini nuova star televisiva, contesa da tutte le reti, si è azzardato a sostenere che Hitler non voleva la guerra e che si meravigliò molto della reazione delle potenze alleate.
L’esercito tedesco invase quindi l’Europa Occidentale nella primavera del 1940. Con l’incoraggiamento della Germania, l’Unione Sovietica occupò gli Stati Baltici, nel giugno dello stesso anno. L’Italia, che era membro dell’Asse (composto da nazioni alleate con la Germania) entrò in guerra il 10 giugno 1940.
Dopo essersi assicurati il controllo dei Balcani tramite l’occupazione della Jugoslavia e della Grecia, iniziata il 6 aprile 1941,i Tedeschi e i loro alleati diedero inizio all’invasione dell’Unione Sovietica, il 22 giugno 1941, violando apertamente il precedente patto di non aggressione. Tra il giugno e il luglio del 1941, i Tedeschi occuparono anche i Paesi Baltici. Di conseguenza, il leader sovietico Joseph Stalin diventò – da quel momento e per tutta la durata della guerra – uno dei maggiori rappresentanti del fronte Alleato che si opponeva alla Germania Nazista e agli altri paesi dell’Asse. Durante l’estate e l’autunno del 1941, le truppe tedesche avanzarono profondamente in territorio sovietico.
Il 6 dicembre 1941, le truppe sovietiche lanciarono un’imponente controffensiva. Il giorno seguente, il 7 dicembre 1941, il Giappone (una delle forze appartenenti all’Asse) bombardò la base americana di Pearl Harbor, nelle isole Hawaii, causando l’entrata in guerra degli Stati Uniti a fianco del Regno Unito e dell’Unione Sovietica. In quell’anno, dunque, si concluse una fase importante della seconda guerra mondiale: l’avanzata nazista raggiunse la sua massima espansione; ma nello stesso tempo l’anno con l’entrata in guerra degli Stati Uniti si apriva un altro scenario.
Va ricordato che l’11 marzo 1941, il Congresso americano approvò, su iniziativa del presidente Franklin Delano Roosevelt, la legge affitti e prestiti che consentì all’Amministrazione americana ancora intrappolata in una posizione di neutralità nel conflitto di fornire sistemi di armamenti ai Paesi la cui sicurezza rappresentava un interesse strategico per l’America (la medesima operazione compiuta da Joe Biden nel contesto della guerra in Ucraina).
Le sorti del conflitto – allargato dopo Pearl Harbor al fronte del Pacifico – erano ancora in bilico. Il principale risultato positivo era stata la resistenza del Regno Unito, condotta all’inizio in condizioni molto difficili. Tra il 10 luglio e il 31 ottobre del 1940, i Tedeschi ingaggiarono e persero la guerra dei cieli divenuta famosa come la Battaglia d’Inghilterra. Winston Churchill commentò quell’evento con parole passate alla storia con riguardo al valore dei piloti della Raf: «Mai, nella storia degli umani conflitti, tanti devono così tanto, a tanto pochi».
Chi scrive ha coltivato un grande interesse per gli avvenimenti che – in quell’intermezzo, praticamente un lungo armistizio tra i trattati di Versailles del 1919 e l’invasione della Polonia – condussero all’inizio del secondo conflitto del secolo scorso e al sacrificio di 55 milioni di esseri umani (per non parlare delle tragedie che ne furono un effetto collaterale). Lo ho fatto nella convinzione che – mutatis mutandis – la storia possa ripetersi.
Abbiamo conosciuto, dopo il 1989, crisi economiche che hanno fatto traballare la stabilità finanziaria (produttiva e sociale) del mondo globalizzato; abbiamo visto risorgere i nazionalismi nel brodo di coltura di un populismo assunto come linea di governo; il mondo si è dovuto misurare con una pandemia che ha richiamato alla memoria l’influenza denominata la spagnola; poi vi è stata l’aggressione russa dell’Ucraina che – sarà anche vero che la storia non si ripete – sembra ispirata alle medesime istanze geopolitiche poste dal nazismo a fondamento delle sue mire imperialistiche.
Un altro elemento inquietante lo si ritrova – soprattutto in Italia, ma non solo – nel formarsi di una corrente di opinione pubblica che invoca la pace più o meno rivisitando lo spirito di Monaco del 1938. Allora furono consegnati ad Hitler i Sudeti, oggi si è pronti a riconoscere a Putin la sovranità su pezzi di Ucraina, violando i confini stabiliti da trattati internazionali.
Così andando alla ricerca di antiscientifici parallelismi, mi sono imbattuto (leggendo il saggio ’’Splendore e viltà’’ di Erik Larson, pubblicato dalla Biblioteca della democrazia del Corriere della sera a cura di Antonio Scurati) in un episodio che non conoscevo ma che ben si inquadra nella strategia che Hitler adottò nei confronti dell’Inghilterra: indurre il governo di Sua Maestà a negoziare una resa condizionata che non era affatto un’opinione peregrina nell’ambito dell’establishment all’inizio del conflitto.
Tanto che nelle prime fasi della guerra aerea furono evitati i bombardamenti su Londra. La furia della Luftwaffe si scatenò quando venne a mancare del tutto la prospettiva di un negoziato. Ma ormai era tardi.
Il 19 luglio, Hitler tenne un discorso al teatro di Berlino intrattenendosi a lungo sull’andamento del conflitto ed elogiando il valore delle truppe tedesche, poi alla fine, da consumato attore e abile oratore, giocò la carta dell’appello alla pace: «Signor Churchill – disse il Fuhrer – per una volta mi creda quando l’avverto che un grande impero sarà distrutto, un impero che non ho mai avuto intenzione di distruggere o anche solo di danneggiare».
E proseguì: «In quest’ora decisiva la coscienza mi impone ancora una volta di fare appello alla logica e al buon senso dell’Inghilterra e delle altre nazioni. Ritengo di essere nella posizione giusta per farlo, perché non solo la parte sconfitta che elemosina favori, ma il vincitore che parla in nome della ragione». E concluse: «Non vedo alcun motivo valido per proseguire questa guerra. Mi addolora pensare ai costi che ne deriveranno. Preferirei evitarli».
La prima risposta del Regno Unito al discorso di Hitler non venne da parte del governo, ma addirittura da un giornalista della BBC che, senza chiedere l’autorizzazione alle autorità, mandò in onda queste parole: «Lasci che le dica, Herr Hitler, che cosa ne pensiamo, qui in Gran Bretagna del suo appello (…) glielo rilanciamo contro quei dentacci da demonio».
Sbaglierò, ma non considero del tutto impropria qualche similitudine con la guerra in corso in Ucraina e con il possibile atteggiamento dei suoi protagonisti. Di una cosa però sono sicuro. Se Putin riconvocasse i suoi sostenitori e ripetesse, rivolgendosi a Zelensky (perché Biden intenda), lo stesso appello che Hitler inviò a Churchill, in Italia (e forse anche in Europa) si leverebbero inni alla gioia, si sprecherebbero sconfinati elogi allo Zar e qualcuno lo candiderebbe al premio Nobel per la Pace.
Nel Parlamento italiano fioccherebbero risoluzioni a sostegno dei propositi negoziali dello statista del Cremlino. I talk show ospiterebbero solo putiniani adoranti, mentre Alessandro Orsini riceverebbe le stimmate della santità.
Il conflitto in Ucraina. Come fanno gli italiani a tifare per l’invasore russo? Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Giugno 2022.
Ai tempi in cui fu scritta la Costituzione la parola “guerra” aveva un significato preciso: un documento detto “dichiarazione di guerra” veniva recapitato all’ambasciatore del paese che stava per essere attaccato e che quindi sapeva di doversi difendere. Quando i padri costituenti stabilirono che l’Italia avrebbe rifiutato la guerra come mezzo, intendevano che l’Italia non avrebbe mai dichiarato guerra. E se non sbaglio l’ultima dichiarazione di guerra fu quella della Germania di Hitler contro gli Stati Uniti che in seguito all’attacco senza dichiarazione di guerra alla flotta americana dichiarò guerra al Giappone ma non alla Germania nazista.
Hitler ebbe un moto sprezzante e disse: chiamate l’ambasciatore americano e dategli quel che deve avere. In quel mondo muovere guerra senza dichiararla era un crimine internazionale e quando i sovietici più di tutti gli altri alleati, pretesero il processo di Norimberga, tra i capi d’accusa vollero anche quello di avere invaso l’Unione Sovietica il 22 giugno del 1941 senza dichiarazione. Da allora di guerre e guerriglie ce ne sono state un centinaio. sanguinosissime come quella in Corea e il Vietnam, tutte le guerre post-coloniali alimentate dall’Unione Sovietica che ha armato tutti i movimenti di liberazione che poi si sono trasformati quasi tutti in feroci dittature. Infine le guerre con il neonato Stato di Israele: quando l’assemblea delle Nazioni Unite decretò la nascita contemporanea di uno Stato ebraico e di uno palestinese, la coalizione degli Stati saltò addosso con tutte le moderne armi contro il foyer ebraico difeso, così come oggi lo Stato Ucraino, da ragazzini in maniche e calzoni corti armati di mitra Sten, gli stessi che si erano ribellati ai mostri nazisti nel ghetto di Varsavia e si scontrarono col più potente esercito arabo armato dai sovietici benché l’Urss fosse stata la vera madrina dello Stato d’Israele in cui vedeva la sistemazione degli ebrei di lingua russa come nucleo forte per un futuro piccolo Donbass.
Le cose andarono diversamente, gli ebrei capirono che sarebbero sopravvissuti se e soltanto fossero diventati – in una terra poco più grande del Lazio – una delle prime potenze del mondo producendo armamenti spesso superiori a quelli di americani e russi oltre a una efficiente democrazia. Israele diventò un paese accogliente e potente desiderato non soltanto da tutti gli ebrei del mondo ma anche da molti non ebrei. La Russia sia come impero che come Unione Sovietica o Federazione russa, benché occupi un ottavo del pianeta, non è una terra desiderata e gli emigrati non si affollano alle sue frontiere. Nel frattempo, gli occidentali – basta ricordare il caso francese con l’Algeri e quello americano con il Vietnam – sono stati sempre ferocissimi con sé stessi attraverso le molte voci dei loro giornali, intellettuali e artisti che, nell’Occidente hanno messo alla sbarra l’Occidente senza correre il rischio di finire in un lager in Alaska.
Se volete trovare dei veri antiamericani, venite qui in America e sarete serviti sentendo come gli americani accusano gli americani di essere sopraffattori, imperialisti, razzisti, autori di crimini mostruosi. Nulla sarebbe antiamericano se non esistesse prima di tutto l’efficientismo l’antiamericanismo della più potente Repubblica democratica del mondo. Gli americani, circostanza poco ricordata, hanno fisicamente distrutto tutti gli imperi della terra o hanno partecipato alla loro distruzione: da quello spagnolo a quello giapponese a quello sovietico, e ottennero la scomparsa dei due imperi europei, l’inglese e il francese avendo sostenuto algerini e indiani. Ma gli americani sono visti come se fossero il vero imperialismo come lingua franca planetaria – il cattivo inglese che chiunque sa masticare. Certo gli ucraini parlano un eccellente inglese perché gli inglesi per anni li hanno addestrati a fronteggiare l’evento mostruoso che diventò sangue e storia il 24 febbraio scorso. Anche molti russi parlano correntemente un buon inglese come i finlandesi e gli svedesi per cui è una seconda lingua.
La consanguineità tra democrazia e i popoli di lingua inglese è qualcosa di immediato e per questo detestato dai nostalgici di ogni genere di dittatura senza neppure dover fare la fatica di scegliere tra rosso e nero come del resto fece Stalin, alleato di Hitler nello spartirsi la stessa Polonia del settembre del ‘39 e alleato di Hitler al punto di essersi bevuto la panzana che gli aveva rifilato Hitler che gli disse, il documento è sulla Pravda, che alcune teste calde tra i suoi generali minacciavano di sconfinare nell’Urss e che per l’amor di dio, Stalin non cadesse nella trappola perché una controffensiva sovietica avrebbe reso lo sconfinamento una irreversibile guerra. E Stalin era letteralmente invaghito di Adolf Hitler si comportava come il popolare cartone di Ignaz Mouse un topo amato da Crazy Kat che però le rispondeva sparandole file di mattoni. Tutti i marxisti che non hanno studiato Marx non fanno che ripetere come la guerra abbia solo un fondamento economico che non può non risalire agli Stati Uniti e alla Cia. non avendo la più pallida idea di che cosa abbia combinato per sessant’anni la pregiata ditta MD, MKVD, KGB.
Oggi si chiama FSB e il presidente Vladimir Putin per anni è stato il più promettente tenente colonnello residente a Dresda in una sede che controllava tutto il terrorismo europeo attraverso la Stasi tedesca (“le vite degli altri”) e il terrorismo internazionale che comprendeva oltre una speciale sezione delle Brigate Rosse, la Raf tedesca, L’Ira irlandese, l’Eta basca, il FPLP palestinese, una parte dei servizi segreti libici, Action Directe francese e tutti i movimenti di estrema destra nazista fascista, naziskin con svastiche fin dagli anni 70. promuovendo quello dei nazi-maoisti. Chiunque ancora oggi può acquistare on line la raccolta completa dei verbali del patto di Varsavia fino alla chiusura per scoprire che ogni anno svolgevano la stessa esercitazione: l’occidente imperialista tenta di attaccare i paesi socialisti e l’Unione sovietica ma viene respinto con controffensiva che ricaccia gli invasori fino all’Atlantico. Non è mai esistito alcun piano di attaccare l’Unione Sovietica. E, anzi, anzi americani e inglesi si sono sempre preoccupati di avere le armi sufficienti a far passare il desiderio a quel gioioso paese dal riprendere la sua vocazione al bullismo internazionale.
Ma quando l’Occidente si trovava a fronteggiare gli euromissili sovietici SS 20 contro di noi, si scatenava una baraonda di pacifisti, papisti filosofi e scalmanati invariabilmente antiamericani. Si dà in questo malvagio 2022 uno di quei meravigliosi casi in cui non ci sono “se” e non ci sono “ma” perché c’è in spudorata e incontestabile evidenza un aggressore che senza alcun diritto aggredisce, devasta, umilia, distrugge scegliendoli come bersagli più di 300 ospedali e tutte le scuole e che poi vuole imporre una lingua straniera agli occupati strappati alle loro famiglie e avviati in campi di raccolta in Russia e in simultanea si assiste al simmetrico spettacolo di una popolazione sedicente intellettuale che non è ancora capace di distinguere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto, il vero dal falso e anzi propaga ed accredita ogni brutale propaganda dell’aggressore come nessuno fece mai durante le guerre di Hitler, chiedendosi per equità e compostezza dove mai possa essere la verità e quale vada considerata propaganda: come si fa a districare ciò che realmente è stato e ciò che fermenta in un pasticcio aggrovigliato in cui si scoprono chiamati in causa tutti i filosofi del mondo e che serve soltanto ed evitare la via diretta del sì e del no.
Diceva Flaiano che per gli italiani la linea che collega fra loro due punti è l’arabesco. Ma noi siamo specializzati in arabeschi che colano sangue e abbiamo sempre una linea che non consente di baloccarsi, distinguere, deridere- oh quanto spirito di derisione per gli elmetti, i guerrieri, i guerrafondai, la Cia. Scrivo queste righe dagli Stati Uniti d’America come al solito dopo aver visto tutte le televisioni del mondo con tutti gli inviati speciali del mondo, tutti i video cameramen che rimettono la propria pelle per filmare da vicino il sangue e la morte e tutte queste corrispondenze, testimonianze senza alcuna frattura indicano la stessa storia, la raccontano nello stesso modo senza alcuna ombra di dubbio, così come la confermano tutte le immagini satellitari, tutte le diavolerie scientifiche a cui tutti possono accedere. La società americana e molto imperfetta e io personalmente la trovo spesso detestabile non solo per i crimini di shooting ma per la tendenza all’omologazione ovvero alla narrazione banalizzata.
Tuttavia, quando dico a qualcuno di sinistra, di destra, con molte idee, con poche idee che in Italia la maggioranza gira rigira è a favore della Russia dopo aver ritualmente ammesso e premesso che il male lo ha fatto Putin a fare quel che ha fatto, Ma ormai l’ha fatto e deve pure aver una ragione da qualche parte. Gli ingenui americani si sbalordiscano ritualmente e mi chiedo come sia possibile. Caro direttore, ti prego di considerare questo il mio personale Lamento di Portnoy come prova di scoramento, anche adesso che il mio amato Philip Roth non c’è più, gli americani non riescono a capire come possono gli italiani davvero pensare il conflitto non sia quello dell’invasore russo sulla Ucraina ma tra Biden e Putin. Io allargo le braccia e dico solo che sembra che sia evidente. Poi, cambiamo discorso.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
CHE COSA C'È DIETRO LA MOSSA DEL LEGHISTA.
Estratto dell’articolo di Marcello Sorgi per “la Stampa” il 29 maggio 2022.
Salvini al centro di pressioni per organizzare la sua missione "pacifista" a Mosca? […] C'è da capire, tuttavia, perché, dopo la magra figura fatta con il viaggio in Polonia e al confine con la Russia, Salvini si sia deciso a puntare più in alto, affrontando il rischio di una scommessa come quella dell'incontro con Putin.
La risposta a queste domande, quella almeno che viene fornita come spiegazione in ambienti non estranei al quartier generale del Carroccio, è questa: Salvini avverte da mesi la preoccupazione di imprenditori grandi, medi e piccoli per la chiusura del mercato russo e per il peso delle sanzioni. Ha cercato uno spazio, anche minimo, per inserirsi e assumere una posizione differente da quella di una pura adesione alla strategia del governo, ma al di là di un generico pacifismo e di un richiamo, a tratti goffo, ai moniti di Papa Francesco, non è riuscito a inventarsi niente di più serio. […]
Estratto dell’articolo di Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2022.
Matteo Salvini «l'ingenuo», Salvini il tormentato, ieri sera ancora non aveva deciso se andare a Mosca, oggi o nelle prossime ore, previa tappa a Istanbul. La grandinata di critiche partita dopo che si è diffuso il progetto di una missione nella capitale russa, ha unito maggioranza e opposizione, ministri e parlamentari, destra e sinistra. […] in tutta la Lega si è levata solo una voce in sua solidarietà, quella di un amico di lunga data, Fabrizio Cecchetti, deputato e segretario del Carroccio in Lombardia […]
Va detto che il partito è rimasto muto perché letteralmente non sapeva cosa dire: nessuno è stato informato, prima di venerdì sera, delle intenzioni del segretario. Un po' troppo anche per un partito «aduso ad obbedir tacendo».
[…] Nei giorni scorsi, il segretario leghista era determinatissimo alla partenza. Poi, dopo che la notizia si è diffusa - il sospetto è che la «soffiata» possa essere partita da ambienti della Farnesina, pur non ufficialmente informata - molti dei suoi gli hanno fatto presente i rischi […]
Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2022.
Pierferdinando Casini […]: «Bisogna capire che siamo un Paese incardinato nella Nato e nell'Europa e che non possiamo essere artefici in solitudine del nostro destino. Perciò De Mita e gli altri oggi avrebbero lavorato per la pace, ma senza indebolire l'Alleanza atlantica e non prestandosi al rischio di essere strumentalizzati da Putin. E mi riferisco a Matteo Salvini...».
Il leader della Lega ha parlato tra mille polemiche di un viaggio a Mosca.
«Ecco, io voglio credere assolutamente alla genuinità e alla bontà dei suoi propositi, ma deve stare molto attento a evitare che perseguendo un obiettivo così nobile finisca per indebolire il ruolo dell'Italia diventando un burattino nelle mani di Putin. Come dice il proverbio: delle buone intenzioni sono lastricate le vie dell'inferno».
«[…] in certe circostanze è bene lasciare l'azione al governo, l'attore oggi è Draghi. Ricordo a Salvini una frase dell'ex primo ministro inglese Harold Wilson: se vuoi dare un consiglio utile a una persona e vuoi farti ascoltare da essa, sussurraglielo all'orecchio. Se invece ne parli con tutti, allora è segno che si vuol fare solo propaganda». […]
Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 29 maggio 2022.
Venerdì sera, all'ora dei notiziari tv. Lorenzo Fontana, vicesegretario leghista con delega alla politica estera, apprende dalla voce di Enrico Mentana dell'intenzione del suo leader di volare a Mosca. Prende il telefono e chiama Salvini: «Ma è vero? ». «Beh, sì, ci sto pensando...», la risposta del capo del Carroccio. «Matteo, riflettici bene, sii prudente, è un momento delicato. Questa cosa si può rivelare un boomerang».
L'episodio, riferito da fonti accreditate, la dice lunga su due aspetti. Primo: la totale autonomia con la quale, dentro il partito, il segretario ha lavorato sul viaggio in Russia. Secondo: la perplessità che nella Lega suscita in queste ore la missione di pace inseguita da Salvini. Il senatore milanese ha tessuto la sua tela in silenzio. Un incontro, il 5 maggio, con l'ambasciatore turco a Roma Omer Gucuk. Qualche contatto in Vaticano, nulla di più. Aveva ostentato il suo desiderio di «andare ovunque serva» anche con il premier Mario Draghi ma senza accennare a un'iniziativa diplomatica personale.
Anzi, questa possibilità negli ambienti di governo è sempre stata vista come uno spauracchio. Ma mentre girava piazze elettorali professando la pace, dicendosi contrario al nuovo invio di armi agli ucraini, Salvini ha continuato a cercare gli agganci giusti per giungere a Vladimir Putin, il punto di riferimento internazionale mai completamente sconfessato. Ha attivato alcuni vecchi canali con Russia Unita: la Lega e il partito di Putin siglarono nel 2017 un patto di collaborazione, un'intesa che pone fra gli obiettivi «un partenariato paritario e confidenziale tra la Federazione russa e la Repubblica italiana».
Accordo quinquennale spirato il 6 marzo ma in realtà ancora in vigore in virtù di una clausola che ne prevedeva il rinnovo in mancanza di disdetta entro sei mesi dalla scadenza. E nessuno l'ha revocato. Soprattutto, Salvini ha fatto leva sui "consigli" di un legale che lo affianca da qualche mese: si chiama Antonio Capuano, è stato deputato di Forza Italia dal 2001 al 2006 e consigliere comunale di Frattaminore, in Campania, fino al 2012.
Prima di lavorare all'estero, in Medio Oriente, e scomparire dalle cronache politiche. Di certo, oggi collabora con Salvini, gli è vicino in questioni che riguardano Mosca. Anche se in serata, al telefono, l'ex parlamentare si schermisce: «Faccio l'avvocato e assisto alcune ambasciate». Anche quella russa? «Non glielo le dico per riservatezza, mi capisca.
Con Salvini ci siamo confrontati su alcuni dossier. Non ho un incarico formale. Lui ha ovviamente la sua autonomia di pensiero».
Capuano è un personaggio misterioso per molti, dentro la Lega: lo stesso Fontana, assicurano, non lo conosce. Il viaggio, se ci sarà, nascerà con queste premesse. «La trasferta di Salvini? Non ne so nulla», garantisce Riccardo Molinari, capogruppo leghista alla Camera. All'oscuro i governatori Zaia e Fedriga come il capodelegazione della Lega nell'esecutivo Draghi, Giancarlo Giorgetti. Tutti concordi, a denti stretti, sulla pericolosità della missione. C'è, fra loro, chi dice che il segretario potrebbe finire per alimentare la propaganda interna russa: diventare uno strumento della disinformazione di Putin, che potrebbe far veicolare l'idea che l'Italia sia un Paese amico o quella di un fronte occidentale diviso.
I suoi dubbi Fontana li ha espressi apertamente nella telefonata a Salvini: il responsabile Esteri della Lega ritiene che questa missione potrebbe risolversi, sul piano mediatico, in un bis della sciagurata trasferta al confine fra Polonia e Ucraina, quella dello sfottò del sindaco con la maglietta di Putin in mano, alla quale non casualmente proprio Fontana non partecipò.
«Pensaci, per il tuo bene e per quello del partito», le riflessioni offerte a Salvini dal dirigente veneto del Carroccio. Il quale non ritiene del tutto campata in aria l'idea di promuovere la pace andando a Mosca, specie dopo la telefonata fra Putin, Scholz e Macron. Ma vede più insidie che vantaggi. «E soprattutto ha detto Fontana a chi gli sta vicino non si può portare avanti un'iniziativa diplomatica senza la copertura, se non il mandato, del governo». Sono le perplessità di tanti, in una Lega che per gran parte guarda attonita alle mosse del suo leader. Convinta che, mai come stavolta, Matteo rischi tutto.
Estratto dell’articolo di Alessandro D’Amato per open.online il 31 maggio 2022.
Il Copasir valuta l’apertura di un dossier sul viaggio per la pace di Matteo Salvini in Russia. E mette sotto la lente il ruolo di Antonio Capuano, ex deputato di Forza Italia e nuovo consulente di politica estera del Capitano.
Il Corriere della Sera fa sapere oggi che le mosse di Capuano con l’ambasciata russa per l’organizzazione della missione del leader della Lega a Mosca potrebbero presto finire sul tavolo del presidente del comitato di controllo dei servizi segreti italiano Franco Gabrielli.
Intanto il componente del Copasir Elio Vito (Forza Italia) fa sapere di aver presentato un’interrogazione a Draghi e Di Maio. Chiede di sapere se il premier e il ministro degli Esteri fossero informati del viaggio di Salvini a Mosca e se queste iniziative non rischino di «compromettere la nostra sicurezza». […]
“Piacere, Capuano”. Valerio Valentini per “il Foglio” il 31 maggio 2022.
Chissà se anche a Matteo Salvini s’è presentato come faceva dieci anni fa, stando a quanto raccontano i narratori delle sue gesta, con gli ambasciatori italiani nel Golfo Persico. “Sono Antonio Capuano e mi manda Franco Frattini”: grosso modo così, s’accreditava.
“Ma questo – si difende lui – lo dice chi vuole infangare uno statista come Frattini”. Che però di Capuano si fidava davvero. “Lo aiutai a risolvere la crisi politica dell’Iraq, nel 2010”. E si capisce allora perché, forse prima di ammettere che siamo in una farsa di bassa Lega, il Copasir voglia chiedere a Franco Gabrielli un chiarimento proprio su di lui, Capuano, il nuovo sherpa del leader del Carroccio.
E forse allora, benché Salvini quando l’ha saputo abbia subito sbuffato (“vogliono usare questa faccenda per colpirmi politicamente”), sarà lui, il sottosegretario che a Palazzo Chigi gestisce la delega ai servizi segreti, a chiarire tramite una relazione scritta, al Comitato parlamentare che sovrintende all’intelligence, il profilo di Capuano.
Che però la sua improvvisa centralità nel dossier russo-ucraino, e nella polemica di giornata, la giustifica nel più semplice dei modi. “Sono uno che studia: sono un giurista, un esperto di questioni internazionali, a me lo studio mia ha salvato la vita”. A dire il vero, nel database della Camera, Antonio Capuano, nato a Frattaminore, in provincia di Napoli, l’11 settembre del 1971, eletto con Forza Italia nel collegio di Acerra e rimasto in carica come deputato tra il 2001 e il 2006, risulta essere “perito elettronico”.
“Le lauree sono arrivate dopo”, precisa lui. E sono arrivate in serie. “Scienze Politiche all’Università internazionale di Roma, nel 2007. Giurisprudenza all’Università telematica Marconi, nel 2009. Economia all’Università di Perugia, nel 2012”. Studio matto e disperatissimo, insomma. Ma sui suoi trascorsi accademici ci torniamo.
Prima va chiarita la faccenda dell’Iraq. Capuano che aiuta Frattini a risolvere una crisi che angosciava mezzo mondo: com’è questa storia? “Nel 2010, Nuri al Maliki non riusciva a fare il governo. E io al Maliki lo conoscevo bene”. Le prove ci sarebbero. O, almeno, un indizio: tre foto che lo ritraggono insieme all’allora primo ministro iracheno: strette di mano, sorrisi di circostanza, pose davanti le bandiere.
“In quell’occasione, quando Frattini, da ministro degli Esteri, venne in visita a Bagdad, mi occupai di dargli dei suggerimenti. Che si rivelarono azzeccati”. E perché Frattini li chiese a Capuano, questi consigli? “Mi sollecitate a rivelare cose che devo tenere riservate. Ma io i dossier caldi li ho sempre maneggiati”.
Di certo Frattini, o chi per lui, dovevano ritenerle utili, quelle consulenze, se in quei mesi acconsentì a che Capuano partecipasse a vertici tra i capi di stato e di governo ai massimi livelli. “E questo chi lo ha detto?”, si insospettisce l’ex deputato. Che però non ricorda che è stato proprio lui, a dirlo. Nel febbraio del 2015, ospite in una trasmissione della tv del Kuwait – grandi sforzi per esibire il suo arabo, coi due conduttori che però lo scherniscono: “Deve averlo imparato cinque minuti fa” – è Capuano a raccontare l’aneddoto: “Nel maggio del 2010 l’emiro del Kuwait venne a Roma. E io partecipai a quel meeting”. Quello, cioè, col premier Silvio Berlusconi.
“Ma non pensate a chissà quali poteri forti: io, semplicemente, ho legami personali col Kuwait, legami con una famiglia molto nota in quel paese”. E in effetti si spese molto, per propiziare il riconoscimento di onorificenze a esponenti del governo del Kuwait. “Ma io non propiziai un bel niente”. Eppure le cronache di quegli anni dicono il contrario. 6 ottobre 2010: il vice primo ministro e ministro degli Esteri del Kuwait, Sheik Mohammed Al Salem Al Sabah, è a Palazzo Vecchio per ritirare il Marzocco, uno dei più importanti riconoscimenti fiorentini, dalle mani dell’allora presidente del consiglio comunale Eugenio Giani.
E’ l’occasione per annunciare la creazione di un ufficio del Kia (il fondo sovrano del Kuwait), e a presiederlo viene scelto proprio Capuano. L’indomani, il ministro degli Esteri del Kuwait è a Perugia, dove viene insignito di una laurea honoris causa dall’Università per Stranieri. A presentare il prestigioso ospite alla platea, Capuano. Che, stando a quanto ci ha detto, a quell’epoca dovrebbe essere uno studente di Economia dell’Ateneo perugino, ma viene presentato dalla stampa locale come docente di Procedura civile dell’Università e, addirittura, “consigliere del presidente del Consiglio per il Medio Oriente”.
“Ma questi sono i giornalisti, che esagerano sempre”. Fatto sta che ad assistere a quella cerimonia c’è proprio Frattini. E che Capuano, parlando dal pulpito, gli si rivolge così: “Caro Franco”. Il 26 febbraio 2015, invece, Capuano s’intesta, a modo suo, un’altra onorificenza. E lo fa a nome dell’Università Tor Vergata. “Ma io a Tor Vergata non ho mai insegnato, né ci ho collaborato”. Eppure, negli studi della tv del Kuwait, parla così: “Grazie per darmi l’opportunità di fare questo annuncio, da parte della mia Università, la Tor Vergata di Roma. Vogliamo conferire un importante riconoscimento all’emiro”, Sabah al-Ahmad al-Jaber al-Sabah, “un politico longevo che ha garantito pace e stabilità al suo paese”.
Resta da capire, ora, come sia arrivato Salvini ad affidarsi a Capuano, per organizzare il suo viaggio a Mosca. “Un annetto e mezzo fa, un mio cliente istituzionale, un ambasciatore di uno dei paesi del Golfo, mi chiese di accompagnarlo in alcune sue visite a esponenti politici italiani. Il primo contatto col leader della Lega nacque lì”.
Estratto dell'articolo di Conchita Sannino per “la Repubblica” il 31 maggio 2022.
A pensar male, la politica arriva prima di tutti. E allora chissà se sul conto di Antonio Capuano, il superconsulente sbucato dal nulla sotto l'ala di Matteo Salvini, non avesse ragione il vituperato Nicola Cosentino, buonanima (istituzionale) di Forza Italia, quasi un secolo fa, quando gli capitò di commentare il profilo dell'allora collega deputato come quello di "un imbroglione". Era un gratuito insulto, o forse aveva visto giusto il pragmatismo dell'allora potente Nick 'o mericano, mentre la Distrettuale antimafia ne registrava i colloqui con colleghi o imprenditori di camorra?
Fatale che vengano fuori, adesso, su Capuano l'acchiappa-Putin i casuali natali della sua elezione nel 2001, o le misteriose connessioni internazionali di oggi. «Fu inserito in lista perché nel collegio arrestarono il direttore generale della Asl sciolta per camorra, pochi giorni prima della chiusura delle liste», racconta qualche consigliere senior di Frattaminore.
Per la cronaca: era la "Napoli 4" e al posto di quel manager designato alle politiche nel collegio 16, ecco comparire l'ambizioso trentenne che allora si presentava solo come «diplomato perito elettronico». Solo dopo sarebbero arrivate le lauree (con le Università digitali). Ma Capuano s' era comunque fatto notare, dai berluscones: aveva fatto crescere Forza Italia nelle urne con un espediente non da poco. «Prometteva l'apertura di una cartiera in zona, tra Frattaminore e Acerra. Parlava di progetti sicuri, mostrava cartine, aprì ai colloqui con i giovani del territorio ». I voti arrivarono, la cartiera ovviamente nessuno l'ha vista mai.
[...] Saranno anche datate, ma sembrano allora schegge illuminanti, oggi, le parole che pronunciò sul suo conto Nicola Cosentino. [...] Ed è il 3 luglio 2004, tarda mattinata, quando l'ex sottosegretario è intercettato mentre parla con Michele Orsi, imprenditore colluso che sarà poi ucciso dal killer Giuseppe Setola, lo stragista del gotha dei casalesi (perché l'uomo d'affari stava per pentirsi e aveva cominciato a riempire alcuni verbali dinanzi ai pm). Orsi riferisce a Nicola che lo ha cercato l'onorevole Capuano, vuole sapere di alcune assunzioni, ma - come riferisce all'amico Nicola - lo stoppa: «Guarda che il nostro riferimento e è Cosentino». Il parlamentare liquida così la questione: «Ma Capuano ha imbrogliato mezzo mondo».
Cesare Zapperi per corriere.it il 30 maggio 2022.
«Ormai era tutto pronto, dovevamo solo parlarne al premier Draghi per avere il via libera finale. Ma la fuga di notizie ha scatenato il finimondo».
E la missione di Matteo Salvini a Mosca a questo punto è rinviata a data da destinarsi, se mai si farà.
Antonio Capuano, avvocato napoletano con un trascorso da deputato di Forza Italia (tra il 2001 e il 2006), da un paio d’anni consulente di politica estera del segretario leghista e «padre» del progetto del viaggio in Russia, non lo dice apertamente, ma è evidente che il fuoco di sbarramento che si è levato, dal governo come dalle forze politiche come dalla stessa Lega che si è trovata spiazzata dall’iniziativa del suo leader, congela tutto.
«Salvini ha deciso di fermarsi per una riflessione, per il bene del Paese, del governo e del suo stesso partito. Non aveva bisogno del mandato di nessuno per lanciare la sua iniziativa di pace, ma ora che tutto il lavoro fatto è di dominio pubblico ritiene giusto che ciascuno possa esaminare il piano e fare le valutazioni del caso».
Pur non esplicitata, nella migliore delle ipotesi è una brusca frenata. Per quel che si è capito, il viaggio avrebbe dovuto realizzarsi in questi giorni. La bufera che si è scatenata nelle ultime 72 ore, come aveva già fatto capire lo stesso Salvini sabato, suggerisce uno stop.
Anche perché c’è molto da spiegare e chiarire rispetto ad un progetto su cui il segretario leghista si è mosso in pressoché assoluta solitudine (cosa che gli hanno rimproverato soprattutto i leghisti). «Ma noi non abbiamo mai pensato di fare tutto in segreto — spiega Capuano — Anzi, Salvini qualche messaggio su quel che aveva in animo di fare l’aveva anche mandato. Forse non è stato colto».
L’avvocato-consulente cita ad esempio il discorso che Salvini ha fatto in Senato il 19 maggio scorso. «In quella sede ha auspicato una iniziativa diretta del premier Draghi, in coordinamento con Francia e Germania. Ma aveva chiarito che riteneva necessaria una iniziativa di pace. Un tentativo che andava fatto ad ogni costo. Non poteva dire di più, eppure quelle parole sottintendevano che stava lavorando ad un progetto».
Il piano a cui stavano lavorando Salvini e Capuano era basato su quattro punti. Primo: indicazione di una sede neutrale dove svolgere i negoziati di pace (preferibilmente il Vaticano).
Secondo: la nomina di tre garanti, i vertici istituzionali di Italia, Francia e Germania, più un garante morale. Terzo: un cessate il fuoco come conditio sine qua non per iniziare i negoziati insieme allo sblocco delle navi che portano il grano e gli aiuti umanitari.
Quarto: la visita di una grande personalità morale a Mosca e Kiev (cioè il Papa). «Qualcuno ha parlato di velleitarismo — interviene l’ex deputato azzurro — ma nei giorni scorsi Salvini è stato ricevuto in udienza dal Segretario di Stato vaticano il cardinal Pietro Parolin. Quello era un passo del percorso che stavamo realizzando, non è stata una visita di piacere».
Capuano da avvocato veste una toga immaginaria per difendere il leader leghista dalle accuse che lo hanno investito: «Il segretario da tempo sta facendo un lavoro di tessitura straordinario. Checchè ne dicano i suoi avversari, Salvini è molto conosciuto e apprezzato nelle cancellerie internazionali. E anche in questo frangente ci siamo mossi con tutte le cautele che un’operazione del genere richiedeva».
Ma l’operazione non è riuscita, inutile nasconderselo. Forse perché il premier Draghi andava consultato fin dall’inizio e non solo come atto finale? «Sono valutazioni legittime — risponde Capuano — Certo non potevamo sottoporre al premier un’idea generica. Si è ritenuto di lavorare sotto copertura fino ad avare tutti gli elementi per poter andare dal presidente del Consiglio a chiedere il via libera. Ci saremmo attenuti alla sua decisione. Ma la fuga di notizie ha alzato un polverone».
Ed ora la missione è appesa ad un filo. L’avvocato-consulente però vuole togliersi qualche sassolino dalle scarpe. «Qui tutti attaccano Salvini per i suoi rapporti con Putin. A me pare che siano altri che vanno a Mosca, in giacca e cravatta e non con una maglietta, a fare affari.
Il segretario della Lega, invece, sta cercando in ogni modo di trovare una via d’uscita dalla guerra. Può darsi che abbia commesso errori. Ma credo che non sia stato capito. Ho trovato molte critiche ingiuste e ingenerose. In parte giustificate da una mancata conoscenza del progetto. Ora che è di dominio pubblico mi auguro che si sviluppi una riflessione seria. La chiede anche Salvini. E poi si deciderà cosa fare».
Salvini a Mosca, in campo il Copasir. Draghi cauto per difendere il governo. Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.
Riflettori sul ruolo di Antonio Capuano, il consulente diplomatico del segretario leghista. Il fastidio del Vaticano per essere stato chiamato in causa.
Lo stupore della Farnesina, di Palazzo Chigi e del Quirinale per il piano di pace che Salvini vorrebbe portare a Mosca investe il Parlamento e interpella il Copasir. Il Comitato per la sicurezza della Repubblica sta valutando l’apertura di un dossier che avrebbe al centro la figura di Antonio Capuano, il consulente diplomatico del segretario leghista che si è mosso con l’ambasciata russa per organizzare la missione. E così le dichiarazioni dell’avvocato ed ex deputato di Forza Italia potrebbero finire sul tavolo di Franco Gabrielli, sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai Servizi segreti.
Elio Vito, che del Copasir fa parte, ha presentato un’interrogazione a Draghi e a Di Maio per sapere se fossero informati degli incontri di Salvini e Capuano con ambasciate straniere, che per il deputato di Forza Italia «possono compromettere la nostra sicurezza nazionale». Il Copasir, che nel 2019 si era occupato del caso Moscopoli, non acquisirà documenti e informazioni sul segretario della Lega, non avendo titolo per valutare l’attività politica di un parlamentare che non abbia violato un segreto di Stato o messo a rischio la sicurezza del Paese. Ma Capuano parlamentare non lo è più ed è su di lui che potrebbero accendersi le luci del Copasir.
Per il Pd l’idea della visita a Mosca rischia di «gettare un’ombra pesante sull’Italia». Enrico Borghi e Lia Quartapelle chiedono a Salvini di chiarire a Draghi le ragioni di una «iniziativa ambigua e sbagliata sotto il profilo diplomatico, istituzionale e politico». I Radicali italiani vogliono sia il premier a convocare con urgenza Salvini perché la sua iniziativa «rappresenta la prova che l’Italia è il ventre molle della Ue, in cui gli uomini di Putin possono trovare complicità, connivenze, alleanze».
La missione di Salvini è congelata, o forse fallita, eppure continua ad agitare i palazzi della politica. E un certo fastidio per le dichiarazioni di Capuano si coglie anche nelle stanze vaticane. Salvini venerdì ha incontrato il cardinale Pietro Parolin, il quale non avrebbe benedetto il viaggio, ma si sarebbe limitato ad ascoltare: la Santa Sede non intende entrare nelle altrui mediazioni, dal momento che papa Francesco, come ha detto al Corriere un mese fa, è pronto ad andare a Mosca per parlare di pace con Putin.
Se c’è irritazione al Vaticano, a Palazzo Chigi c’è sconcerto, coperto da una buona dose di cautela e realismo politico. Il premier, come ha detto Giorgetti, ne ha «le scatole piene» di cercare la sintesi tra i partiti. L’aggressione della Russia all’Ucraina ha innescato una crisi senza precedenti dai tempi delle Torri Gemelle e della guerra in Iraq, eppure il premier può contare sull’atlantismo incondizionato di Letta, ma non sulla sintonia con Conte, Berlusconi e Salvini: tre leader non certo schierati dalla parte di Kiev.
Fonti di governo partono da qui per spiegare perché a Palazzo Chigi si sia scelto di non reagire, pur sapendo che visti, bagagli e biglietti aerei erano pronti. Per quanto l’iniziativa di Salvini possa essere ritenuta grave e inopportuna, Draghi non lo ha ancora convocato per un chiarimento. «Con la guerra che infuria e i soldi del Pnrr da prendere, la priorità del premier è tenere in piedi il governo e saldo un Paese fragile come l’Italia — è la lettura di un ministro «draghiano» —. E la Lega, quando si è votato sulla politica estera, ha mostrato totale adesione alla linea del premier». In un momento meno delicato e con una maggioranza più stabile, insomma, la reazione sarebbe stata diversa. Ma adesso quel che più conta per Draghi, impegnato in una difficile mediazione tra Mosca e Kiev, è che il governo non finisca azzoppato. La mina è già stata piazzata: il 21 giugno, prima del Consiglio Ue del 23 e in vista del G7 e del vertice Nato, la risoluzione parlamentare sarà una conta ad alto rischio. Il M5S di Conte non vuole più inviare armi all’Ucraina e cerca la sponda della Lega. E il bersaglio è Mario Draghi.
Salvini, la Russia e i 3 incontri all’ambasciata: il Copasir indaga su un diplomatico (poi espulso). Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022. «Ho raccomandato anche al Copasir che l’importante è che questi rapporti siano trasparenti». Formale e felpata, arriva la chiosa del premier Mario Draghi (che precisa anche che il governo «è fermamente collocato nell’Ue e nel nostro rapporto storico transatlantico») a rafforzare il coro di critiche che hanno investito Matteo Salvini e il suo . Un piano maturato dopo che il leader leghista avrebbe partecipato per almeno tre volte a incontri all’ambasciata russa in Italia. Salvini persevera per il terzo giorno consecutivo nel suo insolito silenzio in piena campagna elettorale. E così la scena è tutta o quasi dei suoi contestatori. Il segretario pd Enrico Letta è netto: «Con Salvini l’incompatibilità è totale. Mentre stavamo discutendo in Europa, Salvini con un non meglio identificato consigliere che è anche consulente dell’ambasciata russa, andava a cena dall’ambasciatore a fare non si sa cosa». Il leader dem ne approfitta per avvertire i 5 Stelle in previsione del 21 giugno: «Nato e Ue sono i pilastri sui quali un governo si regge e se questi pilastri vengono meno la maggioranza non può stare insieme, se non è unita su questi temi». Su Salvini il leader di Azione Carlo Calenda taglia corto: «È un leader abbastanza disperato, dice cose a vanvera». La replica è affidata, insieme a una serie di dichiarazioni concertate che arrivano alle agenzie in serata, ai capigruppo leghisti di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo: «Attaccare chi vuole la pace non è un bel segnale che arriva dall’Europa. Salvini è l’unico pronto a mettersi in gioco per cercare la via del dialogo». E il vicesegretario Lorenzo Fontana: «Indegno il doppiopesismo nei confronti di Salvini». Di suo, il segretario aggiunge un messaggio destinato a chi ha fatto distinguo ( ), affidato alla chat del partito: «La Lega è una grande squadra, che ha vinto e vincerà a lungo, per questo il tentativo di alimentare litigi e divisioni si ripete sempre uguale, noioso e inutile». Diatribe intestine a parte, il progetto salviniano e le modalità con cui si è mosso, a partire dal ricorso al consulente Antonio Capuano e dai rapporti con l’ambasciata russa, continuano ad alimentare la discussione, in Italia e non solo. Per il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas «per andare a trattare servono credenziali», la leader di FdI Giorgia Meloni è tranchant: «Quello che fa Salvini non è un problema mio ma della sua maggioranza». Intanto, il Copasir si appresta a indagare sui retroscena del piano di Salvini, a partire dal coinvolgimento del diplomatico russo, poi espulso, che avrebbe fatto da tramite con il leader leghista. L’ultima polemica di giornata è un tweet con cui Salvini esulta per la prima nave merci uscita da Mariupol. La deputata pd Lia Quartapelle lo bacchetta: «Pubblicizza il furto di acciaio ucraino da parte dei russi».
Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 31 maggio 2022.
Carlo Calenda, il leader di Azione, chiede l’intervento del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica: «L’incontro di Matteo Salvini con l’ambasciatore russo senza avvisare il governo è ai limiti da quello che è accettabile da uno che partecipa a una maggioranza di governo. Questo è un atto di irresponsabilità da parte di una persona che non ha senso dei limiti. Il Copasir deve convocarlo e chiedergli spiegazioni».
Non solo. Per lui il leader della Lega non può più essere ammesso all’interno della maggioranza di governo, anche se, specifica, non significa che la Lega non possa stare più in maggioranza: «Dobbiamo aiutare la Lega a mettere Salvini in un angolo».
Lei ha parlato di irresponsabilità, Giorgia Meloni ha detto che non bisogna aprire crepe nel fronte, lei è d’accordo?
Io penso che ci sia il rischio di coprire di ridicolo l’Italia. Una posizione inaccettabile e influenzata da una potenza nemica: questa è una cosa gravissima. Per questo il Copasir farebbe bene ad approfondire l’accaduto.
Potrebbe aprire una crepa anche all’interno della maggioranza?
Io ritengo che sia del tutto implausibile avere Salvini al governo. Sarebbe proprio ora che la Lega cambiasse segretario. La Lega ha una storia di governo e di amministratori locali. Non credo che sia accettabile che tutto venga rovinato dai gesti inconsulti di Salvini.
Quindi la Lega non può più stare al governo?
Al momento è impossibile immaginare un’Italia in Europa con Salvini, Giorgia Meloni e anche Silvio Berlusconi dopo quello che ha detto su Vladimir Putin. Sono in rotta di collisione con l’Unione europea, ma per fortuna la Lega non è Salvini e basta, le persone che stanno al governo son responsabili e lui non regge il partito. Rappresenta una mina impazzita, la parte più seria del partito sta cercando di contenerlo. Con loro bisogna parlare e bisogna aiutarli ad avere la forza di mettere Salvini in un angolo.
Se Salvini continuasse a proporsi come mediatore?
Bisogna proibirglielo. Ha sicuramente legami poco chiari con la Russia, deve essere molto chiaro che non può inquinare la posizione italiana andando a prendere ordini dalla Russia. Questo per me è evidente.
Secondo lei Draghi cosa dovrebbe fare?
Draghi farà quello che ritiene giusto, intanto Giancarlo Giorgetti ha fatto quello che doveva fare, chiarire che questa non è la posizione di tutta la Lega e soprattutto della Lega al governo.
Intanto ancora instabilità.
Non credo che ci sia instabilità: ci sono due adulti che lavorano, Draghi e Mattarella, e ci sono dei bambini che giocano, Giuseppe Conte del Movimento 5 stelle e Salvini che stanno cercando di avvantaggiarsi dal punto di vista elettorale sulla guerra.
Prenderete iniziative in parlamento?
Su questo non c’è niente che il parlamento possa fare. La situazione di Salvini bisogna derubricarla a quello che è: una leadership in grave crisi, caotica e infantile che va stigmatizzata. Qui c’è una questione che ha a che fare con la serietà, che questo signore non ha dimostrato in tutte le condizioni della sua vita politica da quando andava al Papeete in mutande. Non ha la statura minima per essere un leader politico di governo in Italia.
Lei è un europarlamentare, come crede che vengano visti questi movimenti in Europa?
Salvini si è totalmente coperto di ridicolo nell’Europarlamento. Viene ricordato come quello che si metteva le magliette di Putin, quello che diceva che mezzo Putin è meglio di due Mattarella. Viene visto come un buffone. Non desta preoccupazione se non perché si ritiene che è dipendente dalla Russia e si comporta in questo modo. Poi al governo ci sono gli adulti e lui si permette di fare il ragazzino. Detto questo, resta gravissimo.
Capuano svela: “Vi racconto cosa si sono detti Salvini e l’ambasciatore russo”. Giampiero Casoni l'01/06/2022 su Notizie.it.
Antonio Capuano svela cosa è accaduto con l'iniziativa diplomatica occulta: “Vi racconto cosa si sono detti Salvini e l’ambasciatore russo”.
Antonio Capuano non sarà mai più famoso ed importante come in questo momento ed al Corriere della Sera svela: “Vi racconto cosa si sono detti Salvini e l’ambasciatore russo”. Il consulente del leader del Carroccio svela i retroscena già svelati da media e Copasir che indaga sul summit di Salvini con il rappresentate diplomatico di Mosca in Italia.
Ha detto Capuano: “I russi hanno capito che Salvini voleva spendersi davvero. E lo hanno invitato a fare altri passi”. Insomma, l’incontro del Capitano con l’ambasciatore della Russiadel 19 maggio scorso poteva dare frutti.
“Cosa si sono detti Salvini e l’ambasciatore russo
Quell’incontro prima negato e poi emerso assieme all’apertura di un’indagine da parte del Copasir sulla vicenda è il clou del momento. Capuano spiega: “Il segretario ha spiegato il suo progetto in quattro punti.
Dall’altra parte è arrivata un’apertura di credito”. Proprio ieri il premier Mario Draghi ha criticato, parlando di “necessaria trasparenza”, l’iniziativa del leader del Carroccio. Secondo Capuano, che con questa botta di geopolitica si è assicurato un posto assieme a Cavour e Kissinger, la condizione di dell’apertura dei negoziati di pace era il cessate il fuoco. “La risposta è stata: siamo disponibili a parlarne. Per la prima volta una tregua era possibile”.
Il ruolo del Papa e l’udienza in Vaticano
Serviva però un interlocutore credibile: il Papa. Che notoriamente quando parla Capuano molla anche i concistori: “Non a caso c’è stata un’udienza in Vaticano”. Si chiede poi Capuano: “Perché Salvini è l’unico leader europeo che non può andare a Mosca? Il Copasir? Io sono pronto a spiegare. Non c’è nulla di segreto”. Ma quale era il piano Salvini-Capuano? Quattro punti quattro: individuazione di una località per intavolare le trattative di pace, ruolo di garanzia dell’Italia, della Francia e della Germania, cessate il fuoco e viaggio di una altissima personalità nelle zone interessate.
Il quotidiano Domani ha raccontato che a cinque giorni dal 24 febbraio Salvini e Capuano hanno cenato con Sergey Razov all’ambasciata di Roma. Capuano ha smentito, l’ambasciata ha confermato.
Giuliano Foschini per repubblica.it il 2 giugno 2022.
Francesca Chaouqui, la Papessa, è una furia.
"Non sono stata io che ho presentato questo Capuano a Matteo Salvini".
Raccontano altro.
"Sicuro! Non sono stata io! È una cosa che mi offende...".
Lei conosce Capuano...?
"L'ho visto un paio di volte mentre faceva anticamera negli uffici della Lega. So chi è e quindi non avrei mai potuto dire una parola per lui. Ma avete visto che cosa è successo?".
Ecco: come è stato possibile?
"La Lega ha uno staff dedicato alla politica estera, più che qualificato. C'è gente come Lorenzo Fontana o Maria Giovanna Maglie, dei grandi professionisti che sono delegati al rapporto con le ambasciate. Non ne servono altre. Non ne servono!".
E invece come mai Salvini si è trovato con Capuano?
"Sono allergica al termine diplomazia parallela perché ritengo che non esistano diplomazie parallele. Chi lo fa credere, è un cialtrone. Guardate per un leader della caratura di Matteo Salvini è facilissimo farsi ricevere da un ambasciatore di un qualsiasi paese, prendere un appuntamento. Non c'è bisogno mica di un mediatore. Purtroppo in questi ambiti, parlo in generale perché ci manca soltanto che mi arriva una querela, ci sono persone che vivono facendo credere di avere relazioni particolari per organizzare incontri che invece si organizzano da soli".
E ora? Il Copasir, la politica?
"Io penso che il casino sia bello che finito. In generale, quando ci sono situazioni di questo genere, serve affidarsi a persone con un minimo di professionalità. E che lavorino con discrezione".
Lei è una consulente di Matteo Salvini?
"Salvini è un mio amico. E sul viaggio in Polonia voglio chiarire una cosa: io ero al confine con la mia Onlus e lui ha deciso di venire a visitare il confine. Nella storia con il sindaco polacco io non ho avuto alcun ruolo".
Un'ultima cosa: le risulta che Capuano sia amico di Cecilia Marogna, l'altra signora dei misteri vaticani?
"Diciamo che, fra simili, si capiscono bene".
Da open.online il 2 giugno 2022.
«È ridicolo e oltraggioso che ci sia chi minaccia e intimidisce, che il Copasir ritenga di indagare su cosa fa il segretario della Lega e chi incontra, peraltro avendolo raccontato in tv e sui giornali. Sono intimidazioni inaccettabili» A dirlo è Matteo Salvini parlando dell’indagine del Copasir su Antonio Capuano, il consigliere del segretario leghista che starebbe organizzando il suo viaggio in Russia.
«Oggi ho sentito i vertici dei servizi di sicurezza e smentiscono qualsiasi approfondimento, indagine, inchiesta», ha dichiarato Salvini, che ha continuato: «Fortunatamente siamo in un Paese libero e per la pace a testa alta incontro tutti». Nel suo viaggio in Russia, Salvini avrebbe anche dovuto incontrare il ministro degli esteri del Cremlino Sergej Lavrov, riguardo il quale ha detto: «Dovevo incontrarlo. Non l’ho sentito. Sarebbe stato un’occasione e spero che sia un’occasione».
Salvini: «Chi parla solo di armi fa il male dell’Italia»
Il segretario della Lega ha comunque confermato che «i contatti continuano». Salvini avrebbe incontrato negli scorsi giorni l’ambasciatore russo in Italia per tre volte: «Se devo chiedere il cessate il fuoco, lo devo chiedere alla Russia che ha iniziato il conflitto», ha dichiarato. «L’ho fatto e lo rifarò con trasparenza senza chiedere nulla in cambio perché questo è l’interesse nazionale italiano. Chi lavora per la pace fa il bene dell’Italia. Chi insulta, critica e parla solo di armi e guerra fa il male dell’Italia». Salvini ha aggiunto: «Ho il diritto dovere di incontrare tutti e spero che anche altri capi di partito lo stiano facendo».
Cesare Zapperi per corriere.it il 2 giugno 2022.
«Mi chiedono se vado a Mosca. Ma ragazzi, c’è un linciaggio a reti unificate da tre giorni per la sola idea di portare a Mosca e poi a Kiev una proposta di pace. E allora lavorerò via telefono». Matteo Salvini archivia così, confermando quel che appariva ormai certo dopo la levata di scudi generale, la sua missione a Mosca.
Dopo aver lasciato spazio libero per 72 ore alle ricostruzioni-interpretazioni e alle obiezioni altrui, il leader leghista si mostra risentito per quel che è stato detto e scritto sulla sua iniziativa. «Basta con questo fango a rete unificate, non faccio niente né per soldi né per interessi personali. Né vado a Mosca o San Pietroburgo per vacanza, ma per fare qualcosa se posso per la pace».
Salvini chiarisce meglio alcuni aspetti: «Putin non lo sento da anni, in Russia uno dei contatti era il ministro degli Esteri, Sergej Lavrov. Volendo potrei andarci anche domani a Mosca». E sugli incontri con l’ambasciatore russo in Italia Sergej Razov: «Ho parlato con l’ambasciatore russo, non una, ma più volte, in trasparenza, come con tanti altri suoi colleghi». Il diplomatico da parte sua conferma: «Non ci sono ostacoli per il suo ingresso nella federazione russa». Ma non entra nei particolari degli incontri ravvicinati.
Il segretario rivendica il diritto di lavorare per una via d’uscita dal conflitto e non risparmia le stoccate: «Non mi voglio sostituire a nessuno, non chiedo medaglie, ma quantomeno rispetto. Se devo chiedere il cessate il fuoco lo faccio a chi ha iniziato il conflitto. Se aspettiamo le mediazioni del ministro Di Maio temo che a Natale saremo ancora qua a parlare di guerra. Il piano di pace del ministro Di Maio è stato cestinato dopo un quarto d’ora». E poi ancora: «Vado avanti, prendendo anche l’eredità di una sinistra che una volta alla pace teneva. E comunque la pace è nell’interesse nazionale». Anche perché, chiude non prima di aver rassicurato sulla compattezza della Lega nonostante i malumori, «le sanzioni stanno creando gravi problemi all’economia italiana. Le esportazioni dall’Italia sono in calo del 48 per cento». L’ultima puntualizzazione riguarda il Copasir e l’ipotesi di una convocazione: «Ritengo di una gravità assoluta entrare nel merito di impegni volti alla pace».
Ma le diverse esternazioni salviniane, che si susseguono per tutta la giornata a voce e via social quasi a recuperare un deficit di comunicazione, non paiono convincere i critici. «L’iniziativa di Salvini ha reso il nostro Paese meno credibile — sottolinea il segretario del Pd Enrico Letta — Non va bene, c’è bisogno di essere uniti, determinati ed è il governo che deve assumere queste posizioni, non iniziative estemporanee che non vanno da nessuna parte».
Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 Stelle, è solo apparentemente meno duro: «Per iniziative di questo tipo è bene coordinarsi con il governo, con Palazzo Chigi e la Farnesina, perché se no si rischia di non dare un contributo alla pace, ma di creare qualche intralcio». E Matteo Renzi, leader di Italia viva, ricorre all’ironia: «Faccio la pace nel mondo è una frase più da miss Italia, anzi miss Italia è più seria di alcuni nostri politici. Per fare la pace bisogna lavorare di diplomazia e la diplomazia non è un viaggio in interrail».
Da Palazzo Chigi arrivano le osservazioni del sottosegretario alla Sicurezza Franco Gabrielli che si richiama alla posizione già espressa dal premier Draghi nei giorni scorsi: «Queste iniziative dovrebbero essere fatte a livello di leader di governo, non di leader di partito». E la trasparenza è richiesta «a maggior ragione» ai «leader di formazioni politiche che reggono il governo».
Da repubblica.it il 2 giugno 2022.
Poi l'attacco a Luigi Di Maio: "Se avessimo un ministro degli Esteri operativo e credibile...Non è in tutti i Paesi al mondo ritenuto tale, quindi tutti devono fare la loro parte". E la replica del ministro degli Esteri non si è fatto attendere: "Le critiche di Salvini? Mi sembra un film già visto. Ricordate quando fece cadere il governo Conte I? Iniziò tutto così, criticando i vari ministri del governo fino a staccare la spina. Spero di non rivedere lo stesso film. Chi spiegherà poi agli italiani che, a causa di una crisi estiva immotivata, abbiamo bruciato i 200 miliardi del Pnrr? - ha avvertito Di Maio - Lavoriamo tutti per la pace, rispettando alleanze e partner internazionali".
Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per Domani il 2 giugno 2022.
I servizi segreti italiani e quelli americani sapevano da mesi, come, quando e con quali accompagnatori Matteo Salvini incontrava diplomatici russi a Roma. Non perché spiassero il senatore della Lega ma perché villa Abamelek, sede dell'ambasciata della Federazione guidata dall'ambasciatore Sergej Razov, è monitorata costantemente dall'intelligence Usa e dalla nostra agenzia di controspionaggio interna, l'Aisi.
Un controllo che si è intensificato dopo l'inizio della guerra in Ucraina. Domani - grazie ad autorevoli fonti convergenti - è in grado anche di rivelare che, per via informale, anche alcuni importanti esponenti di palazzo Chigi erano a conoscenza delle date esatte degli incontri Razov-Salvini. Alcun esponenti di vertice della Lega sono stati addirittura messi in allerta per la presenza nei rendez vous del nuovo consulente per la politica estera del leader leghista, il misterioso Antonio Capuano. Avvertimenti caduti tutti nel vuoto, visto che gli incontri con l'ambasciatore russo - dopo il primo degli inizi di marzo - si sono susseguiti quasi sempre in presenza dell'avvocato di Frattaminore.
Amerikani Nonostante le preoccupazioni di Giancarlo Giorgetti e altri big per il curriculum zoppicante di Capuano in materia di rapporti internazionali, l'ex parlamentare di Forza Italia è diventato il regista di una diplomazia parallela non solo a quella del governo Draghi, ma pure a quella su cui stavano lavorando gli strateghi della Lega (Giorgetti, il responsabile del partito per gli Esteri Lorenzo Fontana e la giornalista Mariagiovanna Maglie, amica storica di Salvini) Sempre Capuano ha accompagnato Salvini anche all'ambasciata americana, il 22 marzo, per un delicato incontro a tre con il capo missione dell'ambasciata a Roma, Thomas Smitham. Gli sherpa Usa restano basiti della presenza del legale campano, che non avevano mai visto prima.
Gli americani avevano sempre tenuto rapporti minimi con Salvini perché considerato, dai tempi dello scandalo dell'Hotel Metropol, non affidabile e troppo vicino alla cerchia di Vladimir Putin. A guerra appena iniziata entra in campo Capuano, che suggerisce al leader leghista di chiedere lui agli americani un appuntamento formale. Dallo staff del senatore dicono però che «l'incontro tra Salvini e Smitham è stato preso unicamente tramite canali istituzionali». Se la presenza di Capuano è confermata («è verosimile»), viene invece negata la circostanza che sia stato Capuano a "vendersi" il meeting per ottenere una consulenza economica dal partito (mai arrivata).
Il colloquio, si legge nel comunicato stampa, aveva al centro «consultazioni su argomenti di interesse reciproco con particolare riferimento alla guerra in Ucraina». Difficile sapere se Salvini e Capuano abbiano parlato con Smitham delle loro interlocuzioni con l'ambasciata russa, del piano di pace in salsa padana o dell'intenzione di volare a Mosca per chiedere un cessate il fuoco. Da via Veneto dicono solo «di incontrare regolarmente tanti rappresentanti politici: ma in genere non diamo informazioni sul contenuto delle conversazioni».
«Draghi sapeva tutto» Salvini, dopo le inchieste di Domani e le polemiche sul suo viaggio poi saltato a Mosca, ha replicato «agli attacchi subiti». Con un tweet rivolto oltreché ai media colpevoli di aver «detto che gli incontri con Razov erano segreti», anche a palazzo Chigi.
La versione fornita dal governo a Domani è che il premier e i suoi consiglieri nulla sapevano delle interlocuzioni di Salvini con l'ambasciata russa. Salvini e i suoi uomini ribadiscono invece ed esibiscono una serie di lanci di agenzia in cui il leader parla dei propri contatti con ambasciatori stranieri, «tra cui quello russo», e della «sua disponibilità di andare a Mosca». Nel lancio di agenzia del 5 maggio Salvini dice, dopo un incontro a palazzo Chigi:
«Ho ribadito al premier Draghi che nel mio piccolo, se potessi essere protagonista del processo di pace, io andrei ovunque: da Mosca a Washington, da Pechino a Istanbul, visto che oggi ho incontrato l'ambasciatore russo. Non capisco la polemica italiana su chi lavora per la pace». Una cosa però è annunciare di aver chiesto all'ambasciatore russo un generico cessate il fuoco, un'altra è informare il governo di ogni passaggio sulla trattativa con Razov e lo sconosciuto Capuano per un piano di pace in vari punti. Palazzo Chigi nega che il 5 maggio Salvini abbia fatto menzione dei suoi colloqui con Razov. «Il governo mente sapendo di mentire», s' indigna lo staff del senatore, «speriamo che il Copasir, il comitato parlamentare che vigila sull'intelligence, faccia trasparenza anche su questo e non solo sui legittimi appuntamenti del segretario con ambasciatori stranieri per parlare di pace».
Il Copasir e la «strana» audizione dell’ufficiale dell’Fbi che rivela un’inchiesta su Trump. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.
La presenza del senior national officer Patrick Shiflett e le sue parole sulla Cina e sui suoi rapporti con gli Stati Uniti dell’amministrazione Trump.
Sono le 15 di martedì 24 maggio e il Copasir è pronto a ricevere un ospite inatteso, viene dagli Stati Uniti e ha chiesto un «incontro informale» per discutere di «ingerenze cinesi». Fin dall’inizio ai membri del Comitato per la sicurezza della Repubblica sembra di stare su un set cinematografico. All’appuntamento si presenta Patrick Shiflett, senior national intelligence officer dell’Fbi. È accompagnato da quattro funzionari dell’Ambasciata statunitense ed è assistito da un interprete personale. Cosa ci fa in Italia un alto ufficiale dell’Agenzia che in America si occupa di controspionaggio interno? Come mai ha deciso di venire a Roma, visto che il 12 giugno i rappresentanti del Copasir voleranno a Washington in visita ufficiale? E perché vuole parlare di Cina nel bel mezzo del conflitto ucraino scatenato dalla Russia?
Tra i presenti c’è chi vorrebbe porre queste domande, ma l’ospite anticipa tutti con un’altra domanda: «Avete da chiedermi?». Per superare un momento di stupore collettivo, il presidente del Copasir prende la parola così da rompere il ghiaccio. Adolfo Urso introduce la discussione toccando temi sensibili che però sono noti ai rappresentanti parlamentari. E pure Shiflett, che si inserisce, non offre spunti di novità.
L’attività di penetrazione cinese nei Paesi occidentali è al centro di una vasta pubblicistica, che comprende informative dei servizi segreti e report delle ambasciate. Di recente la diplomazia italiana ha riferito che due distinte delegazioni sono state inviate nel Vecchio Continente dal Waijiaobu — il ministero degli Esteri di Pechino — per riallacciare «relazioni alquanto sfilacciate» e rese ancor più difficili dall’atteggiamento di «neutralità filo-russa» adottato dalla Cina dopo l’inizio della guerra russa in Ucraina.
C’è un’ora da passare insieme. E più il tempo passa senza alcun sussulto, più i membri del Copasir si chiedono quale sia il reale motivo di questa visita inattesa, che è stata richiesta attraverso i canali diplomatici. Shiflett però non aggiunge elementi particolari rispetto ai dossier sulla propaganda cinese. Chi li ha studiati sa che l’attività è controllata direttamente da un apposito Dipartimento per la Propaganda del Comitato centrale del Partito comunista. Sa che le missioni sono composte da parlamentari, accademici, imprenditori. Sa persino delle liti che scoppiano tra «compagni» durante questi viaggi. Compresi gli ultimi in Europa.
Insomma, la saletta del Copasir sembrerà pure un set cinematografico, visto il dispositivo che accompagna l’uomo venuto da Washington. Ma il film non offre colpi di scena e l’ora di colloquio sta scadendo. Mancano pochi minuti quando Shiflett riprende la parola e inizia a spiegare come i cinesi finanzino negli Stati Uniti fondazioni, università, circoli culturali. E anche la politica. D’un tratto chi sta per alzarsi torna a sedere, perché comprende che non può perdersi il finale. Non resterà deluso. Come riferiscono in modo univoco alcuni dei presenti, l’ufficiale dell’Fbi rivela che nel suo Paese è in corso un’indagine per verificare se la Cina abbia finanziato la campagna presidenziale di Donald Trump.
Shiflett non fa in tempo a terminare la frase che i funzionar i dell’Ambasciata dicono «dobbiamo andare». Così i rappresentanti del Copasir restano appesi a una domanda: se è venuto fino a Roma per raccontarci dell’indagine, è perché c’è qualcosa in quel fascicolo che si collega all’Italia? La risposta appare scontata perché non ci sarebbe stata alcuna necessità di informare il Parlamento di uno Stato estero su fatti interni all’Amministrazione statunitense. Perciò il pensiero è corso all’estate del 2019, quando alla Casa Bianca sedeva Trump. Al viaggio a Roma dell’ex ministro per la Giustizia William Barr. All’accoglienza che gli fu riservata dall’allora premier Giuseppe Conte e dal direttore del Dis Gennaro Vecchione. E all’insofferenza dell’attuale presidenza americana per quei contatti ritenuti «anomali», visto che delegavano agli 007 italiani i rapporti con un politico di Washington. Il governo è stato informato. Non è parso sorpreso della visita inattesa.
Il giallo del piano di pace. Viaggio di Salvini a Mosca, perché il leader leghista ha fatto infuriare tutti. Claudia Fusani su Il Riformista il 31 Maggio 2022.
I governatori, da Zaia a Fontana, non ne sanno nulla. I gruppi parlamentari, alla Camera e al Senato a cui lui stesso aveva annunciato “la missione” nella chat interna, non sanno cosa dire. Lo staff del segretario non è disponibile a dare informazioni. La missione in Russia di Matteo Salvini ambasciatore di pace grazie alla mediazione dello sherpa Antonio Capuano, avvocato napoletano ed ex parlamentare di Forza Italia, è un enigma che imbarazza tutti. A cominciare dai suoi più stretti collaboratori che a domanda diretta allargano le braccia in un sconsolato “non sappiamo e quindi nulla di più possiamo dire”.
Imbarazza il centrodestra con Silvio Berlusconi, “sospettato” in quando l’unico a poter avere rapporti diretti con Putin di essere il vero mediatore, costretto a scrivere una lunga lettera al Corriere della Sera per ribadire concetti che ogni tanto tentennano nel vivace dibattito quotidiano: “Forza Italia sta con l’Europa e con gli Usa, l’Ucraina è il paese aggredito e dobbiamo aiutarla a difendersi”. Imbarazza soprattutto palazzo Chigi e il governo, di cui Salvini fa parte, che si presenta a Bruxelles al Consiglio straordinario europeo dove devono essere prese importanti decisioni su questa maledetta guerra con l’ingombro di un ex ministro dell’Interno che senza dire niente a nessuno ha lavorato e preso contatti per consegnare a Putin un piano per la pace in quattro punti in cui si coinvolge anche il Vaticano. Un delirio in tutti i sensi, politico, diplomatico e strategico.
Della missione di Salvini, che avrebbe dovuto iniziare tra domenica e lunedì, non si sa più nulla. Congelata? Rinviata? Cancellata? Eppure venerdì sera era stata data per certa e ieri mattina spiegata nei dettagli dal consulente diplomatico Antonio Capuano, ex parlamentare di Forza Italia. «Il senatore Salvini – ha spiegato in varie interviste Capuano – avverte la responsabilità di non esporre il governo e il suo partito a divisioni e polemiche». Quindi, la partenza è al momento rinviata, «per ora, nelle prossime ore vedremo. Il senatore non intende fermarsi». Nei capannelli leghisti ieri, alla Camera e al Senato, la rabbia per le interviste di Capuano era forse superiore allo sbigottimento per l’ennesima fuga in avanti del segretario.
Il problema è che il danno è stato fatto. La macchina del Cremlino sta sfruttando ogni pertugio per indebolire la compattezza dell’Europa e della Nato messa alla prova dopo tre mesi di guerra con penuria di materie prime, inflazione galoppante e la prospettiva di un autunno problematico. Giovedì scorso Putin ha provato persino a sfruttare la telefonata di Draghi finalizzata a trovare un accordo per liberare i 22 milioni di tonnellate di grano ferme nei porti ucraini spacciandola per un via libera alle forniture di gas per l’Italia. Così diceva, giovedì, il primo resoconto della telefonata veicolato dall’agenzia di stato russa Tass. Quasi un trattamento di favore all’amica Italia. Il nostro premier, intuita la mistificazione, è stato lesto nel ripristinare la verità dei fatti nell’ufficialità di una conferenza stampa. E in una lunga telefonata il giorno dopo con il presidente Zelensky.
Figurarsi cosa avrebbe potuto raccontare e distorcere il Cremlino se Salvini, informando palazzo Chigi praticamente a cose fatte (“per non bruciare il piano”, ha spiegato Capuano) fosse andato a Mosca consegnando a mano il piano di pace in quattro punti che prevede come special guest la mediazione del Vaticano come “sede neutrale dei negoziati” e del Pontefice come “garante morale”. Un disastro diplomatico rispetto alla tenuta del blocco Ue e Nato. Una coltellata alle spalle della povera Ucraina. Niente di tutto ciò a questo punto succederà. Ma il tentativo di macchiare l’affidabilità dell’Italia in politica estera c’è stato. Salvini inconsapevole? Se fosse, non si sa cosa sia peggio. «Salvini a Mosca con la sceneggiatura dell’avvocato Antonio Capuano sembra il film di un Totò crepuscolare, tristemente sulla via del tramonto», ha sintetizzato il senatore Pd Andrea Marcucci. «Iniziativa strampalata», l’ha definita il segretario dem Enrico Letta che ora pretende che il leader della Lega vada in Parlamento a spiegare cosa sta succedendo. Soprattutto che tipo di contatti ha avuto con Mosca visto che Capuano assicura che siano “contatti diplomatici ufficiali e di livello”. Ma chi? E per conto di chi?
Nulla è trapelato da palazzo Chigi. E piacerebbe poter sentire come ieri pomeriggio il premier Draghi avrà cercato di glissare sulla mediazione di Salvini una volta arrivato al Consiglio Ue derubricando l’iniziativa in qualcosa di personale di cui nessuno era stato informato. Forse non è neppure un caso che la “missione” di Salvini sia trapelata proprio alla vigilia del Consiglio che deve approvare il sesto pacchetto di sanzioni alla Russia. Embargo del petrolio compreso. Pacchetto su cui solo oggi capiremo se è stato trovato un accordo tra i 27 e che ieri, a sentire Orban ma anche la Germania, le distanze sembravano incolmabili. «La situazione è critica, servono altre armi, fate presto e soprattutto restate uniti», è stato l’appello di Zelensky ai 27 riuniti. Il sesto pacchetto di sanzioni risale al 4 maggio. Ancora non è stato trovato l’accordo perché i meccanismi decisionali della Ue (è necessaria l’unanimità) bloccano ogni decisione. Basta il veto di un paese, in questo caso l’Ungheria di Orban, e tutto si ferma. Così sul petrolio. Le opzioni parlano di embargo ma solo per le forniture che arrivano via mare. Restano in funzione le pipeline. Esenzioni che creano nei fatti una disparità di costi e prezzi ingestibile. I paesi falchi antirussi (Polonia e baltici) non ci stanno perché, all’opposto, si tratterebbe di un embargo troppo soft.
I 27 avrebbero invece trovato l’accordo su altre importanti questioni. Sul fronte dell’energia, ad esempio. Oltre a confermare il sostegno alla difesa dell’Ucraina (“rafforzare la capacità dell’Ucraina per tutelare la propria integrità territoriale e sovranità aumentando il sostegno militare nell’ambito del Fondo europeo per la pace”), per la prima volta si parla di un fronte comune europeo nelle politiche energetiche. Si mettono in conto “scarsità di forniture” o addirittura black-out di forniture dalla Russia. O su decisione Ue. O per vendetta del Cremlino. In entrambe le eventualità, serve un Piano di emergenza per l’interruzione del gas. Nelle bozze si parla esplicitamente di “accordi di solidarietà bilaterali e di un piano coordinato di emergenza”. Accordo anche sullo stoccaggio del gas che “che va accelerato prima del prossimo inverno”. Accordo raggiunto – la conferma arriverà solo nella nottata o stamani – anche su misure temporanee per frenare i prezzi e il ricatto delle forniture dalla Russia. È il price cap, il tetto al prezzo dell’energia, che il governo Draghi chiede dallo scorso autunno, ben prima che iniziasse la guerra e quando la speculazione sul gas era già in atto. Adesso sono d’accordo anche la Germania e i paesi baltici. Sarà una misura “temporanea e in accordo con i partner internazionali”.
Il punto di caduta è che le bollette dovrebbero subire un taglio consistente. «La Commissione – si legge nella bozza – dovrà proseguire rapidamente i lavori per l’ottimizzazione del funzionamento del mercato dell’energia elettrica europea in modo da resistere alla futura volatilità dei prezzi». Si tratta della prima timida apertura al decoupling (distacco) dei prezzi dell’elettricità da quelli del gas. Un altro dossier su cui Draghi lavora da molto tempo. Così come è centrale al tavolo dei 27 il tema di come sbloccare il grano ostaggio nei porti ucraini bloccati dalle mine russe. “C’è poco tempo, fate presto” ha chiesto Zelensky accusando Mosca di provocare una crisi alimentare che presto diventerà umanitaria.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Cesare Zapperi per il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.
«La svolta avviene il 19 maggio: l'intervento di Matteo Salvini in Senato è apprezzato dai russi che capiscono che c'è la volontà di fare sul serio per fermare la guerra».
Antonio Capuano, lei che ha assistito come consulente il segretario leghista, ci spieghi cosa è successo dopo.
«I russi hanno capito che Salvini voleva spendersi davvero. E lo hanno invitato a fare altri passi».
Chi era l'interlocutore?
«L'ambasciatore. Il segretario della Lega ha spiegato il suo progetto in quattro punti, dall'altra parte è arrivata un'apertura di credito».
Di che genere?
«La conditio sine qua non era il cessate il fuoco. La risposta è stata: siamo disponibili a parlarne, la strada è percorribile. Il confronto si doveva spostare a Mosca, ma il risultato era a portata di mano. Per la prima volta una tregua era possibile».
E allora avete deciso di accelerare.
«Sì, il piano che era già stato messo a punto, è stato affinato. Poi ci si è dedicati al tentativo di coinvolgere un garante morale».
Allude al Papa?
«Sì, papa Francesco ha detto più volte di voler recarsi a Kiev. Non a caso c'è stata un'udienza in Vaticano (con il cardinale Parolin, ndr )».
Oltretevere si sono sentiti strumentalizzati.
«Quando viene rotto il riserbo è chiaro che ci si risente. Il Vaticano non ha dato benedizioni. Ha ascoltato e ribadito la disponibilità a fare la propria parte. La contrapposizione non esiste».
Ma il progetto sta ancora in piedi o è affossato?
«Chiediamoci perché tutte queste reazioni negative. Perché Salvini è l'unico politico europeo che non ha il diritto di andare a Mosca?».
Lo dica lei.
«Non lo so, capisco solo che c'è chi non vuole la pace, che solleva obiezioni formali, che tira in ballo la mia modesta figura come se fosse uno scandalo, perdendo di vista l'obbiettivo vero: la pace».
Non crede che fosse un'iniziativa velleitaria?
«Per nulla. Il nostro piano ha tutte le caratteristiche per raggiungere l'obbiettivo».
Il suo ruolo alimenta polemiche. I suoi rapporti con le ambasciate estere sono chiacchierati.
«Vorrei che mi spiegassero cosa ho fatto di male. Si parla di truffe: a chi? per cosa? Addirittura si va a pescare un ex politico (Nicola Cosentino, ndr ) condannato a dieci anni per gettarmi addosso fango. La verità è che io sono apprezzato dalle ambasciate di mezzo mondo e questo a qualcuno dà fastidio».
C'era anche lei all'incontro con l'ambasciatore russo dell'1 marzo?
«No, non ne sapevo nulla. Ma non è un segreto che Salvini abbia incontrato l'ambasciatore. Non vedo dove stia il problema. Un politico non può avere rapporti con le autorità diplomatiche?».
Il Copasir vuole chiarezza.
«Io sono pronto a spiegare, non c'è nulla di segreto».
Ma siete stati voi a tenere tutto nascosto.
«Al momento opportuno avremmo informato sia il premier che il partito. Salvini non avrebbe scavalcato nessuno. Certe operazioni non si possono mettere in piazza».
Da “Posta e Risposta” – “la Repubblica” il 31 maggio 2022.
Caro Merlo, mi ha divertito l'intervista di Emanuele Lauria al consulente di Salvini, Antonio Capuano, che si atteggia a Kissinger. La decadenza di un leader si misura da quelli che nel mondo anglosassone chiamano "spin doctor".
Elena Mattei - Roma
Risposta di Francesco Merlo:
Ecco un gran dilemma per la politologia. Quando un leader passa, come Salvini, dagli osanna alle pernacchie trascina o è trascinato dal suo spin doctor? Pensi a Luca Morisi che, definito "Digital philosopher", pareva un incrocio tra Seneca, Cicerone e Machiavelli quando "postava" la nutella e le boccacce del Capitano, la pasta, il mitra, la ruspa, le felpe. E nella supponenza scenografica dell'avvocaticchio Conte e del suo grande fratello Casalino chi era il demiurgo di chi?
E Jim Messina e Steve Bannon erano diavoli o macchiette? Fu Renzi a imitare, come Sordi in Fumo di Londra , Tony Blair o fu Filippo Sensi a imitare Alastair Campbell? Almeno Capuano, che finge di trafficare con gli ambasciatori e con il Papa, ha la simpatia della patacca napoletana, come il Velardi di D'Alema. Lo spin doctor ("il dottore del colpo a effetto") non è una figura anglosassone, è l'italianissimo magliaro.
C. Zap. Per il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.
«Ho raccomandato anche al Copasir che l'importante è che questi rapporti siano trasparenti». Formale e felpata, arriva la chiosa del premier Mario Draghi (che precisa anche che il governo «è fermamente collocato nell'Ue e nel nostro rapporto storico transatlantico») a rafforzare il coro di critiche che hanno investito Matteo Salvini e il suo progetto di missione a Mosca. Un piano maturato dopo che il leader leghista avrebbe partecipato per almeno tre volte a incontri all'ambasciata russa in Italia. Salvini persevera per il terzo giorno consecutivo nel suo insolito silenzio in piena campagna elettorale. E così la scena è tutta o quasi dei suoi contestatori.
Il segretario pd Enrico Letta è netto: «Con Salvini l'incompatibilità è totale. Mentre stavamo discutendo in Europa, Salvini con un non meglio identificato consigliere che è anche consulente dell'ambasciata russa, andava a cena dall'ambasciatore a fare non si sa cosa». Il leader dem ne approfitta per avvertire i 5 Stelle in previsione del 21 giugno: «Nato e Ue sono i pilastri sui quali un governo si regge e se questi pilastri vengono meno la maggioranza non può stare insieme, se non è unita su questi temi».
Su Salvini il leader di Azione Carlo Calenda taglia corto: «È un leader abbastanza disperato, dice cose a vanvera».
La replica è affidata, insieme a una serie di dichiarazioni concertate che arrivano alle agenzie in serata, ai capigruppo leghisti di Camera e Senato, Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo: «Attaccare chi vuole la pace non è un bel segnale che arriva dall'Europa.
Salvini è l'unico pronto a mettersi in gioco per cercare la via del dialogo». E il vicesegretario Lorenzo Fontana: «Indegno il doppiopesismo nei confronti di Salvini». Di suo, il segretario aggiunge un messaggio destinato a chi ha fatto distinguo (Giorgetti), affidato alla chat del partito: «La Lega è una grande squadra, che ha vinto e vincerà a lungo, per questo il tentativo di alimentare litigi e divisioni si ripete sempre uguale, noioso e inutile».
Diatribe intestine a parte, il progetto salviniano e le modalità con cui si è mosso, a partire dal ricorso al consulente Antonio Capuano e dai rapporti con l'ambasciata russa, continuano ad alimentare la discussione, in Italia e non solo. Per il vicepresidente della Commissione Ue Margaritis Schinas «per andare a trattare servono credenziali», la leader di FdI Giorgia Meloni è tranchant : «Quello che fa Salvini non è un problema mio ma della sua maggioranza».
Intanto, il Copasir si appresta a indagare sui retroscena del piano di Salvini, a partire dal coinvolgimento del diplomatico russo, poi espulso, che avrebbe fatto da tramite con il leader leghista. L'ultima polemica di giornata è un tweet con cui Salvini esulta per la prima nave merci uscita da Mariupol. La deputata pd Lia Quartapelle lo bacchetta: «Pubblicizza il furto di acciaio ucraino da parte dei russi».
F.Oli per “la Stampa” il 30 maggio 2022.
Antonio Capuano vuole raccontare la sua versione per un motivo: «Sono indignato da come il senatore Salvini viene trattato. Vuole portare la pace e lo massacrano». Questo avvocato di Frattaminore, ex deputato di Forza Italia, spiega di collaborare «a titolo gratuito» con il leader della Lega sui dossier di politica estera. Con lui, secondo il suo racconto, si stava definendo il viaggio a Mosca, per sottoporre al regime di Putin un piano di pace, con un ruolo decisivo di Turchia e Vaticano.
Facciamo una premessa: come ha conosciuto Salvini?
«Circa un anno e mezzo fa un ambasciatore che assisto doveva incontrare Salvini e lo accompagnai. La cosa si è ripetuta poco tempo dopo. Lui mi fa "ancora tu?", da lì è nato un rapporto di stima reciproca».
Un incontro all'ambasciata russa?
«No no, per l'amor di Dio! Erano altre tematiche delicate. Forse se ne parla poco, ma Salvini è molto attento all'ambito diplomatico».
Cosa doveva andare a fare Salvini a Mosca?
«Abbiamo elaborato un piano, discusso solo in ambito diplomatico, che prevedeva, diciamo così, un metodo. E sarebbe stata l'occasione di sottoporlo ai vertici del governo russo».
Cosa prevede questo piano?
«Quattro punti: individuare una sede neutrale dove riprendere i negoziati; Italia, Francia e Germania come garanti; cessate il fuoco e infine il viaggio nelle zone interessate di un'altissima personalità, come garante morale».
Il Papa?
«Non posso fare nomi adesso».
Il piano è stato discusso con la Farnesina e Palazzo Chigi?
«Salvini non aveva bisogno di alcun mandato. Solo dopo il ritorno da Mosca, se i russi avessero dato via libera al piano, sarebbe andato da Draghi: è ovvio che senza il timbro del governo non se ne fa nulla».
A quel punto cosa avrebbe dovuto fare Draghi?
«Avrebbe analizzato il piano: può dire che è carta straccia e allora amen, oppure chiamare Macron e Scholz».
Salvini sarebbe partito grazie ai rapporti con la Russia?
«Ascolti bene: Salvini in Russia non conosce nessuno».
E quella maglietta?
«Ha avuto il coraggio di mettere la maglietta, mentre altri facevano affari con la camicia».
Ma chi avrebbe dovuto incontrare Salvini a Mosca? Avvocato, non mi dica che ha organizzato incontri con la quarta fila del governo russo...
«Ma quale quarta fila? Nemmeno la terza e manco la seconda. La prima!».
Putin?
«Non lo posso dire».
I russi sapevano del piano?
«Le dico solo che è stato ritenuto meritevole. Lei ricorda che il 19 maggio, in un discorso al Senato, Salvini propose di ritirare la candidatura di Mosca all'Expo 2030 per favorire quella di Odessa e poi aggiunse di coinvolgere Macron e Scholz?».
Lo ricordo.
«Ecco. Guarda caso i russi hanno ritirato la candidatura e si sono mostrati molto più aperti. Lei poi ha visto che Putin ha parlato con Macron e Scholz».
E questo c'entra qualcosa con il vostro piano?
«Io la invito a riflettere».
Con gli americani ne avete parlato?
«Sabato mattina ho ricevuto una chiamata importante: "Allora fate sul serio?"».
Perché Salvini non è partito ieri come era previsto?
«C'è una pausa di riflessione. Questo viaggio poteva non essere capito e poi avrebbe esposto il partito e il Paese».
Ha rinunciato quindi?
«Vediamo».
Forse non è più convinto del piano.
«Lo è dieci volte più di ieri».
Non teme che questo viaggio possa finire come quello in Polonia?
«Per la vicenda del sindaco con la maglietta di Putin le colpe sono di altri e Salvini per tutelare le istituzioni si è assunto una responsabilità non sua».
Lei non c'entra niente con quella trasferta sfortunata?
«No, è stato un suo blitz. Io avrei fatto in modo che non succedesse».
Antonio Crispino per “il Messaggero” il 30 maggio 2022.
Ex deputato di Forza Italia, Antonio Capuano, 51 anni, campano, è accreditato come il consigliere che sta preparando il viaggio a Mosca del leader leghista Matteo Salvini (anche se non ha ruoli ufficiali nel partito).
Scusi la domanda sfrontata ma lei che conoscenza ha del mondo russo?
«Nessuna. Nemmeno ho mai messo piede in Russia».
Quali contatti ha con Mosca?
«Contatti diretti non ne ho, a parte quelli lavorativi, essendo io un avvocato specializzato nell'assistenza legale alle ambasciate e ai consolati».
Quindi questo viaggio come lo state organizzando?
«L'iniziativa del senatore Salvini si basa su una proposta articolata in quattro punti da sottoporre a Putin e Zelensky».
E quali sarebbero?
«L'individuazione di una sede neutrale dove far incontrare i due leader; la richiesta del cessate il fuoco, lo sblocco del grano e degli aiuti umanitari; la scelta di tre paesi garanti di fatto come Italia, Francia e Germania e di un garante morale e infine la visita a Mosca preceduta da una tappa ad Ankara».
La visita a Mosca presuppone che gli altri tre punti si siano realizzati.
«Le assicuro che c'è un lavoro certosino che va avanti da mesi».
Ma lei all'ambasciata italiana ha presentato questo piano?
«No»
Al Governo italiano?
«Nemmeno».
E chi sono i suoi interlocutori?
«Il senatore Salvini ha sviluppato negli anni in cui è stato ministro e vicepremier contatti diplomatici di altissimo livello e a quelli ci stiamo rivolgendo per portare avanti una seria proposta politica di pace».
Come ha conosciuto Salvini?
«Ho avuto occasione di conoscerlo durante una visita di cortesia di un ambasciatore arabo nei suoi uffici al Senato più o meno un anno e mezzo fa, io ero consulente dell'ambasciata».
La ricordavo come un fervente berlusconiano.
«Lo sono ancora. Fui eletto deputato nel 2001 grazie a Fulvio Martusciello che mi scelse in un collegio in cui non voleva andare nessuno. Al 90% la mia elezione fu solo fortuna perché era il periodo in cui tutti votavano Forza Italia».
Aveva 29 anni e lasciò gli studi. Come è diventato avvocato?
«Dopo l'esperienza politica ho ripreso a studiare e mi sono laureato all'Università Internazionale in Scienze Politiche e in Giurisprudenza all'Università telematica Marconi. Poi ho approfondito con lode gli studi economici a Perugia».
Che reazioni avete registrato all'ipotesi di un viaggio a Mosca?
«C'è irriconoscenza e ingratitudine. Sono convinto che il tempo prima o poi gli darà ragione».
Lorenzo Fontana, vicesegretario del Carroccio dice di non conoscerla. Non è che Salvini domani dirà Non so chi è questo Capuano?
«Tutto è possibile ma non credo che lo dirà. Il senatore Salvini è una persona seria. Fontana non lo conosco nemmeno io».
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2022.
La visita di Matteo Salvini a Mosca sta diventando una profezia italiana che non si autoavvera. Fino a ieri, i media nazionali erano attestati su una sorta di Salvini chi? Tra le principali agenzie di stampa, che sono il metronomo dell'informazione russa, solo la Tass aveva dato in breve la notizia dell'iniziativa del segretario leghista, «fatta per mettere a punto un dialogo di pace». Tutti gli altri, niente, manco una parola.
Qualcosa è cambiato oggi, ma di rimbalzo, con la pubblicazione del «congelamento» della trasferta annunciato ai media nostrani dal suo consigliere diplomatico Antonio Capuano.
Salvini è stato costretto a rinunciare al suo viaggio. Così un titolo di Moskovskij Komsomolets , uno dei quotidiani più diffusi in Russia, quasi cinquecentomila copie di carta e cinque milioni di visualizzazioni al giorno per il sito.
L'orientamento del giornale è chiaro. Il suo direttore è Pavel Gusev, dal 1992 proprietario ed editore della holding MK, nonché capo della Sezione informazione e media che riferisce direttamente a Vladimir Putin. Un habitué del Cremlino. L'articolo dedicato al «Capitano» così viene chiamato in alcuni passaggi, ne loda le gesta e lo definisce come un personaggio conosciuto in Russia.
«Da quando nel 2014 visitò la Crimea dopo la sua unificazione al nostro Paese. A quel tempo, Salvini definì le sanzioni "una misura idiota che costerà all'Italia 5 miliardi di euro". Adesso, nei suoi confronti le autorità italiane hanno avviato un'indagine su un possibile finanziamento alla Lega da parte della Russia».
Il processo di «vittimizzazione» di Salvini è presente anche su altri articoli pubblicati oggi su siti di largo consumo come ad esempio Rosbalt.ru , la testata più letta a San Pietroburgo. Ma il segretario leghista è invece un ospite frequente dei giornali che in Russia vengono definiti «di seconda fascia», testate dal forte orientamento nazionalista e patriottico. Regnum , che vanta un milione di lettori al giorno e raccoglie i nostalgici dell'Urss che fanno capo alla galassia nazionalista creata da Vladimir Zhirinovskij, scomparso lo scorso aprile, il leader più antioccidentale che la Russia poteva vantare, lo ha eletto a proprio beniamino, riportandone le dichiarazioni con cadenza pressoché quotidiana, dalla sua contrarietà all'invio di armi, considerata «non nell'interesse dell'Italia», all'auspicio di una soluzione diplomatica.
Sono notevoli alcuni articoli di Regnum dove si racconta come il governo italiano abbia mandato in Ucraina grandi volumi di armamenti Nato camuffandoli come aiuti umanitari, e quelli sulla rivolta in corso in Italia contro il governo che vuole giungere «a una partecipazione diretta» al conflitto militare in corso.
Chi vive in Russia e ci tiene a tenersi aggiornato sulle dichiarazioni di Salvini, può fare ricorso anche all'agenzia online Krasnaya Vesna ( Primavera Rossa ), che pubblica il giornale «La sostanza del tempo».
Entrambe le testate sono state fondate e vengono gestite da Sergey Kurghinyan, storico e politico, leader di un movimento patriottico di sinistra che da almeno un decennio denunciava «il costrutto fondamentalmente antirusso attivamente promosso dall'attuale potere ucraino» incitando Putin a intervenire il prima possibile. Kurghinyan è uno strenuo sostenitore del Mondo russo, rimpiange la fine dell'Unione Sovietica e sostiene che l'attuale Europa è un falso, perché quella vera è in realtà la Russia, che prende le origini dall'Impero romano d'Oriente.
Le parole del leader leghista sulla necessità di non discriminare la cultura russa sono miele per Primavera Rossa , che ne ha fatto il protagonista della rubrica «Guerra politica», rielaborando a modo suo alcune dichiarazioni per farne una prova della scarsa compattezza del fronte occidentale.
La rassegna stampa di maggio è un florilegio salviniano, dalle sue frasi sull'intempestività dell'ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato a quelle contro le forniture di armi al regime di Kiev, fino a tre giorni fa, quando la testata «ultra-patriottica», così si definisce, ha annunciato ai suoi lettori la sua intenzione di preparare un viaggio in Russia. E ha lodato la sua idea di fare incontrare Putin e Volodymyr Zelensky «su una nave in acque neutrali». I commenti degli utenti di Primavera Rossa sul presidente ucraino e sulla sorte che gli viene augurata denotano invece molta fantasia e una discreta conoscenza del cinema dell'orrore.
Marco Demarco per il “Corriere della Sera” il 29 maggio 2022.
Quello di Renzi fu «un tentativo di rinnovamento radicale finito con una sconfitta». E quello di Letta? «È un tentativo da sostenere. La sfida è aperta». Nel libro appena pubblicato ( La democrazia al bivio, Guida editore) Vincenzo De Luca parla anche del Pd, oltre che della guerra, della giustizia e della palude burocratica, e subito colpisce il tono. Col solito sarcasmo accenna, è vero, a un partito che ancora «si propone ai cittadini con la chiarezza e l'efficacia comunicativa dell'aramaico antico», ma l'intenzione sembra buona.
Sembra, appunto, perché si sa che in De Luca convivono moltitudini. Chiamava «mezze pippe» i grillini.
Ora, preso dal declinante destino della democrazia, pensa a «un grande soggetto riformatore», e naturalmente è anche da quella parte che guarda. Aveva dato dell'asino ragliante a Salvini. Lo hanno visto tutti, poi, come è andata a finire: insieme su un palco a sostenere le ragioni e le contorsioni del pacifismo «pragmatico» , dell'atlantismo iper-critico, e di una occidentalizzazione dei sistemi politici vista quasi come una calamità.
Fuori dalle pagine stampate, De Luca ha ormai un chiodo fisso: contraddire la linea del suo partito sul conflitto in Ucraina e dire l'esatto opposto di quello che dice Letta. Un'eresia geopolitica, scrive lo storico Paolo Macry sul Corriere del Mezzogiorno , che ha lo stesso scopo di quella di Salvini: «Entrambi difendono il proprio peso specifico nei rispettivi partiti e nelle rispettive coalizioni».
Ma De Luca suona su più tastiere, non si sa mai. Nel libro quasi si mimetizza e scrive che «dobbiamo, con intelligenza, inglobare l'Ucraina nell'Unione Europea e, con tenacia, costruire anche in modi nuovi, rapporti, vincoli, forme di collaborazione con la Russia. Dobbiamo "incatenare a noi" quel popolo; sottrarlo al destino di un'umiliazione bruciante, foriera di nuove tragedie». Davanti a Salvini, invece, è così che parla dell'Ucraina.
«Altro che democrazia liberale! Nessuno ha detto che stavano facendo un'operazione di pulizia etnica a danno della comunità russa. Solo che nella comunicazione pubblica, se sono russi sono tutti oligarchi, se sono ucraini sono tutti democratici oxfordiani». Di più, in nome della par condicio tra aggressore e aggredito: «Se c'è un mega yacht è di Putin, se c'è una mega villa in Toscana di proprietà di Zelensky non se ne parla».
L'8 aprile aveva cominciato chiedendo prudenza al governo: «Siamo schierati nettamente con l'Europa e con la Nato, ma siamo diventati il Paese che grida di più». Quindici giorni dopo, la Nato è già condannata: «Abbiamo detto che è un'alleanza difensiva, ma questo è falso. È difensiva quando vuol essere difensiva, ma negli ultimi 30 anni è stata un'alleanza anche aggressiva che ha violato la legalità internazionale».
Passa qualche giorno e Stoltenberg, il segretario dell'Alleanza, si ritrova tra gli analfabeti di ritorno. Nel frattempo, nel golfo di Napoli staziona la portaerei Truman: c'è un invito a bordo, ma De Luca clamorosamente declina. Il 9 maggio, tocca invece all'amministrazione Biden: «Peccato che negli Stati Uniti non ci siano più Kissinger e Brzezinski, quei grandi diplomatici che avevano innanzitutto senso della storia, non questi tangheri.». Con Brzezinski, però, gli va male. Il giorno dopo lo intervista La Stampa e l'ex sottosegretario alla difesa è categorico: «È Putin il problema». Punto. De Luca non lo cita più.
Francesco Olivo per “la Stampa” il 31 maggio 2022.
Per capire il livello dello scontro dentro la Lega non occorre arrivare fino a Mosca, basta restare a Torino. Il viaggio a Mosca è congelato, forse rimandato o persino annullato. Ma pur non essendosi ancora imbarcato per la Russia, l'idea di Matteo Salvini ha fatto esplodere tutte le contraddizioni che nella Lega covavano da anni. Per i governisti le manovre del segretario con piani di pace, incontri segreti, diplomazie parallele e fantomatici consulenti esterni, stanno mettendo a repentaglio il partito. Specie quando si sparge la voce di un incontro con l'ambasciatore russo a Roma Sergey Razov, durante i primi giorni della guerra.
Giancarlo Giorgetti si smarca e richiama il segretario: «Bisogna muoversi di concerto con il governo». In evidente difficoltà, i salviniani passano alla controffensiva, insinuando che dietro all'addio al centrodestra comunicato ieri dall'ex candidato sindaco di Torino, Paolo Damilano, ci sia una sorta di operazione del ministro per screditare il leader, tanto più che l'imprenditore parla di «deriva populista» della coalizione.
Il fatto non è dimostrato e ha come unico indizio lo stretto legame di amicizia tra Giorgetti e l'imprenditore piemontese, fondatore della lista Torino Bellissima, ma la questione rilevante è l'interpretazione che danno della vicenda torinese i fedelissimi, quelli rimasti, del segretario: l'addio di Damilano infatti, sarebbe l'ennesima mossa dell'ala governista, che lavorerebbe incessantemente per indebolire Salvini, considerato troppo poco incline ai compromessi con Draghi. Il sospetto di Salvini è che queste presunte manovre abbiano come scopo finale quello di mantenere l'attuale schema di governo (con o senza Draghi), anche dopo le elezioni del 2023.
Accusare Giorgetti quindi, spiegano alcune fonti leghiste, è di fatto un modo per uscire dall'angolo nel quale Salvini si è ritrovato dopo le pubblicazioni dei suoi piani diplomatici autonomi. Ma le perplessità riguardo «l'iniziativa di pace» del segretario vanno molto al di là dei cosiddetti governisti. Il silenzio intorno alla missione del segretario è durato oltre tre giorni, i messaggi di solidarietà sono arrivati solo nella serata di ieri con una batteria di dichiarazioni secche, ma certo non tempestive.
Man mano che sono emersi i dettagli della trasferta e leggendo le dichiarazioni del consulente Antonio Capuano, la situazione è peggiorata e qualcuno è anche uscito allo scoperto, seppur con il linguaggio felpato con il quale si critica il leader in un partito leninista come la Lega.
Il fatto rilevante è che a esporsi sono due esponenti di peso e considerati un contropotere rispetto a Salvini, il governatore del Veneto Luca Zaia e appunto Giorgetti. Zaia dopo aver esibito la sua totale estraneità alle mosse del segretario, «non ne so nulla, anch' io leggo la stampa, vedremo quali saranno gli sviluppi. Non so assolutamente nulla di più», ha aggiunto, «penso che il percorso di pace debba essere in mano alla diplomazia».
Giorgetti va molto in là, giudica il piano della coppia Salvini-Capuano «suggestivo», ma aggiunge che «bisogna muoversi di concerto col governo. Sono questioni di portata mondiale, quindi ciascuno deve dare il suo contributo, ma all'interno di percorsi che sono molto molto complicati». Il ministro dello Sviluppo economico ammette che «in certe situazioni lo scoramento pervade. Dopodiché c'è un senso di responsabilità che fa sì che Draghi si faccia carico di prendere la croce e la porti avanti fino in fondo». Una situazione di cui forse anche il presidente del Consiglio, secondo il ministro, «ne ha piene le scatole». Un'altra prova, ragionano i salviniani, che «Giorgetti ha un altro leader da difendere».
Estratto dell’articolo di Paolo Berizzi per “la Repubblica” il 4 giugno 2022.
L'uomo che riempiva le piazze adesso le svuota o le raffredda. Da trascinatore a zavorra, da "capitano" ad "aggiunto". Un leader depotenziato fino a gettare un'ombra di sostenibile imbarazzo tra gli elettori che, prima, sapeva incantare e portare dove voleva lui.
«Ecco Matteo, facciamo un applauso! », dice un rigidissimo Luca Zaia sotto il dehor del "Deon", pasticceria dal 1870. Ad accogliere Salvini, in piazza dei Martiri a Belluno, pochi applausi e non proprio da mani spellate. Più cronisti e cameraman che elettori: si fa fatica a contarne cinquanta. Davvero non sembra sia arrivato il leader, l'ex ministro, l'ex uomo forte. Il capo del "chi si ferma è perduto" che ormai è metafora al contrario.
[…] L'insofferenza nella Lega nei confronti di Salvini è altissima. A tal punto che ci sarebbe - secondo fonti interne al partito - anche una "dead line": una soglia, alle prossime politiche, che sancirebbe il siluramento del leader. Se la Lega andasse sotto il 15% per il leader della Lega sarebbe la fine. Al suo posto l'ala governista spinge Massimiliano Fedriga, che da settimane è sparito. È lui il convitato di pietra a Belluno.
Oltre alle gaffe di Matteo c'è anche un tema di stile. Gli stessi governisti di rito giorgettiano ricordano, a proposito, i consigli del vecchio Bossi, che ai suoi parlamentari chiedeva di non lasciarsi "contagiare" da Roma. La Roma dal ventre molle, della mondanità. Per dire: se i ministri Giorgetti e Garavaglia vivono in appartamenti "sobri" e conducono vite da understatement , nel Carroccio anche le serate vivaci di Salvini sarebbero ritenute un corto circuito rispetto alla Lega delle origini. Il detonatore delle tensioni è, ovviamente, il caso Capuano. Ultima spina nel fianco. Qui si torna.
A un certo punto, infastidito dal brusio di alcuni militanti, Zaia chiosa: «Scusate, stiamo facendo una cosa seria qui». Prima del brindisi con le bollicine, Zaia picchia sull'autonomia del Veneto, Salvini dice che bisogna «restituire ai giovani l'opportunità di fare un anno di servizio militare». Un minuto prima aveva detto che è contro le armi e che adesso «dobbiamo lavorare tutti per la pace».
Francesco Moscatelli per “La Stampa” il 4 giugno 2022.
Scende dall'auto con la camicia bianca sbottonata e la croce di legno in bella vista, sorride ai ragazzini che gli chiedono un selfie e arriva sotto il dehors del bar pasticceria Deon in ritardo, mentre il candidato sindaco del centrodestra Oscar De Pellegrin e il presidente del Veneto Luca Zaia stanno già armeggiando da almeno un quarto d'ora con il microfono che gracchia.
Belluno, seconda tappa della prima giornata pubblica di Matteo Salvini dopo il putiferio scatenato dall'ipotesi di un suo viaggio in Russia, accoglie il segretario della Lega con un applauso. Meno caloroso il saluto con Zaia, considerato uno dei pesi massimi leghisti più critici nei confronti di Salvini insieme al ministro Giancarlo Giorgetti e al governatore del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga.
Ma siamo in campagna elettorale, Belluno è importante per tutti e due e dunque conta fare buon viso a cattivo gioco. Come in certi matrimoni dove l'amore è finito da un pezzo ma ci si presenta comunque insieme alle riunioni di famiglia. Salvo poi non risparmiarsi qualche frecciatina intinta nel curaro.
«Ciao Matteo, Oscar ha già parlato» le prime parole di Zaia. «Ciao Luca» la risposta altrettanto secca. Poi, rivolto al pubblico che cerca riparo dalla pioggia, Salvini si gioca la battuta meteorologica: «Sindaco bagnato, sindaco fortunato». Le labbra di Zaia si muovono in modo impercettibile. Meglio fare quello che c'è da fare e sbrigarsela in fretta.
E così il Doge si difende dagli attacchi del centrosinistra sulla sanità, rilancia la questione dell'autonomia - «Presto andrò a Roma con Attilio Fontana e con l'amico Stefano Bonaccini a parlare della legge quadro con il ministro Gelmini» - e sottolinea la specificità di Belluno «unica provincia totalmente montana d'Italia insieme a Sondrio».
La vera stoccata rivolta al segretario è il saluto a microfono aperto a Gianantonio «Toni» Da Re, europarlamentare e storico segretario della Liga Veneta, da tempo in contrasto con la segreteria federale e sottoposto pochi mesi fa a un procedimento disciplinare interno al partito per alcune sue dichiarazioni anti-salviniane. Da Re apprezza, ma a un amico che lo saluta confida amaro: «Che vuoi che dica, l'unica cosa verde che ci è rimasta ormai è il coccodrillo sulla maglietta».
Non è un caso che i due big del Carroccio abbiano scelto Belluno per la loro unica apparizione in tandem a pochi giorni dalle amministrative: il centrosinistra qui si presenta diviso dopo dieci anni di governo, De Pellegrin, ex campione paralimpico, è stimato da tutti e in definitiva le chance di vittoria ai piedi delle Dolomiti sono decisamente superiori che a Verona o a Padova. «Oscar non è un candidato che parla di sociale o di barriere architettoniche perché fa chic in campagna elettorale ma conosce bene queste cose e se ne occupa da decenni» dice Salvini. Che poi rivendica: «Se le Olimpiadi arriveranno anche qui a Cortina e lasceranno milioni sul territorio è solo grazie alla Lega». La Lega, non la Lega guidata dal presidente del Veneto Luca Zaia. Che infatti rimane impassibile ma chissà cosa sta pensando.
L'ex ministro dell'Interno parla anche della guerra in Ucraina: «La pace è un valore supremo in generale, ma per l'Italia lavorare per la pace, spendersi per la pace è questione di vita o di morte per il carrello della spesa, le bollette di luce e gas e la benzina. Noi dobbiamo lavorare tutti per la pace adesso e quelli che parlano solo di armi e di guerra non sanno di che cosa parlano».
Quindi, rispondendo a una domanda sulla trasferta a Mosca organizzata all'insaputa del suo stesso partito dall'ex deputato di Forza Italia Antonio Capuano, attacca duramente il suo ex collega di governo Luigi Di Maio: «Se avessimo un ministro degli Esteri autorevole non toccherebbe a me parlare con Lavrov».
Mirco Badole, unico deputato leghista del Bellunese, approva su tutta la linea: «Salvini non ha sbagliato niente. Sono sindaco e ho da lavorare altrimenti non avrei avuto problemi a comprarmi un biglietto aereo per andare anch' io a Mosca con lui».
Zaia invece, trascinato da alcuni militanti sotto un portico per scattare due fotografie, probabilmente non sente nemmeno quello che Salvini sta dicendo. Prima di risalire in macchina, però, chiarisce comunque la sua posizione: «Mosca? Non ne so nulla e immagino che il viaggio non sia più all'ordine del giorno». Anche su Capua no la risposta è tranchant: «Mai visto e mai sentito. Ho dovuto andare su Internet per capire chi era».
Character assassination. Come “ammazzano” Salvini. Il leader della Lega vittima di attacchi concentrici. È una strategia vecchia come il mondo. Corrado Ocone il 5 Giugno 2022 su Nicolaporro.it. su Il Giornale.
Character assassination. Così chiamano nei paesi anglosassoni gli attacchi concentrici a mezzo stampa rivolti ad un individuo ritenuto (a ragione o più spesso a torto) immorale o a un politico della parte avversa. Non se ne combattono le idee ma si mira a distruggerne l’immagine pubblica, la reputazione, la credibilità. Ovviamente, i colpi vengono inferti tutti insieme ad un minimo segnale di debolezza, o a una défaillance del destinatario. È come un po’ i matador che colpiscono il toro quando è a terra, non avendo il coraggio di farlo, almeno non con la stessa veemenza, quando è nel pieno del vigore e bello dritto in piedi. E lo si fa tutti insieme, in branco, così ci si sente ancora più forti.
Sono dinamiche favorite dai nostri tempi che amano definirsi o rappresentarsi come “civili”, dal trionfo in essi della comunicazione simbolica e dell’immagine, ma sono dinamiche vecchie come il mondo, che trovano il corrispettivo in istinti atavici. Il fatto che alla gogna tradizionale abbiamo sostituito quella mediatica poco cambia, e anche se amiamo definirci disincantati la nostra è un’epoca piena di miti e riti, sacrificali in questo caso, come e più di quelle del passato. La nostra ragione poggia sulle stesse basi irrazionali di sempre, solo che non è capace di riconoscerlo.
Venendo ai media, alla rappresentazione spesso fuorviante che essi ci offrono della realtà, dalla necessità “barbarica” che essi hanno di distinguere il “cattivo” dai buoni e crocifiggerlo, ciò che è impressionante è come in Italia oggi questa dinamica operi a tutto campo, e nei maggiori giornali. Compresi quelli che un tempo ci tenevano alla loro “indipendenza” e avevano fatto del motto (alquanto velleitario) dei “fatti separati dalle opinioni” il loro blasone di nobiltà. Ed è altresì impressionante vedere come essa si eserciti contro un leader in particolare: Matteo Salvini. Una gogna che non si fermerà se non il giorno in cui il cadavere del leader della Lega sarà considerato “morto” (per fortuna metaforicamente).
Sia chiaro: Salvini spesso fa poco per tutelarsi, dando credito qualche volta a consiglieri improbabili o compiendo passi all’insegna dell’improvvisazione. A ben vedere, è l’altra faccia del suo carattere e del suo successo fatto di empatia estrema con la gente comune, che avverte la sua spontaneità, la sua generosità, il voler portare il cuore sempre oltre l’ostacolo non risparmiandosi e senza troppo badare alle conseguenze.
I media hanno deciso però che il nostro deve “morire”, e inflessibili procedono spediti. Pur essendo il nostro panorama politico popolato di figure non proprio inattaccabili per scelte e moralità, agli atri tutto si perdona mentre a lui no. Ed ecco allora che si costruiscono “lotte interne” alla Lega che sarebbe stufa del segretario-leader e del suo “cerchio magico”, si parla di “segretario sotto tutela”, si certificano “freddezze” dei governatori, si immaginano leadership alternative, su parla di “manovre” contro di lui di Giancarlo Giorgetti e degli altri ministri. Il tutto nella speranza che le parole si autoavverino. Lo si vuole in combutta col nemico perché fa quello che fanno un po’ tutti i segretari di partito, gli si rinfacciano le sue affermazioni pro Putin (fatte come al solito spingendosi oltre senza prudenza) tutte risalenti a un periodo in cui un po’ tutti facevano affari con lo Zar e ne lodavano la sua capacità di leadership (Time lo nominò persino “uomo dell’anno”).
Questo rito barbarico della degradazione, denigrazione e uccisione dell’avversario, la sinistra lo ha tentato in passato con Silvio Berlusconi, senza riuscire a sconfiggerlo. Salvini, rispetto al Cavaliere, non ha risorse economiche, e forse anche meno voglia di voler piacere a tutti. Se avrà spalle tanto larghe da resistere all’offensiva, è da vedere. Lo auguriamo a lui. Ed anche al Paese.
Da “Posta e Risposta” – “la Repubblica” il 30 maggio 2022.
Caro Merlo, perché Salvini vuole a tutti i costi andare a Mosca? Se non fosse lui quasi quasi mi farebbe pena.
Gilda D'Avena - Pescara
Risposta di Francesco Merlo: Non si faccia commuovere da questo suo lento fallimento senza gloria. Salvini è rimasto l'incredibile Hulk che, da ministro dell'Interno, eccitava il razzismo e invitava a sparare ai ladri (alle spalle).
L'errore, che qualcuno allora commise, è credere che esista un Salvinipensiero, un'ideologia estremista ma coerente. Salvini è sempre stato un movimentista, nel senso che si muove molto, si agita, non si contiene ma non ha pensiero politico. (Pochi ricordano che, non molti anni fa, andò in Corea del Nord e tornò dicendo «è come la Svizzera»). Tanto più oggi che, sopraffatto dal successo di Giorgia Meloni e in calo nei sondaggi, si sente scavalcato anche come putiniano.
Insomma, si muove in modo scomposto per riaccreditarsi a Mosca dove lo considerano un ingrato. E non solo per i finanziamenti. Anche i russi, forse più di noi, ricordano i suoi grotteschi eccessi di devozione. Quando disse per esempio: «Se devo scegliere tra Obama e Putin scelgo Putin tutta la vita».
E poi: «Ne avessimo di più come Putin sulla faccia della terra». Ancora: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin». Infine: «Farei a cambio e porterei Putin nella metà dei Paesi europei mal governati da presunti premier eletti».
Si sa com' è andata: dopo l'invasione dell'Ucraina, Salvini si è vergognato, poi si è vergognato di essersi vergognato, e allora si è convertito al pacifismo, quindi è diventato gandhiano, e poi di nuovo putiniano ma riluttante Anche i russi hanno capito che di tutti i loro amici italiani che, storditi dalla guerra (Conte, Grillo, persino Berlusconi), si sono smarriti per strada, Salvini è il più suonato, quello che le prendeva anche quando vinceva, e figuriamoci oggi che perde.
(ANSA l'1 giugno 2022) "Le relazioni internazionali sono in mano a me e al responsabile esteri Lorenzo Fontana", "un capo di partito ha l'onore e l'onere, in nome della pace, di decidere chi incontrare e quando".
Lo dice Matteo Salvini ai giornalisti vicino al Senato. Ma è giusto tenere all'oscuro i ministri? "A me piace fare le cose e annunciarle una volta ottenuto il risultato. L'obiettivo era andare a Mosca tornando a casa con un risultato concreto da offrire al governo. Se il Pd non vuole, proveremo a raggiungere lo stesso risultato telefonicamente aspettando Letta e Di Maio.La mia impressione è che ci sia tanta gente che chiacchiera e non fa nulla".
(ANSA l'1 giugno 2022) "Se il viaggio a Mosca è ancora in piedi? Ma se mi hanno linciato ancora prima di partire...Io sto lavorando da Roma e da Milano. Se volevo incontrare Putin? Mai parlato di Putin, non lo sento da anni", "il ministro degli Esteri è uno dei contatti in corso". Lo ha detto il leader della Lega Matteo Salvini interpellato da alcuni giornalisti nei pressi del Senato. A chi gli chiede se Lavrov aveva già dato il suo consenso ribatte: "Diciamo che se io volessi potrei andarci domani, a Mosca, a Istanbul".
(ANSA l'1 giugno 2022) "Matteo Salvini ha ribadito più volte, da marzo a oggi, di essere impegnato per la pace e per la difesa dell'interesse nazionale italiano. Il leader della Lega ha parlato in diverse occasioni dei propri contatti con ambasciatori, tra cui quello russo, e della disponibilità di andare a Mosca. Nessuno può quindi sostenere che il pensiero e i contatti di Salvini fossero ignoti". Lo sottolinea la Lega che in una nota allega diversi take di agenzie o comunicati sul tema, sottolineando: "La rassegna è certamente incompleta ma sufficiente a dimostrare la totale infondatezza delle accuse a Salvini".
La Lega sottolinea che Salvini ribadì la sua linea anche dopo un incontro a Palazzo Chigi il 5 maggio e a tal proposito allega le dichiarazioni "mai smentite" fatte in quella circostanza dal leader leghista che, rimarca la nota, "cita ancora una volta l'ambasciatore russo e conferma pubblicamente (e spontaneamente) un altro incontro". Salvini si diceva pronto, se fosse servito per agevolare il processo di pace, ad andare ovunque, da Washingotn a Mosca. Tra le altre dichiarazioni che la Lega ricorda ce n'è una del 3 marzo in cui Salvini affermava di aver "chiesto all'ambasciatore russo di chiedere al suo governo il cessate il fuoco".
Jena per “La Stampa” l'1 giugno 2022.
Il problema di Draghi non è che Salvini vada a Mosca, bensì che magari poi torni.
Pino Corrias per “il Fatto quotidiano” l'1 giugno 2022.
I maestri Zen del tiro con l'arco, superata la soglia del dodicesimo Dan, smettono di tirare le frecce, ma solo lo pensano chiudendo gli occhi. E pensandolo, fanno sempre centro. La loro bravura è così sperimentata che immaginare il tiro equivale a farlo. Non c'è più la freccia che corre, ma è il pensiero che raggiunge il bersaglio. Matteo Salvini ha raggiunto quella identica perfezione nel suo campo specifico, quello delle sontuose cazzate.
Non deve più commetterle per fare centro e suscitare gli applausi del pubblico elettorale. Gli basta pensarle. E appena pensate, dirle: "Quasi quasi vado a Mosca a incontrare Putin per parlargli di pace". Ah, sì. E quando? E come? Con il solo bagaglio a mano?
"Magari vado domani, oppure sabato - ha detto pensoso -. Vorrei proporre a Putin la pace invece dei cannoni. Dare il mio contributo. E salvare tanti bimbi ucraini".
Nessuno ci aveva pensato prima di lui a una impresa del genere, partire per Mosca così, su due piedi, tanti saluti alla fidanzata, al governo, all'Europa, alla Nato: che ci vuole? L'ammirazione è stata immediata, unanime. Tutti i suoi alleati si sono precipitati ad accendere i riflettori per lo spettacolo e pure la brace dove cucinare il protagonista: "Avete sentito il progetto di Matteo? Vuole andare a Mosca".
"A Mosca!
""Non a Usmate. Non a Cesenatico. Non al Papeete".
"Bellissimo. E poi?
""Un taxi fino al Cremlino".
"Giusto. La piazza che già lo vide trionfare. E quindi?
""Una bella citofonata al portone: Vlad, è qui che si spaccia la pace?
""Come ai vecchi tempi".
"Quello era solo allenamento".
"Verso la perfezione Zen".
"Si scaldava le sinapsi per la grande impresa".
"Ieri salvare i bolognesi dalla droga. Oggi il pianeta dalla guerra".
Tre mesi fa Salvini Matteo stava ancora al nono Dan delle scempiaggini e voleva migliorarsi. Per questo partì per la Polonia, fino a raggiungere il confine con l'Ucraina, paesello di Przemysl, in una terra già così piena di profughi sgomberati dalle bombe di Putin che era meglio informarsi almeno da un tassista, prima di farsi vedere, travestito da colomba. Lui niente sapeva, poverino. Era così fiero del suo passato ("Tra Putin e Merkel vi lascio la Merkel e mi tengo Putin tutta la vita") che salì ignaro sul patibolo dove il sindaco Wojciech Bakun lo aspettava imbracciando in mondovisione la maglietta con il faccione di Putin che proprio Salvini aveva indossato qualche mese prima con scritto: Armata russa".
"Russa" anziché "Rossa", era questa la battuta di cui Matteo andava più fiero, proprio mentre i suoi astuti colonnelli discutevano di provvigioni leghiste sul petrolio russo ai tavoli del celebre Hotel Metropol di Mosca, dove i camerieri ex Kgb, non innaffiano i fiori sui tavoli, per non bagnare i microfoni.
Considerata in decibel, l'ondata di pernacchie ha stupito persino lui che non si aspettava un successo così immediato, così completo da rendere il viaggio (a questo punto) perfettamente inutile.
"Forse rinuncio", ha detto in serata commosso. Poi ha chiuso gli occhi, dandolo per fatto, come i maestri Zen quando dormendo, giocano a Mosca cieca.
Vi prego fate andare Matteo Salvini in Russia. Le altre volte è andata così bene...Mauro Munafò su L'Espresso il 30 maggio 2022.
Il leader della Lega voleva andare a parlare con Vladimir Putin ma, dopo le polemiche, ha rinunciato. Un vero peccato perché negli anni passati ci aveva regalato perle uniche. Rivediamole insieme.
Speriamo alla fine ci ripensi. Perché sarebbe davvero un peccato perdersi un nuovo viaggio di Matteo Salvini in terra russa, visti i precedenti.
Il leader leghista aveva infatti annunciato nei giorni scorsi l’intenzione di andare a parlare con il presidente Vladimir Putin per cercare di dare il suo contributo alla pace in Ucraina. Ma le polemiche dell’intero mondo politico italiano (e non solo) lo hanno fatto desistere, almeno per il momento. E quindi niente, il Capitano neo-pacifista dovrà attendere altre avventure.
La grande occasione mancata costringe così noi fan delle trasferte leghiste nell’Est a ripescare il materiale d’archivio che tante gioie ci ha regalato. Ma sarebbe troppo facile parlare dell’ultimo viaggio in Polonia, quello in cui Salvini è stato umiliato dal sindaco di Przemysl che gli ha regalato una sua maglietta con Putin. No, il viaggio indimenticabile è proprio quello a Mosca e in Crimea del 2014, quando Salvini andava in giro per la piazza Rossa con la famigerata maglietta di Putin addosso oppure si dilettava a ispezionare le navi da guerra nel porto di Sebastopoli in quella Crimea appena annessa dalla Federazione russa. Mentre insomma la Russia si prendeva le sanzioni internazionali, Matteo andava a stringere alleanze e ad elogiare quanto pulita fosse la piazza “senza rom e mendicanti”.
Per avere un’idea di quante dichiarazioni imbarazzanti sia riuscito a inanellare in un solo viaggio, abbiamo realizzato un breve blob grazie ai video postati dallo stesso Salvini sul proprio profilo Facebook.
Matteo Salvini in Russia, storia di un viaggio leggendario
Si va dal vantarsi di essere il primo partito a incontrare il “ministro di Crimea”: «La Lega Nord è la prima delegazione che ha incontrato il ministro per la Crimea e che qua da Mosca rilancia la necessità di un'alleanza, di un accordo, di un dialogo tra la Russia e l'Italia, fra la Russia e l'Europa. Il pericolo è l'estremismo islamico, non è Putin». Per poi ribadire che «con Putin si dialoga, non si gioca alla guerra». Di più: «Abbiamo già un appuntamento col ministro (della Crimea ndr) per venire in Veneto, in Lombardia, in Piemonte per lavorare insieme. Quindi se il buongiorno si vede dal mattino, siamo partiti molto bene». Sempre sugli incontri con i colleghi russi, Salvini racconta della “totale sintonia” «per dire no alle sanzioni economiche contro la Russia. Totale collaborazione, sia a Strasburgo che a Bruxelles tra la Lega e Russia Unita e ci saranno delle sorprese». beh, in effetti le sorprese non sono mancate.
Poi con grande lungimiranza geopolitica racconta di quanto è pulita Mosca: «Piazza Rossa Mosca. Città pulita, non c'è un mendicante, non c'è un lavavetri, non c'è un rom, non c'è un clandestino, non c'è un rompiscatole».
La vera perla resta però il giro in barca a Sebastopoli. «Cari amici siamo nel porto di Sebastopoli, Repubblica di Crimea parte della Federazione Russa dopo regolare e libero referendum e qua c'è una parte della flotta russa che difende i confini e noi dedichiamo queste immagini a Renzi, ad Alfano che invece usano le nostre navi per aiutare gli scafisti e agevolare un'invasione senza precedenti». Chissà se le navi in Crimea vanno bene anche oggi che i confini li superano.
Eh sì, è davvero un peccato che Salvini non torni in Russia.
Konstantin Malofeev, l’oligarca amico della Lega, incriminato a New York. «Usa i paradisi fiscali per creare tv pro Putin in Europa». Milioni dalle offshore per finanziare canali tv che diffondessero in Europa fake news e propaganda per il Cremlino. L’inchiesta dell’Fbi sul miliardario russo che trattava affari con il leghista Savoini ha portato all’arresto dell’ex direttore americano di Fox News, la rete pro-Trump. Paolo Biondani e Leo Sisti su L'Espresso il 23 maggio 2022.
Ai primi di marzo del 2017 Matteo Salvini concede un'intervista esclusiva alla tv russa Tsargrad, fondata e controllata dall'oligarca nazionalista ortodosso Konstantin Malofeev. Il leader della Lega sceglie quel network privato, nato a Mosca due anni prima, per contestare le sanzioni internazionali contro il regime di Vladimir Putin, per attaccare televisioni e giornali italiani ed europei che criticano le azioni russe, per...
Affari, promesse e bluff del consulente di Salvini. "Capuano ha imbrogliato mezzo mondo". Conchita Sannino su La Repubblica il 31 maggio 2022.
L'elezione a deputato e gli interessi con le ambasciate. Il giudizio dell'ex FI Cosentino intercettato dalla Dda.
A pensar male, la politica arriva prima di tutti. E allora chissà se sul conto di Antonio Capuano, il superconsulente sbucato dal nulla sotto l'ala di Matteo Salvini, non avesse ragione il vituperato Nicola Cosentino, buonanima (istituzionale) di Forza Italia, quasi un secolo fa, quando gli capitò di commentare il profilo dell'allora collega deputato come quello di "un imbroglione".
Matteo Salvini, "dal Vaticano lo giurano". Mosca e il "mediatore", arriva la bomba sporca. Libero Quotidiano l'01 giugno 2022
Continua a tenere banco la vicenda della (mancata) visita di Matteo Salvini a Mosca, dell’incontro con Sergey Razov all’ambasciata russa e soprattutto del misterioso Antonio Capuano, ex deputato di Forza Italia è sarebbe diventato in questi mesi di guerra in Ucraina un consulente non ufficiale del segretario legista per quanto riguarda la politica estera. Emiliano Fittipaldi ha approfondito la questione su Domani, scoprendo che esisterebbero tensioni all’interno del partito di Salvini, dove nessuno o quasi pare che fosse a conoscenza dell’ipotesi del viaggio e soprattutto del nuovo consigliere.
“I responsabili ufficiali e ‘ufficiosi’ che curano i rapporti internazionali di Salvini - scrive Fittipaldi - (cioè Lorenzo Fontana e la giornalista Maria Giovanna Maglie, atlantista convinta e per questo in rotta con l’amico Matteo) sono rimasti basiti dall’ipotesi di viaggi spericolati e nuovi consiglieri che non conoscevano nemmeno”. Il caso sarebbe però arrivato fino in Vaticano, dove ci sarebbe una certa preoccupazione per “l’apertura di credito” data a Salvini nell’ultimo anno. Dalle parti della Santa sede si inizia a pensare che forse è stata un errore l'apertura al leghista.
“Un percorso di avvicinamento - scrive sempre Fittipaldi - quello tra Salvini e pezzi del Vaticano, che non è affatto casuale o sporadico, e che adesso rischia di essere interrotto: la Santa sede non ha affatto apprezzato le nuove mosse di Salvini e le chiacchiere in libertà del suo nuovo consulente, e da adesso in poi – giurano dal palazzo apostolico – al leghista russofilo si darà meno credito”.
DOPO L’INCHIESTA DI DOMANI IL COPASIR APRE UN’INDAGINE. Tutti gli incontri tra Salvini e Razov in ambasciata: «Ci ha detto lui di andare a Mosca». GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 31 maggio 2022
Matteo Salvini e il suo misterioso consulente per la politica estera Antonio Capuano hanno incontrato ben quattro volte l’ambasciatore russo in Italia Sergey Razov. Oltre alla cena dello scorso primo marzo di cui Domani ha dato conto ieri, ci sono stati altri tre randez vous della coppia leghista con l’uomo di Vladimir Putin a Roma.
Tra metà marzo e la terza settimana di maggio. Incontri che ci sono stati confermati sia da ambienti vicini al leghista sia dalla diplomazia di Mosca.
«I giorni successivi Razov ha mostrato una certa disponibilità, però ci ha detto che il cessate il fuoco si decide a Mosca, quindi bisognava andare lì....», dice Capuano, che aggiunge: «Razov ha detto a Salvini: “La partita si gioca a Mosca. Te la senti? Lo sai che ti esporrai a critiche”. Salvini gli ha detto che lo sapeva, “ma io faccio il politico: se è per cessate il fuoco sono pronto a farlo”». Ecco di cosa hanno parlato durante gli incontri.
GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI. Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.
Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Giovanni Tizian e Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it l'1 giugno 2022.
Matteo Salvini e il suo misterioso consulente per la politica estera Antonio Capuano hanno incontrato ben quattro volte l’ambasciatore russo in Italia Sergej Razov. Oltre alla cena dello scorso primo marzo di cui Domani ha dato conto ieri, ci sono stati altri tre incontri, tra metà marzo e la terza settimana di maggio, confermati sia da ambienti vicini al leghista sia dalla diplomazia di Mosca. Palazzo Chigi ribadisce «assoluto sconcerto» per l’attivismo del capo di uno dei partiti chiave della maggioranza («è gravissimo, Salvini non ci ha avvertito di nessuna delle sue visite da Razov», dicono gli staff di Mario Draghi e del ministro degli Esteri Luigi Di Maio).
Domani ha sentito al telefono – di nuovo – Capuano. L’avvocato di Frattaminore in provincia di Napoli, un tempo deputato di Forza Italia oggi legale di ambasciate, aveva smentito di aver partecipato ad incontri con l’ambasciatore russo.
Dopo aver letto l’articolo che dava anche conto delle conferme della portavoce dell’ambasciata della Federazione russa, ha deciso però di parlare e ammettere che tra lui, Salvini e Razov ci sono stati alcuni incontri e un fitto scambio di opinioni sulla guerra in Ucraina intorno al piano di pace in salsa leghista «di cui anche Mosca era a conoscenza».
Una strategia iniziata mesi fa (incredibilmente con qualche sponda dentro il Vaticano, forse colpito dai continui riferimenti di Salvini al «pacifismo del Santo Padre») che si sarebbe dovuta concludere con il viaggio del numero uno del Carroccio in Russia, in veste di mediatore di una tregua.
«Questa iniziativa prende corpo dopo l’intervento di Salvini in Senato il 19 maggio», dice a Domani Capuano. Quel giorno Salvini aveva chiesto a Draghi di impegnarsi non solo nell’«invio delle armi», ma anche in una maggiore attività «per il dialogo e la cessazione delle ostilità». Salvini anticipa alcuni punti del piano cui stava lavorando con Capuano e i russi: «Presidente, le faccio tre proposte concrete.
Primo, chieda alla Russia di sbloccare l’export di grano. Sono certo le arriverà una risposta positiva. Poi provi a chiedere a Mosca di ritirare candidatura di Mosca per l’Expo 2030 e di appoggiare quella di Odessa (a scapito di Roma, ndr), potrebbe avere anche qui una risposta positiva. Infine proponga un cessate il fuoco di 48 ore con Germania, Italia, Francia e Santa sede garanti dell’avvio di negoziati di pace. Sono convinto che verrà ascoltato con attenzione». Quando a sinistra qualcuno protesta, Salvini replica: «Non mi ha chiamato Putin stanotte come pensa qualcuno».
Secondo Capuano, uno degli incontri segreti in ambasciata sarebbe successivo proprio all’intervento in Senato. «Abbiamo parlato con Razov del piano presentato in aula. Ai russi questa cosa gli stava bene, e ci dicono: “Ma perché non la fa proprio l’Italia questa proposta? Salvini ha detto: Ci posso provare, ma voglio il cessate il fuoco”, e così ha fatto una proposta più articolata: il tavolo con i garanti, la neutralità... Razov ha detto: “Tosto, è forte”. I giorni successivi Razov ha mostrato disponibilità, però ci ha detto che il cessate il fuoco si decide a Mosca, bisognava andare lì».
Dall’ambasciata russa confermano gli appuntamenti con Salvini ma ci tengono a segnalare come «Capuano non è un nostro collaboratore, ma un consulente di Salvini». Anche dalla Lega non commentano le dichiarazioni fatte dall’avvocato a Domani che esplicitano come il viaggio di Salvini a Mosca – poi saltato – sia stato suggerito da Razov in persona. Lo staff del Capitano spiega solo che «il capo ha sempre e solo chiesto all’ambasciatore la fine delle ostilità», e che palazzo Chigi («che non sta brillando sotto il profilo diplomatico, Mosca parla solo con tedeschi e francesi») non può mettere becco sulle attività di un leader di partito.
Capuano, avvocato con interessi in Kuwait e amico di diplomatici mediorientali, dice di non ricordarsi il numero esatto di incontri con Razov («quattro mi sembrano tanti»), però è certo che durante l’ultimo avvenuto «dopo il 19 maggio, Razov ha detto a Salvini: “La partita si gioca a Mosca. Te la senti? Lo sai che ti esporrai a critiche”. Salvini gli ha detto che lo sapeva, “ma io faccio il politico: se è per cessate il fuoco sono pronto a farlo”. La disponibilità di Razov c’era, ma ne doveva parlare con Mosca. Mosca dunque sapeva dell’incontro tra Razov e Salvini e credeva in questa soluzione».
Il consulente del leader aggiunge che «a Mosca avremmo parlato con chi doveva decidere. Lì avremmo dovuto fare due incontri, più un terzo che dipendeva dal senatore Salvini». Persone vicino al dossier dubitano che Salvini sarebbe riuscito a incontrare Putin in persona, ma il Copasir potrebbe chiederlo presto ai protagonisti dell’affaire: ieri il comitato parlamentare sui servizi segreti ha annunciato l’apertura di un’inchiesta ufficiale.
I servizi segreti hanno monitorato gli incontri tra Salvini e Razov. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani l'1 giugno 2022
I servizi segreti italiani e quelli americani sapevano da mesi, come, quando e con quale accompagnatori Matteo Salvini incontrava diplomatici russi a Roma.
Non perché spiassero il senatore della Lega (per i nostri comparti di sicurezza è irrilevante se parlamentari italiani fanno visita a questa o un’altra sede diplomatica straniera), ma per un motivo più banale: villa Abamelek, sede dell’ambasciata della Federazione guidata dall’ambasciatore Sergey Razov, è monitorata costantemente dall’intelligence Usa e dalla nostra agenzia di controspionaggio interna, l’Aisi.
Domani – grazie ad autorevoli fonti convergenti – è in grado anche di rivelare che, per via informale, anche alcuni importanti esponenti di Palazzo Chigi fossero a conoscenza delle date esatte degli incontri Razov-Salvini, e come esponenti di vertice della Lega siano stati addirittura messi in allerta per la presenza nei randez vous del nuovo consulente per la politica estera del leader leghista, il misterioso Antonio Capuano
GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI
Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.
Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.
Salvini trattava con l’ambasciatore russo in Italia all’insaputa di Draghi. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 31 maggio 2022
Dopo cinque giorni dall’inizio dell’invasione il leghista e il suo consulente hanno cenato con Sergej Razov all’ambasciata di Roma. Capuano smentisce, ma l’ambasciata conferma tutto a Domani
Palazzo Chigi: «Non sappiamo nulla dell’incontro, sarebbe grave anche perché sarebbe avvenuto dopo l’invasione dell’Ucraina». La portavoce di Mosca: «Non possiamo dire nulla sul contenuto del colloquio tra Salvini e Razov»
Tensione nella Lega. Ma anche il Vaticano è preoccupato: l’apertura di credito data a Salvini nei mesi scorsi rischia adesso di essere stato un errore. Il ruolo della Maglie e i misteri del nuovo consulente di Frattaminore
Il 1° marzo Matteo Salvini ha incontrato in gran segreto l’ambasciatore russo in Italia, Sergej Razov, insieme al misterioso Antonio Capuano, un ex deputato di Forza Italia di Frattaminore che è diventato, negli ultimi mesi, una sorta di superconsulente di Salvini per la politica estera.
Il rendez vous è avvenuto di sera, presso l’ambasciata a Roma, dove Razov ha organizzato una cena per il capo della Lega. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo era iniziata solo una settimana prima, e intorno al tavolo – risulta a Domani – erano seduti Salvini, Capuano, Razov e il suo consigliere e traduttore. Non sappiamo di cosa abbiano parlato gli astanti, ma è probabile che le discussioni siano cadute su questioni legate al conflitto appena scoppiato, alle rimostranze della Russia e – forse – alla posizione del partito di Salvini (da sempre considerato vicinissimo a Vladimir Putin) rispetto a Mosca, in quei giorni già presa di mira delle prime sanzioni occidentali.
Qualche fonte interna alla Lega suggerisce che la coppia Salvini-Capuano abbia incontrato Razov altre volte anche a metà marzo e inizio aprile, ma un fatto è certo: Domani ha contattato palazzo Chigi, che dice di non essere a conoscenza di alcun incontro riservato tra il leader di uno dei partiti della maggioranza e l’ambasciatore Razov: «Fosse vera la notizia, sarebbe gravissimo».
LA CENA
Capuano, sentito al telefono, interrompe subito la chiamata dicendo «di Razov non so nulla». Dal quartier generale della Lega Andrea Paganella, attuale braccio destro del leader e capo segreteria ai tempi del Viminale di cui malpensanti danno la responsabilità di non aver fatto filtro tra Salvini e Capuano, risponde con un secco «no comment». Da via Bellerio prima escludono che Paganella abbia mai «fatto da tramite» tra il capo e l’avvocato campano, e poi dichiarano «di non escludere la presenza di Capuano durante un incontro tra Salvini e Razov.
Non ci sarebbe nulla di male però: noi i faccia a faccia tra Salvini e Razov li abbiamo sempre pubblicizzati».
In realtà, non c’è traccia di comunicati stampa che danno notizia di alcun incontro tra Salvini e l’ambasciatore russo nel periodo successivo all’invasione. La tempistica è decisiva: anche perché un faccia a faccia con un fedelissimo di Putin da parte di un leader politico che non ha alcun incarico di governo è fuori da qualsiasi regola diplomatica, a maggior ragione in tempi di guerra. Domani ha chiesto conto dell’incontro anche alla portavoce dell’ambasciata russa, Valentina Sokolova: «Sì, confermo l’incontro tra Salvini e l’ambasciatore Razov. È il nostro lavoro accogliere le persone, anche politici come Salvini, che fa parte della maggioranza di governo. Per quanto riguarda il contenuto, non possiamo dire cosa è stato detto».
Dunque delle due l’una: o Razov mente, e sembra stavolta un fatto improbabile. O invece Salvini deve spiegare come mai ha incontrato l’ambasciatore (e perché ci è andato con Capuano, che ha addirittura negato il fatto a Domani) senza dirlo – almeno a detta di palazzo Chigi – a nessuno dello staff del premier. Non sappiamo se il trio Salvini, Capuano e Razov abbia discusso di strategie politiche da adottare, o dell’organizzazione della visita di Salvini a Mosca in veste di mediatore di un piano di pace in salsa leghista, ma è un fatto che ieri le quattro interviste che l’ex deputato forzista ha rilasciato ai giornali hanno destato sconcerto.
In primis in casa della Lega, dove i responsabili ufficiali e “ufficiosi” che curano i rapporti internazionali di Salvini (cioè Lorenzo Fontana e la giornalista Maria Giovanna Maglie, atlantista convinta e per questo in rotta con l’amico Matteo) sono rimasti basiti dall’ipotesi di viaggi spericolati e nuovi consiglieri che non conoscevano nemmeno.
Ma anche dentro al Vaticano hanno letto con preoccupazione le dichiarazioni dell’avvocato campano. Rispondendo a una domanda sulla possibilità che la Santa sede possa essere sede dei colloqui di pace, l’ex berlusconiano infatti ha detto sibillino: «Abbiamo sondato due ipotesi. Il Vaticano? Mi sembra sia uscito sui giornali che Salvini venerdì abbia fatto una visita lì».
LA RABBIA DEL VATICANO
È noto che Salvini la settimana scorsa abbia incontrato il segretario di Stato, Pietro Parolin. Nulla è però trapelato in merito al contenuto del colloquio. È un fatto, pure, che quello con il cardinale sia solo l’ultimo di una serie di incontri di rilievo che il capo della Lega ha avuto con pezzi da novanta della chiesa negli ultimi tempi.
Un rapporto dialogico che si è intensificato da settembre dello scorso anno, quando Salvini ha conosciuto meglio monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli stati. Un incontro fortemente voluto proprio da Maglie, che forse per organizzare il faccia a faccia ha messo a frutto la sua conoscenza con Francesca Immacolata Chaoqui, ex membro della commissione Cosea che ha ancora ottimi agganci Oltretevere.
Nelle interlocuzioni con il leader politico il Vaticano ha consigliato un cambio di linea sul tema migranti e dell’accoglienza, uno dei più cari a papa Francesco. In questa ottica va declinato anche il recente viaggio di Salvini a Beirut, dove il leghista ha incontrato monsignor Cesar Essayan, vicario apostolico in Libano. I due si sono confrontati sulla crisi umanitaria del paese, con Salvini che ha addirittura garantito di fare di tutto per aprire un corridoio umanitario «per i più fragili». Parole assai diverse dalla solita narrazione muscolare. Il capo del Carroccio ha usato toni simili anche nella disastrosa visita in Polonia.
Dove Salvini ha incontrato, oltre al sindaco di destra che gli ha rinfacciato in mondovisione la celebre maglietta con la faccia di Putin, anche il nunzio apostolico della Polonia. Un percorso di avvicinamento, quello tra Salvini e pezzi del Vaticano, che dunque non è affatto casuale o sporadico, e che adesso rischia di essere interrotto: la Santa sede non ha affatto apprezzato le nuove mosse di Salvini e le chiacchiere in libertà del suo nuovo consulente di Frattaminore, e da adesso in poi – giurano dal palazzo apostolico – al leghista russofilo si darà meno credito.
EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.
La trattativa segreta di Salvini con l’ambasciata russa è una questione di sicurezza nazionale. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 31 maggio 2022
Una verifica di governo è necessaria: in tempo di guerra nessun paese può permettersi di avere al potere chi trama con il nemico.
Proprio nei giorni in cui faceva pesare lo scetticismo della Lega sul primo decreto del governo Draghi che inviava armi all’Ucraina per resistere a Putin, Salvini incontrava di nascosto l’ambasciatore russo Sergery Razov all’ambasciata russa di Roma, come scoperto da Emiliano Fittipaldi.
Nessun governo può avere al suo interno un partito guidato da un capo partito che dialoga di nascosto con gli uomini di Putin. E nessun partito che vuole stare al governo può tollerare come segretario un soggetto che mette a rischio la sicurezza nazionale.
Una verifica di governo è necessaria: in tempo di guerra nessun paese può permettersi di avere al potere chi trama con il nemico. Ed è questo che ha fatto Matteo Salvini, leader della Lega. La sua diplomazia parallela non è soltanto il prodotto di un’ansia da sondaggi negativi, ma una questione di sicurezza nazionale che deve interessare il presidente del Consiglio Mario Draghi e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nella sua veste di capo delle forze armate.
Sapevamo del piano di pace parallelo elaborato da Salvini con un personaggio opaco ignoro anche ai vertici della Lega, l’ex parlamentare di Forza Italia Giovanni Capuano. Ma lo scoop di Emiliano Fittipaldi inserisce quella che sembrava una improvvida iniziativa individuale in un contesto radicalmente diverso.
Proprio nei giorni in cui faceva pesare lo scetticismo della Lega sul primo decreto del governo Draghi che inviava armi all’Ucraina per resistere a Putin, Salvini incontrava di nascosto l’ambasciatore russo Sergery Razov all’ambasciata russa di Roma.
Il solo fatto che Salvini abbia scelto di non dare pubblicità all’incontro, tenuto nascosto anche a palazzo Chigi, indica che il leader della Lega sapeva di star facendo una cosa grave, dalla quale poteva ottenere un tornaconto personale ma che non andava resa pubblica.
Il fatto che nelle settimane seguite a quell’incontro Salvini, tramite Capuano, abbia continuato a tessere una diplomazia parallela e competitiva a quella ufficiale a questo punto risulta di gravità massima: di quale paese faceva gli interessi, Salvini, nei suoi abboccamenti in Vaticano? Dell’Italia o della Russia, governata dal partito putiniano gemellato con la Lega?
Senza reagire alle rivelazioni sull’attivismo di Salvini e le connessioni segrete con i russi, l’Italia di Draghi non sarebbe più credibile in nessun consesso internazionale. Quale partner condividerebbe informazioni sensibili con un esecutivo infiltrato da Putin?
Per la prima volta dalla fine della Guerra fredda, il sistema dei partiti italiano si sta riassestando sulla faglia della politica estera, come era ai tempi dell’Urss, quando perfino il segretario del Pci veniva chiamato a scegliere il blocco occidentale, per essere un partner istituzionale affidabile.
Salvini ha scelto Mosca, nessun governo può avere al suo interno un partito guidato da un capo partito che dialoga di nascosto con gli uomini di Putin. E nessun partito che vuole stare al governo, come è il caso per la parte di Lega leale a Draghi, può tollerare come segretario un soggetto che mette a rischio la sicurezza nazionale.
Quando gli ucraini hanno sospettato che un loro negoziatore passasse informazioni ai russi, lo hanno giustiziato sul posto. Per fortuna di Salvini, siamo in Italia ma non per questo il suo comportamento è meno grave.
STEFANO FELTRI, direttore. Nato a Modena nel 1984. Ha studiato economia alla Bocconi con l’idea di fare il giornalista. Ha lavorato per la Gazzetta di Modena, Radio24, il Foglio, il Riformista e poi dal 2009 al Fatto Quotidiano, di cui è stato prima responsabile dell’economia e poi vicedirettore. Nell’estate 2019 si è trasferito negli Stati Uniti per lavorare e studiare alla University of Chicago - Booth School of Business, dove ha curato il sito ProMarket.org dello Stigler Center diretto dal professor Luigi Zingales. Ora è direttore di Domani.
Salvini trattava con l’ambasciatore russo in Italia all’insaputa di Draghi. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 31 maggio 2022
Dopo cinque giorni dall’inizio dell’invasione il leghista e il suo consulente hanno cenato con Sergey Razov all’ambasciata di Roma. Capuano smentisce, ma l’ambasciata conferma tutto a Domani
Palazzo Chigi: «Non sappiamo nulla dell’incontro, sarebbe grave anche perché sarebbe avvenuto dopo l’invasione dell’Ucraina». La portavoce di Mosca: «Non possiamo dire nulla sul contenuto del colloquio tra Salvini e Razov»
Tensione nella Lega. Ma anche il Vaticano è preoccupato: l’apertura di credito data a Salvini nei mesi scorsi rischia adesso di essere stato un errore. Il ruolo della Maglie e i misteri del nuovo consulente di Frattaminore
Il 1° marzo Matteo Salvini ha incontrato in gran segreto l’ambasciatore russo in Italia, Sergej Razov, insieme al misterioso Antonio Capuano, un ex deputato di Forza Italia di Frattaminore che è diventato, negli ultimi mesi, una sorta di superconsulente di Salvini per la politica estera.
Il rendez vous è avvenuto di sera, presso l’ambasciata a Roma, dove Razov ha organizzato una cena per il capo della Lega. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo era iniziata solo una settimana prima, e intorno al tavolo – risulta a Domani – erano seduti Salvini, Capuano, Razov e il suo consigliere e traduttore. Non sappiamo di cosa abbiano parlato gli astanti, ma è probabile che le discussioni siano cadute su questioni legate al conflitto appena scoppiato, alle rimostranze della Russia e – forse – alla posizione del partito di Salvini (da sempre considerato vicinissimo a Vladimir Putin) rispetto a Mosca, in quei giorni già presa di mira delle prime sanzioni occidentali.
Qualche fonte interna alla Lega suggerisce che la coppia Salvini-Capuano abbia incontrato Razov altre volte anche a metà marzo e inizio aprile, ma un fatto è certo: Domani ha contattato palazzo Chigi, che dice di non essere a conoscenza di alcun incontro riservato tra il leader di uno dei partiti della maggioranza e l’ambasciatore Razov: «Fosse vera la notizia, sarebbe gravissimo».
LA CENA
Capuano, sentito al telefono, interrompe subito la chiamata dicendo «di Razov non so nulla». Dal quartier generale della Lega Andrea Paganella, attuale braccio destro del leader e capo segreteria ai tempi del Viminale di cui malpensanti danno la responsabilità di non aver fatto filtro tra Salvini e Capuano, risponde con un secco «no comment». Da via Bellerio prima escludono che Paganella abbia mai «fatto da tramite» tra il capo e l’avvocato campano, e poi dichiarano «di non escludere la presenza di Capuano durante un incontro tra Salvini e Razov.
Non ci sarebbe nulla di male però: noi i faccia a faccia tra Salvini e Razov li abbiamo sempre pubblicizzati».
In realtà, non c’è traccia di comunicati stampa che danno notizia di alcun incontro tra Salvini e l’ambasciatore russo nel periodo successivo all’invasione. La tempistica è decisiva: anche perché un faccia a faccia con un fedelissimo di Putin da parte di un leader politico che non ha alcun incarico di governo è fuori da qualsiasi regola diplomatica, a maggior ragione in tempi di guerra. Domani ha chiesto conto dell’incontro anche alla portavoce dell’ambasciata russa, Valentina Sokolova: «Sì, confermo l’incontro tra Salvini e l’ambasciatore Razov. È il nostro lavoro accogliere le persone, anche politici come Salvini, che fa parte della maggioranza di governo. Per quanto riguarda il contenuto, non possiamo dire cosa è stato detto».
Dunque delle due l’una: o Razov mente, e sembra stavolta un fatto improbabile. O invece Salvini deve spiegare come mai ha incontrato l’ambasciatore (e perché ci è andato con Capuano, che ha addirittura negato il fatto a Domani) senza dirlo – almeno a detta di palazzo Chigi – a nessuno dello staff del premier. Non sappiamo se il trio Salvini, Capuano e Razov abbia discusso di strategie politiche da adottare, o dell’organizzazione della visita di Salvini a Mosca in veste di mediatore di un piano di pace in salsa leghista, ma è un fatto che ieri le quattro interviste che l’ex deputato forzista ha rilasciato ai giornali hanno destato sconcerto.
In primis in casa della Lega, dove i responsabili ufficiali e “ufficiosi” che curano i rapporti internazionali di Salvini (cioè Lorenzo Fontana e la giornalista Maria Giovanna Maglie, atlantista convinta e per questo in rotta con l’amico Matteo) sono rimasti basiti dall’ipotesi di viaggi spericolati e nuovi consiglieri che non conoscevano nemmeno.
Ma anche dentro al Vaticano hanno letto con preoccupazione le dichiarazioni dell’avvocato campano. Rispondendo a una domanda sulla possibilità che la Santa sede possa essere sede dei colloqui di pace, l’ex berlusconiano infatti ha detto sibillino: «Abbiamo sondato due ipotesi. Il Vaticano? Mi sembra sia uscito sui giornali che Salvini venerdì abbia fatto una visita lì».
LA RABBIA DEL VATICANO
È noto che Salvini la settimana scorsa abbia incontrato il segretario di Stato, Pietro Parolin. Nulla è però trapelato in merito al contenuto del colloquio. È un fatto, pure, che quello con il cardinale sia solo l’ultimo di una serie di incontri di rilievo che il capo della Lega ha avuto con pezzi da novanta della chiesa negli ultimi tempi.
Un rapporto dialogico che si è intensificato da settembre dello scorso anno, quando Salvini ha conosciuto meglio monsignor Paul Richard Gallagher, segretario per i rapporti con gli stati. Un incontro fortemente voluto proprio da Maglie, che forse per organizzare il faccia a faccia ha messo a frutto la sua conoscenza con Francesca Immacolata Chaoqui, ex membro della commissione Cosea che ha ancora ottimi agganci Oltretevere.
Nelle interlocuzioni con il leader politico il Vaticano ha consigliato un cambio di linea sul tema migranti e dell’accoglienza, uno dei più cari a papa Francesco. In questa ottica va declinato anche il recente viaggio di Salvini a Beirut, dove il leghista ha incontrato monsignor Cesar Essayan, vicario apostolico in Libano. I due si sono confrontati sulla crisi umanitaria del paese, con Salvini che ha addirittura garantito di fare di tutto per aprire un corridoio umanitario «per i più fragili». Parole assai diverse dalla solita narrazione muscolare. Il capo del Carroccio ha usato toni simili anche nella disastrosa visita in Polonia.
Dove Salvini ha incontrato, oltre al sindaco di destra che gli ha rinfacciato in mondovisione la celebre maglietta con la faccia di Putin, anche il nunzio apostolico della Polonia. Un percorso di avvicinamento, quello tra Salvini e pezzi del Vaticano, che dunque non è affatto casuale o sporadico, e che adesso rischia di essere interrotto: la Santa sede non ha affatto apprezzato le nuove mosse di Salvini e le chiacchiere in libertà del suo nuovo consulente di Frattaminore, e da adesso in poi – giurano dal palazzo apostolico – al leghista russofilo si darà meno credito.
EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.
Salvini a Mosca, gli incontri a Villa Abamelek e gli annunci che Palazzo Chigi nega. Monica Guerzoni su Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.
Il segretario della Lega non ci sta, non accetta il richiamo alla trasparenza che gli ha rivolto il premier da Bruxelles. E dopo aver fatto assemblare dallo staff due pagine fitte di rassegna stampa per dimostrare «la totale infondatezza delle accuse a Salvini», fa trapelare tutto il suo «stupore» per la reazione di Palazzo Chigi. Ad ascoltare i sussurri e le grida che arrivano dal quartier generale del Carroccio, « Draghi sapeva della missione a Mosca». Non solo grazie alle dichiarazioni pubbliche di Salvini, ma perché per due volte lo stesso senatore gli avrebbe parlato dell’intenzione di volare in Russia.
A sentire la Lega, Salvini avrebbe informato Draghi sia nel corso del loro ultimo colloquio in piazza Colonna, sia durante il volo da Milano a Roma del 25 maggio. Eppure due giorni dopo, quando la notizia del piano è stata svelata, la reazione di Farnesina e Chigi è stata di puro sconcerto. E Salvini: «Informerò Draghi e il partito». Sabato 28 maggio, intervistato da Bruno Vespa in Puglia, Di Maio ha dichiarato che «nessuno sapeva nulla, né alla Farnesina, né a Palazzo Chigi». Posizione che nell’ entourage di Salvini definiscono «insostenibile», ricordando tutte le occasioni in cui il leader ha parlato della sua voglia matta di volare a Mosca.
Per Palazzo Chigi l’interlocuzione con il governo «è una cosa seria». Non si può pensare che il premier debba apprendere dalla tv che un leader della sua maggioranza medita di partire per il Paese che ha aggredito l’Ucraina e che ha preparato il viaggio con diverse visite all’ambasciata russa a Roma. Nello staff di Salvini avvalorano «tre o quattro» incontri a villa Abamelek con l’ambasciatore Sergey Razov, o persino «cinque o sei». Ma lo fanno solo adesso, a caso scoppiato e senza aver informato Palazzo Chigi. Chi sapeva tutto sono i servizi segreti, italiani e americani, che hanno monitorato con attenzione tutte le visite di Salvini a Razov.
Il 3 marzo, con il mondo sotto choc per l’aggressione del 24 febbraio, Salvini afferma di aver «chiesto all’ambasciatore russo il cessate il fuoco». Però dimentica di dire quel che ha rivelato il Domani e cioè che l’1 marzo, giorno in cui Draghi in Parlamento schierava l’Italia con Kiev, lui era a cena da Razov a Villa Abamelek assieme all’avvocato di Frattaminore ora al centro della bufera, Antonio Capuano. Il 31 marzo Salvini torna a evocare Razov: «Se parlo io con l’ambasciatore russo sono un soggetto pericoloso, se giustamente parla Draghi con Putin, fa il suo dovere». Ad aprile Salvini vede l’ambasciatore russo una volta almeno e l’1 maggio dichiara di essere al lavoro per parlare di pace con l’aggressore: «Se riuscissi a parlare con Mosca direbbero che è sempre lo stesso Salvini amico di Putin. Se potessi essere utile partirei domattina». E il 3 maggio: «Andrei a piedi a Mosca se fosse utile per la pace».
Il 5, data in cui vede anche l’ ambasciatore turco Omer Gucuk , il segretario sale a Palazzo Chigi per incontrare il premier e quando scende rivela di aver visto Razov il giorno stesso: «Se potessi andrei ovunque, da Mosca a Washington, da Pechino a Istanbul. L’ho ribadito anche al premier Draghi». L’incontro decisivo con Razov avviene il 19 maggio. Salvini parla al Senato e sprona Draghi a fare pressing sulla Russia perché sblocchi l’export di grano e perché proponga Odessa al posto di Mosca per l’Expo 2030: «Sono convinto che le arriverà una risposta positiva». Parole che qualcuno leggerà come ispirate da Razov. Dopo Palazzo Madama, Salvini si sposta all’ambasciata russa. Ed è allora che Razov lo sprona a partire, per portare il piano di pace al ministro russo degli Esteri, Lavrov. «Putin ci aspetta», la spara grossa Capuano. Il 24 maggio, a Porta a Porta, Salvini invoca un tavolo della pace: «Andrei a vedere le carte in mano a Putin...».
Intanto prepara i visti e il 27 maggio viene ricevuto dal cardinale Pietro Parolin. Capuano ha raccontato che l’obiettivo dell’incontro chiesto al segretario di Stato fosse proporre il Vaticano come sede neutrale per i negoziati di pace. Questa lettura ha fatto irritare la Santa Sede e la Lega smentisce: «Nessuna irritazione del Vaticano». Il 27 maggio è anche il giorno in cui trapela la notizia del viaggio, previsto per domenica 29. Il leader è costretto a metterci la faccia: « Io a Mosca? Ci sto lavorando». Le chat della Lega ribollono e Salvini assicura che, «qualora la possibilità si facesse concreta», ne parlerà «coi vertici del movimento e delle istituzioni».
Invece la missione è già fallita. Esplode la polemica e il Copasir apre un fascicolo. Ci vorrà tempo perché il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica si riunisca per affrontare il caso: il Parlamento è fermo per le elezioni amministrative e dal 12 al 17 giugno i membri del Copasir voleranno a Washington in visita istituzionale.
L’ambasciata russa: «Abbiamo pagato noi il volo per Mosca a Salvini, poi i soldi ci sono stati restituiti». Il Corriere della Sera l'11 Giugno 2022.
La nota dei diplomatici di Mosca in Italia che spiega l’«assistenza» necessaria a causa delle sanzioni che hanno sospeso i collegamenti Roma-Mosca e rendono difficile l’acquisto dei biglietti di Aeroflot dall’Europa. «Non ci vediamo nulla di illegale».
L’ambasciata russa in Italia rende noto di aver «assistito Matteo Salvini e le persone che lo accompagnavano nell’acquisto dei biglietti aerei» per il suo viaggio a Mosca previsto per il 29 maggio. Un’assistenza necessaria per «le sanzioni» che hanno sospeso i collegamenti Roma-Mosca e rendono difficile l’acquisto dei biglietti di Aeroflot dall’Europa. Dopo l’annullamento del viaggio «ci è stata restituita la cifra spesa: non ci vediamo nulla di illegale», prosegue l’ambasciata russa «in relazione alle notizie su alcuni media italiani». A Mosca «erano pronti a incontrare il rappresentante italiano al livello appropriato».
«Come sapete - afferma l’Ambasciata russa in Italia in una nota - il viaggio di Matteo Salvini era programmato per il 29 maggio. A Mosca, come abbiamo comunicato in precedenza, erano pronti a incontrare il rappresentante italiano al livello appropriato. Poiché, a causa delle sanzioni dell’Ue, sono stati sospesi i voli diretti sulla rotta Roma-Mosca, si è reso necessario per la delegazione italiana l’acquisto di biglietti aerei per un volo Aeroflot da Istanbul a Mosca. A causa delle sanzioni in vigore nei confronti di questa compagnia aerea, è difficoltoso acquistare i biglietti per i suoi voli dal territorio dell’Unione Europea». L’Ambasciata quindi « ha assistito Matteo Salvini e le persone che lo accompagnavano nell’acquisto dei biglietti aerei di cui avevano bisogno in rubli tramite un’agenzia di viaggi russa. In quanto il viaggio di Matteo Salvini a Mosca non è avvenuto per motivi ben noti, alla fine ci è stato restituito l’equivalente della cifra spesa per l’acquisto dei biglietti aerei in euro (con rispettivi documenti comprovanti)». «Non vediamo nulla di illegale in tutte queste azioni. Quanto alle speculazioni sui nomi di specifici dipendenti dell’Ambasciata, le riteniamo assolutamente inadeguate», conclude la nota.
Viaggio di Salvini a Mosca, la Lega smentisce l’ambasciata russa: «Tutto falso, quereliamo». Il Dubbio l'11 giugno 2022.
Il Carroccio spiega che non era il Cremlino a dover pagare il biglietto aereo dell'ex ministro dell'Interno in Russia. Ma la diplomazia russa risponde: «Lo abbiamo assistito: ecco come»
Nessun «biglietto omaggio del Cremlino» e «nessun “viaggio pagato da Mosca”» a Matteo Salvini. Lo precisano fonti della Lega, aggiungendo che «chiunque continuerà a sostenere il contrario ne risponderà nelle sedi opportune». «A differenza di un gruppo editoriale che per anni ha distribuito in allegato “Russia Oggi”, la Lega non ha e non ha avuto accordi economici di alcun tipo con Mosca. Le spese per il possibile viaggio aereo di Salvini sono state interamente pagate dalla Lega, come confermato e spiegato chiaramente dall’ufficio stampa dell’ambasciata della Federazione Russa in Italia». Matteo Salvini ha dato mandato, inoltre, ai suoi legali di querelare chi, «a partire da media e politici», «ha fatto o sta facendo insinuazioni e accuse a proposito del possibile viaggio a Mosca» alla fine di maggio.
Salvini a Mosca, cosa aveva detto l’ambasciata russa
«L’Ambasciata ha assistito Matteo Salvini e le persone che lo accompagnavano nell’acquisto dei biglietti aerei di cui avevano bisogno in rubli tramite un’agenzia di viaggi russa. In quanto il viaggio di Matteo Salvini a Mosca non è avvenuto per motivi ben noti, alla fine ci è stato restituito l’equivalente della cifra spesa per l’acquisto dei biglietti aerei in euro (con rispettivi documenti comprovanti). Non vediamo nulla di illegale in tutte queste azioni”. Lo chiarisce l’ufficio stampa dell’ambasciata della Federazione Russa in Italia a proposito delle «pubblicazioni apparse su alcuni media italiani in merito agli aspetti organizzativi del mancato viaggio del senatore Matteo Salvini a Mosca».
Salvini a Mosca, la posizione del Pd
La Lega nasconde «le gravi ambiguità che emergono, ogni giorno in modo più evidente, in merito al viaggio a Mosca programmato da Salvini». E’ la presidente dei senatori dem Simona Malpezzi a suonare la carica del Pd contro il leader della Lega. Dopo le precisazioni dell’ambasciata russa in Italia sul viaggio (saltato) a Mosca («abbiamo assistito Matteo Salvini e le persone che lo accompagnavano nell’acquisto dei biglietti aerei»), i parlamentari Pd hanno presentato il conto al segretario del Carroccio: «Non ci racconti la frottola che andava a fare la pace».
Scoppia la bufera politica. Salvini a Mosca, l’ambasciata russa in Italia svela: “Abbiamo pagato i biglietti, poi soldi restituiti”. Carmine Di Niro su Il Riformista l'11 Giugno 2022.
All’ambasciata russa in Italia non ci vedono “nulla di illegale”, e ammettono così che i biglietti per il viaggio del segretario della Lega Matteo Salvini a Mosca previsto per il 29 maggio, la ‘missione di pace’ poi annullata tra le polemiche, sono stati acquistati con l’aiuto diretto della diplomazia del Cremlino in Italia.
Una risposta all’indiscrezione pubblicata ieri sul quotidiano La Verità: il giornale scriveva che il ‘consulente’ di Salvini Antonio Capuano, ex parlamentare napoletano di Forza Italia, si sarebbe fatto dare dal figlio del capo del Gru (il servizio militare russo) i soldi per il viaggio a Mosca.
In una nota ufficiale l’ambasciata russa spiega infatti che i biglietti sono stati pagati per Salvini e il suo staff, ma “ci è stata restituita la cifra spesa: non ci vediamo nulla di illegale. Quanto alle speculazioni sui nomi di specifici dipendenti dell’Ambasciata, le riteniamo assolutamente inadeguate”, spiega l’ufficio diplomatico di Mosca a Roma.
Una assistenza dovuta, sottolinea l’ambasciata, a causa delle sanzioni internazionali contro il Cremlino, che di fatto hanno sospeso i collegamenti tra Roma e Mosca e non avrebbero permesso l’acquisto dei biglietti della compagnia aerea Aeroflot dall’Europa.
Ambasciata che quindi conferma l’assistente a Salvini e alle persone che avrebbero dovuto accompagnarlo “nell’acquisto dei biglietti aerei di cui avevano bisogno in rubli tramite un’agenzia di viaggi”. Soldi poi restituiti dal leader del Carroccio perché il viaggio a Mosca è saltato “per motivi ben noti”, scrivono nella nota i diplomatici russi a Roma.
Salvini nega pagamento russo
Ma la ‘ricostruzione’ dell’ambasciata russa non piace a Salvini, che in una nota della Lega ha annunciato di aver dato mandato ai suoi legali di “querelare chi, a partire da media e politici, ha fatto o sta facendo insinuazioni e accuse a proposito del possibile viaggio a Mosca“.
“Le spese per il possibile viaggio aereo di Salvini sono state interamente pagate dalla Lega, come confermato e spiegato chiaramente dall’ufficio stampa dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia“. “Nessun biglietto omaggio del Cremlino, quindi, e nessun ‘viaggio pagato da Mosca’: chiunque continuerà a sostenere il contrario ne risponderà nelle sedi opportune“, conclude la nota del Carroccio.
Le reazioni politiche
La conferma russa del ‘finanziamento’ e del sostegno del Cremlino al viaggio a Mosca di Salvini provoca l’immediata e furiosa reazione del Partito Democratico. “Cosa andava Salvini a fare a Mosca a spese della Russia? Non ci racconti la frottola che andava a fare la pace“, attacca Lia Quartapelle, responsabile Esteri dei dem. E la capogruppo del partito al Senato, Simona Malpezzi, aggiunge: “Invece di attaccare il Pd, Salvini spieghi le ambiguità del viaggio a Mosca“.
Le parole più dure su Salvini sono però di Carlo Calenda. Per il leader di Azione è “chiaro che Salvini è legato alla Russia in modo indissolubile e poco trasparente. Gli alleati politici e i rappresentanti della Lega al Governo dovrebbero acquisire la consapevolezza che è una persona pericolosa per la sicurezza nazionale”.
Salvini che, sostiene Calenda, “senza avvertire il Governo che sostiene, si fa organizzare e finanziare un viaggio dall’Ambasciata di un paese sotto sanzioni, autore di una guerra di aggressione e che minaccia l’Occidente di distruzione, o è molto stupido o è in qualche modo legato ai russi”.
Usa l’arma dell’ironia invece Matteo Renzi che, da Siena per la presentazione del suo libro ‘Il Mostro’, commenta così la vicenda: “Il problema vero è che il biglietto aereo per Salvini era andata e ritorno. Fosse stato di sola andata avremo risolto parecchi problemi…“.
La ‘velina’ russa
Dopo lo scoppiare della bufera politica, sono quindi fonti dell’ambasciata russa in Italia a smorzare ulteriormente i toni, precisando che “i biglietti per Mosca sarebbero stati rimborsarti” da Matteo Salvini e dal suo entourage “anche nel caso in cui il viaggio fosse avvenuto“. “Noi abbiamo solo assistito il senatore e le persone” che lo avrebbero accompagnato “per superare il problema tecnico del pagamento in rubli“, spiega all’Ansa una fonte della diplomazia russa.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Jacopo Jacoboni per lastampa.it il 17 giugno 2022.
Venerdì 27 maggio, nel momento in cui lo sforzo di Matteo Salvini per organizzare il suo viaggio “di pace” Mosca si stava facendo operativo, il leader della Lega avrebbe incontrato non solo il cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, ma anche – due volte - un importante funzionario del ministero degli Esteri russo, di stanza a Roma. Si chiama Oleg Kostyukov, e sarebbe stato lui ad aiutare materialmente Salvini a comprare il biglietto aereo per Mosca (che il leader della Lega ha chiarito di aver poi rimborsato). Ma chi è Oleg Kostuykov?
Sabato 11 giugno, essendo uscita la notizia sul quotidiano La Verità, l’ambasciata russa ha emesso un comunicato in cui spiegava la storia senza smentirla: «A causa delle sanzioni in vigore nei confronti di questa compagnia aerea, è difficoltoso acquistare i biglietti per i suoi voli dal territorio dell'Unione Europea.
L'Ambasciata ha assistito Matteo Salvini e le persone che lo accompagnavano nell'acquisto dei biglietti aerei di cui avevano bisogno in rubli tramite un'agenzia di viaggi russa». L’ambasciata aggiungeva: «Quanto alle speculazioni sui nomi di specifici dipendenti dell'Ambasciata, le riteniamo assolutamente inadeguate». Non c’era scritto che fossero false.
Secondo il collettivo di reporter indipendenti russi The Insider - guidati da Roman Dobrokhtov e coautori di diversi scoop tra cui l’individuazione, assieme a Bellingcat, del team del Fsb accusato dell’avvelenamento di Alexey Navalny – il funzionario del ministero degli Esteri russo di nome Oleg Kostuykov è il figlio di Igor Kostyukov, ammiraglio e comandante del Gru, i servizi segreti militari di Mosca.
Kostyukov padre è sotto sanzioni occidentali con diverse accuse: interferenza nelle elezioni americane, avvelenamento a Salisbury (Regno Unito) dell’ex spia russa, passata al MI6, Sergey Skripal, e per gli attacchi informatici al Bundestag e all’ufficio dell’allora cancelliera Angela Merkel (guidati da un hacker poi rivelatosi uomo del Gru, Dmitry Badin).
Secondo The Insider, «il capo dell'intelligence è stato nominato capo della direzione principale di stato maggiore generale alla fine del 2018, e l’anno successivo i suoi figli adulti sono diventati proprietari di immobili costosi». Si tratterebbe, stando a documenti catastali e a fonti di polizia finanziaria russa citate da The Insider, di un terreno a Lipka e un altro di 12 ettari nella comunità residenziale esclusiva di Beliye Rosy 1.
Ci sarebbero poi un appartamento di Oleg in 2a Chernogryazskaya Street, Mosca, la sua Mercedes-Benz GLE 350 d 4MATIC e la Mercedes-Benz C200 della sorella Alena. The Insider «stima che il costo della proprietà dei figli del capo del GRU sia di almeno 200 milioni di rubli», che sarebbe incompatibile con un reddito di un milione e mezzo annui di rubli (lo stipendio da funzionario ministeriale).
Sia il capo del GRU sia i suoi figli non hanno risposto alle chiamate o ai messaggi Telegram di The Insider. Martedì 14 giugno alle 12,48, La Stampa ha domandato per mail, all’indirizzo ufficiale online dell’ambasciata russa, conferma o smentita del legame familiare tra Oleg Kostuykov (primo segretario dell’ambasciata russa) e Igor (il capo del Gru). La mail è stata correttamente recapitata ma non abbiamo ricevuto da quel giorno alcuna risposta né smentita.
Un legame così stretto tra un così importante funzionario russo a Roma e i servizi militari di Mosca riproporrebbe ancora una volta il problema del rischio di penetrazione russo in Italia. Il giovane Kostuykov, 35 anni, era da tempo in Italia (all’inizio assegnato alla sede consolare), e numerosi sono i suoi incontri sul territorio che sono stati rilevati, spesso al fianco dell’ambasciatore della Federazione.
Altre volte Kostyukov era accanto a un'altra faccia ormai nota alle cronache dell’interferenza russa in Italia: quella dell’allora console generale Alexey Paramonov, il diplomatico russo (capo del dipartimento Europa del ministero degli esteri russo) che a marzo finì al centro di un caso diplomatico perché alcune sue minacce all’Italia («non vorrei che la totale guerra finanziaria ed economica alla Russia trovasse seguaci in Italia e provocasse una serie di corrispondenti conseguenze irreversibili»). Nonostante questo “incidente”, Paramonov nel frattempo sarebbe in procinto di diventare ambasciatore della Russia presso la Santa Sede, a Kostyukov sarebbe un suo pupillo.
La storia si inquadra in un contesto molto teso di relazioni che ci vedono ormai «paese ostile» a Mosca. L’Italia il 6 aprile, eseguendo un’azione coordinata dai governi europei, ha espulso trenta diplomatici russi sospettati di essere spie, alcuni dei quali erano già all’attenzione del controspionaggio. Che dopo l’invasione russa in Ucraina sta riconsiderando l’escalation di operazioni militari di cui sono accusati i russi in questi anni in Europa, fino alle recenti operazioni russe di penetrazione di disinformation nei media mainstream e nei social italiani.
Giuliano Foschini per “la Repubblica” l'11 giugno 2022.
Ma davvero «Antonio Capuano si è fatto prestare i soldi per il volo di Salvini in Russia dal figlio del capo del Gru, il servizio militare russo? E questo, il leader della Lega lo sapeva?».
La domanda è di Lia Quartapelle, responsabile esteri del Partito democratico, per caso ieri proprio in trasferta. A Kiev, però. La risposta è in una Sos, una segnalazione di operazione sospetta, di Banca d'Italia pubblicata ieri dal quotidiano La Verità.
Gli uomini dell'Antiriciclaggio hanno infatti messo insieme tutta una serie di strani movimenti di denaro che hanno avuto al centro l'avvocato napoletano, ex parlamentare di Forza Italia, protagonista delle cronache italiane nelle ultime settimane. Quando si è saputo che a organizzare il possibile viaggio a Mosca di Salvini, poi naufragato dopo le polemiche, era proprio lui. Si diceva che i movimenti finanziari di Capuano sono da tempo al centro di attenzione. In particolare una serie di bonifici sui conti a lui intestati o a lui riconducibili che arrivavano dalla Romania e dal Kuwait.
Si tratta di complesse transazioni che coinvolgono Capuano, la sua compagna, la modella camerunense Madelein Mbone (che ha in Italia un patrimonio, da lei stesso dichiarato, che va da uno a cinque milioni di euro) e altri personaggi che in questi anni sono transitati attorno a Capuano: una ex compagna, un ingegnere professore universitario, e un architetto, tutti di nazionalità kuwaitiana. Ed è proprio con il Kuwait che l'ex parlamentare campano aveva contatti diretti e frequenti, essendo stato anche consulente del fondo sovrano.
Il punto più importante, per lo meno da un punto di vista politico, è però un altro. E riguarda una transazione da poche migliaia di euro eppure cruciale: il viaggio che Capuano stava organizzando per Matteo Salvini in Russia. In un primo momento era stato calendarizzato per gli inizi di maggio. Poi tutto era stato spostato tutto alla fine del mese, partenza il 29 e ritorno il 31 con scalo in Turchia: Istanbul all'andata e Ankara al ritorno. Dopo la pubblicazione della notizia dell'imminente partenza su Repubblica , aveva fatto desistere Salvini da salire sul volo per Mosca. Ma ormai era troppo tardi. Capuano si era già spinto oltre.
Aveva acquistato i biglietti, secondo quanto ricostruisce la Verità , e non aveva fatto da solo: poiché c'era stato un problema con la sua carta di credito era corso in soccorso Oleg Kostyukov, il primo segretario dell'ambasciata russa. Come spesso però accade ai diplomatici di stanza all'estero, non si occupano soltanto di relazioni.
Ma sono in realtà agenti dei servizi di intelligence. E nel caso di Kostyukov anche qualcosa di più: un figlio d'arte. Suo padre sarebbe infatti Igor Kostyukov, il direttore del Gru, il servizio militare russo, uno degli uomini più vicini a Vladimir Putin. Il rapporto con un dirigente importante come Kostyukov figlio rende però ancora più delicato ruolo e posizione di Capuano.
Sul quale stanno lavorando i nostri servizi di intelligence a cui il Copasir ha chiesto una relazione. «Noi - ha detto il presidente del Comitato, Adolfo Urso - non giudichiamo mai l'attività professionale dei cittadini. Ma abbiamo attivato le procedure per verificare che i nostri servizi abbiano svolto appieno quanto necessario per tutelare la sicurezza nazionale a fronte di chi ha più volte ribadito di lavorare per ambasciate di Paesi che tendono a condizionare con ogni mezzo la nostra democrazia»
Giacomo Amadori per “La Verità” il 10 Giugno 2022.
Per qualcuno è l'uomo dei misteri. In realtà l'avvocato Antonio Capuano, ex deputato di Forza Italia (nella legislatura 2001-2006), ex consigliere comunale di Frattaminore (il suo paese di origine), e consulente per le relazioni internazionali della Lega, è un personaggio che nella sua vita qualche traccia l'ha lasciata e da tempo non passa inosservato.
Infatti questo cinquantenne dal look giovanile ha saldi legami in Russia, Cina e Medio Oriente. Inoltre Capuano, che è avvocato e si è laureato in giurisprudenza con l'università telematica Guglielmo Marconi, è stato oggetto di plurime segnalazioni all'Antiriciclaggio a causa di sostanziosi trasferimenti di denaro dal Kuwait e dalla Romania verso l'Italia.
Attenzionata anche la compagna, la modella camerunense Madeleine Mbone, una classe 1995 originaria di Logbikoy che disporrebbe di un patrimonio milionario frutto di presunti lasciti. Secondo l'anagrafica depositata in banca avrebbe quantificato il proprio patrimonio in una forbice compresa tra 1 e 5 milioni, e il reddito tra 50 e 100.000 euro.
Nel 2012 era già stata segnalata un'operazione effettuata da Capuano insieme con l'ex compagna Sabah al Sabah Manar, classe 1964, presunto membro della famiglia dell'emiro del Kuwait. Sotto esame sono finiti anche i rapporti economici con Ibrahim Alghuseen, già professore universitario e manager di una società di ingegneria. Capuano avrebbe avuto la procura per operare sul suo conto, sino alla chiusura dello stesso, ufficialmente al fine di gestire gli investimenti mobiliari e immobiliari della famiglia del docente.
Capuano avrebbe pure un conto cointestato con Nasseredin Bachar, architetto kuwaitiano residente a Palermo dal 2018. Su questo rapporto sono stati considerati sospetti «alcuni giroconti con un intermediario romeno». Noi abbiamo provato a chiedere delucidazioni a Capuano, che, però, non ha voluto parlarci: «Io e la mia fidanzata attendiamo una bambina che nascerà tra poche settimane. Sarà mia cura contattarla» è stata la lapidaria risposta.
Anche perché la compagna non avrebbe retto allo stress di questi giorni. Pure lei è citata nelle segnalazioni di operazioni sospette collegate a fondi provenienti dal Kuwait.
Il rogito saltato
La provvista al centro delle Sos ha origine da un giroconto da 759.000 euro effettuato da Alghuseen su un rapporto bancario su cui Capuano avrebbe delega a operare.
Gran parte di quel denaro (700.000 euro) sarebbe stato trasferito a un notaio per l'acquisto di un immobile prestigioso per Capuano e la Mbone.
Per tale compravendita nel 2020 l'avvocato invia un ulteriore bonifico da 75.000 euro, mentre 454.000 euro giungono in Italia dalla Romania. In tutto oltre 1,2 milioni di euro che vengono poi girati dal conto del notaio alla Mbone come «restituzione deposito per compravendita immobile a causa dell'accordo non stipulato». Infatti la modella non avrebbe ottenuto il mutuo per «mancanza reddituale».
Nel frattempo i movimenti finanziari della donna avevano destato l'attenzione dei funzionari della banca che annotano: «Rilevanti flussi in entrata e in uscita da parte di nuova cliente presentataci da ex deputato legato a fondi sovrani del Kuwait».
L'operatività della coppia viene considerata «poco chiara e trasparente» e «meritevole di attenzione» anche perché «non si è certi dell'integrale legittimità dell'origine e della destinazione dei flussi finanziari». Per questo i risk manager non perdono più di vista Capuano e signora, sino all'emissione di assegni circolari in vista di un rogito nell'ottobre del 2021, anche se il consulente della banca non avrebbe ricevuto «alcuna documentazione a supporto dell'acquisto».
Gli analisti non ci vedono chiaro e pochi giorni prima dello scorso Natale scrivono: «Tale operatività appare illogica, immotivata e inusuale e non consente di determinare con certezza l'origine delle somme». Persino il consulente finanziario di Alghuseen «riporta dubbi di una possibile gestione fittizia della posizione patrimoniale nel suo complesso». Gli addetti ai controlli antiriciclaggio mettono nero su bianco i loro sospetti, e cioè che sia la Mbone che Alghuseen «possano fungere da prestanome dell'avvocato Capuano». Le segnalazioni su quest' ultimo non sarebbero ancora state archiviate.
Il boom dei guadagni
Attualmente l'avvocato risulta residente in un appartamento di sei vani di sua proprietà in corso del Rinascimento a Roma. Il suo lavoro di legale gli consente di portare a casa il triplo dello stipendio che percepiva da parlamentare e nel suo studio ha assunto la fidanzata.
Secondo il Cerved della Camera di commercio è consigliere della Sant' Agata Li Battiati, Srl attiva nell'intermediazione immobiliare come quasi tutte le altre cinque ditte in cui Capuano aveva ricoperto cariche. L'ex parlamentare detiene quote di dieci società. Probabilmente gli garantisce buoni redditi anche l'attività di consulente per le ambasciate (per esempio ha lavorato per quella del Bahrein), di fondi sovrani (come il Kuwait investment authority, di cui è stato rappresentante in Italia oltre ad aver collaborato con altre società operanti nell'emirato) e di partiti politici.
Il viaggio a Mosca
Come la Lega. Infatti è stato lui a organizzare in due diverse fasi il viaggio di Matteo Salvini a Mosca. Inizialmente avrebbe dovuto svolgersi dal 3 al 7 maggio. In agenda sarebbero stati già fissati gli incontri con il ministro Sergej Lavrov (con il quale sarebbe stato programmato un pranzo per il 6 maggio 2022) e con il presidente della Camera alta dell'assemblea federale russa Valentina Matvienko.
Una rappresentante del partito Russia unita, quello di Putin, si sarebbe offerta come consulente per la parte logistica del viaggio. Ma il programma è stato modificato in contemporanea con l'uscita delle prime notizie sulla richiesta di visto da parte di Salvini e dei suoi collaboratori, circostanza smentita dalla stessa ambasciata russa. Così il tour è stato riprogrammato nelle date 29-31 maggio.
L'avvocato avrebbe ricevuto conferma per un pranzo tra Salvini e Lavrov e per un incontro, fissato per il 31 maggio, con l'ex premier e presidente Dmitrij Medvedev, attualmente vicepresidente del Consiglio di sicurezza della Federazione russa (l'uomo che si è recentemente augurato la sparizione degli Occidentali), e avrebbe ricevuto l'approvazione anche per i relativi comunicati stampa.
Capuano, in aggiunta, avrebbe auspicato anche un possibile incontro di Salvini con il presidente Putin sempre nella giornata del 31 maggio. In vista della trasferta, il 19 maggio, il leader della Lega ha incontrato l'ambasciatore russo Sergey Razov, con il quale avrebbe discusso anche dell'eventuale viaggio di papa Francesco in Russia.
La mattina del 27 maggio, in Vaticano, come è noto, si è tenuto un incontro tra il cardinale e segretario di Stato Pietro Parolin e Salvini, a cui avrebbe presenziato anche Capuano e nel quale si sarebbe parlato della trasferta del leader della Lega a Mosca.
Il figlio della super spia
Nel momento cruciale, però, il consulente ha avuto difficoltà nel pagare con la carta di credito i voli Istanbul-Mosca del 29 maggio e Mosca-Ankara del 31 maggio. Per questo è intervenuto in suo soccorso un personaggio molto interessante: Oleg Kostyukov, il primo segretario dell'ambasciata russa, il quale avrebbe incontrato l'avvocato per ben due volte il giorno della visita a Parolin.
Oleg è citato dal giornale investigativo The Insider in un articolo di ottobre intitolato «Spy Kids: il figlio e la figlia del capo russo del Gru Kostyukov possiedono immobili per un valore di centinaia di milioni».
Infatti, secondo il cronista Sergej Ezhov, il diplomatico, insieme alla sorella Alena, sarebbe proprietario di un patrimonio da 200 milioni di rubli (3,2 milioni di euro), per il giornalista poco plausibile considerando lo stipendio da giovane funzionario del Ministero degli Esteri di Oleg.
Il capo del Gru
Il padre sarebbe il sessantunenne Igor Olegovi Kostyukov, il direttore del Gru (letteralmente Direttorato principale per le attività informative offensive), il servizio segreto militare russo, che dipende dal ministero della Difesa e dal suo capo di Stato maggiore. Kostyukov senior, ricorda sempre The Insider, è soggetto alle sanzioni occidentali per una presunta interferenza nelle elezioni americane del 2016, per l'avvelenamento di una ex spia russa e della figlia in territorio britannico nel 2018 e per gli attacchi informatici del 2015 e del 2018 al Bundestag tedesco e all'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche.
Ma torniamo a Oleg. Il 27 maggio, per sbloccare la situazione, avrebbe acquistato personalmente i biglietti della compagnia di bandiera russa Aeroflot, che Capuano avrebbe successivamente rimborsato.
Durante i preparativi l'ex parlamentare avrebbe ricevuto richieste di delucidazioni da parte dell'ambasciata americana sul viaggio moscovita di Salvini, di cui i diplomatici a stelle e strisce non avrebbero conosciuto le finalità. Capuano avrebbe colto la palla al balzo per chiedere, dopo il tour russo, l'organizzazione di un incontro per Salvini con funzionari e politici di primissimo livello di Washington, promettendo, a quanto ci risulta, di condividere informazioni e con l'obiettivo di aprire un canale privilegiato per cercare di risolvere il conflitto.
Il dietrofront di Salvini
Dunque Capuano, in modo ambizioso, progettava di portare l'ex ministro dell'Interno in giro per il mondo a costruire un percorso di pace. Ma non è chiaro se il leader leghista fosse al corrente di tutte le manovre del proprio consulente che, come ci risulta, spesso parlava a nome del politico.
Alla fine, il 27 maggio, è uscita la notizia di un imminente viaggio in Russia di Salvini, di fatto confermato dallo stesso leader e da fonti leghiste. Successivamente, però, la trasferta è stata annullata. Il segretario del Carroccio, colpito dalle critiche arrivate dall'interno del suo partito, ma anche da parte dell'opposizione, avrebbe fatto sapere, tramite Capuano, di essere comunque pronto a partire, ma non prima di aver valutato a fondo gli effetti politici della propria iniziativa.
Nella serata del 28 maggio Capuano avrebbe spiegato ai suoi interlocutori dell'ambasciata che il leader della Lega sarebbe tornato sui suoi passi anche per evitare di danneggiare con la sua decisione l'esecutivo. I russi, da parte loro, avrebbero negato possibili ripercussioni su Mosca per la fuga di notizie e si sarebbero mostrati interessati a sapere se i ministri della Lega fossero intenzionati a rassegnare le dimissioni dal governo. In serata i diplomatici russi avrebbero informato i vertici del proprio governo dell'improvviso cambio di programma. Una decisione che in Russia sarebbe stata accolta con una certa freddezza.
Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 13 giugno 2022.
Matteo Salvini è preoccupato. Non solo per le ripercussioni politiche della sua diplomazia parallela con la Russia e gli effetti degli incontri fatti con l’ambasciatore russo e l’avvocato Antonio Capuano svelati da Domani. E per le polemiche feroci in merito alla vicenda dei biglietti aerei per Mosca comprati dai russi raccontata dalla Verità. Salvini è inquieto perché teme che dietro le fughe di notizie sul mancato viaggio a Mosca ci siano nemici invisibili che vogliono distruggere la sua carriera politica.
In particolare, nelle ultime ore il segretario della Lega si è convinto che dietro alcune informazioni pubblicate dal quotidiano di Maurizio Belpietro, considerato un foglio tradizionalmente amico, ci siano pezzi dei servizi segreti italiani che hanno veicolato notizie segrete per colpirlo. Oppure nemici interni della Lega informati dei dettagli del viaggio mancato che vogliono indebolirlo.
«Noi crediamo possa essere stato il controspionaggio», spiegano fonti vicine al Capitano. «Fuoco amico da parte di nemici interni che vogliono colpire Matteo? È possibile ma improbabile: la vicenda contabile della compravendita dei biglietti era conosciuta nei dettagli solo da quattro persone, tutte fedelissime di Salvini».
Ma cosa ha scatenato i sospetti improvvisi dell’ex ministro dell’Interno? La Verità, come è noto, il 10 giugno ha dato conto delle segnalazioni dell’antiriciclaggio in merito al alcuni bonifici di Capuano arrivati dalla Romania e dal Kuwait. Nello stesso articolo si racconta, però, anche di come fosse stato il capo dell’ufficio politico dell’ambasciata Oleg Kostyukov ad anticipare i soldi per l’acquisto dei biglietti aerei per Salvini e Capuano. Una notizia dall’impatto politico sicuro messa in fondo al pezzo che – risulta adesso a Domani - non è mai citata nelle segnalazioni degli Ufficio antiriciclaggio della Banca d’Italia ad ora esistenti.
Non potrebbe essere diversamente: i report Uif su Capuano in merito a «una compravendita immobiliare presumibilmente fittizia» sono di fine 2021, e riguardano solo bonifici del 2020. La Guardia di Finanza che sta “lavorando” le segnalazioni dell’antiriciclaggio non ha ancora effettuato il controllo dei conti correnti dell’ex parlamentare di Forza Italia del 2022. L’indagine su presunte operazioni sospette è solo all’inizio, tanto che Capuano non risulta essere indagato.
Non solo. Secondo Salvini, non è vero – come ha ipotizzato invece la Verità - che sia stato l’amico di Frattaminore a restituire i soldi dei biglietti anticipati dall’ambasciata russa: «È stata la Lega a restituirli» dicono a Domani dal Carroccio «È impossibile che la notizia sia uscita da report di Bankitalia o similari, semplicemente perché sui conti di Capuano quella transazione non può esserci.
Come mai l’ambasciata ci ha anticipato i soldi? Abbiamo avuto un problema pratico: il 26 e il 27 maggio abbiamo provato per un giorno e mezzo a saldare dei biglietti aerei per Mosca che avevamo già opzionato, ma non siamo riusciti a pagarli online. Non sappiamo se per via delle nostre carte di credito, tutte dello staff, bloccate per via delle sanzioni o per problemi specifici al sito.
Ci stavamo arrendendo ma poi abbiamo fatto presente il problema all’ambasciata russa con cui stavamo organizzando il viaggio. Loro ci hanno detto che per risolvere l’intoppo tecnico avrebbero anticipato loro in rubli. I biglietti sono arrivati quindi venerdì sera, e noi abbiamo restituito la somma anticipata da loro il lunedì successivo. A Oleg Kostyukov, come ci hanno indicato al telefono: probabilmente è lui ad aver anticipato i soldi per conto dell’ambasciata che non ha un suo conto corrente generico».
Il problema mediatico scoppia anche perché Kostyukov non è solo il primo segretario dell’ambasciatore Sergey Razov, ma anche il figlio del capo dei servizi segreti militari russi, il Gru. Quando il suo nome finisce bruciato sui giornali, Razov va su tutte le furie, e decide – d’accordo con Mosca - di rilasciare un comunicato anomalo che conferma l’indiscrezione della Verità e che, contemporaneamente, inguaia Salvini.
Il segretario della Lega, una volta capito che l’informazione dei biglietti non era presente nel documento di Bankitalia, si mette alla ricerca della fonte originaria della notizia. Dentro la Lega a sapere dell’anticipo di Kostyukov sono in quattro, tutti fedelissimi interni al suo staff.
La pista interna viene considerata improbabile, ma non impossibile. Tanto che qualcuno nel Carroccio ipotizza possa essere stata Francesca Immacolata Chaoqui, consigliera del leader leghista, ad aver dato informazioni sensibili al giornale di Belpietro. «Smentisco categoricamente sia di essere a conoscenza di qualsiasi dettaglio di questo viaggio a Mosca di Salvini, sia di aver rivelato a chicchessia qualsiasi dettaglio. Tirarmi in ballo in una vicenda alla quale sono del tutto estranea è strumentale. Ho già sporto quattro querele, e adesso sono pronta a querelare le fonti dei giornalisti che si prestano a questo linciaggio immotivato», smentisce secca la lobbista.
L’altra ipotesi che Salvini ha presupposto con i suoi è che sia stata proprio l’ambasciata russa a scaricarlo. I russi negano, e spiegano a Domani che «per nessun motivo al mondo avremmo esposto in questo modo un nostro alto dirigente come Kostyukov».
La terza ipotesi, quella che Salvini teme maggiormente, è che la fonte sia interna ai nostri servizi segreti. È un fatto che il controspionaggio stia monitorando chi entra e chi esce dall’ambasciata russa da mesi. Ed è certo che gli agenti sul terreno siano stati fin dall’inizio a conoscenza delle visite in ambasciata di Salvini e del misterioso avvocato Capuano. È su quest’ultimo – in chiave di attività di controspionaggio – che si sono accesi i riflettori. «Indagando su Capuano, che conosceva i dettagli del viaggio, è possibile che i nostri servizi abbiano ottenuto informazioni sulla vicenda dei biglietti, finiti poi sulla Verità», dicono adesso dalla Lega.
Salvini vede fantasmi e propende per la spy-story, certo che i suoi fedelissimi non possono tradirlo e che al contrario Palazzo Chigi stia facendo di tutto per danneggiarlo e per favorire un ribaltone ai vertici di via Bellerio. Ma in realtà – spiega chi nel Carroccio crede che il tempo della sua leadership sia agli sgoccioli - «Matteo» si starebbe «scavando la fossa (politica) da solo».
«Nella vicenda del viaggio in Russia non c’è stato alcun dolo da parte di Salvini» ragionano uomini vicino a Giorgetti «C’è stata solo insipienza strategica mista a irresponsabilità. Può darsi sia stato qualcuno dei servizi o lo stesso Capuano a veicolare notizie ai giornali, non sappiamo. Ma se Matteo non capisce che trattare con Razov nell’ambasciata più e accompagnarsi con uno sconosciuto avvocato lo espone lui e la Lega a rischi reputazionali di questo livello, per di più in tempo di guerra, vuol dire che non ha più la lucidità politica per fare il capo di un grande partito come il nostro».
Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 13 giugno 2022.
Sei segnalazioni dell'antiriciclaggio nel giro di dieci anni per un giro di affari di una decina di milioni di euro almeno tra acquisti di immobili, fideiussioni per aziende e persino una barca da 22 metri. Una segnalazione finita anche sul tavolo della Direzione nazionale antimafia affinché fosse valutata.
Stranissimi affari con il Kuwait, ma più in generale un giro di denaro che non ha mai convinto né Banca d'Italia né ora la Guardia di Finanza che sta effettuando ulteriori approfondimenti. Comunque vada a finire questa storia, certo è che Matteo Salvini si è messo in mani traballanti per organizzare il suo viaggio in Russia. Perché Antonio Capuano, l'ex parlamentare di Forza Italia, che ha seguito il segretario della Lega in questa faccenda russa è un consulente non sempre trasparente nei suoi affari.
Tutto comincia dieci anni fa, quando per la prima volta la centrale rischi di Bankitalia segnala la strana situazione di questo avvocato napoletano che da un lato ha sofferenze bancarie personali per poco meno di quarantamila euro e dall'altro offre garanzie milionarie per alcune società di cui era amministratore. E continua fino ai mesi scorsi quando, invece, la situazione di Capuano è molto cambiata e si trova a muovere milioni di euro su alcuni conti correnti. E a gestire strane provviste che arrivano dall'estero, principalmente dal Kuwait.
Come ha raccontato la Verità, Capuano viene segnalato dall'Antiriciclaggio, insieme con la fidanzata camerunense, la modella Madeline Mbone, per la compravendita di un appartamento a Roma. In realtà, leggendo gli atti della centrale rischi, i problemi sono diversi e riguardano questioni di vario tipo. Emblematico è il caso dell'ingegnere kuwaitiano Ibrahim Alghussen. Capuano è il suo procuratore in Italia: l'uomo scrive alla sua banca nel 2015 per spiegare che sta trasferendo parte de suo patrimonio dal Kuwait perché ha «intenzione di effettuare investimenti mobiliari e immobiliari in ottica di un suo periodo di permanenza in Italia».
Vengono così spostate dall'estero verso l'Italia cifre importanti - si comincia con un bonifico da 759 mila euro e si continua con i trasferimenti di altre somme superiori al milione di euro - in quello che però sembra più che altro un giro di denaro. «Le operazioni - scrivono infatti gli ispettori di banca d'Italia - fanno sorgere il sospetto che sia la signora Mbone sia il signor Alghussen possano fungere da prestanome dell'avvocato Capuano».
Il sospetto deriva da due fatti. La Mbome ha dichiarato di lavorare come «assistente in studi legali », ma questo sicuramente non basta per giustificare redditi e un patrimonio che lei stessa ha individuato per un valore che va dal milione sino ai cinque milioni di euro. Alghussen invece pur avendo dichiarato di voler trasferire il denaro per «un periodo di permanenza in Italia», nel nostro Paese non risulta essere mai venuto. Ma da dove arriva il denaro? Per lo più dal Kuwait, paese sicuramente per il quale l'ex parlamentare di Forza Italia ha lavorato come consulente dell'ambasciata.
Lo scrivono anche gli 007 di Banca d'Italia. «Capuano risulterebbe avere incarichi diplomatici e di consulenza in Kuwait. È stato rappresentante per l'Italia del fondo sovrano "Kuwait investment Authority" e collabora con diverse società operanti in Kuwait». Anche se, come si legge proprio nell'ultima delle segnalazioni, di inizio 2022, l'operatività su una serie di conti correnti riconducibili a Capuano sembra «illogica, immotivata e inusuale», tanto da «non consentire di determinare con certezza l'origine delle somme».
Detto questo, però, al momento nessuna contestazione di riciclaggio a Capuano sono stati mossi: al momento tutte queste strane operazioni vengono viste come anomalie, ma non come accuse. Resta però la questione politica: perché il segretario della Lega, Matteo Salvini, si affida proprio all'avvocato Capuano per gestire i rapporti con l'ambasciata russa?
Salvini e i biglietti per Mosca pagati dai russi. Giallo sul rimborso dopo cinque giorni. Emanuele Lauria su La Repubblica il 13 giugno 2022.
Il 26 maggio l'ambasciata acquista i ticket per il leader leghista. Solo il 31, a missione annullata, il Carroccio salda con un bonifico l'anticipo.
Cinque giorni a rotta di collo. Con i biglietti aerei già pagati dai russi, un piano per la pace scritto in totale autonomia dal governo e già vidimato dall'ambasciata, e un viaggio per Mosca preparato senza dire nulla neanche ai dirigenti leghisti, che lentamente naufraga fra le polemiche. Cinque giorni in cui si decide il destino di Salvini ambasciatore solitario, e forse anche quello del Salvini leader.
Salvini teme la mano dei servizi segreti per la fuga di notizie sul viaggio a Mosca. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 13 giugno 2022
Le informazioni sui biglietti aerei comprati dall’ambasciata russa per il viaggio di Salvini pubblicate dalla Verità non sono contenute in nessuna segnalazione dell’antiriciclaggio. Il leader è preoccupato e teme possa esserci la mano di nemici interni o di pezzi dell’intelligence
Per i fedelissimi la pista interna è improbabile: i dettagli del viaggio e sui biglietti poi rimborsati al capo politico dell’ambasciata Oleg Kostyukov «erano conosciuti solo da quattro fedelissimi di Matteo»
Tirata in ballo anche la Chaoqui, che smentisce. I rivali di Salvini vicino a Giorgetti spiegano: «Anche se fossero stati i servizi a veicolare informazioni, la colpa resta di Matteo: è noto che l’ambasciata russa sia il palazzo più monitorato d’Italia»
EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.
Berlusconi difende il viaggio a Mosca di Salvini: «Da capo di stato sarei andato da Putin». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 12 giugno 2022
Berlusconi giustifica tutto, anche dopo che è emerso che l’ambasciata si è mossa per l’aquisto dei biglietti: «Mi sembra che sia una polemica del tutto inutile e senza senso. Come tante cose che fanno addosso a noi che sono senza senso»
Silvio Berlusconi difende l’ipotesi di viaggio a Mosca di Matteo Salvini e rilancia: «Se io fossi stato capo di stato, sarei andato da Vladimir Putin».
Nei giorni scorsi sono emersi nuovi dettagli sulla missione poi annullata del leader della Lega. Matteo Salvini infatti sarebbe dovuto partire il 29 maggio alla volta di Mosca come organizzato insieme al consulente Antonio Capuano e all’ambasciata russa.
La Verità ha riportato venerdì che una parte del volo sarebbe stata pagata dall’ambasciata, circostanza confermata dalla rappresentanza diplomatica di Mosca. L’ambasciata tuttavia, in seconda battuta. ha specificato che si sarebbe trattato solo di un anticipo, per far fronte alle difficoltà di pagamento a seguito delle sanzioni.
Berlusconi giustifica tutto: «Mi sembra che sia una polemica del tutto inutile e senza senso. Come tante cose che fanno addosso a noi che sono senza senso» ha detto sul mancato viaggio di Salvini a Mosca.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Massimo Giletti, "com'è arrivato a Mosca?": Salvini e l'ambasciata russa, cosa non torna sul viaggio. su Libero Quotidiano il 12 giugno 2022.
Continua a tenere banco il caso del viaggio mancato di Matteo Salvini a Mosca. L’ambasciata russa ha diffuso una nota per fare chiarezza, affermando di aver aiutato il segretario della Lega nell’acquisto dei biglietti aerei in rubli: una volta abortita la missione di pace a Mosca, i biglietti sono stati prontamente rimborsati. Giovanni Rodriquez ha però alimentato la polemica, gettando nella “mischia” anche Massimo Giletti, che domenica scorsa ha condotto Non è l’Arena dal Cremlino.
“Se risulta davvero impossibile acquistare il volo per Mosca senza l’intervento diretto dell’ambasciata, Giletti e compagnia davanti al Cremlino come ci sono arrivati, via terra?”, è l’interrogativo avanzato dal giornalista. In merito al caso Salvini, l’ambasciata russa ha spiegato che, a causa delle sanzioni imposte dall’Ue, i voli diretti Roma-Mosca sono stati sospesi e quindi si era reso necessario acquistare biglietti aerei per un volo Aeroflot con partenza da Istanbul, in Turchia.
“L’ambasciata ha assistito Salvini e le persone che lo accompagnavano - si legge nella nota - nell’acquisto dei biglietti aerei di cui avevano bisogno in rubli tramite un’agenzia di viaggi russa. In quanto il viaggio di Salvini a Mosca non è avvenuto per motivi ben noti, alla fine ci è stato restituito l’equivalente della cifra spesa per l’acquisto dei biglietti aerei in euro. Non vediamo nulla di illegale in queste azioni”.
Francesco Grignetti per “la Stampa” il 13 giugno 2022.
Lei non c'entra con il viaggio in Russia, anche se è amica di Matteo Salvini e non rinnega questa amicizia. A differenza del viaggio in Polonia, su questo non era stata consultata e nemmeno ne aveva saputo nulla di straforo, quindi non può essere stata la fonte di alcuna indiscrezione. Lei è Francesca Immacolata Chaouqui, che in una vita precedente è stata nella Commissione referente sulle attività economiche della Santa Sede, in seguito condannata per divulgazione di atti riservati del Vaticano, oggi è titolare di una agenzia di pubbliche relazioni, editore di un giornale e presidente di una Onlus. «Non capisco perché mi ritrovo citata in questa storia».
Forse perché è amica di Matteo Salvini?
«E che c'entra? Salvini è un amico, lo stimo, ma nulla sapevo della sua iniziativa con la Russia. E guardi, io penso che se si vuole la pace non serve fare passerella a Kiev, ma parlare con Mosca».
Il governo non era informato e mezza maggioranza ritiene che fosse eversiva del quadro politico.
«Se mi avesse chiesto consiglio, gli avrei detto che se c'era un'apertura della Russia, la cosa avrebbe dovuto concludersi con un incontro trilaterale in Vaticano non con un viaggio in Russia».
Di Antonio Capuano ha detto che lo si vedeva nell'anticamera del segretario.
«L'ho incrociato qualche volta, ma non sapevo chi fosse. Il nome l'ho scoperto dai giornali».
Si dice che sia amico di Cecilia Marogna, la lady sotto processo in Vaticano per appropriazione indebita.
«Così si dice. Tra simili ci s' intende».
Simili in che senso, scusi?
«Mi sembrano entrambi personaggi folkloristici, al limite dell'assurdo, che discettano di geopolitica mondiale. Rilasciano interviste surreali, prive di senso. In questo sono uguali».
E però quelle di Capuano non erano mica fantasie, ora che sappiamo quanto fosse coinvolta l'ambasciata russa. Marogna in un processo ha parlato di emissari speciali di Putin in Vaticano e di un suo ruolo con i nostri servizi segreti.
«Dovreste parlarne con chi l'ha accreditata presso gli organi di sicurezza di diversi Paesi, dall'Italia all'Inghilterra, con carta intestata, qualificandola come "persona che rappresentava gli interessi dello Stato". Quando il Papa l'ha scoperto, è intervenuto».
A chi si riferisce?
«Al cardinal Becciu, che era il numero tre della gerarchia vaticana».
Marogna ce l'ha a morte con lei. Siete in guerra?
«Non mi offenda. Per essere rivali bisogna essere sullo stesso piano. Cecilia Marogna è una poveretta finita in un giro tanto più grande di lei. Non credo proprio che abbia avuto un ruolo nell'incontro di Salvini con il cardinale Parolin».
Estratto dell’articolo di Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 13 giugno 2022.
«È stata la Lega a restituirli» dicono a Domani dal Carroccio «È impossibile che la notizia sia uscita da report di Bankitalia o similari, semplicemente perché sui conti di Capuano quella transazione non può esserci. Come mai l’ambasciata ci ha anticipato i soldi? Abbiamo avuto un problema pratico: il 26 e il 27 maggio abbiamo provato per un giorno e mezzo a saldare dei biglietti aerei per Mosca che avevamo già opzionato, ma non siamo riusciti a pagarli online. Non sappiamo se per via delle nostre carte di credito, tutte dello staff, bloccate per via delle sanzioni o per problemi specifici al sito.
Ci stavamo arrendendo ma poi abbiamo fatto presente il problema all’ambasciata russa con cui stavamo organizzando il viaggio. Loro ci hanno detto che per risolvere l’intoppo tecnico avrebbero anticipato loro in rubli. I biglietti sono arrivati quindi venerdì sera, e noi abbiamo restituito la somma anticipata da loro il lunedì successivo. A Oleg Kostyukov, come ci hanno indicato al telefono: probabilmente è lui ad aver anticipato i soldi per conto dell’ambasciata che non ha un suo conto corrente generico».
Marco Cremonesi per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.
«Grazie Silvio». Non è Matteo Salvini a dirlo, ma un dirigente a lui vicinissimo.
Che interpreta bene la boccata di ossigeno, un vero e proprio e balsamo in questi giorni difficili, rappresentata dal sostegno del fondatore di Forza Italia al leader leghista.
Il tema è ancora quello del viaggio a Mosca, poi mai realizzato, previsto da Salvini per lo scorso 29 maggio. La vicenda è stata l'ennesima scintilla a dare fuoco alle polveri all'interno della maggioranza.
Con l'eccezione, appunto, di Silvio Berlusconi. Il leader azzurro scuote la testa: «Del viaggio di Salvini in Russia se ne fa un caso quando non c'è nessun caso da fare». E «tutte queste discussioni sono fuori posto», perché secondo Berlusconi la versione corretta è quella sempre ripetuta dallo stesso Salvini: «Era un viaggio teso a dare una mano alla pace». E i biglietti aerei anticipati dalla Russia? Berlusconi fa spallucce: «L'ambasciata russa era intervenuta perché con l'Aeroflot c'erano delle somme in più da pagare e Salvini quando l'ha saputo ha restituito i soldi. Quindi è un caso che non esiste».
E proprio sul tasto della necessità di far tacere le armi è tornato ieri lo stesso Salvini.
Con un'osservazione significativa: «Non mi fermo e farò ancora di più di quello che ho fatto, aggiornando Draghi e Mattarella e chiunque voglia avere aggiornamenti».
Palazzo Chigi e la Farnesina avevano infatti smentito di essere al corrente del viaggio programmato da Salvini. E proprio questo era stato uno dei punti su cui gli alleati-avversari avevano più mitragliato. Anche ieri, Osvaldo Napoli (ex di Forza Italia, ora con Calenda) ha commentato: «Spericolato e impulsivo, oppure Matteo Salvini agisce secondo un'intelligenza politica con Mosca? Nell'uno e nell'altro caso quella di Salvini è questione che riguarda la sicurezza nazionale».
In ogni caso, il leader leghista pare aver accettato il punto che un'eventuale missione di questa delicatezza non possa che essere meticolosamente concordata con il premier e con gli Esteri. L'ambasciata russa l'altro giorno ha confermato di aver «assistito Matteo Salvini e le persone che lo accompagnavano nell'acquisto dei biglietti aerei». La domanda, assai ripresa dai compagni di maggioranza del leader leghista, è: perché? Risponde Salvini: «Il viaggio è stato pagato dalla Lega: io non ho rubli, quindi non posso fare un biglietto aereo pagando con quella moneta».
Poi, ha aggiunto: «Se qualcuno fa insinuazioni strane su questioni economiche ne parleranno gli avvocati». Salvini respinge qualsiasi ipotesi di ingerenza russa per destabilizzare il governo italiano: «Gli italiani scelgono per gli italiani. Non ho mai creduto a inquinamenti elettorali o fake news». Quanto a sé stesso, «ho lavorato e sto continuando a lavorare per la pace a testa alta a nostre spese economiche e politiche. E lo farò ancora nei prossimi giorni, ci metto la faccia e il portafoglio, e mi faccio carico di qualsiasi bugia, attacco e critica». Insomma: «Non mi fermo, anzi nei prossimi giorni accelererò».
Carlo Tecce per “L’Espresso” il 15 giugno 2022.
Alla fine è riuscito a staccarsi da sé stesso. Con una sorta di scissione individuale. Al centro, isolato, Matteo Salvini. Attorno, delusa, la Lega. È parecchio suggestivo riscontrare che ciò sia accaduto per mano di Antonio Capuano, avvocato casertano di Frattaminore, già deputato campano di Forza Italia, di professione mediatore legale, consulente di un numero imprecisato di ambasciate, abiti di sartoria, voce sottile, buon affabulatore.
Per un anno e mezzo circa, più o meno dal varo del governo di Mario Draghi che per un attimo ha ripulito e, ovvio, ingrigito il profilo guascone di Salvini, l'avvocato Capuano ha imperversato da forestiero, non troppo visibile, forse sottovalutato, nelle faccende quotidiane dei leghisti.
L'Espresso racconta tre fatti inediti che riguardano la Cina, Banca Intesa e Giancarlo Giorgetti. Capuano è il sintomo di un Salvini che diffida di chiunque e si affida a chiunque piuttosto che a un collega, dirigente, compagno di partito. Capuano è palazzo Barberini, è Livorno, è Rimini, è Fiuggi: è una rottura insanabile nella Lega. Questo è l'unico dato chiaro in un orizzonte brumoso.
Con una caterva di interviste e di dichiarazioni, Capuano si è affacciato per un paio di settimane sul proscenio mediatico per poi ritirarsi stordito nelle quinte. A gran fatica gli speleologi del fotografico l'hanno ripescato negli archivi col viso glabro e paffuto di un giovane trentenne al debutto alla Camera. Oggi che indossa la barba, e ha mutato carriera, s' è saputo che più volte durante la guerra in Ucraina ha accompagnato il segretario Salvini dall'ambasciatore russo Sergey Razov per redigere un piano di pace, organizzare una trasferta a Mosca, convincere Vladimir Putin a fermare i cannoni e altre cose simili che sfiorano l'edificazione di quartieri residenziali su Marte.
Vista da fuori: è il solito pastrocchio diplomatico di Salvini, non proprio alfabetizzato in materia, che per ricavare un punto di sondaggi ne ha causati dieci, di sutura, al suo prestigio politico. Vista da dentro: è una scelta inconcepibile, che non si perdona. Qualche governo fa Salvini ha calpestato il decoro istituzionale consegnandosi da ministro alle avventure geopolitiche di Gianluca Savoini, che trattò presunti finanziamenti al Metropol e di Claudio D'Amico, che validò per l'Osce il referendum per l'autonomia della Crimea. Però gli amici Gianluca e Claudio erano iscritti al Carroccio dal '91 e invece Capuano non ha né tessere né contratti.
Dopo le sbandate con Mosca e nel governo gialloverde di Giuseppe Conte, Salvini ha rimesso il suo mappamondo al posto giusto e ha delegato gli Esteri prima a Giancarlo Giorgetti, finché Draghi non l'ha nominato ministro per lo Sviluppo economico, e poi al conservatore Lorenzo Fontana. Nel disperato tentativo, una illusione, di riabilitarsi presso gli americani, Salvini si è esercitato in una goffa propaganda contro la Cina: ha invocato un processo di Norimberga per la pandemia, una totale estromissione dallo sviluppo della tecnologia 5G, una robusta difesa nazionale dai cinesi aggressivi.
E pure la Russia non era più la sua destinazione favorita, luogo del cuore per un accrescimento culturale e democratico. Questa condotta è durata una manciata di mesi. Poi un giorno, lo scorso anno, l'avvocato Capuano ha chiesto un appuntamento al deputato Paolo Formentini, di evidente formazione filoamericana, vicepresidente della commissione Esteri.
Il leghista di Lumezzane da anni in Parlamento denuncia le persecuzioni cinesi contro la minoranza etnica e religiosa degli Uiguri e una dozzina di mesi fa depositò anche una severa risoluzione in commissione per sancirne il «genocidio» (definizione poi rimossa nel dibattito). Con l'autorità conferitagli da Salvini di «consulente geopolitico», Capuano propose a Formentini di smussare la posizione leghista e di firmare un documento da consegnare all'ambasciatore cinese a Roma.
Formentini verificò con Salvini che Capuano non potesse influenzare la linea del partito e lo congedò in fretta. (Il deputato leghista si limita a non confermare ufficialmente la ricostruzione e ripete che la verticale del comando è Salvini-Fontana). Comunque Formentini ha ignorato Capuano. Salvini no. Anzi a settembre, dopo insulti a mezzo stampa, s' è messo in posa a braccia conserte accanto al diplomatico Li Junhua nella sede cinese di Roma.
Altro colpo di Capuano, che non l'ha abbandonato nemmeno dagli americani in un giro del mondo restando nella capitale d'Italia. Questo episodio, già la scorsa estate, ha lanciato la leggenda Capuano.
In novembre diversi parlamentari che sono nell'organigramma del Carroccio sono stati contattati da Banca Intesa Sanpaolo: «Per cortesia, mi spieghi che ruolo ha Capuano?». Qualcosa di stravagante era appena successo.
L'avv. Capuano aveva scritto alla segreteria di Carlo Messina, l'amministratore delegato del primo istituto italiano, per chiedere un incontro con argomentazioni abbastanza vaghe e motivazioni personali. Siccome l'indirizzo di posta elettronica rimandava alla dicitura di «deputato» e quindi si trattava di una personalità politica, la richiesta fu girata all'ufficio affari istituzionali.
Alle prime verifiche telefoniche, Capuano si è presentato come un importante «consulente di Salvini». Non convinti dalle rassicurazioni dell'avvocato e però attenti a non provocare equivoci o frizioni con la Lega, i dirigenti romani di Banca Intesa - sentiti da L'Espresso, non commentano - hanno proseguito le ricerche e hanno appurato che Capuano non avesse alcun rapporto formale con la Lega.
Così il colloquio con Messina non s' è tenuto. Non è servito dire «mi manda Salvini». In quali altre occasioni Capuano, che afferma di «assistere diverse ambasciate», cioè di lavorare da libero professionista per governi stranieri, ha utilizzato la relazione con Salvini per i suoi interessi? I leghisti temono in svariate circostanze, con i russi come si è scoperto, con i cinesi, con Intesa e via elencando. Questa vicenda può diventare davvero pericolosa per Salvini. Non soltanto una barzelletta geopolitica.
Peggio, molto peggio. Il livello di allarme è aumentato nelle settimane successive. A gennaio. Alla viglia del voto per il presidente della Repubblica. Quando uno stretto collaboratore di Salvini si precipitò da Giorgetti per confrontarsi sul fenomeno Capuano che aveva piegato qualsiasi gerarchia nel partito. Giorgetti non era molto informato sulla questione, il dialogo con Salvini era intermittente, e dunque si prese un giorno per reperire riscontri più affidabili.
L'indomani sentenziò: stare alla larga da Capuano. Giorgetti fu il primo ad avvisare Salvini, e l'ha rivendicato, di non esagerare con le frequentazioni di Savoini e D'Amico, troppo disinvolti con i russi. Per il ministro, insomma, Capuano era un personaggio estraneo alla Lega, un avvocato che dopo la legislatura in Parlamento si era occupato di affari con governi stranieri (il Kuwait, per esempio) e che di certo non era passato inosservato.
Formentini, Banca Intesa, Giorgetti e infine le riunioni con Razov, lo sconcerto di Palazzo Chigi, le crepe profonde nel Carroccio, le battute del presidente veneto Luca Zaia. Niente ha dissuaso Salvini dal rinunciare all'avv. Capuano che ieri si chiamava Savoini e domani avrà un altro nome. Non ci sono ragioni sensate per giustificare l'intervento di Capuano per consentire al segretario di una grande forza di maggioranza di governo di accedere alle ambasciate cinesi o russe.
Se non una: Salvini ha un suo partito nel partito. E Capuano è stato un protagonista di un partito parallelo in aperta competizione con l'originale. Il Carroccio e Salvini non si riconoscono più. Si convive male per necessità.
Si attende ugualmente armati di acredine l'ordalia delle liste per le politiche del prossimo anno. Era scontato che fosse l'ultima esecuzione del potere di Matteo prima di un congresso o di liturgie somiglianti per liquidarlo neanche cinquantenne. Oggi non più. Un capo che si è autoescluso dal consesso istituzionale, senza ipocrisia, non avrà mai incarichi pubblici di rilievo dopo la doppietta Savoini-Capuano, è un capo che non serve più. Un tempo portava elettori. Oggi Capuano.
Fontana: «Dissi a Salvini dei rischi, poi lui non è andato. Capuano? Mai visto». Marco Cremonesi su Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.
Salvini l’ha detto ieri: «La politica estera della Lega è in mano a me e al responsabile degli Esteri, Lorenzo Fontana». Cioé, a lei. «Mi pare una cosa normalissima. I rapporti internazionali di un partito spettano al suo segretario e al responsabile del partito. Cosa c’è di strano?». Lorenzo Fontana, oltre a essere il vicesegretario della Lega è, appunto, anche il delegato ad occuparsi delle questioni internazionali...
In questi giorni, è sembrato che ad occuparsene fosse l’avvocato Antonio Capuano… «Il segretario si è confrontato con il partito, non so con chi altri. Io gli ho detto che il viaggio poteva essere più rischioso che fruttuoso, e poi il segretario ha scelto di non andare. Dispiace soltanto che un tentativo generoso per contribuire alla pace sia diventata una scusa per insulti e falsità contro la Lega».
Perdoni: forse lo è diventato anche per le dichiarazioni di Capuano. «Non conosco questa persona, non l’ho mai visto. Mi vien solo da dire che i diplomatici che conosco sono persone abbastanza silenziose. Mi stupisce un po’ che questa persona continui a rilasciare interviste a nome di un partito che non rappresenta».
Ma che cosa è successo con questo viaggio? «Salvini da tempo cerca di fare ogni sforzo possibile per avvicinare la pace e far tacere le armi. E io credo che sia una posizione giustissima per una varietà di motivi».
Ce li può elencare? «Il primo è quello umanitario. Ci sono persone che muoiono, profughi, famiglie spezzate. E poi, la guerra è nemica degli interessi italiani: più il conflitto prosegue, più in questo paese i problemi si faranno pressanti e gravi. E poi c’è una questione sociale: rischiamo di avere situazioni esplosive in medio oriente e in nord Africa, con interi stati che non disporranno degli approvvigionamenti necessari. Infine, il rischio di un’escalation dalle conseguenze imprevedibili. Insomma, la guerra va fermata».
Anche con iniziative individuali? «Ma guardi che è la stessa cosa che stanno cercando di fare Francia e Germania. La scelta di Matteo Salvini andava nella stessa direzione: riaprire il dialogo e la discussione per far tacere le armi».
E poi, che cosa è successo? «Nulla, appunto. Come le ho detto: il segretario, quando si è aperta la possibilità di fare questo viaggio, si è confrontato con me e con altri nel partito. Noi gli abbiamo fatto presente che fosse una strada complicata dal punto di vista politico e anche mediatico, e Salvini non è andato».
Fontana, ma anche il premier Mario Draghi non è sembrato entusiasta, così come Franco Gabrielli. Palazzo Chigi ha fatto sapere che nulla era stato annunciato. «Il viaggio non c’è stato, era difficile annunciare una cosa incerta. Salvini voleva mettere a disposizione una possibilità in più di confronto con la Russia. Una volta deciso è ovvio che si sarebbe confrontato e coordinato con il premier».
C’è anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. «Di Maio ha fatto dichiarazioni che avrebbe potuto evitare…».
Non teme che di questo passo si possa arrivare a una crisi? «Non credo proprio. In una situazione difficile come quella di oggi, con nubi gravi che si addensano sui prossimi mesi, da parte nostra questo pericolo semplicemente non esiste. Noi, questo sì, siamo determinatissimi a lavorare senza sosta per gli interessi degli italiani, a partire dal caro bollette».
L’animosità tra i partiti è ai livelli più alti di sempre. «Tra dieci giorni ci sono le elezioni. È normale che Pd e M5S non perdano una sola occasione per screditare la Lega. Ma questo, il 12 giugno, non li aiuterà. Detto questo, l’Italia oggi ha problemi talmente importanti che mi auguro proprio che la cosa finisca qui».
L’Unione europea ha appena approvato nuove sanzioni. La Lega è d’accordo? «Sono l’unico sistema per non usare le armi. Temo però che si sottovaluti una cosa: il popolo russo è storicamente abituato alle difficoltà. Più abituato che non l’Occidente. Non vorrei che riuscisse a superare i momenti difficili meglio di noi».
The Americans. Salvini, Trump, Meloni e il mondo impazzito ai piedi di Putin. Christian Rocca su L'Inkiesta il 12 Giugno 2022.
Dai biglietti pagati dai russi al tentativo di colpo di stato a Washington, fino all’adesione al nazionalismo autoritario spacciato per atlantismo, nella realtà succedono cose talmente incredibili da lasciare increduli anche i fan della serie americana sugli agenti del Kgb a Washington. Sembra tutto normale, ma non lo è.
L’ambasciata russa ha fatto sapere che, quando non impegnata a diffondere fregnacce e a minacciare i giornali italiani, offre anche un ottimo servizio concierge di prenotazioni voli da e per Mosca a disposizione di leader imbarazzanti come Matteo Salvini, il più scarso uomo politico ormai non più solo d’Europa ma anche di tutte le Russie. L’ambasciata non ha fornito dettagli su dove avrebbe pernottato il capo leghista se l’osceno viaggio non fosse saltato per manifesta indecenza, ma pare di capire che in questo periodo di sanzioni ci siano tariffe molto vantaggiose in un vivace hotel moscovita chiamato Metropol.
In The Americans, la serie sulle spie del Kgb a Washington, gli uomini di Mosca nel cuore della capitale americana gestivano un’agenzia di viaggio, quindi deve essere proprio un’antica e raffinata tecnica delle rezidentura in giro per il mondo quella di farsi valere nel servizio prenotazioni dei biglietti.
A rendere la vicenda ancora più tragicomica c’è che a svelare la questione dei voli di Salvini pagati in rubli dai russi, prima ancora della conferma dell’ambasciata a Roma, è stato il giornale La Verità, in russo Pravda, ovvero il quotidiano più incline a bersi e poi a diffondere tutte le più grandi panzane care ai russi su covid, vaccini, Nato e Ucraina.
In un mondo normale, nel quale purtroppo non viviamo più da anni, Salvini sarebbe politicamente un leader radioattivo cui stare lontano dopo l’ennesima dimostrazione di inettitudine e da mettere ai margini innanzitutto del suo stesso partito. Invece non succederà niente, come non è successo niente dopo la figuraccia in Polonia orchestrata maldestramente dallo stratega del Papeete per far dimenticare una vita da groupie di Putin, per perdonare l’accordo politico siglato con il partito unico Russia unita e per evitare che tutti noi ci ricordassimo dell’adesione della Lega ai principi cardine della politica antioccidentale del Cremlino contro l’Unione europea e contro l’Alleanza atlantica, peraltro in condivisione strategica con l’ala grillina del populismo italiano.
Mentre succedeva tutto questo, a Washington sono cominciate ad emergere le conclusioni della Commissione bipartisan sul tentato golpe trumpiano del 6 gennaio 2021, durante il quale sono morte cinque persone ed è stato sventato il linciaggio di alcuni parlamentari e addirittura del vice presidente di Trump, Mike Pence.
Coordinati da Liz Cheney, la figlia dell’ex vicepresidente repubblicano Dick Cheney, non esattamente un pericoloso rivoluzionario di sinistra, i commissari hanno mostrato in aula i filmati con le testimonianze della manovalanza golpista dei Proud Boys e delle strategie dei vertici della Casa Bianca di Trump. È venuto fuori, con le parole dei protagonisti trumpiani, che l’allora presidente ha incitato i manifestanti ad assaltare il Congresso e ha giustificato davanti ai suoi collaboratori l’assalto violento dei rivoltosi i quali volevano impiccare Pence (che, ricordiamolo, era il suo vice). Secondo Trump, il suo vice si meritava di essere giustiziato, perché non ha impedito la proclamazione formale della vittoria elettorale di Biden del novembre 2020.
Il ministro della Giustizia di Trump, quel William Barr cui il governo Conte mise a disposizione i nostri apparati di intelligence per scovare le prove di una bufala costruita dal Cremlino contro l’Ucraina (sì, tutto torna), ai membri della Commissione ha detto senza mezzi termini che la rivendicazione trumpiana di un furto elettorale di Biden era semplicemente «una stronzata». Anche la figlia di Trump, Ivanka, ha ammesso di non aver creduto alle bugie di papà e di essersi fidata fin dall’inizio delle parole di Barr, «una stronzata», anziché delle bufale che il presidente continua a spacciare anche in questi giorni.
Insomma, a Washington c’è stato un tentativo di colpo di stato organizzato da un Cialtrone in chief, successivamente salvato due volte dai suoi senatori dalle accuse di aver tradito gli Stati Uniti e di aver violato la Costituzione, peraltro dopo aver ricevuto un aiutino mica male dai russi per essere eletto nel 2016, come gli sceneggiatori di The Americans non avrebbero potuto immaginare nemmeno sotto effetto di sostanze psicotrope (anche in quel caso si è parlato di viaggi a Mosca con pernottamento al Ritz-Carlton e di fantomatici kompromat, materiali compromettenti, su Trump a disposizione di Putin).
Probabilmente non succederà niente neanche stavolta, Trump potrebbe ricandidarsi alle presidenziali e anche vincerle, con conseguenze disastrose per l’Ucraina e per l’Europa, e ovviamente anche per gli americani.
In tutto questo, Giorgia Meloni passa per una leader seria e atlantista (certo, rispetto a Salvini e a Trump è facile), ma invece è una follower trumpiana, una seguace di Steve Bannon, ovvero dell’Alexander Dugin di Trump, e un’assidua frequentatrice del Cpac, il gruppo di reazionari e di illiberali che venerano Trump, invidiano Putin, detestano la democrazia liberale e difendono i golpisti del 6 gennaio. Senza dimenticare l’antica ammirazione meloniana per Putin, appena più sobria di quella del grottesco Salvini ma altrettanto sentita, e gli attuali baci e abbracci con Viktor Orbán, l’ambasciatore del Cremlino in Europa.
In un mondo normale, rieccoci a parlarne con nostalgia, Giorgia Meloni sarebbe considerata un pericolo pubblico per la democrazia e per l’Europa, non come una leader affidabile seriamente in corsa per guidare uno dei paesi fondatori dell’Unione.
Atlantisti per Putin. L’equivicinismo tattico di Berlusconi e Salvini e il vecchio vizio italico di stare con tutti. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 24 Maggio 2022.
Pensare che possa non esserci contraddizione tra il regime di Mosca e le democrazie liberali è oltre il paradosso. Ma in politica, in nome della possibilità di essere amici e alleati di chiunque, si può andare anche contro la logica e, in questo caso, del pudore.
Nella guerra per procura combattuta dal regime del Cremlino nella tv e nella politica italiana contro il nemico americano, i primi a schierarsi sono stati prevedibilmente gli epigoni delle tradizioni anti-imperialiste di destra e di sinistra. Quelli per cui, durante la Seconda Guerra Mondiale, erano state le truppe alleate e non quelle naziste ad avere occupato l’Italia e quelli a cui, dopo la guerra, la costituzione della Nato era subito parsa la continuazione del nazismo con altri mezzi, che avrebbe trasformato l’Italia in una Repubblica di Vichy.
A queste truppe volontarie, sinceramente impegnate in una guerra che è, a tutti gli effetti, anche la loro, come dei loro padri e dei loro nonni, sparsi tra gli uffici del Minculpop e del Cominform, si sono poi aggiunti i miliziani di quella sorta di Gruppo Wagner dell’avvelenamento informativo e cognitivo, che Putin ha infiltrato da anni in tutte le democrazie euro-atlantiche.
Il loro capolavoro è stato raccontare la guerra della Russia all’Ucraina come un incidente programmato per il grande reset degli equilibri internazionali e avere fatto credere a milioni di italiani che russi ed ucraini sono ugualmente vittime, con uguali torti e ragioni, di un unico carnefice annidato nel deep state e nelle oligarchie politico-economiche americane. Dell’America di Biden, ovviamente, non di quella di Trump, che di quel deep state era stato avversario ed era poi caduto vittima, con il colpo di stato elettorale raccontato dagli sciamani di QAnon.
Nelle retrovie politico-mediatiche della guerra ibrida del Cremlino ora però avanza un fronte di (come chiamarli?) “atlantisti per Putin”, per cui i principi dell’ordine liberale e quelli dell’ordine putiniano non sarebbero affatto in contraddizione, né rappresenterebbero radicali alternative politiche e strategiche, se non nella logica della guerra, che va appunto destituita e disarmata, perché le sembianze del nemico possano svelare miracolosamente quelle dell’amico ritrovato.
Se intorno a Berlusconi ci fossero ancora appassionati di filosofia come Sandro Bondi, anziché troppo prosaici impacchettatori di veline e di smentite, qualcuno dei suoi collaboratori potrebbe azzardare un paragone tra la verità double face del Cavaliere e la coincidentia oppositorum di Nicola Cusano, tra il carattere apparentemente contraddittorio di una pace senza vincitori né vinti e quello apparentemente paradossale dell’infinità divina, che unisce in sé caratteri che il limitato intelletto umano non può che vedere divisi ed opposti. La pace come trascendenza della guerra e Dio come trascendenza del mondo.
Né Berlusconi, né Salvini, né quello che rimane dell’inner circle berlusconiano e della Bestia del Capitano hanno per fortuna la voglia e la verve per fare troppo alti e arrischiati paragoni, ma certamente nella coppia forza-leghista è visibile, con l’evocazione di una pace così assoluta, il tentativo di coprire un difetto di logica e di responsabilità con un eccesso di mistica e di ripudiare il bellicismo dei presunti guerrafondai con la predicazione di un pacifismo cerimonioso e imbroglione, buono solo per rompere l’isolamento del vecchio beniamino moscovita. Nel metaverso politico berlusconiano, i veri democratici non fanno la guerra a Putin, perché non è vero che Putin fa la guerra alla democrazia.
In ogni caso, l’esibizione di un atlantismo contraffatto, nel segno dell’appeasement e della complicità con Putin, pur essendo un esercizio grottesco, rimane un rischio politicamente molto serio, perché, quanto l’anti-atlantismo ideologico e quello mercenario, ha anch’esso una notevole infettività in un Paese privo di difese immunitarie verso ogni auto-proclamato vendicatore dell’inganno democratico (da Mussolini a Casaleggio), e troppo incline a considerare il liberalismo occidentale e l’ordine euro-atlantico un potere di fatto straniero, politicamente colonialistico e economicamente predatorio.
Inoltre, questo equidistantismo e equivicinismo acrobatico, che Berlusconi e Salvini affettano per non privare Mosca della loro sponda, ma anche per non allontanare mai troppo il baricentro dell’azione del campo di un possibile vincitore – chiunque esso sia – non è un carattere nuovo della politica estera italiana, che nella Prima Repubblica è riuscita agevolmente a essere, in particolare sotto la guida di Andreotti, cinica e agnostica, chiacchierona e affaristica, filoatlantica ma anche filosovietica, amica di Israele e pure complice di Arafat e del terrorismo anti-ebraico.
Se l’Italia oggi è il paese più putiniano dell’Occidente, è anche perché l’atlantismo mascherato di Berlusconi e Salvini non è poi così inedito nella storia nazionale.
Silvio Berlusconi? Ecco perché chi esaltava i sovietici non può criticare il Cavaliere. Libero Quotidiano il 22 maggio 2022
Le dichiarazioni di Silvio Berlusconi a proposito della guerra in Ucraina (una settimana fa, venerdì e ieri) sono improntate al realismo, alla volontà di pace e al desiderio di evitare ricadute economiche devastanti per l'Italia e per il mondo: «Non posso che condividere la preoccupazione di tanti per uno sviluppo incontrollato del conflitto. Il fatto stesso che si parli, con qualche leggerezza di troppo, del possibile uso di armi nucleari significa mettere in discussione quella soglia, ben chiara a tutti persino negli anni della guerra fredda, che escludeva l'uso dell'arma atomica in un conflitto locale. Non possiamo che condividere quindi gli appelli di quanti - primo fra tutti Papa Francesco - invocano di fare ogni sforzo per giungere alla pace al più presto. Per porre fine all'orrore della guerra, e al tempo stesso per garantire al popolo ucraino il suo legittimo diritto all'indipendenza e alla libertà». Ma se neppure il Papa era stato risparmiato dall'accusa di putinismo, per aver strenuamente fatto appello alla trattativa, non poteva certo essere risparmiato il Cavaliere.
Infatti ha cominciato il Corriere della Sera il 17 maggio titolando: «Berlusconi giustifica Putin». Il Cavaliere non aveva affatto giustificato Putin, tutt' altro: aveva condannato la sua invasione dell'Ucraina, ma aveva criticato pure chi - come Biden - faceva dichiarazioni e scelte incendiarie invece di adoperarsi per fermare il conflitto.
Attualmente i più zelanti paladini di un atlantismo acritico, appiattito sulla Casa Bianca, sono proprio coloro che vengono da sinistra. Eppure nel 1949 il Pci e le Sinistre (come pure il Msi) votarono contro l'adesione dell'Italia alla Nato (e anche la sinistra diccì era critica). Oggi gli atlantisti dell'ultima ora - non avendo una storia coerente - cercano di rimpiazzarla con l'eccesso di zelo e pretendono pure di fare gli esami di atlantismo a chi è sempre stato "occidentale".
Questo ha detto, ironizzando, il Cavaliere ieri a Napoli: «A proposito di atlantismo io apprezzo molto lo zelo atlantista di queste settimane del Partito democratico, vorrei solo ricordare che la storia della sinistra italiana non è sempre stata questa. Non parlo solo dell'opposizione feroce del Partito comunista all'ingresso dell'Italia nella Nato, né del sostegno all'invasione dell'Ungheria: voglio ricordare, in tempi molto più recenti, negli anni '80, l'altrettanto feroce opposizione alla decisione del governo Craxi di installare i cosiddetti euromissili per rispondere alla minaccia dei missili sovietici puntati direttamente contro il nostro Paese». Ha concluso: «Siamo i soli a non dover chiedere scusa di nulla nel nostro passato, ad essere sempre stati - come lo siamo oggi dalla parte della libertà, della democrazia, dell'Europa, dell'Occidente».
NON SUDDITI
Certo, chi ha un passato da far dimenticare non può permettersi libertà critica, ma chi è sempre stato atlantista - fa capire Berlusconi - può permettersi di stare nella Nato da protagonista e non in modo servile. Per questo il Cavaliere rivendica di nuovo quello che vanta sempre come il suo capolavoro di politica internazionale, il Trattato di Pratica di Mare: «Voglio ricordarvi di aver dato all'Italia un ruolo da protagonista nella politica estera, in pieno accordo con i nostri alleati dell'Occidente, portando nel 2002 allo stesso tavolo George Bush e Vladimir Putin, gli Stati Uniti e la Federazione russa, per firmare il trattato che pose fine a più di cinquant' anni di guerra fredda».
PRATICA DI MARE
In effetti era la strada giusta. Se si fosse tenuta quella direzione l'imperfetta democrazia russa avrebbe avuto un'evoluzione positiva e si sarebbe integrata nell'occidente con cui Putin, allora, voleva collaborare pacificamente. Berlusconi adesso dichiara di voler far rinascere «lo stesso spirito» per «fare oggi un altro passo che non ha alternative, un passo verso la sicurezza comune per offrire alle nuove generazioni un avvenire di sicurezza, di prosperità e di libertà». Ma è difficile perché quella strada è stata abbandonata (anzitutto dall'Occidente) da più di dieci anni e oggi dilaga lo spirito opposto.
Basta vedere le reazioni alle sue parole. Il quotidiano Domani sabato ha titolato: «Adesso Draghi deve fare i conti con la mina vagante Berlusconi». E nel sottotitolo ha aggiunto che «il leader di Forza Italia straparla» sull'Ucraina.
Eppure il Cavaliere ha esternato le stesse preoccupazioni che, pochi giorni fa, ha manifestato l'editore e fondatore di Domani, Carlo De Benedetti, in una clamorosa intervista al Corriere della Sera. Straparlava anche l'Ingegnere secondo il Domani? O piuttosto i due - divisi su tante cose, ma accomunati da concretezza e realismo - hanno il merito di suonare l'allarme sulle conseguenze devastanti che sta già avendo la guerra, su quelle apocalittiche che si annunciano e sull'assurdità dell'invio delle armi da parte dell'Occidente. Entrambi si sono espressi per una urgente soluzione negoziale e hanno criticato la leadership di Biden. De Benedetti ha tuonato: «Se l'America vuol fare la guerra a Putin la faccia, ma non è l'interesse dell'Europa. Noi non possiamo e non dobbiamo seguire Biden» (poi, a differenza di Berlusconi, ha pure aggiunto che la Nato «ora non ha più senso»).
SENTIMENTO DIFFUSO Anche Repubblica ha messo in prima pagina la foto di Berlusconi e Putin: «L'amico russo». Sarebbe interessante sapere come quel giornale valuta le dichiarazioni di De Benedetti che ha costruito la storia e l'identità del quotidiano scalfariano. O come giudica le considerazioni di un grande intellettuale di sinistra come Jürgen Habermas del tutto simili a quanto ha detto Berlusconi. Repubblica critica «il lascito politico» dei governi Berlusconi che sarebbe «la dipendenza estrema dell'Italia dal gas russo». Ma perché la Germania ha fatto la stessa scelta, ancor più marcatamente? Lì non governava Berlusconi. Inoltre non risulta che il Pd, che domina da dieci anni, abbia cambiato quella scelta. Anzi, visto che l'editoriale di Stefano Cappellini elogia oggi «il Pd di Enrico Letta» perché è «in scia» con Draghi, cioè con Biden, gioverà ricordare questo titolo di Repubblica del 26 novembre 2013, al tempo del governo Letta: «Italia -Russia, firmati 28 accordi. Letta: "Da intese nuovi posti di lavoro"». Letta dichiarava: «Noi abbiamo un drammatico bisogno di crescere, di creare posti di lavoro. C'è una ripresa da agganciare e in questo senso il rapporto con la Russia ci può dare posti di lavoro in settori per noi strategici».
Secondo Letta fu una delle giornate «più intense e produttive» per il governo. La storia avrebbe anche altri capitoli. In ogni caso ora conta il presente. Tutti i sondaggi mostrano che le dichiarazioni di Berlusconi rispecchiano ciò che pensa la maggioranza degli italiani. Ricomporre la frattura fra il Paese e il Palazzo è vitale. Come pure evitare il tracollo economico.
Il politburo di Silvio. Tutto quello che a Napoli i berlusconiani non dicono su un leader allo sbando. Amedeo La Mattina su L'Inkiesta il 21 Maggio 2022.
Vladimir Putin e Giorgia Meloni sono i convitati di pietra della convention di Forza Italia. Il partito azzurro avrebbe tanti dossier da risolvere: le lotte interne, la leadership del centrodestra, il rapporto imbarazzante in passato tra il Cavaliere e il dittatore russo. Ma di tutto questo non si parlerà mai.
Due giorni a Napoli: lo stato maggiore di Forza Italia si riunisce attorno a Silvio Berlusconi, che ritorna in pubblico più putiniano che mai. Nella grande sala della Mostra d’Oltremare ci sono tanti convitati di pietra, tante rimozioni che non devono turbare l’ostensione ai fedeli del corpo del Cavaliere. La vicenda polemica di Maria Stella Gelmini (il coordinatore in Lombardia fatto fuori e sostituito con la filosalviniana Licia Ronzulli) è la questione meno rilevante. Certo la ministra per i Rapporti regionali è la capodelegazione azzurra al governo e quindi la sua critica al capo indiscusso e indiscutibile ha fatto rumore. Addirittura sembrava che lei non volesse mettere piede alla convention partenopea e invece c’è, zittita dal coordinatore nazionale Antonio Tajani: le ha fatto presente che lei ha un incarico di rilievo nell’esecutivo, dunque che cosa vuole di più?
Gelmini vorrebbe, ad esempio, che il partito sia meno eterodiretto da Matteo Salvini e che i moderati draghiani abbiano lo spazio necessario a non morire sovranisti.
Eppure tutto questo è veramente de minimis. I veri problemi (statene certi) non sono discussi, e hanno i nomi di Vladimir Putin e di Giorgia Meloni.
Ci sono le solite affermazioni sull’Ucraina, atti di fede formali all’atlantismo, flebili condanne verso Mosca, difesa del povero popolo ucraino che ha il diritto di difendersi, sì, ma non troppo. Nessuno però va al microfono per dire che le parole di Berlusconi sono sbagliate. Nessuno dice che non si può assecondare il despota del Cremlino con il quale il Cavaliere in passato ha festeggiato nelle dacie nascoste, ha passeggiato sul lungomare di Yalta dove, tra lo stupore di Silvio, tutti andavano a ringraziare Vladimir per aver riportato la Crimea alla Madre Patria. Nessuno osa commentare le affermazioni dell’ex presidente del Consiglio pronunciate al suo arrivo alla Mostra d’Oltremare e che ribadirà oggi: ovvero che bisogna assolutamente arrivare a una pace altrimenti andranno avanti le devastazioni e le stragi, che l’Europa senza leader (Emmanuel Macron? Mario Draghi? Non pervenuti ad Arcore) si deve unire per fare una proposta ai russi e agli ucraini.
Attenzione, che proposta? «Fare accogliere agli ucraini le domande di Putin». Insomma, quel testone di Volodymyr Zelensky si deve mettere prono, Joe Biden deve smettere di mandare armi e di infastidire il «signor Putin», Draghi non deve seguire i falchi guerrafondai. «Io dico che mandare armi significa essere cobelligeranti, essere anche noi in guerra. Se dovessimo inviare armi, sarebbe meglio non fare tanta pubblicità».
Perché allora i parlamentari di Forza Italia abbiano votato il decreto che autorizza il governo italiano a mandare armamenti è il solito mistero buffo del mondo berlusconiano.
Berlusconi e anche Salvini fanno una cosa in Parlamento e poi ne dicono un’altra. E perché gli ucraini dovrebbero accettare le condizioni di Mosca quando il presidente del Consiglio Mario Draghi ha detto e ripetuto in tutte le salse che un accordo ha senso solo se va bene a Kiev?
Pure per il Cavaliere, quindi, il governo ha bisogno di un nuovo mandato politico sulle prossime mosse, armi comprese, come sostiene Giuseppe Conte? La narrazione di Berlusconi è un continuo dichiarare e correggere il tiro, togliersi la maschera, far sentire il cuore che batte per il signore della guerra e un minuto dopo invocare il Partito popolare europeo, l’Europa…
C’è poi una questione tutta italiana e interna al centrodestra. A Napoli l’altro convitato di pietra è Giorgia Meloni. Il nodo è così sintetizzabile: successione al trono. Più prosaicamente, chi sarà il candidato presidente del Consiglio del centrodestra? Salvini e Berlusconi indicheranno al capo dello Stato la leader di Fratelli d’Italia se il suo partito uscirà come primo dalle urne? Sarà lei a essere incaricata a formare il governo, in caso di vittoria elettorale del centrodestra? Meloni intende proprio questo quando sostiene che i vertici devono servire a scrivere le regole di ingaggio per escludere ogni alleanza con i Cinquestelle e il Partito democratico. È questo il significato del suo insistere sulla conferma della candidatura siciliana del governatore uscente Nello Musumeci: vuole che le sue proposte siano prese in considerazione, chiede il riconoscimento del suo ruolo sulla base del consenso conquistato sul campo.
È inutile che i suoi alleati-coltelli le facciano presente che con Musumeci si perde, che la candidatura a Roma di Michetti voluta fortissimamente da lei si sia rivelata un fallimento totale. Ma soprattutto, pretendere di essere già candidata a Palazzo Chigi da Salvini e a Berlusconi sembra loro assurdo. Nonostante siano stati proprio loro a dire che il primo partito della coalizione esprime la premiership. Ma lo dicevano quando una volta il primo partito era Forza Italia e successivamente la Lega.
Adesso le cose sono cambiate. E in particolare, fanno presente i berluscones, avete presente che cosa accadrebbe in Europa e nel mondo se dovessimo avere il presidente dei Conservatori europei, l’amica dei polacchi e di Viktor Orbán alla presidenza del Consiglio? Dovrebbero pure spiegare però perché Meloni no e invece Salvini (uno dei maggiori leader europei dei sovranisti e del gruppo europarlamentare più anti-europeo) sì.
Ecco, tante cose non verranno dette tra oggi e domani a Napoli. Ad esempio che Meloni potrebbe essere tentata di correre da sola (un pensierino lo sta facendo), fregandosene se l’attuale legge elettorale spinge alle coalizioni per concorrere nei collegi uninominali. Alla convention partenopea non verrà esplicitato l’avviso alla sovranista Meloni, ma il messaggio è partito dalle colonne del Giornale.
La tesi della realcasa d’Arcore è che un governo a guida Meloni spaventerebbe l’Unione europea, mercati e gli investitori. Viene citato Bloomberg, si ricorda che far finta di non preoccuparsi della «finanza globalista è politicamente suicida». E, ancora, «bisogna stringere relazioni con le forze politiche dei principali Paesi della Ue: non bastano i polacchi», scrive Il Giornale, citando il Ppe e Biden. «Meloni tutto questo lo sa. Come sa che, in caso contrario, un suo governo durerebbe come un gatto in tangenziale».
Il cerchio tra politica estera e interna si chiude. Sono stati messi in mezzo pure i polacchi, i più agguerriti al fianco degli ucraini, che però non bastano a legittimare Meloni e danno molto fastidio a Putin. Nel centrodestra scorrono veleni e sospetti: perché Draghi non perde occasione per ringraziare pubblicamente in aula la Meloni per il sostegno sulla vicenda ucraina? La spiegazione, il retropensiero, il timore o l’allucinazione è che nella prossima legislatura ci sarà sempre e comunque bisogno dell’attuale presidente del Consiglio, anche se Fratelli d’Italia sarà il primo partito. A quel punto nulla è escluso, se la guerra in Ucraina dovesse malauguratamente continuare, neanche un altro governo Draghi sostenuto questa volta apertamente dall’atlantista Meloni. Magari con un suo ministro dentro, come l’ex viceministro alla Difesa Guido Crosetto. Queste cose a Napoli non le sentirete di sicuro.
Il leader di Forza Italia a Napoli tra calamaretti, scialatielli, babà e delizia al limone. Berlusconi difende Putin: “L’Ucraina deve ascoltarlo, inviare arme ci rende cobelligeranti”. Claudia Fusani su Il Riformista il 21 Maggio 2022.
Dare le armi all’Ucraina “ci rende automaticamente cobelligeranti”. Le sanzioni? “Hanno fatto male all’economia russa ma stanno facendo molto male anche a noi”. L’Europa? “ Deve fare il prima possibile una proposta di pace a Putin e agli ucraini. E bisogna che gli ucraini ascoltino le domande di Putin”. Johnson e Stoltenberg? “Le loro dichiarazioni non portano certo Putin al tavolo”. Il suo caro vecchio amico Vladimiro. Berlusconi is back.
A modo suo, tra calamaretti, scialatielli alle vongole, babà e delizia al limone con la vista di Marechiaro alle spalle. Il Cavaliere non solo rimette – cerca di – Forza Italia al centro della coalizione che altrimenti “è solo destra-destra e non ha alcuna chance di governare”. Ma vuole tornare ad essere lui il centro del centro. Questo è stato l’antipasto. Oggi, quando chiuderà la convention di Forza Italia, ci sarà il resto del menu. Non era previsto. Ma è accaduto. Come quasi sempre quando Berlusconi capisce che il momento è adesso perché tra un secondo potrebbe essere tardi. Che deve intervenire per rimettere ordine in quella che definisce senza dubbio “la mia creatura”: “Il centrodestra l’ho inventato io, il centrodestra è Forza Italia che, poiché sono stato fatto fuori dal Senato per l’applicazione retroattiva incostituzionale della legge Severino e dalla magistratura di sinistra , ha cominciato a perdere consenso”.
Poi c’è stato il Covid e adesso sono tornato, ho fatto un discorso a Roma e ne farò uno qui domani a Napoli”. La città che ama più di altre e dove lo hanno accolto, con la compagna Marta Fascina, tra romanze cantate, cartelli, hip hip e mazzi di rose. Il suo intervento ieri non era previsto. Ma è stato intercettato dalle telecamere a Marechiaro. Al tavolo con lui Marta Fascina, Licia Ronzulli, Alberto Barachini e lo staff. Si era sparsa la voce che ci fosse anche Manfred Weber, presidente del Ppe e ospite d’onore oggi alla kermesse di Forza Italia. Weber poi è andato in pellegrinaggio al Muro di Maradona accompagnato da Tajani.
Organizzate o meno, le dichiarazioni del Cavaliere hanno scombussolato l’agenda di giornata. In dieci minuti il Cavaliere ha fissato l’agenda del centrodestra. In politica estera posizionando Forza Italia dalla parte della Lega e di Salvini. Aggiungendo che le armi all’Ucraina “se si devono proprio inviare non dobbiamo però dirlo”. Dopo l’uscita di scena di Angela Merkel, “l’unico vero leader rimasto sono io”. E in politica interna. Sul nodo balneari e il la fiducia sul ddl concorrenza, “volevamo più tempo ma abbiamo il tempo per trovare una soluzione perchè è chiaro che dobbiamo trovare il modo di proteggere le trentamila aziende familiari che gestiscono gli stabilimenti balneari e che rischiano di perdere l’attività nel momento in cui partiranno le gare”. Tutto questo comunque non deve preoccupare il governo che “deve andare avanti”. “Nessuna fibrillazioni” ha detto. Anche sulla coalizione il Cavaliere mostra di avere le idee chiare. “C’è solo un problema sulla candidatura alla guida della regione Sicilia che sarà risolto e affrontato dopo le amministrative di giugno”.
Da questo punto di vista “Salvini è stato frainteso dai Fratelli d’Italia ed è venuta fuori una ricostruzione artificiosa”. Fino a metà pomeriggio la giornata era ruotata intorno alla decisione del premier Draghi di mettere la fiducia al ddl concorrenza. Una decisione dettata dal rischio di perdere la terza rata dei fondi del Pnrr (24 miliardi), di far diventare l’Italia inaffidabile rispetto al resto d’Europa e dunque condannarla alla marginalità. Con tutto quello che ne consegue anche dal punto di vista delle ripresa e della crescita. Della svalutazione e dello spread che finirebbe subito sotto attacco. Non ce lo possiamo permettere. Ecco perchè Draghi ha detto che il tempo dei tira e molla in Parlamento – sia delega fiscale che ddl concorrenza sono in Commissione dalla fine dal 2022 – è scaduto. Draghi ieri mattina è stato in vista a Verona e, tra le altre tappe, è stato anche in una scuola media di Sommacampagna. “La responsabilità – ha detto ai ragazzi e alla ragazze della Dante Alighieri – la sento molto. E questo è parte della serietà. Guidare un Paese in un momento difficile è responsabilità. Ma la responsabilità è anche agire, fare le cose”. Parole semplici che sono arrivate ai ragazzi e che sembrano voler dare l’interpretazione autentica del suo ultimatum ai partiti della maggioranza.
Seguendo i canali istituzionali, Draghi ha comunque scritto alla Presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati che l’ha poi trasmessa ai capigruppo di Palazzo Madama e al presidente della Commissione Industria, Gianni Girotto. “Il Governo, nel rispetto delle prerogative parlamentari – ha scritto il premier – deve rappresentare che, senza una sollecita definizione dei lavori del Senato con l’iscrizione in Aula del provvedimento ed una sua rapida approvazione entro fine maggio sarebbe insostenibilmente messo a rischio il raggiungimento di un obiettivo fondamentale del Pnrr”. I partiti di maggioranza, e soprattutto il centrodestra di governo, sembrano aver accettato l’accelerazione. Anche perchè era stato fatto, appena dieci giorni fa, un patto doppio di delega fiscale e ddl Concorrenza. Matteo Salvini ha usato toni concilianti: “Credo che l’accordo sui balneari sia a portata di mano, così come per il catasto.
Lo troveremo anche senza porre la fiducia”. Stupito per il Consiglio dei ministri “convocato all’improvviso”, il leader della Lega non crede che “il governo sia a rischio, né per le spiagge né per il termovalorizzatore di Roma”. Che è invece il nodo su cui i 5 Stelle hanno promesso fuoco e fiamme. Sta all’attacco, e non potremmo fare diversamente, la presidente di Fdi, Giorgia Meloni: “La decisione di Draghi è molto grave – ha detto – perché se il governo si è impegnato a svendere le nostre aziende balneari in cambio di non so cosa allora dovrebbe spiegarlo agli italiani. A casa mia non voglio accordo sottobanco”. Silvio is back. E per Meloni questo è un problema.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Gelmini all'attacco ma il Cav rivendica tutto. Armi Ucraina e rapporti con Putin, tutti contro Berlusconi che bacchetta: “Noi da sempre con la Nato, il Pd invece…”. Redazione su Il Riformista il 21 Maggio 2022
Inviare armi all’Ucraina “ci rende automaticamente cobelligeranti” e “l’Europa deve fare il prima possibile una proposta di pace a Putin e agli ucraini. E bisogna che gli ucraini ascoltino le domande di Putin”. Sono bastate queste parole per scatenare un vero e proprio putiferio contro Silvio Berlusconi, presidente di Forza Italia, impegnato oggi a Napoli nella convention azzurra alla Mostra d’Oltremare nel tentativo di risollevare un partito che negli anni ha perso consensi (presente anche l’attore Ron Moss, protagonista della serie tv ‘Beautiful, e imprenditore in Puglia).
Parole quelle pronunciate ieri, sempre nel capoluogo partenopeo, da Berlusconi che hanno creato scossoni sia all’interno di Forza Italia che del centrodestra com Salvini e Gelmini che hanno preso le distanze, seppur, soprattutto il leader leghista, in modo diplomatico. Parole che hanno portato lo stesso Berlusconi a chiarire meglio il concetto oggi, rivendicando il ruolo avuto in passato a capo del Governo. “Voglio ricordarvi di aver dato all’Italia un ruolo da protagonista nella politica estera, in pieno accordo con i nostri alleati dell’Occidente, portando nel 2002 allo stesso tavolo George Bush e Vladimir Putin, gli Stati Uniti e la Federazione russa, per firmare il trattato che pose fine a più di cinquant’anni di guerra fredda. Io spero che con lo stesso spirito si possa fare oggi un altro passo che non ha alternative, un passo verso la sicurezza comune per offrire alle nuove generazioni un avvenire di sicurezza, di prosperità e di libertà. Garantisco che andremo avanti con grande determinazione, ci impegneremo a fondo per ottenere questo risultato”.
Il dietrofront arriva sulle armi e sul concetto di cobelligeranza. “L’Ucraina è un paese aggredito e noi dobbiamo aiutarlo a difendersi”. Poi aggiunge: “Non posso che condividere con voi l’orrore e il dolore per le tragiche immagini e le terribili notizie che ci vengono dall’Ucraina, non posso che condividere la preoccupazione di tanti per uno sviluppo incontrollato del conflitto. Il fatto stesso che si parli, con qualche leggerezza di troppo, del possibile uso di armi nucleari significa mettere in discussione quella soglia, ben chiara a tutti persino negli anni della guerra fredda, che escludeva l’uso dell’arma atomica in un conflitto locale”. “Non possiamo che condividere quindi gli appelli di quanti, primo fra tutti papa Francesco, invocano di fare ogni sforzo per giungere alla pace al più presto. Per porre fine all’orrore della guerra, e al tempo stesso per garantire al popolo ucraino il suo legittimo diritto all’indipendenza e alla libertà”.
Poi l’attacco al centrosinistra neo-atlantista: “Forza Italia è e rimarrà sempre dalla parte dell’Europa, dalla parte dell’Alleanza Atlantica, dalla parte dell’Occidente, dalla parte degli Stati Uniti. Apprezzo molto lo zelo atlantista di queste ultime settimane del Partito democratico, vorrei solo ricordare che la storia della sinistra italiana non è sempre stata questa”.
Il presidente azzurro esprime forte preoccupazione sul ruolo della Cina, “uno stato con potenzialità ben superiori a quelle della Russia e purtroppo i fatti dell’Ucraina e le tensioni in Europa inevitabilmente portano la Russia ad un rapporto più stretto con la Cina. In meno di dieci anni, entro il 2031, la Cina diventerà la prima potenza economica del mondo e l’India diventerà la terza potenza”.
“In Africa – ha aggiunto – possenti investimenti cinesi condizionano la politica di molte nazioni economicamente fragili. L’egemonia in Africa della Cina, così come il controllo di molte infrastrutture strategiche in Medio Oriente e in Europa attraverso la “via della Seta” e’ una vera colonizzazione. Nelle alte sfere internazionali non si parla più di Continente africano, si parla di Continente sino-africano. In Africa, su 53 stati 50 ricevono dalla Cina soldi, armi, prodotti. E in Cina si stanno istruendo 3 milioni di cittadini destinati ad essere trasferiti negli Stati africani con compiti direttivi”.
In mattinata era arrivato l’attacco di una sua ‘fedelissima’, Maria Stella Gelmini, ministro per gli affari regionali e le autonomie. “L’Italia non può essere il ventre molle dell’Occidente e soprattutto non può diventarlo per responsabilità di Forza Italia. Le parole di Berlusconi di ieri purtroppo non smentiscono le nostre ambiguità. Oggi più che ascoltare le parole di Putin – ha aggiunto Gelmini – occorre ascoltare il grido di dolore dell’Ucraina, violentata e oppressa dall’invasore”.
Matteo Salvini, leader della Lega, ha provato invece a non esporsi contro Berlusconi: “Non commento le parole di Berlusconi”, secondo cui bisogna “far accogliere agli ucraini le domande di Putin”. E ha spiegato: “Kiev deciderà cosa accettare e cosa non accettare, cosi’ come Mosca. Io sto lavorando per un tavolo a cui si siedano Putin e Zelensky, perché altrimenti non so cosa pensano. Poi decideranno loro”.
Il Cav russo. Berlusconi rilancia il forzaleghismo putinofilo, ora Meloni e Pd ripensino le alleanze. Mario Lavia su L'Inkiesta il 23 Maggio 2022.
Un partito d’opposizione (Fratelli d’Italia) è d’accordo con la linea atlantista del governo, che è invece osteggiata da due partiti della maggioranza. È chiaro che riproporre scenari anni Novanta da Ulivo vs. Casa delle libertà non ha più senso.
Quali conseguenze avrà la posizione filoputiniana di Silvio Berlusconi? Premesso che nessuna forza politica, tantomeno Forza Italia, medita di far cadere il governo Draghi e di precipitarsi alle elezioni, c’è però da riflettere su almeno tre effetti che la scelta del Cavaliere, seppur corretta dallo staff e con affanno da lui stesso (secondo la detestabile tradizione di dire un giorno una cosa e il giorno dopo un’altra), può determinare.
Il primo effetto è, diciamo così, teorico ma comunque impressionante. Come ha calcolato un esperto giornalista parlamentare dell’Ansa, Giovanni Innamorati, dopo le parole napoletane di Silvio i “putiniani” hanno adesso la maggioranza alla Camera dei deputati: M5s 155 + Lega 132 + Fi 82, totale 369. Naturalmente si obietterà che la posizione di Giuseppe Conte non è esattamente coincidente con quella di Berlusconi e che dunque questi voti non sono sommabili; e tuttavia a questi numeri bisognerebbe anche aggiungere quelli dei tanti deputati “sciolti” o quelli di Alternativa (cioè ex grillini) e di Sinistra italiana, tutti su posizioni cosiddette “pacifiste”, quelle che vanno dall’auspicio di una resa di Volodymyr Zelensky (mentori Piero Sansonetti e con maggiore acrimonia Marco Travaglio) a quelli che nel nome della famosa “complessità” evocano la via tanto breve quanto imprecisata della “trattativa”.
Dunque non sta nascendo una nuova maggioranza: e però il dato fa scalpore perché basta osservare che tre mesi fa, quando il Parlamento votò quasi all’unanimità gli aiuti anche con le armi all’Ucraina, le cose non stavano come oggi. Berlusconi fiuta la stanchezza degli italiani per una situazione che non si sblocca ed è foriera di pesanti conseguenze economiche e da vecchio imprenditore (proprio come il nemico storico Carlo De Benedetti) non vede l’ora di chiudere la vicenda nel modo più cinico, con una sostanziale rapida sconfitta di Kiev. Le correzioni successive salvano la faccia ma non cambiano la sostanza del vero pensiero berlusconiano: «Io credo che l’Europa si debba mettere tutta unita a fare una proposta di pace cercando di far accogliere agli ucraini le domande di Putin». Inequivocabile, fate come dice il Cremlino.
Un secondo effetto della posizione filorussa di Berlusconi riguarda il centrodestra, che ora è in larga maggioranza (Lega-Forza Italia) ostile a Zelensky e, più sullo sfondo, agli Stati Uniti e quindi alla linea atlantista seguita da Mario Draghi ed Enrico Letta. E in questo centrodestra Giorgia Meloni si trova improvvisamente isolata, lei che pure è la più forte nei sondaggi.
Un paradosso nel paradosso: il partito d’opposizione in questo caso è d’accordo con il governo, i due partiti nella maggioranza sono contro il governo di cui fanno parte. È ormai perciò evidente e forse irreversibile la spaccatura, e non solo sulla guerra: Lega-Forza Italia da una parte, Fratelli d’Italia dall’altra. Come nei primi anni Duemila: il forzaleghismo teorizzato da Giulio Tremonti, sostanzialmente ostile al concetto di società aperta, contro la Alleanza nazionale di Gianfranco Fini, progressivamente emancipata dalle tradizionali caratteristiche della destra postfascista.
Oggi che non ci sono né i Tremonti né i Fini il livello si è di molto abbassato ma comunque nel centrodestra continua a vivere una contraddizione che presto o tardi andrà risolta. Anzi, più presto che tardi: in questo quadro, non converrebbe a Giorgia Meloni avviare una riflessione sul senso di un’alleanza esclusivamente di potere, senza politica, che può solo tarparle le ali? Non le tornerebbe utile contarsi nelle urne, invece di soggiacere alle mattane di Salvini e Berlusconi, svincolandosi da loro grazie al sistema proporzionale? È chiaro che lei ha paura delle ritorsioni che il Cavaliere e il Capitano potrebbero scatenarle contro ma è anche reale il rischio di trovarsi in seri problemi internazionali se non si autonomizzasse dai due “antiamericani”. Per come si stanno mettendo le cose, le converrebbe trarre le conseguenze del suo atlantismo, e metterlo per così dire a valore nel quadro delle alleanze del nostro Paese.
Infine, un terzo effetto riguarda Forza Italia. La sortita filorussa del Cavaliere con ogni probabilità è minoritaria nel suo partito. Lo sa anche lui, tanto è vero che ha dovuto correggerla. Dopo trent’anni solo l’eterna riverenza e il connesso timore di restare fuori dal giro della politica salva il Cavaliere da una contestazione di un certo peso che per ora trova in Mariastella Gelmini ma anche in Renato Brunetta («Bene fa chi chiede chiarezza») voci esplicite di dissenso – ma tutti sanno che anche Mara Carfagna e i più “giovani” hanno in testa tutt’altre idee che non la riproposizione della Forza Italia di 20 o 30 anni fa. Come al solito prevarranno silenzi e opportunismi ma stavolta il leader è apparso veramente più vecchio e più solo che mai.
La spaccatura del centrodestra è interessante non solo per politologi e commentatori ma anche per i suoi avversari. Un partito come il Pd dovrebbe prendere atto che i vecchi poli sono ormai sfarinati e invece di scommettere sulla riproposizione dello scenario da anni Novanta, Ulivo contro Casa delle libertà, dovrebbe cercare strade inesplorate e immaginare uno schema nuovo che liberi tutti dalla gabbia delle vecchie alleanze, comprendendo che non c’è più casa e non c’è più ulivo ma solo una landa abbastanza desolata su cui provare a ricostruire qualcosa di nuovo.
L'ex ad dell'Eni Vittorio Mincato: “Gli affari sul gas tra Berlusconi e Putin? Qualche dubbio ce l’ho”. Andrea Greco La Repubblica il 22 Maggio 2022.
Da '99 al 2005 è stato l'amministratore delegato dell'azienda: "La mia storia di manager è piena di episodi nei quali ho disturbato una certa politica affaristica".
Vittorio Mincato, lei è stato amministratore delegato all’Eni dal 1999 al 2005. L’appiattimento sulle forniture russe, che ha portato alla dipendenza dell’Italia, cominciò in quegli anni, anche se lei non è mai stato supino alla politica. L’Eni è responsabile? E i governi di allora?
"Prima di ricercare le responsabilità dell’Eni riguardo alla dipendenza dell’Italia dal gas russo, occorre farsi una domanda: quale altro Paese avrebbe potuto fornire all’Italia il gas necessario a sostenere il suo sviluppo economico negli ultimi quarant’anni? Le fonti di approvvigionamento dell’Italia sono sempre state plurime e fino all’anno scorso le più sicure e costanti sono state quelle russe.
Estratto dell'articolo di Andrea Greco per “la Repubblica” il 21 maggio 2022.
[…] La liaison con Mosca è stata l'architrave geopolitica dei quattro governi Berlusconi tra 2001 e 2011, cosparsi di numerose visite dell'imprenditore-politico.
Con ambasciatore o senza, con il consigliere Valentino Valentini (che, si mitizzava, «sapeva il russo ») o no. Sempre tra il Cremlino e la dacia, mischiando pubblico e privato da par suo. […]
Fin dagli anni '90 l'uomo del Biscione, nel guardare a Est, vedeva, più che i "comunisti", mercati promettenti […], in cui mandò in avanscoperta fidi emissari. Prima Marcello Dell'Utri, dirigente e consigliere della prima ora, e compaesano del potente Pietro Fallico, il reuccio dei banchieri italiani a Mosca.
Poi, già al governo, Bruno Mentasti, amico caro della sua famiglia, già socio in Telepiù (dove gli fece il prestanome) che aveva ceduto l'acqua San Pellegrino e cercava nuove imprese.
[…] Quando il 30 ottobre 2003 Vittorio Mincato - ad dell'Eni che non lasciava ai gruppi rivali neanche una goccia della merce russa - dopo una cena d'affari milanese ebbe dall'allora vicepresidente di Gazprom Komarov un biglietto con su scritto "Mentasti", trasecolò. […]
Il già socio di Berlusconi doveva intercettare 3 miliardi di metri cubi di gas di spettanza Eni e venderli in Italia. Era già costituita anche la holding Centrex, a Vienna con insieme a Mentasti vari soci schermati in società cipriote. [... ]
L'affare [...] fu stoppato. Non subito. Il nuovo ad Eni Paolo Scaroni [...], scelto nel 2005 dal Berlusconi III, s' era prestato a firmare l'intesa nonostante diverse critiche nell'ambiente e sulla stampa.
[…] Ma dopo i rilievi del cda Eni, e dell'antitrust, la fornitura fu riformulata (fine 2006), togliendo la senseria di Mentasti.
Scaroni è stato il manager che più ha piegato l'ex monopolista italiano alla politica filorussa di quegli anni. Ci sono varie testimonianze, anche se la più smaccata è forse quella che non si vede: il gasdotto South Stream. [...]
Un tubo da far passare sotto il Mar Nero, al costo di 15,5 miliardi, il doppio del rivale Nabucco azero, più gradito agli Usa. Ma l'Italia e l'Eni, fin dal 2007, avevano scelto: solo nel 2014, a lavori già iniziati, il progetto è naufragato, più per le pressioni Usa sulla Bulgaria dopo l'annessione russa della Crimea e le prime sanzioni a Mosca. Oggi quel tubo sarebbe una catena al collo in più per l'Italia.
Come emerso dai dispacci Wikileaks, parte della diplomazia Usa, ma anche della stampa italiana e degli operatori di settore, arrivò a pensare che l'assiduità di Berlusconi con Mosca celasse tornaconti personali. Si è vociferato di un piccolo giacimento in Kazakistan, intestato al Cavaliere. Lui ha smentito.
Estratto dell’articolo di Andrea Greco per “la Repubblica” il 22 maggio 2022.
Vittorio Mincato, lei è stato amministratore delegato all'Eni dal 1999 al 2005. […] Si è parlato tanto del rapporto tra Berlusconi e Putin. Lei che li ha visti da vicino, crede che la loro amicizia potessero contemplare interessi economici personali?
«Né Berlusconi, né Putin mi hanno mai parlato di loro affari personali e non ho mai avuto l'impressione che ci fossero, almeno per quanto atteneva l'Eni. Anche se l'operazione Mentasti, che rifiutai categoricamente di fare, qualche dubbio poteva suscitare».
Nella famosa cena al Westin Palace del 2003, quando le fu prospettato il contratto per lasciare 3 miliardi di metri cubi l'anno di gas russo a Mentasti, si dice che lei abbia detto 'Col c...gli do il gas a questo'. Perché i russi insistevano su di lui? Fu anche il governo italiano a insistere?
«In realtà, dopo la cena del 2003 e un paio di brevi colloqui con Mentasti nel mio ufficio all'Eur, non mi curai più di tanto di quella richiesta. Solo nei primi mesi del 2005, alla fine di qualche mio colloquio a Palazzo Chigi, in cui si era parlato d'altro, Berlusconi mi disse che Putin a quell'accordo teneva molto, ma non si parlava più di Mentasti, bensì della Gazprom».
Il memorandum tra Eni, Gazprom e Mentasti fu siglato il 10 maggio 2005 dal direttore generale dell'Eni Sgubini. Lei non lo firmò e Paolo Scaroni prese il suo posto all'Eni. Ci fu una correlazione tra la sua uscita e la sua contrarietà a quell'affare?
«Non vorrei ricordare male, ma il memorandum di Vienna non parlava di Mentasti. All'epoca i media misero i due fatti (le mie riserve sull'accordo e la mia sostituzione al vertice dell'Eni) in un rapporto di causa ed effetto.
Chissà, forse fu così o forse fu più in generale la naturale conseguenza della mia conclamata idiosincrasia nei confronti di certa "politica affaristica".
La mia storia all'Eni è piena di episodi in cui ho disturbato questa politica».
In quegli anni i russi cercavano di comprare attività estrattive e distributive di energia in Europa: un obiettivo strategico più per la geopolitica di Mosca che per le major come Eni. Lei ha mai avuto richieste in questo senso? Gliele fecero i russi o, anche, le istituzioni italiane?
«Soltanto verso la fine del mio mandato all'Eni, durante un colloquio con Alexey Miller a Sochi, sul Mar Nero, mi fu proposto di acquisire giacimenti petroliferi della Yukos in Russia, in cambio di giacimenti petroliferi dell'Eni in Occidente, ipotesi che scartai subito. Da nessuna istituzione italiana mi giunsero sollecitazioni in tal senso».
Asse Mosca-Berlino. “E’ amico di Putin”, il tiro al bersaglio a Schröder specchio dell’ipocrisia tedesca. Angela Nocioni su Il Riformista il 22 Maggio 2022.
Dio mio che ipocriti questi tedeschi. Tetragoni fuori, populisti dentro. Pronti a fustigare Schröder, l’amico di Putin, ora che Putin è diventato una frequentazione sconveniente. Eppure si tratta dello stesso Schröder che, grazie alle relazioni con quello stesso Putin, era fino a tre mesi fa dai tedeschi riverito e incensato come statista a causa delle convenientissime relazioni per la Germania che con Mosca sapeva tenere. Siccome non è disposto a fare pubblica abiura per quel putinismo discreto che faceva comodo a tutti, ora è diventato “il puzzone” Schröder. E nella civilissima Berlino, il governo del suo compagno di partito Olaf Scholz, di quella stessa Spd che dei buoni rapporti con Mosca ha sempre fatto uno degli architravi della sua politica estera, ha deciso di toglierli ufficio e scorta.
Schröder si è anche rifiutato di chiedere perdono per l’eccessiva dipendenza energetica della Germania da Mosca culminata nell’ideazione del gasdotto Nord Stream 2, da lui voluto e dal governo Spd-Verdi-Fdp, e bloccato dopo l’invasione russa dell’Ucraina. “Non faccio mea culpa, il mea culpa non è roba per me” ha detto Schröder. È stato punito per questo, per non aver voluto salvare la faccia ai tedeschi. Non solo per la riottosità mostrata fino a ieri, ad abbandonare il suoi ruolo nella giunta direttiva della società russa Rosneft, il cui maggior azionista è lo stato russo. Alla fine, ieri pomeriggio, sono arrivate le dimissioni. Insieme a quelle del vicepresidente del consiglio di amministrazione di Rosneft, Mathias Warnig, anche lui tedesco. Ipocriti i tedeschi e anche ingrati. Vi ricordate quando nel 1997 Bill Clinton, in una telefonata da preveggente a Tony Blair disse che l’euro sarebbe diventato “la prova del nove per Francia e Germania”? Fu l’Agenda 2020 di Gerhard Schröder, arrivato alla cancelleria tedesca nel 1998, a permettere alla Germania di superare quella prova del nove. Se lo devono essere dimenticati a Berlino.
Era passato meno di un mese dal trionfo del New Labour, sul Tamigi, il blairismo veleggiava vento in poppa per quel 43% ottenuto alle elezioni politiche del primo maggio, e Clinton si attaccò al telefono per spiegare a Blair che senza un patto sociale azzeccato (mercato del lavoro flessibile e una rete di protezione sociale per le fasce più deboli) i suoi vicini europei non avrebbero potuto cogliere tutti i frutti della moneta unica che allora era ancora in fieri ma già mostrava alcune crepe. “La Francia e la Germania dovranno bilanciare programmi sociali e nuova geografia globale” diceva Clinton – la trascrizione è stata poi pubblicata dalla Clinton Library – ridurre lo Stato e modernizzarsi perché senza cambiamento strutturale non decolleranno. La Germania ce la fece, ce la fece senza seguire la via suggerita da Clinton. Fu grazie a Schröder che arrivò al governo l’anno dopo. In quell’ottica egoistica berlinocentrica – di cui noi italiani, a ragione, ci siamo lamentati spesso, ma i tedeschi mai – Schröder seppe fare dell’euro un affare economicamente assai redditizio per il suo Paese e seppe anche ricostruire con maestria, sopra l’antica rivalità con Parigi, un potente tandem francotedesco.
A un ex governante riconosciuto fino all’altro ieri come padre della patria e precipitosamente messo in un angolo, Berlino taglia ora uffici e altri benefici, garantiti a tutti gli ex cancellieri, e si premura di farlo fingendo che si tratti di una questione di efficienza. Non svolge più mansioni, dicono, non gli serve un ufficio e un personale che costano 400 mila euro all’anno. Temono di dire che lo fanno a causa delle sue opinioni politiche così da non incappare in un rischio di violazione di diritto costituzionalmente tutelato. Non vogliono finire in tribunale. Una manovrina un po’ penosa in un momento tragico della storia d’Europa. Oltretutto le buone relazioni con Mosca sono cultura propria della intera Spd, non sono presentabili come conseguenza degli interessi economici personali e delle private pulsioni di Schröder.
La Spd ha sempre misurato con dolcezza le parole rivolte a Mosca. Sia perché non ha mai voluto troppo cedere alla concorrenza a sinistra della Linke, sia perché intelligentemente ha sempre concepito la sua politica estera come capacità di dialogo e trattativa. Ha sempre raccomandato di ridurre e limitare le tensioni attraverso negoziati e compromessi. In Germania il concetto è stato anche teorizzato: provocare il cambio attraverso l’avvicinamento. C’è pure un modo per dirlo: Wandel durch Annäherung. L’ipocrisia oltretutto non è solo della Germania, è dell’Europa intera. Non si capisce poi perché se un ex capo di governo tedesco flirta con Mosca è uno scandalo, e se invece un capo di governo israeliano in carica mantiene con Putin un rapporto ambiguissimo (che gli permette di bombardare gli hezbollah in Siria) non importa.
Nessuno ha rimproverato al premier Naftali Bennett di non sbracciarsi troppo nel coro internazionale contro Putin. È utile che Bennett non l’abbia fatto. È necessario avere a disposizione degli attori internazionali che Putin non giudichi troppo ostili se si vorrà prima o poi andare a trattare con Putin affinché la guerra finisca.
Ma perché allora scandalizzarsi per Schröder? Né Bennet, né i precedenti governi d’Israele hanno mai nascosto l’opportunismo verso Mosca. La Russia di Putin ha avuto le mani libere per giocare una partita molto ambiziosa mai riuscita né all’impero zarista né all’Unione Sovietica: diventare egemone in una regione sterminata che va dal Mediterraneo all’Oceano indiano attraverso il Mar rosso e il Golfo Persico, quelli che i politici zaristi chiamavano “i mari caldi”. Israele non poteva permettersi il lusso di contrastare le ambizioni della Russia, gli conveniva tenersela buona per avere a sua volta mani libere nel contrastare la minacciosità iraniana e ha serenamente lasciato che Putin si giocasse il suo tentativo di stabilire una serie di tutele e relazioni preferenziali in Medio oriente, ha lasciato che avvenisse nella regione un “fuori gli Stati uniti dentro la Russia” perché aveva interesse per la sua sopravvivenza come potenza a farlo. Qualcuno gliel’ha forse rimproverato?
Inside Berlino. Il caso Schröder è lo specchio della Germania filo-russa. Luigi Daniele L'Inkiesta il 21 maggio 2022.
Il Bundestag tedesco ha revocato parte dei diritti di cui l’ex cancelliere beneficia in quanto ex capo del governo, con una regola che permette di sanzionare gli ex membri dell’esecutivo che arrechino danni alla reputazione della Repubblica Federale Tedesca: un modo per sanzionare le sue operazioni da lobbista in contatto con Vladimir Putin anche durante la guerra contro l’Ucraina.
Durante una conferenza stampa a L’Aia tenutasi giovedì, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha risposto a una domanda in merito all’eventualità di intervenire sugli asset di Gerhard Schröder, ex Cancelliere legato alla Russia, sostenendo che non siano necessarie per il momento simili misure, e affermando come la cosa migliore sarebbe che si dimettesse lui stesso dagli incarichi che ricopre.
La domanda nasce da una recente risoluzione del Parlamento Europeo in cui si chiede di sanzionare alcune figure europee che ricoprono incarichi per aziende russe, come appunto l’ex cancelliere socialdemocratico, che è nel consiglio di amministrazione della compagnia petrolifera Rosneft, controllata dal Cremlino, e presiede il consiglio di amministrazione di Gazprom, il consorzio russo del gas.
Le parole di Scholz erano sembrate destinate a cadere nel vuoto, dal momento che simili richieste vanno avanti da mesi, ma venerdì Schröder ha effettivamente annunciato di voler lasciare ogni incarico presso Rosneft. Si tratta di una novità rilevante: da tempo l’ex cancelliere era al centro di numerose polemiche in patria e in Europa a causa non solo del suo ruolo nelle compagnie russe, ma anche della sua reticenza nel condannare Mosca per l’aggressione.
Da quando è iniziata l’invasione, Schröder è finito a incarnare tutta la complessità dei rapporti tra Germania e Russia, sommando su di sé le ambiguità e le contraddizioni di decenni di politica estera tedesca. Fin dagli anni Settanta, infatti, la Ostpolitik ha visto nella creazione di rapporti economici tra Mosca e Berlino un modo per evitare conflitti, nella convinzione che gli scambi avrebbero reso poco conveniente a entrambe le parti una eventuale escalation militare.
Un disegno portato avanti, nei decenni, tanto dai governi a guida Spd che Cdu. Sebbene la Ostpolitik nasca con il governo di Willy Brandt, è proprio Gerhard Schröder ad aver svolto un ruolo centrale in questo processo: durante la sua Cancelleria, dal 1998 al 2005, i rapporti con la Russia (e la dipendenza energetica di Berlino) si sono stretti particolarmente. In quegli anni, ad esempio, si è avviato il progetto Nord Stream, il gasdotto che sarà poi raddoppiato da Nord Stream 2 durante gli anni di Angela Merkel, finendo bloccato da Scholz, a opera ormai completata, come sanzione verso la Russia dopo l’invasione.
Negli anni da Cancelliere, Schröder ha sviluppato un buon rapporto personale con Putin, finendo ad accettare da questi un’offerta di lavoro per la società che gestisce Nord Stream, pochissimo tempo dopo la fine del mandato di governo.
Nel tempo, però, sono cresciute le perplessità verso il progetto e l’aumento d’influenza russa che questo comportava, sommandosi alle critiche verso la figura dell’ex Cancelliere, rinforzatesi anche negli anni di Merkel a seguito dell’approvazione di Nord Stream 2.
Quando la Russia ha invaso l’Ucraina, i nodi sono venuti al pettine: in Germania, a quel punto, è iniziato un bilancio dell’eredità della Ostpolitik. L’ex Cancelliere è stato indicato da più parti come l’espressione più pura dei legami controversi con la Russia alimentati dalla Germania; molti esponenti e militanti della SPD si sono espressi per la sua espulsione dal partito, mentre cresceva la pressione perché rompesse ogni legame con Mosca.
Qualche giorno fa, il Bundestag ha revocato parte dei diritti di cui Schröder gode in quanto ex capo del governo, applicando una regola che permette di sanzionare gli ex membri dell’esecutivo che arrechino danni alla reputazione della Repubblica Federale Tedesca agendo per gli interessi di uno Stato straniero.
Non solo, però, l’ex Cancelliere (fino a venerdì) ha rifiutato di abbandonare ogni suo ruolo, ma spesso si è anche lasciato andare a dichiarazioni in linea con la narrativa del Cremlino sulla guerra in Ucraina: in una recente intervista al New York Times, ad esempio, si è detto contro la guerra sostenendo che bisogna «creare pace il più velocemente possibile», senza però distanziarsi da Putin. Interrogato sui crimini di guerra a Bucha, ha affermato come tutto sia da accertare, e anche parlando del caso Navalny ha mostrato di non essere convinto che l’avvelenamento sia responsabilità del Cremlino.
Nel corso dell’intervista, Schröder ha poi sostenuto di essere convinto che per la Germania il dialogo con la Russia sarà fondamentale dopo il conflitto, e che «nel lungo termine non si può isolare un Paese come la Russia né economicamente né politicamente», forse con l’intenzione di suggerire che il suo ruolo va visto anche in quest’ottica: ad esempio ha dichiarato di «fare gli interessi tedeschi» e di essere contento che «almeno una delle parti si fidi» di lui, riferendosi alla stima di cui gode presso il Cremlino. Nelle settimane seguenti l’invasione, ad esempio, si è recato a Mosca per provare, secondo quanto dichiarato, a cercare una via per la pace, evidentemente senza risultato.
In effetti, la figura di Schröder, così come il rifiuto testardo di condannare Putin e di recidere ogni legame con le società russe, va contestualizzata anche su un piano più culturale. I decenni di Ostpolitik hanno lasciato un’impronta profonda sul modo in cui molte persone, in Germania, specialmente nella politica, vedono i rapporti con la Russia.
Nel 2020, ad esempio, i Länder orientali si opposero al blocco di Nord Stream 2 anche per non guastare i rapporti con Mosca, mentre recentemente il governo tedesco non ha sciolto le riserve sulle sanzioni alla Russia fino all’ultimo momento utile, cioè fino all’invasione dell’Ucraina. Il piano puramente economico e geopolitico, per quanto rilevante, si accompagna a un piano più psicologico. Molti tedeschi, ad esempio, considerano i rapporti con la Russia identitari per la Germania del dopoguerra, vedendo nell’invasione del Paese ad opera della Germania nazista, e nei 27 milioni di morti da essa causati, un crimine storico che in qualche modo la Ostpolitik si proponeva di ripagare.
Anche su questo aspetto, la figura di Schröder è paradigmatica. Nato nel 1944, non ha mai conosciuto il padre, morto sei mesi dopo la sua nascita combattendo per i nazisti proprio sul fronte orientale. Da giovane militante socialdemocratico, Schröder è stato tra coloro che hanno criticato molto la reticenza a parlare dei crimini del nazismo della generazione precedente, ed è stato molto attratto da Brandt e dall’inizio della Ostpolitik. Lui stesso ha dichiarato che quella fase ha influenzato profondamente la sua visione della Russia, influendo anche anni dopo, quando è diventato Cancelliere e quando ha adottato due bambine russe, in due diversi matrimoni.
Nelle ultime settimane, la Germania sta rendendosi più indipendente da Mosca sul piano energetico: ha diminuito le importazioni di gas dal 55% al 35%, ridotto quasi del tutto quelle di carbone e più che dimezzato quelle di petrolio. Ma al di là della dipendenza economica, il dialogo tra i Paesi ha svolto (e probabilmente svolgerà anche dopo il conflitto) un ruolo identitario nella storia recente tedesca. Una storia che in Gerhard Schröder ha trovato la sua personificazione più autentica, più contraddittoria e più fedele allo spirito della Germania del dopoguerra.
Estratto di “Ribelli d’Europa”, di Alberto Simoni (Paesi edizioni), pubblicato da “La Stampa” il 21 giugno 2022.
Questo libro è nato il giorno in cui ho deciso che avrei intervistato Viktor Orbán. Ho cominciato a studiare il personaggio, a immergermi nella storia dell'Ungheria, a sfogliare riviste, a consultare libri, a contattare esperti, reduci del 1989, vecchi amici e nuovi avversari, politici, diplomatici, analisti; sono andato tante volte a Budapest dove in realtà ho finito per essere più attratto dal gulasch di un ristorante sulla collina di Buda che dalla ricerca. Ma tant' è. Anche lo stinco polacco ha avuto quasi la stessa forza attrattiva nelle varie tappe in quella bellissima terra.
Volevo capire se l'idea di Europa del premier magiaro, un radicale anti-comunista negli anni Novanta diventato poi un picconatore dei valori della liberal-democrazia, fosse espressione di un pensiero diffuso nel Paese, o più semplicemente un escamotage per far credere a una nazione di poco meno di dieci milioni di anime di poter tener testa ai grandi dell'Unione europea.
Quasi un anno dopo la nascita di questa folle idea, stringevo la mano a Viktor Orbán nella Biblioteca dei Carmelitani nel palazzo del governo a Budapest. Chiacchierammo quasi quattro ore, lui bevve solo tè. La prima mezz' ora la spendemmo a disquisire di calcio fra gli sguardi esterrefatti dei suoi consiglieri. Ricordammo una finale di Coppa Uefa del 1985 in cui una squadra ungherese, il Videoton, sfidò il Real Madrid. Mi chiese com' era Ronaldo alla Juve.
Lui parlò del Milan di Capello e della scuola calcio intitolata a Ferenc Puskás: quello sì un ungherese che non creava divisioni a differenza di Orbán. Rise quando glielo feci notare. Rise di più alle domande su George Soros - «il mio argomento preferito» -, che «l'orbanismo» identifica nel nemico per antonomasia.
Quasi due ore di quella conversazione sono condensate in un'intervista uscita su La Stampa nel 2019. Il resto è sparso nella mia memoria e in 35 mila battute su un file di Word salvato in più modalità. Ero talmente curioso di entrare nella testa di Orbán, che quando concordammo i temi di cui parlare, quasi dimenticai la stretta attualità politica. Volevo sapere quale autore l'aveva influenzato di più, cosa gli restava dell'esperienza a Oxford, quanto la storia della sua nazione pesava sulle sue scelte politiche, perché litigava con gli ucraini e apriva le porte ai soldi cinesi e russi.
Le risposte sono alcuni degli ingredienti alla base di questo libro: è un viaggio alle radici della democrazia illiberale e di come la demolizione delle categorie della liberal-democrazia ha consentito la creazione di un sistema ideologico alternativo in Polonia e Ungheria. È il racconto del passaggio dall'illusione democratica di Václav Havel all'esplosione del nazionalismo sino al rischio che la guerra in Ucraina faccia implodere il piano.
Orbán è stato la chiave che ha permesso di forzare alcune serrature e che ha aumentato la mia curiosità su quella parte di mondo uscito dalla Guerra Fredda con l'etichetta di Visegrád e diventato una sorta di «Signor No» dinanzi a svariate richieste di cooperazione con la Ue, sia sul bilancio comunitario e il Recovery Fund, sia soprattutto sulla ripartizione delle quote di profughi.
Queste pagine sono attraversate da una domanda, semplice nella formulazione, difficile nella risposta. Cosa pensano e vogliono i «ribelli d'Europa»? È impossibile rispondere senza immergersi nella «Europa degli altri», scandagliandone la storia, i costumi, il rapporto con la religione, l'uscita da decenni di dominio sovietico.
Se Orbán è una faccia della medaglia, l'altra è Kaczynski, il polacco ultraconservatore che da oltre vent' anni detta i tempi della politica di Varsavia. Dall'opposizione o dal governo. Accomunati dalla critica del liberalismo, sono divisi dal rapporto con Mosca. Trattano la storia come se fosse una materia da piegare all'attualità e ne esaltano la forza; considerano la religione intrecciata nell'identità nazionale e in questo sono entrambi ostili all'Unione europea post nazionale e post cristiana. Ed entrambi rifiutano gli immigrati. «Il migrante migliore è quello che non viene», dice Orbán.
Visegrád non ha mai goduto di tanta notorietà come negli ultimi anni. L'abbiamo trattato come un monolite, compatto, duro, solido attorno alla propria visione. Non è propriamente così. Vi sono anime diverse, spinte centrifughe e anche le relazioni all'interno di questo gruppo sono modulate e influenzate da chi governa in un perenne alternarsi fra ideologia e pragmatismo. La compattezza sull'immigrazione fa così il paio con la rottura sulla guerra in Ucraina. Resisteranno i V4 (i quattro del gruppo di Visegrád: Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria) alle differenze di vedute su Putin?
Basterà - quando avverrà - l'uscita di scena di Orbán o Kaczyski per spingere la Mitteleuropa ad abbracciare totalmente l'ovest e il suo impianto valoriale? Non moriremo, dicono gli intransigenti a Budapest, sulle rive della Senna. Non c'è una riposta definitiva.
Il primo a dubitare delle ricette dell'Europa fu Václav Klaus, presidente del più euroscettico Paese dei Ventisette: la Repubblica Ceca.
Waesa ha abbattuto un muro ma ne ha creato un altro. «I gay - disse nel 2013 - in Parlamento sono una minoranza che non mi piace, dovrebbero avere posto nell'ultima fila». Tutto porta all'interrogativo su quanto Visegrád oggi sia il prodotto di Orbán e Kaczyski, o la manifestazione di un sentimento identitario e nazionalista più diffuso.
Verità scolpite nella pietra non ce ne sono.
Negli ultimi vent' anni l'Europa ha visto l'allargamento del 2004, la crisi finanziaria, il tracollo della Grecia, il terrorismo a Parigi, Londra, Bruxelles, Madrid, Vienna, Nizza, Strasburgo; e ancora l'insorgenza dei nazionalismi, l'addio del Regno Unito, la crisi dei migranti, una bozza di debito comune Ue per rispondere al Covid e l'invasione russa dell'Ucraina.
Altre crisi arriveranno e così nuove risposte. Che ogni Paese declinerà con le sue priorità e visioni. E in queste pagine - senza indugiare nei dettagli della cronaca, che sarebbe stato impossibile riassumere - ho provato ad andare alla scoperta delle categorie che rappresentano l'essenza della Mitteleuropa. Per comprendere l'Europa degli altri. Senza entusiasmi, senza pregiudizi.
La guerra in Ucraina segna la fine del Gruppo di Visegrad? Andrea Muratore su Inside Over il 21 maggio 2022.
Il quartetto di Visegrad esiste ormai solo sulla carta come strumento di pressione politica all’interno dell’Unione Europea. Lo scoppio del conflitto in Ucraina, le manovre di Bruxelles e della Nato al confine orientale e contro la Russia, l’ascesa di nuovi punti di riferimento regionali e le differenze tra i leader di Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria hanno di fatto contribuito a cambiare le carte in tavola.
La guerra che spacca Visegrad
La guerra torna in Europa e si relativizza lo scontro tra i governi sovranisti dell’Est e Bruxelles; si rinnova il riflesso atlantico di Paesi come Polonia e Slovacchia e come nel 2003 con l’Iraq è l’Europa orientale a sostenere maggiormente l’asse Usa-Regno Unito nel rafforzamento e nell’implementazione della stratregia della Nato.
Ciò fa venire però a galla le grandi divergenze tra i vari Paesi: Stati come la Polonia sono, assieme ai tre baltici e alla Romania, bastioni atlantici a Est; l’Ungheria di Viktor Orban si dichiara contraria all’escalation; la Repubblica Ceca non raggiunge i livelli di furore bellicista di Varsavia ma, ricorda l’Huffington Post, “ha lanciato una nuova campagna” di difesa del Paese con un sito apposito (branmecesko.cz) avente “l’obiettivo di contrastare la diffusione della propaganda russa: sul sito vengono analizzate le sei più accreditate “menzogne” diffuse dal Cremlino e si invitano i cittadini a un uso consapevole dei social media. Nell’elenco delle associazioni impegnate nella lotta alla propaganda, oltre al “Centro contro il terrorismo e le minacce ibride”, struttura del ministero degli interni, ne vengono elencate ben sedici non governative”. La Slovacchia, infine, ha approfittato della campagna di invio armi a Kiev per mandare le sue batterie S-300 all’Ucraina con l’obiettivo di ricevere in cambio efficaci missili americani.
A far scalpore è soprattutto la frattura tra Polonia e Ungheria. La quale appare un vero e proprio bivio per la “Nuova Europa” di Visegrad, a lungo egemonizzata dai governi sovranisti. Le traiettorie di Budapest e Varsavia hanno, a partire dall’Ucraina, preso direzioni divergenti.
La frattura tra Polonia e Ungheria
Varsavia vuole a tutti i costi la sconfitta militare di Vladimir Putin in Ucraina, Budapest invece punta alla distensione. La Polonia dei catto-conservastori di Diritto e Giustizia non solo è allineata all’asse Washington-Londra, ma è riuscita addirittura a trasmettergli parte del suo furor bellicista. Viktor Orban e Fidesz, invece, hanno vinto a valanga le elezioni di aprile puntando sull’obiettivo di tenere l’Ungheria fuori dal conflitto. La Polonia è stata colpita dallo stop delle forniture di gas russo da diverse settimane, l’Ungheria è invece pronta a pagare le forniture in rubli. Il vicepremier e regista della politica polacca Jarosalw Kaczynski ha, assieme al primo ministro Mateusz Morawiecki, organizzato visite a Kiev per incontrare Volodymyr Zelensky, mentre Orban ha rivangato al governo ucraino la legge che imponeva l’insegnamento della lingua ucraina su tutto il territorio nazionale e la sospensione di quello degli idiomi delle minoranze etniche nelle scuole secondarie, ritenuta pregiudizievole per i 150mila magiari della Transcarpazia. Joe Biden ha scelto Varsavia per affondare duramente su Vladimir Putin, l’Ungheria invece su gas e sanzioni ha cercato una sotterranea sponda europea con la Germania. Ciononostante, Bruxelles sembra più pronta a rivalutare Varsavia, pensando addirittura a scorciatoie sulle procedure di infrazione, mentre a Budapest viene rinfacciato il suo ostruzionismo.
Parlare di Polonia e Ungheria oggi significa parlare di mondi separati e che non si direbbe in grado di riconquistare le affinità elettive che a lungo le hanno unite. L’accelerato ritorno della storia in Europa ha reso l’Est nuovamente faglia, trincea, limes. Ha diviso il richiamo europeo da quello atlantico e soprattutto risvegliato nei popoli richiami atavici. In Polonia, così come a Praga, la Russia è identificata come una minaccia profonda, nella narrazione di Orban invece i fatti del 1956 e la Rivoluzione ungherese non sono decisivi per una pedagogia nazionale fondata, piuttosto, sul conflitto valoriale e identitario. La guerra russa in Ucraina è uno spartiacque per la relazione tra due Paesi capaci negli ultimi anni di conquistare posizioni di forza e influenza aggregando attorno al loro asse i Paesi di Visegrad e sviluppando la narrazione di una terza Europa dopo quella carolingia e quella mediterranea. Il dettame geopolitico, però, chiama le due nazioni a diverse strategie. C’è di mezzo il rapporto con la Russia, ma anche quello con Washington e il Paese chiave d’Europa, la Germania. E così la Polonia punta sugli Stati Uniti come partner imprescindibile, mentre il conservatore Orban fa asse con il tedesco socialdemocratico Scholz contro l’embargo energetico alla Russia. La Polonia vuole spezzare ogni possibilità di ricomposizione della GeRussia, l’Ungheria sogna (ma non ammette esplicitamente) salvarne le fondamenta.
Senza il motore Budapest-Varsavia, Visegrad è zoppo: e questo lo si era notato già prima della guerra. Fonte di un “tana libera tutti” che è partito dai Paesi più distanti dal duo simbolico dell’Est, Repubblica Ceca e Slovacchia.
Una cooperazione indebolita
Fino allo scoppio della guerra rotture simili consumatesi alla luce del solo erano però impensabili. Ma dall’elezione del leader del partito europeista ceco Ods, Petr Fiala, insediatosi a dicembre come premier a Praga, una divisone particolare in Visegrad covava sotto le ceneri. In Repubblica Ceca Orbán aveva sponsorizzato l’ex premier Andrej Babiš, mentre la Slovacchia del premier moderato Eduard Heger aveva trovato sponda nell’elezione di Fiala.
A dividere i Paesi di Visegrad erano gli approcci sulla campagna energetica riguardante il gas russo, il futuro dei fondi strutturali del Recovery e soprattutto la questione sullo Stato di diritto, culminata nella decisione della Corte costituzionale polacca secondo la quale il diritto nazionale sarebbe preordinato a quello comunitario. E in generale Polonia e Ungheria avevano nel corso degli anni promosso importanti riforme della giustizia, del diritto in materia di libertà individuali, dell’informazione e dei diritti delle minoranze che secondo Bruxelles contrastavano i princìpi dello stato di diritto su cui si fonda l’Unione. Praga e Bratislava hanno condannato, pur senza troppa enfasi, le mosse degli alleati.
La guerra in Ucraina ha offerto alla Polonia il gancio per “redimere” queste colpe a prezzo di un sacrificio importante come quello della relazione speciale con l’Ungheria. Vista ormai come sovrastruttura senza contenuto in un quadro geopolitico mutato. Perché Visegrad non è più frontiera, le narrazioni sull’Europa sono cambiate e, soprattutto, è ritornato il peso del vincolo atlantico. Mentre in prospettiva con l’allargamento dell’Alleanza e dell’Ue i confini dei due gruppi si sposteranno sul altri fronti. Il conflitto sancisce ciò che era atteso da tempo: lo squagliamento del principale gruppo di pressione esteuropeo. Ma ciò avviene con fragore e alla luce del sole, non per “morte naturale”. Sbaglia chi, da europeista convinto, ritiene che questo possa giocare a favore dell’integrazione comunitaria. Una conflittualità politica a Est e la perdita di un gruppo coeso ma a suo modo prevedibile nelle mosse come Visegrad, la spaccatura con l’Ungheria spinta sempre più all’irrigidimento e le conseguenze imprevedibili sul piano del sostegno all’Ucraina e dei rapporti con la Russia sfilacciano ulteriormente l’Unione. E chi ride è Washington, vincitrice del divide et impera europeo che ha a Est bastioni fedeli più agli Usa che a Bruxelles, con in testa una Polonia capace di diventare negli anni la vera antemurale alla Russia.
Benvenuti in Bieloitalia. Come siamo diventati il paese dell’operazione speciale televisiva di Putin. Christian Rocca su L'Inkiesta il 17 Maggio 2022.
Palazzo Chigi e il Quirinale sono solidamente atlantici, ma con il predecessore di Draghi e con le manovre sul dopo Mattarella abbiamo rischiato di avere anche le principali istituzioni repubblicane vicine al Cremlino, come già lo sono alcuni partiti, quasi tutte le trasmissioni televisive, i giornali del bipopulismo e le chiacchiere da bar. Le ragioni sono tre: l’antiamericanismo illiberale, la rincorsa allo share e un cinismo irresponsabile, oltre a un numero rilevante di imbecilli, utili idioti e picchiatelli
C’è da chiedersi perché l’Italia sia diventata una specie di Bieloitalia, una Bielorussia nel cuore dell’Occidente, una provincia di ogni grottesca fregnaccia del Cremlino, più e oltre gli anni in cui un terzo del nostro paese si sentiva vicino all’Unione Sovietica mentre l’apparato politico e intellettuale del Partito comunista prendeva ordini da Mosca.
Allora, però, fare da megafono alla propaganda comunista aveva un senso, per quanto questo senso fosse contrario agli interessi nazionali e civili dell’Italia.
Allora c’era un’ideologia, c’era una visione del mondo, c’era l’illusione di costruire l’uomo nuovo, altre fregnacce criminali e criminogene come quelle di adesso ma che avevano centinaia di milioni di seguaci in tutto il mondo e rispondevano a una divisione del pianeta in blocchi contrapposti.
Non solo, allora c’era anche un minimo di autonomia locale con l’eurocomunismo, altra illusione ai tempi definita da Claudio Martelli «neurocomunismo» ma che perlomeno provava a prendere le distanze dalle atrocità più evidenti commesse da Mosca.
In Bieloitalia, invece, c’è un appiattimento alle ragioni dell’imperialismo russo che altrove fa allontanare da Mosca tutti i paesi dell’ex Patto di Varsavia, i quali senza eccezioni cercano rifugio sotto l’ombrello della Nato o dell’Europa.
Oggi la Russia non ha nessuna capacità attrattiva, né culturale né economica, con una società chiusa, un prodotto interno lordo inferiore a quello dell’Italia nonostante le ingenti riserve energetiche e una povertà diffusa da paese sottosviluppato. Per questo il cerimonioso inchino bieloitaliano alle bugie del Cremlino risulta ancora più stravagante.
La Russia, inoltre, non è nemmeno una potenza militare come si è visto in Ucraina, da dove è stata respinta con una facilità estrema.
Putin non ha un’ideologia alternativa a quella dello stato di diritto e della società aperta occidentali da offrire ai suoi ammiratori europei, fatti salvi gli eventuali kompromat (i dossier compromettenti), se non quella revanscista russa che ovviamente non può che interessare soltanto i russi e nemmeno gli ucraini russofoni.
E, dunque, la domanda è perché l’Italia sia diventata la Bieloitalia. Ovviamente non lo è a livello di leadership istituzionale nei posti che contano, dal Quirinale a Palazzo Chigi, dove invece è saldamente atlantica, ma non possiamo dimenticare quanto abbiamo rischiato col predecessore di Mario Draghi che ha tentato in tutti i modi di restare al governo col famigerato Trisconte e che ancora oggi ogni giorno prova a sabotare, proprio sulla linea del Cremlino e contro la legittima difesa ucraina, le attività del governo. Abbiamo rischiato anche con le manovre della destra sulla Presidenza della Repubblica, con almeno una candidatura apertamente vicina al Cremlino offerta da Salvini a Conte.
La Bieloitalia si vede in televisione e si sente nelle chiacchiere da bar che in fondo sono alla stessa cosa, oltre che esprimersi col pensiero unico dell’opinionista bipopulista.
Domenica sera, su La7, uno dei facilitatori del putinismo opinionistico nostrano ha chiesto all’ennesimo brutto ceffo del Cremlino in collegamento da Mosca se fosse vera l’accusa di Rula Jebreal secondo cui i propagandisti russi vengono invitati solo dalle televisioni italiane o se, invece, costoro popolassero anche i salotti televisivi in Francia, in Spagna, in Germania.
La risposta del russo è stata «solo in Italia», una favolosa conferma dell’esattezza delle parole di Rula Jebreal e un formidabile sigillo sull’operazione speciale televisiva orchestrata dalla Bieloitalia per diffondere falsità a reti unificate.
Solo noi, inoltre, ospitiamo di martedì un’altra sgherra di Putin a ripetere le falsità del Cremlino in nome del pluralismo per poi scoprire di domenica che la gentile ospite ha invitato Mosca a lanciare missili su Torino in segno di rappresaglia per la vittoria ucraina all’Eurofestival.
Siamo il paese in cui due dei tre principali partiti politici venerano il principe delle fake news Donald Trump e uno dei due ha appena invitato alla conferenza programmatica Rudy Giuliani, l’intrallazzatore dell’ex Cialtrone in chief nonché protagonista di affari fetidi per conto di Trump al fine di sabotare le elezioni a Washington e di infangare il figlio di Joe Biden in Ucraina.
Giuliani è anche il titolare della frase simbolo di questi tempi impazziti: «Truth isn’t truth», la verità non è verità, un concetto che va oltre la post verità, oltre le fake news, oltre le verità alternative, oltre oltrissimo tutto, eppure ben radicata a Mosca.
Siamo anche il paese dove il primo partito dell’attuale Parlamento, i Cinquestelle, si è presentato al voto del 2018 con un programma di politica estera ispirato dalle missioni russe di Manlio Di Stefano e di Alessandro Di Battista contro l’Europa, contro la Nato e contro l’Ucraina e che una volta al potere ha governato da lacchè del Cremlino in particolare sulle politiche energetiche, oltre ad aver consentito quella sfilata militare russa in Val Brembana che all’armata rossa non è riuscita nemmeno in Donbas.
In quel momento, all’opposizione c’era un partito che aveva siglato un accordo politico con Russia Unita e che invocava l’adozione del vaccino Sputnik di produzione russa, senza alcuna autorizzazione delle agenzie del farmaco, mentre lisciava il pelo ai novax sostenuti dal Cremlino.
Siamo il paese delle stupefacenti trasmissioni filorusse di Mediaset e della Rai, dove Alexander Dugin e le bugie del Cremlino via corrispondente a Mosca sono di casa. Siamo il paese del palinsesto in cirillico di La7 di Urbano Cairo, il quale al Foglio ha detto che in fondo gli italiani non sono così scemi da credere alle panzane diffuse da certi personaggi da operetta ospitati dalle sue trasmissioni.
E allora ci si chiede se Cairo ci sia o ci faccia, perché se sa che ogni sera i suoi talk show raccontano fregnacce, se sa che ospitano amici di Putin sia di nazionalità russa sia bieloitaliana, se sa anche che si tratta di figure ininfluenti in quanto grottesche, perché mai continua a dare spazio alla più bieca propaganda del Cremlino? (A Cairo, però, va riconosciuto che il suo Corriere della Sera è il più atlantista di sempre).
Ci sono varie ragioni, dunque, per cui siamo la Bieloitalia e da colonia di Mosca diamo il benvenuto agli apologeti di Putin.
I partiti populisti condividono con Putin la passione per i governi autoritari e la sfiducia nella democrazia liberale e da anni si impegnano attivamente per indebolire le comunità internazionali, le istituzioni repubblicane e le tradizionali famiglie politiche europee, con assidue campagne contro l’Unione europea, contro l’Alleanza atlantica e contro la democrazia rappresentativa.
I responsabili delle trasmissioni televisive si prestano alla propaganda russa per tre ragioni, spesso sovrapponibili: la scusa della complessità è l’ultimo rifugio dei reduci dell’anticapitalismo, dell’antiamericanismo e del terzomondismo che dalla caduta del Muro di Berlino cercano ogni volta nuovi appigli, sempre più surreali, per combattere la società aperta e la libera circolazione delle persone, delle merci e dei capitali costruita dal Dopoguerra in poi; un ruolo ce l’ha, ovviamente, anche la convinzione di poter rosicchiare qualche punto di share ai concorrenti di fascia oraria, sparandola ogni volta più grossa della precedente; la terza ragione è il cinismo e l’irresponsabilità di molti dei protagonisti televisivi, alcuni disposti a tutto pur di emergere come influencer e altri decisi soltanto a segnare punti da giocare esclusivamente nella partita politica nazionale.
Per fare questo, tutti si servono di imbecilli patentati, di utili idioti e di picchiatelli di vario ordine e grado. Infine ci potrebbe essere anche qualcuno con rapporti decisamente più stretti con gli apparati di una potenza straniera, cosa che, come ha già scritto Francesco Cundari, sarebbe quasi rassicurante.
Il dramma, invece, è che fanno gratis i volenterosi complici di Putin. Benvenuti in Bieloitalia.
The Putin Show. Il finto pacifista si sveglia ogni mattina rassicurato dai media della Bieloitalia. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.
Ora che sono passati tre mesi dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, il militante anti Usa non ha bisogno di urlare quanto Zelensky sia nazista, perché i talk show ci tengono a mostrare sempre le ragioni del Cremlino. Anche quando bombarda un centro commerciale pieno di civili
Riprendiamo il diario pacifista a quasi tre mesi da quella sera in cui il nostro eroe chiudeva la propria giornata di impegno militante spiegando alla figlia che i bambini ucraini sono dei fondamentalisti, perché non capiscono che in dittatura si può vivere felici. Il protocollo orario della lotta non è cambiato, ma l’esperienza acquisita durante lo sviluppo delle operazioni speciali ha apportato alla resistenza pacifista armamenti di maggiorata efficacia. Vediamolo.
Ore 7,00: il Pacifista si sveglia ben riposato. Non ha dovuto, come invece gli toccava agli esordi della campagna di denazificazione, star su fino a tardi per sorvegliare il regime dell’informazione che concedeva al pacifista comunista sindacalista collaborazionista solo il settanta per cento dei talk show, solo l’ottanta per centro delle interviste senza contraddittorio e solo il novantacinque per cento degli approfondimenti scientifici per decidere se i presunti cadaveri di Bucha erano manichini o invece comparse dell’Actors Studio, se nell’acciaieria c’era il nipote di James Bond e/o la figlia naturale dell’estetista di Joe Biden e se i ciclisti abbattuti dai cecchini erano solo omosessuali drogati o anche evasori fiscali. È tutta roba acquisita, finalmente, perché adesso il Pacifista può assistere orgoglioso a come ha ben fruttato il proprio cimento e a come Raiuno, Raidue, Raitre, Retequattro, Canale5, Italia1 e LaZ aka Telecinquestelle vadano in autonomia e non abbiano più bisogno del suo aiuto per spiegare che i russi fanno anche qualcosa di buono.
Ore 7,30: il Pacifista si lava i denti. L’animo suo, rasserenato al risveglio da quel tranquillizzante panorama dell’informazione come si deve, si rabbuia ora nella meditazione sulle sofferenze delle masse proletarie impoverite dagli egoismi ucraini. Rumina il tweet: «Prima gli italiani!». Senonché, mortacci sua, non ti arriva la moglie a rovinar tutto de prima matina? L’innocente, porella, anzi innocentessa, perché non si è pacifisti comunisti sindacalisti collaborazionisti senza essere in primo luogo arcobaleno, dice che sì, però… e ti snocciola l’esito del suo scrutinio, fastidioso come un resistente ucraino: «Amò, ma non l’aveva già detto quell’altro, come se chiama?, quello co’ la felpa, cor rosario… quello che je manna la ruspa a le zingaracce, dai!, quello che se voleva pijà li pieni poteri… Sarvini! Ecco, Sarvini! L’aveva detto puro lui che prima vengono l’itajani». E che palle. Ripiega dunque su «Ucraina Stato canaglia», che favorevolmente («Bravo amò!») passa il filtro censorio della puntigliosa consorte.
Ore 8,00: il Pacifista non legge più i giornali. Ha capito da mo’ che anche lì il lavoro è stato fatto. D’accordo, la stampa nazista, dal Corriere della Sera a Linkiesta, non è stata debellata completamente, ma ‘sti cazzi, tanto il Pacifista lo sa che la verità è venuta a galla e al compagno Massimo Giannini nessun complotto, nessuna cospirazione, nessun colpo di mano impedirà mai di far scrivere che Zelensky ricatta l’Europa.
Ore 8,30: il Pacifista esce per andare a faticà.
Ore 8,31: il Pacifista rientra (la militanza può cambiare sui dettagli, ma non sui principi).
Ore 12: al Pacifista je tocca da cucinà, perché la moglie è al sit in contro la guerra del Vietnam e per il boicottaggio dei prodotti israeliani. Il monitoraggio del soffritto non lo distrae dalla radio, che propina il frutto quotidiano della disinformazione di matrice Nato: missili su un supermercato (puah!), tredici morti (pfui!), decine di feriti (se vabbè…). Mangiare veloce perché la causa chiama.
Ore 14: Il Pacifista va al pc. Incazzato come un puma perché la notizia è coperta male, malissimo, porca puttana. Non uno che obietti l’ovvio, e cioè che innanzitutto il centro commerciale incenerito non aveva la licenza. E poi non uno che spieghi quel che capirebbe perfino Bianca Berlinguer, e cioè che prima di trarre conclusioni ci vuole un’indagine indipendente per accertare se c’erano gli idranti. Poi arriva la dichiarazione del plenipotenziario russo, che dice che era un deposito di armi, e il Pacifista si placa.
Ore 18: il Pacifista deve riempire il tempo da lì a quando arrivano i programmi seri, quelli delle inchieste che spiegano che «Putin sta puntando sui suoi obiettivi, e intanto cerca di non spaventare la popolazione». Che fare, nel frattempo? Un bel like sul post contro le multinazionali (irrecuperabile, mannaggia, perché non c’è la moglie ad avvisarlo che era della Meloni).
Ore 20: il Pacifista cena soletto, perché la moglie è passata dal sit in alla veglia di solidarietà alla stampa russa censurata, e la bimba è purtroppo dai nonni, che non si sa se saranno altrettanto impegnati a spiegarle che il bene e il male non stanno da una sola parte e che negli scantinati di Kyjiv ci sono tutti i comfort.
Ore 21: il Pacifista crolla. C’era un reportage cecoslovacco con sottotitoli in tedesco che diceva che i profughi ucraini in realtà sono passanti e che le deportazioni rendono liberi gli uomini: ma quando uno è stanco, è stanco. E poi l’aveva già sentito, in buon italiano, dalla viva voce dell’opinionismo che ogni giorno sfida la propaganda bellicista.
E domani? Domani magari il sollievo alla notizia di un’altra città ucraina caduta.
La guerra Russia-Ucraina. Putinisti o servi di Biden: il populismo s’è preso il Paese. Giovanni Guzzetta su Il Riformista il 17 Maggio 2022.
Tutto si può dire, meno che l’aggressione russa dell’Ucraina non abbia infuocato gli animi e generato accesissime polemiche nel dibattito pubblico. Sicuramente ciò è accaduto in Italia; più che altrove. Le contrapposizioni hanno esasperato gli animi e provocato estremismi verbali oltre che gesti clamorosi. Ciò che colpisce non è solo la veemenza delle polemiche, ma anche la circostanza che lo scontro sembra non aver risparmiato nessuno: prominenti giornalisti e opinionisti, intellettuali e anchormen (o anchorwomen) enfaticamente e risolutamente schierati. E, forse per la prima volta da tempo, le polemiche hanno rotto fronti culturali e politici da lunghissimo tempo consolidati, creando cesure inattese. A sinistra come a destra.
Le accuse esplicite di “burattino di Biden” all’indirizzo del presidente Draghi o di “putinista” nei confronti di chi è critico verso le scelte politiche del governo, dell’Unione europea e della Nato, non sono state proferite solo da qualche frangia estremista, ma anche nei cosiddetti “salotti buoni” della televisione o del giornalismo, persino da chi, fino a ieri, per stile o per metodo (penso ad alcuni studiosi), era ritenuto esponente di un pensiero liberale o, persino, libertario; per costituzione, cioè, moderato e coltivatore del dubbio. E, molto probabilmente, il solo fatto di affiancare, qui, tali atteggiamenti dell’una parte e dell’altra, suscita già l’ira di esponenti di entrambi i fronti, scandalizzati per il solo fatto di essere accomunati agli “avversari”, anche se solo da questo specifico punto di vista.
Con una battuta si potrebbe dire “è la guerra bellezza”; che non consente vie di mezzo: o stai di qua o stai di là. E con altrettanto cinismo si potrebbe considerare che si tratta della ferrea legge della comunicazione, in cui vince la nettezza dell’estremizzazione, la sicumera sprezzante di chi ostenta la propria verità. Che quanto più è tetragona, tanto più fa audience e spettacolo. In questa guerra sulla guerra ogni mezzo è lecito, perché in gioco c’è niente po’ po’ di meno che la verità di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Non c’è bisogno di scomodare Platone e Popper, Max Weber e Hannah Arendt per riconoscere che, dietro a questo scenario, anche nella sua salsa italiana, si gioca l’eterno tema del rapporto tra politica e verità. Basta ricordare quanto tormentato sia questo rapporto e quanto i classici del pensiero liberal-democratico abbiamo avvertito del rischio di derive fondamentaliste e autoritarie in certi modi di risolvere quell’angoscioso interrogativo. Oggi potremmo aggiungere che, nelle società contemporanee, a quel rischio si aggiunge quello del populismo, inteso come fenomeno fondato sulla manipolazione dell’opinione pubblica attraverso lo strumento della semplificazione demagogica, dell’ostentazione di convinzioni spacciate come verità auto-evidenti, delle interpretazioni mono-causali e della cultura del complotto e del sospetto, come sostituti moderni dell’antico capro espiatorio.
Fondamentalismo, autoritarismo, totalitarismo e populismo hanno innanzitutto questo in comune: l’espulsione della complessità e del dubbio dal dibattito pubblico. Conosco l’obiezione: ci sono momenti in cui la politica impone decisioni. Non può crogiolarsi nel dubbio. La politica deve semplificare la complessità. Altrimenti si risolve nell’inazione. Niente di più vero. E i meccanismi democratici devono servire per legittimare le decisioni, non per evitarle. Anzi, a costo di apparire impopolare, dirò che non è nella logica di una politica responsabile e autorevole che la decisione pubblica debba sempre inseguire l’umore dei sondaggi. La politica, finché rimane vincolata al giudizio degli elettori in occasione del voto (l’unica sede in cui l’opinione dei cittadini non può essere ignorata) può, e a volte deve, essere impopolare, perché essa deve pensare agli interessi del medio e lungo periodo, non alle emozioni del momento.
La questione che, però, rimane aperta, anche di fronte a una politica legittimamente decisionista, è come dev’essere trattata l’arena della discussione. Come preservarne il pluralismo per non essiccare la linfa vitale della complessità e del dubbio. Per non varcare, cioè, il confine che ci fa transitare da una società aperta alla asfissia del pensiero unico o del populismo. E, in ultima istanza, dello stato etico. Questa sfida va ben al di là del dibattito sulla guerra e investe, in generale, l’orizzonte delle società liberal-democratiche nell’era contemporanea. E di questo è fondamentale discutere. Perché costituisce, appunto, la principale sfida delle democrazie liberali di oggi. Se consentiamo, invece, che si consolidi l’equazione che la decisione politica si identifica con la verità, finiremo prima o poi per abbattere i bastioni che sorreggono le fondamenta del nostro vivere civile. E il fatto che ci siano autocrazie, come la Russia, dove nulla di questi valori è praticato, costituisce un motivo in più per tenersene alla lontana.
In un’epoca di fake news, di inflazione informativa, di bolle conoscitive, dare una risposta alla domanda di come si protegge uno spazio pluralista, per coltivare il dubbio e la complessità, non è affatto semplice. Ma la demonizzazione dell’avversario o l’invocazione di verità auto-evidenti, l’invocazione dell’interesse pubblico per valutare quali pensieri possano avere cittadinanza e quali no, immaginare che ci sia qualcuno legittimato a valutare le opinioni (non i fatti, quando certi e inconfutabili, che le sorreggono), che oggettivamente si possa distinguere tra opinioni degne o indegne… tutto questo, non può essere la risposta al problema. Nemmeno in tempo di guerra.
Ogni soluzione a questa domanda, incombente sulle società liberal-democratiche contemporanee, prevede dei rischi, ma in attesa di trovare delle soluzioni, che sono molto di là da venire, è necessario resistere alla tentazione di percorrere facili scorciatoie. Dovendo scegliere, meglio il rischio di una fake news in più, che può e deve essere demolita nel dibattito pubblico, che quello di un’opinione in meno. Del resto, basta guardare i contenuti e le modalità dello stesso dibattito sulla guerra, negli Stati Uniti o in altri paesi europei, per comprendere come questi valori possano continuare a essere coltivati anche là dove le scelte politiche sono nette e risolute. Dare cittadinanza a opinioni sgradite e persino errate è il modo migliore per dimostrare che si hanno argomenti per confutarle e che non se ne ha paura. Questo, in ultima istanza, significa avere fiducia nella democrazia liberale e combattere per essa. Giovanni Guzzetta
Grillo, Salvini e Berlusconi: i tre leader che imbarazzano Draghi, più attacchi alla Nato che a Mosca. Emanuele Lauria su La Repubblica il 18 Maggio 2022.
Le parole del leader di Forza Italia hanno messo in crisi i ministri azzurri e riallineato le posizioni tra il Cavaliere e il segretario della Lega.
Le parole di Silvio Berlusconi sulla guerra, già di buon mattino, hanno fatto sobbalzare sulla sedia i ministri forzisti: l'attacco del loro leader alla posizione di Usa e Nato, e l'evidente dissenso sul'invio delle armi in Ucraina, ha creato imbarazzo nei confronti di Mario Draghi e del governo di cui fanno parte. Così, a turno, Mariastella Gelmini, Mara Carfagna e Renato Brunetta hanno ridimensionato la portata dell'intervento del Cavaliere alla convention di Treviglio.
Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 17 maggio 2022.
Interviene a sorpresa, quasi ad anticipare il suo intervento di sabato a Napoli, quando chiuderà la Convention di Forza Italia davanti a - prevede Antonio Tajani - «4-5 mila persone». E sorprende tutti Silvio Berlusconi, arrivato assieme alla compagna Marta Fascina a un evento elettorale organizzato dall'azzurro Alessandro Sorte alla Fiera di Treviglio (Bergamo), dove annuncia con giubilo il ritorno nel partito del deputato Stefano Benigni.
Ma quello che colpisce non è solo la partecipazione del tutto inattesa, quanto le parole che pronuncia il Cavaliere, fuori dall'ufficialità dei discorsi preparati, molto più rivelatrici del suo umore del momento. Perché si sfoga, parlando dell'Ucraina: «Siamo in guerra anche noi, perché gli mandiamo le armi: mi dicono che manderemo anche i cannoni e le armi pesanti, lasciamo perdere...».
Non è la posizione, cautissima, di FI, totalmente in linea con quella di Draghi e del Ppe. È piuttosto uno sfogo: «Non abbiamo signor leader nel mondo, non li abbiamo in Europa. Un leader mondiale che doveva avvicinare Putin al tavolo gli ha dato del criminale di guerra (sembra alludere a Joe Biden, ndr ), gli ha detto che doveva andare via dal governo russo e finire in galera, il segretario della Nato, Stoltenberg, danese di 63 anni, ha detto che mai più l'Ucraina sarà sotto la Russia e così sarà anche delle due repubbliche del Donbass a cui mai l'indipendenza, mai, sarebbe riconosciuta. Capite che con queste premesse il signor Putin è ben lontano dal sedersi a un tavolo».
Insomma, non è così che si arriva alla pace: «Bisogna pensare a qualcosa di eccezionale perché Putin smetta. Temo - continua - che questa guerra continuerà. Significa che avremo dei forti ritorni delle sanzioni alla Russia sulla nostra economia, già si è fermato lo sviluppo, avremo una diminuzione del nostro Pil»
E non solo: «Ci saranno danni ancora più gravi in Africa perché nei porti dell'Ucraina sono ferme tonnellate di grano e mais, in Africa non hanno più la possibilità di fare il pane, è possibile che ci siano ondate di profughi, è un pericolo grande derivante dalla guerra in Ucraina».
Sembra una linea più vicina a quella di Salvini, amico ritrovato, che del premier Draghi, verso il quale Berlusconi mostra una certa distanza. Anche se la rivendicazione rispetto al futuro c'è, e non sembra un piegarsi - tantomeno un fondersi - con il partito più vicino ormai, la Lega: «FI dovrebbe avere sempre la guida del centrodestra, quindi dovrebbe arrivare almeno al 20% e io penso che noi possiamo arrivarci».
Salvini e Berlusconi subiscono il fascino di Putin perché non hanno chiaro cos’è la democrazia. GIANFRANCO PASQUINO, accademico dei Lincei, su Il Domani il 17 maggio 2022.
La triste delusione nei confronti di Putin dei due principali esponenti del centro-destra italiano, Salvini e Berlusconi, è facilmente spiegabile.
Pur continuando a controllare e punire la stampa e le giornaliste, avendo chiaramente ottenuto la sottomissione della magistratura che ha regolarmente fatto il suo “dovere” (sic), di recente condannando Alexei Navalny, l’aggressione del leader russo all’Ucraina non è riuscito a fornire la prova cruciale che il suo è un governo/regime di successo.
Adesso Salvini spera di evitare ulteriori delusioni chiedendo la fine dell’invio di armi agli ucraini che si difendono. Invece, Berlusconi non riesce a nascondere la sua amarezza.
GIANFRANCO PASQUINO, accademico dei Lincei. Professore emerito di Scienza politica all'Università di Bologna, dal 2005 è socio dell'Accademia dei Lincei.
Da Grillo a Berlusconi, la tentazione di giustificare Putin. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2022.
Tra i leader torna l’empatia verso il dittatore: si parla dell’accerchiamento della Nato, dei toni di Biden, della mancanza di leader europei. I dubbi su sanzioni e aiuti militari a Kiev.
Giustificare il dittatore. Capirne l’animo, l’ingiuria dell’orgoglio ferito, la resistenza all’accerchiamento, il suo diritto alla differenza, perché la democrazia non si esporta e ci vuole rispetto anche per altre forme di governo, anche quando si muovono sui cingoli dei carri armati. Perché andrà anche bene condannare l’invasione dell’Ucraina, ma come non vedere che qui si vuole soffocare il Paese più grande del modo per estensione, la Russia, e umiliare l’uomo che vuole restituirle il suo ruolo di potenza mondiale, Vladimir Putin? Senza contare che le sanzioni fanno più male a noi che a loro, che possono vendere il gas alla Cina e a tutta l’Asia, condannandoci al freddo e al caldo e mettendo in difficoltà le mostre imprese.
Giustificare quindi Putin, buon ultimo, perché non manchiamo di sensibilità verso la Cina, anche quando schiaccia sotto il tallone la voglia di libertà di Hong Kong, o verso l’Arabia Saudita, che taglia a pezzi con una sega Jamal Khashoggi. L’empatia verso il dittatore, per breve tempo sopita, rispunta prepotente e sorprendentemente, in Italia, vede sulla stessa barricata leader che d’abitudine agiscono gli uni contro gli altri con feroce determinazione e perfino con disprezzo.
Per Silvio Berlusconi siamo in guerra, mandando armi, «ora anche cannoni, lasciamo perdere…». Condanna senza appello mondo ed Europa senza leader, con Biden che dà del criminale di guerra a Putin. E con il segretario della Nato Stoltenberg che addirittura dice: mai più l’Ucraina sotto la Russia. Salvo poi stupirsi per il titolo del Corriere (Berlusconi giustifica Putin) e correggere il tiro.
Beppe Grillo ospita sul suo Blog l’ex ambasciatore Torquato Cardilli, che scomoda la Bibbia (Deuteronomio, uno dei libri del Pentateuco) per dire che contro Putin e solo contro di lui, si usano due pesi e due misure, a fronte della cattiveria che è pari in tutto il mondo. Parole subito condivise da Vito Petrocelli, l’ex presidente della commissione Esteri del Senato, quello che il 25 aprile scriveva «buona LiberaZione», con la Zeta dell’aggressore.
E mentre Giuseppe Conte riunisce il Consiglio nazionale dei Cinque stelle in seduta quasi permanente per dire no all’invio di armi e contesta a Mario Draghi di non avere un mandato politico per continuare a sostenere la resistenza ucraina, Matteo Salvini incontra il premier con toni più concilianti, salvo poi, in piazza, tornare a spingere per il no agli aiuti e alle sanzioni. E non manca, da più parti, un’inedita attenzione verso i destini dell’Africa, destinata a pagare un prezzo alto per la mancanza del grano ucraino, che sarà difficile seminare e quindi impossibile raccogliere. Ma lì il timore vero, probabilmente, è quello che, spinte dalla fame e dalla sete, grandi masse premeranno con più forza contro le porte dell’Europa. E infine, autori vari, l’ultimo sostegno all’invasore, storpiando la Costituzione. Rileggiamolo, l’articolo 11: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Sembra scritto oggi per condannare la guerra di Putin.
Il blog di Beppe Grillo crea il caos dentro al Movimento 5 Stelle: “Israele come la Russia, annessione illegale”. Il Tempo il 16 maggio 2022.
Nuovo post, nuova polemica. E il pomo della discordia è sempre la politica estera. Il blog di Beppe Grillo torna ad infiammare il dibattito all’interno del Movimento 5 Stelle. A creare scompiglio tra i parlamentari, questa volta, è un intervento dell’ex ambasciatore Torquato Cardilli ospitato dal sito del garante M5S. Nell’articolo intitolato «Due pesi e due misure», Cardilli scrive: «La Russia ha infranto il diritto internazionale, ma di violazioni è pavimentata la storia dell’Onu». E ancora: «Nel 2014 la Crimea ha proclamato la sua secessione e indipendenza dall’Ucraina prontamente riconosciuta dalla Russia che di lì a poco, per contrastare la reazione del governo di Kiev, divenuto anti russo con un colpo di stato, favorì l’organizzazione in Crimea di un referendum popolare di annessione». Nell’articolo, «l’occupazione di Gerusalemme, annessa da Israele e proclamata sua capitale eterna» viene paragonata all’«occupazione russa e successiva annessione della Crimea». L’autore del post poi taccia le Nazioni Unite di ‘doppiopesismo’ e non risparmia critiche all’operato degli Stati Uniti.
Ai vertici del Movimento 5 Stelle ci si affretta a prendere le distanze dal post: «Non è firmato da Beppe...», viene fatto notare in ambienti contiani. Ma è l’europarlamentare Fabio Massimo Castaldo, coordinatore del Comitato per i rapporti europei e internazionali del M5S, a ribadire a chiare lettere che la definizione della linea sulla politica estera 5 Stelle non spetta a Grillo: «È importante chiarire, come ho già fatto, che il blog di Grillo è un blog di informazione che fa capo a Beppe personalmente, quindi i contenuti pubblicati non riflettono le posizioni del M5S, che sono invece espresse da Conte, dal Consiglio nazionale e dal Comitato esteri che presiedo», spiega Castaldo all’Adnkronos. Insomma: «Il blog è una piattaforma che ospita contributi di personalità del mondo accademico, della scienza, che non devono essere associate al Movimento».
Castaldo non è il solo a nutrire perplessità sull’ennesima uscita anti-Usa del blog di Grillo. Diversi parlamentari in chat hanno esternato la loro insofferenza per la ritrovata “verve” comunicativa del garante M5S: «Gli diamo 300mila euro all’anno per poi ritrovarci dei post che non riflettono la linea del Movimento?», è il tenore di alcuni commenti. Ma davanti ai microfoni c’è chi si trincera dietro il classico ’no comment’, come il presidente della Commissione Politiche Ue della Camera Sergio Battelli, che intercettato nel cortile di Montecitorio si limita a rispondere: «La mia bocca resta cucita».
Polemica sul post del blog di Grillo: «L’Italia accetta i soprusi Usa» Scompiglio nel M5S: alleanza atlantica fondamentale. Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 16 Maggio 2022.
Sul blog del fondatore del Movimento 5 Stelle compare un intervento dell’ex ambasciatore Cardilli, fortemente critico nei confronti degli americani: «Soffriamo di una condizione di vassallaggio».
È polemica sul post pubblicato sul sito di Beppe Grillo. Il garante del M5S non ha mai fatto mistero di avere un’opinione negativa sugli Stati Uniti e sulla loro politica estera in particolare (guerra in Ucraina compresa). Lo conferma la pubblicazione sul suo blog di un intervento di un ex ambasciatore italiano che accusa il nostro Paese di accettare i «soprusi degli Usa».
«Non si capisce perché i nostri governi accettino il sopruso, senza una forte reazione politica, di vedere il cittadino Chico Forti condannato nel 2000 a vita per omicidio, da una Corte americana prevenuta come fu nel caso degli innocenti Sacco e Vanzetti — spiega Torquato Cardilli, ex ambasciatore d’Italia in Albania, Tanzania, Arabia Saudita e Angola, nel suo intervento pubblicato sul blog del fondatore del Movimento 5 Stelle sull’applicazione della "regola" dei due pesi e due misure, che governa le scelte strumentali di politica estera di Nazioni come gli Usa, Israele, Turchia o Russia e determina l’inerzia dell’Onu nella risoluzione dei conflitti, ultimo dei quali quello tra Ucraina e Russia.
Cardilli nota come i vertici dello Stato italiano in materia di giustizia si siano adagiati sui due pesi e due misure. «I nostri Presidenti della Repubblica, Presidenti del Consiglio, Ministri degli Esteri in centinaia di contatti personali in 20 anni con gli omologhi americani, sono stati incapaci di pretendere tra alleati corretti il provvedimento di grazia presidenziale, accontentandosi di frasi di circostanza e della solita pacca sulla spalla», accusa Cardilli. «Al contrario, il nostro presidente della Repubblica è scattato sull’attenti più d’una volta di fronte alla richiesta di concedere la grazia a vari cittadini americani condannati da tribunali italiani con sentenza passata in giudicato».
L’affondo dell’ex ambasciatore è durissimo: «Ma c’è di più: soffriamo ancora, dopo 77 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, di una condizione di vassallaggio. Concediamo in saecula saeculorum l’immunità dalla giustizia penale italiana ai militari americani operanti nelle basi in Italia (Aviano, Ghedi, Napoli, Livorno, Sigonella, Pordenone, Gaeta, San Vito, Vicenza ecc...). Così, ad esempio, per la tragedia della funivia del Cermis i militari responsabili sono stati lasciati liberi di rientrare nel loro paese, mentre le vittime italiane di quella strage ancora attendono giustizia».
Ma l’intervento dell’ambasciatore crea scompiglio nel M5S. Ai vertici ci si affretta a prendere le distanze dal post: «Non è firmato da Beppe...», viene fatto notare in ambienti contiani. Ma è l’europarlamentare Fabio Massimo Castaldo, coordinatore del Comitato per i rapporti europei e internazionali del M5S, a ribadire a chiare lettere che la definizione della linea sulla politica estera 5 Stelle non spetta a Grillo: «È importante chiarire, come ho già fatto, che il blog di Grillo è un blog di informazione che fa capo a Beppe personalmente, quindi i contenuti pubblicati non riflettono le posizioni del M5S, che sono invece espresse da Conte, dal Consiglio nazionale e dal Comitato esteri che presiedo», spiega Castaldo all’Adnkronos. Insomma: «Il blog è una piattaforma che ospita contributi di personalità del mondo accademico, della scienza, che non devono essere associate al Movimento».
«È giusto - prosegue l’eurodeputato - sottolineare che molte situazioni non devono essere valutate con doppi standard: alcuni degli episodi citati dal post avrebbero meritato più attenzione da parte della comunità internazionale. Ma in ogni caso ribadiamo che la partecipazione fondamentale dell’Italia all’Alleanza euro-atlantica per il M5S è fondamentale e non sarà mai messa in discussione». Per Castaldo è sbagliato «operare delle semplificazioni», perché si rischia di cadere in «equivoci e incomprensioni»: «Gli Usa sono un alleato centrale: bisogna sempre lavorare in un’ottica costruttiva e propositiva. È giusto che ci sia uno scambio franco e leale tra paesi amici» ma non si può «paragonare un’autocrazia come la Russia, dove la libertà di pensiero è fortemente limitata dal governo, agli Usa, che sono una democrazia consolidata». Castaldo non è il solo a nutrire perplessità sull’ennesima uscita anti-Usa del blog di Grillo. Diversi parlamentari in chat hanno esternato la loro insofferenza per la ritrovata `verve´ comunicativa del garante M5S: «Gli diamo 300mila euro all’anno per poi ritrovarci dei post che non riflettono la linea del Movimento?», è il tenore di alcuni commenti. Ma davanti ai microfoni c’è chi si trincera dietro il classico `no comment´, come il presidente della Commissione Politiche Ue della Camera Sergio Battelli, che intercettato dall’Adnkronos nel cortile di Montecitorio si limita a rispondere: «La mia bocca resta cucita».
Diego Messa per lastampa.it il 16 maggio 2022.
Niente. E’ più forte di lui. Non ce la può fare, a non difendere in qualche modo la Russia. Sul blog di Beppe Grillo è apparso questa mattina l’ennesimo post giustificazionista della Russia, scritto dall’ex ambasciatore a Ryad, convertito all’Islam, Torquato Cardilli.
Nel post, intitolato “Due pesi e due misure”, in sostanza si dice che sì, la Russia ha invaso, ma allora tutte le altre guerre del mondo? Allora gli Stati Uniti? Allora la Nato?
Un gigantesco e imbarazzante caso di “whataboutism”, che conferma ancora una volta il legame politico ideologico che mai è stato reciso tra Grillo e la Russia di Vladimir Putin, che nel 2017 Grillo definiva (assieme a Donald Trump) «un uomo di stato forte di cui la politica internazionale ha bisogno».
«E’ chiaro a tutti – scrive Cardilli sul blog di Grillo – che la Russia ha infranto il diritto internazionale violando con le armi i confini dell’Ucraina per seminarvi morti e distruzioni, ma di violazioni e veti è pavimentata la storia dell’ONU».
La colpa sembra essere degli Stati Uniti: «La Russia (erede dell’URSS dal 1991) si è avvalsa del ”diritto di veto” in pochissime occasioni, mentre gli Stati Uniti vi hanno fatto ricorso decine di volte, nella maggioranza dei casi per bloccare risoluzioni di condanna per i propri misfatti e per le reiterate violazioni del diritto internazionale, della carta delle Nazioni Unite, delle raccomandazioni dell’Assemblea Generale, da parte dell’alleato Israele».
Cosa ancor più incredibile, la rivoluzione di Maidan viene definita «un colpo di stato», e il referendum annessionista della Crimea – un referendum illegale avvenuto con un’annessione russa e senza alcuna tutela e legalità giuridica – viene presentato come una legittima e probante votazione: «Nel 2014 la Crimea ha proclamato la sua secessione e indipendenza dall’Ucraina prontamente riconosciuta dalla Russia che di lì a poco, per contrastare la reazione del governo di Kiev, divenuto anti russo con un colpo di stato, favorì l’organizzazione in Crimea di un referendum popolare di annessione».
L’annessione della Crimea viene sciaguratamente paragonata alla «secessione indipendentista» del Kosovo «a danno della Serbia, la cui capitale Belgrado fu pesantemente bombardata dall’alleanza occidentale fino alla capitolazione. Allora nessuno in Occidente, a livello governativo o di informazione, si oppose alla durezza della devastazione».
Paragonando cose imparagonabili, si gettano le basi della più pesante misinformation. Due pesi e due misure, recrimina l’ex ambasciatore, anche sui profughi: «Quelli ucraini sono stati visti con occhi compassionevoli a differenza di quelli dalla Siria, dalla Libia, dall’Afghanistan, dall’Iraq, dal Kurdistan».
In un minestrone incredibile che tocca massacri di Sabra e Shatila, la detenzione di Chico Forti in America e la strage del Cermis, viene da chiedersi se il leader grillino in politica, Giuseppe Conte, possa condividere questo sbalestratissimo post filo-Cremlino.
Le parole al veleno. Grillo l’antiamericano, sul blog l’ex diplomatico Cardilli detta la linea 5 Stelle: “Italia vassallo USA, Maidan in Ucraina fu colpo di stato”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 16 Maggio 2022.
Beppe Grillo torna a farsi sentire e lo fa all’insegna della polemica, come il suo solito. Il fondatore del Movimento 5 Stelle si ‘occupa’ ancora una volta del conflitto in corso in Ucraina provocato dall’invasione delle truppe russe e lo fa dando spazio sul suo sito a Torquato Cardilli, diplomatico italiano ed ex ambasciatore in Albania, Arabia Saudita, Angola e Tanzania.
Un articolo, titolato “Due pesi e due misure”, ripropone il classico anti-atlantismo e anti-americanismo di stampo grillino, tirando in ballo un mare magnum di vicende, da Chico Forti al Cermis, fino al presidente della Repubblica Sergio Mattarella e i suoi predecessori al Quirinale, oltre ai vari ‘inquilini’ di Palazzo Chigi.
È a loro che Cardilli si rivolge definendoli “incapaci” negli ultimi 20 anni “di pretendere tra alleati corretti il provvedimento di grazia presidenziale, accontentandosi di frasi di circostanza e della solita pacca sulla spalla. Al contrario il nostro Presidente della Repubblica è scattato sull’attenti più d’una volta di fronte alla richiesta di concedere la grazia a vari cittadini americani condannati da tribunali italiani con sentenza passata in giudicato”.
Al contrario per l’ex ambasciatore “soffriamo ancora, dopo 77 anni dalla fine della seconda guerra mondiale, di una condizione di vassallaggio”.
L’obiettivo dell’articolo pubblicato sul sito di Grillo è quello di compiere un gigantesco “e allora la Nato-Onu-Stati Uniti”. Se infatti Cardilli scrive che la Russia con l’invasione dell’Ucraina “ha infranto il diritto internazionale violando con le armi i confini dell’Ucraina per seminarvi morti e distruzioni”, è altrettanto evidente per l’ex diplomatico di lungo corso che “di violazioni e veti è pavimentata la storia dell’ONU”.
La colpa? Ovviamente degli Stati Uniti. “La Russia (erede dell’URSS dal 1991) si è avvalsa del ”diritto di veto” in pochissime occasioni, mentre gli Stati Uniti vi hanno fatto ricorso decine di volte, nella maggioranza dei casi per bloccare risoluzioni di condanna per i propri misfatti e per le reiterate violazioni del diritto internazionale, della carta delle Nazioni Unite, delle raccomandazioni dell’Assemblea Generale, da parte dell’alleato Israele”, spiega l’ex diplomatico.
Così nel suo articolo si arriva a ripetere la propaganda del Cremlino sulle rivolte di Euromaidan del 2014, che portarono alla caduta del governo di Viktor Yanukovich, poi rifugiatosi proprio in Russia. Le proteste di piazza vengono definite “un colpo di stato” mentre il referendum per l’annessione della Crimea alla Russia, non riconosciuto dalla comunità internazionale e svolto durante una occupazione militare, viene così presentato: “Nel 2014 la Crimea ha proclamato la sua secessione e indipendenza dall’Ucraina prontamente riconosciuta dalla Russia che di lì a poco, per contrastare la reazione del governo di Kiev, divenuto anti russo con un colpo di stato, favorì l’organizzazione in Crimea di un referendum popolare di annessione”.
In questo minestrone ci finisce anche il Kosovo, con l’ardito paragone tra l’annessione della Crima alla “secessione indipendentista” del Kosovo “a danno della Serbia, la cui capitale Belgrado fu pesantemente bombardata dall’alleanza occidentale fino alla capitolazione. Allora nessuno in Occidente, a livello governativo o di informazione, si oppose alla durezza della devastazione”, scrive Cardilli.
La frattura nei 5 Stelle
Ma il lungo post pubblicato sul sito di Grillo testimonia ancora una volta la profonda spaccatura all’interno dei 5 Stelle, tra una linea governista e filo-atlantica rappresentata dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio e quella più barricadera del leader Giuseppe Conte, contrario all’invio di armi in Ucraina e desideroso di portare la questione in Aula per un voto politico.
Anche la scelta di ‘puntare’ sull’ex ambasciatore Cardilli è un chiaro esempio delle divisioni. Come sottolinea Il Foglio, il diplomatico di lungo corso in alcuni articoli pubblicati su ‘PoliticaPrima’ definiva Di Maio “un guaglione” e che a proposito della partita per il Quirinale il 2 febbraio scriveva che il “capitolo più penoso” della carriera politica di Di Maio “è scritto in questi giorni con i negoziati e i colpi bassi sotterranei per la rielezione del presidente Mattarella. Irrispettoso delle regole, credendosi ancora il capo del Movimento, ha manovrato nell’ombra, a latere o in modo non allineato con l’impostazione di Conte incontrando, secondo quanto riferisce la stampa, questo o quella candidata da Amato alla Moratti, dalla Casellati a Casini”.
Cardilli che era stato anche ‘utilizzato’ in altri occasioni da Grillo per trattare la politica estera: ad agosto 2021 il diplomatico scriveva della “fuga disonorevole da Kabul”; prima ancora Grillo aveva lasciato a Cardilli la difesa dalle accuse di aver ricevuto fondi neri dal regime venezuelano di Hugo Chavez, mentre nell’ottobre scorso era tornato al suo obiettivo preferito, il ‘nemico’ americano in un post dal titolo “Il cervo e il cavallo”.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Da repubblica.it il 14 maggio 2022.
Nel 2014 "tutta la popolazione della Crimea voleva diventare russa". La prova è il referendum che ebbe "il 95% di consensi". Parola di Beppe Grillo in un'intervista dell'epoca a Enrico Mentana che è tornata a circolare sui social.
Il fondatore del Movimento 5 Stelle se la prende anche con la destituzione di Victor Yanukovich l'ex presidente ucraino filorusso cacciato in seguito alle proteste. "Chi c'era in piazza? - si chiede Grillo - Chi sparava sulla folla in Ucraina non erano i russi, c'erano forze occulte, forze americane".
Da nextquotidiano.it il 5 maggio 2022.
Durante l’ultima puntata di Cartabianca, Salvini ha tentato per l’ennesima volta di smarcarsi dai legami con Vladimir Putin e di negare gli apprezzamenti passati nei confronti del presidente della Federazione russa. “Tutti hanno lavorato con Putin in passato”, dice il leader leghista mentre parla sovrapponendosi ad Alessandro Orsini. La conduttrice Bianca Berlinguer però lo bacchetta: “Si però lei lo elogiava proprio, le piaceva proprio a lei Putin”.
Il momento preciso in cui Bianca Berlinguer ricorda a Salvini quanto gli piaceva Putin
I trascorsi da “putiniano” di Salvini gli sono costati fino ad ora non pochi imbarazzi, compresa la figuraccia fatta in terra polacca con il sindaco di Przemysl Wojciech Bakun che gli ha sbattuto in faccia la maglia con il volto di Putin mettendo in mostra l’ipocrisia del leader leghista.
Salvini è recentemente incappato in una nuova gaffe: dopo aver annunciato di essere pronto a partire per la Russia, ha smentito dopo appena un giorno l’imminenza di un suo viaggio a Mosca.
La figuraccia di Lula "il rosso" "Zelensky colpevole come Putin". Paolo Manzo il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.
L'ex presidente: "Non si fa la guerra per andare in tv".
San Paolo. «Questo ragazzo (Zelensky, ndr) è responsabile della guerra quanto Putin, non c'è un solo colpevole». No, non è un Orsini qualsiasi, bensì l'ex presidente del Brasile Lula, tornato a far parlare di sé dopo un'intervista di copertina rilasciata alla rivista statunitense Time. Nella sua «analisi», Lula attacca duramente non solo il presidente ucraino - «a volte lo guardo in tv come se stesse festeggiando, ricevendo applausi, alzandosi in piedi da tutti i parlamenti e sono perplesso, sembra il protagonista di uno spettacolo» - ma anche Stati Uniti ed Europa. «Biden avrebbe potuto evitare la guerra, non incitarla. Avrebbe potuto prendere un aereo e andare a Mosca per parlare con Putin. È questo il tipo di atteggiamento che ti aspetti da un leader. No, non è solo Putin, anche Stati Uniti e Unione europea sono colpevoli di questa guerra». Poi, il già difensore a oltranza del terrorista dei Proletari Armati per il Comunismo, Cesare Battisti, torna alla carica contro Zelensky. «Si fa vedere in tv al mattino, il pomeriggio e pure di notte, appare al parlamento inglese, a quello tedesco e francese come se fosse impegnato in una campagna elettorale. Ok, sei stato un bravo comico ma non si fa una guerra per andare in tv. Zelensky dovrebbe essere più preoccupato per un tavolo dei negoziati». A detta di Lula è l'Occidente che «sta suscitando odio contro Putin, ma questo non risolverà nulla e, invece, sarebbe necessario incoraggiare un accordo e non alimentare ulteriormente il confronto». Ma il meglio di sé Lula lo dà con la sua analisi sulle cause del conflitto, in tutto simile a quella degli Orsini di casa nostra. «Qual è stato il vero motivo dell'invasione dell'Ucraina? Se è stato l'allargamento della Nato (come Lula continua a ripetere, ndr), Stati Uniti ed Europa avrebbero dovuto dire a chiare lettere: L'Ucraina non aderirà alla Nato». Questo, sempre secondo lui, «avrebbe risolto il problema». Inoltre, per l'ex presidente «ora non è il momento per l'Ucraina di unirsi all'Unione europea, che non doveva incoraggiare il confronto» come, invece, per Lula Bruxelles avrebbe fatto. Certo, dopo le sue recenti esternazioni a favore dell'aborto (a cui si oppone il 75% dei brasiliani), di una moneta unica latinoamericana per sostituire l'odiato dollaro Usa e dopo i pesanti attacchi contro la polizia, a suo dire troppo pro Bolsonaro, non stupisce che Lula stia crollando nei sondaggi. Se lo scorso dicembre era dato vincente già al primo turno, oggi sono appena 5 i punti percentuali di vantaggio sul presidente in carica. A detta degli analisti, se non riuscirà a frenare il trend, entro giugno Bolsonaro lo supererà nelle intenzioni di voto per le presidenziali di ottobre. Ma a terrorizzare il partito di Lula, il PT, è anche la piazza deserta durante il suo ultimo discorso, il primo maggio scorso. Basterà aver cambiato in corsa lo strapagato uomo marketing della sua campagna elettorale per farlo tornare al potere?
Lula attacca Zelensky: "Perché la colpa della guerra è pure sua. Cosa ha fatto". Libero Quotidiano il 04 maggio 2022.
Adesso anche l'ex presidente del Brasile, Lula mette nel mirino Zelensky. In un'intervista al Time, Lula non usa giri di parole e attacca il presidente ucraino affermando che la crisi tra Kiev e Mosca non è solo responsabilità delle scelte dello zar. Le sue parole di fatto sono chiarissime: "Putin non doveva invadere l'Ucraina ma non è l'unico colpevole. Vedo il presidente ucraino parlare in tv ed essere applaudito in tutti i parlamenti del mondo ma questo ragazzo è colpevole quanto Putin. In guerra non c'è mai un solo responsabile".
Insomma Lula va contro il numero uno di Kiev e di fatto dà una analisi diversa su quanto sta accadendo in Ucraina. Nel la sua intervista al Times poi Lula ha aggiunto: "Non conosco il presidente dell'Ucraina ma il suo comportamento è un po' strano - aggiunge - è in televisione mattina, mezzogiorno e sera. Dovrebbe essere al tavolo delle trattative. Voleva la guerra perché se non l'avesse voluta avrebbe negoziato di più". Parole di fuoco che di certo innescheranno polemiche a non finire. Lula punta il dito in modo diretto su Zelensky e lo fa attaccando una sua presunta esposizione mediatica. La presa di posizione di Lula lo collocherà di certo tra le fila dei filo-Putin dove sono finiti diversi altri esponenti politici del palcoscenico internazionale. Intanto sul fronte della battaglia infuria l'offensiva russa su Azovstal.
Ma le forze ucraine a quanto pare stanno resistendo. Il ministro ucraino Kuleba ha affermato: "L'acciaieria Azovstal resiste ancora nonostante i russi attacchino tutti i giorni con bombe o tramite la fanteria". E ancora: "Registriamo il successo nell'evacuazione di parte dei civili presenti, anche grazie all'Onu - aggiunge - questo prova che quando c'è la volontà politica in Russia questo meccanismo può funzionare". Ma la battaglia non accenna a spegnersi. E finora sia sul fronte ucraino che su quello russo sono mancati segnali chiari per una intesa che possa mettere la parola fine alle ostilità.
Maurizio Stefanini per linkiesta.it del 30 marzo 2021 il 29 aprile 2022.
Come l’Italia divenne Russlandversteher: e questo il soggetto di «Russian Influence on Italian Culture, Academia, and Think Tanks», capitolo sull’Italia del libro Russian Active Measures Yesterday, Today and Tomorrow.
Il libro, pubblicato dalla Columbia University Press, si presenta come una antologia di contribuiti «in cui studiosi di una vasta gamma di discipline condividono le loro prospettive sulle attività segrete russe note come misure attive russe, aiutano i lettori a osservare la profonda influenza dell’azione segreta russa sulle politiche, le culture e la mentalità delle persone degli Stati stranieri e istituzioni sociali, passate e presenti».
«Disinformazione, falsificazioni, grandi processi farsa, cooptazione del mondo accademico occidentale, memoria e guerre cibernetiche e cambiamenti nelle dottrine di sicurezza nazionali e regionali degli Stati presi di mira dalla Russia» sono esaminati attraverso il prisma di nuovi documenti scoperti negli archivi dell’ex Kgb, che mettono in luce la continuità profonda tra i metodi sovietici e quella della Russia di Putin. Non a caso, ex-agente del servizio segreto dell’Urss.
La curatrice Olga Bertelsen e Assistant Professor of Intelligence Studies alla Embry- Riddle Aeronautical University di Prescott, Arizona, e autrice di vari studi sulla storia ucraina. L’autore della prefazione e Jan Goldman: Professor of Intelligence and Security Studies at the Citadel, Charleston, South Carolina, e editor-in-chief of the International Journal of Intelligence and CounterIntelligence.
I due autori del capitolo sull’Italia sono Luigi Sergio Germani, direttore dell’Istituto Gino Germani di Scienze sociali e Studi strategici, esperto di Russia e uno dei sette autori del rapporto dell’Atlantic Council del 2017 The Kremlin’s Trojan Horses 2.0: Russian Influence in Greece, Italy, and Spain ; e Massimiliano Di Pasquale, esperto di Ucraina sulla quale ha appena pubblicato un libro.
Come ricordano appunto Germani e Di Pasquale, il termine «Russlandversteher» e nato nel dibattito politico tedesco recente. Viene reso normalmente con «simpatizzante della Russia», ma più letteralmente e «uno che comprende la Russia».
Nel senso che non solo comprende le ragioni della Russia, ma le ritiene legittime, e ne spiega appunto questa legittimità. In questo testo, pero, il termine ha forse una sfumatura ulteriore. Non si tratta solo di spiegare la legittimità degli interessi russi, ma anche di convincere gli italiani che questi interessi sono complementari a quelli del nostro Paese, o che per difendere gli interessi del nostro Paese ci potrebbe essere utile fare sponda con certi interessi del Cremlino che vengono ad essere coincidenti.
Piu in dettaglio, gli intellettuali e esperti di politica estera filo-russi presenti in Italia sono da Germani e Di Pasquale divisi in due grandi categorie: i neo-Euroasianisti e, appunto, i Russlandversteher.
«I neo-eurasiatici italiani hanno visioni radicali filo-Mosca e anti- occidentali. Sono spesso ammiratori di Aleksandr Dugin, un analista politico russo con stretti legami con il Cremlino, noto per le sue opinioni scioviniste e fasciste. Percepiscono la Russia di Putin come un modello sociale e politico, nonchè un potenziale alleato contro l’Ue e le elite globaliste che avrebbero impoverito l’Italia e l’hanno privata della sua sovranità. I neo- eurasiatici esprimono opinioni radicali anti-Nato e anti-Ue e invocano un’alleanza strategica tra Europa e Russia», spiegano.
«I Russlandversteher, italiani, invece, hanno una posizione filo-russa moderata e pragmatica, spesso basata su considerazioni di realpolitik. Tendono a percepire che: a) la Russia e un’opportunità piuttosto che una minaccia; b) l’Occidente e in gran parte responsabile delle rivoluzioni ucraine e dell’attuale crisi nelle relazioni Russia-Ovest; e c) anche se l’Italia e un membro della Nato e dell’Ue, ha bisogno di avere un ’rapporto speciale’ con la Russia al fine di garanzia nazionale ed energetica dell’Italia».
Anche in questa componente c’è una componente di risentimento per l’Europa a guida tedesca, che spesso si unisce infatti a simpatie per Trump o per la Brexit. Una idea abbastanza diffusa tra i Russlandversteher e pero soprattutto quella secondo cui i veri nemici dell’Occidente sono la Cina e/o l’Islam radicale, piuttosto che Putin.
Putin può invece essere un utile alleato nei loro confronti: una suggestione sempre presente e quella dello schema «triangolare» per cui Kissinger da Segretario di stato di Nixon imposto l’alleanza tra Occidente Cina maoista contro l’Urss, facendo prevalere la convergenza di interessi strategici sulla purezza ideologica. Compito dell’Italia dovrebbe essere dunque anche quello di far capire a Usa e Occidente questa cosa.
Lo studio riconosce che le posizioni del primo tipo sono minoritarie. Sono pero in espansione, e tendono oggi ad essere collocabili in un’area ideologica che si colloca a destra, in contrasto con una storia recente in cui l’ideologia filo-russa era ancorata soprattutto a sinistra.
Il saggio ricostruisce la storia dei sentimenti filo-russi in Italia indietro nel tempo, in cui si ricorda che il 24 ottobre Vittorio Emanuele III e Nicola II firmarono a Racconigi una alleanza tra Italia e Impero Zarista, e anche come al di la degli slogan ufficiali su antibolscevismo e antifascismo Mussolini abbia tentato spesso di fare sponda con Stalin per controbilanciare lo strapotere di Hitler, prima di arrivare alla dichiarazione di guerra. La macchina di propaganda del regime fascista, pronta a pompare le malefatte dei «rossi» in Spagna, tacque ad esempio sull’Holodomor, il genocidio per fame in Ucraina del 1932-33. E anche le relazioni economiche tra Italia fascista e Urss si mantennero sempre floride.
In seguito, nella Prima Repubblica i governi a guida democristiana legarono l’Italia alla Nato e alla Comunità economica europea e i partiti della maggioranza usarono spesso anche la propaganda antisovietica in campagna elettorale, ma da Enrico Mattei a Togliattigrad continuarono a fare affari col blocco comunista in quantità.
Era pero un atteggiamento di fatto filo-russo che non era ostile all’Occidente. Viceversa, il Pci gramsciano e togliattiano tra 1944 e 1989 cerco di costruire una «egemonia culturale» in cui era presente non solo l’esaltazione del socialismo reale, ma anche una continua denigrazione dell’American Way of Life, e poi in generale del «consumismo occidentale».
Quello che dopo il 1991 si caratterizza come «eurasianismo» riprende in pratica questo humus culturale, facendolo pero virare da sinistra a destra e dal rosso al rossobruno.
Restano l’avversione verso il capitalismo, la democrazia liberale, la cultura Usa, l’integrazione europea. Piuttosto che basati su slogan come il no a imperialismo e sfruttamento del proletariato, pero, vengono ancorati a temi come la difesa dei valori cristiani tradizionali contro la globalizzazione, l’immigrazione, il femminismo, le teorie di gender e le lotte Lgbt.
In effetti questo interesse anticipa l’arrivo al potere di Putin, e anticipa anche la ripresa di «misure attive» da parte dei Servizi russi per influenzare l’opinione pubblica occidentale dopo la stasi del periodo di Eltsin.
Sono piuttosto certi ambienti di estrema destra a scommettere che dopo il collasso del comunismo il previsto fallimento della transizione eltsiniana potrà fare della Russia un terreno fertile per le loro idee, ed a prendere contatto con personaggi come il già citato Dugin, Aleksandr Prokhanov, Sergei Baburin, Sergei Glaziev o Vladimir Zhirinovsky.
Uno dei pionieri italiani di questo movimento e individuato dallo studio in Claudio Mutti: ex-attivista di estrema destra, esperto di lingue Ugro-Finniche, e fondatore delle Edizioni all’Insegna del Veltro, con cui oltre a testi di Corneliu Codreanu, Julius Evola, Pierre Drieu La Rochelle e anche Adolf Hitler pubblica anche, nel 1991, la prima traduzione in italiano di una antologia di saggi di Dugin.
Altri personaggi di riferimento sono gli ex-dirigenti del Msi Carlo Terracciano e Maurizio Murelli, e l’esperto di geopolitica Tiberio Graziani. Il loro momento arriva in particolare al tempo dell’intervento di George W.Bush in Iraq, quando la loro campagna anti-Usa riesce a collegarsi a settori di estrema sinistra del cosiddetto Campo Antimperialista. Su questa ondata nel 2004 Mutti e Graziani fondano Eurasia. Rivista di studi geopolitici che apre il suo primo numero con un saggio di Dugin.
Varie intelligenze di questa area iniziano a penetrare anche nella Lega, specie dopo che nel 1999 Umberto Bossi in occasione della crisi del Kosovo ha preso posizioni filo-serbe. In particolare a lavorare per il collegamento tra eurasianismo, Lega e Dugin e il giornalista Gianluca Savoini.
Nel 2001 il processo si arresta momentaneamente, quando la Lega di Bossi decide di tornare con Berlusconi in una alleanza occidentalista, e dopo gli attentati alle Torri Gemelle appoggia anche l’intervento Usa in Afghanistan. Ma Berlusconi attraverso il rapporto personale che stabilisce con Putin ha a sua volta poi una sterzata filo-russa, anche se più del tipo Russlandversteher.
L’animosità nel centro-destra italiano verso i tradizionali alleati occidentali cresce dopo che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sono indicati come mandanti di un golpe anti- berlusconiano, si accresce quando la Primavera Araba crea un contraccolpo di rifugiati che investe in pieno l’Italia, e tocca il parossismo con una crisi economica il cui peggioramento e imputato alle rigidità tedesche.
Su questa base il 15 dicembre 2013 a Torino Salvini e eletto segretario di una Lega lanciata verso una nuova proiezioni nazionale e sovranista, in un Congresso dove tra gli ospiti d’onore sono Viktor Zubarev e Alexei Komov: rispettivamente deputato del partito putiniano Russia Unita e fiduciario dell’oligarca Konstantin Malofeev. Il ruolo di Savoini e della sua Associazione Culturale Lombardia-Russia cresce, prima di andare a sbattere sulle intercettazioni dell’Hotel Metropol.
Nel frattempo, dopo la rivoluzione colorata in Georgia del 2003 e quella in Ucraina del 2004 Putin risponde richiamando in vita e anche modernizzano l’apparato sulle «misure attive» dell’epoca sovietica, anche appoggiandovi strumenti nuovi come il canale all-news Russia Today, l’agenzia Sputnik e una serie di fondazioni e istituti.
Pure nel 2004 il 28 novembre esce sul Corriere della Sera un articolo di Sergio Romano che si intitola «La spina di Putin», che chiede di tener conto degli interessi di Putin in Ucraina e che e considerato un po’ una prima uscita allo scoperto del mondo Russlandversteheritaliano.
Secondo Germani e Di Pasquale, anche la rivista di geopolitica italiana mainstream Limes a partire dal numero 3 del 2008 Progetto Russia inizia a diventare sempre piu Russlandversteher, con vari articoli che arrivano addirittura a appoggiare la spartizione di Ucraina e Georgia, anche se nella rivista continuano a essere pubblicati articoli di differente orientamento.
Nel 2009 torna alla carica Sergio Romano, con la prefazione al libro di Edward Lucas sulla Nuova Guerra Fredda pubblicato da Bocconi University Pressin cui gli dà del «russofobo». In particolare dopo la Rivolta di Maidan si vede che mentre su opposte sponde politiche il Giornale e il Manifesto si schierano compattamente contro la protesta ucraina, negli stessi Corriere della Sera e Repubblica il numero degli articoli filo-Putin cresce, pur venendo sempre bilanciato con «pezzi» di diverso orientamento.
E anche Massimo Cacciari inizia a fare interventi Russlandversteher. Secondo Oksana Pakhlyovska, docente di lingua e letteratura ucraina alla Sapienza, tra il 2014 e il 2015 ben 35 libri sull’Ucraina vengono pubblicati in Italia. Alcuni sono di autori sconosciuti, altri di accademici affermati, ma la gran parte sono anti-Maidan.
In questo clima anche l’Euroasianismo esce dalla marginalita per entrare nel dibattito mainstream, per almeno in alcune sue tematiche. Specie dopo che alle elezioni del 2018 in Italia primi due partiti diventano forze politiche che a questo humus hanno attinto, come il Movimento Cinque Stelle e la Lega.
Tra i personaggi indicati nel saggio come autori di libri e pubblicazioni ispirati a tali tematiche sono il marxista dei dibattiti CasaPound Diego Fusaro, l’ex-inviato nell’Urss e poi teorico del complotto dell’11 settembre Giulietto Chiesa, l’autore della “Educazione Siberiana” Nicolai Lilin, il leader di CasaPound Simone Di Stefano, l’ex-seguace di Toni Negri Giuseppe Zambon, l’ex-direttore di Rai 2 Carlo Freccero, il docente di storia del Caucaso a Ca’ Foscari Aldo Ferrari, il reporter di guerra di destra Fausto Biloslavo, lo storico cattolico e medioevista Franco Cardini, quel Sebastiano Caputo direttore del giornale on line L’intellettuale dissidente il cui programma Rai annunciato a inizio 2019 fu bloccato per le proteste della comunità ebraica riguardo alle sue posizioni pro-Iran e pro-Hezbollah, il noto complottista e collaboratore di Sputnik Maurizio Blondet, l’ex-vicedirettore di Famiglia Cristiana Fulvio Scaglione.
Ancora piu importante, pero, e una rete di connessione con think tank e università, che partono evidentemente dall’interesse anche legittimo a coltivare determinate relazioni: specie in un momento in cui trovare finanziamenti non e particolarmente facile.
La Fondazione Russkii Mir, strettamente collegata al Cremlino, ha ad esempio centri di cultura russa alle Università di Milano, Pisa e Orientale di Napoli.
A sua volta l’Istituto di Stato di Mosca di Relazioni Internazionali ha una partnership con la Luiss che gestisce un doppio Master in collaborazione anche con Enel, e l’Istituto ha un simile rapporto con doppio Master anche con la Sapienza, ed un altro rapporto ancora con Urbino.
Germani e Di Pasquale osservano come vari docenti legati a questi rapporti alla Luiss e alla Sapienza hanno espresso punti di vista pesantemente anti-Kiev, fino a appoggiare una spartizione dell’Ucraina. La Sapienza inoltre ha una relazione di collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) stabilito nel 2010 da Tiberio Graziani, che ha contati con varie entità russe ed e anche finanziato dal ministero degli Esteri italiano. L’IsAG ha organizzato vari eventii per spiegare che Putin e calunniato dai russofobi, e Graziani e spesso intervistato da Sputnik.
C’è poi il caso di Ca’ Foscari a Venezia, che nel 2014 ha nominato professore onorario Vladimir Medinskii: non solo ministro della Cultura russo, ma fautore della riabilitazione di Stalin. Perfino la Sioi, storica Societa Italiana per l’Organizzazione Internazionale tradizionale centro di formazione per aspiranti alla carriera diplomatica ora presieduta da Franco Frattini, il 24 settembre 2015 organizzo una conferenza sulla crisi ucraina in cui c’erano vari esperti italiani e russi, ma neanche un ucraino.
Il caso di Pechino e la politica italiana degli ultimi venti anni. Beppe Severgnini / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.
La politica italiana, negli ultimi vent’anni, s’è presa diverse cotte all’estero. Come un adolescente in vacanza-studio. Il problema è che i governanti italiani non erano - e sono - teenager. Berlusconi con George W. Bush, Renzi con Obama, Giuseppi Conte con Trump; lo stesso Berlusconi e poi Salvini con Putin. Il leader della Lega s’è preso un’imbarcata anche per Orban e Marin le Pen.
Ma il caso più affascinante è la Cina. Il governo Cinque stelle - il ministro degli esteri Di Maio, in particolare - era chiaramente affascinato dall’efficienza della seconda potenza mondiale. Fascino comprensibile. La Cina è formidabile, e ha una classe dirigente formidabile, frutto di selezione e cooptazione. Ma resta un regime, e commette gli errori dei regimi. Il potere nelle mani di una persona sola, senza limiti di tempo. La segretezza paranoica (costata cara a tutti durante il Covid). La disciplina assoluta, che sta rallentato l’innovazione (pensate a Tencent o Alibaba).
Pechino è contraria alle sanzioni alla Russia. Lo ha ribadito poche ore fa Xi Jinping al Forum Boao per l’Asia, sull’isola di Hainan; e non ha mai condannato la guerra d’aggressione di Putin. Domanda: ma gli conviene? La Cina soffrirà più di tutti il rallentamento del commercio mondiale. E come guarderemo proposte cinesi come la nuova Via della Seta, sapendo che chi la propone tollera i metodi di Putin? Con diffidenza, come minimo. Pensate, invece, quanto guadagnerebbe la Cina se si ponesse come mediatore e trovasse una soluzione per la guerra in Ucraina. Perché non ci prova? Mistero. Ministro Di Maio, lei ha un’idea?
Finto potere. Il livello del dibattito sull’Ucraina dimostra che il problema della politica italiana non erano i politici. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.
Sarà stato anche per la posizione imbarazzante in cui le passate dichiarazioni d’amore per Putin avevano messo molti di loro, sta di fatto che gran parte dei nostri rappresentanti, sulla guerra, non ha dato un cattivo spettacolo. Eppure la qualità del dibattito si è persino abbassata.
Il livello del dibattito che si sta svolgendo sui giornali e in televisione sulla guerra in Ucraina consente di risolvere definitivamente almeno uno dei più antichi dilemmi della politica italiana: non erano i politici il problema.
Da oltre trent’anni – in realtà da molto prima, ma mi riferisco qui alle manifestazioni più estreme del fenomeno, quando era ormai arrivato al parossismo – la stampa ci ha abituati a giudizi pesantissimi sulla politica e sui politici in generale, come dimostra già di per sé l’abuso dell’antica espressione «classe politica», poi persino surclassata, perché al peggio non c’è mai fine, dalla più recente «casta».
Ai pochi che in questi tre decenni hanno provato a denunciare il fenomeno, indicando qui l’origine dell’antipolitica e del populismo, e cioè in una cultura anarcoide, sovversivista, pseudo-rivoluzionaria e in realtà ultra-reazionaria del giornalismo italiano (per essere precisi, dal linguaggio e dalle pose rivoluzionarie, e dalla prassi profondamente reazionaria), la replica è stata sempre la stessa: ma come fai a difendere «questa politica»?
Per una diabolica ironia della storia, il trionfo del populismo su entrambi i fronti dell’emiciclo parlamentare alle elezioni del 2018, con lo spettacolo offerto dai nuovi rappresentanti del popolo, figli naturali di quella lunga predicazione, faceva proprio venir voglia di dar loro ragione. L’andamento di tutta la prima parte di questa folle legislatura, dal governo gialloverde al governo giallorosso, rendeva davvero difficile resistere alla tentazione di dire che sì, certo che avevano ragione: ma quale destra e sinistra, erano tutti uguali. Con tante scuse ad Alberto Sordi (che nemmeno ci meritavamo, perché ci meritavamo di molto peggio, e infatti ci siamo beccati Beppe Grillo).
Ecco però che adesso, visto il livello del dibattito sulla guerra in Ucraina, la solita discussione su chi avesse cominciato prima, su quale fosse la causa e quale la conseguenza, cosa il termometro e cosa la febbre, ha trovato una risposta chiara e inequivocabile. Perché davanti alla tragedia dell’Ucraina – a differenza di quanto accaduto con il Covid – anche i leader politici più spregiudicati si sono dati una regolata. Sarà stato anche per la posizione imbarazzante in cui le passate dichiarazioni d’amore per Putin avevano messo molti di loro, sta di fatto che gran parte dei nostri politici, almeno su questo, non ha dato un cattivo spettacolo.
Il risultato, come è ormai sotto gli occhi di tutti, non è stato tuttavia un innalzamento del livello del dibattito. Al contrario. Per alimentare il solito circo, cioè quello stesso spettacolo che il giorno dopo si deprecherà negli editoriali e nei libri sulla penosa qualità della nostra «classe politica», si è fatto ricorso ai peggiori fondi di magazzino sul mercato dell’opinionismo, tra giovani picchiatelli che in condizioni normali nessuno avrebbe invitato nemmeno per un caffè e vecchie cariatidi dell’accademia vittime del proprio narcisismo, e in molti casi di un’evidente dissonanza cognitiva, cui si sono spalancate pagine di giornale e salotti tv. Il risultato è un dibattito che non ha paragoni nell’occidente democratico. E se questa è la semina, non possiamo stupirci di quello che raccogliamo alle elezioni.
Matteo Fraschini per “Avvenire” il 20 aprile 2022.
Nell'ultima dimostrazione di appoggio alla Russia da parte di uno Stato africano, decine di volontari hanno fatto la fila ieri fuori dall'ambasciata russa. Vogliono arruolarsi per combattere contro l'Ucraina.
«Non abbiamo programmato alcun reclutamento di etiopi - ha detto ieri Maria Chernukhina, portavoce dell'ambasciata russa nella capitale, Addis Abeba -. La folla voleva solo dimostrarci della solidarietà». L'Etiopia è uno dei Paesi africani dove la Russia sta espandendo la sua influenza.
Un anno dopo aver vinto il premio Nobel per la pace nel 2019 per aver messo fine alla guerra con l'Eritrea, il primo ministro etiope, Abiy Ahmed, ha attaccato la regione del Tigrai. Le violenze tuttora in corso hanno provocato una forte disapprovazione da parte degli Stati Uniti e di gran parte dell'Occidente verso il leader Etiope.
«L'Etiopia si è astenuta dal condannare l'invasione russa in Ucraina e ha votato contro la sospensione del Paese presso il Consiglio dei diritti umani dell'Onu - affermano gli esperti -. Inoltre a settembre del 2021 Mosca ha firmato un accordo di cooperazione militare con Addis Abeba ».
Dietro le quinte sono forti le preoccupazioni riguardo al potenziale reclutamento da parte dei russi di mercenari africani. Il presidente Vladimir Putin si è infatti occupato di stringere legami sempre più forti non solo con il Nordafrica, ma anche con diversi Paesi dell'Africa subsahariana. La giunta militare in Mali è appoggiata dal 2021 dai militari della società privata russa, Wagner, lo stesso avviene da anni in Mozambico e Centrafrica. L'Eritrea è l'unico Stato africano ad aver votato contro entrambe le recenti risoluzioni dell'Onu mostrando una particolare affinità con il regime russo.
Il Sudan sta stipulando da alcune settimane un accordo per una nuova base navale russa da costruire sulla costa sudanese del Mar Rosso. Altri Paesi come l'Angola e il Sudafrica hanno una relazione particolare con Mosca che dura dai tempi della guerra fredda quando anche il continente africano era terreno di contesa tra Stati Uniti e Russia. Gli emissari del Cremlino, militari, diplomatici e privati, sono inoltre presenti anche in Burundi, Guinea (Conakry) e Senegal.
Il Sud del mondo diffida della propaganda di guerra Usa. Piccole Note il 20 aprile 2022 su Il Giornale.
L’Occidente stenta a coinvolgere nella campagna anti-russa i Paesi asiatici e africani, al netto dei suoi più stretti alleati. Lo tematizza Trita Parsi sul network americano MSNBC in un articolo alquanto interessante, nel quale spiega che, sebbene tali Paesi sappiano distinguere tra aggredito e aggressore, nondimeno non hanno intenzione di saltare sul glorioso carro della Nato.
Tra questi si annovera l’India, legata alla Russia sin dai tempi della Guerra Fredda e governata da un partito che ricorda bene i tempi nefasti del colonialismo britannico, e i Paesi del Golfo guidati da Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che si sono allontanati nettamente da Washington in favore di Mosca.
Secondo la cronista di MSNBC ciò sarebbe dovuto alla ritrosia Usa ad abbracciare la loro vis anti-iraniana, spiegazione fallace data la nota prossimità di Mosca a Teheran, così che occorre trovare ragioni altrove e più precisamente nella diffidenza di questi Paesi per la propensione ai regime-change degli Stati Uniti, che potrebbe interessarli molto da vicino in un prossimo futuro.
Per inciso, da quando i sauditi si sono smarcati da Washington hanno dato vita a una distensione effettiva in Yemen, dove al primo reale cessate il fuoco dall’inizio delle ostilità, sette anni ormai, hanno fatto seguito le dimissioni del presidente filo-saudita Abd Rabbo Mansour Hadi, che ha passato i poteri a un Consiglio presidenziale incaricato di negoziare con i ribelli houti un prolungamento della tregua (insomma, da quando gli americani sono stati cacciati dal Golfo, è fiorita una debole speranza di pace in questo martoriato Paese… lo segnaliamo per evidenziare l’ipocrisia che Washington sta dispiegando per le sofferenze del popolo ucraino).
Non solo l’India e i Paesi del Golfo, anche una moltitudine di stati africani e asiatici hanno espresso la loro riluttanza a intrupparsi nella campagna di contrasto alla Russia.
Secondo la cronista della MSNBC, la diffidenza di tali Paesi ha una motivazione profonda e nasce dalla vera natura della guerra in atto, infatti, scrive la Parsi, “questa guerra in definitiva non riguarda l’Ucraina, ma la sopravvivenza dell'”ordine internazionale basato sulle regole'”, come ha dichiarato più volte Biden e come affermano un po’ tutti gli analisti. Un ordine che sarebbe stato sfidato dalla Russia (e dalla Cina).
“E qui sta la disconnessione con gran parte del Sud del mondo”. infatti, “la richiesta di fare enormi sacrifici per staccarsi da Mosca”, da cui comprano alimenti, energia e altro, per sostenere l’ordine basato sulle regole “ha generato una reazione allergica [in molti Paesi]. Quell’ordine, infatti, non è stato mai basato sulle regole, ha piuttosto permesso agli Stati Uniti di violare impunemente il diritto internazionale”.
In questa occasione, annota la Paesi, l’Occidente hanno incontrato una “sordità° nei propri interlocutori mai sperimentata in precedenza e difficilmente otterranno “il sostegno dei paesi che troppo spesso hanno sperimentato i lati peggiori dell’ordine internazionale”.
“[…] Molti di questi stati vedono una flagrante ipocrisia nell’inquadrare la guerra in Ucraina nei termini della sopravvivenza dell’ordine basato sulle regole. Dal loro punto di vista, nessun altro paese o blocco ha minato il diritto internazionale, le norme o l’ordine basato sulle regole più degli Stati Uniti e dell’Occidente”.
“Non c’è scarsità di esempi in tal senso. Negli ultimi anni l’America ha violato l’ordine basato sulle regole quando Donald Trump si è ritirato dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite perché aveva criticato il trattamento riservato da Israele ai palestinesi; inoltre si è ritirato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità durante la pandemia Covid e ha sanzionato i responsabili della Corte penale internazionale perché tentavano di indagare sui crimini di guerra americani in Afghanistan. (l’amministrazione Biden ora chiede alla Corte di indagare sui crimini di guerra russi in Ucraina…)”.
“C’è anche la palese illegalità dell’invasione dell’Iraq da parte di George W. Bush, Il regime-change di Obama in Libia , il continuo sostegno di Stati Uniti e Regno Unito alla guerra saudita in Yemen (che ha portato 13 milioni di persone alla fame): inoltre la celebrazione della resistenza armata ucraina contro gli invasori russi stride con la condanna della resistenza palestinese contro l’occupazione israeliana e con il contrasto dell’opposizione economica non violenta a quell’occupazione decennale. E poi c’è la ‘guerra globale al terrore’, che ha destabilizzato gran parte del Medio Oriente e del Nord Africa e ha fatto più del doppio delle vittime dagli attentati dell’11 settembre”.
“In realtà, anche se gli Stati Uniti hanno svolto un ruolo determinante nello stabilire le regole e le norme dell’ordine stabilitosi nel secondo dopoguerra, hanno iniziato quasi immediatamente a infrangerle . Durante i suoi due mandati, il presidente Dwight D. Eisenhower ha autorizzato non meno di 104 operazioni segrete volte a rovesciare governi e ad armare rivolte”.
“Ma ora gli Stati Uniti chiedono che i paesi del Sud del mondo facciano sacrifici enormi e costosi – con poco riguardo verso le loro vulnerabilità e la loro sicurezza – per salvare un ordine che gli stessi Stati Uniti hanno eroso per primi. Tornare a un ordine in cui gli Stati Uniti possono continuare ad agire al di fuori del diritto internazionale equivale a chiedere al Sud del mondo di fare sacrifici insopportabili per sostenere l’eccezionalismo americano“.
Questo il modo con cui il Sud del mondo vede non tanto il conflitto ucraino, quanto l’ingaggio Usa e Nato nello stesso. Tali resistenze stanno irritando l’Occidente e in genere tale irritazione non porta bene agli interessati. Così, per porre fine alle sofferenze del popolo ucraino, c’è il rischio che altro sangue sia sparso altrove.
A tale scopo si cercherà di usare una leva potente, cioè la fame, dal momento che le sanzioni anti-russe stanno creando povertà e carestia globale, come da allarme delle Nazioni Unite. Non è un esempio casuale, dal momento che la primavera araba egiziana iniziò proprio così. È solo una delle tante sfaccettature dell’attuale guerra mondiale.
Se l'India rinnega l'Occidente. Vittorio Macioce su Il Giornale il 2 aprile 2022.
Biden e il suo governo si ritrovano spesso di questi tempi a contare i propri alleati e tra quelli di cui sta diventando difficile fidarsi ricorre spesso il nome dell'India. Non è più un sospetto. La sorpresa magari c'è stata quando Nuova Delhi, con Pechino e Riad, si è astenuta all'Onu sulla mozione di contro Putin per l'invasione in Ucraina. Adesso c'è solo irritazione. Il premier Narendra Modi ha ricevuto con tutti gli onori il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov. Non è stata chiaramente solo una visita di cortesia. Mosca punta molto sull'India per rompere il suo isolamento internazionale. È una sponda importante, economica e diplomatica. La prima mossa riguarda gas e petrolio, da vendere a prezzo di saldo, pagando se non in rubli almeno in rupie, con uno sconto mai visto e una fornitura di almeno quindici milioni di barili. L'idea di pagare con la moneta indiana servirebbe a non violare le sanzioni. È di fatto un trucco. Washington non l'ha presa affatto bene e ha detto chiaramente, con le parole del vice presidente per la sicurezza Daleep Singh (anche lui in visita nel subcontinente), che ci sarebbero conseguenze. L'altra intesa riguarda invece le trattative di pace. Lavrov ha indicato il governo indiano come mediatore privilegiato, dando così all'India un ruolo strategico e allo stesso tempo ridimensionando l'Europa in una guerra che si combatte davanti alle porte di casa. C'è chi ha anche notato il diverso approccio di Modi con Liz Truss, ministro degli Esteri britannico che è stata liquidata con una pacca sulla spalla e nessuna promessa. È chiaro quindi che l'India punti a smarcarsi dall'orbita occidentale, tutto questo nonostante il Quad, il trattato strategico e militare tra Usa, India, Australia e Giappone per contenere le ambizioni cinesi nel quadrante Indo-Pacifico. È proprio la distensione con Pechino che preoccupa Washington. Il clima è cambiato. Le schermaglie sul confine himalayano sono un fresco ricordo. Nuova Delhi teme che gli Stati Uniti non siano poi così affidabili nel difendere i propri alleati e così sta spegnendo le tensioni con la Cina. Non ha condannato, solo per fare un esempio, la posizione cinese su Taiwan, Xinjiang e Hong Kong. E a Pechino piace il silenzio indiano su temi per cui riceve pressioni dall'Occidente. È qui allora il nucleo di una diversa strategia che la guerra in Ucraina sta rendendo sempre più evidente. Cosa accade se Cina, Russia, India e Arabia Saudita, così diverse tra loro, si allineano in una sorta di fronte anti occidentale? Non sarebbe un'alleanza militare o economica, ma una resistenza culturale all'ordine mondiale che si è sviluppato dopo la fine della Guerra Fredda. È una rivoluzione copernicana.
Filippo Fiorini per “La Stampa” il 4 aprile 2022.
Pochi ma clamorosi, i manifestanti no Green Pass di Modena hanno riaperto la stagione delle proteste, aggiungendo alle loro solite insegne anche quella «Z» che abbiamo imparato a vedere verniciata su carri armati russi e che ormai è divenuta un simbolo di supporto a Putin e all'invasione dell'Ucraina.
«Dalla guerra alla pandemia, una sola strategia», recitava il volantino che ieri l'altro ha riunito in piazza una cinquantina di appartenenti al gruppo Modena Libera, almeno due dei quali vestivano una pettorina di plastica con una grande «Z» al centro, mentre una terza persona sventolava una bandiera italiana con la stessa lettera marcata sopra.
Davanti alla richiesta della Polizia di liberarsene prima di incominciare il corteo, gli attivisti hanno accettato, conservando però il messaggio filo-russo nei loro slogan, tra i quali è stato presente, secondo i testimoni, un coro in cui si inneggiava: «Zeta, zeta!».
«A livello mondiale la Z è diventata il simbolo della resistenza al mondialismo. Il simbolo di una concezione multipolare e non unipolare», dice Federica Francesconi, che si definisce docente, scrittrice, studiosa di esoterismo e alchimia, una delle organizzatrici della manifestazione.
«Un simbolo molto più antico di quando l'abbiamo visto apparire sui mezzi russi», impegnati in quella che definisce «un'avanzata sull'Ucraina» o al massimo «un attacco bilaterale iniziato otto anni fa», in riferimento alla guerra di Crimea e del Donbass del 2014.
Il significato originale del marchio che già alla vigilia dell'invasione del 24 febbraio scorso compariva sui veicoli delle forze russe, resta ancora oggetto di dibattito: il quotidiano inglese The Guardian sostiene che identifichi le armate schierate sul fronte ovest.
A valle della sua adozione da parte di chi in Russia e all'estero appoggia Putin, il ministero della Difesa russo ha detto invece che la «Z» è l'iniziale della frase: «Za pobedu», «Per la vittoria».
Basta d'altronde una carrellata sugli account social di chi partecipa ai gruppi di Modena Libera per incontrare numerose manifestazioni di stima alla Federazione Russa e al suo presidente, o interventi per sottolineare la necessità di «denazificare l'Ucraina».
Poi, ci si allarga anche all'Italia: «Lottiamo per un futuro senza la dittatura nazi sanitaria e senza ipocrisie», diceva per esempio lo stesso volantino che sabato ha segnato la ripresa delle proteste, dopo lo stop invernale causato dalle restrizioni anti Covid.
Danilo Taino per il "Corriere della Sera” il 5 aprile 2022.
Il 53% di Viktor Orbán ha scioccato l'Europa. E il suo ringraziamento agli ungheresi, nella notte delle elezioni, ha aggiunto sconcerto: ha detto di avere vinto anche contro Zelensky, nelle ore in cui si scoprivano gli orrori di Bucha.
Come ce la si cava, ora, in Europa, con un primo ministro da 12 anni che trionfa per la quarta volta, con il 53% dei voti, sulla base di politiche illiberali, contro la Ue e con una posizione gradita a Putin sull'invasione dell'Ucraina?
La questione è seria e a Bruxelles e nelle cancellerie europee si è aperta la riflessione sull'atteggiamento da tenere.
Duro, più duro di prima, nel timore che Orbán possa essere una quinta colonna di Mosca tra i 27? Oppure prendere atto del risultato di domenica scorsa a Budapest e tenere una posizione articolata, pragmatica se si vuole, nel momento in cui non ci si deve dividere e distrarre di fronte all'aggressione del Cremlino?
Un dato di fatto è che Orbán non ha rubato la vittoria. Meglio: in anni di potere, ha preso il controllo, anche con la collaborazione dei suoi soci, del sistema dei media; ha depotenziato l'indipendenza della magistratura; ha ridisegnato i collegi elettorali a favore del suo partito, Fidesz; ha creato un sistema di corruzione e di potere illiberale, come egli stesso si vanta di avere fatto.
E per queste ragioni la Ue ha con Budapest un contenzioso aperto che l'ha portata a non erogare all'Ungheria i denari del Recovery Fund. Questa struttura di potere ha certamente determinato la dimensione della sua vittoria, ha reso ciclopica l'impresa dell'opposizione che l'ha sfidato.
Ma chiunque abbia seguito la campagna elettorale e il voto ha constatato che frotte di ungheresi lo seguono, che il suo consenso popolare è reale.
Ora, dal punto di vista dell'Unione europea, decidere di sanzionare ulteriormente Orbán significherebbe sanzionare l'Ungheria che lo ha votato in massa. Quando la Ue fece qualcosa del genere, nel 2000, contro l'Austria che aveva nel governo l'estrema destra di Jörg Haider, dopo pochi mesi dovette battere in ritirata: due terzi degli austriaci si opposero alle sanzioni.
C'è un'altra considerazione che Bruxelles dovrebbe forse fare. Il fatto che gli ungheresi abbiano votato Orbán nonostante sia il politico europeo più vicino a Vladimir Putin è un'eccezione magiara (e serba, come si è visto sempre domenica alle elezioni a Belgrado) oppure è il segno di un desiderio esteso anche in altri elettorati di tenersi lontani dalla guerra in Ucraina? Difficile rispondere: probabilmente, le elezioni francesi di questo aprile diranno qualcosa. Ma la questione esiste.
Ciò non significa che il «democratico illiberale» di Budapest vada lasciato correre nei corridoi della Ue. Per quanto forte sia in patria, quasi padrone dell'Ungheria, Orbán è isolato fuori dal Paese: la sua posizione sull'invasione dell'Ucraina gli ha tolto anche l'alleanza con la Polonia e con i Paesi del gruppo di Visegrád. Il primo obiettivo - si dice a Bruxelles - è continuare a isolarlo e impedire che interferisca su ciò che al momento più conta, le decisioni europee sulle sanzioni a Mosca, rispetto alle quali è contrario ma finora non ha messo veti.
Se lo facesse, diventerebbe davvero una quinta colonna di Putin, il quale ieri si è congratulato con lui per la vittoria e si è augurato «lo sviluppo ulteriore delle relazioni».
Sarebbe da neutralizzare. Per il resto, i prossimi quattro anni saranno segnati da un rapporto difficile tra Budapest e Bruxelles, senza una soluzione a breve. Per parte sua, Orbán, rischia di chiudersi ulteriormente in un nazionalismo apprezzato solo dai non certo affidabili uomini forti di Mosca e Pechino, con i quali ha ottime relazioni. Anni complicati, quelli in arrivo. D'altra parte, lo saranno per tutto e tutti. Altro che Orbán.
L'accusa di Kiev: "L'Ungheria sapeva in anticipo dell'invasione russa". Federico Giuliani il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.
Il capo del Consiglio di Sicurezza di Kiev, Oleksiy Danilov, accusa l'Ungheria: sarebbe stata informata in anticipo dalla Russia della sua volontà di invadere l'Ucraina. Budapest avrebbe addirittura valutato un'operazione per annettere la Transcarpazia.
Arrivano importanti novità da Mariupol, dove alle 7 ora locale (le 8 in Italia) verrà aperto un nuovo corridoio umanitario per evacuare i civili rimasti in loco. Intanto gli Stati Uniti hanno analizzato gli ultimi movimenti dei russi sul campo di battaglia parlando di "progressi minimi" nel Donbass, mentre Kiev ha lanciato pesanti accuse all'indirizzo dell'Ungheria.
L'evacuazione di Mariupol
Andiamo con ordine. A notte fonda il consiglio municipale di Mariupol ha informato che verrà aperto un nuovo corridoio umanitario per evacuare i civili dalla città. "Con il sostegno delle Nazioni Unite e della Croce rossa, il governo ucraino continuerà a evacuare i civili a partire dalle 7:00 ora locale", hanno affermato le autorità ucraine.
Nel frattempo i primi 100 ucraini evacuati dall'acciaieria Azovstal sono arrivati, nella tarda serata di ieri, nella città di Zaporizhzhia. "Si tratta - viene spiegato in un comunicato diramato dai media - principalmente di donne, bambini e anziani, che ora avranno accesso a cure mediche, cibo, medicine e assistenza psicologica".
Gli Stati Uniti hanno accolto con favore le notizie secondo cui "alcuni civili sono stati in grado di evacuare Mariupol" e stanno incoraggiando "i continui sforzi" per consentire ai cittadini di lasciare la città portuale meridionale e altre città sotto assedio da parte delle forze russe. "Vogliamo assicurarci che il limitato accesso umanitario che abbiamo visto nelle ultime ore non sia fugace. Ciò dimostrerebbe che potrebbe esserci un genuino intento umanitario dietro questa evacuazione e non solo un altro vile tentativo da parte del Cremlino di cambiare la narrativa, per ottenere una vittoria di pubbliche relazioni", ha spiegato alla stampa il portavoce del dipartimento di Stato Usa, Ned Price.
L'accusa di Kiev all'Ungheria
Intanto, secondo quanto riportato dal Kyiv Independent, l'Ungheria sarebbe stata informata in anticipo dalla Russia della sua volontà di invadere l'Ucraina. Il media ucraino ha citato il capo del Consiglio di Sicurezza di Kiev, Oleksiy Danilov, facendo notare come il primo febbraio scorso Viktor Orban si sia recato a Mosca in visita da Vladimir Putin.
Successivamente, le autorità ungheresi si sono pubblicamente opposte all'imposizione di sanzioni alla Russia. Danilov, poi, a una domanda sulla possibilità che Budapest blocchi un'eventuale adesione di Kiev alla Nato, ha risposto che non solo il premier magiaro Orban, sarebbe stato informato in anticipo da Putin dell'invasione ma che addirittura l'esercito di Budapest avrebbe valutato un'operazione per annettere la Transcarpazia nel caso di un rapido successo della campagna russa.
"L'Ungheria, che dichiara apertamente la sua cooperazione con la Russia, era stata avvertita in anticipo da Putin che ci sarebbe stato un attacco al nostro Paese", ha detto Danilov, "per qualche ragione, pensava di poter impadronirsi di parte del nostro territorio". Alcuni media ucraini hanno ricordato che il 1 febbraio, tre settimane prima dell'invasione dell'Ucraina, Putin aveva accolto Orban al Cremlino e che il 22 febbraio, due giorni prima dell'attacco russo, l'Ungheria aveva annunciato un trasferimento di truppe al confine occidentale dell'Ucraina.
Le informazioni in mano agli Usa
Sul campo di battaglia, le forze russe nella regione del Donbass starebbero compiendo "progressi minimi, hanno il morale basso e continuano ad avere problemi logistici". Lo sostiene un altro funzionario del Pentagono, che ha inoltre aggiunto come gli ucraini abbiano ancora il controllo di Kharkiv. Le forze di Kiev "hanno svolto un ottimo lavoro nelle ultime 24-48 ore e sono riusciti a spingere i russi a circa 40 km a est di Kharkiv", ha spiegato la fonte. Quanto a Mariupol, il Pentagono ha constatato che la città continua a subire attacchi aerei da parte delle forze russe.
Sempre gli Stati Uniti sarebbero inoltre in possesso di informazioni di intelligence "altamente credibili" secondo cui la Russia cercherà di annettere le regioni ucraine di Donetsk e Luhansk "all'incirca entro metà maggio". Secondo Michael Carpenter, ambasciatore Usa presso l'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), Mosca avrebbe intenzione di creare una repubblica popolare sul modello di quelle nel Donbass anche nella regione di Kherson.
(ANSA il 25 luglio 2022) - Una "mescolanza di razze" è il vero pericolo della migrazione di massa. Lo ha detto il premier ungherese Viktor Orban al Tusvanyos Summer, in Romania, secondo il testo del suo intervento pubblicato dal giornale Nepszava.
La migrazione incontrollata rappresenta una minaccia permanente, ha sostenuto Orban, secondo cui i popoli dell'Europa occidentale ormai "si mescolano" con razze extra-europee, mentre gli ungheresi "non vogliono mescolarsi. Entro il 2050, in Europa occidentale non esisteranno più nazioni, ma solo una popolazione incrociata. Noi, qui, nel bacino dei Carpazi, lottiamo contro un destino simile".
"Se non avremo una svolta demografica, la nostra popolazione sarà sostituita presto da stranieri", ha aggiunto Orban. Nella prospettiva del premier ungherese, l'Occidente è in declino, la sua spinta propulsiva si starebbe esaurendo, mentre "il vero Occidente, l'Europa cristiana" sarebbe rappresentata da politici sovranisti come lui.
"È un vero discorso nazista", ha commentato lo storico Krisztian Ungvary. "Orban vuole far restare l'Ungheria fuori dalla guerra in Ucraina, dalle migrazioni, dalla tassa minima globale e dalla recessione economica, ma con questi interventi razzisti può finire solo presto fuori dall'Ue", ha rilevato il noto esperto di affari internazionali Istvan Szent-Ivanyi.
Da open.online il 15 settembre 2021.
Il Parlamento Europeo ha votato un rapporto di condanna all’Ungheria, in cui il Paese guidato da Viktor Orbàn viene definito una «minaccia sistemica» ai valori fondanti dell’Ue. Il documento è stato approvato a larga maggioranza, con 433 deputati a favore e 123 contrari.
Tra questi ultimi ci sono anche Ecr e Id, che raggruppano gli europarlamentari di Lega e Fratelli d’Italia che si sono opposti in blocco all’approvazione del rapporto. Il documento approvato oggi dal Parlamento Europeo ha un valore più simbolico che pratico. Il rapporto, infatti, non prevede nessuna misura da attuare, ma lancia un chiaro segnale al Consiglio e alla Commissione Europea. «La mancanza di un’azione decisiva da parte dell’Ue – si legge nella relazione – ha contribuito all’emergere di un regime ibrido di autocrazia elettorale, ovvero un sistema costituzionale in cui si svolgono le elezioni ma manca il rispetto di norme e standard democratici».
Già nel 2018, il Parlamento aveva adottato una relazione per attivare l’articolo 7 del Trattato sull’Unione Europea, che certifica l’esistenza di un rischio di grave violazione dei valori europei in Ungheria. Il rapporto di oggi, dunque, non ha fatto altro che ribadire ciò che il parlamento europeo sostiene da tempo. «L’Ungheria non è più una democrazia», taglia corto la relatrice Gwendoline Delbos-Corfield (Verdi/Ale). Nel frattempo, il governo di Orbàn ha annunciato che lunedì presenterà al Parlamento un pacchetto di riforme considerate necessarie per convincere Bruxelles a sbloccare i fondi europei, attualmente congelati per il meccanismo di condizionalità sullo stato di diritto.
Le ripercussioni sulla campagna elettorale
Il voto contrario di Lega e Fratelli d’Italia alla risoluzione di condanna all’Ungheria è destinato ad avere riflessi anche sulla campagna elettorale italiana. Negli ultimi mesi, infatti, il Movimento 5 Stelle e la coalizione di centrosinistra ha attaccato a più riprese i leader di centrodestra per i loro rapporti con il governo ungherese. «Ogni volta che c’è da difendere la democrazia in Europa, i partiti di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini si schierano dalla parte opposta, quella dei regimi illiberali», ha commentato Laura Ferrara, europarlamentare dei 5 stelle. Secondo Ferrara, votando contro la risoluzione di condanna del governo di Orban, «Fratelli d’Italia e Lega si sono schierati contro l’Europa».
Monica Perosino per “la Stampa” il 19 settembre 2022.
Tentare di entrare nella testa di Viktor Orban e nel cuore della sua Ungheria può essere un viaggio affascinante e spaventoso allo stesso tempo. Affascinante perché nessuno può negare la sua eccezionale abilità politica, un miscuglio raffinato di calcolo e creatività che ha trasformato l'Ungheria nel primo laboratorio illiberale d'Europa. Spaventoso, perché i risultati della sua fame di potere sono inversamente proporzionali agli spazi democratici rimasti in un Paese in cui, in dieci anni, il perimetro di libertà si è stretto come un cappio.
Eppure «Orban è diventato un influencer globale, un'icona pop a cui le destre si ispirano» spiega lo storico e saggista Stefano Bottoni, professore associato all'Università di Firenze, uno dei massimi esperti del mondo magiaro contemporaneo. Par già di sentire chi urla che Orban è stato democraticamente eletto, e che dimentica, o vuole dimenticare, che in Ungheria il sistema «è basato su un consenso elettorale dopato». Del resto anche in Russia si vota.
Distratti dallo sdegno per i muri anti-migranti, per le leggi che vogliono le donne a casa a fare figli e i bambini protetti dagli omosessuali, ci siamo persi la raffinatezza con cui nel frattempo Orban costruiva il suo regno e metteva in atto il suo schema. In molti Paesi europei il consenso liberale post Guerra Fredda si è incrinato, ma «in Ungheria è diventato un nuovo sistema politico, un regime in cui il governo di destra non può essere sconfitto alle elezioni», dice Bottoni, che spiega come alcuni scomodi elementi identitari di Fidesz siano stati "esternalizzati": «Orban ha creato a tavolino Mi Hazánk, un partito che formalmente è all'opposizione, ma che porta avanti i temi più estremi, come le battaglie anti rom e anti migranti e le posizioni no vax.
Il terzo partito del Paese è un'opposizione finta, insomma», simbolo di un sistema politico «fatto da clienti, in senso medievale, di Viktor Orban». Perdere le elezioni, così, è impossibile.
Anche la stangata dell'Unione Europea non lo coglie impreparato: «C'è un trucco che potrebbe trasformare l'affondo della Ue in un compromesso al ribasso perché Budapest non fa parte della Eppo, la procura europea». Per evitare i tagli Budapest ha promesso 17 misure specifiche. La più rilevante è l'istituzione di un'autorità anti-corruzione indipendente e con ampi poteri di scrutinio: «In questo modo Orban creerà una propria commissione, un'autorità ungherese, così il controllo rimane nelle sue mani. Se Bruxelles avesse voluto mettergli i bastoni tra le ruote l'avrebbe costretto ad entrare nell'Eppo».
Orban deve agire in fretta e non può commettere errori, soprattutto in un momento tragico per l'economia. Dal primo novembre l'Ungheria entrerà di fatto in un lockdown economico non dichiarato, dove, anche per i costi dell'energia, molte attività dovranno chiudere temporaneamente: «Le casse sono vuote, Orban ha dovuto anticipare i fondi Ue congelati da sei mesi e ora non c'è più nulla da raschiare». Da treno economico a ronzino con crescita zero è stato un attimo. E se la crisi morde le alleanze sono cruciali.
Il conservatorismo valoriale è il collante di amicizie di lunga data, ma è a Giorgia Meloni che ora il teorico della democrazia illiberale guarda: «A Berlusconi era legato da anni, ma come leader lo giudica troppo anziano. Anche Salvini è uscito dal suo carnet, quando nel 2019 ha capito che non era all'altezza. Ma nel 2020 Orban ha iniziato ad avvicinarsi a Meloni, ha visto che è una leader che studia, che ha un modo di fare politica più strutturato, più compatibile al suo».
Lo scotto da pagare è che chi si allea ad Orban, oltre al pesante fardello illiberale, si porta sulle spalle anche un orizzonte pericolosamente vicino a quello di Putin, quello di un Paese in cui la propaganda russa è il cuore del sistema mediatico: «L'Ungheria - come la Russia e la Serbia - ha un passato imperiale mal digerito. Orban vuole controllare i territori pre trattato di Trianon, anche se da un punto di vista non territoriale, ma culturale ed economico».
Un forma più "gentile" del Russkiy mir di Vladimir Putin. «Come Vucic e Putin condivide l'idea di essere vittima di un'egemonia occidentale a cui bisogna opporsi». Orban è riuscito a depotenziare il sentimento storicamente antirusso della destra ungherese, trasformandolo anzi in pulsione antioccidentale e antiucraina.
Un capolavoro politico la cui prima arma è stato il controllo totale della cultura: «Intendo continuare la mia offensiva culturale», diceva dopo l'ultima vittoria elettorale. Il suo populismo pragmatico si è tradotto in centinaia di miliardi investiti per controllare le università, l'editoria, l'istruzione, i centri di ricerca, i think tank: «Se la destra italiana impara anche solo una parte di questo ricettario la sinistra è finita, sarà una tabula rasa».
Il premier magiaro affascina leader ed elettori per aver rispolverato la sovranità della politica, in un epoca «in cui governi tecnici e ruoli marginali dei leader sono la norma. Lui è il simbolo del dirigismo forte e del corporativismo, con Orban non sono le multinazionali a decidere l'economia, ma il suo protezionismo selettivo. Le banche, le grandi aziende, le assicurazioni sono "statali", controllate dai suoi oligarchi. La politica è sovrana, è lei che detta il ritmo all'economia, non il contrario».
Ma c'è di più: Orban non è solo un modello per l'oggi, ma anche per il domani: «Viktor è stato chiaro, quando l'Ungheria diventerà contribuente netto dell'Unione si rivedranno i rapporti». Ovvero, quando non sarà più conveniente, potrebbe decidere, assieme alla Polonia, di uscire dal club. Il sogno di un'Europa unita dai valori, e non dai soldi, è un'utopia pericolosa, «perché con i valori non si è mai motivato nessuno».
Franco Bechis veritaeaffari.it il 20 settembre 2022.
Nel braccio di ferro fra la Ue e l’Ungheria di Viktor Urban non c’entrano nulla i diritti civili. In nessuna delle lettere inviate dalla commissione all’Ungheria per la violazione dello stato di diritto si fa riferimento ai diritti LGBT, alla legge sull’aborto o alle restrizioni sui migranti come vuole fare credere gran parte della politica italiana, a partire dal segretario PD Enrico Letta. La contestazione è relativa solo al diritto amministrativo.
Nel comunicato stampa del commissario Ue al bilancio e amministrazione interna, l’austriaco Johannes Hahn, di domenica 18 settembre, si spiegano le quattro contestazioni fatte all’Ungheria che non hanno consentito di approvare il Pnrr e che mettono a rischio anche il 65% dei tradizionali finanziamenti comunitari. Riguardano la legge sugli appalti, la conformazione dei trust ungheresi che hanno il rischio di conflitti di interesse, l’assenza di una autorità anticorruzione e il rafforzamento di uffici giudiziari che indagano su truffe con fondi Ue. Tutti temi direttamente legati a quei finanziamenti, non estranei.
Dopo una serie di carteggi fra aprile e luglio, Orban si è impegnato con una lettera alla commissione a varare una sorta di Anac ungherese, ad affiancarla con una task force anticorruzione coinvolgendo Ong specializzate, a modificare il codice penale per rivedere le decisioni dei pm, a modificare la legge sugli appalti pubblici utilizzando anche strumenti di monitoraggio voluti dalla Ue, soprattutto Arachne.
Lo stesso Hahn ha giudicato queste parole di Orban come “impegni importanti e pubblici nella giusta direzione”. Secondo la commissione “le misure correttive proposte potrebbero in linea di principio essere in grado di affrontare i problemi descritti nella notifica, se sono correttamente specificate nelle leggi e nelle norme pertinenti e attuate di conseguenza”.
Ma gli impegni ad Ursula Von der Leyen non bastano: vuole vedere tutto realizzato prima di riaprire i cordoni della borsa. Non fece così però con la Polonia, a cui erano state inviate contestazioni praticamente identiche a quelle avanzate ad Orban. Ma in quel caso i soldi Ue sono stati sbloccati in un mese dopo il solo impegno verbale ad adottare modifiche normative.
La differenza di trattamento fra Polonia e Ungheria è dovuta a una sola cosa: la chiara avversione della prima a Vladimir Putin e al suo regime, e le paure e timidezze della seconda sulla Russia dopo l’inizio della guerra in Ucraina.
I polacchi servivano per accogliere i profughi (cosa che hanno fatto con generosità), e lo stato di diritto è stato in un secondo archiviato. Orban invece ha bisogno del gas russo perché non ha altre fonti di energia, e non volendo lasciare al gelo gli ungheresi, ha esercitato il diritto di veto in sede comunitaria. E gliela stanno facendo pagare. Come e su cosa è del tutto secondario.
Autocrazia elettiva. Perché il Parlamento europeo chiede di sospendere i diritti di adesione dell’Ungheria all’Ue. Alessandro Cappelli su L'inkiesta il 16 Settembre 2022
Una relazione dell’Eurocamera ha chiesto l’intervento della Commissione e del Consiglio affinché attivino tutte le misure previste dall’articolo 7 dei trattati. Sulla mozione hanno votato contro i parlamentari italiani di Lega e Fratelli d’Italia
L’Ungheria è diventata una «autocrazia elettorale» e non rispetta i valori democratici dell’Ue. La definizione del Parlamento europeo non ammette sfumature e interpretazioni. Ieri l’Eurocamera ha approvato il rapporto con cui richiede l’intervento della Commissione e del Consiglio per l’attivazione dell’articolo 7 dei trattati europei – quello che prevede la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Unione europea. Ma c’è di più: per i deputati qualsiasi ulteriore ritardo nell’applicazione dell’articolo 7 equivarrebbe a «una violazione del principio dello Stato di diritto da parte del Consiglio stesso».
Mai prima d’ora un’istituzione europea era arrivata definire «non democratico» un Paese membro. Nella nota diffusa dai deputati, il Paese governato dal leader sovranista e populista Viktor Orbán viene definito «una minaccia sistemica» ai valori fondanti dell’Unione.
Il rapporto è stato approvato con 433 voti a favore e 123 contrari. Gli europarlamentari italiani di Lega e Fratelli d’Italia hanno votato contro.
Per la relatrice Gwendoline Delbos-Corfield (Verdi/ALE) non ci sono dubbi: «Le conclusioni di questa relazione sono chiare e irrevocabili: l’Ungheria non è una democrazia». Il testo infatti sottolinea come i valori sanciti dall’articolo 2 del Trattato sull’Unione Europea – su democrazia e diritti fondamentali – si siano ulteriormente deteriorati a causa delle politiche portate avanti dal governo ungherese.
Ma le stesse istituzioni europee avrebbero dovuto vigilare su quel che accade da anni dalle parti di Budapest: «La mancanza di un’azione decisiva da parte dell’Unione europea ha contribuito all’emergere di un regime ibrido di autocrazia elettorale, ovvero un sistema costituzionale in cui si svolgono le elezioni ma manca il rispetto di norme e standard democratici», si legge nella relazione.
Domenica è atteso l’annuncio della Commissione sul taglio ai fondi destinati al governo di Orbán. I commissari dovrebbero raccomandare al Consiglio dell’Unione europea di bloccare i finanziamenti regionali destinati a Budapest: è il cosiddetto meccanismo di condizionalità dello Stato di diritto – che lega l’arrivo dei fondi al rispetto dei principi fondamentali del’Unione – lasciando però aperta la strada a un compromesso.
Secondo i piani iniziali del bilancio Ue del periodo 2021-2027, l’Ungheria avrebbe dovuto ricevere circa 22 miliardi di euro di fondi per la coesione, e starebbe cercando di sbloccare altri 7 miliardi di euro. Ma già a luglio il commissario al bilancio Johannes Hahn aveva lasciato intendere che sarebbe stato opportuno congelare il 70% dei fondi da tre programmi di finanziamento destinati all’Ungheria a causa di violazioni dello Stato di diritto.
Di fronte al rischio di perdere quote così alte di finanziamenti, Budapest sembra voler assumere una postura conciliante. Intervistato dal Financial Times, in un articolo pubblicato questa mattina, il ministro ungherese degli Affari europei Tibor Navracsics ha detto che «il suo Paese è pronto a realizzare ulteriori riforme oltre alla creazione di un organismo anticorruzione, nell’ambito dei negoziati con Bruxelles per preservare miliardi di euro di finanziamenti. Un altro provvedimento includerà l’approvazione di un disegno di legge sulla trasparenza degli appalti già questo mese».
Il tema della corruzione è tra le principali criticità segnalate dall’Unione europea all’Ungheria. Non l’unica: sul tavolo ci sono anche l’indipendenza della magistratura, la libertà di espressione, la libertà delle università, la libertà di religione, il diritto alla parità di trattamento e il rispetto dei diritti per le minoranze, i migranti e i richiedenti asilo.
Inoltre oggi la Commissione europea proporrà oggi una nuova legge per rafforzare la libertà e il pluralismo dei media, con un nuovo regolamento che mira a proteggere la stampa dalle ingerenze politiche e dal controllo dei governi.
Anche in questo campo l’Ungheria ha peggiorato la sua condizione negli ultimi anni. Lo scorso luglio, la Commissione aveva segnalato che le azioni di Budapest sono contrarie a diverse leggi europee in materia di telecomunicazioni, audiovisivi e digitali, tra cui la direttiva sui servizi di media audiovisivi e la direttiva sul commercio elettronico
Stesso discorso anche sul grande capitolo del diritto all’aborto. A inizio settimana un nuovo provvedimento ha stabilito che – a partire da ieri, giovedì 15 settembre – il personale sanitario che si occupa di interruzioni di gravidanza dovrà far sentire alle pazienti che vogliono abortire il battito del cuore del feto, o comunque mostrare loro un segno delle funzioni vitali «in modo chiaramente riconoscibile». I medici dovranno produrre un documento che lo attesti: senza questo certificato la paziente non potrà accedere all’interruzione di gravidanza.
In Ungheria l’aborto è stato legalizzato nel 1953 e le leggi che lo regolano sono rimaste invariate da allora. Ecco perché il nuovo decreto è stato definito da Amnesty International come «un preoccupante passo indietro».
Va ricordato che già nel 2018, il Parlamento aveva adottato una relazione per delineare 12 aree di preoccupazione e avviare la procedura di attivazione dell’articolo 7 del Trattato sull’Unione europea per determinare l’esistenza di un chiaro rischio di grave violazione dei valori europei in Ungheria.
Si può essere espulsi dall’Ue? Gli strumenti contro stati come l’Ungheria. VITALBA AZZOLLINI, giurista, su Il Domani l'08 giugno 2022
Qualcuno si è chiesto se l’Ungheria, Paese che si pone frequentemente in contrasto con i principi fondanti e l’azione dell’UE, possa esserne estromesso. Non esiste un meccanismo giuridico per espellere uno Stato membro. Ma vi sono altri rimedi.
In diversi casi, l’Ungheria è stata oggetto di procedura di infrazione. Siccome è difficile che tale procedura porti a risultati, l’UE ha elaborato un meccanismo di “condizionalità”, che subordina il beneficio di finanziamenti dell’UE al rispetto da parte di un Paese membro dei principi dello stato di diritto
Un ulteriore meccanismo – denominato opzione “nucleare” - permette di sospendere alcuni diritti di uno Stato membro, incluso il voto nel Consiglio, in caso di violazioni dei Trattati. Per attivarlo serve un voto all’unanimità: Ungheria e Polonia si sono finora “scudate” a vicenda.
Orban, il Cavallo di Troia di Putin per scardinare l’Europa. Il presidente ungherese difende gli interessi dello “zar”. E fino ad ora sembra esserci riuscito in maniera egregia. Massimiliano Di Pace su Il Dubbio il 02 giugno 2022.
Proprio quando sembrava raggiunto l’accordo politico sul sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia da parte dell’Ue, l’Ungheria ha dato un nuovo stop, dichiarandosi contraria alle sanzioni contro il patriarca della chiesa ortodossa russa, Kirill, definito dallo stesso Papa Francesco “chierichetto di stato”, che ha in comune con Putin l’amore per i patrimoni nascosti all’estero, e lo sfoggio di beni di lusso, salvo poi farli sparire con ritocchi nelle foto ufficiali. E alla fine è riuscita a spuntarla: niente sanzioni per Kirill che è stato risparmiato.
Va detto che se da una parte le motivazioni dell’Ungheria per contrastare l’embargo europeo nei confronti del petrolio russo avevano qualche fondamento tecnico, certamente è meno comprensibile il rifiuto di sanzionare un personaggio oggettivamente discutibile, che invece di richiedere la pace, come fanno i massimi esponenti di tutte le religioni, approva la guerra, e la definisce addirittura giusta, manco fosse un islamista estremista invocante la jihad.
Certo è che se nei giorni precedenti i partner europei dell’Ungheria non avevano avuto troppe difficoltà ad accettare le ragioni addotte da Orban per porre il veto sull’embargo, basate sul fatto che l’Ungheria non ha sbocchi sul mare, e quindi non può ottenere facilmente il greggio da altri fornitori, e sulla circostanza che le raffinerie ungheresi sono tarate sull’Urals, ossia il petrolio proveniente dai giacimenti russi, per cui l’utilizzo di altri greggi avrebbe posto non pochi problemi di raffinazione, prevedendo di conseguenza una deroga all’embargo del petrolio russo, quando proveniente con oleodotti, come è il caso dell’Ungheria, questa volta la mancata adesione alle sanzioni contro Kirill, previste dal 6° pacchetto, sarà più difficile da gestire, non essendoci motivazioni tecniche.
Di conseguenza, il sospetto che Orban stia diventando l’uomo all’Havana (ossia nell’Ue) della Russia, così come pare esserlo Erdogan nella Nato, diventa sempre più legittimo. Un mese di ritardo nell’approvazione delle sanzioni contro la Russia, che era stato proposto dalla Commissione europea il 4 maggio, è stato già un regalo di non poco conto alla Federazione Russa, la quale, nel frattempo, non esita ad applicare le sue sanzioni, che consistono nel blocco della fornitura di gas, già applicato contro Polonia, Bulgaria, Finlandia, e con Olanda e Danimarca ora nel mirino. Per sapere quali saranno effettivamente le nuove sanzioni del 6° pacchetto occorrerà attendere alcuni giorni, necessari per la modifica del Regolamento Ue 833/2014, che con le sue oltre 170 pagine, contiene tutte le sanzioni comunitarie contro la Russia, le prime delle quali furono emanate nel 2014, dopo l’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa.
Va detto che i precedenti pacchetti avevano sanzionato quasi tutto il sanzionabile, colpendo 1.091 individui, tra cui gli stessi Putin e Lavrov, 80 società e banche russe, i cui capitali e beni in Europa erano stati congelati. Inoltre, è stato impedito l’accesso alle risorse finanziarie provenienti dall’Ue, sequestrati i fondi della Banca centrale Russa (che ha perso buona parte delle sue riserve valutarie), vietato l’accesso all’Ue ad aerei, navi e camion russi, bloccati l’import e l’export tra Ue e Russia di molte merceologie (tra cui i beni di lusso, pane quotidiano per i ricchi amici di Putin), che poi è stato esteso al carbone russo, e con il sesto pacchetto, anche al petrolio, con alcune eccezioni però, come è stato sopra ricordato.
Nonostante gli eventi di queste ore, si può però affermare che raramente in passato i paesi membri dell’Ue si sono trovati così uniti. L’unico precedente è stata la Brexit, che ha visto una compattezza straordinaria, tutta tesa a sostenere l’Irlanda, che era quella che veniva maggiormente colpita dall’uscita della Gran Bretagna dall’Ue, per via delle conseguenze sul confine con l’Irlanda del Nord. Per rendersi conto di quanto l’Ue stia funzionando bene, basta immaginare che cosa accade in Italia quando vi è una riunione di condominio con circa 25 inquilini: non solo è inimmaginabile l’unanimità, ma spesso anche la semplice maggioranza è molto difficile da raggiungere.
La compattezza politica va considerata, in momenti di crescente difficoltà, un asset da valorizzare al massimo. Infatti, visto lo sganciamento totale dalla realtà della maggioranza del popolo russo, visibile anche nei nostri canali, in cui sempre più di frequente propongono interviste a cittadini russi, che ribadiscono che l’esercito di Putin è in Ucraina per dare la caccia ai nazisti di quel paese (e meno male che non si sono accorti che in tanti paesi europei, inclusa l’Italia, ce ne sono probabilmente di più che in Ucraina), è ragionevole attendersi una continuazione del conflitto, e quindi un ulteriore deterioramento dei rapporti con la Russia, tanto che non si può escludere che Putin, con un vero harikiri economico, decida di bloccare le forniture di gas a tutta l’Ue, mettendo in crisi energetica quest’ultima, ma privando al tempo stesso l’economia russa dell’unica fonte di reddito esterno rimasta.
Budapest, migliaia in piazza. Esplode la rabbia anti Orbán. Daniel Mosseri il 18 Luglio 2022 su Il Giornale.
Da cinque giorni la Capitale contesta il premier per la riforma fiscale. È la prima volta dalla sua rielezione.
Le prime proteste sono iniziate martedì scorso, quando alcune centinaia di persone si sono assembrate su un ponte sul Danubio, dove si affaccia anche l'Országház, il fastoso palazzo gotico del Parlamento. Allora i manifestanti avevano bloccato il traffico nel centro di Budapest per tre ore. Ieri invece a dimostrare contro il governo del premier Viktor Orbán erano alcune migliaia di ungheresi nel quinto giorno consecutivo di proteste.
A portare i magiari per strada è una nuova legge voluta dal primo ministro nazionalista e conservatore. Il provvedimento è destinato ad appesantire il carico fiscale per centinaia di migliaia di commercianti e lavoratori autonomi, sostengono i manifestanti che hanno innalzato cartelli e urlato slogan pesanti all'indirizzo del capo del governo.
Le proteste segnano un inaspettato calo di popolarità per Orbán, la cui Unione civica ungherese (Fidesz) ha vinto con un ampio margine le elezioni legislative lo scorso aprile. In molti, soprattutto in Europa, avevano sperato nella vittoria dello sfidante di Orbán, quel Peter Marki-Zay che oggi cerca di cavalcare le proteste, postosi alla guida di una eterogenea coalizione di centristi, socialdemocratici, ecologisti ed ex estremisti di destra. Tre mesi fa, invece, il premier al potere senza soluzione di continuità dal 2010 è stato confermato con un ampio 52% dei consensi. Orbán aveva condotto l'ennesima campagna elettorale in rottura con l'Unione europea, dimostrando l'indisponibilità di un'Ungheria dipendente dagli idrocarburi russi a rompere con la Russia di Vladimir Putin.
Curiosamente il suo governo affronta adesso la più forte ondata di proteste proprio a causa dell'energia: il parlamento controllato da Fidesz ha fatto piazza pulita delle categorie protette stabilendo che chi consumi più energia della media dovrà pagarla al prezzo di mercato e non più sulle base delle tariffe sovvenzionate dallo stato. A poco è servito l'intervento del primo ministro venerdì alla radio che ha difeso la legge come «buona e necessaria». Due giorni prima il governo aveva dichiarato lo «stato di emergenza energetica», annunciando un maggior ricorso al carbone e invitando le famiglie a moderare i consumi. A fine maggio Orbán ha anche bloccato il progetto dell'Ue per un embargo totale e immediato contro il petrolio russo. L'atteggiamento controcorrente di Budapest non ha però impedito un forte indebolimento del fiorino alla vigilia del conflitto ne servivano 367 per acquistare un euro, oggi ce ne vogliono 410. Associato all'aumento di gas e petrolio sul mercato globale, il calo della valuta nazionale ha precipitato l'Ungheria in una crisi inflazionistica che sta costando a Orbán molta popolarità.
Secondo il Központi Statisztikai Hivatal (l'ente nazionale di statistica), il tasso d'inflazione in Ungheria è salito all'11,7% annuo a giugno, in netta crescita rispetto al 10,7% di maggio e al 9,5% di aprile. A fine gennaio il governo ungherese aveva imposto un tetto ai prezzi di sei prodotti alimentari (zucchero semolato, farina di grano, olio di semi di girasole, carne di maiale, petto di pollo e latte) fra il 1 febbraio e il 1 maggio 2022. Annunciata dallo stesso Orbán, la misura ha aiutato il premier a vincere le elezioni. Sopravvivere agli scossoni economici di una guerra vicinissima Ungheria e Ucraina sono paesi confinanti è una nuova sfida.
GLI AFFARI ANCORA APERTI CON MOSCA. Viktor Orbán trasforma Budapest nel varco di Russia e Cina in Europa. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 07 aprile 2022
Davanti a un gruppo di media internazionali, Orbán fa dichiarazioni di lealtà all’occidente. Ma non ha chiuso le porte né a Putin né tantomeno a Xi Jinping. «Se Putin vuole che paghiamo in rubli, pagheremo in rubli», dice. Più delle parole, a Budapest sono i luoghi a raccontare chi è davvero Orbán. Al ministero degli Esteri c’è una porta molto speciale che è rimasta aperta al Cremlino: è il sistema informatico del governo. Da lì Putin ha potuto aprirsi un varco sull’Ue.
A meno di cinquecento metri dall’ex monastero dove Orbán si è fatto intervistare, c’è la International investment bank: è un avamposto finanziario russo in Europa, e l’Ungheria vi partecipa nonostante la guerra. Vale anche per il progetto nucleare condiviso con la Russia, Paks II: per il premier ungherese si esce dalla dipendenza dal gas di Mosca con il nucleare di Mosca.
Intanto la guerra rende i rapporti con Pechino sempre più validi agli occhi di Orbán, che punta a una «alleanza di regimi illiberali». La città porta i segni anche di questo: 10mila posti letto per gli studenti verranno cancellati per far spazio a una università cinese, Fudan, e a tal fine il governo ungherese è pronto a indebitare le prossime generazioni.
FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.
Gemelle diverse. Perché la Commissione blocca i fondi Ue all’Ungheria (ma non alla Polonia). Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.
Bruxelles attiverà contro Budapest il meccanismo che lega l’esborso dei finanziamenti europei al rispetto dello Stato di Diritto. Il governo di Varsavia, che suscita analoghe preoccupazioni a Bruxelles, non sarà per ora colpito dalla procedura.
L’Ungheria batte la Polonia nella gara a un non invidiabile primato, quello dell’unico Paese europeo soggetto al meccanismo di blocco dei fondi dell’Ue. Per entrambi gli Stati, la Commissione europea ha individuato casi di possibili violazioni che «mettono a rischio gli interessi finanziari dell’Unione», ma solo nei confronti di Budapest procederà per ora al passo successivo: l’attivazione della procedura che, se portata a termine, negherà al governo di Viktor Orbán i finanziamenti comunitari.
Botta e risposta
La notifica formale che attiva ufficialmente il meccanismo di condizionalità arriverà al governo ungherese nei prossimi giorni, conferma il portavoce della Commissione europea a Linkiesta. L’annuncio era stato dato direttamente dalla Presidente Ursula von der Leyen al Parlamento di Strasburgo: una decisione necessaria perché il governo di Budapest non ha risposto in maniera soddisfacente alle 16 preoccupazioni sollevate dalla Commissione, soprattutto in merito alla corruzione dilagante nel Paese, che coinvolge anche la distribuzione dei fondi europei.
La risposta non si è fatta attendere: i ministri Gergely Gulyás e Judit Varga hanno accusato la Commissione di «punire i cittadini ungheresi» per il supporto espresso al partito di governo nelle recenti elezioni. Ma le prime conseguenze si sono sentite anche sui mercati, con il fiorino ungherese che ha perso in una giornata il 2% sull’Euro, riporta Bloomberg.
Come funziona il meccanismo di condizionalità
Il rischio per l’economia ungherese, infatti, è alto. Se la procedura prevista dal Regolamento 2092 del 2020 andrà fino in fondo, potranno essere congelati i fondi europei che spetterebbero al Paese: circa 40 miliardi di euro, compresi i 7,2 previsti dal Next GenerationEu.
La comunicazione formale attesa a Budapest individua un nesso effettivo tra la violazione di un principio dello Stato di Diritto in Ungheria e un danno o un rischio di danno alla gestione dei fondi europei. Tra il governo ungherese e la Commissione comincerà poi un dialogo che può durare dai tre ai cinque mesi e se l’esecutivo comunitario non è soddisfatto dell’esito del confronto, potrà proporre misure punitive, sospendendo determinate quote del budget del Paese.
Le misure devono essere «strettamente proporzionate all’impatto della violazione contestata sul bilancio dell’Unione» e vanno approvate dal Consiglio dell’Unione europea: l’autorizzazione è concessa con un voto a maggioranza qualificata, cioè con il sostegno del 55% degli Stati membri che abbiano almeno il 65% della popolazione europea. La votazione deve tenersi al massimo tre mesi dopo la presentazione delle misure da parte della Commissione.
È proprio questo criterio di voto a rendere lo strumento particolarmente efficace per l’Ue e particolarmente pericoloso per l’Ungheria: tanto che il governo di Budapest, insieme a quello polacco, ha prima provato in tutti modi a evitare l’adozione del meccanismo e poi presentato un ricorso alla corte di Giustizia europea per contestarne la validità, respinto lo scorso febbraio.
Quando le decisioni del Consiglio vengono prese all’unanimità, invece, ogni Paese detiene di fatto un diritto di veto. Grazie a tale dinamica, da anni i governi di Polonia e Ungheria si difendono a vicenda da un’altra procedura: quella della «clausola di sospensione» prevista dall’Articolo 7 del Trattato sull’Unione europea, e attivata nei confronti della Polonia nel 2017 dalla Commissione e nei confronti dell’Ungheria nel 2018 dal Parlamento europeo.
Se portata a compimento, toglierebbe ai due Paesi il diritto di voto in Consiglio per un determinato periodo, ma è altamente improbabile che ciò accada: al momento rimane formalmente aperta, pur senza registrare sviluppi positivi nel dialogo tra Commissione e governi, come ha ammesso la commissaria ai Valori e alla trasparenza Věra Jourová nella recente audizione sul tema al Parlamento.
Polonia salva (per ora)
L’Articolo 7 è uno dei punti in comune tra Polonia e Ungheria nel loro lungo confronto con le istituzioni europee. Gli altri sono le procedure di infrazione che la Commissione ha comminato a entrambe, le numerose risoluzioni dell’Eurocamera sulle violazioni in corso e una tendenza dei rispettivi governi ad accusare Bruxelles di «interferenza» nei propri affari interni.
Budapest e Varsavia preoccupano allo stesso grado la Commissione per le violazioni dello Stato di Diritto, anche se nel primo caso il problema principale è la corruzione endemica, nel secondo la mancanza di indipendenza della magistratura rispetto al potere politico, come ha spiegato von der Leyen agli eurodeputati.
Nel novembre 2021, entrambi i governi erano stati raggiunti dalla lettera che segnalava loro le rispettive carenze: nel caso dell’Ungheria si menzionavano le indagini dell’Ufficio anti-frode europeo (Olaf), le ingenti somme comunitarie versate ad amici e parenti di Orbán e i conflitti di interesse dei suoi ministri. Ma pure la questione dell’indipendenza della magistratura, problematica condivisa con la Polonia, a cui venivano rimproverate mancanza di imparzialità ed efficacia nei processi giudiziari, condizioni in grado di danneggiare gravemente la gestione dei fondi europei.
Il destino dei due Paesi dell’Est, tuttavia, al momento diverge: per la Polonia non è prevista nell’immediato l’attivazione del meccanismo di condizionalità. «Si tratta di due casi separati, con motivazioni differenti e procedure differenti», conferma la Commissione a Linkiesta, senza specificare se e quando replicherà la misura nei confronti dei polacchi e se la risposta di Varsavia alla lettera è invece ritenuta soddisfacente.
Sulla scelta pesa probabilmente un’attitudine più collaborativa da parte del governo polacco, che ha annunciato una legge per smantellare la Camera disciplinare per i giudici, uno dei punti della riforma della giustizia contestata da Bruxelles, e risolto un’annosa controversia con la Cechia pagando una compensazione da 45 milioni di euro.
Tra le ragioni, però, c’è l’ipotesi di una lettura politica legate alla guerra in Russia. L’Ungheria è il Paese europeo più recalcitrante nell’imporre sanzioni al governo di Putin, ha condannato l’invasione ma non manda armi agli ucraini, è disposta a pagare in rubli il gas di Mosca e sembra fare di tutto per mantenersi estranea al conflitto. Orbán ha ricevuto al telefono i complimenti di Putin per la sua rielezione e il suo ministro degli Esteri ha perfino convocato l’ambasciatore ucraino, protestando contro gli attacchi ricevuti dall’esecutivo ungherese per la sua posizione equidistante.
La Polonia, invece, sostiene la linea più dura possibile nei confronti dei russi, sia a livello economico che militare, e sta accogliendo oltre due milioni di profughi ucraini con generosità, mostrando in questo senso un’inconsueta sintonia con le istituzioni dell’Ue. Che, visto il momento storico, non sembra il caso di incrinare.
Le conseguenze del conflitto in Europa. Orbaniani d’Italia: al grido di pace e bollette ecco il Pup, il partito unico del populismo. Vittorio Ferla su Il Riformista il 6 Aprile 2022.
“Bravo Viktor!” Nel giorno in cui arrivavano le notizie del massacro di Bucha, il primo pensiero di Matteo Salvini è andato all’amico Viktor Orbán, riconfermato primo ministro dell’Ungheria dopo l’exploit elettorale di domenica scorsa. “Da solo contro tutti, attaccato dai sinistri fanatici del pensiero unico, minacciato da chi vorrebbe cancellare le radici giudaico-cristiane dell’Europa, denigrato da chi vorrebbe sradicare i valori legati a famiglia, sicurezza, merito, sviluppo, solidarietà, sovranità e libertà, hai vinto anche stavolta grazie a quello che manca agli altri: l’amore e il consenso della gente. Forza Viktor, onore al libero Popolo ungherese”.
Così ha scritto il leader della Lega sul suo profilo Facebook. Nulla di nuovo sotto il sole. Salvini e Orban amoreggiano da sempre. Il leader magiaro – cattivissimo con gli immigrati e con l’Europa – è un punto di riferimento stabile per il capo del Carroccio. Negli anni in cui il sovranismo populista sembrava un cavallone inarrestabile – non molto tempo fa, a dire il vero – Orbán era certamente il capo di governo nazionalista più rappresentativo d’Europa, alla guida del gruppo dei paesi di Visegrad. Le sue politiche conservatrici e illiberali, in aperto contrasto con le regole dell’Unione europea, scatenavano brividi di piacere e di invidia lungo la schiena dei populisti nostrani: non solo Salvini, ma anche Meloni. La sua feroce opposizione contro la redistribuzione dei migranti alle porte dell’Europa e la totale indisponibilità all’accoglienza sul suolo patrio erano, per la Lega e per Fratelli d’Italia, il format delle politiche che anche l’Italia avrebbe dovuto adottare per governare l’emergenza degli sbarchi. Salvini ha condiviso con Orbán anche la sfegatata ammirazione per Vladimir Putin, considerato come il faro globale della nuova destra ultranazionalista, nemica delle mollezze e dei cedimenti delle democrazie occidentali.
Nel frattempo, però, l’imbarazzo tra i partner europei è cresciuto. Via via, gli omologhi popolari di Fidesz, il partito di Orbán, hanno cominciato a percepirlo ben poco democratico e cristiano. Così, prima di esserne cacciato, nel marzo dell’anno scorso è stato lo stesso Orbán a sganciarsi dal gruppo parlamentare del Ppe. Da quel momento sono cominciate le trattative con Marine Le Pen, con i polacchi del Pis e con il nostro Matteo Salvini per la costruzione di un nuovo raggruppamento sovranista e populista. Negli ultimi anni, però, le fortune politiche di Salvini sono state altalenanti. Tutto comincia dallo stordimento da Papeete che lo porta al suicidio politico proprio mentre stava al governo. L’ultimo infortunio è la figuraccia internazionale rimediata in Polonia dove il sindaco ultranazionalista di Przemysl gli ha rinfacciato le relazioni con Vladimir Putin. In questo marasma mentale e politico, la Lega vive una crisi di identità e di leadership, combattuta tra un’ala governista e moderata rappresentata da Giancarlo Giorgetti e dai presidenti di regione e la scapigliatura movimentista del “Capitano”, sempre in preda al parossismo demagogico. Ecco perché oggi, di fronte all’aggressione russa dell’Ucraina, il nuovo Matteo Salvini in versione ‘mansueta pecorella’ fa un po’ sorridere.
L’uomo che voleva armare fino ai denti i gioiellieri del nord per consentirne la difesa dai rapinatori temerari e che andava a caccia di tossici citofonando casa per casa, di fronte ai bombardamenti russi e ai massacri di civili ucraini è cambiato: organizza pellegrinaggi ad Assisi, diffonde il verbo di Papa Francesco, non applaude Draghi quando promette di fornire armi alla resistenza ucraina. Ma non bisogna stupirsi. Sparare al rapinatore o all’immigrato, ma non volere la guerra in casa sono due facce della stessa medaglia: il qualunquismo del proprio “particulare”. Su questi umori così terra terra la demagogia populista costruisce da sempre le sue fortune. Ne sa qualcosa Viktor Orbán che ha vinto la sua campagna elettorale con lo slogan “Pace e bollette”. Tradizionalmente interprete di una retorica militaresca, anche il leader ungherese si è riscoperto alfiere della pace e dell’imparzialità quando ha dovuto schierarsi sulla questione ucraina. Troppo forte il legame con Putin, troppi interessi comuni per bruciarli sull’altare della libertà del popolo ucraino. In più, Orbán si è qualificato in campagna elettorale come il garante della lotta contro l’inflazione e, soprattutto, del contenimento delle tariffe dell’energia.
Pace e bollette: ecco la ricetta facile e ideale per assicurare il quieto vivere degli ungheresi. E che cosa ha fatto Salvini negli ultimi mesi? Esattamente la stessa cosa. “Stiamo lavorando su provvedimenti concreti, a fronte di una vera e propria emergenza nazionale che impone scelte rapide. L’Italia è in pericolo: queste bollette frenano la ripresa e mettono in ginocchio famiglie, artigiani, commercianti e imprese. Bene che tutti i partiti siano d’accordo con la Lega”, diceva Salvini a febbraio, poco prima dell’inizio della guerra. Una tiritera rafforzata anche dopo l’aggressione dell’Ucraina. “Bene i miliardi già stanziati dal governo per aiutare famiglie e imprese a pagare e rateizzare le bollette di luce e gas, ma bisogna fare di più”, ha ripetuto Salvini di recente. Certo, famiglie e imprese vanno aiutate. Ma la demagogia del Capitano, fin dai tempi di Quota mille e del Reddito di cittadinanza, non ha limiti. Mettere le mani nel portafogli dello stato per accontentare ogni richiesta che proviene dal proprio elettorato è una strategia facile. Ma dimentica un busillis: il portafoglio dello stato attinge ai portafogli dei cittadini.
Su questa linea, però, Salvini non agisce da solo. In Italia, Pace e bollette potrebbe essere il nuovo nome del Pup, il partito unico del populismo, di cui fa parte anche, a pieno titolo, il M5s. A differenza di Salvini, Giuseppe Conte non indossa felpe ed è molto più abile del collega nel far perdere le tracce delle proprie posizioni. Né si è mai schierato apertamente con Orbán. Abbiamo notato tutti, però, che il capo politico dei grillini non ha ancora pronunciato una sola parola contro Vladimir Putin. I forti legami intrattenuti dal suo partito e dai suoi governi con la Russia, lo portano oggi ad assumere posizioni assai blande rispetto all’enormità dei fatti. Sull’Ucraina Conte ha assunto una postura terzista, tiepidissima verso l’Ue e verso la Nato, che lo colloca sulla stessa linea della Cina, non a caso il principale alleato di Putin: “Uscire dalla logica dei due blocchi”, è diventato il mantra dell’avvocato di Volturara Appula. E proprio sulle spese militari è scattato il riflesso condizionato del populismo: non possiamo spendere per la sicurezza, quando le priorità dei cittadini sono sociali ed economiche. Pace e bollette, appunto. Ma non basta.
Da qualche settimana Conte ha deciso di giocare fino in fondo la sua partita di destabilizzatore: dopo le spese militari ha messo nel mirino il governo su Def e riforma della giustizia. Per ora, per fortuna, c’è ancora il povero Draghi che tiene a bada le mattane degli orbaniani italiani. Ma quanto durerà? Fuori della maggioranza di governo, anche Giorgia Meloni, dopo una improvvisa svolta atlantista, è tornata a esultare domenica per la vittoria del primo ministro magiaro. Sia che si calcolino i numeri del parlamento attuale, sia che si calcolino i numeri dei sondaggi, una cosa appare chiara: oggi l’Italia è ancora dominata da una variegata maggioranza orbaniana (e putiniana) trasversale che avvicina in modo preoccupante il nostro paese all’Ungheria. Il problema è che nel 2023 si vota. E potrebbe non esserci più Draghi, finora l’unico adulto capace di governare gli scalmanati.
Vittorio Ferla. Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient
Niente armi pesanti, Scholz criticato e solo. Daniel Mosseri il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.
L'Spd del cancelliere prova a ricucire dopo aver negato l'invio di altri aiuti.
A provare a metterci una toppa è corsa nel pomeriggio Saskia Esken. La co-presidente dei socialdemocratici (Spd), il partito del cancelliere tedesco Olaf Scholz, si è recata mercoledì alla rappresentanza ucraina a Berlino per incontrare l'ambasciatore Andrij Melnyk. Ore prima, il diplomatico aveva espresso via Twitter tutto il suo disappunto per lo stop all'invio di armi pesanti a Kiev da parte del governo tedesco. «Dobbiamo ormai riconoscere che siamo già arrivati ai nostri limiti», aveva dichiarato Scholz il giorno prima. «La tesi per cui la Bundeswehr non sarebbe in grado di inviare altre armi all'Ucraina non è comprensibile», ha replicato l'ambasciatore, senza nascondere la «grande delusione e amarezza» di Kiev e tornando a invocare l'invio di 100 veicoli da combattimento di fanteria Marder e di obici semoventi PzH2000.
Da settimane Melnyk fa parlare di sé per i suoi modi molto poco diplomatici nei riguardi di tanti dirigenti tedeschi, a cominciare dal presidente federale Frank-Walter Steinmeier considerato troppo vicino a Putin. Socialdemocratico «migliorista», a inizio conflitto il cancelliere Scholz era invece apparso disponibile a sposare la linea antirussa dagli alleati Verdi e Liberali ma con il passare delle settimane ha corretto la rotta, respingendo dapprima l'ipotesi di un embargo sul gas russo (nel 2021 la Germania ha importato il 55% dell'oro blu da Mosca e uno stop agli acquisti non è previsto prima del 2025) e adesso tirando il freno sull'invio di armi. Il cambio di passo del capo del governo non è stato ignorato dalla Cdu che spera di stanare i Verdi al Bundestag con una mozione in cui si dichiari Scholz «corresponsabile della carenza di difesa dell'Ucraina».
Francesco Bechis per formiche.net il 20 aprile 2022.
Altro che Viktor Orban. Il vero cavallo di Troia di Vladimir Putin in Europa è la Confindustria tedesca (Bdi). Lunedì il capo del Cremlino è riuscito lì dove molti hanno fallito: l’unità tra sindacati e industria in Germania. Unità contro le sanzioni alla Russia, si intende. E in particolare le sanzioni sul gas, di cui imprenditori e dipendenti non vogliono neanche sentir parlare.
Il comunicato congiunto, una rarità, è di fatto la pietra tombale sulle pur timide intenzioni dell’Ue di passare ai fatti con le sanzioni all’energia di Mosca dopo il primo buffetto al carbone russo. Se l’embargo del petrolio resta sul tavolo, la messa al bando del metano è una chimera. “Porterebbe a una grave perdita di produzione, chiusure, una nuova deindustrializzazione e perdite di lungo periodo di posizioni di lavoro in Germania”, tuona il fronte unito tedesco. I numeri in effetti danno ragione alle remore: nel suo nuovo rapporto l’Imf ha rivisto a ribasso le stime di crescita dell’economia tedesca, dal 3,8% al 2,1%, un balzo di quasi due punti, più di quanto attende l’Italia (da 3,8% a 2,3%).
Ma dietro al pressing dell’industria tedesca c’è qualcosa di più di un semplice calcolo economico, che pure conta: nel 2021 ha esportato beni in Russia per 28 miliardi di euro. C’è un fattore culturale che risale alla Germania Ovest del dopoguerra, il Wandel durch Handel, che fa del commercio con Mosca un salvacondotto per evitare un conflitto sul suolo europeo. Non è bastata l’invasione russa a ribaltare l’equazione. E infatti il governo “semaforo” di Olaf Scholz, tra una condanna di Putin e una promessa di spendere di più nella Difesa, si trova impantanato.
A inizio aprile una delegazione di industriali – presenti Deutsche Bank, Mercedes-Benz e Siemens – ha fatto irruzione nell’ufficio del cancelliere per battere i pugni sul tavolo. Le sanzioni, questo il messaggio recapitato, rischiano di fare troppi danni all’economia tedesca. Danni “irreversibili”, hanno avvertito i giganti della chimica e dell’acciaio Basf e Thyssenkrupp, lì a ribadire che dall’embargo Ue il gas naturale russo deve restare fuori.
Scholz ha risposto con un pacchetto di aiuti finanziari e garanzie sui prestiti per 100 miliardi di euro. Oggi arriva in soccorso la Commissione Ue: semaforo verde a uno schema di aiuti di Stato da 20 miliardi di euro per “le aziende di ogni settore colpite dalla crisi in corso e dalle relative sanzioni”. Difficile che basti a placare la Bdi e la lobby filorussa dell’industria tedesca, per niente intorpidita dalle notizie dei massacri russi in Ucraina.
Basta osservare le mosse della più solida enclave filorussa, l’Associazione tedesca per gli affari orientali (Geba), settant’anni di storia alle spalle e decine di associazioni industriali membri, inclusa la Bdi. Saltato l’annuale incontro di inizio marzo con Putin – indifendibile ad invasione in corso – e fatta salva qualche presa di distanza in sordina, la lobby continua a tifare per la riapertura del mercato tedesco a Mosca perché, ha detto di recente il presidente Oliver Hermes, in gioco oltre le sanzioni ci sono “significative relazioni economiche con la Russia in futuro”.
Con un clima così, non stupisce che Scholz abbia tirato il freno. L’ultima conferenza stampa del cancelliere ha fatto molto rumore a Kiev, dove ormai Volodymyr Zelensky considera la causa tedesca una causa persa. È stata un’arringa: Scholz si è difeso un po’ goffamente da chi accusa Berlino di non inviare armi pesanti alla resistenza ucraina, “altri Paesi sono giunti alle stesse conclusioni”. Anche qui, i numeri contano più delle parole: dall’inizio delle ostilità la Germania ha messo sul piatto 119 milioni di euro in forniture belliche per Kiev, meno della minuta Estonia (220 milioni), del Regno Unito (204) e dell’Italia (150). Memo per il presidente ucraino in tenuta militare: Houston, abbiamo un problema. A Berlino prima ancora che a Budapest.
Alberto Simoni,Marco Bresolin per “la Stampa” il 20 aprile 2022.
Un maxi-fondo di solidarietà per finanziare la ricostruzione dell'Ucraina e avvicinarla ancora di più all'Europa. Una sorta di nuovo Piano Marshall costruito secondo la logica del Recovery Fund: sovvenzioni e prestiti a Kiev in cambio di riforme concordate con Bruxelles per agevolare il percorso di adesione che certamente non sarà né breve né semplice. La Commissione europea ci sta lavorando da qualche settimana e la questione è già stata oggetto di discussione tra gli Stati membri.
Non solo: ieri se n'è parlato anche durante la videoconferenza tra i principali leader europei e del G7, convocata dal presidente americano Joe Biden. Perché l'Ue giocherà senza dubbio un ruolo principale nella ricostruzione ucraina, ma tutti gli alleati occidentali daranno un contributo.
Per questo, proprio in queste ore a Washington, il Fondo monetario internazionale e la Banca Mondiale stanno lavorando al piano per la ricostruzione. David Malpass, il numero uno della Banca Mondiale che domani incontrerà il premier ucraino, insiste sulla necessità di ridurre il debito di Kiev.
In ogni caso Bruxelles metterà in campo un suo strumento. Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, ieri ha annunciato che «l'Ue svilupperà un Fondo di solidarietà per l'Ucraina» che servirà a finanziare «il sostegno immediato e la ricostruzione di un'Ucraina democratica».
Quest' ultima precisazione non è affatto secondaria perché è proprio sulle «condizionalità» del fondo che si stanno concentrando le discussioni a Bruxelles. Il governo di Kiev dovrà concordare con l'Ue un piano di riforme per avvicinare il Paese agli standard richiesti agli Stati membri, soprattutto in termini di giustizia, lotta alla corruzione e rispetto dello Stato di diritto.
Ancora troppo presto per parlare di una cifra precisa per gli aiuti, dato che la situazione è in continua evoluzione. Al termine del conflitto servirà un'attenta analisi da parte della Commissione per calcolare le reali necessità, ma fonti diplomatiche assicurano che la dotazione «non sarà inferiore ai 100 miliardi di euro» perché dovrà prevedere non solo aiuti immediati - in particolare sul fronte umanitario -, ma un piano di ricostruzione decennale.
Gli investimenti serviranno per rimettere in piedi le infrastrutture, inoltre l'Ue potrebbe concedere prestiti con garanzie pubbliche alle imprese ucraine, soprattutto quelle del settore agricolo che più stanno soffrendo. Ursula von der Leyen ne ha parlato ieri al telefono con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Restano ancora da definire le modalità di finanziamento e non è escluso il ricorso a nuovo debito comune, anche se su questo la cautela è massima.
Per ora, tra le ipotesi per reperire risorse, si parla di introdurre imposte sul gas e sul petrolio importati dalla Russia oppure di usare i beni congelati agli oligarchi, ma il confronto è ancora in una fase preliminare. Prima l'Ue vuole aiutare l'Ucraina a respingere militarmente la Russia nella nuova fase del conflitto che si concentra nel Donbass.
Per questo durante la videoconferenza di ieri tra i leader del G7 - alla quale hanno partecipato anche il presidente polacco Andrzej Duda, quello rumeno Klaus Iohannis e il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg - si è deciso di aumentare l'invio di armi e soprattutto di armi pesanti. Biden ha confermato che gli Stati Uniti invieranno più artiglieria, mentre Olaf Scholz continua a frenare sull'invio diretto di armi pesanti. Il cancelliere ha però detto che chiederà all'industria tedesca di mettere a disposizione armamenti che saranno finanziati da Berlino.
Mark Rutte ha invece assicurato a Zelensky che i Paesi Bassi invieranno più armi pesanti, inclusi i blindati. Nei 90 minuti di colloquio si è parlato anche di sanzioni. Si stanno mettendo a punto nuovi ritocchi per evitare scappatoie, ma la Germania ha ribadito il suo "no" all'embargo sul petrolio e sul gas. Gli Stati Uniti hanno inoltre avviato la procedura per inserire la Russia tra gli Stati sponsor del terrorismo.
DAGONOTA il 13 aprile 2022.
I tedeschi, come stanno già facendo, s’incazzano e strepitano per il no di Zelensky al viaggio a Kiev del presidente della Repubblica Federale, Frank Walter Steinmeier. Ma, a differenza dei crucchi, in Ucraina hanno la memoria lunga e ricordano che l’attuale presidente non è un politico “immacolato”: è stato vice Cancelliere e ministro degli Esteri nei governi di Angela Merkel. Ha fatto da numero due alla leader che, insieme a Silvio Berlusconi, è considerata la più putiniana d’Europa.
Nessuno dimentica le ottime relazioni, piene di concessioni politiche pur di portare a casa il gas, tra la ex Cancelliera e “Mad Vlad”.
Hanno ricordi di acciaio anche gli americani, a cui Angela Merkel fece ingoiare la costruzione (poi stoppata con lo scoppio della guerra) del gasdotto North Stream 2 che avrebbe dovuto portare il gas dalla Russia direttamente in Germania, bypassando l’Ucraina e il resto d’Europa (i 1222 km di condutture avrebbero dovuto attraversare il Mar Baltico).
(ANSA il 13 aprile 2022) - "Il presidente Steinmeier è stato da poco rieletto al Bundestag con una grande maggioranza e rappresenta la Repubblica Federale di Germania": lo ha detto oggi un portavoce del governo tedesco. Berlino non ha commentato ulteriormente il rifiuto di Kiev di una visita del capo di Stato tedesco, ma ha confermato nuovamente tutto il sostegno all'Ucraina dello stesso Steinmeier e del cancelliere Scholz.
(ANSA il 13 aprile 2022) - "Siamo chiaramente e completamente dalla parte dell'Ucraina e la sosteniamo nella sua difesa. Il presidente Steinmeier ha già chiarito che gli dispiace di non poter andare in Ucraina e dispiace anche a me, abbiamo parlato insieme di questo viaggio e mi sembrava un'idea sensata", lo ha detto la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock, come riporta un portavoce. Ieri Kiev ha bloccato l'idea di un viaggio in Ucraina del presidente tedesco Steinmeier, a causa delle sue passate posizioni di apertura alla Russia. Il governo ucraino ha però ripetuto un invito al cancelliere Scholz.
Angela Merkel confessa: come e perché ha coperto Vladimir Putin. "Ci odiava e..." Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 09 giugno 2022.
In uno dei cablogrammi segreti che la diplomazia statunitense inviò a Washington nel 2008, diventato pubblico grazie a WikiLeaks, si leggeva che «Medvedev interpreta Robin nel Batman di Putin». L'allievo e l'apprendista succube, dunque. Vale anche per la professione d'odio. Ciò che Dmitry Medvedev, ex primo ministro della Russia, ha detto l'altro giorno di noialtri occidentali («Li odio. Sono dei bastardi e dei degenerati. E finché sarò vivo farò di tutto per farli sparire», eccetera), corrisponde esattamente al pensiero del suo mentore. È stata Angela Merkel a raccontare di aver colto subito, sin dai primi incontri, questo aspetto di Putin. «Odiava» la democrazia occidentale e voleva «distruggere» l'Unione europea, ha raccontato l'ex cancelliera martedì sera, nella sua prima intervista dopo aver abbandonato l'incarico. Purtroppo, questa consapevolezza non la spinse a trattare Putin nel modo in cui meritava.
È accaduto l'esatto contrario, infatti: durante i suoi sedici anni di mandato ha provato in tutti i modi ad accontentarlo, inanellando favori politici ed economici alla Russia. Tanto che la testata online Politico.eu, poche settimane fa, l'ha messa in cima all'elenco degli «utili idioti tedeschi di Putin», per «l'errore catastrofico che le farà guadagnare un posto nel pantheon dell'ingenuità politica al fianco di Neville Chamberlain». Eppure lei rivendica tutto e non si pente di nulla. Nemmeno adesso, dopo l'invasione dell'Ucraina. È successo nel teatro Berliner Ensemble, quello dove Bertolt Brecht mise in scena per la prima volta "L'Opera da tre soldi". La Merkel è impegnata a promuovere il proprio libro, "Was also ist mein Land?" ("Allora, qual è il mio Paese?"), raccolta di tre discorsi uscita qualche mese fa.
A intervistarla sul palco c'è Alexander Osang, giornalista del settimanale Der Spiegel. Argomento obbligato: Putin, la guerra e i rapporti tra i due leader. La sua condanna dell'invasione dell'Ucraina è netta, e ci mancherebbe. «È una violazione di tutte le leggi internazionali e di tutto ciò che in Europa ci permette di vivere in pace», dice la Merkel. Eppure, tra tutti i leader, lei era quella che - per sua stessa ammissione - aveva capito le intenzioni di Putin. Ha ricordato il vertice che nel 2007 i due ebbero nella residenza del presidente russo a Sochi, quando lui, conoscendo il terrore di lei per i cani, la fece avvicinare - raggelandola - dalla sua labrador nera, davanti a cameraman e fotografi. Putin le disse che il crollo dell'Urss era stato «il peggior evento del ventesimo secolo», lei gli rispose di aver accolto la caduta del Muro come la conquista della libertà. Era ovvio già allora, ha ammesso, che tra loro c'era una «grande discrepanza». Anche perché Putin, ha proseguito, «odiava» il modello occidentale di democrazia e voleva «distruggere» la Ue. E proprio questa avversione, secondo la Merkel, spiega la decisione del presidente russo di invadere l'Ucraina: «Il suo obiettivo geopolitico è impedire a un Paese vicino di scegliere un altro modello, che ritiene influenzato dall'Occidente».
Ma allora, se la cancelliera aveva subito inquadrato così bene il personaggio ed individuato nell'odio per l'Occidente la molla che lo spingeva, perché è stata per tre lustri la sua migliore partner su questo fronte? Perché nel 2008 lei si oppose al piano che avrebbe consentito alla Georgia e all'Ucraina di entrare nella Nato entro cinque-dieci anni, rendendo evidente agli occhi di Putin che il blocco atlantico si sarebbe diviso in caso di aggressione russa ai due Paesi? Perché, d'intesa con lui, ha scelto di costruire il gasdotto Nord Stream 2, completato negli ultimi giorni del suo mandato, che se fosse entrato in funzione avrebbe raddoppiato la dipendenza tedesca dal gas russo? La Merkel non ha dato spiegazioni convincenti. L'assoluzione che concede a se stessa è però completa: «La diplomazia non è sbagliata solo perché non ha funzionato. Quindi non vedo perché dovrei dire che ciò che ho fatto era sbagliato e non mi scuserò per questo».
Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” l'8 giugno 2022.
«Il 24 febbraio è stato un taglio profondo nella storia d'Europa», dice Angela Merkel nella sua prima intervista pubblica da quando ha lasciato la cancelleria. E aggiunge: «Non c'è alcuna giustificazione possibile per l'invasione russa dell'Ucraina, che è una violazione brutale del diritto internazionale e di tutte le regole della coesistenza pacifica in Europa. Se iniziamo a tornare indietro di secoli e a dire quale territorio appartiene a chi, avremo soltanto la guerra».
L'ex cancelliera tedesca si è sottoposta per un'ora e mezza alle domande di Alexander Osang, giornalista di Der Spiegel e uno dei suoi biografi, sul palcoscenico del Berliner Ensemble, il teatro di Bertolt Brecht. Merkel, che indossava il blazer pastello (ieri azzurro) e il pantalone scuro diventati il suo marchio di fabbrica, è apparsa rilassata e in buona forma dopo un periodo trascorso sul Mare del Nord.
«È una bella sensazione non essere più cancelliera. Ho più tempo per me, leggo molti libri. Anche questo periodo me lo ero immaginato diverso. Sono una persona politica e la situazione mi rende amareggiata».
La guerra in Ucraina e i suoi rapporti con Vladimir Putin hanno dominato il colloquio. «Mi sono chiesta dove abbiamo sbagliato. Quando incontrai Putin a Sochi, la volta che fece uscire il suo cane, mi disse che la fine dell'Urss per lui è stata la peggiore catastrofe del Ventesimo secolo. Io gli risposi che fu uno dei momenti più belli della mia vita perché significò la libertà. In questi anni c'è stato su questo un profondo dissenso. Non siamo riusciti a porre fine alla Guerra fredda. Non abbiamo costruito un'architettura di sicurezza che forse avrebbe potuto impedire quanto è successo».
Merkel è tornata a difendere la sua posizione al vertice Nato di Bucarest del 2008, quando si oppose al piano con cui George W. Bush voleva portare l'Ucraina nella Nato. «Non era l'Ucraina di oggi, era un Paese spaccato politicamente, dominato dalla corruzione, che oggi Zelensky combatte. Non era una solida democrazia.
E pensavo anche che Putin non l'avrebbe permesso, l'avrebbe preso come una dichiarazione di guerra. Ed ero convinta che avrebbe potuto fare gravi danni all'Ucraina. Pochi mesi dopo intervenne in Georgia. Non potevamo prendere un Paese nella Nato da un giorno all'altro».
L'ex cancelliera rivendica la linea dialogante con il Cremlino tenuta nei suoi anni al potere: «Non mi rimprovero di aver tentato la trattativa con Putin per evitare che la situazione in Ucraina precipitasse. È una grande tristezza non esserci riuscita».
Ma aggiunge: «Non ero equidistante tra Russia e Ucraina nei negoziati di Minsk, il mio cuore ha sempre battuto per l'Ucraina, ma dovevo tenere conto della realtà». Oggi però «l'Ucraina non può essere lasciata da sola». In questo senso, se era «giusto in passato per la Germania non consegnare armi in situazioni di guerra e che ci fosse una distribuzione dei compiti con la Francia», oggi «la situazione è cambiata».
Con Putin, l'ex cancelliera ha spiegato che il rapporto personale è cambiato nel 2014 dopo l'annessione della Crimea: «Prima era diverso, ci facevamo anche dei regali nelle visite, ma dopo fu un'altra cosa, ci fu una rottura, diventò il rapporto razionale tra persone con visioni politiche e valori opposti».
A proposito delle polemiche che hanno accompagnato il suo recente viaggio in Italia, Merkel ha detto di essersi «posta il problema se fosse appropriato fare il viaggio in Italia dopo l'inizio della guerra. E mi sono detta: fallo. Sapevo che ci sarebbe stata discussione e rabbia. Ma questo sottolinea il fatto che non sono più cancelliera e non sono vincolata dal mandato».
(ANSA il 13 aprile 2022) - Il blocco di Kiev di una visita del presidente Steinmeier è stato "irritante", lo ha detto il cancelliere Olaf Scholz in un'intervista a RBB. Scholz ha anche detto che per ora non andrà a Kiev.
Stefano Graziosi per “La Verità” il 3 giugno 2022.
Alla fine si è svegliata. Dopo un lungo silenzio, Angela Merkel ha parlato dell'invasione russa dell'Ucraina, definendola una «barbara guerra di aggressione». E pensare che, se l'Ue non è oggi in grado di mettere in campo una risposta forte al Cremlino, è in gran parte proprio colpa dell'ex cancelliera: quella stessa Merkel che, fino a quattro mesi fa, molti elogiavano come un gigante della politica internazionale.
Eh sì, perché è stata proprio la cancelliera a condurre una strategia di avvicinamento a Russia e Cina: una strategia condivisa anche da Olaf Scholz (che fu vicecancelliere nel suo ultimo gabinetto) e che ha coinvolto l'intera Ue.
Non dimentichiamo che lo scellerato trattato sugli investimenti tra Bruxelles e Pechino, siglato a dicembre 2020, fu un'operazione guidata proprio dalla Merkel, la quale fu anche un'accanita sostenitrice del controverso gasdotto Nord Stream 2, a cui Donald Trump comminò pesanti sanzioni nel dicembre 2019.
Del resto, Trump aveva messo in guardia dal pericolo dell'avvicinamento tra Germania e Russia già nel 2018. «La Germania è prigioniera della Russia perché sta ricevendo tanta energia dalla Russia», disse, «Noi dovremmo proteggerla e loro riempiono di soldi Mosca costruendo il gasdotto». Parole che, rilette oggi, suonano profetiche.
Eppure, all'epoca, gli europeisti acritici (anche di casa nostra) bollavano Trump come un populista, mentre vedevano nella Merkel una statista. Uno statista, secondo la medesima vulgata, si sarebbe d'altronde dovuto rivelare anche Joe Biden che - era maggio 2021- revocò le sanzioni al Nord Stream 2 senza adeguate contropartite né da Mosca né da Berlino. È del resto per disastrose scelte di politica estera come questa che l'attuale presidente americano si sta ritrovando oggi progressivamente con le spalle al muro.
I Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo hanno deciso infatti che non appoggeranno le sanzioni occidentali alla Russia: in quel consesso svolgono significativamente un ruolo decisivo Arabia saudita ed Emirati arabi che, oltre ad essere membri dell'Opec, erano un tempo agganciati all'orbita statunitense.
Sia Riad che Abu Dhabi hanno tuttavia raffreddato i rapporti con Biden a causa della sua disastrosa apertura all'Iran e delle sue posizioni sul conflitto nello Yemen. Questo ha spinto i due Paesi del Golfo sempre più tra le braccia di Mosca, mentre Biden sta ora cercando disperatamente di organizzare un tardivo incontro con Mohammad bin Salman.
Tra l'altro, mentre l'Ue finalizza difficoltosamente un sesto pacchetto di sanzioni zeppo di deroghe e che non entrerà paradossalmente in vigore prima di sei mesi, l'India sta incrementando l'acquisto di petrolio russo: secondo Cnn, il volume di importazione sarebbe nove volte maggiore rispetto all'anno scorso. Si tratta di un enorme problema per l'Occidente, che vede così indebolite le proprie sanzioni e che si trova costretto a subire un inquietante (ancorché parziale) allineamento tra Nuova Delhi, Mosca e Pechino.
Ma i problemi riguardano anche l'Africa. Oggi, il leader dell'Unione africana, Macky Sall, incontrerà a Sochi Vladimir Putin per discutere di fertilizzanti e del blocco cerealicolo. Ricordiamo che, oltre alla Cina, anche la Russia ha ultimamente consolidato la propria influenza sull'area (specialmente Nord Africa e Sahel).
Non è inoltre escluso che il Cremlino possa far leva sulla crisi alimentare per dirigere delle ondate migratorie verso l'Ue. Purtroppo, su questo fronte, si sconta la miopia di Washington e Bruxelles, che non hanno elaborato un'adeguata strategia geopolitica per l'Africa in questi anni, lasciando il continente alle pericolose mire sino-russe.
L'invasione dell'Ucraina frattanto non si ferma. Volodymyr Zelensky ha reso noto che circa un quinto del territorio ucraino è attualmente in mano russa, mentre il generale ucraino Oleksiy Gromov ha detto che la conquista dell'intera regione di Lugansk da parte degli invasori sarebbe vicina.
Nel mentre, Londra si è impegnata ad inviare a Kiev sistemi missilistici a medio raggio. Sistemi simili sono stati promessi anche dalla Casa Bianca, per quanto, secondo il Guardian, saranno soltanto quattro e occorreranno almeno cinque settimane per un adeguato addestramento al loro uso.
Tutto questo, mentre, stando a Politico, vari parlamentari statunitensi bipartisan starebbero pressantemente chiedendo al Pentagono precise rendicontazioni degli aiuti, oltre a informazioni sul tracciamento delle armi inviate a Kiev.
Va da sé che questi fattori rischiano di azzoppare ulteriormente la leadership di Biden, che non è in grado di assumere una posizione chiara, perché ostaggio delle divisioni in seno al Congresso e alla stessa Casa Bianca, senza contare i suoi imbarazzanti cortocircuiti (come quello di allentare adesso la pressione su uno stretto alleato di Mosca come il Venezuela).
Insomma, l'eredità della Merkel e le contraddizioni di Biden continuano ad affossare la deterrenza occidentale nei confronti di Russia e Cina, rendendoci vulnerabili a potenze ostili e revisioniste. Dove sono finiti tutti quelli che li definivano due grandi statisti?
Difesa d’ufficio. Angela Merkel sta lottando per proteggere la sua eredità politica. Luigi Daniele su L’Inkiesta il 13 Giugno 2022.
Nella prima intervista da quando non è più in carica, l’ex Cancelliera rifiuta ogni responsabilità per l’attuale situazione in Ucraina. Alcune delle chiavi di lettura che offre sulle responsabilità del suo governo, accusato di essere troppo morbido con la Russia, sono un po’ deboli e strumentali a giustificare il suo operato
.Il ritorno sulla scena pubblica di Angela Merkel, che martedì sera è stata intervistata al Berliner Ensemble Theater da Alexander Osang dello Spiegel, ha rappresentato l’inizio di una nuova fase di quel processo a sé stessa e alla propria politica estera che la Germania ha intrapreso dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
Dallo scoppio del conflitto, infatti, Berlino è sotto accusa per i suoi legami con la Russia, che la rendono dipendente da Mosca soprattutto sul piano energetico. Legami che sono il frutto della Ostpolitik tedesca, basata, fin dalla sua nascita negli anni Settanta, sulla fede nel principio del «Wandel durch Handel», cioè la convinzione che non solo il commercio avrebbe reso impossibile la nascita di un conflitto militare, ma che la crescita degli scambi economici avrebbe avviato anche in Russia un graduale processo di riforma della società.
Ora che l’invasione dell’Ucraina ha fatto fallire questo progetto, in Germania è iniziato un bilancio che coinvolge politica, società e media, e che vede sotto accusa soprattutto due figure: Gerhard Schröder, ex Cancelliere molto legato a Putin che ora lavora per Gazprom, e Angela Merkel, il cui governo ha intensificato i rapporti con la Russia – come dimostra il progetto Nord Stream 2, poi bloccato dopo l’invasione dal suo successore Olaf Scholz.
Nella sua prima apparizione pubblica da molto tempo, però, Merkel è passata al contrattacco. L’ex Cancelliera, infatti, ha rifiutato con forza ogni responsabilità per l’attuale situazione in Ucraina. «Non mi scuserò», ha detto chiaramente, affermando come lo scenario odierno non vada letto come un fallimento dei suoi sforzi: «Ho cercato di lavorare nella direzione di prevenire danni. E se la diplomazia non ha successo, non significa che sia stata sbagliata. Quindi non vedo perché dovrei dire che è stata un errore».
Al di là dei toni di buonsenso sulla diplomazia, l’impressione, però, è che il ritorno di Angela Merkel abbia avuto soprattutto la funzione di riabilitare la sua figura, impedendo che la guerra in Ucraina ne offuschi l’eredità nell’immaginario collettivo tedesco. Diversi passaggi, infatti, appaiono quantomeno strumentali con la consapevolezza di oggi, oltre che contraddittori tra loro. Due aspetti, in particolare, rendono questa dinamica particolarmente evidente, a causa delle contraddizioni tra l’analisi ex-post fatta da Merkel e il suo operato quando era al governo.
In primo luogo, c’è il modo in cui l’ex Cancelliera ha affermato di considerare Vladimir Putin. Nel corso dell’intervista, Merkel ha difeso il suo lavoro diplomatico e le scelte fatte dal suo governo, rigettando ogni accusa di aver favorito il potere ricattatorio di cui oggi Putin gode sul gas. Ma al tempo stesso si è presentata come molto disincantata sul leader del Cremlino. In un passaggio dell’intervista ha detto chiaramente di aver capito da subito che uno degli intenti di Putin era contrapporsi alle democrazie occidentali, indebolendole. Inoltre, ha sostenuto di non essere mai stata davvero convinta che i rapporti economici con Mosca avrebbero cambiato il comportamento di Putin.
Affermazioni non certo di poco conto, che possono far sorgere la domanda sul perché, nonostante questa forte consapevolezza, da Cancelliera ha aumentato la dipendenza dal gas russo. In altri passaggi, per giunta, Merkel ha descritto Putin come un uomo che «comprende solo il linguaggio della forza», un’esternazione che indebolisce (quantomeno) la sua difesa del lavoro diplomatico svolto.
In seconda battuta, il modo in cui è stata presentata la questione ucraina è sembrata per molti versi una mera difesa d’ufficio, senza una vera e propria voglia di dare vita a un’analisi degli eventi. In merito al suo rifiuto di favorire un avvicinamento di Kiev alla Nato, Merkel ha affermato ad esempio che Putin avrebbe attaccato subito l’Ucraina se questa fosse entrata nella Nato, di fatto anticipando la guerra odierna.
Una tesi inattaccabile, ma solo perché non verificabile: alla prova dei fatti, Putin ha invaso l’Ucraina senza che questa entrasse nell’Alleanza Atlantica e in un momento in cui l’ingresso, anzi, non era più davvero in discussione. Si può ipotizzare, in maniera altrettanto non verificabile ma legittima, che un ingresso nella Nato avrebbe reso enormemente più rischioso per la Russia ogni atto ostile.
L’impressione, dunque, è che sull’Ucraina Merkel, più che tentare di analizzare le responsabilità oggettive, provi soprattutto a difendere quanto fatto dal suo governo. Talvolta anche tralasciando volutamente alcuni aspetti, come quando ha evidenziato il fatto che all’epoca in cui si discuteva di un suo avvicinamento alla Nato, l’Ucraina non fosse una democrazia compiuta: un’argomentazione che appare questionabile se consideriamo che alcuni Paesi dell’alleanza hanno democrazie altrettanto discutibili (si pensi all’Ungheria, che è anche nell’Unione europea).
Tuttavia l’autodifesa di Angela Merkel, per quanto strumentale e orientata prevalentemente alla salvaguardia della propria figura nella memoria tedesca, rivela un aspetto non sottovalutabile del dibattito tedesco sull’eredità della Ostpolitik, e cioè l’impossibilità di considerare i rapporti tra Mosca e Berlino come una storia costituita da un blocco unico, nel cui atto iniziale era già compresa, deterministicamente, l’invasione dell’Ucraina.
Se, in altri termini, non è possibile assolvere le scelte tedesche con la facilità con cui lo fa l’ex Cancelliera, condannare ogni aspetto di quelle scelte con la consapevolezza di oggi può essere altrettanto fuorviante.
Questo non soltanto perché il principio del «Wandel durch Handel» nasce, con Willy Brandt, in tutt’altra epoca – e con tutt’altra Russia – rispetto a oggi, ma soprattutto perché, come sempre nella storia, il percorso è costituito da una miriade di tappe intermedie, scelte personali, casualità ed eventi di cui, nel momento in cui si verificavano, era difficile o impossibile intuirne l’epilogo.
Consapevole di ciò, l’ingresso di Merkel nel dibattito in corso, che rompe un silenzio che andava avanti dalla cessazione del suo mandato di governo, ha soprattutto la funzione di evitare che l’eredità della Cancelleria finisse sotto condanna a causa del clima attuale. Se da una parte risponde a un comprensibile bisogno di difesa, la scelta di tornare a esprimersi pubblicamente ha avuto anche la funzione di aggiungere dei chiaroscuri a cinquant’anni di politica estera tedesca che oggi rischiano di essere letti senza riconoscerne differenze, fasi e accenti.
Anche grazie a quest’operazione, il dibattito sul bilancio della Ostpolitik si arricchirà di considerazioni e punti d’osservazione. Che questo, però, serva davvero a sollevarla da ogni responsabilità nei confronti di Mosca, appare più incerto.
In Germania l’eredità di Merkel rischia di diventare vittima del conflitto ucraino. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani l'11 aprile 2022.
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Questa settimana parliamo di come il conflitto ucraino rischia di compromettere il giudizio positivo sull’eredità di Merkel e di come il paese si indigna per le frequenti manifestazioni a sostegno dei russofoni.
Altro tema al centro dell’attenzione sono le dimissioni della ministra della Famiglia Anne Spiegel. Aveva tentato di salvarsi con una spericolata dichiarazione in cui metteva in piazza la sua vita privata.
Con l'intensificazione sempre più spinta del conflitto in Ucraina, si iniziano ad alzare voci critiche nei confronti del ruolo di Angela Merkel nella politica estera degli ultimi anni. Secondo i critici, è principalmente colpa sua se Germania ed Europa sono oggi così dipendenti dalle forniture di materie prime russe. Merkel nei giorni scorsi ha preso posizione solo sulla critica che riguarda la decisione della cancelliera di non sostenere l'istanza di ingresso nella Nato dell'Ucraina presentata nel 2008: l'ex cancelliera ha rivendicato la sua presa di posizione.
Il Telegraph non va per il sottile e spiega che "Angela Merkel non merita una pensione tranquilla" oltre a sottolineare che "la guerra in Ucraina ha mostrato il lato oscuro dell'eredità di Merkel". Anche Jasper von Altenbockum della Faz è critico rispetto alle poche parole con cui Merkel ha commentato la sua politica nei confronti di Mosca: ad avere bisogno di un ulteriore chiarimento è soprattutto la Cdu, la cui dirigenza ha comunque già espresso sostegno a Merkel, scrive von Altenbockum.
Intanto, sabato scorso a Stoccarda si è tenuta una nuova manifestazione contro le discriminazioni nei confronti dei russofoni. Un evento con le stesse caratteristiche, sempre un carosello di auto con bandiere russe e tedesche, aveva avuto luogo e causato indignazione il fine settimana precedente a Berlino. Gli organizzatori si sono schierati contro la discriminazione dei bambini russofoni nelle scuole. I manifestanti hanno cantato l'inno tedesco e russo e alcune canzoni popolari russe, manifestazioni simili si sono svolte anche in altre città tedesche. Negli articoli e nei servizi dei media sulle manifestazioni gli organizzatori non sono identificati in maniera precisa, ma si autodefiniscono "russofoni".
I Russlanddeutsche e i loro discendenti, cioè quei tedeschi emigrati nell'Ottocento nell'impero russo e poi espulsi nella seconda metà del Novecento dai sovietici, sono una minoranza di circa 2,5 milioni di persone che secondo gli uffici del ministero dell’Interno risulta "ben integrata". Anche questa settimana le manifestazioni contro le discriminazioni sono state analizzate da vicino per identificare eventuali riferimenti pro-Putin e ci sono state alcune contromanifestazioni.
Durante il week end la stampa tedesca si è concentrata soprattutto sul caso della ministra della Famiglia Anne Spiegel. La politica dei Verdi è in difficoltà perché Bild am Sonntag ha rivelato che l'allora ministra regionale dell'Ambiente della Renania Palatinato era andata in vacanza per quattro settimane solo qualche giorno dopo la fine dell'emergenza delle alluvioni che hanno colpito l'estate scorso la Germania occidentale. Oggi pomeriggio la ministra ha deciso di dimettersi.
Fino a ieri sera, Spiegel, per difendersi dalle richieste di dimissioni che sono arrivate dall'opposizione e dalle proprie file, ha scelto una strada pericolosa quanto inusuale. In una peculiare dichiarazione di fronte alle telecamere ha giustificato la sua decisione motivandola con la necessità di riposo della sua famiglia. La ministra ha scelto la via della trasparenza più radicale, rivelando che suo marito ha avuto un ictus tre anni fa e che la vita dei suoi quattro figli in età da asilo e scuola elementare ha subito gravi conseguenze dalla malattia del padre, dai suoi plurimi incarichi a livello regionale e dalla pandemia. Motivi che giustificherebbero, agli occhi di Spiegel, il desiderio di staccare. La sua strategia comunicativa è stata apprezzata per l'onestà ma anche ampiamente criticata.
La settimana scorsa abbiamo anche dedicato un approfondimento al ruolo dei Verdi nel governo semaforo. I due ministri stanno dando un'ottima prova e il risultato si legge nei sondaggi, dove i due raccolgono i gradimenti più alti, superiori anche a quelli del cancelliere Scholz. Mentre Robert Habeck cerca di gestire al meglio la difficile ricerca di altre forniture di gas per sostituire il metano russo, Annalena Baerbock sta fiorendo nel suo nuovo ruolo di capo della diplomazia dopo una campagna elettorale decisamente sfortunata. Lo Spiegel racconta in un lungo articolo la strategia con cui affronta un mondo dominato da uomini in cui lei stessa vuole introdurre una Femministische Aussenpolitik, una politica estera femminista: la tattica di Baerbock è sempre la stessa, cambiare il gioco a cui i colleghi uomini vogliono farla giocare.
LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.
Guerra Ucraina, Angela Merkel riappare: il messaggio contro Zelensky su Ucraina e Nato mentre è in vacanza in Italia. Pietro De Leo su Il Tempo il 07 aprile 2022.
Nelle dinamiche inedite della guerra in Ucraina, “lei” è tra i protagonisti, per quanto protagonista invisibile. Angela Merkel. Il suo ruolo, afferente alla funzione di traino dell’Europa esercitata negli oltre tre lustri di cancellierato tedesco, è stato evocato, dibattuto, scandagliato nel dibattito pubblico in Germania in queste settimane. Così come la presunta quota di responsabilità politiche per l’attuale condizione dipendente alle forniture di gas russo, in cui versano il suo Paese e tutta l’Europa.
Qualche giorno fa, un portavoce ha filtrato (interrompendo in via indiretta la linea del silenzio) la sua posizione, che rivendica la scelta di aver detto no, nel 2008, all’ingresso dell’Ucraina nella Nato. A quanto pare, in questi giorni è in Italia, in vacanza. E si gode il suo soggiorno a Firenze che stando a indiscrezioni dovrebbe durare fino a lunedì.
Tra l’ex cancelliera e il nostro Paese c’è un legame antico, vista la sua tradizionale predilezione per la costiera amalfitana. Una scelta che fece “colore”, negli anni di maggiore ruvidezza di rapporti tra Roma e Berlino (non tanto a livello di governi, quanto di forze politiche d’opposizione e nell’opinione pubblica). Il suo amore turistico per il nostro Paese aveva, quindi, come contraltare l’intransigenza dei tempi dell’austerità come politica europea, di cui la Germania era ligia interprete. Un’epoca fa, oramai.
Angela Merkel, "rivendico il mio no": schiaffo a Zelensky durante le ferie in Italia, esplode la polemica. Libero Quotidiano l'08 aprile 2022.
Certo, non è più "la cancelliera". Eppure ha creato un pizzico di polemica il fatto che nei giorni caldissimi della guerra in Ucraina, lei che con Vladimir Putin potrebbe anche avere una certa ascendenza, sia in vacanza in Italia. Lei, va da sé, è Angela Merkel, la "mutti" di Germania ed Europa, almeno fino a qualche mese fa.
Ora, si trova a Firenze, per una vacanza che stando a quanto si apprende dovrebbe durare fino al prossimo lunedì. Insomma, ben lontana dagli inghippi diplomatici mirati a contenere questa maledetta crisi bellica. Le polemiche la hanno colpita anche in Germania, che insieme all'Italia è il paese più esposto al gas russo: in molti la invocano, chiedono se insomma non potrebbe fare qualcosa per "intercedere". Ma tant'è.
Il punto è che il suo portavoce ha fatto trapelare la posizione della Merkel, la quale comunque ha scelto di non parlare in prima persona. E così apprendiamo che la fu Cancelliera rivendica quanto sostenuto nel 2008, ossia il "no" all'Ucraina nella Nato. Difficile darle torto. Punto e stop.
E la vacanza della Merkel continua, lei che con l'Italia ha un legame viscerale, si pensi alla settimana che ogni anno trascorre in Costiera Amalfitana, settimana che come l'attuale viaggio a Firenze fu aspramente criticata quando, anni fa, i rapporti tra Roma e Berlino non erano propriamente "splendenti".
Biden su Putin aveva ragione, l’Europa della Merkel si è inginocchiata a Russia e Cina. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 6 Aprile 2022.
Secondo Michele Santoro e il professor Orsini non bisogna inviare più aiuti agli ucraini (che almeno per Santoro hanno ragione) perché altrimenti Putin – che già si trova nei guai a causa di un esercito inefficiente – e di un blitz fallito, sentendosi pressato e umiliato potrebbe innervosirsi e ricorrere alle armi atomiche. Il professor Orsini ha sostenuto che qualora Putin ricorresse alle armi atomiche la responsabilità sarebbe degli Stati uniti e della Unione europea che lo hanno ridotto alla disperazione e a una crisi di nervi. Invece per Santoro gli Usa sono il “male assoluto”, come si è visto con i bombardamenti in Iraq, per cui l’Italia dovrebbe spingere l’Unione europea a prendere le distanze da Biden e trattare direttamente con Putin perché comunque lui e la Russia sono sempre comunque parte dell’Europa, mettendo Zelensky in condizione di non nuocere ulteriormente e casomai ritagliargli un piccolo spazio di territorio: il problema fondamentale è che comunque Putin in difficoltà non perda la faccia. Non condivido nulla di ciò che sostiene Santoro – non parliamo di Orsini – se non la critica a Bush jr sull’Iraq, ma per ragioni diverse dalle sue.
Bush jr distruggendo Saddam Hussein sciolse anche il Partito Baath e azzerò l’esercito iracheno consegnando il potere agli sciiti che sono subalterni agli sciiti iraniani per cui è venuta meno l’autonomia politica dell’Iraq. Santoro contrappone gli Usa alla Russia europea di Putin. Sul terreno dei bombardamenti, però, a nostro avviso non c è una superiore “eticità” in quelli russi. Prima di bombardare l’Ucraina gli europeisti russi guidati da Putin hanno beffato Obama: nel 2013 Obama aveva segnato una sorta di linea rossa nei confronti di Hassad qualora egli avesse usato le armi chimiche contro la rivoluzione siriana. Hassad con bombe chimiche (fornite dai russi) colpì città controllate dai rivoltosi siriani, ma Putin lo convinse facendo leva sul suo pacifismo a non intervenire. Dopo di che Putin, passato circa un anno, si ripresentò sulla scena siriana guidando una coalizione composta da truppe iraniane, milizie sciite, hezbollah che andarono all’assalto della rivoluzione siriana che allora era culturalmente laica e democratica.
Allora i russi fecero i loro bombardamenti etici su Aleppo e altre città siriane che furono rase al suolo con centinaia di migliaia di morti e milioni di esuli. Gli stessi bombardamenti ad alto livello di eticità e di europeismo i russi fecero su Grozny e altre città cecene distruggendole. Ma le cose non si fermano qui. Santoro ha omesso di ricordare il ferreo regime autoritario instaurato da Putin in Russia: assassinio sistematico degli oppositori più pericolosi, arresto dei dimostranti, eliminazione di ogni libertà di stampa. Santoro – e non solo lui – si è anche guardato dal fare i conti con il progetto politico e culturale di Putin che non ha nulla a che fare con il comunismo, ma che per un verso è concentrato sulla assoluta personalizzazione del potere, per altro verso è ispirato da un nazionalismo predatorio di estrema destra che ha come riferimento l’Urss non per il suo comunismo originario, ma per ritornare ai suoi confini, rimettendo insieme tutti gli sgravi in nome di quell’Eurasia, di quella Terza Roma, di quella Grande Russia avendo punti di riferimento Pietro il Grande, Ivan il Terribile, non Lenin, ma Stalin che è stato rivalutato. Altro che europeismo! Anzi, l’unità degli slavi, guidati dalla Grande Russia, è alternativa all’Occidente e all’Europa.
Per ricostituire confini sulla stessa linea di quelli dell’Urss Putin non esita a ricorrere allo strumento militare: di qui in successione prima l’intervento in Georgia, poi l’occupazione militare della Crimea con una gravissima violazione delle regole internazionali, adesso il tentativo di blitz volto ad occupare Kiev, a eliminare il legittimo governo, a instaurare un governo fantoccio, una linea del genere non prevedeva nessuna trattativa con un soggetto politico del genere – che, badiamo bene, va preso molto sul serio, più sul serio anche di alcune ricostruzioni che girano sui giornali – l’Italia dovrebbe lavorare a spingere l’Europa a rompere con gli Usa. Si tratta di un invito al suicidio che va respinto al mittente. Il fatto è che questo disegno ideologico-politico- militare in Ucraina è andato incontro ad un grave smacco perché ha sbagliato tutte le sue analisi: il blitz è stato pensato sulla base della previsione che Zelensky fosse un attore pittoresco simile a Grillo, ma anche gli americani, a dimostrazione che non c’era alcun complotto originario, all’inizio hanno invitato Zelensky a rifugiarsi all’estero, che l’esercito ucraino era pronto a fare un colpo di stato filorusso, che il popolo ucraino avrebbe accolto i russi come dei liberatori.
È accaduto esattamente il contrario. Innanzitutto il popolo ucraino (anche larga parte di quello che parla russo) è esattamente l’opposto di quello descritto da Putin nel suo discorso: è un popolo fiero della sua identità nazionale memore di tutto quello che ha passato con i russi (in primis la Grande Carestia con alcuni milioni di morti), l’esercito ucraino ha dato espressione a questa volontà popolare e a sua volta Zelensky da attore si è calato a tal punto nella sua realtà istituzionale che è diventato un grande leader. Così gli ucraini hanno rifiutato la prospettiva di vedere istaurato nel loro Paese, un governo fantoccio guidato dal Lukashenko di turno. Di qui la resistenza ucraina che ha rappresentato un momento della verità per tutti, in primo luogo per l’Europa, poi per gli Usa, insomma per l’Occidente nel suo complesso, che ha finalmente preso coscienza del pericolo costituito dalla Russia di Putin attestata su una linea di nazionalismo aggressivo e predatorio che – qualora il blitz in Ucraina avesse avuto successo – sarebbe passato ad investire la Moldavia e i Paesi Baltici, avendo con la Cina un rapporto preferenziale, volto a marcare una nuova egemonia-dominio nel mondo. A quel punto l’Occidente sarebbe posto di fronte ad una tragica alternativa: o subire la preminenza di un autoritarismo russo-cinese assai invasivo ed aggressivo o andare alla terza guerra mondiale.
Allora la spontanea e durissima resistenza ucraina ha posto e pone due problemi immediati. Da un lato l’Ucraina non accetta anzi respinge come un insulto l’ipotesi della resa, peggio ancora di una resa costruita in modo iniquo stroncando la resistenza con la negazione di un sostegno che riguarda anche le armi. In secondo luogo, sia sul terreno dei valori sia su quello della real politik, Putin va bloccato finché si è in tempo. Anzi, paradossalmente, visto il progetto politico militare di cui è portatore, l’unico modo per arrivare ad una trattativa è proprio quello di rafforzare in tutti i modi compreso l’invio delle armi la resistenza ucraina. Di tutto ciò hanno preso coscienza, ognuno per vie proprie, da un lato gli Usa, dall’altro i vari Stati europei e l’Unione Europea nel suo complesso. Prima di arrivare a questa comune valutazione c’è stato un ulteriore travaglio: si ricorderà che qualche mese fa solo Biden e i servizi americani sostenevano che la Russia stava preparando l’invasione della Ucraina. Questa previsione è stata contestata in modo assai netto specialmente da Scholz e da Macron.
Quando si è visto che questa volta Biden aveva ragione, ciò ha provocato in tempi rapidissimi la revisione profonda di tutto il credito precedentemente dato a Putin. A quel punto è risultato evidente l’errore commesso dalla Merkel durante i quindici anni del suo governo, ispirati da un profondo economicismo per cui l’obiettivo fondamentale è stato quello di privilegiare nel rapporto con la Russia e con la Cina, l’andamento della bilancia commerciale tedesca senza una analisi e una visione geopolitiche. Uno dei risultati catastrofici di quella linea è stato appunto quello di una politica energetica che ha messo un pezzo di Europa (compresa l’Italia) alle dipendenze della Russia. Si dice che Putin si muove per rispondere all’espansionismo della Nato. Putin non ha detto nulla quando la Polonia ha aderito alla Nato nel 1999, e gli Stati Baltici nel 2004.
Va anche detto che non è stata la Nato ad espandersi quanto questi Stati, ex comunisti, che hanno ricercato nella Nato un ombrello che la proteggesse da un vicino del quale, giustamente, non si fidavano. Putin si è scatenato quando in Ucraina il suo presidente è stato cacciato non da un colpo di Stato, ma da grandi manifestazioni popolari. A suo volta Zelensky è stato eletto col 70 per cento dei voti. Putin ha reagito non ad un eventuale adesione alla Nato dell’Ucraina che è stata scartata su richiesta della Germania già nel 2008, ma perché la svolta democratica di quel Paese poteva influenzare il Kazakistan, la Bielorussia, la stessa Russia. Di fronte all’attacco del 24 febbraio previsto solo dagli Usa, c’è stata la svolta.
Nessuno può pensare che all’improvviso il governo tedesco, guidato da un social democratico e composto da Verdi e da Liberali è diventato all’improvviso guerrafondaio. Eppure, di fronte alla evidenza del pericolo, nello spazio di pochi giorni quel governo ha rovesciato la linea della Merkel decidendo di stanziare 100 miliardi di euro per la difesa (ma Macron sta a quota 50 e per di più ha l’atomica). Analogo ripensamento ha fatto il governo giapponese che ha condannato quello che sta facendo Putin ma che deve anche fare i conti con una Cina che ha aumentato in questi anni in modo esponenziale le spese per la Marina perché tiene conto dei rapporti di forza nel Mar della Cina e dei problemi di Taiwan.
Fabrizio Cicchitto
Quel legame con Putin che ora imbarazza Marine Le Pen. Francesco Boezi su Inside Over il 5 aprile 2022.
Tabula rasa: se esistesse un’espressione chiave per spiegare il tentativo che Marine Le Pen sta mettendo in atto sarebbe questa. Per chi crede che Vladimir Putin abbia, negli anni, provato a destrutturare l’Unione europea da dentro, utilizzando questa o quella formazione politica sovranista, i lepenisti non possono che essere ritenuti “colpevoli”. Così, ormai a ridosso del primo turno delle elezioni presidenziali francesi, volenti o nolenti, i dirigenti del Rassemblement National non possono che provare a cancellare tutto il pregresso.
Le prossimità sono state di sicuro ideologiche ed organizzative. E la propaganda è andata di pari passo. Prima della guerra mossa in Ucraina da Vladimir Putin, la figlia di Jean Marie ed i suoi avevano pensato, com’era già successo nelle campagne elettorali precedenti, che sbandierare il “putinismo” degli ex frontisti sarebbe stato un vantaggio. Perché la Russia, prima della ferita bellica che adesso dilania l’Europa, rappresentava per più di qualcuno, anche per l’elettorato vetero-conservatore, i valori che il Vecchio continente aveva riposto in un dimenticatoio.
Poi lo “Zar” ha lacerato l’Europa con la scelta d’invadere il Paese guidato da Volodymyr Zelensy e la narrazione lepenista ha subito modifiche drastiche. Sono scomparsi, per dire, i cartelloni pubblicitari ed i volantini che ritraevano Marine al fianco del presidente della Federazione russa.
A Eric Zemmour forse è andata peggio: il candidato della Reconquete! aveva basato tutta la sua comunicazione elettorale sulla lettera “Z”. La “Generazione Z” è diventata un motto da rimuovere in fretta, così come tutta quella cartellonistica con l’ultima lettera dell’alfabeto. Ma insomma l’imbarazzo di Zemmour, se non altro per via della sua “freschezza” politica, è relativo. Marine Le Pen, dal canto suo, è stata considerata per decenni la putiniana d’Europa. E questo potrebbe essere uno scotto da pagare anche in termini elettorali.
Come ricordato da Mauro Zanon su IlFoglio, le triangolazioni tra il Rassemblement National e Russia Unita sono passate pure da prestiti economici. Non è stata soltanto reciproca simpatia. I lepenisti, nel corso della loro storia politica, hanno potuto contare in più circostanze sull’apporto economico proveniente da Mosca. Il che, adesso, può contribuire a marchiare di dannazione una progressione politica che, per i tanti francesi che sostengono l’esistenza di un arco costituzionale in grado di escludere con naturalezza l’ex Front National, è già dannata di suo. Ad approfittarne sarebbe potuto essere proprio Zemmour ma anche il polemista de Le Figaro, negli anni, ha assunto posizioni in difesa di Putin. E dunque il possibile vantaggio acquisibile non può esistere.
Al netto delle relazioni economiche – come sottolineato dall’inchiesta di Mediapart che sempre Il Foglio ha citato – c’è la grande questione ideologica. Ora come ora, Marine Le Pen ha smesso d’insistere sulla necessità di uscire dal sistema della moneta unica e dall’Unione europea per mezzo di un referendum in stile Brexit. Ma quella, in specie durante la fase post-ideologica della battaglia tra il popolo e l’élite, cioè sino a circa cinque anni fa, è stata la base interpretativa della proposta lepenista. L’Eurasia e l’Europa dei popoli, due espressioni molto in voga nel mondo sovranista, sono state spesso accompagnate da un modello di riferimento: il putinismo e la Russia di Vladimir Putin.
La svolta istituzionale dei lepenisti non può che passare dall’abbandono delle velleità putiniane. Tabula rasa, appunto, in modo che dei finanziamenti ricevuti e delle prossimità ideologiche si parli meno possibile. Stando alle ultime rilevazioni statistiche, l’elettorato transalpino non avrebbe in serbo punizioni eccessive: Marine Le Pen dovrebbe comunque accedere al secondo turno delle presidenziali. Considerate le premesse, potrebbe essere il segno di come il repulisti stia davvero funzionando. Emmanuel Macron, dal canto suo, potrebbe iniziare ad alzare il tiro contro il passato putiniano della figlia di Jean Marie dall’undici aprile in poi: quando saranno pubblici i contendenti del secondo giro di boa del 24 aprile.
Alessandro Trocino per corriere.it il 5 aprile 2022.
Ci sono due grandi leader italiani che non hanno mai condannato Vladimir Putin da quando è iniziata l’invasione. Anzi, hanno evitato accuratamente di pronunciare il suo nome.
Uno è Silvio Berlusconi: solo una lunga riflessione ha partorito una condanna dell’invasione, ma il fondatore di Forza Italia ha omesso di pronunciare quel nome, evidentemente a debito di una vecchia amicizia che non poteva rinnegare. Perché forse per l’ex Cavaliere, come per il suo avversario storico Michele Santoro, il nemico dell’Occidente non è tanto Putin, quanto la guerra. Come se le ostilità si fossero accese per autocombustione e non ci fossero torti e ragioni, aggressioni e aggrediti.
Si potrebbe opinare anche sulle evoluzioni acrobatiche di un altro vecchio amico del presidente russo, Matteo Salvini. Il leader leghista ha cercato di cancellare il passato, senza ridiscuterlo, con un viaggio in Polonia, ma è stato respinto con perdite da un sindaco che ha sventolato la sua maglietta filo Putin. Salvini ha condannato Putin, ma un po’ en passant.
Come ha spiegato a «Report» il radicale Igor Boni, l’accordo di cooperazione tra Lega e Russia Unita è stato appena rinnovato automaticamente, come se niente fosse. E come se niente fosse, ieri Salvini ha esultato per la riconferma di Viktor Orbán. E pazienza se il premier ungherese ha detto di aver vinto anche «contro Zelensky» (e quindi al fianco di Putin).
Scriveva Massimo Franco sul Corriere il 29 marzo: «Siamo di fronte a una miscela di resistenze, che dipendono dai legami politici tra i populisti e il Cremlino: a cominciare dalla Lega di Matteo Salvini e il Movimento 5 Stelle; ma anche dai rapporti personali con Putin di leader come Silvio Berlusconi, silente da molti giorni. D’altronde, è una zavorra difficile da dimenticare in poche settimane».
Ma proviamo a concentrarci su un altro leader, se così possiamo chiamarlo, visto che il fondatore si è specializzato nel ghosting a intermittenza, sparendo per lunghi periodi dalla vita del Movimento per poi tornare a galla per salvare il salvabile. Parliamo evidentemente di Beppe Grillo.
Giunti al quarantesimo giorno di guerra, cominciamo a preoccuparci. Non se ne ha più traccia da settimane. Si è eclissato, è diventato un ricordo sbiadito, un ologramma (come amava etichettare il presidente Mattarella).
Non solo non ha mai nominato Putin in un intervento pubblico, da quando è cominciata l’invasione, ma non ha mai parlato neanche della guerra. Si comincia a sospettare che la notizia non l’abbia raggiunto, nel suo buen ritiro ligure. Forse Grillo non risponde più al telefono a Luigi Di Maio e a Giuseppe Conte. O forse il ministro degli Esteri e il nuovo leader non lo chiamano più.
Gli archivi, maledetti, riportano in superficie alcune sue dichiarazioni vecchie (ma non troppo, del 2017): «La politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti come Putin e come Trump». Ci sarebbe da fare, visti gli eventi, un mea culpa. Oppure ci sarebbe da cambiare rotta, visti gli eventi. Basterebbe un monologhino, uno di quei video surreali ai quali siamo abituati. Ma i politici nostrani (è vero, non è stato mai eletto, ma ha fatto eleggere centinaia di persone) sono abituati a non dare spiegazioni. A fingere che non sia successo niente. Figuriamoci l’Elevato, che non ha certo tempo per dare spiegazioni ai giornalisti, «cadaveri che camminano», come ama chiamarli (alcuni lo sono diventati davvero, in questa guerra).
L’ultima settimana di post del blog è surreale: si registrano pezzi sulla scarsa diffusione dell’energia solare, lo stralcio da un libro del fondatore della fantomatica blue economy, Gunter Pauli. Poi dissertazioni alate sulle particelle di plastica, sulla realtà aumentata, sul reddito universale, sul metaverso, sui robot archeologici. Come se vivesse in una sua realtà (diminuita), in una dimensione altra. Grillo non sa, non vede, non parla. «Io grido» è il nome della sua rubrica sul blog, ma forse è tempo di cambiare titolo. La sua voce arriva ovattata, confusa, flebile.
Proviamo un esperimento. Clicchiamo sulla lente di ingrandimento del suo sito, digitando la parola Putin. La prima voce che spunta risale al 26 dicembre del 2014. Titolo: Dalla Russia con amore. Hashtag: Putin. All’epoca il Movimento era per l’uscita dall’euro. Era l’anno delle proteste di Maidan. Gli ucraini volevano entrare in Europa, e venivano massacrati per questo, i grillini volevano uscire dall’euro. Grillo ma anche Luigi Di Maio (lo ripeteva ancora nel 2017). Il sommario del pezzo non firmato, che lancia la raccolta di firme per una legge popolare, è questo: «Faremo la fine del rublo se usciremo dall’Euro? Magari!».
Ma andiamo avanti. Il 16 febbraio del 2022 Danilo Della Valle, munito di prestigioso master del ministero degli Esteri ecuadoriano, ridicolizza la propaganda Usa contro «il mito dell’orso russo», che farnetica di un’imminente invasione russa, sulla scia di una «narrazione classica russofoba». Il 2 agosto 2021, il blog pubblica un’intervista di Newsweek.
A domanda su cosa pensi di Putin, Grillo risponde: «È certamente una persona che ha le idee chiare. Non temo affatto Putin. La Russia vuole fare commercio, non la guerra. L’antiputinismo ci costa miliardi in sanzioni». Il 10 marzo del 2014 Marcello Foa, che si presenta come «giornalista di scuola montanelliana» ed esperto di «tecniche di manipolazione dei media», racconta «la verità sull’Ucraina». Spiegando, naturalmente, che i «buoni» non sono affatto gli ucraini, ma i russi. Del resto il futuro presidente della Rai sarà ospitato spesso dal blog, sempre tessendo le lodi di Putin e del suo straordinario «sangue freddo» (14 aprile 2021).
Il 25 marzo del 2016, il blog pubblica un intervento della Cgia di Mestre, ultimo di una lunga serie contro le sanzioni alla Russia, con un video dal titolo eloquente: «Io sto coi cattivi. Io sto con la Russia di Putin». Il 2 luglio del 2015, il sacro blog intervista lo scrittore Nicolai Lilin, che ci esorta a uscire dalla Nato e critica gli oligarchi ucraini per non aver scelto «uno come Putin che ama davvero il suo popolo e il suo Paese».
E dire che, in un lontano passato, il blog nominava «woman of the year» Anna Politkovskaja, uccisa l’anno precedente, pubblicando stralci contro Putin. Ma era il 2006. Un’era geologica è passata, generazioni di rettiliani e di terrapiattisti sono stati soppiantati e Putin è passato dalla parte dei perseguitati dall’Occidente. Nel frattempo, nonostante gli auspici di Grillo, non siamo usciti dalla Nato, non siamo usciti dall’euro e non siamo più tanto amici di Putin.
Eppure, Beppe Grillo non ha fatto un plissé. Non ha rivisto le sue idee, né ha giustificato i suoi cambi di rotta sotterranei. Ha taciuto. Anche quando Putin ha decretato la fine delle democrazie liberali. L’entusiasmo per le autocrazie non è mai scemato, semmai è andato in sonno per questioni di opportunità. È anche per questo che un Conte ondivago, con pochette o scamiciato, non è molto credibile quando parla di Russia. Perché ha una storia personale (vedi l’invito diretto a Putin per l’equivoca missione Covid) e un partito alle spalle (dal fondatore fino allo stesso Di Maio, per non parlare di Di Stefano e Petrocelli) che ha flirtato con i nemici della democrazia liberale. E perché c’è l’ombra di Grillo che incombe.
Un fondatore che con le sue ambiguità del passato e con i suoi silenzi attuali, intorbida le acque della politica del Movimento. Pensare di far finta di niente, proprio ora che l’Europa è minacciata e anche l’Italia rischia di finire sotto tiro, è una tattica di piccolo cabotaggio. Ma non è mai troppo tardi.
Ps. Ah, se vi state chiedendo come la pensa Grillo su Orbán, c’è questo pezzo del 2015 firmato da «comedonchisciotte.com», dove si elencano dieci risultati straordinari del premier ungherese, si depreca la «diffamazione» della stampa internazionale ai suoi danni e si spiega: «Qui da noi hanno perfino organizzato un girotondo per la democrazia contro l’antidemocratico Orbán. Che però è stato eletto da un’ampissima maggioranza, mentre qui i “girotondi democratici” non si sono accorti che non si vota ormai da 4 anni e Monti è andato su con una congiura di Palazzo. Quisquilie».
Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 5 aprile 2022.
Internet non dimentica niente. O quasi. In queste settimane di barbarie e orrore russo in Ucraina, fa effetto rileggere gli articoli pubblicati nella galassia informativa online imparentata a Beppe Grillo e al Movimento 5Stelle, che citavano numerosi estratti di media espressione del Cremlino, come Sputnik e Russia Today.
Ma un momento. Voi non potete più leggerli. Perché nel febbraio 2018 Davide Casaleggio figlio del fondatore Gianroberto, decide di estirpare dalla Rete tutti i siti di news sino ad allora realizzati da Casaleggio Associati.
Portali catalizzatori, tra le altre cose, di notizie sensazionalistiche, populiste, acchiappaclick o fake news lanciate dalla propaganda russa e ripubblicate senza problemi. Prima delle Politiche, però, questo esperimento si conclude bruscamente: il M5S vince le elezioni qualche settimana dopo, inizia la sua metamorfosi istituzionale e va al governo con la Lega di Matteo Salvini, per quello che all'estero viene definito "il governo di coalizione più populista d'Europa".
Dunque portali di news legati al M5S come Tzetze ("un servizio straordinario che convoglia tutte le informazioni in tempo reale che si trovano in rete", è l'annuncio-benedizione di Beppe Grillo) e la Fucina vengono prima declassati a blog di cucina, poi scompaiono. Oggi, se si cercano su Google persino i titoli di quelle notizie che rilanciavano articoli e contenuti di Sputnik e Russia Today, non c'è più nulla. Spesso anche la copia della pagina su WebArchive (una piattaforma che permette di "fotografare" un sito in un esatto momento storico salvandone i contenuti), non è più disponibile, poiché il possessore del sito può chiederne la rimozione.
Eppure ci sarebbero contenuti interessanti da rileggere oggi. Ecco qualche titolo, condiviso dai siti di informazione M5S dopo esser stato ripreso dalla propaganda russa: "Lavrov: gli Usa risparmiano l'Isis per indebolire Assad", o "molti media occidentali si sono affrettati a unirsi alla campagna russofoba e diffamatoria contro il presidente Putin", ispirati da Russia Today. Oppure "Vertice Brics: presente tutto il mondo, escluso l'Occidente", "La mossa di Putin oscura Obama", o la bufala complottista, anch' essa ancora da Sputnik: "Gli Usa finanziano il traffico di migranti verso l'Italia?"
«Ecco perché, con i miei legali, abbiamo appena depositato agli atti una perizia legale » (che Repubblica ha visionato), un atto che «ha recuperato questi contenuti e ne certifica la loro esistenza anche se sul web è stata rimossa ogni traccia». A parlare da Londra, dove oggi vive, è il whistleblower, scrittore e programmatore Marco Canestrari, 38 anni, di cui 4 alla Casaleggio Associati. Poi però ha sbattuto la porta perché «ho letteralmente visto nascere la propaganda populista in ufficio». Da allora, è stato molto critico nei confronti del M5S, ha scritto libri come "Supernova" e "Il sistema Casaleggio" con Nicola Biondo.
Ora è stato denunciato per diffamazione dal figlio di Gianroberto per un articolo e un tweet polemici. Ma se oggi possiamo rileggere quegli articoli, è grazie a questo ex dipendente della Casaleggio Associati. «Riprendendo quei pezzi», spiega Canestrari, «notando che le fonti spesso sono siti di propaganda russa, mi pare molto plausibile che il Cremlino abbia voluto influenzare l'opinione pubblica italiana anche attraverso il M5S - ai cui vertici operava la Casaleggio Associati, fino al 2020 anche con la piattaforma Rousseau - partito che nel 2018 va al governo. Inquietante». Casaleggio e il Movimento 5 Stelle hanno sempre smentito seccamente simili ricostruzioni.
«L'accusa di fare propaganda pro Cremlino o di diffondere notizie false è ridicola», rispose Grillo a una inchiesta di Buzzfeed nel 2016. Quell'articolo della testata americana, raccontò la stupefacente metamorfosi di Grillo, del Movimento e dei suoi siti nei confronti della Russia. Inizialmente molto critici verso il Cremlino, fino alla guerra di Crimea. Poi, la capriola: Crimea riconosciuta alla Russia, crescenti critiche alla Nato, l'attuale sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano che parlò di colpo di Stato a Maidan-Kiev nel 2014, secondo lui influenzato da Usa e Ue. Tutte cose che oggi ci farebbe piacere rileggere. Purtroppo, è impossibile. O quasi.
Silvia Francia per "La Stampa" il 9 aprile 2022.
Libertà, uguaglianza, fraternità. Anche se l'imprinting marxista è dichiarato, Moni Ovadia sembra fondare il suo discorso su principi cardine dell'Illuminismo settecentesco. Non soltanto, certo. Giocano mille altre valenze in una filosofia che matura da un'origine di ebreo sefardita cresciuto in Occidente, con una formazione di artista e intellettuale di larghe vedute e di un sentire esistenziale che prescinde da fedi o appartenenze aprioristiche.
È su questa matrice culturale che ha fondato molti dei suoi fortunati spettacoli, da Oylem Goylem a AdessOOdessa. Ora, Ovadia sta portando in giro per l'Italia il suo nuovo titolo, Cartabianca. Una ricostruzione, giorno per giorno, a seconda delle urgenze del nostro presente. L'urgenza oggi è la guerra in Ucraina e Ovadia lo sa bene: a casa sua sta ospitando tre profughi ucraini «e altri arriveranno».
Settant'anni dopo la carneficina della seconda guerra mondiale l'Europa è attraversata da un conflitto che potrebbe estendersi su scala più vasta.
«Anche se devo la vita all'Armata Rossa, perché senza di loro sarei probabilmente morto passando per un camino, preferisco vivere nella finta democrazia italiana, che poi è un'oligarchia, che nella Russia di Putin. E, se vivessi là, sarei in carcere già solo per il fatto che difendo i diritti degli omosessuali. Eppure credo che Putin non sia Hitler e non sia un pazzo: certo, sta facendo una guerra - di per sé un'atrocità - e dovrebbe smettere, ma penso sia stato a lungo provocato. Da tempo esterna il suo malcontento per l'eccessiva vicinanza della Nato ai confini del suo Paese. Zelensky non ha reso un buon servizio agli ucraini. Se hai vicino a te un colosso ringhioso, non gli fai i dispetti. A meno che lui sia asservito agli Usa, cosa di cui sono convinto».
Fosse comuni, bombe sugli ospedali, torture alla popolazione, donne e bambini uccisi: eppure, con questo campionario, lei dice che Putin non somiglia a Hitler?
«Ma allora dovremmo dire che tanti presidenti americani sono stati come Hitler. Dal Vietnam in poi gli Usa fanno guerre sanguinose e lasciano dietro sé morte e devastazione, ma nessuno li ha mai paragonati alla Germania nazista. Certo, le guerre portano con sé la violenza. Per questo io sono pacifista. Un tempo a morire erano soprattutto i soldati, oggi a soccombere è al 95% la popolazione civile».
È anche contrario all'invio di armi in Ucraina?
«Se mandi armi si prolunga la durata del conflitto. Putin può andare avanti a lungo con l'offensiva. Certo, per molti Paesi, Usa in testa, sarebbe conveniente, l'industria delle armi è una lobby potente. Ma poi, vogliamo far scoppiare la Terza Guerra Mondiale?».
Cosa si dovrebbe fare, secondo lei, per fermare Putin?
«Avviare trattative diplomatiche, in cui gli si chiedesse cosa vuole in cambio della fine della guerra. Chiede indipendenza di Donbass e Lugansk, garanzie per i cittadini russi in Ucraina? Vuole che la Nato faccia un passo indietro? Se ne discute e si possono anche rivedere le pertinenze della Nato. Ai tempi di Gorbaciov, dopo il crollo del muro, tra Usa e Russia c'era l'intesa che la Nato non si estendesse oltre i confini della Germania dell'Est e vediamo cos'è invece accaduto. Putin ha provato a protestare, nessuno gli ha dato retta. D'altro canto, perché il Patto di Varsavia si è sciolto dopo la fine dell'Urss e quello Atlantico, invece, è ancora in auge? Non dimentichiamo che molti Ucraini parlano russo e che scrittori come Gogol e Bulgakov, ascritti alla cultura russa, erano nati in Ucraina. Andrebbe fatto ciò che fecero Kennedy e Krusciov all'indomani della crisi di Cuba. E, invece di alimentare le fiamme, bisognerebbe mettere in pratica il principio guida di Mandela: verità e riconciliazione».
In Italia si discute di riarmo. Che ne pensa?
«Tutto il male possibile. D'altro canto, se il Pd è un partito di sinistra, io sono il Papa. Il Pd è un partito di centrodestra. La sinistra non esiste più. Io mi sento profondamente di sinistra e credo in concetti come uguaglianza, pari dignità e diritti, uguale accesso all'eccellenza della conoscenza, giustizia sociale, pace, istruzione e sanità pubbliche, internazionalismo. Principi che non sono il cardine di nessun partito italiano. Anche quelli più onesti, come Sinistra Italiana, mancano di una piattaforma teorica e di un linguaggio consono ai nostri tempi».
Che futuro ha l'Europa?
«Siamo a un bivio: o riusciamo a esprimere un politica economica e militare in comune o si fallisce».
Nel suo spettacolo Carta bianca (domani al Garybaldi di Settimo Torinese per la stagione di SantiBriganti), seguendo un filo rosso dettato dalle urgenze del presente, si parla di attualità, stili di vita, di una spiritualità silenziata.
«L'occidente è assoggettato all'immaginario di un'America che vuole esportare, anche con l'uso massiccio di armi e violenza, il suo stile di vita. Che non amo. Abbiamo desertificato il cielo, svuotando di significato l'esistenza: e lo dico da agnostico. Viviamo secondo il motto time is money: l'imperativo dell'essere produttori e consumatori. Quando siamo davanti alle meraviglie del pianeta, invece di contemplarle, ci facciamo i selfie».
Cosa conta davvero?
«Per me, il tempo è misura delle nostre relazioni. Con le persone, con la natura, le piante e gli animali. Io sono quello che impropriamente si definisce un animalista: credo che la relazione con questi nostri infelici fratelli di strada sia una delle cose più belle e sorprendenti della vita. Quello che noi facciamo a questi esseri viventi, trattandoli molto peggio di oggetti, è terribile».
"La nostalgia del comunismo spinge la sinistra verso Putin". Francesco Boezi il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.
Il giornalista: "Patetici slogan anti-Nato: rimpiangono il Muro di Berlino e l'Urss. E l'Occidente è responsabile".
Pierluigi Battista, noto giornalista ed editorialista, svela la natura della sinistra filo-Putin e richiama l'Occidente alle sue responsabilità storiche.
C'è una sinistra massimalista che sulla guerra in Ucraina sta prendendo delle posizioni antisistemiche.
«Cosa vuol dire massimalista? Questa è una sinistra con una matrice comunista non smaltita. Una sinistra in cui si mescolano nostalgie dell'Urss, pulsioni antiamericane, vecchi e patetici slogan contro la Nato, incomprensione della natura totalitaria di un regime come quello di Putin, cliché culturali che sono sempre gli stessi da decenni ed un infinito rimpianto del muro di Berlino».
Una sorta di «nostalgia del '900».
«No, macché '900. Non procediamo per slogan. È nostalgia del comunismo (scandisce, ndr). Perché nel '900 c'è stato anche Winston Churchill, che andava benissimo. Quella è una parte che ragiona come se il muro di Berlino non fosse mai crollato. Un pezzo di mondo che ha anche molta insensibilità verso la sorte dei dissidenti, com'è sempre accaduto. Si tratta di una sinistra nostalgica che fa finta di non capire. Devo dire la verità, però...».
Cioè?
«Pure a destra ci sono dei problemi. Sta venendo fuori una destra illiberale, con un'anima affascinata nel profondo dai sistemi totalitari e molto poco legata ai valori dell'Occidente liberal-democratico. Il quadro nel complesso è abbastanza drammatico».
I no vax tendono a simpatizzare per Putin e magari sostengono le recenti misure restrittive cinesi sul Covid.
«Sì, sono libertari da una parte ed autoritari dall'altra. Le immagini che provengono da Shanghai sono inconcepibili. Quello però è il mondo che sta venendo fuori e che sarà egemone nel prossimo secolo: un asse russo-cinese, che è un sistema di illibertà che calpesta i valori dell'Occidente, quindi la dignità e la libertà degli individui. Quando Biden si ritira dall'Afghanistan e lo lascia ai talebani, lancia al messaggio un mondo: fate quello che volete».
Una presidenza deludente quella statunitense?
«Sì, deludente ma, rispetto alla guerra in Ucraina, è meglio tenerselo che essere delusi. Io sto con gli Stati Uniti d'America ed i valori dell'Occidente: stelle e strisce. Poi i presidenti si possono criticare, per carità. Il problema vero è stato abbandonare l'Afghanistan: ha costituito un segnale. Con ogni probabilità, Putin non avrebbe invaso l'Ucraina se non avesse percepito un ritiro dell'Occidente. L'asse russo-cinese, al di là dei fatti dell'Ucraina, sta spostando l'equilibrio psicologico mondiale: nessuno si fida più dell'Occidente. Basta citare l'abbandono dei curdi e quello dei gruppi che in Afghanistan hanno combattuto contro i talebani. Al mondo non conviene stare con noi: conviene stare con i potenti autocrati, che poi sono i russo-cinesi».
Un passaggio sulle elezioni francesi: sarà ancora Emmanuel Macron contro Marine Le Pen.
«Io fossi in Francia voterei Macron, perché è importante che non vinca la Le Pen, ma penso che siano troppi anni che scegliamo per non avere il peggio. Bisognerebbe votare per avere il meglio. Dopo la seconda guerra mondiale, i Paesi dell'Occidente hanno espresso grandi progetti politico-culturali che hanno diffuso benessere e protezione sociale. Per cui, nel complesso, siamo tutti cresciuti molto nell'arco di pochi decenni. Questo ha attirato anche i Paesi dell'Est Europa che erano sotto il tallone comunista e che hanno iniziato a rivolgersi all'Occidente. Il nostro era un mondo migliore. Tutto questo non esiste più. Non ci si può più permettere di dire: Votate me perché sennò arriva il mostro. Bisogna tornare a chiedere il voto per un progetto complessivo. Quanto può durare questo andazzo?».
Però voterebbe Macron.
«Sarebbe una catastrofe, in questo momento storico ed in relazione alla guerra in Ucraina ed a Putin, se vincesse la Le Pen».
Zar Vlad. Il manifesto di guerra del Cremlino e l’oblio dei putiniani a loro insaputa. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 16 Aprile 2022.
La requisitoria con cui il dittatore russo ha giustificato l’invasione in Ucraina non è altro che la versione laica della crociata del Patriarca di Mosca Kirill. Gli opinionisti di sinistra che alzano la bandiera neutralista nei talk show dovrebbero anche rileggersi i passaggi fortemente critici nei confronti del Pcus e dell’Urss.
Ha ragione Francesco Cundari: «C’è un salto di qualità, ma soprattutto c’è un abisso morale che separa le discussioni sulla guerra in Ucraina da tutte le precedenti, per quanto grottesche potessero essere pure quelle». Soprattutto non riesco a capire come si possa essere o essere stati, nel corso della vita, di sinistra e stare, oggi, dalla parte di Putin.
Perché è quanto succede – anche se si ammette che la Russia è l’aggressore – quando – cito ancora Cundari – quando l’oggetto della contesa riguarda l’invasione di un Paese libero e democratico, quando cioè il dibattito si svolge mentre sono in corso stermini, torture, stupri di massa e in tanti vanno «in tv ad accusare chi vorrebbe fermare tutto questo di non volere la pace e mettere a rischio il dialogo con i torturatori». Quando si va alla ricorda disperata di spiegazioni, di altrui responsabilità per poter invocare la pace all’insegna del né-né.
Eppure basterebbe leggere ciò che ha detto la Zar del Cremlino, il 22 febbraio, nel discorso che si è tradotto nella dichiarazione di guerra all’Ucraina. In più di 3,6mila parole l’acronimo Nato non compare neppure una volta; e neppure le parole «minaccia» e «accerchiamento». Un’altra grande assente è la definizione «nazista» (si parla solo una volta di «neonazismo aggressivo»).
Putin accusa gli ucraini di nazionalismo. Ed è veramente difficile capire perché le traduzioni in italiano si arroghino il diritto di passare sopra a una differenza di grande rilievo come questa. Come si diventa nazisti nel XXI secolo? Non c’è traccia di propaganda antisemita in Ucraina, anche perché il tributo di dolore e di morte che quel Paese ha dato alla Shoah è tra i più elevati e crudeli.
La dottrina di Putin è stata spiegata più volte: l’Ucraina non è una nazionalità autonoma ma è parte della Russia ed è giusto che la Grande Madre torni a riprendersela, anche perché gli ucraini dal Maidan in poi hanno fatto i furbi giocando su due tavoli, mostrando una colpevole ingratitudine nei confronti degli aiuti di cui la Russia era stata prodiga.
Il dialogo con la Federazione russa sarebbe stato usato «come merce di scambio nelle sue relazioni con l’Occidente, usando la minaccia di legami più stretti con la nostra nazione per ricattare l’Occidente allo scopo di assicurarsi preferenze», affermando che altrimenti la Russia avrebbe avuto un’influenza maggiore in Ucraina. In sostanza i cattivi ucraini avrebbero strumentalizzato anche l’Occidente.
Poi il discorso si conclude con le critiche alla gestione dell’economia, mentre «la cosiddetta scelta di civiltà filo-occidentale operata dalle autorità oligarchiche ucraine non era e non mira a creare condizioni migliori nell’interesse del benessere delle persone ma a trattenere i miliardi di dollari che gli oligarchi hanno sottratto agli ucraini, i quali tengono i loro conti in banche occidentali (come fanno gli oligarchi russi, ndr) mentre assecondano con riverenza i rivali geopolitici della Russia».
A pensarci bene la requisitoria di Putin non è altro che la versione laica della crociata del Patriarca di Mosca Kirill. In sostanza gli ucraini vanno rieducati; e questo è un compito che spetta alla Madre Russia, custode dei valori e delle tradizioni di secoli di storia. Ai putiniani a loro insaputa che frequentano le fumerie di oppio dei talk show è bene far notare alcuni passaggi del discorso fortemente critici nei confronti del Pcus e dell’Urss.
Secondo Putin «l’Ucraina sovietica è il risultato della politica dei bolscevichi e può essere giustamente chiamata l’Ucraina di Vladimir Lenin. Egli ne fu il creatore e l’architetto». Ma c’è di peggio: «Nel corso della lotta per il potere all’interno dello stesso Partito Comunista (è trascorso un secolo, ndr), ciascuno degli opposti schieramenti, nel tentativo di espandere la propria base di sostegno, ha iniziato a incitare e incoraggiare sconsideratamente i sentimenti nazionalisti, manipolandoli e promettendo ai loro potenziali sostenitori qualsiasi cosa desiderassero».
Sappiamo che Putin ha archiviato la Rivoluzione di Ottobre che si celebrava con grande sfarzo di armamenti e di delegazioni e l’ha sostituita con la ricorrenza del 9 maggio, giorno della vittoria nella Grande Guerra patriottica. Ma lo Zar va oltre nel rivendicare la ricostruzione dell’Impero. Nel testo vi è una critica radicale all’umiliante (sic!) Trattato di Brest-Litovsk, con il quale la Russia, dopo la caduta del regime zarista, negoziò una pace separata con gli Imperi centrali uscendo così dal conflitto «nonostante la situazione militare ed economica della Germania del Kaiser e dei suoi alleati fosse drammatica e l’esito della Prima Guerra Mondiale fosse scontato».
In sostanza la Russia rivoluzionaria avrebbe dovuto continuare a combattere a fianco dei Paesi capitalisti. E qui c’è un altro atto d’accusa contro Lenin e compagni. «Dopo la rivoluzione, l’obiettivo principale dei bolscevichi era quello di rimanere al potere a ogni costo, assolutamente a ogni costo». Fecero di tutto a questo scopo soddisfacendo qualsiasi richiesta e desiderio dei nazionalisti all’interno del paese.
Così siamo diventati il Paese dei «però». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.
Il Paese del però. Il segretario del Pd Enrico Letta si è preoccupato non poco leggendo un sondaggio di Ipsos sull’invasione di Mosca: solo sei italiani su dieci (57%) dicono apertamente di stare con l’Ucraina, un 5% parteggia per la Russia (sì al tiranno, pur di criticare la Nato) e un 38% di intervistati non prende posizione (Putin è un criminale, però Biden…). L’Ucraina è stata aggredita, però metà degli italiani (48%) preferirebbe evitare coinvolgimenti nel conflitto. Difficile guidare un partito (e una nazione) fra tante avversità e altrettanti avversativi. C’è sempre un però. Amiamo la libertà, però se non costa troppo (il condizionatore di Draghi era una metafora!). Possiamo tentare di fermare con le sanzioni una guerra spietata, però i no vax della geopolitica dicono di no. Si affaccia di nuovo lo spettro dell’inflazione, però è meglio se aumentiamo il debito pubblico. Siamo per le energie rinnovabili, però i pannelli fotovoltaici sono antiestetici, però le trivellazioni faranno sprofondare il mare Adriatico, però le pale eoliche deturpano il paesaggio, però il nucleare... Il però ci condanna alla capziosità, al tentennamento, all’inazione. Per colpa di un accento, scriveva Gianni Rodari, «un contadino a Rho/tentava invano di cogliere/le pere da un però». È il destino che ci attende.
Il compagno Vlad. La struggente passione per Putin dei vecchi filosovietici italiani. Mario Lavia su Linkiesta l'8 aprile 2022.
Fa effetto vedere quelli che veneravano Lenin e giustificavano Stalin restare fedeli a Mosca pur di criticare la Nato.
«Non perdonerò mai Putin di avermi costretto a pensare che “la rivoluzione socialista d’ottobre” sia servita all’autocrazia russa per trasferirsi dal XIX al XXI secolo», twitta tra lo stupefatto e l’amareggiato Claudio Petruccioli, che pure nel Pci fin da anni lontani non fu mai dalla parte del Cremlino, allora sovietico, e che dunque oggi è naturaliter dalla parte giusta. Certo, constatare la continuità sostanziale fra zarismo, bolscevismo e putinismo è qualcosa che anche nella sinistra democratica fa effetto: e ammettere che così come l’Ottobre non aprì una nuova storia (se non, certo, per il mito che diffuse in Occidente), il crollo del Muro non ha portato a Mosca la democrazia può essere per molti una dura prova.
Se fosse vivo il grande scrittore russo Ivan Bunin, premio Nobel 1933, fervente antibolscevico, rivolgerebbe ai putiniani gli stessi strali fiammeggianti destinati dopo la Rivoluzione agli uomini di Lenin: «Quanti sono gli idioti convinti che la Russia sia stata protagonista di un grande “mutamento” verso qualcosa di completamente nuovo, di mai visto prima!“ (I. Bunin, “Giorni maledetti”, Voland, 2021). Siamo anche oggi dinanzi alla conferma della storica immutabilità russa, della impossibilità per essa di diventare una democrazia, almeno a giudicare dal fallimento della rivoluzione liberale del 1905, dal naufragio del kruscevismo prima e del gorbaciovismo poi.
Dopo il 24 febbraio 2022 dovrebbe essere chiaro a tutti che la “irriformabilità” non era del comunismo sovietico ma proprio della Russia. Eppure «i filorussi sono tantissimi», si meraviglia un altro “vecchio” del Pci, Luigi Berlinguer. Il cui illustre cugino Enrico ben 41 anni fa dichiarò esaurita la spinta propulsiva dell’Unione Sovietica – formula un pelino ambigua: si era esaurita ma poteva riprendere, o era morta per sempre? – e tuttavia i filosovietici “di sinistra” ci sono ancora: non se n’erano mai andati. Erano “in sonno” in attesa di un cenno da Mosca. Ora l’hanno avuto.
Furenti con Gorbaciov che aveva ribaltato l’abc di Mosca, storditi da Eltsin che tra una vodka e l’altra pure completò la demolizione, hanno visto in Vladimir Putin se non proprio un “compagno” uno con lo stesso odore di Lubjanka e di KGB, un “figlio del partito” e dunque di quel mito antinazista di Stalingrado che oggi torna in auge nella propaganda del Cremlino, gli stessi occhi gelidi del “capo” che infine vuole restaurare i confini e il prestigio della vecchia cara Urss.
Gianfranco Pagliarulo, il presidente di una post-Anpi ove si fondono vecchi nostalgici e giovani estremisti, già deputato cossuttiano, peraltro persona mite, conosce bene il gioco delle tre carte tipico dei filosovietici: la responsabilità della guerra è della Russia, certamente, però il contesto autorizzava l’invasione, o giù di lì, che è esattamente la stessa logica che guidava il Pci nel 1956 quando giustificava i carri armati sovietici a Budapest perché c’erano presunte manovre reazionarie che coinvolgevano “i preti” del cardinal Mindszenty, tutte balle poi ammesse autocriticamente da esponenti come Pietro Ingrao e Giorgio Napolitano, ma tanti anni dopo.
Armando Cossutta, anch’egli persona di garbo, negli anni Ottanta animò una corrente che ostacolava il revisionismo di Berlinguer e poi guidò Rifondazione comunista dopo la svolta di Achille Occhetto. Sul Fatto, Gad Lerner ha scritto che «Cossutta, da autentico nostalgico dell’Urss additerebbe in Putin quanto di più distante dai suoi discutibili ideali»: e invece secondo noi no, pure “l’Armando” avrebbe anche in questa circostanza fatto sfoggio della classica dialettica truccata dei comunisti filosovietici, quella appunto del suo ex braccio destro Pagliarulo – Putin ha sbagliato ma aveva le sue buone ragioni.
Persino Fausto Bertinotti, che non è mai stato filosovietico, in odio all’egemonia americana è oggi sulla linea della “complessità” che è adiacente a quella dei giustificazionisti, così come pure gran parte della vecchia-nuova redazione del Manifesto, nato 50 anni fa proprio in dissenso con la timidezza revisionista del Pci: una nemesi sorprendente è un po’ triste.
E poi ci sono i filosovietici più stolidi, oggi filo-Putin, come l’editore Sandro Teti – casa editrice ai tempi vicina a Cossutta – che ha detto a Sky che «non è vero che i russi stanno bombardando a tappeto le città», mentre in un’altra intervista ha sostenuto che la Russia di Putin è un Paese democratico, «c’è il settimanale della Politkovskaja (la giornalista dissidente assassinata nel 2006, ndr) che si può trovare, ad esempio, in tutti gli aeroporti».
Sui social poi è pieno di post di ex iscritti al Pci – e non si tratta solo di persone anziane – che difendono il dittatore di Mosca visto come il baluardo al trionfo del “capitalismo degli americani” e la crescente disuguaglianza in Occidente.
In un bellissimo articolo sul Foglio, Siegmund Ginzberg, vecchio giornalista dell’Unità che conosce bene la storia del Pci, ha scritto: «Mi fa un certo senso veder dare per scontato che i “vecchi comunisti” debbano essere per forza filo-sovietici, e di conseguenza, filo-Putin, e ovviamente anti-americani, anti-Nato». Giustamente, ricorda che già dagli anni Sessanta i gruppi dirigenti avevano sostanzialmente archiviato il mito di Mosca: ma non lo dicevano apertamente: «Avevamo paura di perdere il partito», ammise Alfredo Reichlin nella sua autobiografia. Oggi i frutti avvelenati sotto le sembianze di certi Russlandversteher hanno le radici nel filosovietismo “di sinistra” trasformatosi come in una novella di Ovidio in filoputinismo. La vecchia Russia, impasto di Oriente e Occidente, da sempre “paese di risse”, non è cambiata, e a quanto pare nemmeno i suoi fedeli.
Valerio Valentini per “il Foglio” il 7 aprile 2022.
Roma. Più che annullato, rinviato. E non per volere di Matteo Salvini, per un sussulto di resipiscenza atlantica. A congelare il viaggio in Francia del leader della Lega, a quanto pare, è stata invece Marine Le Pen. La quale, col passaggio al secondo turno delle presidenziali acquisito, sta preparando un comizio con tutti i suoi alleati europei, attuali o futuribili, tra cui anche Viktor Orban. Ed è lì, in vista del ballottaggio, che forse anche Salvini varcherà le Alpi. Per un evento ad alto tasso di filoputinismo, evidentemente.
E forse è anche per questo che, sia tra i deputati sia tra gli europarlamentari, lo spaesamento è totale. E anche la paranoia. E sì che a vederla con gli occhi di Giancarlo Giorgetti, la faccenda sarebbe abbastanza semplice, da capire: "Era scontato che la guerra avrebbe spinto Mario Draghi a rafforzare il profilo atlantista del governo". E infatti quando martedì mattina erano usciti da Palazzo San Macuto, i leghisti Paolo Arrigoni e Raffaele Volpi avevano recepito con chiarezza l'avviso ai naviganti lanciato dal premier durante la sua prima audizione davanti al Copasir.
Al che, quando un paio d'ore dopo hanno letto le dichiarazioni di Lorenzo Fontana che criticava l'espulsione dei trenta diplomatici russi, sono trasaliti.
Il tutto mentre, molti chilometri più a nord di Roma, gli europarlamentari del Carroccio riuniti in assemblea chiedevano lumi sulla linea da tenere: "Non siamo né carne né pesce, sulla Russia continuiamo a balbettare, a contraddirci". Lamentele che i capi delegazione, Marco Zanni e Marco Campomenosi, respingevano con l'aria di chi non sa, ma s' adegua: "Matteo non vuole rogne, qui a Bruxelles".
E però per capire che la vaghezza non valga a risolvere le tensioni interne, basta affacciarsi a Montecitorio. "I diplomatici espulsi?", sorride sotto i baffi Antonio Zennaro, leghista abruzzese che per due anni è stato al Copasir. "Non sempre i diplomatici sono solo diplomatici", sibila. "E di certo non lo erano quelli che il governo ha espulso", conferma a voce alta Matteo Bianchi.
E del resto la giornata inizia con un Riccardo Molinari che davanti alle telecamere di La7 confuta in pieno le tesi di Fontana e Salvini ("Se la Farnesina li ha espulsi avrà avuto le sue buone ragioni") per poi respingere in modo netto le critiche di chi, tra i suoi colleghi, gli fa notare lo sgarbo al leader: "Se vado in tv, ci vado per dire come la penso", spiega il capogruppo alla sua truppa. Che nel frattempo si ritrova pure a interrogarsi sui messaggi in bottiglia che una veterana come Barbara Saltamartini, molto vicina al colonnello Nicola Molteni, lancia su Facebook.
"Quando viene meno la Comunità, quel sentire comune di appartenenza a un progetto (...) tutto crolla", scrive la deputata in un post che viene subito rilanciato nelle chat interne, prima che lei stessa decida di cancellarlo.
Ma non è un liberi tutti. E' piuttosto il segnale di una paranoia diffusa nella truppa. Dove le parole del capo dell'intelligence di Palazzo Chigi, Franco Gabrielli, quel suo "se avete rapporti con Cina e Russia noi lo veniamo a sapere" scandito davanti ai membri del Copasir, risuonano con l'eco di una "mezza minaccia".
E appaiono i fantasmi, allora: si diffondono pettegolezzi su dossier costruiti dai servizi segreti pronti a infangare parlamentari leghisti, si accreditano tesi per cui i quotidiani che attaccano la Lega ricevono "pizzini" dall'Ambasciata ucraina.
"Il problema è essere chiari sulle premesse, e dire che Putin ha compiuto una follia", spiega Dario Galli, ex viceministro nel Conte I. "Dopodiché, ci sta il richiamo alla tutela dei nostri interessi economici. Ma senza quelle premesse si finisce col legittimare tutti i sospetti, pure quelli più assurdi". Ma chissà se sul palco della Le Pen, accanto ai leader che ammiccano al Cremlino e scommettono sulla disgregazione europea, basterebbe essere chiari nelle premesse.
Quelli che (da Salvini a Grillo) non usano più la parola «Putin». Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 5 Aprile 2022.
Berlusconi ha condannato l’«aggressione inaccettabile» ma dopo 38 giorni e senza citare il leader russo E tra chi lo «dimentica» c’è anche il presidente dell’Anpi.
Cinque lettere, tre consonanti, due vocali. Nessuna difficoltà nella pronuncia. Eppure le parole circumnavigano. E le frasi, ellittiche del soggetto, zoppicano, traballano, incespicano, ruzzolano. Come è difficile dire: Putin. Una strana forma di afasia, limitata all’impossibilità di sillabare un solo nome. Colpisce maestri dell’eloquio, principi della retorica, oratori infaticabili, capaci di parlare per ore ed ore senza il soccorso di un goccio d’acqua. Quattro per tutti, come i moschettieri: Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Beppe Grillo, Giuseppe Conte.
A voler usare un altro parolone, o a voler esser buoni, si tratta di paraprassìa, che secondo il dizionario Treccani, in psicologia e in psichiatria, configura un movimento, un’azione o espressione verbale inadeguati, errati o involontariamente omessi, e come tali interpretabili secondo il concetto psicanalitico di “atto mancato”. A voler pensar male, prepara invece il terreno del domani, quando una pace ancora lontana magari arriverà e potranno sbiadire, almeno nella mente di chi è capace di rimuovere ferite indelebili, le bombe, le stragi, la paura, gli stupri, i bambini strappati all’infanzia. E si potrà finalmente tornare a parlare con l’amico ritrovato, quello di mille lodi e centomila affari: Vladimir Putin.
«Abbiamo un duplice dovere: quello di lavorare per la pace e quello di fare la nostra parte con l’Alleanza Atlantica, con l’Occidente, con l’Europa, per porre fine a un’aggressione militare inaccettabile». La frase di Silvio Berlusconi, seppure pronunciata solo dopo trentotto giorni di guerra, è oggettivamente ineccepibile. Oddìo, a voler essere impietosi, un dubbio si potrebbe sollevare: perché un duplice dovere? Fare la nostra parte con l’Europa non è già lavorare per la pace? Ma, anche a voler tacere quella che in tempo di invasioni potrebbe essere considerata lana caprina, come dimenticare Putin? Non è lui l’uomo che ha costretto un suo importante collaboratore a vergognarsi per sempre per aver balbettato senza opporsi all’annessione del Donbass? Certo era lui quello con cui Berlusconi sorrideva colbacco contro colbacco o che definiva «il numero uno tra i leader mondiali», nella convinzione che blandire un dittatore potesse trasformarlo in un governante illuminato.
Per quanto riguarda il Commodoro dei Cinque Stelle, Beppe Grillo, fa scuola quello che ha scritto Alessandro Trocino sul Corriere. Settimane di assordante silenzio. O meglio, giorni e giorni di passeggiate nell’iperuranio. Non una parola su Putin, ma sproloqui (o eloqui) sull’energia solare, sulla blue economy, e poi sulle particelle di plastica, sulla realtà aumentata, sul reddito universale, sul metaverso, sui robot archeologici. Eppure era Grillo quello che sentenziava: «Putin è l’uomo che dice le cose più sensate in politica estera». Si passi pure come ingenua speranza la frase secondo la quale «Se Trump ha voglia di convergere con Putin, di rimettere le cose sulla giusta strada, non può che avere il nostro appoggio. Due giganti come loro che dialogano: è il sogno di tutto il mondo!». Ma allora perché non parlare ora perlomeno di speranza tradita? Perché impantanarsi sul metaverso?
Bisogna riconoscere a Matteo Salvini di averci provato e riprovato: ha votato a favore delle sanzioni e per il sostegno militare all’Ucraina invasa. Ma alla fine la sindrome di Stranamore ha spinto per emergere. L’occasione l’ha data l’ennesima vittoria elettorale di Orbán in Ungheria. «Bravo Viktor! Da solo contro tutti, attaccato dai sinistri fanatici del pensiero unico, denigrato da chi vorrebbe sradicare i valori legati a famiglia, sicurezza, merito, sviluppo, solidarietà, sovranità e libertà, hai vinto anche stavolta». E poco importa se Orbán ha rivendicato di aver vinto anche contro Zelensky, frantumando per altro il fronte di Visegràd. Silenzio su Putin, che resta pur sempre quello per cui avrebbe dato via due Mattarella, pur di averne una metà, ma lancia spezzata contro l’espulsione dei diplomatici russi.
Non si dica che Giuseppe Conte non ha mai nominato Putin. «Ho parlato con lui per un’ora e mezza sugli accordi di Minsk. Putin, molto puntualmente, contestava la mancata attuazione e io cercavo di controbattere sulle violazioni russe. E’ una personalità molto pragmatica e ovviamente impregnata di un forte sistema ideologico. Ma non ho mai percepito il rischio di un’invasione dell’Ucraina». Un po’ pochino? Ma va capito, c’è un fronte elettorale prossimo venturo, e un fronte interno. Bisognerà pure diversificarsi un po’ da Luigi Di Maio, che almeno ora ha rotto i vecchi ponti con la Russia.
Dimentica Putin anche il presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, che chiede una commissione d’inchiesta neutrale sul massacro di Bucha: «Con quasi ogni certezza sono stati i russi. Ma ci deve essere un processo prima di una condanna». È di ieri la notizia che la comunità ebraica non parteciperà neanche quest’anno al corteo organizzato dall’Anpi a Roma per il 25 aprile.
M5S, quegli articoli di Sputnik rilanciati da Casaleggio e ora cancellati dal web. Antonello Guerrera su La Repubblica il 4 Aprile 2022.
Parla Canestrari che per quattro anni ha lavorato nella Casaleggio associati, società che nel 2018 ha ottenuto la rimozione dal web degli articoli in cui il Movimento citava testi di propaganda di Mosca. Lo scrittore ex 5S che oggi vive a Londra: "Così il Cremlino influenzava l'opinione pubblica italiana attraverso il Movimento".
Internet non dimentica niente. O quasi. In queste settimane di barbarie e orrore russo in Ucraina, fa effetto rileggere gli articoli pubblicati nella galassia informativa online imparentata a Beppe Grillo e al Movimento Cinque Stelle e che citavano numerosi estratti di media espressione del Cremlino, come Sputnik e Russia Today.
Ma un momento. Voi non potete più leggerli.
La Lega pro Putin: ecco i piani segreti di Mosca per la propaganda in Italia. Nelle carte di un oligarca russo sono indicati tempi e modi di una risoluzione contro le sanzioni europee da presentare in Parlamento a cura di un senatore del partito di Salvini. I nuovi dettagli del caso dopo le rivelazioni esclusive dell’Espresso. Paolo Biondani e Vittorio Malagutti su L'Espresso il 4 Aprile 2022.
Il documento, scritto in caratteri cirillici, s'intitola: «Risoluzione per la revoca delle sanzioni e il riconoscimento della Crimea nel Parlamento italiano». È una scheda con sette colonne di testo e tre cifre finali: un piano di lavoro, con un preventivo di spesa. È stato redatto il 9 giugno 2016 dallo staff di un oligarca russo ultranazionalista, Kostantin Malofeev.
Savoini a Mosca chiedeva soldi per la Lega ai servizi segreti di Putin. La spia con il passaporto di Stato. L’ideologo della guerra in Ucraina. L’oligarca che finanziava Marine Le Pen. La star tv uccisa dall’autobomba. Ecco i personaggi del regime coinvolti nella trattativa all’hotel Metropol per finanziare il partito di Matteo Salvini. Paolo Biondani su La Repubblica il 15 Settembre 2022
Dietro lo scudiero leghista Gianluca Savoini, nella sua missione a Mosca a caccia di rubli, si staglia una colonna di alfieri dei servizi segreti russi. Una cordata quantomeno imbarazzante per il partito di Matteo Salvini, che in questa campagna elettorale, listata a lutto dalla guerra in Ucraina, è impegnato a far dimenticare anni di uscite politiche a favore di Vladimir Putin.
Stefania Chiale per il “Corriere della Sera” il 6 aprile 2022.
Sette franchi tiratori: la maggioranza in Lombardia si spacca sul leghista filorusso, filo-Putin per eccellenza, e la Regione di Salvini vota le dimissioni dell'uomo della Lega per i rapporti con il Cremlino.
Il Pirellone ieri, con voto segreto, ha approvato una mozione presentata dal consigliere di +Europa-Radicali Michele Usuelli e firmata dal resto del centrosinistra che invita Gianluca Savoini a dimettersi da vicepresidente del Corecom, l'autorità che ha il compito di garantire la libera informazione.
L'uomo che fu mediatore di Matteo Salvini in Russia, finito nello scandalo delle intercettazioni all'hotel Metropol di Mosca, è stato tradito da sette voti mancanti alla maggioranza in consiglio regionale.
Ecco i due dati politici della giornata lombarda: l'uomo-cerniera di Salvini con la Russia, il giornalista dal passato nell'estrema destra, presidente dell'associazione Lombardia-Russia e componente del Corecom dall'11 settembre 2018, considerato inopportuno da parte del centrodestra che governa in Lombardia;
e, dunque, la maggioranza spaccata. Fonti del centrodestra danno per certo che quattro dei sette franchi tiratori siano interni a Fratelli d'Italia (i quattro consiglieri di FdI presenti in Aula, tra cui il capogruppo Franco Lucente), partito che da tempo, «su indicazione dall'alto, appare votare per dividere la maggioranza in Lombardia».
Una rottura che preoccupa il centrodestra, non solo lombardo: «Con il voto segreto qualcuno si è schierato a favore delle premesse che per noi erano inaccettabili - ha commentato il capogruppo della Lega in Consiglio regionale, Roberto Anelli -. Non chiedetemi chi è stato perché è sempre difficile saperlo, però quello che è successo è questo.
Non esageriamo dicendo che ci può essere una ricaduta politica. Di sicuro, comunque, è un qualcosa che non funziona per quanto riguarda la maggioranza».
Con una prima votazione (34 voti a favore e 32 contrari), il Consiglio ha espresso «dissenso rispetto alla permanenza di Savoini, per sua stessa ammissione, incondizionato ammiratore di un regime nemico della libertà di stampa e della verità, tra i componenti dell'autorità regionale che ha il compito di garantire e controllare la libera informazione in Lombardia e l'ha invitato pertanto a rassegnare le dimissioni».
Tra le motivazioni della richiesta si ricordano le posizioni «apertamente e dichiaratamente filorusse» di Savoini e «gli stretti legami con esponenti di primo piano del regime putiniano», il suo ruolo di fondatore dell'associazione culturale Lombardia-Russia e le «importanti missioni ufficiali con oligarchi ed esponenti di primo piano del regime russo nel corso della prima fase della VIII legislatura».
Il silenzio di Matteo Salvini sui servigi allo Zar Vladimir Putin non può continuare. Lirio Abbate su L'Espresso il 4 Aprile 2022.
Il leader della Lega scopertosi pro-Ucraina dopo anni di elogi al Cremlino è stato vicepremier e ministro dell’Interno nel periodo in cui le relazioni dei suoi con l’establishment di Mosca si sono intrecciate con atti parlamentari a favore della Russia. E ora deve delle risposte agli elettori
Fedele alla strategia dell’agitazione permanente che lo ha reso popolare per anni, o semplicemente incapace di agire diversamente, Matteo Salvini si è adoperato a parole fin dall’inizio dell’aggressione russa contro l’Ucraina, per manifestare il suo rifiuto della guerra, cercando di far dimenticare anni di elogi per il potere di Putin. E non solo. Provando a cancellare, senza mai chiarire, anni di contatti di uomini della sua Lega con i fedeli servitori dello Zar Vladimir, per appoggiare la sua linea politica anche nel Parlamento Europeo, in cambio di affari milionari.
Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini per il “Fatto quotidiano” il 4 aprile 2022.
[…] l'accordo di partenariato "paritario e confidenziale" tra la Lega e Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, è stato siglato il 6 marzo 2017. […] A marzo 2017, il Carroccio non ha potuto discutere i termini dell'accordo già preparato da Mosca. A rivelarlo è Report, programma d'inchiesta di Sigfrido Ranucci, nella prima puntata della nuova stagione che andrà in onda stasera su Rai 3.
Il patto con la Lega Nord fu firmato a Mosca il 6 marzo 2017 da Matteo Salvini e dal responsabile Esteri di "Russia Unita", Sergej Zheleniak. Il segretario del Carroccio era volato a Mosca per un bilaterale con il ministro degli Esteri Sergej Lavrov e parlò di "accordo storico".
Il testo integrale, come recita l'articolo 1, prevede un partenariato tra la Federazione russa e la Repubblica italiana che si basi sullo scambio di "informazioni su temi di attualità, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco".
[…] L'accordo quinquennale scadeva il 6 marzo scorso e […] si è rinnovato automaticamente: via Bellerio ha provato a minimizzare ("Non è mai stato operativo"), ma nel patto c'è una clausola secondo cui una delle due parti deve comunicare la disdetta "entro e non oltre sei mesi dalla scadenza". E questo non è avvenuto. L'accordo quindi è tutt'oggi in vigore, mentre Putin invade l'Ucraina. Salvini, incalzato dal cronista di Report Danilo Procaccianti, non ha risposto alla domanda se l'accordo sia ancora valido.
Un anno dopo la firma del patto, la Lega […] forma il governo con il M5S. Il 17 ottobre 2018 poi Salvini vola a Mosca per partecipare a un panel di Confindustria Russia e il giorno dopo, il 18, avviene l'incontro dell'hotel Metropol tra l'esponente leghista Gianluca Savoini, Gianluca Meranda, Francesco Vannucci e tre russi: su quell'incontro la procura di Milano nel luglio 2019 ha aperto un'inchiesta, ancora in corso, per corruzione internazionale in cui si ipotizza una compravendita di petrolio con lo scopo di alimentare le casse della Lega. Un mese dopo, agosto 2019, Salvini fa cadere il governo Conte-1.
Nel novembre 2018, inoltre, il movimento giovanile della Lega Nord rappresentato da Andrea Crippa (oggi vicesegretario) e la Giovane Guardia di Russia Unita firmano un memorandum di cui Report rivela il contenuto: nel testo si parla di "riconoscimento della Russia come partner imprescindibile del sistema di sicurezza internazionale". […]
“IL CONTRATTO” di Danilo Procaccianti. Estratto della puntata di “Report” il 4 aprile 2022.
[…] DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO
Salvini ha spesso affermato di preferire la leadership di Putin rispetto a quella di molti politici europei. Il 25 novembre 2015, per esempio, ha partecipato a una seduta del Parlamento europeo in cui era ospite il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. In quell’occasione Salvini indossa una maglietta con il volto di Putin e su Facebook scrive: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!». Nel 2015 scrive «Sostituirei Renzi con Putin domani mattina!». E ancora, nel 2017 «Se devo scegliere tra Putin e la Merkel… vi lascio la Merkel, mi tengo Putin!». Poi nel 2018 quando si sono svolte le ultime elezioni politiche in Russia, ha auspicato la vittoria di Putin definendolo «uno dei migliori uomini politici della nostra epoca».
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO
[…] Si tratta di un vero contratto tra la Lega di Salvini e Russia Unita, il partito di Putin. È datato 6 marzo del 2017.” Siamo riusciti ad avere l’integrale. Dentro si legge di un “partenariato paritario e confidenziale fra la Federazione russa e Repubblica italiana”. Il contratto prevede “consultazioni e scambio di informazioni È previsto anche uno scambio di informazioni tra partiti, tra esponenti regionali, tra parlamentari italiani e quelli della Duma. Praticamente prevede la cessione di pezzi di informazioni di pezzi del paese.
Ora questo contratto ha condizionato in questi anni lo svolgimento della democrazia nel nostro Paese? È ancora valido? In teoria si, poiché ha validità quinquennale ed è previsto il tacito rinnovo. Qualcuno tra Putin e Salvini ha disdetto? Se sì, avrebbe dovuto farlo sei mesi prima della scadenza. Ma non è l’unico accordo con la Russia di Putin, Danilo ha trovato un secondo contratto.
ANTON SHEKHOVTSOV - DIRETTORE CENTRE FOR DEMOCRATIC INTEGRITY
Quello che Salvini ha firmato insieme ai rappresentanti del Partito di Putin è un tipico contratto che Russia Unita ha per i partiti stranieri. Lo stesso accordo è stato firmato nel dicembre 2016 tra Russia Unita e il Partito della Libertà d'Austria, un partito di estrema destra austriaco. Il fatto che fosse lo stesso accordo implica che né la Lega né il Partito della Libertà d'Austria hanno avuto alcuna possibilità di discutere i termini dell’accordo. I russi hanno preparato il contratto, e hanno detto a Salvini “se vuoi firmare questo accordo, sei il benvenuto, ma non puoi cambiare il contenuto di questo accordo”. […] Sono uno strumento per influenzare l'opinione pubblica in Occidente. Persone come Salvini ricevono input da operatori del Cremlino, dagli stakeholder russi, dagli agenti russi.
[…] DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO
Oltre al contratto firmato da Salvini l’anno dopo nel 2018, viene firmato un memorandum che vi mostriamo in esclusiva tra il movimento giovanile della Lega nord e quello del partito di Putin, per la Lega lo firma Andrea Crippa, allora segretario dei giovani padani e oggi deputato della Repubblica. A rileggere oggi quanto scritto da Andrea Crippa vengono i brividi, si parla infatti di “riconoscimento della Russia come partner imprescindibile del sistema di sicurezza internazionale”.
[…] Un altro esponente della Lega che aspirava a un filo diretto con la Russia. alla Russia di Putin che alla Bielorussia di Lukashenko è il senatore Armando Siri. Nelle mail trovate da Report nel database del consorzio OCCRP, emerge che il responsabile economico del partito di Salvini cercava l’approvazione di Lukashenko, per la Flat tax da approvare in Italia. Inoltre, Siri avrebbe voluto ospitare per i giovani aspiranti leghisti della scuola politica, un intervento video di Vladimir Putin. […]
IL TESTO DELL'ACCORDO SULLA COOPERAZIONE E COLLABORAZIONE TRA IL PARTITO POLITICO NAZIONALE RUSSO “RUSSIA UNITA” E IL PARTITO POLITICO “LEGA NORD”
Il partito politico nazionale russo “RUSSIA UNITA” rappresentato dal Vice Segretario Generale del Consiglio per le Relazioni Internazionali S.V. Zhelezniak che agisce a titolo dello Statuto del Partito e della deliberazione del Presidium del Consiglio Generale del Partito del “28” Novembre 2016 da una parte, e dall’altra parte il partito politico “Lega Nord”, nella persona di Presidente del partito Matteo Salvini di seguito denominate “Parti”
– basandosi su un partenariato paritario e confidenziale tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;
– esprimendo la volontà di facilitare l’espansione e l’approfondimento della cooperazione multilaterale e la collaborazione tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana;
– tenendo conto che i rapporti tra i partiti sono una parte importante delle relazioni russo-italiane e sono finalizzate al loro pieno sviluppo;
– sulla base dei principi di sovranità statale, rispetto reciproco, non interferenza reciproca negli affari interni di ciascuno, partenariato paritario, affidabile e reciprocamente vantaggioso;
Hanno concordato quanto segue:
1. Le Parti si consulteranno e si scambieranno informazioni su temi di attualità della situazione nella Federazione Russa e nella Repubblica Italiana, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco.
2. Le Parti si scambieranno regolarmente delegazioni di partito a vari livelli, per organizzare riunioni di esperti, così come condurre altre attività bilaterali.
3. Le Parti promuovono attivamente le relazioni tra i partiti e i contatti a livello regionale.
4. Le Parti promuovono la creazione di relazioni tra i deputati della Duma di Stato dell’Assemblea Federale della Federazione Russa e l’organo legislativo della Repubblica Italiana, eletti dal partito politico nazionale russo “RUSSIA UNITA” e il partito politico “Lega Nord”, e anche organizzano lo scambio di esperienze in attività legislative.
5. Le Parti organizzeranno sotto gli auspici di seminari bilaterali e multilaterali, convegni, “tavole rotonde” sui temi più attuali delle relazioni russo-italiane, invitando una vasta gamma di professionisti e rappresentanti della società civile.
6. Le Parti promuovono attivamente lo sviluppo di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e la collaborazione di organizzazioni giovanili, femminili, culturali, umanitarie, ecc. al fine di rafforzare l’amicizia, la formazione giovanile nello spirito di patriottismo e di operosità.
7. Le Parti promuovono la cooperazione nei settori dell’economia, del commercio e degli investimenti tra i due Paesi.
8. Il presente accordo entra in vigore all’atto della firma dei rappresentanti autorizzati delle Parti e ha una validità di 5 anni. L’accordo è automaticamente prorogato per successivi periodi di cinque anni, a meno che una delle Parti notifichi all’altra Parte entro e non oltre 6 mesi prima della scadenza dell’accordo la sua intenzione alla cessazione dello stesso.
9. L’accordo è concluso a Mosca il “6” marzo 2017, ed è redatto in due copie, in due esemplari autentici, in lingua russa e italiana.
10. Il presente accordo non è legalmente vincolante ed è solo una manifestazione di interesse delle Parti nella interazione e cooperazione.
Il partito politico “Lega Nord”
Salvini
Il partito politico nazionale russo “RUSSIA UNITA”
Zheleznyak
Il contratto. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022 di Danilo Procaccianti
Collaborazione di Norma Ferrara
Quali sono oggi i rapporti tra gli esponenti leghisti e i sovranisti di Putin?
Il 6 marzo 2017 Matteo Salvini a Mosca siglava un patto con Sergey Zheleznyak, responsabile esteri di “Russia Unita”, il partito di Putin. Era ed è l’unico caso di accordo scritto siglato da un partito politico italiano con un partito straniero. Nel documento si parla di “partenariato paritario e confidenziale tra la Federazione Russa e la Repubblica Italiana”. A cosa serviva questo patto? È ancora in vigore? Quali sono oggi i rapporti tra gli esponenti leghisti e i sovranisti di Putin? Proprio il 9 marzo scorso, il Parlamento europeo ha approvato a larghissima maggioranza una risoluzione contro le ingerenze straniere nella vita pubblica, nella politica e nei partiti. La relazione denuncia come in Europa ci sia una «larga impreparazione» sulla gravità della minaccia rappresentata dai regimi autocratici stranieri, in particolare Russia e Cina. La Lega ha deciso di astenersi dal voto. La relazione, che cita «accordi di cooperazione» tra il partito di Putin e la Lega Nord, «condanna il fatto che i partiti estremisti, populisti, antieuropei e alcuni altri partiti e individui abbiano legami e siano esplicitamente complici nei tentativi di interferire nei processi democratici dell’Unione», spesso puntando sulla disinformazione digitale guidata da potenze straniere. Report ha rincorso i protagonisti di questo "contratto" in cerca di risposte, dal Parlamento sino al confine fra Polonia e Ucraina, dove da settimane vengono accolti i profughi che scappano dalla guerra. E dove l'8 marzo si è recato anche il segretario della Lega, Matteo Salvini.
“IL CONTRATTO” di Danilo Procaccianti collaborazione Norma Ferrara Immagini Cristiano Forti – Chiara D’Ambros Giovanni De Faveri – Fabio Martinelli Montaggio e grafica Monica Cesarani
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Siamo a Medyka, cittadina del Sud-Est polacco al confine con l’Ucraina. Uno dei sette valichi di frontiera che è stato attraversato da gran parte dei quattro milioni di profughi. Un flusso ininterrotto di persone fragili, disabili, anziani, donne e bambini, traumatizzati dagli stenti e dagli orrori della guerra.
ALICE SILVESTRO – MEDICO INTERSOS Ci sono bambini che faticano a parlare, che faticano a mangiare, che non dormono la notte.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO I volontari li smistano nei vicini centri di prima assistenza come quello di Korczowa, dove un centro commerciale è stato trasformato in rifugio.
ALICE SILVESTRO – MEDICO INTERSOS Persone che hanno passato gli ultimi 20 giorni nei sotterranei, nei rifugi, magari non avevano a disposizione l’acqua potabile o corretta alimentazione quindi soprattutto i bambini hanno tutti gastroenteriti, vomiti, diarree e le donne arrivano principalmente disidratate, perché la poca acqua l’hanno data ai figli.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La cittadina polacca che più di altre si è fatta carico di assistere i profughi è Przemysl, questo perché qui ci si arriva anche in treno. E qui ci sono la maggior parte dei due milioni di profughi rimasti in Polonia. E l’otto marzo scorso è arrivato anche Matteo Salvini, unico leader di partito a farsi vedere da queste parti.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ma una volta arrivato davanti alla stazione di Przemysl per incontrare il sindaco Bakun ecco l’amara sorpresa per Matteo Salvini.
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Desideriamo vivamente esprimere il nostro profondo rispetto a tutti i cittadini italiani e a tutte le organizzazioni che ci sostengono. Però ho un pensiero personale per il signor Salvini. Ho un regalo che vorrei consegnarle, con cui vorrei che andasse alla frontiera e al centro profughi, signor senatore, per vedere cosa ha fatto il suo amico Putin, per vedere cosa ha fatto la persona che lei definisce amico. Qui arrivano 60.000 profughi al giorno. No, non andremo insieme al centro profughi in questo momento! Nessun rispetto per lei, senatore!
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Una vera beffa per Matteo Salvini, messo alla berlina di fronte ai media di tutto il mondo per mano di un sindaco di estrema destra.
DANILO PROCACCIANTI La posizione di Salvini sui profughi è simile alla sua o no?
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Non so quale sia la sua posizione adesso, io ho parlato della situazione dell’Ucraina, della situazione con la Russia e abbiamo una posizione completamente differente.
DANILO PROCACCIANTI Ma perché adesso è diverso? Anche i profughi afgani scappavano dalla guerra e la Polonia li respingeva.
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Non è una domanda per me, è una domanda per l’Unione Europea perché noi stiamo accogliendo i profughi. Io potrei chiedere perché tenete fuori dall’Unione Europea un milione di profughi?
DANILO PROCACCIANTI Lei è Salvini siete della stessa parte politica.
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Probabilmente sì ma io non ho mai supportato Putin. La guerra è iniziata nel 2014, non un mese fa. Salvini, nel 2017 o nel 2018, ha detto che Putin era un suo amico e ha supportato Putin contro l’Ucraina. È colpevole di questo.
DANILO PROCACCIANTI Pensa che Salvini sia venuto qui a fare propaganda?
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Sì. E non capisco perché l’ha fatto. Solo tre anni fa supportava Putin e adesso viene qui nel più grande centro profughi della Polonia e viene a dire che vuole aiutare. DANILO PROCACCIANTI Lei non crede a Salvini?
WOJCIECH BAKUN - SINDACO DI PRZEMYSL Non proprio.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il 16 marzo del 2014 con le truppe russe che avevano invaso la Crimea si tiene un referendum. Il 95 percento degli abitanti dice sì all’annessione alla Russia. Onu, Unione Europea, Stati Uniti d’America, Osce e Consiglio d’Europa dichiarano quel referendum illegale. Non Matteo Salvini.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Prima delegazione europea che va nella sede del ministero per la Crimea. Due milioni di persone che hanno deciso di scegliere al 95 percento, con un referendum, di unirsi alla Russia. Le scelte dei popoli vanno rispettate sempre: in Scozia, in Catalogna in Veneto e in Crimea.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Le sanzioni contro la Russia di cui tanto si parla oggi furono votate dal parlamento europeo per la prima volta proprio nel 2014 dopo l’annessione della Crimea e il referendum truffa. Anche in quel caso, Salvini si schierò a fianco di Putin e contro le sanzioni.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Tantissimi cittadini non vogliono né capiscono le sanzioni contro la Russia. Quindi come Lega non solo chiediamo con forza l’interruzione delle sanzioni, anzi rilanciamo perché Bruxelles riprenda da subito il dialogo con la Russia che per quanto mi riguarda potrebbe a tutto titolo entrare a far parte dell’Unione europea.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Queste parole Salvini le pronuncia durante un viaggio in Russia. E viene accolto con una standing ovation dalla Duma. I parlamentari russi apprezzano la sua felpa contro le sanzioni.
DEPUTATO RUSSO Sulla felpa del leader del partito, signor Matteo Salvini, c’è scritto “No alle sanzioni alla Russia!”.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Anche negli anni successivi Salvini ha fatto della lotta alle sanzioni contro a Russia una sua missione.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Che titolo ha quest’aula per processare Putin e il popolo russo, per decidere chi è democratico e chi invece è un dittatore. Questa Europa non ha niente di democratico. Questa Europa è pericolosa. Questa Europa istiga alla guerra e alla violenza. Appena arriviamo al Governo tratto di penna, via le sanzioni contro la Russia. Con la Russia si torna a dialogare e a lavorare. Io non mi fermo e ritengo che le sanzioni contro la Russia siano una follia economica, culturale, geopolitica e commerciale. Le mie posizioni, l’ho detto prima, sulle sanzioni contro la Russia sono esattamente quelle di un anno fa due anni fa, tre anni fa, quattro anni fa e cinque anni fa, sono uno strumento inutile.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Salvini ha spesso affermato di preferire la leadership di Putin rispetto a quella di molti politici europei. Il 25 novembre 2015, per esempio, ha partecipato a una seduta del Parlamento europeo in cui era ospite il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. In quell’occasione Salvini indossa una maglietta con il volto di Putin e su Facebook scrive: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!». Nel 2015 scrive «Sostituirei Renzi con Putin domani mattina!». E ancora, nel 2017 «Se devo scegliere tra Putin e la Merkel… vi lascio la Merkel, mi tengo Putin!». Poi nel 2018 quando si sono svolte le ultime elezioni politiche in Russia, ha auspicato la vittoria di Putin definendolo «uno dei migliori uomini politici della nostra epoca».
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Dico gratis che Putin è uno dei migliori uomini di governo che ci siano in questo momento sulla faccia della terra.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Nell’ottobre 2014, durante la sua visita a Mosca, Salvini aveva pronunciato una frase enigmatica.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Totale collaborazione sia a Strasburgo che a Bruxelles tra la Lega e Russia Unita e ci saranno delle sorprese.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO La sorpresa arriva nel 2017. Queste sono le foto di quello che lo stesso Salvini definisce uno storico accordo.
IGOR BONI - PRESIDENTE NAZIONALE RADICALI ITALIANI È un accordo sottoscritto da Matteo Salvini il 6 marzo del 2017 che sancisce una collaborazione molto stretta tra Russia Unita che è il partito di Vladimir Putin e la Lega di Matteo Salvini. Sicuramente a nostra conoscenza è l’unico accordo con un partito italiano.
DANILO PROCACCIANTI Cosa prevede questo accordo?
IGOR BONI - PRESIDENTE NAZIONALE RADICALI ITALIANI È un accordo diciamo di collaborazione, di scambio di informazioni, di costruzione di comuni iniziative, quella che però è la sostanza è un accordo di collaborazione tra il partito del dittatore Vladimir Putin e uno dei principali partiti italiani, tra l’altro in un periodo nel quale Matteo Salvini è stato Vicepresidente del Consiglio e Ministro degli Interni.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Non ho seguito la vicenda, non vado in Russia…
DANILO PROCACCIANTI Siccome lo ha firmato lei…
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Sì, ma non vado in Russia da non so quanti anni, non c’è nessun tipo di rapporto economico, giuridico, politico….
DANILO PROCACCIANTI Scambio di informazioni. C’era scritto…
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ma che scambio di informazioni, su facebook al massimo
DANILO PROCACCIANTI Però quando già Putin aveva annesso la Crimea, lei ha fatto questo contratto, qualcuno dice che tutto è partito da lì
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Che cosa?
DANILO PROCACCIANTI La situazione anche attuale
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ah, quindi è colpa mia?
DANILO PROCACCIANTI No, da quando Putin ha annesso la Crimea
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Sii serio, ti voglio bene
DANILO PROCACCIANTI Da quando Putin ha annesso la Crimea, la domanda è chiara!
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Buona giornata dai
DANILO PROCACCIANTI Ma quindi, come dire, rivendica quel passato filo-putiniano o no?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Siamo nel 2022, chi fa la guerra ha sempre torto, penso che ti direbbero lo stesso Renzi, Berlusconi, Letta, Conte e tutti quelli che hanno avuto rapporti con Putin ben più costanti dei miei
DANILO PROCACCIANTI Però lei insomma diceva due Mattarella in cambio di mezzo Putin…
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Che anno era?
DANILO PROCACCIANTI 2016 o 17…
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Perfetto, quanti anni son passati? DANILO PROCACCIANTI Vabbè ma il passato di un politico conta.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER C’è una guerra di mezzo.
DANILO PROCACCIANTI C’erano già le sanzioni e lei era contro le sanzioni.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ma c’è qualcuno che ha premiato gli oligarchi con le massime onorificenze italiane, sapeva che poi sarebbe scoppiata la guerra? No, quindi quando c’è una guerra cambiano i parametri, cambiano i giudizi, chi fa la guerra ha sempre torto.
DANILO PROCACCIANTI Quindi non è più un suo punto di riferimento politico Putin?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER In questo momento è il Santo Padre il mio punto di riferimento, perché lavora per pace più di tutti gli altri.
IGOR BONI - PRESIDENTE NAZIONALE RADICALI ITALIANI Putin dal 1999, da quando è arrivato al potere ha mostrato la sua faccia al mondo. Il mondo si è girato dall’altra parte. Ha distrutto la Cecenia, ha fatto più di centomila morti. Ha contribuito con Bashar al-Assad alla distruzione di Aleppo bombardando i civili, ha invaso la Georgia, l’Abkhazia, la Crimea e il Donbass. Oggi Putin invade l’Ucraina ma è sempre lo stesso Putin con sempre la stessa tecnica che ha utilizzato negli anni precedenti, Salvini lo sapeva benissimo.
STUDIO SIGFRIDO IN STUDIO È stato anche europarlamentare e il segretario di Partito. Ora quello fra Salvini e Russia Unita, il partito di Putin, è un contratto – Report è venuto in possesso dello scritto integrale – non è vincolante dal punto di vista legale, è una manifestazione di interesse, tuttavia dentro ci sono dei punti importanti, c’è una firma, è stato firmato il 6 marzo del 2017. Cosa c’è scritto dentro? insomma, che si deve intendere – quello fra Russia tra il partito di Putin e Salvini che si deve intendere come un “partenariato paritario e confidenziale fra Federazione russa e Repubblica italiana”. Il contratto prevede “consultazioni e scambio di informazioni per quello che riguarda i partiti, gli esponenti regionali, tra parlamentari italiani e quelli della Duma. Ecco, insomma, c’è da chiedersi quanto questo contratto ha condizionato lo svolgimento della democrazia nel nostro Paese? È ancora valido questo contratto? Da quello che si legge dovremmo intendere di sì, perché si legge di una validità quinquennale e il fatto che questo contratto va rinnovato da sé con il tacito assenso. Ecco, almeno che qualcuno non l’abbia disdetto sei mesi prima è da ritenersi rinnovato per altri cinque anni. Insomma, Salvini e Putin l’hanno disdetto questo contratto? Sarebbe importante saperlo perché il nostro Danilo ha trovato anche un secondo contratto che riguarda sempre la Lega.
ANTON SHEKHOVTSOV - DIRETTORE CENTER FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Quello che Salvini ha firmato insieme ai rappresentanti del Partito di Putin è un tipico contratto che Russia Unita ha per i partiti stranieri. Lo stesso accordo è stato firmato nel dicembre 2016 tra Russia Unita e il Partito della Libertà d'Austria, un partito di estrema destra austriaco. Il fatto che fosse lo stesso accordo implica che né la Lega né il Partito della Libertà d'Austria hanno avuto alcuna possibilità di discutere i termini dell’accordo. I russi hanno preparato il contratto, e hanno detto a Salvini “se vuoi firmare questo accordo, sei il benvenuto, ma non puoi cambiare il contenuto di questo accordo”.
DANILO PROCACCIANTI Che valore e che significato hanno questi contratti?
ANTON SHEKHOVTSOV - DIRETTORE CENTER FOR DEMOCRATIC INTEGRITY Sono uno strumento per influenzare l'opinione pubblica in Occidente. Persone come Salvini ricevono input da operatori del Cremlino, dagli stakeholder russi, dagli agenti russi.
DANILO PROCACCIANTI Lo avete disdetto, almeno?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Buon lavoro!
DANILO PROCACCIANTI Sempre così. Una risposta, sì o no?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Report abbiamo una dozzina di querele e ci vediamo in tribunale.
DANILO PROCACCIANTI Eh ma a parte quello, su questo contratto?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER No no no… per come lavorate voi ci vediamo in tribunale.
DANILO PROCACCIANTI Che scambio di informazioni?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Il senatore sulla validità del contratto con Putin non si esprime, ma strada facendo aumentano il numero delle querele che dice di averci fatto: da una dozzina a 35.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ci vediamo in tribunale per una delle 35 querele che vi abbiamo fatto.
DANILO PROCACCIANTI Che non mi risultano, però forse a sua insaputa
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Sì sì. Quando diventerete una trasmissione di giornalismo ne parleremo. Intanto risolvete alcuni piccoli problemi interni che avete.
DANILO PROCACCIANTI Ma su questo contratto?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Buon lavoro
DANILO PROCACCIANTI Questo contratto della Lega con il partito Russia Unita? Non ne sa nulla? Ne sapeva qualcosa lei? Solo sapere se è stato disdetto questo contratto
ALBERTO BAGNAI – SENATORE LEGA SALVINI PREMIER (non risponde)
MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO SENATO LEGA SALVINI PREMIER Ma perché venite sempre da noi? Andate a vedere tutti gli altri partiti che si sono sempre…
DANILO PROCACCIANTI Ma perché voi avete firmato un patto scritto, Salvini con Russia Unita.
MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO SENATO LEGA SALVINI PREMIER Ma dai.
DANILO PROCACCIANTI Ma ci può dire se è stato disdetto almeno?
MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO SENATO LEGA SALVINI PREMIER Io posso solo dire che noi abbiamo mantenuto un dialogo ai tempi semplicemente per dare una mano alle nostre aziende che hanno subito una penalizzazione dalle sanzioni.
DANILO PROCACCIANTI Beh, c’era una connessione politica.
MASSIMILIANO ROMEO – CAPOGRUPPO SENATO LEGA SALVINI PREMIER Ehhh diteglielo al Pd ex Pci con la Russia
DANILO PROCACCIANTI Sono di Report, di Raitre GUGLIELMO PICCHI – LEGA SALVINI PREMIER Noooo
DANILO PROCACCIANTI Ma perché quando ci vedete scappate… mi dice se questo contratto è valido o no? Addirittura a scappare.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Oltre al contratto firmato da Salvini l’anno dopo, nel 2018, viene firmato un memorandum che vi mostriamo in esclusiva tra il movimento giovanile della Lega nord e quello del partito di Putin. Per la Lega lo firma Andrea Crippa, allora segretario dei giovani padani e oggi deputato della Repubblica. A rileggere oggi le parole di Andrea Crippa vengono i brividi, si parla infatti di “riconoscimento della Russia come partner imprescindibile del sistema di sicurezza internazionale”.
DANILO PROCACCIANTI Onorevole Crippa, buongiorno.
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER Ciao, posso dopo?
DANILO PROCACCIANTI Danilo Procaccianti di Report. Una domanda veloce, lei nel 2018 firmò un memorandum con il movimento giovanile del partito di Putin, disse “la Russia è un punto di riferimento politico”. Pentito, oggi?
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER No, la Russia al tempo…è chiaro che son cambiate le condizioni e non c’era la guerra al tempo.
DANILO PROCACCIANTI Però Putin aveva già annesso la Crimea…
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER No, non aveva annesso, non aveva annesso niente
DANILO PROCACCIANTI Nel 2018 sì.
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER Era una posizione…tra l’altro con il movimento giovanile quindi su temi di politica giovanile è chiaro che adesso essendo cambiati i tempi qual patto non è stato…
DANILO PROCACCIANTI Putin è sempre stato quello
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER Io sto dicendo cosa è successo, poi lei ha la sua posizione e io le sto dicendo quello che era successo nel 2019, nel 2019 firmammo un memorandum.
DANILO PROCACCIANTI 2018
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER No, era…era inverno tra il 2018…adesso non mi ricordo il mese, comunque sì a cavallo tra il 2018 e il 2019.
DANILO PROCACCIANTI L’anno prima Salvini ne firmò uno con Russia Unita e non si sa se è stato disdetto.
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER No, è stato disdetto. Come non si sa, è stato disdetto.
DANILO PROCACCIANTI E non abbiamo le prove però
ANDREA CRIPPA – LEGA SALVINI PREMIER Eh, ho capito. Però mi sembra che sia stato disdetto.
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Un altro esponente della Lega che aspirava a un filo diretto con la Russia di Putin e con la Bielorussia di Lukashenko è il senatore Armando Siri. Nelle mail trovate da Report nel database del consorzio OCCRP, emerge che il responsabile economico del partito di Salvini cercava l’approvazione di Lukashenko, per la flat tax da approvare in Italia. Inoltre, Siri avrebbe voluto ospitare per i giovani aspiranti leghisti della scuola politica, un intervento video di Vladimir Putin. Chissà oggi cosa pensa di Putin il senatore Siri. Abbiamo provato a chiederglielo il 19 marzo scorso, il giorno dell’inaugurazione della settima edizione della scuola politica.
DANILO PROCACCIANTI Senatore, senatore siamo di Report di Raitre.
ARMANDO SIRI – LEGA SALVINI PREMIER Sì, arrivo.
DANILO PROCACCIANTI Ci dice qualcosa su questa scuola? Sulle sue mail per avere Putin. Ha cambiato programma adesso?
DANILO PROCACCIANTI FUORI CAMPO Ad aprire il corso dei futuri aspiranti candidati della Lega, c’è Salvini. Finito il suo discorso saluta e si allontana di corsa. Lo attende un appuntamento importante, il matrimonio simbolico di Silvio Berlusconi che prima di tagliare la torta lo incorona come unico leader politico del Paese.
SILVIO BERLUSCONI – FORZA ITALIA E allora signori, questo è Matteo Salvini l’unico leader vero che c’è in Italia.
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA Olè, forza Milan.
SILVIO BERLUSCONI – FORZA ITALIA Lui è sincero, per questo lo ammiro e gli voglio molto bene. È una persona sincera, cosa che in politica non esiste. Va bene?
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, Berlusconi insomma lo nomina, gli conferisce lo status di leader, anche per questo bisognerebbe sapere se poi quel contratto con Putin, Salvini l’ha disdetto o meno. Mentre invece dovrebbe essere ancora in vigore, l’altro contratto, il memorandum firmato nel 2018, che l’allora coordinatore federale dei giovani leghisti, Andrea Crippa, aveva firmato con il movimento giovanile del partito di Putin. I giovani leghisti – c’è scritto - percepiscono la Russia come parte fondamentale del sistema di sicurezza internazionale e leader naturale per la gestione delle crisi e dei conflitti nel mondo”. Ecco quello tra Lega e Russia è un rapporto consolidato, emerge anche da alcune e-mail del 2015 e del 2016, che Report ha trovato all’interno del database del consorzio giornalistico OCCRP e che riguardano l’allora responsabile economico della Lega Armando Siri, poi diventato senatore. Siri scrive al governo bielorusso, guidato dal presidente Lukashenko, gli chiede un consiglio sull’introduzione della Flat Tax. Scrive Siri: “Se potessimo concordare prima una proposta positiva alla Flat Tax potremmo essere anche più diretti”. Ecco, perché Siri chiede un parere al governo bielorusso? Perché tutto il blocco dell’ex Unione Sovietica la Flat Tax l’aveva già sperimentata e messa in pratica da tempo. Insomma, la sintonia fra Lega e Russia è evidente e aiuta anche a capire il perché poi la Lega, il 17 settembre del 2020, si astiene quando il Parlamento europeo, a causa delle frodi elettorali e delle violenze che si erano consumate in Bielorussia, chiede di condannare il presidente Lukashenko e di sanzionare alcuni dirigenti del governo del partito. Così come la Lega si è anche astenuta il 9 marzo, in piena guerra in Ucraina, quando si è trattato di votare una risoluzione del Parlamento Europeo tesa a contrastare l’ingerenza dei paesi stranieri sullo svolgimento della vita democratica dei paesi membri. La relazione denunciava come in Europa ci sia una «larga impreparazione» ad affrontare una grave minaccia rappresentata soprattutto da Russia e Cina, che usano armi della disinformazione digitale. Ecco e questo potrebbe in qualche modo condizionare la vita pubblica e politica dei partiti dei paesi membri. La Lega è stata l’unico partito italiano ad astenersi anche perché, insomma, al centro di questa risoluzione che conteneva una relazione era finito proprio il contratto che era stato siglato da Salvini e il partito Russia Unita di Putin.
Le radici del contratto. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022 di Giorgio Mottola
In passato ha finanziato movimenti di ultradestra in Europa, come il partito della Le Pen e in Italia ha costruito ottime relazioni con la Lega.
Report proporrà parti inedite dell'intervista di Giorgio Mottola all'oligarca russo Konstantin Malofeev, uno dei principali sostenitori di Putin e in passato finanziatore di movimenti di ultradestra in Europa, come il partito di Jean Marie Le Pen.
LE RADICI DEL CONTRATTO di Giorgio Mottola Collaborazione di Norma Ferrara, Alessia Pelagaggi, Simona Peluso Immagini di Alfredo Farina, Davide Fonda Montaggio e grafica di Giorgio Vallati
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Per capire però la natura dei legami fra Lega e Russia bisogna riavvolgere il nastro al 18 ottobre del 2018 quando nell’hotel Metropol a Mosca avviene una trattativa per una compravendita di gasolio. Secondo i magistrati che hanno indagato per corruzione internazionale sarebbe stata finalizzata a portare nelle casse della Lega, che erano un po’ in crisi per via dello scandalo dei 49 milioni, un po’ di denaro fresco e preparare la campagna elettorale delle europee. Ecco, in questa trattativa viene registrata su un nastro la voce di Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini.
PRIMO AUDIO - GIANLUCA SAVOINI Il prossimo maggio ci saranno le elezioni europee. Vogliamo cambiare l'Europa. Una nuova Europa deve essere vicina alla Russia come prima. Salvini è il primo uomo che vuole cambiare tutta l'Europa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È il 18 ottobre del 2018. Savoini è seduto a un tavolino dell’Hotel Metropol di Mosca, a due passi dalla piazza Rossa. Con le parole che abbiamo appena ascoltato, l’ex portavoce di Matteo Salvini inizia una lunga trattativa con tre russi per una partita di gasolio da un miliardo e mezzo di dollari. Si accordano su un prezzo bassissimo in modo da garantire a Savoini un guadagno extra di 65 milioni di dollari. Durante la trattativa al Metropol uno dei russi accenna a carte da mostrare a un certo “vice primo ministro”.
SECONDO AUDIO - INTERLOCUTORE RUSSO Grazie. Ora i nostri documenti tecnici sono già stati fatti e sono pronti per essere consegnati al vice primo ministro.
GIANLUCA SAVOINI Sì, sì. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Salvini ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nella trattativa, sebbene finora non abbia mai fornito spiegazioni precise.
MATTEO SALVINI – MINISTRO DELL’INTERNO (GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019) CONFERENZA STAMPA DEL 12 LUGLIO 2019 Scusate il ritardo ma stavo cercando di nascondere gli ultimi rubli sotto i cuscini del Ministero perché d’altronde 65 milioni non è che… anzi, abbiamo firmato un accordo con le discoteche italiane perché si possa pagare in rubli anche questa estate e il tavolo e il cocktail vengono scontati se uno paga cash con denaro riciclato, di dubbia provenienza.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma, aldilà delle battute, c’è una curiosa coincidenza temporale. La sera prima della trattativa, il 17 ottobre 2018, anche Salvini si trovava a Mosca. Partecipava da ministro dell’Interno a un incontro ufficiale di Confindustria Russia che il leader leghista ha mandato in diretta anche sulla sua pagina Facebook.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ogni volta che poi torno in Italia – sappiatelo – c’è qualche giornale che si diletta a dire “Salvini va in Russia perché i russi lo pagano”. Vengo qua gratis, perché sono convinto che le sanzioni siano una follia economica, sociale e culturale.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Subito dopo l’esplosione dello scandalo Salvini dichiara senza mezzi termini di non sapere che anche Savoini fosse a Mosca, proprio come lui, nei giorni della trattativa. Ma, come si può vedere da questo video mai mostrato prima, mentre il leader della Lega è sul palco di Confindustria Russia, Savoini è pochi metri da lui, in prima fila.
GIUSEPPE CONTE - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI 2018 - 2021 Tale visita è consistita nella partecipazione del vicepresidente Salvini all’assemblea generale 2018 di Confindustria Russia, cui risulta abbia partecipato anche il signor Savoini. Gli eventi, gli incontri successivi all’evento organizzato da Confindustria Russia hanno rivestito carattere privato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Gli incontri privati si sono svolti all’85esimo piano di un grattacielo di Mosca, dove si trova il Rusky, uno dei ristoranti più lussuosi della capitale russa. Qui il 17 ottobre del 2018, vale a dire la sera prima della trattativa al Metropol, Salvini ha trascorso la serata cenando privatamente insieme a Savoini e ad altre persone.
GIORGIO MOTTOLA Senta ministro, sono Giorgio Mottola di Report. Che cosa si è detto con Savoini il 17 ottobre all’Hotel Rusky?
MATTEO SALVINI – SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Siamo… l’inchiesta va avanti.
GIORGIO MOTTOLA Lei su questo argomento ha mentito. Come mai ha mentito su questo? Ha detto che non sapeva che Savoini fosse a Mosca?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA C’è un’inchiesta, lasciamo lavorare l’inchiesta.
GIORGIO MOTTOLA No, no però lei è un ministro anche dell’Interno. Lei ministro ha mentito pubblicamente: ha detto che non sapeva che fosse…
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Sei maleducato. C’è un’inchiesta, lasciamo lavorare i giudici.
GIORGIO MOTTOLA Lei è reticente. No: io le sto facendo una domanda…
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Mi hai dato del bugiardo, del ladro, del corrotto, del reticente.
GIORGIO MOTTOLA No, no: le ho detto che lei ha detto una bugia. Lei ha detto una bugia.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA In un altro contesto…
GIORGIO MOTTOLA Cosa farebbe in un altro contesto?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO FEDERALE DELLA LEGA Stai disturbando tutti i tuoi colleghi. I tuoi colleghi ti direbbero: “Fai fare le domande anche a loro?”
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, quattro giorni dopo quell’intervista Salvini fece, causò la crisi di governo e il caso Metropol finì nelle retrovie. Ora, va detto che i magistrati che indagano per corruzione internazionale ad oggi non hanno trovato traccia di quei 65 milioni di dollari che sarebbero dovuti confluire nelle casse di società che facevano riferimento a Savoini. Ora, poi, va anche detto che con la guerra la Russia è uscita dal Consiglio d’Europa e quindi non ha più l’obbligo di rispondere alle rogatorie che vengono fatti dai tribunali italiani. Insomma, rischia sul caso Moscopoli di calare il sipario. Rimane però un dato politico: noi abbiamo sentito la voce di Savoini su quei nastri i cui contenuti erano stati anticipati dall’Espresso e poi pubblicati integralmente dal sito americano Buzzfeed, abbiamo sentito Savoini dire chiaramente: “Noi vogliamo cambiare l’Europa, vogliamo portarla più vicino alla Russia”. Ecco, che cosa intendeva dire? Quello che Report ha scoperto è che quella trattativa era il tassello di un progetto molto più ampio che era cominciato nel 2013, un progetto di cui Savoini è un mediatore mentre invece il tessitore, uno dei tessitori, è il filosofo putiniano Dugin, colui che ha il progetto di unire Europa e Asia sotto l’egemonia russa, cioè creare un impero euroasiatico, un progetto euroasiatico da contrapporre a quello atlantico. Dugin era un figlio di militari che appartenevano, il padre apparteneva al servizio segreto militare russo, il GRU, poi ha fatto parte Dugin anche di un gruppo di intellettuali che si riuniva segretamente, un gruppo di intellettuali occulto, appassionati di esoterismo e fascismo tanto che hanno anche, Dugin ha anche tradotto l’ultimo libro del filosofo esoterista e fascista Evola. Ecco, insomma, però tutto questo fa emergere un’ipocrisia: quella di Putin che dice, definisce l’operazione militare speciale tesa a denazificare l’Ucraina, quando poi invece nel mondo stringe e cerca accordi con l’estrema destra, cioè con coloro che sono più vicini all’idea di nazismo.
GIANLUCA SAVOINI Sono particolarmente contento di essere in questa sala perché qui vedo la vera Germania, qui vedo la vera Europa.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nella formazione politica di Gianluca Savoini e nel suo stretto rapporto con la Russia c’è una figura chiave degli anni di piombo, Maurizio Murelli, fin dagli anni ‘80 punto di riferimento del neofascismo milanese.
GIORGIO MOTTOLA Lei è uno degli ultimi cattivi maestri dell’estrema destra italiana.
MAURIZIO MURELLI - FONDATORE ORION Due termini in cui non mi identifico. Né come maestro, né come estrema destra. GIORGIO MOTTOLA Ma come cattivo sì?
MAURIZIO MURELLI - FONDATORE ORION Cattivissimo, se non altro per aver passato undici anni nel cattiverio, come si definisce il carcere.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Murelli ha scontato undici anni di carcere per il concorso nell’omicidio dell’agente di polizia Antonio Marino, ucciso da una bomba a mano durante una manifestazione di piazza nel ‘73. Dopo essere uscito di prigione Murelli fonda Orion, un centro culturale che mescola idee neonaziste e filosovietiche, e lavora per la nascita di un continente euroasiatico sotto l’egemonia della Russia. Tra gli adepti di Orion, c’è anche Gianluca Savoini.
GIORGIO MOTTOLA E Savoini è uno di quelli che è stato affascinato dalle attività del gruppo Orion?
MAURIZIO MURELLI - FONDATORE ORION Penso che lui si sia molto riconosciuto in quelle posizioni che noi andavamo sviluppando dai filmati che lui fa quando su Lombardia-Russia, quando fa le sue esposizioni, riconosco, percepisco molte di quelle posizioni, di quelle teorie che noi sviluppiamo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È infatti grazie a Maurizio Murelli che Gianluca Savoini conosce Aleksandr Dugin, controverso filosofo russo che nella trattativa del Metropol potrebbe avere avuto un ruolo.
GIORGIO MOTTOLA Gianluca Savoini lo conosce da molto tempo?
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Sì, è giornalista della tendenza tradizionalista, molto bravo secondo me.
GIORGIO MOTTOLA Dal 1992 addirittura?
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Sì, sì, sì, sì. Quando per la prima volta ha visitato la Russia.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Considerato per anni uno dei principali ideologi del putinismo, Dugin è il fondatore del partito nazional bolscevico, il cui simbolo è una bandiera nazista con una falce e martello al posto della svastica. Con l’arrivo di Salvini al governo, il rapporto di Dugin con Savoini e Murelli è tornato a essere particolarmente intenso. Questa foto è stata scattata nel locale gestito da Rainaldo Graziani, figlio di Clemente, fondatore del movimento neofascista Ordine Nuovo. Murelli e Savoini sono seduti allo stesso tavolo, poco distanti da Dugin che quella sera viene omaggiato della lampada di Yule, un manufatto della simbologia celtica che il capo delle SS Himmler introdusse nelle cerimonie naziste.
RAINALDO GRAZIANI - CENTRO STUDI ORDINE NUOVO Non era una cerimonia, era un convegno, un incontro in cui una ragazza gli ha offerto quella lampada solstiziale, dici?
GIORGIO MOTTOLA La lampada di Yule.
RAINALDO GRAZIANI - CENTRO STUDI ORDINE NUOVO Oggi è molto diffusa ma non per quel motivo lì. Tutte le forme di spiritualismo…
GIORGIO MOTTOLA Diciamo che tutti la legano un po’ alla ritualistica nazista.
RAINALDO GRAZIANI - CENTRO STUDI ORDINE NUOVO No, solo quelli come te o come me, che magari si informano.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quest’altra foto è ancor più significativa. Sono Dugin e Savoini davanti al Metropol la mattina del 18 ottobre del 2018. È lo stesso giorno in cui si è tenuta la trattativa per la mega tangente. Un coinvolgimento del filosofo russo non è mai stato dimostrato ma, stando alle rivelazioni del sito Buzzfeed, a negoziare con Savoini al tavolo del Metropol ci sarebbe stato anche Andrey Karashenko, che alcuni organi di informazione ufficiale russi indicano come dipendente del movimento politico di Aleksandr Dugin.
GIORGIO MOTTOLA Savoini è venuto spesso in Russia anche a cercare finanziamenti per la Lega. Questo lo sa?
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Questo non lo so. Sono un filosofo, odio il denaro. Non mi interessa più nulla.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Negli ultimi anni Dugin è diventato uno dei principali ideologi del sovranismo europeo. Il filosofo russo auspica la fine della democrazia liberale e, stando alle sue parole, l’avvento di un populismo integrale e di una rivoluzione illiberale. Se in Russia il riferimento politico di Dugin è Putin, in Europa occidentale è Matteo Salvini.
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Salvini vedo con grande rispetto. È una coincidenza organica delle posizioni tra Matteo Salvini e me.
GIORGIO MOTTOLA Ma quand’è la prima volta che lei ha incontrato Matteo Salvini?
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Alcuni anni fa quando già era capo della Lega.
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO E chi glielo ha presentato?
GIORGIO MOTTOLA Alcuni amici.
ALEKSANDR DUGIN - FONDATORE PARTITO NAZIONAL BOLSCEVICO Come Gianluca Savoini?
GIORGIO MOTTOLA Sì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La comunanza di idee tra Dugin e Salvini è emersa anche in una rara intervista rilasciata in una tv russa al controverso filosofo nel 2016.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER L’Italia è sempre stata serva dell’Unione Europea, di Bruxelles. Ha fatto politica su dettatura di qualcun altro. Anche perché alcuni temi etici, al di là degli obiettivi economici, la visione della famiglia, l’importanza della religione, della tradizione mi sembra che stiano tornando anche grazie a molti giovani che se ne interessano.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La tv in cui va in onda l’intervista è Tsargrad tv, all’epoca diretta da Dugin. Si tratta un canale di informazione militante, ultraconservatore e ultratradizionalista. Il suo proprietario è Konstantin Malofeev, nostalgico dello zarismo e sostenitore di Putin. Possiede Marshall Capital, un fondo di investimento da 1 miliardo di dollari. Malofeev è uno degli oligarchi russi più ricchi e potenti.
GIORGIO MOTTOLA Mister Malofeev, è giusto definirla un oligarca?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL No, non è corretto: grazie al presidente Putin non ci sono più oligarchi. Io preferisco definirmi un filantropo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sebbene Malofeev si definisca un filantropo, nel 2014 è stato inserito dall’Unione Europea nella lista nera delle persone non desiderate. Da allora gli è stato vietato l’ingresso nell’area Schengen, gli sono stati congelati tutti i conti presso le banche europee e sono state introdotte pesanti sanzioni per chi fa affari con lui. Tutto ciò non ha impedito a Salvini, negli ultimi anni, di volare più volte a Mosca e incontrare l’oligarca filantropo.
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHAL CAPITAL Mi piace Matteo Salvini. La prima volta che l’ho incontrato sono rimasto molto impressionato. Matteo è un politico diverso da tutti gli altri che ho conosciuto. Ha idee molto forti.
GIORGIO MOTTOLA Quando lo ha incontrato l’ultima volta?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Poco prima che diventasse vice primo ministro.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed è un rapporto ormai che si può definire quasi di antica data visto che risale almeno al 2013. Quando Salvini fu eletto segretario della Lega tutti rimasero molto sorpresi quando videro intervenire dal palco un russo, un certo Alexey Komov, che nessuno conosceva.
ALEXEY KOMOV Buongiorno Lega Nord, buongiorno Torino. Siamo i vostri fratelli in Russia, sosteniamo gli stessi valori dell’Europa cristiana.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Grazie a Malofeev scopriamo finalmente qual è l’inedito retroscena che si nasconde dietro quella misteriosa presenza.
GIORGIO MOTTOLA Quando ha incontrato Salvini la prima volta?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Molti anni fa.
GIORGIO MOTTOLA Nel 2013?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sarei dovuto andare al congresso quando fu eletto.
GIORGIO MOTTOLA Era stato invitato? KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, ma non andai perché avevo altri impegni.
GIORGIO MOTTOLA Quindi Komov era lì a rappresentare lei?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì.
GIORGIO MOTTOLA Lei è ancora un grande sostenitore di Vladimir Putin?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì. Oggi, domani e anche dopodomani.
GIORGIO MOTTOLA Nel suo mondo ideale, Putin sarebbe lo zar perfetto?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sarebbe un miracolo. Perché se un uomo come Vladimir Putin guidasse la Russia non per altri cinque anni ma per altri venti, saremmo la nazione più felice e fortunata del mondo. Ma purtroppo ogni cinque anni dobbiamo partecipare a questo orribile gioco delle elezioni che causano un’interferenza da parte delle forze globaliste straniere. Ecco perché sono a favore di Putin. Penso che sia un dono di Dio. Anche tu un giorno dirai ai tuoi nipoti: io ho vissuto all’epoca di Putin. GIORGIO MOTTOLA In realtà in Italia io vivo nell’epoca di Salvini.
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Ecco, hai centrato il punto. Tu dici che vivi nell’epoca di Salvini. Immagina se avessi detto che vivevi nell’epoca di… qual era il suo nome?! Mortadella…
GIORGIO MOTTOLA Prodi. KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Renzi o un altro di questi politici.
GIORGIO MOTTOLA Salvini è il Putin italiano?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Speriamo. Ha del grande potenziale ma è ancora troppo giovane. Vediamo come evolverà.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Visti i rapporti così stretti con un uomo discusso e oscuro come Malofeev, proviamo a chiedere conferma anche al segretario della Lega: lo incontriamo alla festa di Pontida.
GIORGIO MOTTOLA Salvini, posso chiederle come mai nel 2013 ha invitato Konstantin Malofeev al congresso della Lega?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Amico mio, ma ti pare il momento di fare l’intervista?
GIORGIO MOTTOLA Vabbè, sta facendo i selfie. Mentre fa le interviste può anche rispondere a me.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Appunto, sto facendo i selfie. Dai, porta pazienza.
GIORGIO MOTTOLA Ho capito, nel frattempo può anche dare una risposta.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E visto che il rito dei selfie è sacro, per ottenere una risposta ci mettiamo in fila anche noi.
GIORGIO MOTTOLA Mi sono messo in fila anche io. Come mai così tanti incontri con Konstantin Malofeev? Di che avete parlato?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Chi?
GIORGIO MOTTOLA Come chi? Malofeev. Konstantin Malofeev. L’oligarca russo.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Ah.
GIORGIO MOTTOLA Lei lo ha invitato nel 2013 al congresso della Lega Nord quando è stato eletto. Come mai?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Eh?
GIORGIO MOTTOLA Eh, come mai? Non capisce la domanda? Parlo italiano.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER No, lei parla italiano, se vuole ne parliamo seduti, tranquilli.
GIORGIO MOTTOLA E quando possiamo parlarne?
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Quando vuole, guardi. Non mi sembra questo il contesto.
GIORGIO MOTTOLA Malofeev.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Se lei ha voglia io vado a ricostruire cosa è successo sei anni fa, volentieri.
GIORGIO MOTTOLA Quindi la contattiamo tramite la sua segretaria e ci dà l’intervista.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Va bene. Magari non in maglietta, in un prato.
GIORGIO MOTTOLA Va bene, d’accordo. È una promessa, allora.
MATTEO SALVINI - SEGRETARIO LEGA SALVINI PREMIER Grazie. Buon lavoro.
GIORGIO MOTTOLA Grazie.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Purtroppo però Salvini la promessa non l’ha mantenuta e l’intervista non ce l’ha mai concessa. Eppure sarebbe stato interessante chiedergli come mai i rapporti tra il mondo salviniano e quello di Malofeev si siano così velocemente intensificati dopo la sua elezione a segretario della Lega. Appena qualche mese dopo il congresso il suo portavoce Gianluca Savoini fonda infatti l’associazione Lombardia Russia e chi nomina come presidente? L’uomo di Malofeev, Alexey Komov.
ALEXEY KOMOV - PRESIDENTE ONORARIO ASSOCIAZIONE LOMBARDIA RUSSIA Quando Savoini mi ha chiesto di diventare presidente onorario gli ho detto: sì, certo. Avevano bisogno di un russo che rappresentasse il mondo ultraconservatore e tradizionalista russo, quindi ho detto di sì, ma non ho la minima idea di cosa facciano l’associazione e Savoini.
GIORGIO MOTTOLA Salvini e Savoini le hanno mai chiesto soldi per la Lega?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL No, gliel’ho detto. È da cinque anni che non finanzio niente e nessuno in Europa a causa delle sanzioni e non voglio metterli in pericolo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Prima delle sanzioni, però, Malofeev si è dimostrato molto generoso con i partiti di destra europei: al neofascista Jean Marie Le Pen ha fatto ottenere tramite una società cipriota un prestito di due milioni di euro e, stando alle accuse mosse contro Malofeev in Francia, grazie al suo intervento il Fronte Nazionale di Marine Le Pen avrebbe ottenuto tramite una banca russa 9 milioni e 400mila euro.
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL No, questo non è vero.
GIORGIO MOTTOLA E invece il padre, Jean Marie Le Pen, lo ha mai finanziato?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL In quel caso sì, l’ho aiutato, ma c’è una grande differenza: è stato prima delle sanzioni.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I rapporti tra la Lega e Malofeev, insomma, che sono emersi nella nostra inchiesta sono stati anche confermati da una recente serie di documenti che sono stati trovati dal Dossier Center di Londra, che fa riferimento all’ex oligarca russo dissidente Chodorkovskij. Ecco, sono stati pubblicati anche da un consorzio di giornalisti internazionali e anche dall’Espresso. Si tratta soprattutto di mail che vanno dal 2013 al 2019 dalle quali intanto si evince che il Cremlino va a braccetto con Lega ma anche con i partiti dell’estrema destra nazionalisti e xenofobi d’Europa: quelli della Germania, dell’Austria, dell’Olanda e, insomma, anche di altri paesi dell’Ue. Salvini poi avrebbe incontrato Malofeev segretamente, nel novembre del 2018, che era stato già nominato vice premier e ministro dell’Interno, nell’hotel Lotte per evitare, diciamo, che la stampa occidentale riprendesse questo incontro. Ecco, lo dice chiaramente, anzi, lo scrive Mikhail Yakushev, che è direttore di Tsagrad, l’organizzazione che fa riferimento a Malofeev, in un documento dell’8 giugno 2019. Yakushev esprime anche il rammarico perché non è più possibile, insomma, contattare Salvini perché si è perso il punto di riferimento, il suo portavoce, Gianluca Savoini, finito nel clamore dell’inchiesta giornalistica del Metropol, sostanzialmente non ha più accesso libero al suo capo ed è finito sotto l’occhio dei servizi segreti italiani. Così scrive Yakushev, che manifesta anche la necessità di trovare un altro punto di riferimento per mantenere vivo il contatto con Salvini. Sempre da questi documenti del Dossier Center di Londra emergono delle mail di Savoini che aveva organizzato nel gennaio 2016 a Milano incontri con Marine Le Pen, con il presidente del Partito della libertà austriaco di estrema destra, Heinz-Christian Strache, che è l’altro che aveva firmato il contratto con il partito Russia Unita di Putin, e poi c’erano anche altri partiti dell’estrema destra. Un altro incontro era fissato poi a dicembre del 2016 con Salvini, con esponenti del partito Russia Unita e con Dugin ma poi questo incontro, scrive Savoini stesso, è saltato perché la Lega era finita sotto l’attacco dei globalisti e atlantisti, lo scrive lui stesso a Dugin, alla figlia di Dugin, Daria Dugina. Ecco, insomma, dal Dossier Center di Londra emerge anche il fatto che la Lega chiedeva consigli su come contrastare le politiche anti-Russia: c’è una mail del marzo del 2015 di Claudio D’Amico, responsabile dell’ufficio delle relazioni estere della Lega, che scrive a Komov, proprio l’uomo di Malofeev, consigli sugli emendamenti da presentare per contrastare una mozione presentata a Bruxelles da un eurodeputato. Insomma, scrive a Komov che è proprio l’uomo che detiene l’agenda segreta di Malofeev, un’agenda dalla quale spuntano incontri tra l’oligarca russo ed esponenti di quelle fondazioni dell’ultradestra, ultracristiane americane, una sorta di santa alleanza dalle quali casse emergeranno dollari, tanti dollari, un fiume di dollari, circa un miliardo di euro che finirà con alimentare delle campagne contro i gay, contro l’aborto, contro l’immigrazione, contro il pontificato di Bergoglio, tese a far implodere l’Europa. Un fiume di denaro tanto da far tirar fuori il rosario anche a chi fino a quel momento non aveva dato una grande prova di aderenza alla cristianità.
PETER MONTGOMERY – SENIOR FELLOW RIGHT WING WATCH Malofeev è “l’oligarca di Dio”. Lui finanzia con milioni di dollari l’anno la fondazione San Basilio il Grande, con cui prova a raggiungere il suo scopo primario: rendere la Russia il faro della civilizzazione cristiana nel mondo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO San Basilio il Grande è la più ricca e potente fondazione russa. Malofeev, l’oligarca di Dio, la finanzia ogni anno con decine di milioni di euro. Usa la fondazione per attività benefiche ma soprattutto per combattere i nemici della cristianità, a partire dalla lobby gay.
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Io uso la parola sodomiti.
GIORGIO MOTTOLA Sodomiti?!
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Oppure posso usare la parola pederasta.
GIORGIO MOTTOLA Non crede che sia giusto un po’ offensiva?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Poiché sono cristiano, pretendo di usare questa parola e credo che queste persone devono al più presto darsi una calmata. Perché l’Europa deve diventare una terra di sodomiti?
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma le lobby gay non sono gli unici nemici che “minacciano” le radici cristiane della Russia e dell’Europa.
GIORGIO MOTTOLA Nel suo mondo ideale qual è il ruolo delle donne?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Il loro ruolo è essere amate dai mariti. Solo le donne infelici e non amate diventano femministe. E poi dobbiamo garantire loro abbastanza soldi. In questo modo non avrebbero voglia di lavorare e resterebbero a casa. Solo donne consapevoli del loro ruolo di casalinghe e madri possono risolvere il calo demografico.
GIORGIO MOTTOLA Ma Salvini condivide i suoi valori?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Ma certo. Il suo discorso a Verona è stato magnifico.
MATTEO SALVINI – MINISTRO DELL’INTERNO (GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019) VERONA – 30/03/2019 – WORLD CONGRESS OF FAMILIES Mi incuriosiscono queste presunte femministe, che se io fossi donna mi metterebbero in difficoltà, che manifestano a pagamento… secondo me c’è un business organizzato del turismo. Cioè, un po’ vado a Verona, un po’ vado a Genova, un po’ vado a Palermo. Sempre gli stessi a dire sempre le stesse cose, con gli stessi cartelli.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da dopo che si sono intensificati i suoi viaggi in Russia il rapporto pubblico di Salvini con la religione è profondamente cambiato.
MATTEO SALVINI - MINISTRO DELL’INTERNO (GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019) MILANO – 18/05/2019 – MANIFESTAZIONE PRIMA L’ITALIA E io personalmente affido l’Italia, la mia e la vostra vita, al cuore immacolato di Maria che sono sicuro ci porterà alla vittoria.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sono seguiti post sulla Madonna, ostentazione di simboli religiosi e tanti altri crocifissi baciati in pubblico. Fino ad arrivare al sostegno pubblico dato al World Congress of Families a Verona del marzo del 2019.
MATTEO SALVINI - MINISTRO DELL’INTERNO (GIUGNO 2018 – SETTEMBRE 2019) VERONA – 30/03/2019 – WORLD CONGRESS OF FAMILIES E se parlare di mamma, papà e bimbi con l’aggravante di dirsi cristiani o cattolici è da sfigati, sono orgoglioso di essere uno sfigato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il World Congress of Families a cui Salvini annuncia il suo sostegno è un’organizzazione internazionale antiabortista e contraria alle unioni omosessuali. Il presidente è un americano, Brian Brown, il suo vice è una nostra vecchia conoscenza: Alexey Komov. L’organizzazione esiste da più di vent’anni ma è stato Konstantin Maloveev a dargli una nuova vita nel 2013. È l’anno in cui l’oligarca di Dio in gran segreto vola negli Stati Uniti a incontrare i capi della destra religiosa con l’aiuto di Alexey Komov.
GIORGIO MOTTOLA Qual era l’argomento di questi incontri?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Abbiamo discusso di come difendere le famiglie dal totalitarismo dell’agenda sodomita che si sta diffondendo in tutto il mondo.
GIORGIO MOTTOLA Quindi è in quel momento che è nata la Santa Alleanza?
KONSTANTIN MALOFEEV - FONDATORE MARSHALL CAPITAL Sì, l’idea è nata lì.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Santa Alleanza del World Congress of Families si riunisce pochi mesi dopo nel 2014 a Mosca per il primo congresso internazionale ultratradizionalista organizzato da Malofeev. Gli americani partecipano sebbene poche settimane prima ci sia stata l’invasione della Crimea e la Russia e l’oligarca di Dio siano stati colpiti dalle sanzioni di Stati Uniti ed Europa. Scorrendo la lista degli invitati al Forum di Mosca del 2014 troviamo una nutrita rappresentanza italiana. La delegazione più folta è quella dell’associazione Pro Vita presieduta da Toni Brandi.
GIORGIO MOTTOLA Tutto spesato dai russi. Molto ospitali.
TONI BRANDI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PRO VITA No, non è vero, non è vero. Ci hanno offerto l’albergo.
GIORGIO MOTTOLA E il viaggio.
TONI BRANDI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PRO VITA Vabbè, ora non mi ricordo.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’associazione Pro Vita si è fatta conoscere negli ultimi anni per sue campagne shock contro l’aborto e contro le unioni omosessuali. Il suo portavoce è Alessandro Fiore, figlio di Roberto, leader di Forza Nuova. E fino a qualche anno fa a distribuire il Notiziario dell’associazione Pro Vita era Rapida Vis, una società intestata ai figli del leader di Forza Nuova.
GIORGIO MOTTOLA I suoi rapporti con Roberto Fiore, il movimento Pro Vita è una succursale di Forza Nuova?
TONI BRANDI - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PRO VITA Ma figlio mio, ma lei è una persona che c’ha una faccia così pulita, ma perché dice queste panzane. Vede come sono educato? Ho detto solo panzane. Mi trovi per cortesia una fotografia in pubblico dove io e Roberto Fiore parliamo insieme e allora lei ha ragione.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Abbiamo trovato di meglio di una foto. Toni Brandi indossa la maglietta Pro Vita e a fianco a lui c’è Roberto Fiore. Le immagini provengono da un documentario intitolato Sodoma, commissionato da associazioni antigay russe.
GIORGIO MOTTOLA Lei ha partecipato nel 2014 al congresso Pro Vita, al forum per le famiglie in Russia del 2014?
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA In Russia? Sì, ho partecipato.
GIORGIO MOTTOLA Quindi lei conosce anche Konstantin Malofeev?
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA Conosco Konstantin Malofeev.
GIORGIO MOTTOLA L’ha incontrato più volte?
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA L’ho incontrato.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma non è stato solo un incontro: in questa mail, del database Occrp, Alexey Komov, l’uomo di Malofeev, definisce Roberto Fiore “il nostro amico italiano filorusso”. E proprio a Komov Fiore chiede aiuto per trovare un avvocato a un leader neofascista in carcere in Grecia.
GIORGIO MOTTOLA C’è questa mail in cui lei chiede un avvocato da mandare ad Atene perché c’erano…
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA Certo. Noi riteniamo che la Russia abbia un enorme ruolo nel mondo, con la sua cultura giuridica, con la sua storia e con le lotte per le libertà che in questo momento sta facendo la Russia in giro per il mondo.
GIORGIO MOTTOLA Quindi faceva bene Komov a definirlo il nostro amico italiano filorusso, Roberto Fiore?
ROBERTO FIORE - SEGRETARIO FORZA NUOVA Assolutamente.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma dalla Russia, oltre al sostegno politico, negli anni scorsi è arrivata anche una valanga di soldi al mondo Pro Vita italiano. Da tre conti dell’Est Europa legati a società dell’Azerbaijan e della Russia sono partiti oltre due milioni di euro destinati alla Fondazione Noave Terrae di Luca Volonté, ex parlamentare dell’Udc e membro del direttivo, insieme ad Alexey Komov, dell’Howard Center, la fondazione presieduta da Brian Brown che organizza il World Congress of Families. A partire dal 2015, entra nel direttivo di Novae Terrae anche il senatore della Lega Simone Pillon.
GIORGIO MOTTOLA Anche dopo che è partita l’inchiesta…
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Scusa, eh. Dimmi, dimmi Putin.
GIORGIO MOTTOLA Senatore, siamo al cabaret. Siamo al cabaret, veramente…
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Ma il cabaret lo fate anche voi!
GIORGIO MOTTOLA Noi facciamo il cabaret?
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Qualunque cosa andate a toccare, la dovete sporcare. GIORGIO MOTTOLA Questo noi?
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Se questo è il vostro modo di lavorare, complimenti, continuate così.
GIORGIO MOTTOLA Oppure le fondazioni che ricevono soldi da società offshore?
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Continuate così.
GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno Luca Volonté è stato condannato in primo grado per corruzione internazionale dopo un’indagine partita nel 2015 sui soldi offshore arrivati alla fondazione Novae Terrae. Anche dopo l’apertura dell’inchiesta i soldi hanno continuato ad arrivare non più da Oriente ma dalle fondazioni americane amiche di Malofeev, come la National Organisation for Marriage, la Home School Legal Defence e soprattutto Patrick Slim, figlio di Carlos Slim, il quinto uomo più ricco del pianeta. Si tratta di denaro che arriva nel periodo in cui fa il suo ingresso nella fondazione il senatore Pillon, completamente estraneo all’inchiesta che ha coinvolto Volonté.
GIORGIO MOTTOLA Dal momento che i movimenti Pro life portano avanti un’agenda politica molto precisa e che sta cambiando la legislazione del nostro Paese…
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Scusi eh, ma il suo obiettivo qual è? È quello i dire che quindi “Pillon è brutto e cattivo” e “mi sono sbagliato non prende i rubli ma prende i dollari”?
GIORGIO MOTTOLA Io le sto citando, ecco, una serie di finanziamenti, una serie di bonifici, arrivati tutti quanti da stranieri.
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Il vostro obiettivo è molto chiaro. La ringrazio per la domanda. I fondi che sono entrati nelle associazioni sono fondi perfettamente leciti per quello che riguarda la situazione nella quale io ero lì. Se lei ha qualcosa di segno opposto, fa la sua denuncia e io farò la mia querela. Va bene? Lei mi porta i finanziamenti di cui mi sta parlando, non quegli appuntini lì sul foglio di carta igienica e io poi le risponderò completamente. GIORGIO MOTTOLA É la mia agenda, la tratti un po’ con più rispetto, senatore.
SIMONE PILLON - SENATORE LEGA SALVINI PREMIER Vabbè, foglio di carta di agenda.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Però il foglio d’agenda contiene le prove per bonifici per 75 mila euro. Ora, resta da vedere come sono stati spesi. All’epoca Pillon non volle darci delle spiegazioni. Il senatore leghista in questi anni si è reso protagonista di un controverso disegno di legge sulla famiglia e anche di alcune campagne, dichiarazioni contro l’aborto e contro i diritti dei gay. Insomma, abbiamo però capito che sotto l’ombrello di Malofeev, a vario titolo, si sono coperti la Lega e anche il leader di Forza Nuova, Roberto Fiore, e quello di Pro Vita Brandi. Malofeev, dopo le sanzioni scattate per aver finanziato la guerra in Crimea, dopo essere finito nella black list, ha posato il suo sguardo sulle fondazioni della destra americana, quelle ultra cristiane, insomma, e dentro le quali abbiamo trovato anche i finanziatori di Trump e anche i finanziatori di Cambridge Analytica, cioè di chi ha violato i 50 milioni di profili degli utenti Facebook e avrebbe condizionato l’esito delle presidenziali e anche la Brexit, cioè l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Ecco, Malofeev ha rivitalizzato quelle fondazioni e proprio in quel periodo è aumentato il flusso di denaro, parliamo di circa un miliardo di dollari, che da quelle fondazioni è venuto verso associazioni, fondazioni, movimenti in Europa che hanno alimentato campagne contro i gay, contro l’aborto, contro i migranti, contro il pontificato di Bergoglio col tentativo di far implodere l’Europa. E un po’ di spicci, avevamo anche scoperto, erano finiti nell’associazione Dignitatis Humanae Institute, che era un’associazione che faceva riferimento allo stratega di Trump, Steve Bannon, che dopo aver contribuito alle presidenziali che cosa aveva fatto? Era venuto in Italia per fondare la sua scuola di sovranismo, aveva scelto come sede una meravigliosa abbazia, la Certosa di Trisulti, aveva posto lì la sua sede, vicino Frosinone, e poi dopo è stato costretto ad andar via grazie anche al nostro contributo, che avevamo scoperto alcune irregolarità nell’assegnazione della Certosa all’associazione. Però la Dignitatis Humanae è la prova dell’anello, della congiunzione tra, della santa alleanza, se possiamo definirla così, cioè di quella congiunzione tra l’oligarca di Dio Malofeev e le fondazioni della destra americana ultracristiana. Infatti abbiamo trovato questa fotografia del 2012 che appartiene alla cerimonia di inaugurazione della Dignitatis Humanae e insieme a Bannon e agli altri c’è anche l’uomo di Malofeev, Komov, cioè l’uomo che era legato anche a Gianluca Savoini e quindi a Salvini. Ecco, insomma, abbiamo capito che in un contesto come questo per smuovere, per condizionare l’opinione pubblica l’ostentazione di una fede religiosa è fondamentale.
I legami con la Lega e con l'estrema destra europea. Chi è Konstantin Malofeev, l’oligarca russo fedelissimo di Putin che disse: “Salvini è il futuro leader italiano”. Redazione su Il Riformista il 4 Aprile 2022.
Imprenditore, politico, ma soprattutto grande sostenitore di Vladimir Putin. Il magnate russo Konstantin Malofeev è stato incluso nella lista delle sanzioni imposte da Ue, Stati Uniti e Canada nel 2014, perché coinvolto nell’annessione russa della Crimea, mentre l’Ucraina lo ha accusato di sostenere alcuni gruppi paramilitari filorussi illegali.
In passato avrebbe finanziato i movimenti di ultradestra in Europa, come il partito di Jean Marie Le Pen. Ma il nome di Malofeev è legato anche a quello del leader della lega Matteo Salvini, come rivelato da un’inchiesta condivisa da alcune testate europee, tra cui l’Espresso, lo scorso 24 marzo.
Chi è Konstantin Malofeev
Conosciuto come ‘l’oligarca ortodosso’ per la sua religiosità e anche come ‘l’oligarca di Dio’ per aver finanziato movimenti religiosi ultra-tradizionalisti, Konstantin Valerjevich Malofeev, classe 1974, è presidente del consiglio di amministrazione del gruppo mediatico Tsargrad– dedicato a diffondere messaggi religiosi del cristianesimo ortodosso russo, in linea con le politiche del Cremlino- nonché direttore dell’organizzazione non governativa russa per lo sviluppo dell’educazione storica chiamata ‘Aquila Bicipite’. Inoltre è anche il fondatore del fondo di investimento internazionale Marshall Capital Partners, che gli ha fatto accumulare, nei primi anni Duemila, un patrimonio da 2 miliardi di dollari. Sposato con Irina Mikhailovna Vilter, avvocato, ha tre figli: Kirill (1995), Natalia (1999) e Tatiana (2011).
L’inchiesta
Secondo alcuni documenti, resi noti da diverse testate come New Lines e in Italia da L’Espresso, Malofeev, uno degli uomini più ricchi di Russia, avrebbe cercato un nuovo tramite per avvicinarsi al leader del Carroccio Matteo Salvini dopo il caso ‘Savoini-Metropol’. Questa documentazione è costituita soprattutto da email- datate tra il 2013 e il 2019- che si sono scambiate politici e portaborse dei partiti di quella che viene definita la ‘nuova destra europea.’ Ossia un fronte sovranista internazionale, con la Lega e altri partiti nazionalisti xenofobi di Germania, Olanda, Austria e altri Paesi Ue, che cercavano appoggi con gli oligarchi fedeli a Putin. A fare da mediatore lui, Gianluca Savoini, ex portavoce di Salvini, al centro di un’indagine della Procura di Milano nel 2019, accusato di aver cercato di procurare finanziamenti russi al partito attraverso la compravendita di un certo quantitativo di gasolio.
Ma, una volta uscito di scena Savoini, Malofeev avrebbe incontrato segretamente il leader della Lega a Mosca.
L’incontro
L’incontro di Savoini all’hotel Metropol di Mosca, avvenuto nell’ottobre del 2018 e a cui è presente anche un ex manager di Malofeev, viene rivelato dai giornalisti dell’Espresso. Savoini ha poi continuato a fare da tramite tra l’oligarca, il partito di Putin e i politici europei di estrema destra, almeno fino al 2019. I seguito i tentativi per mettersi in contatto con Salvini da parte del magnate sarebbero andati avanti.
“Lo scorso novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell’hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale se ne accorgesse” scrive Mikhail Yakushev in un documento che si è inviato via mail il 18 giugno 2019. Yakushev è il direttore di Tsargrad, la società presieduta da Malofeev e il riferimento è a Matteo Salvini. Secondo quanto riportato da New Lines, in questo documento Yakushev si era anche detto preoccupato che ‘la situazione fosse drasticamente peggiorata’: “Non possiamo continuare ad avere contatti con Matteo”. Sempre secondo il documento, il contatto tra Salvini e Tsargrad era stato proprio Gianluca Savoini, che però aveva ‘perso il libero accesso al suo capo’.
Dopo la denuncia sulle trattative segrete della Lega a Mosca, Yakushev afferma che Savoini era ‘sotto l’occhio vigile dei servizi segreti’, ma lui aveva riflettuto su come mettersi in contatto con Salvini, a cui si riferiva sempre con il nome di battesimo, ‘in modo che possa contare su una persona affidabile per contattarci’ con la quale ‘possiamo comunicare in Russia o ovunque in Europa.’
I finanziamenti all’estrema destra
I collegamenti tra il magnate e l’estrema destra sono noti e risalgono a diverso tempo fa. Secondo Kalev Stoicescu, ricercatore di affari russi presso l’International Center for Defense Studies di Tallinn, in Estonia, Malofeev “ha organizzato gli incontri dell’estrema destra europea. Ha mediato un prestito di 11 milioni di euro (12 milioni di dollari) dalle banche russe al partito di Marine Le Pen”. Stoicescu ha inoltre descritto Malofeev come un ‘oligarca, un agente del Cremlino e un fanatico’ che sarebbe anche ‘più ortodosso del patriarca della Chiesa ortodossa russa’.
In un’intervista a Repubblica, risalente al 6 settembre 2019, Malofeev aveva negato la negoziazione con Savoini al Metropol- ma aveva ammesso di conoscerlo e di incontrarlo nelle sue visite a Mosca- e aveva descritto Matteo Salvini come ‘il futuro leader italiano’, aggiungendo: “È l’unico che mantiene le promesse. Ha carisma, è diretto e ama l’Italia. È un vero e proprio ‘tribuno del popolo’. Sono orgoglioso di conoscerlo“. Mentre di Putin aveva detto: “E’ stato un dono di Dio”.
Quei putiniani d’Italia a libro paga o antiatlantisti. La guerra in Ucraina ha fatto esplodere vecchi veti e nuovi “imbarazzanti” legami con Mosca. Aldo Varano su Il Dubbio il 31 marzo 2022.
Partiamo da un dato di fatto: il Partito di Putin in Italia è quello più vasto, ampio e potente tra quelli esistenti nelle nazioni dell’Europa occidentale che fanno parte della Nato. Per questo serve una precisazione indispensabile subito per non alimentare confusione, distorsioni e caccia alle streghe: l’espressione “Partito di Putin” (molto usata a partire dai fatti d’Ucraina, ma già presente prima in Italia) è imprecisa e perfino depistante perché unifica fenomeni politici e culturali decisamente diversi.
“Il partito di Putin” in Italia comprende una vera e propria struttura organizzata, con mezzi economici, gruppi dirigenti e leader. Ha quadri operativi al suo servizio e personaggi che per quel partito lavorano consapevolmente sulla base di obiettivi da raggiungere e probabilmente a stretto giro con personaggi e personalità della politica e della cultura della Russia.
Guai a confondere questa struttura, cioè il vero “Partito di Putin”, con l’area politica e culturale originata dalla sedimentazione di fasi storiche in cui il rapporto tra l’Italia e la Russia è stato mediato dal sogno e dall’illusione dell’Ottobre rosso di Lenin. Il periodo in cui nel nostro paese si cantava “E noi faremo come la Russia…” naufragato una prima volta nell’ 89 del secolo scorso e definitivamente affondato con l’aggressione all’Ucraina di un mese fa.
In quest’area, ormai da decenni inquietata dalle dure repliche della storia, si sono ritrovate nel tempo componenti politiche e culturali di fenomeni distinti e diversi. C’è un pacifismo radicale di origine religiosa per ovvia e naturale sistemazione. Un’area di sofferenti coscienze cattoliche che in questi giorni hanno teorizzato la resa immediata degli ucraini come gesto eroico, coraggioso e di responsabilità per rispetto della sacralità di ogni singola vita umana: niente armi a quel paese attaccato dalla Russia e resa immediata per risparmiare più vite possibili. Insomma, il progetto e il sogno che accompagna e alimenta il lavoro per un disarmo reale e totale come quello che immagina e propone Papa Francesco che però non ha mai chiesto all’Ucraina di arrendersi a Putin. Ha invece concentrato la sua testimonianza e la sua disponibilità ad operare per una pace immediata. Un’area che può essere accusata di sbagliare. Che sembra ed a tratti è funzionale al partito di Putin con il quale, però, non ha nulla da spartire.
Mondo cattolico a parte, in quel blocco si sono ritrovati spezzoni politici e di opinione provenienti da altre culture, soprattutto del comunismo e del socialismo italiani dei decenni scorsi. Non bisogna mai dimenticare, nel valutare la varietà delle reazioni provocate dalla guerra di Putin, che italiano è stato il più robusto e longevo partito comunista dell’occidente. E’ vero che Berlinguer confidò al giornalista Giampaolo Pansa di sentirsi più sicuro vivendo nell’area della Nato. Ma è anche vero che in molti non gli perdonarono quell’affermazione. La sinistra italiana, quella che ha radicalmente preso le distanze dalla Russia prima dell’ 89, cioè il Psi, è stata sempre una forza minoritaria. Il suo più importante leader del Novecento, Pietro Nenni, rigettò il premio Stalin solo dopo l’arrivo dei carri armati in Ungheria ( 1956).
Nel ’64 quando si alleò con la Dc isolando comunisti perse quasi mezzo partito. Nacque il Psiup che quando altri carri armati russi spazzarono il tentativo di Dubcek in Cecoslovacchia (era il 1968), sostennero i russi. Aldo Agosti, storico della sinistra, sembra scrivere in anticipo una pagina del “Partito di Putin” quando ricorda “i cospicui finanziamenti che l’Urss assegnò al Psiup che incassò in 8 anni «2 miliardi e mezzo di lire dell’epoca», anche per condizionare il Pci (a lungo finanziato dai russi) «il quale proprio in quegli anni – aggiunge Agosti – accenna a muoversi secondo direttrici più autonome da Mosca». La destra, quella estrema, non ha mai subito il fascino dell’Urss. Ma quando la Russia ha buttato giù il partito comunista (il nemico!) e cancellato le statue di Lenin, chiudendogli qualsiasi ruolo in gran parte delle società contemporanee, la Russia è diventato un paese da guardare con attenzione e fiducia. E anche da questo mondo, che non fa parte del Partito di Putin, sono arrivati contributi al “Partito di Putin”».
Ma il vero e proprio “Partito di Putin”, che opera ovunque può, e particolarmente in Italia per le ragioni sovraesposte, è quello creato e pagato direttamente, o attraverso affari convenienti, dagli uomini di Putin. Lasciamo da parte la vicenda di Savoini e i pesanti coinvolgimenti di ambienti leghisti ancora al vaglio della magistratura. Ma fenomeni come la ricostruzione della nostra dipendenza energetica da Mosca è parte del racconto del partito di Putin.
La maglietta di Salvini e le diffuse dichiarazioni che da sempre vengono da una parte della Lega non sono necessariamente conseguenza della milizia nel “Partito di Putin”. Lo stesso si può dire delle imbarazzanti dichiarazioni seminate sulla Russia e su Putin da Beppe Grillo e Conte in passato ( e ormai muto da quando è scattata l’aggressione all’Ucraina). Ma sono evidenti i repentini passi indietro e l’imbarazzo e le difficoltà di alcuni rappresentanti di quei partiti nei decisivi della vita politica italiana, specie dopo la svolta impressa dalla guerra ucraina. E sempre più frequente è l’impressione che ogni volta che la politica del paese s’incontra con l’Ucraina molti leader di quei partiti sono prontissimi a marce indietro che rischiano di indebolire il nostro paese. Sono loro la vera struttura del partito di Putin.
Da “ni vax” a “putiniana”, è di nuovo bufera su Virginia Raggi. Italia Viva chiede le dimissioni dell'ex sindaca da presidente della Commissione speciale Expo 2030 per le chat filo russe. Lei si difende: «Non sono Pro-Putin». Il Dubbio il 30 marzo 2022.
Da “ni vax” a “putiniana” d’Italia. È di nuovo bufera sull’ex sindaca Virginia Raggi che dopo aver strizzato l’occhio a chi rifiuta il vaccino, ora guadagna il titolo di “filorussa”. Non che l’esponente M5S abbia pubblicamente preso posizione sul conflitto in Ucraina, come del resto non ha mai espresso chiaramente la sua contrarietà al vaccino: si è tenuta sul filo del dubbio, per così dire, senza di fatto mai vaccinarsi.
E senza mai prendere posizione. Almeno non apertamente, scrive Repubblica, che ora tira fuori alcuni messaggi che Raggi avrebbe inviato nella chat grillina “Quelli che l’M5S”: video, articoli e post attinti del web in cui si dipinge l’Ucraina come un paese «eterodiretto» dall’Occidente, con tanto di «battaglioni nazisti» sotto il controllo del governo. Tutte argomentazioni tipiche della propaganda russa, e per questo inaccettabili secondo gli esponenti capitolini di Italia Viva che ora ne chiedono le dimissioni da presidente della Commissione speciale su Expo 2030: la stessa che le ha “concesso” l’attuale sindaco Roberto Gualtieri per suggellare il patto giallo-rosso.
«Dopo le posizioni no vax, ci mancava solo la propaganda filo Putin. Il ruolo di presidente commissione Expo 2030 Roma non è compatibile con questa visione», scrive il coordinatore romano dei renziani Marco Cappa. Mentre la capogruppo Pd in Campidoglio Valeria Baglio chiede che Raggi smentisca pubblicamente. Ed è subito accontentata: «Non sono una filo-putiniana o filo-russa: è evidente che in Ucraina ci sia un aggressore, la Russia, come è pubblica la mia contrarietà alla guerra come soluzione dei conflitti – scrive Raggi su Facebook -. Mi rincresce dover fare questa premessa ma mi si vuole affibbiare questa “etichetta” per delegittimarmi».
Si potrebbe infatti obiettare che esprimere perplessità sul governo di Kiev non significa sostenere Putin. E del resto, lo stesso video rilanciato da Raggi (che ripesca tra alcuni vecchi discorsi dell’ex europarlamentare grillino Dario Tamburrano) ricalca la formula del “né… né”: «non si tratta di essere pro o contro la Russia, ma di essere neutrali». Ma sembra ormai innegabile un certo apparentamento tra i no vax e i putiniani nostrani, come dimostra l’esperienza della Commissione Dupre (“Dubbio e Precauzione”) guidata da Cacciari, Agamben &Co. Che ora rinuncia alla lotta contro la “dittatura sanitaria” e vira sul conflitto in Ucraina con un evento online, in programma sabato pomeriggio, dal titolo “La verità è la prima vittima della guerra. Dal coprifuoco pandemico al coprifuoco della ragione”. Ospite: il professore Alessandro Orsini.
(ANSA il 30 marzo 2022) - La cooperazione sino-russa "non ha limiti". Lo ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, in merito allo stato dei rapporti tra Pechino e Mosca dopo il bilaterale tenuto poche ore fa a Tunxi dai ministri degli Esteri Wang Yi e Serghei Lavrov.
"Ci sforziamo per la pace senza limiti, salvaguardando la sicurezza senza limiti e opponendoci all'egemonia senza limiti", ha aggiunto nel briefing quotidiano Wang, per il quale le relazioni bilaterali "non sono conflittuali e non sono mirate verso terzi", e continuerammo ad essere orientate verso l'esercizio del "vero multilateralismo". (ANSA).
Giuseppe Sarcina per corriere.it il 30 marzo 2022.
L’Amministrazione Biden segue con grande scetticismo i negoziati tra ucraini e russi e con grande sospetto le manovre di Xi Jinping. Ieri il presidente americano ha detto che starà a vedere «ciò che offriranno i russi». Più o meno nelle stesse ore il Segretario di Stato, Antony Blinken, dal Marocco, osservava: «Un conto è quello che Putin dice, un conto quello che fa; a noi interessa quest’ultimo aspetto».
E infine il portavoce del Pentagono, John Kirby ridimensionava gli annunci in arrivo da Mosca: «I russi stanno spostando solo poche truppe dalla zona di Kiev, non possiamo parlare di un vero ritiro. Crediamo che la capitale sia ancora minacciata, come testimoniano i raid aerei».
Il governo americano, almeno per ora, non concede neanche una flebile speranza alla trattativa. Perché? Biden non si fida più di Putin. Lo ha anche detto ai quattro leader europei che ha sentito in videoconferenza nel cosiddetto formato «Quint» della Nato: Emmanuel Macron, Boris Johnson, Olaf Scholz e Mario Draghi.
Il presidente Usa pone due condizioni per cambiare idea: il «cessate il fuoco» e l’apertura dei corridoi per soccorrere gli ucraini assediati nelle città. Non ci può essere trattativa seria, mentre si continua a bombardare. C’è un altro punto che a Kiev considerano scontato, forse troppo frettolosamente: gli Stati Uniti sono pronti a far da garante per l’eventuale intesa e, soprattutto, sono disposti a intervenire militarmente in caso di un nuovo attacco russo. Biden, per il momento, non ha mai dato ufficialmente questa disponibilità e non risulta lo abbia fatto nelle conversazioni con Zelensky. Vedremo.
L’altra pista porta alla Cina. Negli ultimi giorni se n’è parlato poco, ma gli americani stanno seguendo con grande attenzione le mosse dei cinesi. In cima alle preoccupazioni c’è la possibile fornitura di armi alla Russia. Il Pentagono esclude che i cinesi consegneranno ordigni e mezzi pesanti a Putin.
Sarebbe un appoggio troppo scoperto e in questa fase, pensano a Washington, Xi Jinping vuole evitare uno scontro diretto con gli Stati Uniti e i partner europei. Ma il discorso non vale per le munizioni e le parti di ricambio.
L’esercito russo è in grande difficoltà anche perché non riesce a riparare carri armati, blindati, pezzi di artiglieria o semplicemente i camion cisterna e i convogli per il trasporto di cibo. I generali del Pentagono temono che in questo caso i cinesi possano aiutare i russi senza lasciare tracce. Nessuno a Washington, però, ha ancora tirato fuori le prove. Al momento, dunque, non sappiamo se è solo una congettura maliziosa o se è già qualcosa di più.
(ANSA il 29 marzo 2022) - Il rapporto sulla strategia di difesa nazionale degli Usa "è pieno di idee da Guerra Fredda e di confronto tra i campi: Cina e Russia sono due grandi potenze e il tentativo di contenere e sopprimere entrambi i Paesi non avrà successo".
E' il commento del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, all'indomani della presentazione della relazione del Pentagono a corredo del budget 2023, secondo cui la Cina è il più importante concorrente strategico degli Usa, mentre la Russia è definita una seria minaccia.
La parte statunitense, ha aggiunto Wang nel briefing quotidiano, "dovrebbe riflettere sulle proprie responsabilità nella crisi in Ucraina e rivedere e correggere le sue pratiche di creazione di nemici immaginari, ignorando le preoccupazioni politiche e di sicurezza di altri Paesi e mobilitando il confronto di gruppo".
Il portavoce ha invitato "ad attuare seriamente la dichiarazione" fatta dal presidente Joe Biden nell'ultimo colloquio in modalità video con il suo omologo cinese Xi Jinping sul fatto "di non cercare una nuova guerra fredda, di non cercare di cambiare il sistema cinese, di non cercare di opporsi alla Cina rafforzando le alleanze, di non sostenere l'indipendenza di Taiwan e di non avere alcuna intenzione di scontrarsi con la Cina", puntando invece alla collaborazione con la parte cinese.
Nella nuova situazione, "Cina e Usa dovrebbero rispettarsi a vicenda, coesistere pacificamente e lavorare a una cooperazione vantaggiosa per tutti". Nella conferenza stampa tenuta ieri sul bilancio 2023 per la difesa, la vice ministra americana della Difesa Kathleen H. Hicks ha in dicano in Cina, Corea del Nord e Russia come le più grandi minacce alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Da “il Foglio” il 29 marzo 2022.
I rappresentanti della Difesa del gruppo di Visegrád, costituito da Polonia, Repubblica ceca, Slovacchia e Ungheria, si sarebbero dovuti incontrare questa settimana per rafforzare il legame tra i quattro paesi dell’Europa centro-orientale cresciuti insieme dentro all’Ue.
Ma già nel fine settimana la ministra ceca Jana Cernochová aveva deciso di boicottare, convinta che l’evento sarebbe stato usato da Viktor Orbán per fare campagna elettorale e aveva aggiunto: “Mi dispiace molto che il petrolio russo a buon mercato sia più importante per i politici ungheresi del sangue ucraino”.
Senza la Repubblica ceca sarebbe stato un incontro depotenziato, ma ieri è arrivata la notizia che neppure il ministro della Difesa polacco parteciperà. La Polonia tra i quattro è il paese più grande e più importante e negli ultimi anni, mentre Praga e Bratislava continuavano a isolare e rimproverare Orbán per le questioni legate allo stato di diritto, c’era sempre Varsavia, ugualmente colpevole, pronta ad allearsi con l’Ungheria.
Ma la guerra della Russia contro l’Ucraina ha cambiato i rapporti e le priorità e per la Polonia isolare Mosca e punirla dell’invasione è una priorità. Per Orbán invece la fedeltà a Putin e al suo modello illiberale sono più importanti non soltanto della protezione degli ucraini, ma anche dello sforzo collettivo europeo di isolare la Russia.
Orbán ha valicato una linea rossa e nessuno in Europa è disposto a seguirlo, i polacchi, i cechi e gli slovacchi sanno bene con chi stare: con l’Ucraina. Il gruppo di Visegrád, che era nato per promuovere l’integrazione tra i quattro paesi e l’Ue, si era trasformato in un covo di pulsioni più o meno illiberali, ora si è sfaldato.
L’isolamento di Orbán è importante, conta molto a livello di valori, di unità, di europeismo. Purtroppo non vale molto nella pratica: sulle decisioni europee vige il diritto di veto e Orbán potrà continuare a opporsi alle sanzioni contro la Russia. Sarà isolato, ma seppur solo, sarà utile a Putin.
Concetto Vecchio, Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 29 marzo 2022.
Man mano che il conflitto nel cuore dell'Europa va avanti, e vengono alla luce le passate, mai celate, simpatie di Lega e Forza Italia nei confronti della Russia, emerge un elenco finora rimasto nascosto ai più: quello dei politici italiani messi al bando dal governo ucraino.
Destinatari ufficiali di diffide, di inviti a non andare nel Paese oggi sotto le bombe di Putin. In cima alla lista Silvio Berlusconi, a seguire diversi leghisti: i parlamentari Edoardo Rixi, Manuel Vescovi, Jari Colla, il capogruppo del Carroccio nel consiglio veneto Roberto Ciambetti sono tutti oggetto di una sorta di "Daspo" per alcuni non ancora scaduto.
In pochi lo ricordano: nel settembre 2015 l'Ucraina vietò l'ingresso nel Paese a Silvio Berlusconi per tre anni. Il motivo: si era recato in Crimea con Vladimir Putin. La messa a bando venne decisa per «proteggere gli interessi della sicurezza nazionale».
L'ambasciatore ucraino a Roma, Evhen Perelygin, scrisse a Berlusconi definendo la sua visita una «provocazione che rappresenta una sfida diretta all'integrità territoriale dell'Ucraina e ignora completamente la posizione consolidata dell'Unione europea e dell'Onu riguardo al non riconoscimento dell'occupazione di Crimea da parte della Federazione russa».
In quei mesi - al pari di Matteo Salvini, che era stato in Crimea l'anno prima, nell'ottobre del 2014 - Berlusconi promosse una campagna per togliere le sanzioni che la Ue aveva inflitto a Mosca dopo l'annessione della penisola ucraina nel febbraio 2014.
Nel settembre del 2015 il Cavaliere volò quindi in Crimea. Visitò il cimitero di guerra di Sebastopoli dedicato ai caduti della guerra del 1853-56, fece un tour dei vini e Putin gli concesse un bagno di folla a Yalta.
Era una visita privata, iniziata due giorni prima nella dacia di Sochi. L'Ucraina reagì sdegnata e gli comminò un Daspo della durata di tre anni.
Stesso provvedimento - con durata variabile - toccato ai protagonisti di un viaggio a Yalta, nell'ottobre del 2016, per partecipare a un forum economico con imprenditori e politici. Una manifestazione seguita all'approvazione, da parte dei consigli regionali lombardo e veneto di due risoluzioni «per riconoscere quanto espresso dal popolo della Crimea attraverso il referendum di indipendenza ». Ovvero l'annessione alla Russia contestata dai maggiori organismi internazionali.
Prima della partenza per Yalta, la delegazione lombarda guidata dall'attuale deputato Jari Colla fu messa in guardia dal console ucraino a Milano, Roman Gorianov: la visita, scrisse il console, «violerebbe il regolamento sull'entrata e l'uscita dalle aree d'Ucraina temporaneamente occupate, le relative direttive dell'Unione Europea, nonché le norme del diritto internazionale».
Colla rispose via social: «Parto lo stesso». Il deputato ligure Rixi, ex sottosegretario, conferma di aver ricevuto la diffida dall'ambasciata ucraina al ritorno in Italia: «Scadrà fra qualche mese: la cosa assurda - dice - è che la Farnesina non ci ha mai sconsigliato quel viaggio. In ogni caso, fu una missione d'affari, a favore dei nostri imprenditori.
Putin? Come un amico di famiglia che però a un certo punto uccide la moglie. Non puoi più trattarlo allo stesso modo...». Vescovi, anche lui deputato ma di Padova, ricorda addirittura che l'invito-obbligo a non andare in Ucraina per qualche giorno gli fu addirittura notificato a voce: «Ma poi non ho visto la lettera». E Ciambetti, da sette anni alla guida del consiglio regionale veneto, dice di aver ricevuto il Daspo ma anche «esplicite minacce da parte di gruppi non meglio identificati che evidentemente non avevano gradito la nostra visita».
E Salvini, il primo a essere volato in Crimea già nel 2014? Nulla si sa di un Daspo anche per lui. Ma di certo nel luglio del 2018, quando era già ministro degli Interni, il leader della Lega in un'intervista al Washington Post si lasciò andare ad alcune considerazioni a favore della politica estera di Putin: spiegò che l'annessione della Crimea nel 2014 fu "legittima" e sancita da un "regolare referendum". Per questo motivo l'ambasciatore italiano a Kiev, Davide La Cecilia, fu convocato al Ministero degli Esteri ucraino: le autorità ucraine avanzarono una protesta formale.
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio e Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 30 marzo 2022.
Nella lista degli ospiti non graditi dal governo di Kiev c'è pure Matteo Salvini. È un vaso di Pandora la vicenda dei Daspo nei confronti di politici italiani (soprattutto di centrodestra) che negli anni scorsi si sono apertamente schierati con la Russia nella contesa per il Donbass e per l'indipendenza della Crimea, alla base oggi dell'aggressione di Putin all'Ucraina.
Uno dopo l'altro, vengono fuori nuovi nomi di filo-russi, attuali o ex, che hanno avuto, o hanno tuttora, una sanzione che impedisce di andare nel Paese sotto le bombe di Mosca.
Mentre il consiglio regionale veneto, con un voto, cancella la risoluzione di sei anni fa contro le sanzioni alla Russia.
Fonti dell'ambasciata a Roma confermano che un divieto temporaneo d'ingresso in Ucraina, negli anni scorsi, è stato imposto anche al leader della Lega. Salvini, nell'ottobre del 2014, andò in Crimea. Da Sebastopoli postò un video in cui definì «regolare e libero» il referendum contestato da Ue e Nato.
È lunga la lista di politici colpiti dal Daspo. Nei giorni scorsi erano usciti i nomi di Silvio Berlusconi e di alcuni deputati leghisti che andarono in Crimea fra il 2016 e il 2017: Edoardo Rixi, Manuel Vescovi, Jari Colla («non voglio più parlarne, adesso bisogna solo lavorare per la pace»), il presidente del consiglio regionale veneto Roberto Ciambetti. Ma nell'elenco delle personalità messe al bando figurano anche - con provvedimenti tuttora vigenti - il deputato leghista Vito Comencini, che con la guerra in corso ha tentato di raggiungere il Donbass; Gianluca Savoini, che è stato a lungo l'uomo-cerniera di Salvini con la Russia. (…)
(AGI il 28 marzo 2022) - "Solidarietà alla Russia, con il nastro di San Giorgio Vittorioso sul Drago". Dodici parole, quelle scritte sulla sua pagina social dall'assessore alla Cultura del comune di Ceccano, Stefano Gizzi, che hanno fatto scoppiare una vera e propria bufera politica.
L'esponente della Lega ha accompagnato il messaggio con una foto dell'emblematica Z che oggi rappresenta simbolicamente Putin e la sua decisione di invadere l'Ucraina.
Gizzi non è nuovo alle provocazioni: nel maggio del 2006 in piazza Municipio, sempre a Ceccano, bruciò in compagnia dell'attuale senatore di Fdl Massimo Ruspandini il bestseller dello scrittore americano Dan Brown ritenendolo "un volume blasfemo che offende gravemente Gesù". Oggi, a distanza di 16 anni, torna a far parlare di sé in maniera ancora più plateale.
In un documento congiunto i consiglieri comunali di opposizione Emanuela Piroli, Andrea Querqui, Mariangela De Santis, Emiliano Di Pofi, Marco Corsi hanno chiesto "al sindaco Roberto Caligiore, alla giunta e all'intera maggioranza consiliare, di prendere pubblicamente le distanze dall'ultima dichiarazione vergognosa dell'assessore alla cultura Stefano Gizzi".
"Pretendiamo che la maggioranza tutta si assuma la responsabilità di rispettare gli impegni presi con la cittadinanza in Consiglio Comunale, in cui è stato votato all'unanimità un documento contro la guerra e ricordiamo che il Comune di Ceccano, da sempre capofila del movimento per la pace, si è messo a disposizione per l'accoglienza dei profughi ucraini", si legge nel documento.
"Non si può rimanere indifferenti di fronte a quello che si configura come un incitamento all'odio, sarebbe l'ennesimo forte segnale di incoerenza di questa amministrazione, perché la guerra non può avere tifosi, soprattutto tra i rappresentanti delle istituzioni democratiche".
Estratto dell'articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 28 marzo 2022.
Quando tornarono a casa, in Veneto, raccontarono che erano stati la prima notizia nei telegiornali. Le tv della Crimea occupata da Putin avevano fatto a gara per riprenderli quei leghisti giunti dall'Italia.
«Abbiamo un po' di attenzione» commentò compiaciuto il presidente del consiglio regionale, Roberto Ciambetti, postando le fotografie con le tante telecamere di cui furono gratificati. Era il 14 ottobre 2016.
Roberto Ciambetti, Stefano Valdegamberi, Luciano Sandonà, eletti nella lista del governatore Luca Zaia, grondavano soddisfazione. A maggio, grazie a loro, il Veneto era stata la prima regione d'Europa a riconoscere - con una risoluzione votata a larga maggioranza - l'annessione russa. Tutto il mondo democratico era indignato, la Ue varò dure sanzioni contro Mosca e la Lega consegnava la bandiera del leone di San Marco ai nuovi padroni della penisola ucraina.
(...) I tre capeggiavano una rappresentanza di imprenditori, perché gli affari dovevano riprendere. Il Cremlino stava investendo ingenti risorse nella regione e così incontrarono il capo della Repubblica Sergej Aksenov.
(...) Nell'ottobre del 2014 Matteo Salvini era stato il primo leader a visitare la Crimea. «Una fortuna», la reputò. Postò un video con alle spalle le navi nel porto di Sebastopoli. «Ecco, vedete», diceva grondante ammirazione per lo zar a cui probabilmente ambiva di assomigliare, «qua c'è una parte della flotta russa che difende i confini. E noi dedichiamo queste immagini a Renzi, ad Alfano, che invece usano le nostre navi per aiutare gli scafisti e agevolare l'invasione».
Nel maggio del 2017 furono invitati tutti al Forum economico di Yalta, proprio mentre l'Italia faceva togliere dagli scaffali i vini della Crimea.
(...) Della delegazione faceva parte anche Edoardo Rixi, poi sottosegretario. A quel tempo era assessore allo Sviluppo economico nella sua Liguria. «Andai in quella veste, per cercare di dare una mano alle nostre aziende, invitato dal consolato russo di Nervi. Non fu quindi un viaggio politico».
L'Ucraina gli comminò un daspo di cinque anni per le sue posizioni filo russe, che ancora perdura. In caso di ingresso nel paese scatta l'arresto. (...)
Quei putiniani di casa nostra che volevano un talk show con Zelensky. Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 27 marzo 2022.
Caro direttore perché, ma è una domanda retorica, un cittadino deve vergognarsi dei rappresentanti che, anche bontà sua, siedono in Parlamento. Pure con affacci governativi. Un gruppetto di questi deputati e senatori di colore politico variegato, tendente al nero, girovaghi dell’emiciclo, la mattina del 22 marzo 2022, ha disertato Montecitorio. Parlava da Kiev il presidente ucraino: una testimonianza drammatica sulle atrocità di una guerra di cui solo un sanguinario e mafioso dittatore conosce le ragioni. Quale messaggio vogliono mandare agli elettori? Ha scritto Milena Gabanelli sul Corriere. L’indifferenza, nello specifico, è solo ignoranza, presunzione e soprattutto viltà. Ascoltare significa imparare, imparare cosa sono dolore, sofferenza, negazione del futuro, le conseguenze di una guerra. Senza se e senza ma. Questi signori dell‘indifferenza hanno beneficiato di 70 anni di pace grazie alla democrazia e alla libertà che questo Paese ha difeso anche per loro. Ho 84 anni, i primi sono stati bombe e rifugi. Vi auguro di restarne lontani, anche se comunque imparereste qualcosa della vita. Filippo Cicognani
Caro signor Cicognani, La sua testimonianza, l’indignazione di chi la guerra l’ha conosciuta anche in Italia, spero servano da richiamo a coloro che giustificano ancora l’aggressione di Putin. E a chi pensa soltanto di consigliare agli ucraini la resa all’invasore. Così gli altri potranno tranquillamente tornare ai loro interessi e ai loro affari. Nel giorno del discorso del presidente ucraino Zelensky al Parlamento italiano ho ascoltato in tv un onorevole affermare che lui non ha partecipato perché non aveva voglia di ascoltare «un comizio». Come è possibile che un pezzo della classe politica italiana sia arrivata al punto di definire «comizio» il racconto del rappresentante della gente d’Ucraina martoriata dai bombardamenti, che rischia ogni istante la vita, perde le sue città, le sue case, scappa dal Paese? Come se, anche in questo caso, il Parlamento dovesse trasformarsi in un talk show in cui all’appello di Zelensky si dovesse opporre l’opinione del filo putiniano di turno. L’Italia è stata, e purtroppo lo è ancora, una nazione con partiti ed esponenti politici con forti simpatie per la Russia e il suo capo, ammaliati dall’uomo forte e poco propensi a difendere libertà, democrazia e pace. C’è sempre un alibi per l’aggressore di turno, una ragione per cui si può essere equidistanti. Ma qui si tratta dell’equidistanza tra chi uccide e chi viene ucciso, è mai possibile? Spero davvero che le sue parole facciano riflettere. La resistenza degli ucraini è una lezione formidabile che dovrebbe scuotere tutti.
Leader fortissimo. Conte è contrario ad aumentare le spese militari italiane, ma favorevole a rimborsare le spese militari russe in Italia. Christian Rocca su L'Inkiesta il 27 Marzo 2022.
Il leader (sub judice) di uno dei partiti filo Putin del nostro paese è inaspettatamente risoluto nel dire no all’aumento degli investimenti sulla difesa europea e atlantica, proprio nel pieno della guerra d’aggressione del Cremlino all’Ucraina e al mondo libero. Però, ai tempi del suo governo, l’Italia pagò a Mosca tre milioni di euro per la missione “Dalla Russia con amore”.
Dunque Giuseppe Conte è il primo leader politico, ci perdonino i leader politici degni di questo nome, contrario ad aumentare le spese militari italiane decise dal Consiglio europeo e dalla Nato ma favorevole a rimborsare le spese militari dell’esercito russo invitato in Italia nel 2020 a sfilare in colonna da Roma a Milano.
Quando Conte contava, secondo la ricostruzione del Corriere della Sera, l’Italia ha sborsato oltre tre milioni di euro per pagare la missione del Cremlino denominata “Dalla Russia con amore” e trasformata in farsa “Da Volturara Appula con scontrino”.
Un’operazione militare straniera in un paese Nato concordata al telefono da Conte medesimo con l’amico Vladimir Putin, un trust di cervelli da studiare nelle università di tutto il mondo, in particolare alla Link di Joseph Mifsud e alla Luiss di Alessandro Orsini.
In cambio dei nostri tre milioni di euro, di vitto e alloggio per due mesi e di chissà cos’altro, i russi hanno fornito all’Italia un numero di mascherine sufficiente a coprire il fabbisogno di mezza giornata, più qualche rudimentale macchinario di fabbricazione post sovietica, destinato alla spazzatura di Bergamo. Un affarone, tipo quegli altri “Made in Cinquestelle” e del loro incubatori anti italiani tipo il no al Tap, al Tav, ai rigassificatori e all’Ilva.
Con un video messaggio a quel che rimane dei Cinquestelle, Conte ha ribadito che mai e poi mai il partito che aspira a guidare da candidato unico voterà l’aumento delle spese militari italiane, e davvero stupisce che questa sia l’unica cosa chiara e netta che abbia detto in tutta la sua carriera politica. Quando Conte apre bocca di solito escono solo parole vuote e spesso inconcludenti se messe una dietro all’altra. Sul no alle armi in Ucraina e sul no a una maggiore spesa militare europea per aiutare a difendere l’Occidente dall’aggressore che manda carri armati con tanto amore, ecco invece che inaspettatamente Conte assume una posizione perentoria.
In un’incredibile ma vera intervista ad Andrea Malaguti della Stampa, probabilmente il primo giornalista italiano che l’abbia intervistato seriamente replicando puntualmente alle sue surreali amenità, Conte ha detto che non capisce per quale bizzarro motivo, nel momento in cui c’è il rincaro delle bollette e la recessione, si vogliano proprio adesso aumentare le spese militari.
Be’, c’è la guerra, gli ha fatto notare l’incredulo giornalista della Stampa. E rimane il mistero di cotanta risolutezza contiana su questo unico punto programmatico.
Restano i fatti: Conte è stato scelto da Casaleggio per guidare il governo populista in qualità di segnaposto di un movimento nato per abolire la democrazia rappresentativa, ovvero col medesimo progetto politico di Vladimir Putin, ha governato per oltre un anno contro l’Unione europea e per la chiusura dei porti ai migranti che fuggivano dalla guerra di Putin in Siria, ha avallato un memorandum che avrebbe consegnato le infrastrutture logistiche italiane alla Cina, si è inginocchiato davanti a Putin e ha fatto sfilare per la prima volta le truppe russe in un paese Nato e ha messo a disposizione di Trump e delle sue strampalate teorie complottistiche anti Biden gli apparati di sicurezza italiani.
Teorie, peraltro, grazie alle quali Trump ha sospeso 400 milioni di aiuti militari all’Ucraina che si preparava per tempo all’invasione russa su larga scala dopo l’annessione della Crimea, soltanto perché il presidente ucraino Zelensky non cedeva al ricatto di mettere nei guai giudiziari il figlio di Joe Biden per una qualche malversazione inventata dal Cremlino e amplificata in Italia dai giornali vicini a Conte.
Il primo governo Conte è nato dall’alleanza tra un partito come la Lega che aveva siglato un accordo politico con il partito Russia Unita di Putin e un altro, quello ora guidato si fa per dire da Conte, che mandava emissari ai congressi di Russia Unita che non si sono concretizzati in un accordo scritto soltanto perché, allora, i Cinquestelle per statuto non potevano firmare accordi politici con altri partiti.
Il secondo governo Conte ha invitato i militari russi oggi impegnati a sventrare un paese libero, democratico e indipendente a sfilare oscenamente lungo il nostro paese e a raccogliere informazioni in Lombardia.
Il Conte sub judice che si candida per l’ennesima volta a guidare uno dei partiti filorussi italiani, quel partito che nel 2018 aveva chiesto i voti su una piattaforma di politica estera identica a quella del Cremlino, dal No alla Nato al referendum sull’euro, ora è pronto a mettere in crisi il governo Draghi non votando l’aumento delle spese militari imposto dalla Nato e richiesto dal Consiglio europeo.
E lo fa nel pieno di una guerra d’aggressione all’Ucraina condannata da tutto il mondo tranne che da alcuni punti di riferimento fortissimi di tutte le forze fasciste.
Da “il Giornale” il 27 marzo 2022.
«Infame». «Il peggiore di tutti». «Assassino». A Roma scendono in piazza contro il governo gli ex grillini di «Alternativa C'è», che riescono a radunare a malapena quattro gatti, con qualche bandiera e molti slogan no-vax e pro-Putin, per dichiarare guerra atomica contro Draghi.
Che, ai loro occhi, ha il peccato mortale di aver tolto la poltrona all'ottimo Giuseppe Conte. Il killer di cotanto statista un nome: «Matteo Renzi ha fatto cadere il suo governo», piange il deputato Francesco Sapia, «poi è arrivato lui, il peggiore di tutti. E ora lo dobbiamo mandare a casa: è l'amico dei boia della finanza, della guerra e delle armi».
Poi arriva sul palco Raffaele Trano, altro deputato, che strilla: «Questo è un governo infame di un vile affarista». E denuncia gli ex colleghi M5s: «Erano entrati come forze del popolo. E ora sono diventati schiavi». La manifestazione si chiude, e il gruppetto va a festeggiare in pizzeria (a spese del Parlamento).
Da affaritaliani.it il 27 marzo 2022.
La fidanzata di Luigi Di Maio alla manifestazione contro il governo Draghi e filo Putin.
Proprio così. Come riporta Repubblica, "sotto al palco della manifestazione contro il governo indetta dagli ex 5 stelle di Alternativa spunta anche Virginia Saba. «Sono qui per lavoro», risponde quando le viene chiesto il motivo della sua presenza. Saba infatti «da anni» — spiega — è una collaboratrice di Emanuele Corda, deputata e animatrice della manifestazione organizzata ieri in piazza Santi Apostoli, nel centro di Roma".
"Un impegno professionale dunque, quello della compagna del ministro pentastellato, ma che colpisce, visti gli slogan anti-Draghi lanciati dalla piazza", continua Repubblica.
"Il titolare delle Farnesina, infatti, è da tempo tra i ministri maggiormente in linea col premier, crisi Ucraina compresa. Tanto da essere entrato in rotta con la parte dei 5stelle contraria all’incremento della dote da assegnare agli armamenti".
M5s, aut aut di Conte sulle armi. Tensione anche sul Def
In concomitanza di questa manifestazione tra l'altro, Giuseppe Conte aveva lanciato un doppio messaggio indirizzato proprio anche a Di Maio. Il primo, alla vigilia delle votazioni sulla presidenza M5s, interno al Movimento per dire basta a chi rema contro e provoca un'immagine di divisione, vuole una legittimazione piena.
Il secondo diretto al governo: il Movimento 5 stelle è la prima forza parlamentare della maggioranza, deve tener conto delle nostre posizioni, sul no all'aumento delle spese militari nessuna intenzione di arretrare.
Con un video l'ex premier Conte sferza i suoi ma anche l'esecutivo. Non c'è l'intenzione di minare l'immagine dell'esecutivo ma sulle battaglie care al Movimento si va avanti e "non si gioca più sulla difensiva", l'ex presidente del Consiglio si dice disponibile a correre il rischio di avere tutti contro "pur di difendere gli interessi dell'Italia".
"Non votatemi - osserva - se volete una forza estremamente moderata, conservatrice, compatibile con il passato, timorosa del futuro, disposta a piacere a tutti anche a costo di essere la brutta copia di altri partiti".
E' un modo per sferzare chi, a suo dire, intende logorarlo. Ed è un tentativo a serrare i ranghi perchè dietro l'angolo c'è il rischio flop sulla votazione sul presidente M5s che si terrà domenica e lunedì.
Nell'agosto del 2021 l'ex premier ottenne 67mila voti, ma nell'ultima votazione sullo statuto a pronunciarsi sono stati solo in 38mila. Al momento i fari sono puntati sul Senato: lunedì sera si terrà una riunione di maggioranza per decidere il da farsi sul dl Ucraina.
C'è l'ipotesi fiducia, ma a provocare fibrillazione è la partita sugli ordini del giorno. Si tenterà una convergenza: i pentastellati puntano a far sì che ogni discorso sull'aumento delle spese militari venga posticipato alla fine dell'emergenza energetica.
Insomma, prima le risposte sul caro bollette - con il rilancio di uno scostamento di bilancio - poi il resto. Ma il governo dovrebbe comunque fare un riferimento nel Def sulla cifra da mettere a bilancio. Da qui il timore all'interno dei gruppi parlamentari che la situazione precipiti, con la considerazione che Draghi non vuole compromessi e distinguo all'interno della maggioranza.
"Così si mette a repentaglio non solo l'esecutivo ma anche la posizione dell'Italia di fronte alla Nato e all'Europa", osserva un deputato M5s. Ma è anche la votazione di domani a creare agitazione nei gruppi. Il convincimento di chi all'interno non condivide la linea dell'ex premier è che già in settimana possano arrivare dei ricorsi, portati avanti dall'avvocato Borre', per rendere nullo l'esito delle due ultime votazioni e bloccare anche la presentazione delle liste alle amministrative.
Sotto traccia c'è chi si appella a Grillo, auspicando che sia il garante a fermare Conte perché - osserva un'altra fonte parlamentare - così va a sbattere. Conte è stato netto: "Se il risultato fosse così risicato sarei il primo a fare un passo indietro. Il Movimento ha bisogno di una leadership forte, di una forte investitura. Non posso accettare che ci sia chi rema contro o lavora per interessi propri".
Estratto dell’articolo di Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 27 marzo 2022.
(…) Tra il 2015 e il 2016 solo in Senato - come ha ricostruito ieri Repubblica - vennero presentate nove tra mozioni, interrogazioni, interpellanze anti sanzioni da parte di esponenti M5S e Lega. Un'offensiva istituzionale e mediatica. Un'interrogazione porta la firma del parlamentare leghista veneto Paolo Tosato, che secondo l'Espresso, il 9 giugno 2016 avrebbe ricevuto una richiesta di intervento da parte di un collaboratore dell'oligarca russo Kostantin Malofeev.
Il 3 aprile 2017, ovvero a un anno dal voto in Italia, in una mail inviata da Pjotr Grigorievich Premjak - ex funzionario dell'intelligence russa, oggi assistente di Viktor Shreyder, deputato di Russia Unita, il partito di Putin - a Serghej Aleksandrovich Sokolov, che nel sito del Cremlino viene indicato come responsabile del Dipartimento di politica estera. si elencavano cinque punti di attività e promozione degli interessi russi in Europa.
In Italia i partiti con cui costruire una rete informale venivano individuati in M5S e Lega, come documentò su Repubblica Claudio Gatti il 6 aprile 2019. Si elencavano cinque attività d'intervento: manifestazioni volte a screditare eventi o persone che si opponevano alla politica estera russa; visite di politici e uomini d'affari filo Putin in Russia; promozione nei parlamenti nazionali e regionali dei Paesi dell'Ue di misure contrarie alle sanzioni anti russe e favorevoli al riconoscimento dell'annessione alla Crimea.
Il 18 maggio 2016 il Consiglio regionale del Veneto si era già messo avanti. Su proposta del consigliere della lista Zaia Stefano Valdegamberi venne approvata con una maggioranza bulgara (27 sì, 9 no, un astenuto) una risoluzione che riconosceva l'annessione della Crimea. Lo stesso fecero poi Lombardia e Liguria.
Cinque mesi dopo una delegazione di leghisti, tra cui Valdegamberi e il presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti, andò in missione in Crimea, e qui Ciambetti consegnò la bandiera con il Leone di San Marco ai leader locali. Un tour di putiniani invitati da Business Russia. L'Ucraina protestò vivacemente.
(…) Il documento del 3 aprile 2017 quindi prendeva atto di un largo ventaglio di interventi che si concretizzavano già da tempo. E che culminarono nell'inserimento nel programma di governo della Lega dell'abolizione delle sanzioni alla Russia.
Un sentimento che il senatore della Lega Sergio Divina, parlando al Forum economico di Yalta, il 21 aprile 2017 sintetizzò così: «In Italia la Russia ha tanti amici, più di quanto immaginate». (…)
Estratto dell’articolo di Giuliano Foschini e Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 26 marzo 2022.
(…) Gli ultimi anni di pezzi di Lega e 5 Stelle sembrano una continua dichiarazione di amore al governo di Putin. Accordi commerciali, finanziamenti a onlus amiche.
E ancora: interrogazioni parlamentari per aiutare la Russia a uscire dalle sanzioni. Fino al cortocircuito che portò l'attuale presidente della delegazione italiana presso la Nato, Luca Frusone, a presentare una mozione per chiedere l'uscita dell'Italia dall'Alleanza.
I finanziamenti
E' ormai storia il dialogo all'Hotel Metropol di Londra il 18 ottobre del 2018 quando Gianluca Savoini, presidente dell'associazione Lombardo- Russia ed ex portavoce di Matteo Salvini, parlò con tre russi di un presunto finanziamento da 65 milioni di dollari alla Lega in una trattativa mai conclusa.
Per questo Savoini è indagato per corruzione internazionale in un'indagine che, spiegano fonti della procura di Milano, difficilmente avrà uno sbocco: l'uscita di Mosca dal Consiglio d'Europa blocca infatti ogni collaborazione giudiziaria. E dunque la possibilità di ottenere una risposta alla rogatoria.
E' già agli atti, invece, la storia di Novae Terrae, fondazione di cui il senatore leghista Simone Pillon è dirigente dal 2015. Si tratta della onlus su cui l'ex parlamentare Udc, Luca Volontè, fa transitare tra il 2012 e il 2014 poco meno di due milioni e mezzo di fondi azeri, oggetto di un'inchiesta della procura di Milano.
(…) Fra il 2015 e il 2016 solo in Senato sono nove gli atti ispettivi (mozioni, interrogazioni, interpellanze) presentati per chiederne la revoca all'esecutivo.
Tre portano la firma di esponenti dei 5S, due sono depositati dalla Lega. Un'interrogazione è di Paolo Tosato e ha la data dell'8 luglio 2015. (…) A chiedere lo stop alle sanzioni è pure un'altra interrogazione leghista quasi contemporanea - è del 15 luglio 2015 - e con parole pressoché identiche: la prima firma, in questo caso, è dell'attuale sottosegretario Gian Marco Centinaio. (…) «Ogni accusa nei miei confronti è priva di fondamento», dice Tosato che minaccia querele. «Su Paolo metto la mano sul fuoco», sibila il collega Candiani.
Il paradosso pentastellato
Emblematica è però anche la mozione con cui, nel gennaio del 2016, i grillini dichiaravano esaurite «le motivazioni dell'adesione italiana alla Nato».
A firmare quel documento Manlio Di Stefano, oggi sottosegretario agli Esteri e, fra gli altri, Luca Frusone, oggi presidente della delegazione italiana presso l'Alleanza. Chi oggi rappresenta il nostro Paese nella Nato, quindi, sei anni fa voleva che ne uscissimo.
D'altronde lo stesso Di Stefano nella passata legislatura aveva sostenuto, da relatore di minoranza, un progetto di legge che aveva gli stessi obiettivi della mozione. Dopo una battaglia in commissione e in aula portata avanti dall'ex presidente della commissione Esteri Fabrizio Cicchitto e da Andrea Manciulli, relatore di maggioranza del Pd, l'iniziativa legislativa è stata bloccata.
Ilario Lombardo per “La Stampa” il 25 marzo 2022.
Salvini proprio non ci riesce. I cronisti ci stanno provando da settimane, con effetti da laringoscopia: "Dica Putin". Quei ficcanaso di Pagella Politica però hanno spulciato i social di tutti i leader e hanno scoperto che, a parte Enrico Letta del Pd, anche gli altri, da Berlusconi a Conte faticano a pronunciarne il nome.
Qualche idea per risolvere questo incantesimo ci sarebbe. Potrebbero usare l'iniziale: Tipo: mister P. O un anagramma: Punti e Input, (ma anche Untip, Pintu, Ntipu, Tunpi...) Oppure fanno come in Russia dove è vietato usare la parola "guerra". Possono chiamarlo "il presidente militare speciale".
Jacopo Iacoboni per “la Stampa” il 25 marzo 2022.
«Lo scorso novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell'Hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell'incontro».
Chi scrive così è un russo ben collegato ai circoli attorno al Cremlino.
Si chiama Mikhail Yakushev, e il testo è in un documento word inviato a se stesso il 18 giugno 2019.
Yakushev è il direttore di Tsargrad, organizzazione (e tv) il cui presidente è Konstantin Malofeev, universalmente conosciuto come "l'oligarca ortodosso", un uomo che a trentun anni, nel 2005, fondò Marshall Capital, diventando in breve tempo uno dei fondi d'investimento più potenti della Russia nel private equity, anche capace di attrarre investimenti esteri, che negli anni ha investito in grandi operazioni con VTB (la banca di stato del Cremlino) o con Rostelecom (il gigante delle telecomunicazioni di stato).
Ma Malofeev - che è sotto sanzioni dall'Ue per l'invasione della Russia in Crimea nel 2014, da ben prima cioè della guerra totale scatenata da Putin il 24 febbraio scorso in Ucraina - è anche un agitatore dell'influenza e delle ops estere della Russia di Putin, che lega affari e nuovo culto dell'ortodossia, per creare, dice lui, «una Santa Alleanza» contro la corruzione dell'Europa e delle democrazie.
Alexander Dugin, il noto filosofo dell'"eurasianesimo", è un semplice braccio operativo di tutto questo. Assieme a Daria Dugina, sua figlia, anche lei parte dell'organizzazione. I documenti - che gettano nuova luce sui soggiorni moscoviti di Salvini - emergono dal londinese Dossier-Center di Mikhail Khodorkovsky, e sono stati condivisi con un gruppo di testate europee a partire dal lavoro di Michael Weiss.
Ma i testi dicono anche altro. A metà del 2019, i russi sono preoccupati che «la situazione sia drasticamente peggiorata e ora non possiamo continuare ad avere contatti con Matteo», visto che il consigliere di Salvini Gianluca Savoini aveva «perso il libero accesso al suo capo».
Dopo l'inchiesta dell'Espresso sui fatti del Metropol, Salvini - scrive Yakushev - «è sotto l'occhio vigile dei servizi di sicurezza locali». E osserva di stare pensando a come mantenersi in contatto con "Matteo" senza più usare Savoini, «in modo che possa assegnare una persona affidabile per contattarci, con la quale possiamo comunicare in Russia o ovunque in Europa».
Un altro testo di Tsargrad, del marzo 2021, parla di un piano elaborato dall'organizzazione nel marzo 2021 per creare una rete di partiti, di estrema destra (Lega, Le Pen, Wilders) ma anche euroscettici, chiamata "Altintern" (citazione del vecchio Comintern): «Senza il nostro impegno attivo e il sostegno tangibile ai partiti conservatori europei, la loro popolarità e influenza in Europa continueranno a diminuire», si legge in un documento che, dai metadati, appare creato da Yakushev.
Ma, cosa più interessante, nel testo del marzo 2021, si parla anche di Covid e dei tentativi russi di usare la pandemia, per cui in Italia in questi giorni si è riaccesa una polemica dopo le minacce della Russia all'Italia.
Si evocano i problemi del Cremlino con i programmi di vaccinazione di massa in Europa, lo stallo delle licenze nei paesi europei per il vaccino Sputnik, e quindi «dobbiamo riprendere i passi per ripristinare i contatti con i partiti euroscettici. Riteniamo che al momento ci sia ancora la possibilità di ripristinare i contatti con gli euroscettici per contrastare la politica delle sanzioni di Bruxelles.
Tuttavia la ripresa del lavoro con loro richiede un livello di riservatezza fondamentalmente diverso, in relazione al rafforzamento dell'opposizione all'influenza russa da parte dei servizi di intelligence occidentali». Sanzioni che evidentemente fanno malissimo, e sono il sottofondo anche di tutta la stagione dei contatti tra Conte e Putin per la missione "Dalla Russia con amore", e delle minacce-ricatto di Mosca all'Italia.
La Lega al servizio di Putin: ecco le mail segrete. Da Mosca i suggerimenti a un senatore del Carroccio per togliere le sanzioni. I documenti condivisi da L’Espresso con un gruppo di media europei svelano i contatti tra Gianluca Savoini, all’epoca stretto collaboratore di Matteo Salvini, e il magnate Konstantin Malofeev, al servizio della propaganda del Cremlino dal 2013 al 2019. E spuntano le istruzioni al parlamentare Tosato per promuovere le ragioni del regime russo. Paolo Biondani e Vittorio Malagutti su L'Espresso il 24 Marzo 2022.
L'estrema destra europea che tratta con i russi. Un fronte sovranista internazionale, che va dalla Lega Nord di Matteo Salvini ai partiti nazionalisti e xenofobi della Germania, Austria, Olanda e altri paesi della Ue, che cerca appoggi e organizza incontri da tenere segreti con la cerchia degli oligarchi che sostengono Vladimir Putin. E poi un messaggio, con quello che appare come un programma di lavoro, un suggerimento destinato a un parlamentare italiano, il senatore leghista Paolo Tosato.
Estratto dell'articolo di Paolo Biondani e Vittorio Malagutti per “la Repubblica” il 25 marzo 2022.
L'estrema destra europea che tratta con i russi. Un fronte sovranista internazionale, che va dalla Lega Nord di Matteo Salvini ai partiti nazionalisti e xenofobi della Germania, Austria, Olanda e altri paesi della Ue, che cerca appoggi e organizza incontri da tenere segreti con la cerchia degli oligarchi che sostengono Vladimir Putin.
E poi un messaggio, con quello che appare come un programma di lavoro, un suggerimento destinato a un parlamentare italiano, il senatore leghista Paolo Tosato. Il testo che L'Espresso ha potuto leggere fa parte di documenti ottenuti dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung e condivisi con altre testate europee.
Si fa riferimento a una interrogazione parlamentare in cui si chiede al governo di Roma di sospendere le sanzioni contro la Russia varate dopo l'annessione illegale della Crimea da parte di Mosca. In calce a questo testo che risulta scritto da una collaboratrice del milionario russo Konstantin Malofeev, sostenitore di Putin, c'è una cifra: 20 mila euro.
Il documento è datato 9 giugno 2016. Risulta dagli atti del Senato che in effetti Tosato il 27 giugno del 2016 ha presentato una risoluzione, la 6-00189, in cui si chiede al governo di "attivarsi in tutte le sedi competenti (...) affinché vengano immediatamente sanciti il termine e la revoca di ogni sanzione nei confronti della federazione Russa».
Ma sono decine le mail che, nell'inchiesta sul sito dell'Espresso , raccontano i rapporti stretti tra l'estrema destra europea e gli organi di propaganda del Cremlino. Messaggi che confermano il ruolo chiave giocato da Gianluca Savoini, già portavoce di Matteo Salvini, come mediatore tra la Lega e personaggi del calibro di Malofeev, l'oligarca russo ultra- nazionalista legato a Putin.
Silvio Buzzanca per repubblica.it il 25 marzo 2022.
La foto immortala Paolo Tosato, il senatore che ha presentato la risoluzione "suggerita" dagli amici russi contro le sanzioni per l'annessione della Crimea, in aula al Senato: sventola la bandiera della Serenissima mentre i colleghi fanno festa. Era l'8 agosto del 2014 ed era appena iniziata la discussione sulla riforma costituzionale targata Boschi-Renzi.
Tosato il mese prima appena entrato a Palazzo Madama prendendo il posto di Massimo Bitonci appena eletto sindaco di Padova, ed era stato chiamato a far parte della V commissione, la Bilancio. Niente male per un neoeletto, visto che poi ogni scelta o battaglia politica deve fare i conti con i numeri e i pareri di quella commissione.
Ma Tosato ha alle spalle una solida carriera di leghista impegnato nelle amministrazioni locali. Nato nel 1972 a Negrar di Valpolicella, 17 mila abitanti in provincia di Verona si iscrive alla Lega nel 1995 e dal 1998 al 2010 fa il consigliere comunale a Verona, dove ricopre anche l'incarico di assessore al verde nella giunta di Flavio Tosi.
Poi il salto al Consiglio regionale, dove presenta il disegno di legge per l'indipendenza del Veneto. Intanto scala i vertici del partito e assume la carica di segretario provinciale di Verona del Carroccio. Nel 2017 è pure candidato sindaco della Lega a Verona.
Insomma, una bella gavetta da amministratore locale che lo porta in Parlamento fino al ruolo di relatore sulla legge di Bilancio. Uno degli snodi politici fondamentali per chi aspira a fare carriera nel Palazzo. E un po' di carriera la fa: membro dell'Ufficio di presidenza del Senato, vicepresidente vicario del gruppo leghista, estensore di tantissimi pareri della Bilancio.
Ma Tosato non dimentica casa sua, il territorio. Non si fa certo mancare anche la crociata contro l'arrivo di immigrati a Verona. E in una intervista di fine 2021 annuncia che il suo prossimo obiettivo è quello di costruire una strada che, partendo da Isola della Scala, toccherà Buttapietra e, nel Comune di Verona, eviterà l’abitato di Ca’ di David. "Se ne parla da lustri e i cittadini la attendono", spiega, dicendo anche i soldi dovranno saltare fuori dai finanziamenti delle Olimpiadi invernali di Milano Cortina.
Fra le tante cose che Tosato ha fatto in Parlamento c'è anche la prima firma in calce ad una risoluzione che chiedeva di cancellare le sanzioni inflitte alla Russia dopo l'annessione dell'Ucraina. Era il 27 giugno del 2016, vigilia di un vertice europeo. Matteo Renzi ha riferito al Senato e si è discusso. Alle fine si votano le risoluzioni.
Tosato ci mette la faccia in aula. Ma in calce la testo della Lega ci sono altre firme. E in quei giorni Matteo Salvini è immortalato, anche lui, con una maglietta con su scritto "Basta sanzioni alla Russia!". Ora, dopo le notizie di stampa che legano quella sua risoluzione a un pagamento di 20 mila euro da parte di un milionario russo sostenitore di Putin, arriva la difesa del Carroccio e la minaccia di querele.
In una nota la Lega parla di "inaccettabili falsità: il senatore Paolo Tosato non ha mai preso un centesimo da Mosca né ha mai assecondato richieste del Cremlino. Il senatore Tosato - che non è mai stato in Russia in vita sua - aveva presentato una interrogazione al governo, cioè una semplice domanda, con l'obiettivo di ricevere rassicurazioni sulle esportazioni italiane (e in particolare del suo Veneto) verso Est.
Anche per questi motivi, sia il senatore che la Lega hanno dato mandato ai legali di difendere la propria onorabilità. Tosato e la Lega chiederanno un milione di risarcimento danni a testa: la cifra sarà interamente devoluta agli orfani di guerra ucraini", sottolineano dal partito di Salvini.
Ma il Carroccio nega tutto. I rapporti tra Lega e Putin, due inchieste puntano il dito contro il partito: il caso della risoluzione ‘dettata’ da Mosca sulla Crimea. Fabio Calcagni su Il Riformista il 25 Marzo 2022.
Una doppia inchiesta che punta i riflettori sui rapporti tra la Lega di Matteo Salvini e la Russia di Vladimir Putin. La vicinanza tra il Carroccio e lo Zar è cosa nota, tra le visite del suo segretario Matteo Salvini a Mosca, l’accordo politico firmato nel 2017 con Russia Unita (il partito di Putin) o il caso di Gianluca Savoini, finito al centro di una serie di inchieste giornalistiche (indagato anche dalla procura di Milano, ndr) per un presunto coinvolgimento in una trattiva commerciale tra aziende russe e italiane che avrebbe portato a finanziamenti illeciti al partito.
Ora a tirare nuovamente in ballo la questione sono due inchieste pubblicate da La Stampa e L’Espresso, che raccontano dei presunti rapporti tra Lega e Mosca: in particolare il partito di Salvini avrebbe seguito le direttive del Cremlino dopo l’invasione della Crimea nel 2014.
La questione riguarda una interrogazione parlamentare presentata dal Carroccio per chiedere la sospensione delle sanzioni contro la Russia varate dal Governo dopo l’annessione della Crimea. Secondo l’articolo de L’Espresso, basato su documenti ottenuti dal quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung e condivisi con altri giornali europei, il testo dell’interrogazione sarebbe stato scritto da una collaboratrice dell’oligarca Konstantin Malofeev, vicinissimo a Putin e sanzionato da UE e Stati Uniti per il suo coinvolgimento nell’annessione russa della Crimea.
Intervista a Nichi Vendola: “I pacifisti non sono filo-Putin, lo Zar è da sempre per la repressione e la violenza militare”
Il documento è datato 9 giugno 2016 ed ha in calce c’è una cifra: 20mila euro. In Senato il 27 giugno dello stesso anno il senatore leghista Paolo Tosato deposita la risoluzione 6-00189 in cui chiede al governo, all’epoca presieduto da Paolo Gentiloni, di “attivarsi in tutte le sedi competenti, ed in particolare presso il Consiglio europeo, affinché vengano immediatamente sanciti il termine e la revoca di ogni sanzione nei confronti della Federazione Russa, evitando ogni ulteriore proroga, nell’interesse dell’Italia, dell’Europa e dell’intera comunità internazionale”.
L’interrogazione del Carroccio chiede di attivarsi per “affrontare la questione della Crimea e del Donbass con equilibrio, nel rispetto delle regole del diritto internazionale e della volontà democratica dei popoli e delle nazioni”.
Carroccio che ha definito “inaccettabili falsità contro la Lega” l’articolo de L’Espresso. “A differenza di chi, per anni, ha diffuso come supplemento mensile “Russia Oggi”, il senatore Paolo Tosato non ha mai preso un centesimo da Mosca né ha mai assecondato richieste del Cremlino. Il senatore Tosato – che non è mai stato in Russia in vita sua – aveva presentato una interrogazione al governo, cioé una semplice domanda, con l’obiettivo di ricevere rassicurazioni sulle esportazioni italiane (e in particolare del suo Veneto) verso Est. Anche per questi motivi, sia il senatore che la Lega hanno dato mandato ai legali di difendere la propria onorabilità. Tosato e la Lega chiederanno un milione di risarcimento danni a testa: la cifra sarà interamente devoluta agli orfani di guerra ucraini“, è la nota della Lega sulla vicenda.
Altra inchiesta che farebbe emergere ancora una volta i rapporti privilegiati tra il regime di Mosca e il Carroccio arriva da La Stampa. L’articolo di Jacopo Iacoboni cita come fonte una serie di documenti ottenuti dal Dossier-Center di Mikhail Khodorkovsky, ex oligarca rifugiatosi a Londra, oggi acerrimo nemico di Putin.
Il ruolo chiave in questo caso è quello di Mikhail Yakushev, direttore di Tsargrad, l’organizzazione presieduta dall’oligarca Malofeev. “Lo scorso novembre, durante la visita di lavoro di Matteo (Salvini, ndr) a Mosca, il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell’hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell’incontro”, scrive Yakushev in un documento Word che si è inviato via email il 18 giugno 2019.
Nello stesso documento Yakushev esprime preoccupazione per il fatto che “la situazione fosse drasticamente peggiorata” e “ora non possiamo continuare ad avere contatti con Matteo”. Contatti che erano tenuti tramite Savoini, che però aveva “perso il libero accesso al suo capo”. Savoni che secondo Yakushev era “sotto l’occhio vigile dei servizi segreti” e per questo studiava un metodo che restare in contatto col leader della Lega senza più usare il ‘consigliere’ come tramite.
Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.
Specchi e allodole. Ecco la delibera veneta che ha riconosciuto l’annessione della Crimea. Piero Cecchinato su L'Inkiesta il 26 Marzo 2022.
Se in piazza Maidan si è lottato per la libertà, in Veneto ci si è battuti per l’annessione. La propaganda russa è infatti giunta ai massimi vertici istituzionali della Regione. Prova ne è la deliberazione n. 103 del 18 maggio 2016, con la quale il Consiglio Regionale Veneto ha rinosciuto l'annessione della Crimea del 2014.
Sulle infiltrazioni russe in Veneto attraverso gli uomini della Lega ha scritto magistralmente Luciano Capone due giorni fa. Adesso vi facciamo toccare con mano la famigerata delibera con cui il Consiglio Regionale ha riconosciuto l’annessione della Crimea da parte della Russia nel 2014. Una decisione con cui la Regione Veneto – unica in Occidente – si è posta sullo stesso piano di Corea del Nord, Kyrgyzstan, Uganda, Nicaragua, Zimbabwe e Siria.
L’Euromaidan
Per capire l’invasione russa della Crimea del 2014 bisogna prendere le mosse dall’Euromaidan (in ucraino “Europiazza”), la grande protesta tenutasi per oltre 90 giorni a Kiev per contestare la marcia indietro del presidente filorusso Viktor Janukovyč dall’accordo di associazione e libero scambio in programma con l’Ue.
Una protesta che sfociò in durissimi scontri fra manifestanti e forze di pubblica sicurezza, la cui genesi e il cui senso sono magistralmente documentati nel documentario “Winter on Fire”.
L’Euromaidan finì il 22 febbraio 2014, con la fuga di Janukovyč in Russia e la sua deposizione da parte del Parlamento, a seguito della strage di manifestanti compiuta da cecchini delle forze di sicurezza nei due giorni precedenti.
Per Putin, che dopo la rivoluzione arancione del 2004 era riuscito a proiettare nuovamente la sua ombra sull’Ucraina favorendo l’elezione di Janukovyč, fu una disfatta.
I cittadini rimasti in piazza così a lungo dimostrarono di essere disposti a pagare anche con la vita per il loro sogno di avvicinamento all’Europa e al mondo occidentale e la deposizione di Janukovyč allontanò le ambizioni russe di riportare l’Ucraina sotto la propria influenza diretta.
L’annessione della Crimea
La reazione di Putin si svolse su due fronti. Il primo consistette in una fortissima propaganda che dipinse l’Euromaidan come un golpe (guardate “Winter on Fire” e giudicate voi) e il nuovo governo ucraino come una congrega di nazisti fomentati dall’Occidente contro la Russia.
Il secondo fronte fu la Crimea, dove Putin aveva già meticolosamente preparato il terreno con una pesante campagna di pressione e disinformazione iniziata anni prima: il 26 febbraio, a soli quattro giorni dalla vittoria dell’Europiazza, le forze filorusse iniziarono le operazioni di occupazione della penisola.
Il resto è storia purtroppo nota: il 27 febbraio truppe senza insegne si impadronirono delle sedi del Parlamento e del Governo della Crimea e il 16 marzo – in questo clima di occupazione militare – si tenne il famigerato referendum sull’annessione alla Russia, annessione poi sancita il 18 marzo 2022 dal Cremlino.
In una ventina di giorni la Crimea venne così sottratta all’Ucraina.
L’intero processo venne naturalmente accompagnato da una notevole spinta propagandistica da parte di Mosca, che da allora iniziò anche ad infiltrare i media occidentali cercando di ridefinire il dibattito a favore della Russia.
Venetikstan
Se in piazza Maidan si è lottato per la libertà, in Veneto ci si è battuti per l’annessione.
La propaganda russa è infatti giunta ai massimi vertici istituzionali della Regione.
Prova ne è la deliberazione n. 103 del 18 maggio 2016, con la quale il Consiglio Regionale Veneto ha approvato la risoluzione presentata dai consiglieri della Lega e della maggioranza che sostiene Luca Zaia (opposizioni contrarie).
Nella premessa la risoluzione tratta in poche righe oltre mille anni di storia, provando a narrare, naturalmente, pochi episodi utili alla causa.
Dopo aver spiegato che «la penisola di Crimea presenta da sempre un miscuglio di popolazioni di lingua ed etnia diverse», la risoluzione afferma che «l’importanza della Crimea per la Russia fu sancita dal battesimo sulla penisola del principe Vladimir, che fu il primo sovrano russo a convertirsi al Cristianesimo nel decimo secolo e che fu successivamente santificato».
Tralasciando commenti sullo scontato riferimento religioso che fa molto foto di Salvini con la Bibbia e patriarca Krill, vero è che Vladimir I non fu un sovrano “russo”, ma fu il più celebre monarca di Kiev e che fu Kiev la culla della moderna Russia.
La Kiev che conosciamo oggi venne infatti fondata alla fine del IX secolo d.c., divenendo il centro di quella che gli storici chiamano Rus’ di Kiev (rus’: “uomini che remano” nelle antiche lingue scandinave) una grande entità medievale degli slavi orientali che arrivò ad estendersi sui territori dell’odierna Ucraina, della Russia occidentale, della Bielorussia, della Polonia, della Lituania e della Lettonia ed Estonia orientali.
Solo dalla frantumazione di tale entità nacque Mosca come piccolo avamposto militare, nel 1147. Se si vuole fare ricorso al passato come fanno Putin e il Consiglio Regionale Veneto, allora bisogna dire che la Russia è nata a Kiev. Che la primogenitura rispetto a quello che sarebbe un unico grande popolo “russo” è di Kiev, non di Mosca.
Pertanto, se re Vladimir I è stato battezzato in Crimea, come afferma la risoluzione veneta, si può dire che la Crimea sia altrettanto importante per l’Ucraina.
Le premesse della risoluzione del Consiglio Regionale proseguono affermando che «nel 1954 la penisola fu attribuita dall’URSS alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina senza previo consulto della popolazione».
È vero, la cessione della Crimea fu deliberata dal governo russo (evidentemente abituato a consultare la popolazione solo quando gli conviene), ma va ricordato che la popolazione della Crimea si espresse in maggioranza nel referendum del 1991 per l’indipendenza dell’Ucraina (e quindi della stessa Crimea) dalla Russia. Un referendum un po’ meno sospetto di quello tenutosi in un clima di occupazione militare nel 2014.
Per cui la narrazione della risoluzione regionale è quantomeno lacunosa.
Le premesse della risoluzione terminano spiegando che il 16 marzo 2014 «il popolo di Crimea ha manifestato la volontà a costituirsi in uno Stato indipendente».
Non è proprio così. Il quesito sottoposto dalle autorità russe (pardon, di Crimea) non prevedeva l’opzione della indipendenza. Le due soluzioni proposte erano:
Sei a favore del ricongiungimento della Crimea con la Russia come soggetto federale della Federazione Russa?
Sei a favore del ripristino della Costituzione del 1992 e dello status della Crimea come parte dell’Ucraina?
Una risposta da dare mentre i palazzi del Governo e del Parlamento erano occupati dalle forze militari russe: una domanda retorica, insomma. Una trappola per le stesse aspirazioni di indipendenza della penisola: ciò che avvenne non fu autodeterminazione, ma annessione.
Per cui fa sorridere la risoluzione veneta laddove bacchetta l’Occidente spiegando che «l’Unione Europea e lo Stato Italiano hanno rifiutato il riconoscimento del principio di autodeterminazione contenuto nelle norme del Diritto Internazionale nei confronti della popolazione della penisola di Crimea».
In mala fede, invece, l’accostamento alla dichiarazione di indipendenza del Kosovo, che per la risoluzione del Consiglio Regionale sarebbe stata scorrettamente giudicata dall’Ue con un metro differente.
Peccato che nel caso che Kosovo vi fosse un perimetro di legittimazione ben diverso, che partì dalla Risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e sfociò nella decisione della Corte di Giustizia Internazionale dell’Aja che riconobbe la legittimità della dichiarazione di indipendenza.
Insomma, quello del Consiglio Regionale Veneto è un paragone strumentale che non tiene.
La risoluzione conclude invitando il Presidente Luca Zaia «ad attivarsi presso il Governo ed il Parlamento Nazionale e le Istituzioni Europee per la revisione dei rapporti tra l’Unione Europea e la Federazione Russa, evidenziando i danni irreversibili alla nostra economia provocati dalle loro scelte scellerate ed irresponsabili anche alla luce della sicurezza internazionale».
Insomma, nella retorica filorussa della Lega veneta sono l’Europa e l’Occidente che mettono a repentaglio la sicurezza internazionale, avete letto bene.
Infine, ce n’è anche per il Governo italiano, che viene invitato «a riconoscere la volontà espressa dal Parlamento di Crimea e dal popolo mediante un referendum» e a «chiedere l’immediato ritiro delle inutili sanzioni alla Russia che stanno comportando gravi conseguenze all’economia del Veneto, i cui effetti sono destinati ad essere irreversibili e duraturi nel tempo».
Benvenuti in Venetikstan.
CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO X LEGISLATURA 40ª Seduta pubblica – Mercoledì 18 maggio 2016
Deliberazione n. 103 OGGETTO: RISOLUZIONE PRESENTATA DAI CONSIGLIERI VALDEGAMBERI, RIZZOTTO, FINCO, SANDONÀ, RICCARDO BARBISAN, MICHIELETTO, MARCATO, VILLANOVA, GUADAGNINI, MONTAGNOLI, POSSAMAI, COLETTO, BARISON, GEROLIMETTO, CALZAVARA, BORON, BERLATO, BRESCACIN, FINOZZI, SEMENZATO, FORCOLIN, GIDONI, GIORGETTI, BOTTACIN, FABIANO BARBISAN, LANZARIN E DONAZZAN RELATIVA A “LA REGIONE DEL VENETO PROMUOVA LA COSTITUZIONE DI UN COMITATO CONTRO LE SANZIONI ALLA FEDERAZIONE RUSSA, PER IL RICONOSCIMENTO DEL DIRITTO DI AUTODETERMINAZIONE DELLA CRIMEA E PER LA DIFESA DELLE NOSTRE PRODUZIONI”. (Risoluzione n. 15)
IL CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO PREMESSO CHE:
- la penisola di Crimea presenta da sempre un miscuglio di popolazioni di lingua ed etnia diverse. L’importanza della Crimea per la Russia fu sancita dal battesimo sulla penisola del principe Vladimir, che fu il primo sovrano russo a convertirsi al Cristianesimo nel decimo secolo e che fu successivamente santificato. In seguito, la Crimea rimase un punto importante per l’Impero Russo per via della posizione geografica e dei ponti culturali tra i vari popoli vicini. Nel 1954 la penisola fu attribuita dall’URSS alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina senza previo consulto della popolazione. Nel 1991 divenne Repubblica autonoma di Crimea, pur rimanendo parte dello Stato ucraino; - il 16 marzo 2014 mediante un referendum, il popolo di Crimea ha manifestato la volontà a costituirsi in uno Stato indipendente. Tale decisione è stata preceduta il 4 marzo 2014 dalla richiesta del parlamento della Crimea, approvata con 78 voti su 81, che la repubblica - qualora fosse divenuta indipendente - potesse entrare a far parte della Federazione Russa; decisione non riconosciuta dagli Stati Uniti d’America e dall’Unione Europea considerando la votazione “illegale”;
PRESO ATTO CHE:
- l’articolo 10, comma 1, della Costituzione Italiana recita quanto segue: “L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Pertanto, per effetto del predetto articolo il principio dell’autodeterminazione dei popoli contenuto nella Carta delle Nazioni Unite - in 2 quanto norma del Diritto Internazionale - fa parte integrante e sostanziale della nostra Carta Costituzionale; - l’Unione Europea e lo Stato Italiano hanno rifiutato il riconoscimento del principio di autodeterminazione contenuto nelle norme del Diritto Internazionale nei confronti della popolazione della penisola di Crimea, adottando un comportamento non coerente con quello perseguito nella Dichiarazione di Indipendenza del Kosovo; - l’Unione Europea e l’Italia hanno palesemente adottato “ad libitum” due pesi e due misure, a seconda delle convenienze geo-politiche, ignorando completamente la manifestazione di volontà quasi unanime sia del Parlamento che del popolo della Crimea, disconoscendo altresì le ragioni storico-culturali di questa scelta. Con ciò l’UE ha commesso un grave errore di valutazione: basterebbe che un qualsiasi leader europeo andasse personalmente tra la gente di Crimea per rendersi conto delle gravi responsabilità della predetta iniqua decisione;
CONSTATATO CHE: - a seguito della crisi politico-militare con l’Ucraina, a partire dal mese di marzo 2014, l’Unione Europea ha promosso una serie di misure restrittive sia diplomatiche che economiche contro la Russia in risposta all’annessione della Crimea; - tra le sanzioni contro la Russia ci sono diverse misure diplomatiche, come la sospensione del vertice UE e Russia, i colloqui bilaterali tra i Paesi Membri e Mosca, e la sospensione dei negoziati relativi all’adesione della Russia all’OCSE e all’Agenzia internazionale per l’energia; - le sanzioni economiche introdotte dall’Unione europea sono costate all’Italia 3,6 miliardi di euro di export. L’export italiano verso la federazione russa, infatti, è passato dai 10,7 miliardi del 2013 ai 7,1 miliardi di euro del 2015 (-34 per cento) (fonte: CGIA Mestre). In particolare, la Lombardia (-1,18 miliardi), l’Emilia Romagna (-771 milioni) e il Veneto (-688,2 milioni) sono le regioni che con l’introduzione del blocco alle vendite hanno subito gli effetti negativi più pesanti: oltre il 72 per cento del totale del calo dell’export verso la Russia ha interessato questi tre territori. Dei 3,6 miliardi di minori esportazioni, 3,5 sono ascrivibili al comparto manifatturiero. I macchinari (- 648,3 milioni di euro), l’abbigliamento (-539,2 milioni di euro), gli autoveicoli (-399,1 milioni di euro), le calzature/articoli in pelle (-369,4 milioni di euro), i prodotti in metallo (-259,8 milioni di euro), i mobili (-230,2 milioni) e le apparecchiature elettriche (-195,7 milioni) sono stati i settori dove i volumi di affari in termini assoluti hanno registrato le contrazioni più importanti; - l’incidenza del nostro export in Russia sul totale delle esportazioni l’Italia è passata dal 2,8 per cento del 2013 all’1,7 per cento del 2015; - la Russia, che nel 2013 era l’ottavo paese per destinazione dell’export italiano, è diventata nel 2015 tredicesima ed è stata scavalcata dalla Polonia, dalla Cina, dalla Turchia, dai Paesi Bassi e dall’Austria; a tutto ciò si aggiunge il crollo degli investimenti russi nel nostro Paese, a causa delle sanzioni che limitano i trasferimenti finanziari; - solo nel comparto agroalimentare l’embargo totale in Russia, adottato nell’agosto 2014 e rinnovato nel giugno scorso sino al 31 luglio 2016, è costato all’Italia, solo nel 2015, 240 milioni di euro; i prodotti agroalimentari Made in Italy più colpiti sono stati l’ortofrutta, la carne e i prodotti lattiero-caseari, di conseguenza vi sono numerose aziende sia del settore agricolo sia in quello manifatturiero che sono fortemente in crisi o sono state condotte al fallimento da una assurda ed ingiusta politica internazionale dell’Unione Europea, volta ad isolare sempre più l’Europa dal resto del mondo, danneggiando le aree maggiormente produttive e dinamiche come il Veneto;
PRESO ATTO: - delle dichiarazioni del capo della diplomazia UE Federica Mogherini riguardante la Crimea pubblicata sul sito web della Commissione Esteri ove si afferma che la UE resta fermamente impegnata per la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina e non riconosce la riunificazione della Crimea con la Russia, proseguendo nell’inasprimento delle sanzioni; affermando infine che: “L’Unione Europea riconosce e continua a condannare questa violazione del diritto internazionale. Si tratta di una sfida diretta alla sicurezza internazionale, con gravi conseguenze per l’ordine giuridico internazionale che protegge l’unità e la sovranità di tutti gli Stati”; - in conseguenza a ciò la già grave situazione economica conseguente all’embargo russo non potrà che peggiorare; tutto ciò premesso e considerato,
IMPEGNA IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO REGIONALE DEL VENETO E IL PRESIDENTE DELLA GIUNTA REGIONALE a) ad attivarsi presso il Governo ed il Parlamento Nazionale e le Istituzioni Europee per la revisione dei rapporti tra l’Unione Europea e la Federazione Russa, evidenziando i danni irreversibili alla nostra economia provocati dalle loro scelte scellerate ed irresponsabili anche alla luce della sicurezza internazionale; b) a promuovere la costituzione di un comitato allo scopo di raccogliere le sottoscrizioni al fine di revocare le sanzioni alla Russia;
E INVITA IL GOVERNO ITALIANO a) a condannare la politica internazionale dell’Unione Europea nei confronti della Crimea, fortemente discriminante ed ingiusta sotto il profilo dei principi del Diritto Internazionale, chiedendo di riconoscere la volontà espressa dal Parlamento di Crimea e dal popolo mediante un referendum; b) a chiedere l’immediato ritiro delle inutili sanzioni alla Russia che stanno comportando gravi conseguenze all’economia del Veneto, i cui effetti sono destinati ad essere irreversibili e duraturi nel tempo; c) ad esprimere forte preoccupazione per le recenti dichiarazioni del capo della diplomazia dell’UE Federica Mogherini riguardante la Crimea ed auspicare invece la ripresa del dialogo con la Federazione Russa e la mitigazione della conflittualità anche per rafforzare la sicurezza internazionale nella lotta al terrorismo.
Assegnati n. 51
Presenti-votanti n. 37
Voti favorevoli n. 27
Voti contrari n. 9
Astenuti n. 1
IL CONSIGLIERE-SEGRETARIO f.to Antonio Guadagnini
IL PRESIDENTE f.to Roberto Ciambetti
L’offensiva dei putiniani d’America. Anna Lombardi su La Repubblica il 24 Marzo 2022. Le teorie complottiste russe tornano a infiammare l'estrema destra americana, come ai tempi delle elezioni di Donald Trump. Dall'invasione dell'Ucraina "a scopo difensivo" ai "laboratori di armi biologiche finanziati dagli Usa", fino alla puerpera insanguinata di Mariupol additata come "attrice", sempre più affermazioni di Mosca trovano spazio nei commenti dei conduttori più estremisti che li rilanciano in tv, nei podcast e sui social.
Dopo il caso Savoini-Metropol l’oligarca di Putin ha cercato nuovi contatti con Salvini. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 24 marzo 2022
I documenti raccolti dal Dossier Center di Londra e rivelati da New Lines e altre testate tra cui la rivista italiana l'Espresso. Anche il Covid-19 e il vaccino Sputnik tra i pretesti per trovare agganci nei politici di estrema destra
Dopi il caso Savoini-Metropol l’entourage dell’oligarca di Valdimir Putin Konstantin Malofeev ha cercato un nuovo tramite per mettersi in contatto con il leader della Lega Matteo Salvini: emerge da una serie di documenti ottenuti da New Lines dal Dossier Center di Londra, e pubblicati in collaborazione con il quotidiano estone Delfi, la rivista italiana l'Espresso, il quotidiano tedesco Sueddeutsche Zeitung e l'emittente pubblica tedesca Westdeutscher Rundfunk.
I documenti, racconta l’Espresso, sono soprattutto messaggi di posta elettronica, scambiati tra il 2013 e il 2019 da politici e portaborse dei partiti più importanti della cosiddetta nuova destra europea. Un fronte sovranista internazionale, che va dalla Lega Nord di Matteo Salvini ai partiti nazionalisti e xenofobi di Germania, Austria, Olanda e altri paesi della Ue. A fare da mediatore Gianluca Savoini, l'ex portavoce di Salvini, indagato nel 2019 dalla procura di Milano con l'accusa di aver cercato di procurare finanziamenti russi al Carroccio.
MALOFEEV
Nei documenti pubblicati adesso emerge ancora una volta il rapporto con Konstantin Malofeev, politico russo e imprenditore più comunemente noto come “l'oligarca ortodosso” per la sua religiosità. Con lui Salvini avrebbe avuto un incontro un incontro segreto. Malofeev è stato sanzionato dall'UE e dagli Stati Uniti per il suo coinvolgimento nell'annessione russa della Crimea nel 2014, mentre l'Ucraina lo ha accusato di finanziare gruppi paramilitari filo-russi illegali.
Negli anni in cui in Italia al governo c’era la Lega di Matteo Salvini con i 5 Stelle, come raccontato su Domani, la testata fondata da Malofeev, Tsargard, ha riportato numerosi interventi del leader leghista sulla lotta all’immigrazione (altro tema condiviso con Putin e il conservatorismo religioso capitanato da Malofeev) e sulle critiche all’Unione europea.
SAVOINI
Il 22 dicembre 2015, Savoini scrive al leghista Claudio D'Amico, già parlamentare, poi consigliere strategico di Salvini per gli affari esteri: «È con grande piacere che invito lei e i rappresentanti di Russia Unita (il partito di Putin, ndr) al meeting internazionale di Milano» si legge, e il 20 gennaio 2016 riunì effettivamente i leader dei più importanti partiti populisti europei, tra cui la francese Marine Le Pen (FN) e l’austriaco Heinz-Christian Strache (Fpoe) e gli altri leader dei partiti che insieme alla Lega Nord costituiscono il gruppo parlamentare a Bruxelles.
Ai primi di gennaio del 2016, Savoini allarga l'invito all'ideologo russo Aleksandr Dugin, contrattato attraverso sua figlia Daria. Dugin è un intellettuale totalmente devoto a Putin e parte del sistema di disinformazione messo a punto dal Cremlino. Dugin come raccontato su Domani collabora con alcune riviste fondate dagli oligarchi, sostenitori di Putin e riferimento dei movimenti pro life, anti abortisti e contro i diritti Lgbt.
Pochi giorni dopo il quotidiano inglese The Telegraph, storicamente vicino al partito conservatore britannico, pubblica un articolo su presunti finanziamenti di Mosca ai partiti sovranisti come la Lega. Savoini, riportano i giornalisti dell’Espresso, scrive direttamente a Dugin: «Caro Alexander, la Lega Nord e il suo gruppo nel Parlamento europeo sono sotto attacco della stampa globalista e filoatlantica. Parlano di finanziamenti russi alla Lega Nord. Noi sappiamo che non è vero, ma dobbiamo evitare presenze ufficiali all'incontro: il partito di Wilders ha richiesto ufficialmente che non ci siano personalità russe. Konstantin ha telefonato a Marine? Così possiamo organizzare un incontro in un hotel, non in pubblico». Konstantin è Konstantin Malofeev.
IL METROPOL
Nell'ottobre 2018 Savoini ha partecipato all'incontro all'hotel Metropol di Mosca rivelato dai giornalisti dell’Espresso a cui è presente anche un ex manager di Malofeev. L’incontro del Metropol è stato organizzato per trattare un finanziamento alla Lega attraverso una fornitura di gasolio russo all'Eni. Savoini ha continuato a fare da tramite tra il partito di Putin, l'oligarca russo Malofeev e i politici europei di estrema destra almeno fino al 2019, cioè «prima, durante e dopo la trattativa di Mosca per finanziare la Lega».
Dopo, Savoini sembrerebbe essere stato messo fuori gioco, ma Malofeev non perde l’interesse. Nello specifico, dai documenti citati dal New Lines magazine emerge che sono continuati i tentativi per mettersi in contatto con “Matteo”.
L’INCONTRO
«Lo scorso novembre, durante la visita di lavoro di Matteo a Mosca (Matteo Salvini), il mio capo ha organizzato con lui un incontro privato, affittando una stanza allo stesso piano dell'hotel Lotte per evitare che la stampa occidentale si accorgesse dell'incontro» scrive Mikhail Yakushev, in un documento Microsoft Word che si è inviato via email il 18 giugno 2019. Yakushev è il direttore di Tsargrad, l'organizzazione presieduta da Malofeev.
Nel documento Yakushev ha espresso preoccupazione per il fatto che «la situazione fosse drasticamente peggiorata» e «ora non possiamo continuare ad avere contatti con Matteo». Secondo il documento, il contatto tra Salvini e Tsargrad era stato il consigliere di Salvini Gianluca Savoini, che però aveva «perso il libero accesso al suo capo».
Ma Yakushev non si dispera, rilevava sì che Savoini era «sotto l'occhio vigile dei servizi segreti», ma, riporta New Lines, ha riflettuto su come mettersi in contatto con Salvini, a cui si riferiva sempre con il nome di battesimo, «in modo che possa contare su una persona affidabile per contattarci», con la quale «possiamo comunicare in Russia o ovunque in Europa».
IL COVID-19
Pochi mesi dopo il Covid-19 diventa una nuova possibilità. Un piano firmato da Yakushev nel marzo 2021 prevedeva la creazione di una rete nota come "Altintern" a cui far aderire politici stranieri. Tra i candidati ad aderire c’erano i membri del movimento Identità e Democrazia, che ha 64 dei 705 seggi al Parlamento europeo ed è composto da membri della Lega e del Rassemblement National, precedentemente noto come Fronte Nazionale, il partito reazionario e sciovinista francese guidato da Marine Le Pen. Il vaccino Sputnik sarebbe stata la strada «per ripristinare i contatti con i partiti euroscettici» con il fine di «contrastare la politica sanzionatoria di Bruxelles».
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Marco Travaglio & C, gli anti-Putin che non osano dire "forza Zar": il Fatto come la Pravda, ecco le prove. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.
Ieri su Libero abbiamo pubblicato quattro pagine della Pravda, il quotidiano russo un tempo filo-sovietico e oggi tifoso dell'invasione dell'Ucraina. Il nostro intento era insieme di informare e suscitare sdegno, cioè mostrare come la propaganda putiniana deformi la realtà e adotti metodi comunicativi analoghi a quelli dei tempi più bui dell'Urss. Nel mostrare quanto accade oltre la cortina di ferro dell'informazione volevamo anche prendere le distanze, convincerci di quanto siamo fortunati noi a non essere bombardati da una stampa che glorifica lo Zar... Al risveglio però abbiamo dovuto disilluderci.
Sulle pagine di alcuni quotidiani nostrani abituati a fare il controcanto a prescindere, trovavi tesi, frasi e argomentazioni che sembravano riprese pari pari dalla Pravda. Fatto apparentemente singolare visto che i loro direttori, nonostante bastonino continuamente la Nato e l'Occidente, giurano ogni giorno di non essere filo-putiniani. Così come fino a poco fa mettevano la mano sul fuoco sul fatto di non essere No Vax. Eppure gli articoli che affollano i loro giornali lasciano intuire il contrario... L'idea, ad esempio, che l'attacco all'Ucraina serva in realtà a denazificare il Paese veniva rilanciata, con scarso senso della vergogna, dal Fatto quotidiano. Sulla Pravda di due giorni fa si leggeva: «La Federazione Russa sta conducendo un'operazione militare speciale in Ucraina per smilitarizzarla e denazificarla». Sul quotidiano di Marco Travaglio, in un pezzo di Fabio Mini, si poteva leggere che l'attacco è rivolto della Russia contro le «milizie nazi» e che «Putin decide di invadere l'Ucraina per definirne lo status (neutralità) e mettere in sicurezza la fascia di territorio russofono». Quindi, secondo il Fatto, si è trattato non di un'aggressione, ma di un'operazione di sicurezza in funzione anti-nazi...
NATO E NAZI - Anche sui presunti legami tra i battaglioni nazisti dell'Ucraina e le potenze occidentali pare non esserci differenza tra la lettura della Pravda e l'interpretazione di alcuni giornali di casa nostra. Il quotidiano ex sovietico scrive: «Insieme ai suoi "amici europei", gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per formare in Ucraina un regime nazista». Da noi i finti anti-putiniani fanno lo stesso. Per Il Fatto quotidiano, che cita tale Jacques Baud, analista strategica, la resistenza ucraina è fatta non da coraggiosi patrioti, ma da mercenari filo-nazi venduti all'Occidente. «Le bande paramilitari», scrive il giornale travagliesco riprendendo la frase di Baud, «sono composte principalmente da mercenari stranieri, spesso militanti di estrema destra. Sono armati, finanziati e addestrati anche da Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada e Francia».
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Ed ecco poi Il Manifesto, secondo cui l'Occidente dal 2015 non farebbe altro che fornire armi ai nazisti ucraini e addestrarli: dalla Nato ai nazi il passo è breve. «La Nato», scriveva ieri Guido Viale, «per esplicita ammissione o vanteria di Biden, da almeno sette anni consegna ingenti armamenti e migliaia di istruttori non solo al governo ucraino, ma anche alle sue numerose milizie. Non solo il battaglione Azov, dichiaratamente nazista, ma molti altri corpi di analogo sentire». È la stessa tesi che campeggiava su La Verità (o la Pravda, per dirla in russo?), dove lunedì scorso il filosofo Alexander Dugin in un'intervista sosteneva che «sono stati i liberali occidentali a rendere possibile il nazismo ucraino, a sostenerlo, ad armarlo e a metterlo contro la Russia» e che «l'operazione militare speciale è diretta non solo contro il nazismo, ma ancor più contro il liberalismo e il globalismo». Parole che combaciano con quelle scritte sulla Pravda, quella russa, dove si leggeva che «l'Ucraina è diventata un ostaggio della lotta geopolitica dei globalisti americani».
Sulla stessa Verità ancora ieri si accusava la Nato, in nome di una retorica tipicamente putiniana, di eccessiva aggressività. «Non risulta», avvertiva Pietro Dubolino, «che sia mai stata fornita alla pubblica opinione la minima motivazione a sostegno di quanto deciso in alcune stanze del potere, secondo cui era da attribuirsi vitale importanza all'obiettivo di far entrare a far parte della Nato l'Ucraina». Deve essere colpa di quell'andazzo per cui, a detta della Pravda, quella vera, «i membri della Nato hanno mostrato aggressività negli ultimi 70 anni».
PROPAGANDA - Chi non accetta questa lettura sarebbe servo dell'America e vittima del totalitarismo occidentale. Parlando della campagna mediatica favorevole alla guerra contro Putin, Piero Bevilacqua sul Manifesto la definisce «una fanfara propagandistica totalitaria», testimonianza del «servilismo filo-atlantico». Quale sarebbe la colpa principale di chi non si adegua alla propaganda russa? Sminuire i successi militari putiniani e credere che siano veri i bombardamenti sugli ospedali ucraini. Il Fatto sosteneva ieri, sempre citando Baud, che «i russi hanno acquisito un territorio grande come il Regno Unito, con una velocità di avanzata superiore a quella che la Wehrmacht aveva raggiunto nel 1940» e addirittura che l'attacco all'ospedale di Mariupol era una messinscena: «Sembra che gli ucraini», recitava Il Fatto riprendendo Baud, «abbiano riprodotto l'episodio della maternità di Kuwait City del 1990, che fu inscenato per convincere l'Onu a intervenire in Iraq». Pare appunto di leggere i fogli di regime dello Zar. Però guai a chiamarli filo-putiniani...
Luciano Capone per “il Foglio” il 23 marzo 2022.
In Parlamento ad ascoltare il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non c’era Vito Comencini.
Non è un caso. Il deputato, reduce da un viaggio in Russia, è il frontman dell’avanguardia filoputiniana della Lega che ha il suo ambito d’azione nel Veneto e il suo epicentro a Verona.
In città, dove è anche consigliere comunale, sabato Comencini ha partecipato a un incontro pubblico che aveva l’obiettivo di ribaltare le “false informazioni” dei media che “vorrebbero additare nella Federazione russa e nel presidente Putin gli unici responsabili del conflitto” in Ucraina.
Per Comencini la responsabilità dell’invasione dell’Ucraina è dell’occidente, perché “l’operazione militare (sic!) è scattata dopo che la Russia aveva ripetutamente richiesto alla Nato e agli Usa un accordo formale vincolante sulla propria sicurezza strategica”, richieste che per Comencini erano “più che legittime e ragionevoli, alle quali però non è stata data alcuna risposta positiva”.
L’invasione, o meglio “l’operazione militare”, è stata una doverosa conseguenza.
Ma per il deputato del partito di Matteo Salvini ci sono anche altre ragioni per stare dalla parte di Putin: “Quello in atto è uno scontro di civiltà tra i valori in cui la nuova Russia post sovietica si riconosce, i millenari valori tradizionali cristiani, e gli anti valori portati avanti dagli Usa di Biden e dalla maggior parte dei governanti europei ormai totalmente scristianizzati”.
Sembrano riecheggiare la parole del patriarca di Mosca Kirill. Ospite d’onore dell’incontro veronese, in collegamento, il deputato della Duma Vitaly Milonov, noto antisemita e omofobo del partito Russia unita di Putin.
L’evento di sabato è stato organizzato dall’“Associazione Veneto-Russia”, nata sul modello di quella Lombardia-Russia fondata da Mr. Metropol Gianluca Savoini, che negli ultimi anni ha dettato la politica filorussa della Liga e di Luca Zaia.
Il Savoini veneto, animatore dell’associazione, è Palmerino Zoccatelli. Zoccatelli è un leghista, tradizionalista cattolico, indipendentista veneto e da due anni responsabile dell’ufficio territoriale a Verona della Repubblica Popolare di Donetsk, uno dei due autoproclamati stati secessionisti dell’Ucraina (l’altro è Luhasnk). Vladimir Putin, che ha finanziato e armato i separatisti filorussi anti Kyiv, ha formalmente riconosciuto le due repubbliche solo il giorno in cui ha annunciato l’invasione dell’Ucraina.
A Verona la Lega ha fatto molto prima: ha riconosciuto Donetsk e Luhansk con due anni di anticipo rispetto al Cremlino. Altro esponente di spicco dell’Associazione Veneto-Russia è il consigliere regionale Stefano Valdegamberi, eletto a Verona nella lista Zaia. Da anni questo gruppo, che opera nella zona di pertinenza e con il sostegno del vicesegretario federale della Lega Lorenzo Fontana, tiene contatti con le frange più estremiste del nazionalismo panrusso in Ucraina.
Nel 2014, ad esempio, all’indomani della rivoluzione ucraina di Euromaidan, in una conferenza organizzata da Zoccatelli per denunciare i crimini del governo “nazionalista e antirusso” di Kyiv venne invitato come ospite d’onore Oleg Tsarev, un politico filorusso vicino all’ex presidente ucraino deposto Viktor Yanukovich.
Tsarev all’epoca era nella lista delle personalità sanzionate dall’Unione europea in quanto autoproclamato leader della Novorossiya, la federazione delle repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk. Un elemento di attualità fa inquadrare la rilevanza del personaggio: secondo il Financial Times, che cita fonti di intelligence, nei piani originari dell’“operazione militare speciale” Tsarev era stato individuato da Putin come il fantoccio da mettere al posto di Zelensky per fare dell’Ucraina una seconda Bielorussia.
A partire dal 2014 sono stati numerosi i viaggi della colonna veneta nei territori ucraini contesi con la Russia, ma le gite che hanno prodotto le conseguenze politiche più rilevanti non sono state in Donbas bensì in Crimea.
Nell’aprile del 2016, il consigliere regionale zaiano Stefano Valdegamberi è ospite dell’International Economic Forum di Yalta, l’evento organizzato dal Cremlino per far incontrare politica e affari nella Crimea illegalmente annessa. Valdegamberi torna da Yalta pienamente convertito alla causa putiniana: pochi giorni dopo presenta in Consiglio regionale una risoluzione, poi approvata a larga maggioranza, che chiede di togliere le “inutili sanzioni” alla Russia, di “condannare la politica internazionale dell’Unione europea” e di “riconoscere la volontà espressa dal Parlamento di Crimea e dal popolo mediante un referendum”.
Così il Veneto diventa la prima istituzione del mondo occidentale e democratico – dopo Afghanistan, Cuba, Corea del Nord, Kirghizistan, Nicaragua, Sudan, Siria e Zimbabwe – a riconoscere l’annessione russa della Crimea. E giustamente diventa una notizia rilanciata da tutti i principali media russi, che addirittura mandano inviati e telecamere in Veneto. La posizione dell’avanguardia putiniana veronese diventa poi la linea ufficiale della Lega.
Nei mesi successivi risoluzioni analoghe vengono approvate in Liguria e in Lombardia (presentata dall’attuale capogruppo al Senato Massimiliano Romeo), e mozioni fotocopia vengono presentate dai consiglieri leghisti, stavolta senza successo, in Emilia-Romagna e Toscana. In maniera anche un po’ ridicola.
Claudio Borghi, all’epoca consigliere toscano, copia pari pari il testo veneto sottoponendo al consiglio della Toscana di votare una risoluzione contro le “sanzioni alla Russia che stanno comportando gravi conseguenze all’economia del Veneto”.
La mossa viene comunque apprezzata dal Cremlino: a ottobre 2016 l’ente statale “Business Russia” organizza e paga un nuovo tour in Crimea a un’ampia delegazione dei consiglieri delle regioni che hanno presentato la risoluzione.
Tra di loro c’è il numero 2 del Veneto e braccio destro del Doge Luca Zaia, il presidente del Consiglio regionale Roberto Ciambetti che consegna la bandiera con il Leone di San Marco al presidente del parlamento della Crimea Vladimir Konstantinov (all’epoca nella black list dell’Ue), provocando l’ira degli ucraini.
I putiniani veneti vengono invitati a Yalta ogni anno, in delegazioni sempre più ampie di politici e imprenditori interessati a fare affari in una zona però dove è proibito investire per via delle sanzioni: “Purtroppo dobbiamo ricorrere a dei raggiri”, disse candidamente Valdegamberi. Un altro risultato significativo dei putiniani veronesi, che ha prodotto un caso diplomatico, è la revoca della cittadinanza onoraria all’allora presidente ucraino Petro Poroshenko.
L’onorificenza era stata assegnata nel 2016, dall’allora sindaco di Verona Flavio Tosi, dopo il ritrovamento a Odessa e alla restituzione, seppure dopo 7 mesi, delle opere d’arte trafugate nel clamoroso furto al museo di Castelvecchio. Due anni dopo, con la nuova giunta targata Federico Sboarina, su proposta del putiniano Comencini, il comune di Verona decide di revocare la cittadinanza onoraria a Poroshenko citando la “diffusa violazione dei diritti” dell’etnia russa in Donbas (la ragione dell’invasione invocata ora dal Cremlino).
“Burattini di Putin”, fu la dura replica dell’Ambasciata d’Ucraina a quello che appariva solo un “atto provocatorio”. “Questo filoputinismo all’amatriciana è sempre stato contrario gli interessi nazionali”, dice al Foglio Flavio Tosi, ricordando con amarezza quelle vicende, “e ora la Lega lo sta pagando in termini di credibilità e di consenso. Dietro ci sono tanta superficialità e infantilismo, che su questioni che riguardano gli equilibri internazionali non sono attenuanti ma aggravanti. Non vedo però il coraggio di affrontare il tema in maniera chiara”.
Il governatore Zaia si è schierato chiaramente dalla parte dell’Ucraina, ma le dichiarazioni di ora cozzano con gli atti di allora. Per renderle credibili bisogna passare dalle parole ai fatti. Si potrebbe iniziare in tre modi: tagliare i ponti col putinismo alla veronese; approvare una risoluzione che condanni l’annessione illegale della Crimea; ridare la cittadinanza onoraria veronese al presidente dell’Ucraina, se non all’ex Poroshenko va bene anche a quello attuale, Zelensky, che la Lega ha tanto applaudito in Parlamento.
"Beppe, perché su Putin stai zitto?" Domenico Di Sanzo il 26 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il comico sotto assedio sui social dopo un mese di silenzio.
Solerte a intervenire nelle questioni di politica estera, esprimendo spesso idee controverse, Beppe Grillo stavolta è in silenzio. Sulla guerra tra Russia e Ucraina, il fondatore del M5s continua a tacere. L'ultimo segnale dal Blog è datato 16 febbraio. Un articolo di Danilo Della Valle, laureato in Scienze Politiche e relazioni internazionali con un master in comunicazione politica in una scuola di formazione del Ministro degli Esteri Ecuadoriano. Della Valle, collaboratore del sito «L'antidiplomatico», un giornale online accusato di posizioni filo russe e filo cinesi, si esibiva in un post in cui tacciava l'Occidente di «russofobia» in merito alle previsioni di un'invasione delle truppe di Mosca in Ucraina, ritenendo impossibile questo sviluppo, frutto dell'allarmismo e della propaganda occidentale.
Poi il mutismo. Un'assenza notata sui social dai tanti che seguono il Garante dei Cinque Stelle. Su Twitter Grillo è sommerso dai commenti negativi. Come quello di Gabriflo, che scrive: «L'elevato continua a ignorare una strage che continua grazie anche al servilismo di persone come lui che per anni hanno amplificato le schifezze della propaganda russa». E ancora Giorgio De Luca, con un semplice «Ma sulla guerra niente eh?». Grillo parla del «futuro del lavoro», fatto di «più flessibilità e tempo libero». Sul Blog negli ultimi giorni ci sono approfondimenti sulla transizione ecologica e sui «mattoni realizzati con rifiuti tessili». Si spazia da «il presente e il futuro dell'intelligenza artificiale» al comune di Chicago che «avvia un progetto sul reddito universale». Niente Russia, zero Ucraina. Potrebbe essere una scelta editoriale, magari condivisibile, ma suona sicuramente strana alla luce dell'interesse del fondatore del M5s per la politica estera e la geopolitica.
Sui social è un fiorire di critiche. «Della guerra non gli va detto niente, è un complotto per i grullini» scrive Riccardo Cecchi. Protesta Simone Lazzeri: «E dei russi? Sai niente?». Anche chi è contrario agli aiuti militari agli ucraini reagisce, come fa su Facebook Monia Bernardi, che commenta così un post sul petrolio colpevole di «ecocidi e consumismo»: «Non una parola sull'invio delle armi e nemmeno sulla guerra». Grillo è bersagliato da tutti, filorussi compresi. «Sei come Zelensky, un pupazzo», taglia corto Charles Mortdecai.
Grillo e il silenzio dei non innocenti. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 19 marzo 2022.
Il silenzio di Beppe Grillo. Sul suo blog l’Elevato parla di tutto, dall’energia alternativa al reddito di base universale, ma non una parola sull’invasore russo. Perché Grillo può stare zitto, da dove gli deriva tanta impunità? Era lui che diceva: «Putin? La politica internazionale ha bisogno di uomini di Stato forti come lui». Era lui che ammoniva: «Basta con la russofobia». Era lui che considerava Putin un beneficio per l’umanità: «La politica estera degli Stati Uniti è stata un disastro sotto Obama. Se Trump ha voglia di convergere con Putin, di rimettere le cose sulla giusta strada, non può che avere il nostro appoggio. Due giganti come loro che dialogano: è il sogno di tutto il mondo!». Ma ora Grillo tace. Grillo non paga mai il conto delle sue furberie. Grillo, quando le cose si mettono male, si rinchiude a Sant’Ilario nella zona franca del fool. Con i suoi «vaffa», con gli sberleffi, con la furia giustizialista, con l’imbroglio politico mascherato da millenarismo pop, con una concezione della democrazia radicale (uno vale uno) ha recato al Paese danni incalcolabili. Per molto tempo ha offerto uno spettacolo di sub-cultura e di sub-politica, dalle quali persino alcuni dei suoi sembrano ora prendere le distanze. Ma Beppe Grillo non paga mai il conto, gli basta il silenzio. Il silenzio dei non innocenti.
Da liberoquotidiano.it il 20 marzo 2022.
In difesa di Al Bano Carrisi, seppur una difesa "perimetrale", scende in campo Marco Travaglio. Lo fa nel suo fondo sul Fatto Quotidiano di sabato 19 marzo, dal titolo: "Invasori, invasi, invasati". Un pezzo dedicato alla "caccia ai filo-Putin" che si è scatenata in Italia da che Vladimir Putin ha scatenato l'orribile guerra in Ucraina.
"Come ha detto Antonello Ciccozzi, docente di Antropologia culturale all'Università dell'Aquila, intervistato in radio da Selvaggia Lucarelli - esordisce Travaglio nel suo pezzo - in Ucraina alla rappresentazione dualistica invasi-invasori dovremmo aggiungere un terzo elemento: gli invasati. Che però sono in grossa crisi. Le Sturmtruppen de noantri sognano la terza guerra mondiale, ma purtroppo i negoziati avanzano", sottolinea Travaglio.
Dunque il direttore cita due esempi: "E la caccia alle quinte colonne di Putin segna il passo: sgominato Povia, speravano in qualche emulo che li aiutasse a compilare liste di proscrizione un po' meno ridicole di quelle di Pussy Riot, ma niente”.
Ed eccoci al Leone di Cellino San Marco: "Anche Al Bano ha disertato, mollando l'amico Vladimir e accogliendo addirittura dei profughi ucraini: il sempre acuto Gramellini puntava tutto su di lui e ora, deluso, lo squalifica sul Corriere chiamandolo questo conterraneo del professor Canfora", conclude Travaglio, con una strepitosa stoccata al Gramellini "spiazzato" dalla conversione di Al Bano Carrisi.
Equilibrismi asiatici. Perché l’India sta aiutando la Russia nella crisi ucraina. Matteo Castellucci su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
Nuova Delhi è da sempre «non allineata», ma oggi lavora a un accordo con la banca centrale di Mosca per continuare a commerciare nonostante le sanzioni. Modi non può permettere che in questa crisi Putin si faccia aiutare solo da Xi Jinping, creando un rapporto di subalternità nei confronti della Cina.
Vladimir Putin è ossessionato dalla paura di contagiarsi. Lo dimostrano i tavoli chilometrici, l’isolamento che lo circonda. È uscito dalla Russia solo due volte durante la pandemia: l’ultima, a dicembre 2021, è stata per andare in visita a Nuova Delhi. Dal 2014, quando Narendra Modi è diventato primo ministro, i due si sono incontrati venti volte. L’India, che all’Onu si è astenuta sulla condanna all’invasione dell’Ucraina e studia come commerciare con Mosca nonostante le sanzioni occidentali, si professa «neutrale». Tra le pressioni americane e la Cina ai confini, scricchiola una terza via figlia della Guerra fredda.
Del vertice di dicembre ci sono le foto, con i sorrisi a favore di camera. La stretta di mano sconfina in mezzo un abbraccio, nessuna traccia del distanziamento sociale siderale ritratto, in tv e in patria, anche nelle riunioni ai piani alti del regime.
Oltre agli equilibrismi geopolitici che sono una costante necessità nella storia dell’India indipendente, tra Modi e Putin c’è una sintonia politica: il nazionalismo machista, l’ideologia autoritaria ammantata di tradizione, la connessione messianica con il popolo profondo, individuato su base etnica.
In quell’occasione, tre mesi prima dell’attacco all’Ucraina, i due leader hanno firmato un accordo decennale di cooperazione difensiva. L’asse tra Mosca e Nuova Delhi risale al Novecento: la Russia è la prima fornitrice di armi del gigante asiatico, settimo Paese al mondo per estensione e secondo per numero di abitanti. Tra il 1950 e il 2020, è passato su questa direttrice il 65% del materiale militare comprato dall’India. Carri armati, sottomarini, aerei, il sistema missilistico S-400 da 5,4 miliardi di dollari scelto a discapito di quello americano, ma «ordinato prima delle sanzioni», per evitare rimostranze dalla Casa Bianca.
Il governo indiano sta lavorando a un sistema per eludere il blocco commerciale alla Russia. I traffici avvenivano in dollari, ma come scrive il Financial Times un ritorno ai pagamenti con rupie e rubli consentirebbe agli scambi di proseguire.
In particolare, l’India potrebbe ancora acquistare il petrolio russo, magari a un prezzo scontato dopo il bando di Stati Uniti e Regno Unito e il piano europeo per ridurre la dipendenza che finanzia le guerre dello zar. Con uno schema simile, erano continuati i rifornimenti di petrolio iraniano, finché Donald Trump non se n’è accorto.
Vale 8 miliardi di dollari il volume mercantile con la Russia, l’obiettivo era portarlo a 30 miliardi entro il 2025. Poi è arrivata l’Ucraina. Il 24 febbraio, il giorno dello choc collettivo, Modi ha telefonato a Putin e gli ha chiesto l’«immediata cessazione delle violenze». Non ci sono però state, da parte né dell’esecutivo né della diplomazia, condanne ufficiali. Da membro temporaneo del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, anzi, l’India si è astenuta sulla risoluzione più importante, quella dove si chiedeva al Cremlino di interrompere un’aggressione antistorica e criminale.
L’India è una nazione «non allineata» da sempre. In queste settimane, ha dialogato sia con Mosca sia con Kiev, soprattutto per evacuare i suoi 15mila cittadini in Ucraina: quasi tutti studenti, chissà quanti da quella città universitaria viva che era Kharkiv. Le manovre finanziarie rischiano di irritare un partner come gli Stati Uniti, che sono la principale destinazione delle esportazioni indiane, per 50 miliardi di dollari ogni anno. La bilancia commerciale con la Russia è in negativo, perché l’India insiste per tenere aperto il canale?
Le ragioni principali sono due e sono collegate: le armi e gli equilibri regionali con la Cina. Se l’India vende in Russia soprattutto farmaci, importa da lì fertilizzanti, prodotti energetici e, appunto, armamenti.
Il legame è nato nel secondo dopoguerra ed è tra le poche cose sopravvissute al crollo dell’Unione sovietica. «Mosca è stata un’alleata affidabile per Nuova Delhi quando non lo era nessun altro», ha riassunto un articolo di Foreign Policy. A ridosso dell’indipendenza, il primo ministro Jawaharlal Nehru si ispirò all’economia socialista sovietica, la cooperazione sarebbe diventata così stretta che tra il 1970 e il 1992 la Banca centrale indiana garantiva la convertibilità tra rubli e rupie. L’aiuto del Cremlino è stato cruciale per vincere il conflitto di tredici giorni con il Pakistan del 1971.
È da allora che l’India dipende da Mosca per l’equipaggiamento e i mezzi militari, spesso comprati in credito. Nel 1957, 1962 e 1971, tra l’altro, l’Unione sovietica è stata l’unica nazione a opporsi con un veto all’intervento dell’Onu nella valle del Kashmir contesa col Pakistan. In un certo senso, con l’astensione di questi giorni l’India sta ripagando i favori di mezzo secolo fa.
«Claustrofobia». È come il professore di Politica estera Happymon Jacob ha descritto al New York Times la condizione che il Paese soffre nell’Asia centrale e meridionale. Sulla frontiera settentrionale, quella delle Himalaya, c’è la Cina. Schiacciata tra il Pakistan e Pechino, entrambi dotati della bomba atomica, per la sua sopravvivenza l’India non può affidarsi solo all’Occidente, troppo lontano. A maggior ragione dopo il ritiro dall’Afghanistan. Per questo ha bisogno della Russia.
Il confine è militarizzato. La Cina ci ha costruito infrastrutture per le truppe. Ci sono stati incidenti e vittime. Quando nel 2020 la tensione è tornata ai massimi, con i primi scontri (non a fuoco, ma con le mazze chiodate) nel Ladakh, è stata Mosca a organizzare un vertice trilaterale con Pechino e Nuova Delhi. La mediazione russa è stata decisiva per disinnescare una potenziale escalation. In quell’occasione, il Cremlino si è impegnato a inviare armi nel giro di due o tre mesi, se l’India lo richiedesse.
Modi teme di perdere un garante se lasciasse la Russia nelle braccia della Cina, che è il primo partner commerciale di Putin. Una subalternità che fanno presagire la richiesta di armi a Pechino e l’allineamento propagandistico tra i due regimi.
In funzione anticinese, l’India fa parte anche del Quad, un’alleanza strategica informale con Giappone, Stati Uniti e Australia. Negli ultimi anni si è rafforzata anche la collaborazione con Washington: gli acquisti di armi americane sono saliti da zero a 20 miliardi di dollari nel giro di un decennio.
Per questi motivi, l’India non ha voluto, o potuto, smarcarsi dalla Russia. Neppure il capo dell’opposizione a Modi, Rahul Gandhi, si è schierato pubblicamente contro l’invasione. In America l’hanno interpretato come un tacito assenso all’imperialismo putiniano. Al tempo stesso, l’astensione condivisa con Pechino all’Onu non va letta come una convergenza con un nemico storico che è ancora considerato tale. Nuova Delhi è tra due fuochi, ma sul lungo termine l’immobilismo rischia di allontanarla dall’Occidente senza controbilanciare lo strapotere cinese. Sarebbe il fallimento della terza via.
Soldi e ideologia. La "linea rossa" viene da lontano. Francesco Giubilei il 16 marzo 2022 su Il Giornale.
A dispetto della tradizionale sinofobia diffusa in Russia e dello scetticismo cinese nei confronti dell'ingombrante vicino, negli ultimi anni le relazioni politiche, economiche e militari tra Mosca e Pechino sono migliorate notevolmente arrivando a siglare un'alleanza all'apparenza antistorica ma (per adesso) efficace per i reciproci interessi. Un'alleanza che si è cementificata in particolare negli ultimi mesi e ha avuto un'accelerata all'inizio di quest'anno basata su quattro pilastri. Anzitutto l'ambito economico in cui la Cina è destinata a diventare il principale partner della Russia per mitigare gli effetti delle sanzioni occidentali, non a caso già poche ore dopo l'inizio del conflitto Pechino ha confermato l'acquisto di grano da Mosca sottoscritto in precedenza. Inoltre, il ministro delle Finanze russo Anton Siluanov, ha affermato: «lo yuan cinese è una valuta di riserva affidabile e una parte delle riserve auree e valutarie è in questa moneta. Nelle relazioni commerciali con la Cina, utilizzeremo una quota delle riserve auree e valutarie denominate in yuan. Lo utilizzeremo in tutti gli aspetti». In secondo luogo il settore energetico: già dal 2019 la Russia fornisce gas alla Cina attraverso il gasdotto Power of Siberia e nel 2021 ha esportato 16,5 miliardi di metri cubi di gas, quantità che dovrebbe salire a 38 miliardi di metri cubi l'anno entro il 2025 grazie a un accordo che prevede la realizzazione del nuovo gasdotto Soyuz Vostok. Pechino ha necessità di sempre più energia per sostenere la propria crescita economica mentre la Russia ha bisogno di incrementare l'export di gas verso partner alternativi all'Europa. Anche in ambito militare la collaborazione tra i due paesi è cresciuta, non a caso il 21 gennaio Cina, Russia e Iran hanno realizzato un'esercitazione militare congiunta nelle acque del Golfo dell'Oman chiamata «Cintura di sicurezza marittima» con l'obiettivo di «rafforzare la sicurezza comune». Fino a ieri quando la Cina «ha aperto alla possibilità di fornire armi alla Russia». Infine l'ambito geopolitico in cui si consolida la formazione di un blocco alternativo a quello occidentale a cui potrebbero guardare anche altri paesi a partire dall'Iran, senza contare l'Africa dove la penetrazione russa e cinese è notevolmente cresciuta negli ultimi anni. È lecito domandarsi se vi siano responsabilità dell'Occidente nell'aver favorito questa alleanza, di sicuro l'abbraccio tra Russia e Cina rappresenta un pericolo per l'Europa e per gli Stati Uniti da non sottovalutare. Occorre però tenere in considerazione anche i punti deboli dell'accordo a partire dalla reciproca diffidenza e dal rischio per la Russia di finire a dipendere economicamente da Pechino che, quando sono in gioco i propri interessi economici, non guarda in faccia a nessuno. Infine non si può dimenticare che sia Xi sia Putin ragionano in chiave imperiale e la storia ci insegna che l'alleanza tra due imperi è solo temporanea almeno che non ci sia un nemico comune a fare da collante.
DAGONOTA il 13 marzo 2022.
Nel giorno in cui la Stampa pubblica una lunghissima intervista all’amministratore delegato dell’Enel, Francesco Starace, fatta dal padre dell’editore Alain Elkann, il direttore Massimo Giannini confeziona un attacco a tutta pagina nei confronti del fratello, Giorgio Starace, ambasciatore italiano a Mosca, autore di un'esternazione in palese conflitto con la linea del Consiglio dei Ministri, da cui dipende come funzionario dello Stato, che potrebbe costargli la poltrona.
Non solo: l'articolo su "La Stampa" sfodera uno schiaffo finale proprio allo Storace dell'Enel, accusandolo di essere stato l’unico manager italiano ad aver incontrato Putin di recente, contro il volere del governo Draghi.
Se si somma questo episodio al tweet di solidarietà fatto qualche giorno fa da Giannini alla tosta lettera contro John Elkann del dimissionario direttore dell’Espresso Marco Damilano, viene il dubbio che il direttore della Stampa stia alzando il prezzo….
(ANSA il 13 marzo 2022) - "La Farnesina, come più volte ribadito nei giorni scorsi anche tramite avvisi dell'Unità di crisi, ha raccomandato agli italiani presenti in Russia di lasciare il Paese. Inoltre, in relazione alle notizie riportate oggi sul quotidiano La Stampa, si ribadisce che la Farnesina non ha mai consigliato alle imprese italiane di rimanere in Russia", afferma una nota.
"L'ambasciata italiana a Mosca, come tutte le ambasciate italiane nel mondo, rimane a disposizione per sostenere connazionali e imprese italiane. L'Italia sostiene fortemente le
sanzioni inflitte alla Russia, sanzioni che mirano a colpire pesantemente l'economia russa".
Gianluca Paolucci per la Stampa il 13 marzo 2022.
«Credo che come Paese in questo momento dobbiamo continuare a sostenere l'indebolimento di Vladimir Putin. Se continua così condanna il suo popolo alla morte economica e quel popolo lo abbandonerà». Mentre il ministro degli Esteri Luigi Di Maio - in una intervista a La Stampa - pronunciava queste parole sulle sanzioni economiche contro la Russia, l'ambasciatore italiano a Mosca, Giorgio Starace, nella giornata di venerdì incontrava una folta rappresentanza di imprese italiane invitandole a «non prendere decisioni affrettate» e restare nel paese malgrado le sanzioni economiche.
L'incontro di venerdì, previsto da tempo e rientrante nelle normali relazioni tra la rappresentanza diplomatica e le imprese attive nel Paese, ha visto la presenza di un centinaio di imprese, in parte in presenza e in parte collegate dall'Italia. Oltre ai rappresenti delle aziende e dell'ambasciata, hanno partecipato all'incontro anche due alti funzionari governativi: Liborio Stellino, direttore generale promozione sistema Paese della Farnesina, e Amedeo Teti, dirigente generale del ministero dello Sviluppo Economico.
L'incontro e le parole dell'ambasciatore sono state confermate a La Stampa da una serie di persone presenti. Durante l'incontro, Starace ha fatto riferimento al fatto che in Russia sono presenti circa cinquecento imprese e «solo una» ha annunciato finora l'intenzione di lasciare il Paese. Invitando dunque «tutti» ad aspettare e non prendere «decisioni affrettate».
Dall'ambasciatore sarebbe anche arrivata la disponibilità ad assistere le imprese presenti per gli aspetti amministrativi e interpretativi legati alle sanzioni occidentali. Con singolare tempismo, lo scorso 6 marzo gli italiani residenti in Russia e iscritti all'Aire avevano ricevuto un messaggio dall'Unità di crisi della Farnesina che li invitava a lasciare la Federazione Russa «a meno di presenza indispensabile».
Oltre che con le parole di Di Maio, l'invito dell'ambasciatore Starace - fratello del numero uno di Enel Francesco Starace, con Eni il gruppo italiano con i maggiori interessi a Mosca - stride anche con la linea più volte esplicitata dal presidente del Consiglio Mario Draghi, molto attivo tra i partner europei nel promuovere sanzioni ancora più dure verso la Russia e polemico verso la Gran Bretagna che fino a pochi giorni fa non aveva ancora preso misure nei confronti degli oligarchi russi.
La posizione "attendista" ha destato sorpresa anche tra i presenti all'incontro, secondo quanto ricostruito, con alcuni che hanno manifestato la perplessità in privato rispetto ai rischi - non solo reputazionali - di ricadere in attività sotto sanzione mantenendo la presenza in Russia. Un rischio concreto per tutti e molto sentito soprattutto dai grandi gruppi quotati internazionali.
È di ieri la retromarcia di Deutsche Bank, che dopo aver inizialmente confermato la propria presenza a Mosca, ha annunciato l'uscita dal Paese. Tra le imprese italiane, la posizione più netta è stata finora quella di Generali, che ha annunciato la chiusura degli uffici a Mosca e l'uscita dal capitale del gruppi russo Ingosstrakh.
Tra gli altri gruppi che hanno annunciato un ripensamento anche Ferrero, Intesa Sanpaolo e Iveco, mentre Unicredit ha confermato di voler restare nella compagine della sua controllata russa. Tra le partecipate pubbliche, Eni è uscita dal progetto Blue Stream.
Polemiche sulla posizione del mondo degli affari italiano verso la Russia erano già emerse a fine gennaio, quando un gruppo di grandi imprese aveva partecipato a un incontro in teleconferenza con Vladimir Putin in persona, quando già soffiavano venti di guerra. In quella occasione, l'unico rappresentante di una società partecipata dallo Stato era stato Francesco Starace, amministratore delegato di Enel.
(ANSA il 18 marzo 2022) - In relazione a quanto riportato oggi da The Post Internazionale, la Farnesina tiene a ribadire, come già fatto nei giorni scorsi in risposta ad articolo di tenore analogo, che l'Ambasciatore Giorgio Starace non ha in alcun momento chiesto alle aziende italiane presenti nella Federazione Russa di restare nel Paese.
In occasione di una riunione con le aziende - si legge in una nota - l'Ambasciatore Starace, che proprio ieri, insieme all'ambasciatore a Leopoli Zazo, si è riunito con il Ministro Di Maio per discutere degli ultimi sviluppi attinenti alla crisi e di come poter evacuare gli italiani ancora in Ucraina, ha raccomandato ai presenti di lasciare il Paese, confermando che l'Ambasciata avrebbe continuato ad assistere imprese e connazionali che non avessero voluto partire dalla Russia.
Putin, le gaffe di Salvini e la lezione isolata di Marco Pannella. Non è vero che tutti hanno baciato la pantofola a Putin. La lezione dello storico leader radicale. Valter Vecellio su Il Dubbio il 13 marzo 2022. Diciamola tutta: è da maramaldi, di chi vuole vincere giocando facile, rimproverare a Matteo Salvini la sua simpatia e il suo sostegno a Vladimir Putin; e per quel che riguarda la sua “missione” polacca di smaccata demagogia in linea col personaggio: non è grave la contestazione a opera di un sindaco di quel Paese che gli rammenta e rimprovera passate posizioni e indumenti indossati. Un sindaco di buona memoria l’avrebbe potuto incontrare ovunque. Banale il coro di “guarda un po’” compiaciuti. È altro piuttosto che dovrebbe colpire: l’improvvisazione, la “leggerezza” con la quale la “missione” è stata organizzata. Il fatto che Salvini, o chi per lui, abbia pensato che bastava presentarsi con un autobus, medicine e cibarie, ed essere accolto come un novello George Patton, venuto a distribuire, con la promessa di libertà e democrazia, tavolette di cioccolata, carne in scatola e gomme da masticare. Il modus operandi del leader della Lega, in questa occasione e chissà quante altre: l’idea ingenua e al tempo stesso bislacca, che sgomenta; al pari della precedente ( bisogna dire coltivata da tanti altri), di andare a Kiev a far sotto le bombe russe non si sa bene quale convivio ( e guardandosi bene, tuttavia, dal farne uno, come si potrebbe pur fare, sotto le finestre del Cremlino, a Mosca, come fanno migliaia di russi).
Da un tipo che assume questi comportamenti con questa “leggerezza” che di che preoccuparsi: è come il tipo che avuta un’arma in mano, si spara da solo i “santissimi”.
Si assiste poi a una sorta di difesa che è peggiore del buco che intende rattoppare. Ci si affanna a dire: non solo Salvini ha baciato la pantofola di Putin. Vero. Verissimo. In quanto a baciar pantofole a questo o quello, si è specialisti. Basterebbe ricordare l’avvilente spettacolo offerto dalla visita di Gheddafi a Roma, tutto il corteo di politici, finanzieri, faccendieri, accorsi a rendergli ossequio e omaggio. All’epoca, tra i potenti che lo mantennero una briciola di dignità, fu solo il presidente della Camera Gianfranco Fini, che stanco di attendere i comodi di Gheddafi, annullò l’incontro e lo mandò a quel paese.
Per tornare a Putin e a Salvini, si obietta che un po’ tutti si sono inchinati di fronte al dittatore russo, destra, centro, sinistra che sia. Il direttore di Libero Alessandro Sallusti, per tutti: «Alzi la mano chi combatteva lo Zar» ( titolo del suo editoriale). Tra l’altro scrive: «… Da Prodi a Letta, da Renzi a Berlusconi tutti i nostri politici di rango hanno avuto a che fare amichevolmente con Putin durante la sua precedente vita e in modi e forme diverse gli elogi nei suoi confronti non sono mai mancati. A Salvini solo questo non è perdonabile, se ho capito bene, per una questione di look. Già, perché un conto è andare a stringere la mano a Putin con sorriso a favore di fotografi in doppiopetto scuro, altro sarebbe indossare una maglietta con la sua effigie…».
Del look salviniano si lascia discutere chi di questo si appassiona e si interessa. Qui, interessa il poter o no alzare o la mano. Marco Pannella e il Partito questa mano la possono alzare: oggi, ieri, e si ha la presunzione di dire anche domani. Preferisco ora lasciare la parola al segretario del Partito Radicale Maurizio Turco: «… Eccoci! Noi, il Partito Radicale, con Marco Pannella, abbiamo combattuto contro il sistema Putin. Noi abbiamo lottato contro l’invasione della Cecenia, gli sconfinamenti in Georgia, Crimea, Kazakhistan, e contro la repressione del popolo russo. Noi abbiamo accolto e avuto tra i nostri dirigenti Umar Khambiev, ministro della Salute nell’ultimo governo ceceno eletto legalmente. Noi abbiamo avuto Andrea Tamburi, responsabile della nostra sede a Mosca, ucciso. Noi abbiamo avuto Antonio Russo, giornalista di Radio Radicale, assassinato a Tiblisi, in Georgia, mentre indagava sulla guerra in Cecenia. Fino a quando la Russia non ha chiesto di espellere il Partito Radicale dal Comitato economico e sociale dell’Onu. Chi combatteva lo zar Putin? Noi».
A me piace inoltre ricordare che al funerale di Anna Politkovskaja, la giornalista assassinata a Mosca da killer di Putin, un solo parlamentare europeo era presente: Pannella, pur gravemente malato. Generalizzare è sempre ingiusto; non è vero che sono tutti uguali; c’è chi si è prodotto in caldi e solidali abbracci, ha tributato e ricevuto onori e glorie; c’è chi si è schierato per la difesa dei diritti umani e civili, a fianco di quanti, in quelle realtà per quei diritti lottavano, pagando con arresti, processi, condanne, violenze fisiche anche estreme. C’è chi quella mano la può alzare senza timore.
Otto e mezzo, Beppe Severgnini tuona contro i trecento parlamentari assenti per Zelensky, vergogna. Il Tempo il 23 marzo 2022.
Giorno 28 del conflitto Russia-Ucraina. Vladimir Putin non sembra avere alcuna intenzione di fermarsi anche se lo zar parrebbe in estrema difficoltà. A "Otto e mezzo" mercoledì 23 marzo si parla della guerra e della propaganda russa da smascherare. La conduttrice Lilli Gruber domanda al giornalista e scrittore Beppe Severgnini come può andare a finire. "Tanti osservatori occidentali lo avevano previsto fin dall'inizio dello scoppio della guerra. Putin è in difficoltà, l'Ucraina resiste: 44 milioni di abitanti che lui credeva di poter conquistare stile Cecenia. Se lo sogna - spiega il giornalista - Non aveva previsto nulla di quello che sta accadendo".
Poi esplode di rabbia contro chi in Italia minimizza l'invasione della Russia mentre la conduttrice lo guarda con attenzione. Il giornalista si riferisce alle assenze e alle polemiche dopo l'incontro in videoconferenza del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky con i deputati e i senatori riuniti a Montecitorio. "Chi minimizza si deve vergognare! 300 parlamentari assenti per Zelensky, vergogna! Oggi la Russia è come l'URSS, io l'ho conosciuta l'URSS: un gigante dai piedi d'argilla".
I neo-bastian contrari patetici e frustrati. Beppe Severgnini il 12 marzo 2022 su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.
Con la guerra il bastian contrario non fa più ridere. I suoi epigoni contemporanei sono usciti dal bar, hanno un telefono in mano e s’informano nei posti sbagliati.
Nei bar di provincia c’era un personaggio al quale eravamo affezionati. Il bastian contrario cronico. Qualcuno esprimeva un’opinione - spesso ovvia, tanto per dire qualcosa - e lui dissentiva. Paolo Rossi era un bravo attaccante? Lui sosteneva il contrario. Sandro Pertini un buon presidente? Lui iniziava a elencare presidenti migliori. Il terrorismo era orribile? Lui partiva da Caino e Abele per spiegare che la violenza era sempre esistita. Volevamo bene al nostro bastian contrario. Faceva parte del paesaggio acustico, regalava una piacevole abitudine. Davanti al bar Garibaldi, nel buio profumato dei dopocena d’estate, gli dicevano: «Bella serata, eh?». Lui s’incupiva: le sere di novembre erano molto meglio.
Ma adesso c’è la guerra, e il bastian contrario non fa più ridere. I suoi epigoni contemporanei sono usciti dal bar, hanno un telefono in mano e s’informano nei posti sbagliati.
Davanti all’orrore di quanto sta accadendo in Ucraina - un’aggressione sanguinaria e prolungata nel cuore d’Europa - s’inventano pretesti, scovano giustificazioni, cercano attenuanti per il nuovo Stalin, propongono paragoni assurdi («E allora la Nato, l’America, il Kosovo?»). Non si vergognano mai. Neppure il bombardamento di un ospedale pediatrico li ha fermati. Si sono bevuti la disinformazione russa - secondo cui si tratterebbe di una messa in scena ucraina - e hanno tirato diritto, sui social e nelle conversazioni. Soprattutto sui social, perché pochi ormai perdono tempo con loro.
Sono cattivi? Sono ingenui? Sono stupidi? Esibizionisti? Frustrati? Perché lo fanno? Le domande che ci facciamo sono queste. La mia sensazione è che i cattivi siano pochi, gli ingenui e gli stupidi numerosi, gli esibizionisti parecchi. Frustrati, quasi tutti. La ferocia con cui i neo-bastian contrari sostengono tesi palesemente assurde deriva da un’insoddisfazione profonda. L’evidenza e il buon senso contro cui si scagliano rappresentano la società da cui si sono sentiti bocciati, esclusi, delusi, incompresi.
Se avete dubbi, andate a vedere cosa hanno scritto e detto queste persone negli ultimi cinque anni. Hanno inneggiato a Brexit, esaltato Trump, negato il Covid. Serve altro?
Da la Repubblica il 12 marzo 2022.
Caro Merlo, le invio l'intervista alla Gazzetta del Mezzogiorno del prof Canfora, filologo, storico e accademico barese in cui dà la colpa della guerra al governo ucraino per non avere rispettato gli accordi del 91 e del 2014 dopo il colpo di stato. Che ne pensa? Giovanni Gadaleta da Ruvo di Puglia
Sono le posizioni di Putin di cui penso tutto il male possibile. Le dico però che preferisco Canfora e il suo pensiero chiaro e spavaldo - e cinico - alla vigliaccheria del Né-Né che chiede la resa dell'Ucraina in nome dell'equidistanza e della pace. Più che pacifisti i Né-Né sono pacieri, di quelli che trattengono l'uno mentre l'altro lo mena.
Massimo Gramellini per il corriere.it il 12 marzo 2022.
Quando uno storico stimabile come il professor Canfora definisce i profughi «dei passanti» e dice che l’invasione dell’Ucraina è colpa soltanto dell’Ucraina, significa che il dialogo non è possibile. Quando una filosofa autorevole come la professoressa Di Cesare spiega, quasi indispettita dalla domanda, che gli ucraini impegnati a combattere in difesa delle proprie case non vanno chiamati «resistenti» e, lungi dall’esprimere mezza parola di condanna dell’operato di Putin, afferma che accusarlo sarebbe «una semplificazione», significa che non può esserci dibattito.
Di che cosa dovremmo dibattere, di grazia, se un fatto oggettivo - A ha invaso B - viene rovesciato come nella favola del lupo e dell’agnello, e chi si permette di farlo notare è accusato di essere imperialista o ingenuo perché «la verità non è mai quella che appare»?
Riconosco la mia impazienza, anche se mi sforzo di guardare le cose con i loro occhi e passo le ore a rammaricarmi per l’estensione a est della Nato, per l’esistenza della Nato, per la mia stessa esistenza. Però un dialogo ha senso se serve ad avvicinare le posizioni di un millimetro.
In cambio dell’ammissione che tutto quanto succede al mondo è sempre un po’ colpa di Biden, mi accontenterei che i Canfora e le Di Cesare riconoscessero che Putin sta bombardando una nazione che non aveva bombardato la sua. E che quando qualcuno viene picchiato da uno molto più grosso di lui, si invita il più grosso a smetterla, non il più debole.
“Zelensky salito al potere con un colpo di Stato, guerra è tra Russia e Nato”, intervista a Luciano Canfora
Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 12 Marzo 2022.
Una voce fuori dal coro. Per “vocazione”. Controcorrente, anche quando sa che le sue considerazioni si scontrano con una narrazione consolidata, mainstream. Luciano Canfora, filologo, storico, saggista, professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni), è così. Sempre stimolante, comunque la si pensi. E le sue riflessioni sulla guerra d’Ucraina ne sono una conferma.
Professor Canfora, in queste drammatiche settimane, in molti si sono cimentati nel definire ciò che sta avvenendo ad Est. Qual è la sua di definizione?
Punto uno, è un conflitto tra potenze. È inutile cercare di inchiodare sull’ideologia i buoni e i cattivi, le democrazie e i regimi autocratici… Ciò che sfugge è che il vero conflitto è tra la Russia e la Nato. Per interposta Ucraina. Che si è resa pedina di un gioco più grande. Un gioco che non è iniziato avanti ieri ma è cominciato almeno dal 2014, dopo il colpo di Stato a Kiev che cacciò Yanukovich. È una guerra tra potenze. Quando i vari giornaletti e giornalistucoli dicono ecco gli ex comunisti che si schierano…Una delle solite idiozie della nostra stampa. Io rivendico il diritto di dire che le potenze in lotta sono entrambe lontane dalla mia posizione e dalle mie scelte, perché le potenze in lotta fanno ciascuna il loro mestiere. E né gli uni né gli altri sono apprezzabili. Nascondere le responsabilità degli uni a favore degli altri è un gesto, per essere un po’ generosi, perlomeno anti-scientifico.
C’è chi sostiene che per Putin la vera minaccia non era tanto l’ingresso dell’Ucraina nella Nato o la sua adesione all’Ue, quanto il sistema democratico che in quel Paese ai confini con la Russia si stava sperimentando. Lei come la pensa?
Usiamo un verso del sommo Leopardi: “Non so se il riso o la pietà prevale” dinanzi a schemi di questo tipo…
Dalla poesia alla prosa…
Se dobbiamo ritenere che sia democratico chi arriva al potere dopo un colpo di Stato, perché quando in Ucraina fu cacciato il governo in carica quello era un golpe, come quello di al-Sisi in Egitto contro i Fratelli Musulmani. Ognuno è libero di dire le sciocchezze che vuole ma adoperare queste categorie per salvarsi la coscienza, è cosa poco seria. Il figlio di Biden è in affari con Zelensky. Zelensky è un signore che dice di voler combattere per degli ideali, ma questi ideali hanno anche dei risvolti meno idealistici…
Vale a dire?
Il Guardian, non la Pravda, nell’ottobre del 2021 fece un ritratto di Zelensky, dal punto di vista affaristico, molto pesante. Incitiamo i nostri simpatici gazzettieri ad andarsi a leggere il Guardian dell’anno passato per avere un ritratto realistico di Zelensky. Dopodiché non mi scandalizzo, perché quando si usano le parole libertà e democrazia c’è odore di propaganda lontano un miglio. O parliamo seriamente o facciamo propaganda. La propaganda peraltro è cosa molto seria, basta non crederci.
C’è chi accusa la Russia di disinformatia…
Beh, anche il nostro apparato informativo è spaventoso, da quel punto di vista lì. Non ho nessuna tenerezza per la disinformatia russa, però lo spettacolo della nostra stampa, cartacea e televisiva, è peggio del Minculpop. A confronto il Minculpop è un’Accademia dell’Arcadia. Una stampa con l’elmetto, in cui dalla mattina alla sera non si fa altro che blaterare, urlare, protestare, piangere, sentenziare, per creare una psicosi di massa. Devo confessarle che nonostante ne abbia viste tante in vita mia, sono rimasto piuttosto stupito di cotanta prontezza, che fa pensare ad a ordini precisi, con cui la stampa si sia messa l’elmetto. Una cosa francamente penosa. Anche nella psicologia diffusa. Le racconto questa: l’altro ieri ho incontrato un tizio per la strada che mi ferma e mi dice: “Professore, ma lei cosa pensa di quel pazzo di Putin?”. “Qualche responsabilità c’è anche dall’altra parte”, gli rispondo. “Ah”, dice, “ma allora lei la pensa come me”. Questo è un episodio emblematico. Siamo arrivati all’autocensura per timore di scoprirsi. Come durante il fascismo, quando si diceva ma allora anche Lei è contro… Siamo ridotti a questo. Lanciamo almeno un campanello d’allarme affinché la stampa ridivenga dignitosa. Se ce la fa.
I pacifisti che hanno manifestato sabato scorso a Roma, sono stati additati da più parti come dei “filo-Putin”…
È maccartismo puro. Non mi stupisce questo, una volta si diceva sono pagati per questo. È talmente in malafede dire una cosa del genere che non merita neanche un’argomentazione complessa. Perché rivela da sé la natura maccartistica, persecutoria, isterica, di falsa coscienza di una tale valutazione. È chiaro che tutti auspichiamo che si torni a una vera situazione pacifica. Ma ricordiamoci il passato, però…
Ricordiamolo, professore.
Gorbaciov auspicò la Casa comune europea. E fu respinto. Aggiungiamo anche che dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, nacque la Comunità degli Stati Indipendenti, di cui facevano parte l’Ucraina, i Paesi baltici, l’Asia centrale russa, la Georgia. La Comunità degli Stati Indipendenti è un concetto. Comunità vuol dire qualche cosa. Se tu dopo un colpo di Stato, quello del 2014, cominci a chiedere di entrare nella Nato, stai disattendendo un impegno preso non molti anni prima. Ci vuole una Conferenza per la sicurezza europea. Una via di uscita. Se esistesse l’Unione Europea, che purtroppo non esiste, la soluzione sarebbe quella di prendere una iniziativa per una Conferenza per la sicurezza in Europa. Di cui gli Stati Uniti non fanno parte. Invece l’Europa è ingabbiata dentro la Nato il cui vertice politico e militare sta negli Stati Uniti. Il comandante generale della Nato per statuto deve essere un generale americano. Il segretario generale della Nato per entrare in carica, anche se si chiama Stoltenberg ed è norvegese, deve avere il placet del governo degli Stati Uniti. Imbavagliati così, balbetteremo sempre.
In queste settimane di guerra, ci si è molto esercitati nella decodificazione dei vari discorsi pronunciati da Putin, nei quali il presidente russo ha evocato la Grande Guerra Patriottica, la Madre Terra Russia, il panrussismo etc. Da storico: non c’è da temere quando un politico, soprattutto se questo politico ha in mano una potenza nucleare, sembra voler riscrivere la Storia?
Questo mi pare evidente. Solo che il paragone storico più calzante sarebbe un altro…
Quale?
Quello che un ottimo studioso italiano, Gian Enrico Rusconi, quando la Nato si affrettò a disintegrare la Jugoslavia, intitolò un suo libro, un bel libro, a riguardo Rischio 1914. Ci siamo dimenticati che dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, la Nato ha voluto, pezzo a pezzo, mangiarsi lo spazio intermedio fino ai confini della Russia? E il primo ostacolo era la Jugoslavia. E quando ci fu la secessione della Croazia, analoga se vogliamo alla secessione del Donbass, il primo a riconoscere il governo croato fu il Papa e il secondo fu il governo federale tedesco. E tutti applaudivano. La secessione della Croazia era un gioiello, una bellezza. Adesso la secessione del Donbass è un crimine. Rischio 1914. Lo dico con allarme. Sul Corriere della Sera, una voce sensata, quella di Franco Venturini, dice: ma ci rendiamo conto che Zelensky sta continuando a chiedere l’intervento militare della Nato, cioè vuole la Terza guerra mondiale…Ce ne rendiamo conto o no?
Lei come giudica la decisione del governo italiano di inviare equipaggiamenti militari all’Ucraina?
L’Unione europea, che purtroppo non esiste, avrebbe dovuto avere una politica unica su questo come su altri terreni. È piuttosto sconcertante e politicamente sbagliato che ognuno vada per conto suo. Nel caso particolare l’Italia vuole fare la prima della classe. Spero che si mantenga entro limiti accettabili per la controparte, stante che noi abbiamo in casa le basi Nato. Se continuiamo a scherzare col fuoco, facciamo quello che Zelensky insistentemente chiede. A questo proposito mi permetto di raccontare una cosa che peraltro è verificabile. Giorni fa, sulla Rete Tre della televisione, in un talk show c’è in studio una studiosa ucraina, e viene mandato in onda un discorso di Zelensky che viene tradotto, in simultanea, in italiano. A un certo punto, la studiosa ucraina dice “attenzione, la traduzione è sbagliata”, perché lui sta dicendo altro. “E che sta dicendo, le chiede la conduttrice?”. “Sta dicendo che bisogna che la Nato intervenga militarmente”. La traduzione voleva occultare questo. Figuraccia della televisione italiana. Rischiamo di raccontarle queste cose, perché tra breve, non so, leggeremo il Vangelo secondo Riotta? Spero di no.
Se qualcuno alzasse l’indice accusatorio e dicesse: ecco, il professor Canfora ha svelato di essere un nostalgico del tempo che fu…Come risponderebbe?
Io non credo di aver manifestato nostalgie nel momento che mi sono più volte espresso intorno agli scenari conseguenti alla sconfitta dell’Unione Sovietica nella Guerra Fredda. Nessuno, però, può toglierci il diritto di dire quello che ha scritto, poco prima di morire, Demetrio Volcic. E cioè che la situazione di equilibrio esistente al tempo delle due super potenze, garantiva la pace nel mondo. Demetrio Volcic. Spero che sia considerato al di sopra di ogni sospetto.
Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
Canfora dimentica che il vero dittatore è Putin, responsabile di decine di omicidi degli oppositori. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 15 Marzo 2022.
Caro Direttore, essendo in totale dissenso con il professor Canfora per ciò che ha sostenuto nella sua intervista al Riformista, sintetizzo in questa lettera le mie ragioni.
Contesto innanzitutto il punto di partenza. Magari si trattasse di uno scontro politico e militare fra l’esercito russo e la Nato: come minimo sarebbe uno scontro ad armi pari, anzi se le cose stessero davvero così probabilmente Putin si guarderebbe bene dal mettere in atto un’aggressione militare all’Ucraina. Invece nel nostro caso ci troviamo di fronte appunto all’aggressione largamente pretestuosa dell’esercito russo nei confronti della Ucraina con la Nato che ha ripetutamente dichiarato di non volere intervenire. Il professor Canfora fa sue le posizioni fondamentali di Putin, specie quelle più inaccettabili: egli qualifica le giornate di rivolta di Maidan, delle straordinarie manifestazioni popolari come un colpo di Stato. Invece esse furono contrastate dai cecchini di Yanukovich che uccisero più di 100 persone, ma la forza della protesta popolare fu tale che egli fu costretto a fuggire: altro che colpo di Stato!
Putin ancora non si perdona di non aver fatto a favore di Yanukovich quello che ha fatto invece in Kazakistan e specialmente in Bielorussia a sostegno di Lukashenko. In questione non c’è’ una adesione dell’Ucraina alla Nato che non è mai stata all’ordine del giorno. D’altra parte Putin non disse nulla quando la Polonia aderì alla Nato nel 1999 e poi i Paesi Baltici nel 2004. Quello che Putin non accetta è proprio il rivolgimento ucraino perché lì c’è stata la combinazione tra grandi manifestazioni di massa e successivamente più votazioni popolari fra cui per ultima quella per Zelensky che non è simpatico al professor Canfora, che però è stato eletto con il 70 per cento dei consensi e adesso ha il sostegno della grande maggioranza degli ucraini. Putin teme l’effetto di propagazione una Russia di questi movimenti democratici e cerca di stroncarli a mano armata. Per questo ha fatto una serie di colpi di mano che hanno colpito al cuore le regole della comunità internazionale, prima in Georgia e poi in Crimea nel 2014.
Una autentica escalation portata avanti anche grazie agli arretramenti continui dell’Occidente con la Nato che è stata a guardare. Anzi, se vogliamo essere proprio sinceri, e contestare alla radice gli schematismi ideologici che ispirano il professor Canfora va detto che la Polonia e i Paesi Baltici – tutti Paesi scottati da tanti anni di dittatura comunista- si sono voluti mettere a riparo sotto l’ombrello della Nato: con questo pericoloso vicino non sono certo del tutto al sicuro, ma corrono meno rischi di essere vittime di una aggressione come quella di cui è oggetto l’Ucraina. D’altra parte certamente il professor Canfora non avrà dimenticato che nella famosa intervista resa da Enrico Berlinguer a Giampaolo Pansa nel 1979 il segretario del Pci disse di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Nato. Il professor Canfora riporta tutta una serie di attacchi nei confronti di Zelensky, ma ovviamente si guarda bene dal ricordare quello che ha combinato in tutti questi anni proprio in Russia il presidente Putin: l’assassinio sistematico degli oppositori più pericolosi, prima fra tutti Anna Politkovskaja e adesso l’arresto di migliaia di oppositori e di manifestanti, la totale eliminazione di ogni libertà di stampa e adesso la chiusura di internet e di Facebook. Canfora tace rigorosamente su tutto questo e invece paragona l’indubbia contrapposizione di larga parte della stampa italiana ai tempi del Minculpop fascista: viste le omissioni delle incredibili denunce siamo semplicemente nel ridicolo. Canfora non chiarisce neanche se condivide o meno la denuncia fatta da Putin secondo il quale Zelensky e il governo ucraino sono, a scelta, degli alcolizzati e dei neonazisti.
Canfora cambia le carte in tavola anche a proposito dei rischi di guerra mondiale che oggi corre la comunità internazionale e richiama libri e riflessioni sul 1914.Se oggi la comunità internazionale corre questi rischi ciò non avviene perché gli Ucraini si stanno difendendo, ma perché Putin dopo la dissoluzione per implosione dell’Urss, vuole passo dopo passo ritornare grosso modo a quei confini e non esita a farlo ricorrendo all’uso delle armi in modo sistematico. Dal 1945 ad oggi sia pur fra mille e passa contraddizioni il Vecchio continente aveva vissuto la sitla pax europea, una situazione figlia della conoscenza della storia, che aveva evitato anche guerre mondiali. Invece oggi si corre questo rischio perché Putin è passato dalla occupazione della Georgia a quella della Crimea e adesso all’attacco totale dell’Ucraina, alla quale nel suo recente discorso non ha riconosciuto alcuna autonoma identità nazionale, qualificando come neonazisti i suoi dirigenti.
Sono molti coloro che temono che se Putin non viene in qualche modo bloccato adesso, una volta conquistata l’Ucraina poi toccherebbe alla Moldavia e ai Paesi Baltici. Per questo solo in seguito alla imprevista aggressività è arrivata la reminiscenza della Nato, e per parte nostra auspichiamo che si superi il tragico errore del 1954, e si ricostituisca l’esercito europeo. Proprio in seguito a questa pericolosa aggressività di Putin, il social democratico Scholz ha rovesciato la tradizionale linea tedesca e ha stanziato ben 100 miliardi per rilanciare l’esercito tedesco. Ciò a proposito della intervista del professor Canfora. Per quello che riguarda un’altra discussione in corso su questo giornale e più in generale nel Paese, a nostro avviso il pacifismo va esercitato nei confronti di chi aggredisce e non di chi è aggredito. Per questo tutto il consenso va a quei russi che manifestano per la pace in polemica con Putin.
Francamente non condividiamo il pacifismo della manifestazione di Roma della Cgil che ha contestato l’invio delle armi agli ucraini aggrediti. È una scelta di rottura con tutta la storia del movimento operaio italiano, e anche con tutti i democratici che diedero vita alla Resistenza. E giustamente Sergio Cofferati ha preso le distanze da tutto ciò. Infine ci sembra che Landini, il dottor Cisterna e altri stiano dando una prova di straordinaria arroganza: che diritto essi hanno di intimare agli ucraini di arrendersi quando essi si vogliono battere? Anche perché poi saranno loro che pagheranno tutte le conseguenze dell’imposizione di un governo fantoccio quale è quello che Putin ha chiaramente intenzione di imporre. Landini ha invece, in questo giustamente, invocato l’apertura della trattativa. Già, ma per fare la trattativa bisogna essere in due. Finora Zelensky ha chiesto in tutti i modi l’apertura di una trattativa e Putin l’ha sempre respinta. Comunque se su questo terreno si apre uno spiraglio esso va colto. Diverso è il giudizio sulla resa senza condizioni.
Fabrizio Cicchitto
Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 21 marzo 2022.
Lo storico che - così ha scritto un quotidiano nazionale in prima pagina - «giustifica chi uccide i bambini», che «ha dimenticato che il vero dittatore è Putin» - a dirlo un ex politico - e che, come si è letto su altri giornali, «dice grosse bugie sull'Ucraina» e ha «mal digerito il crollo del comunismo sovietico» ci sorprende al telefono con la merce rara della gentilezza.
«Mi chiami domani, però, che oggi ho un convegno sul teatro greco». Luciano Canfora è professore emerito dell'Università di Bari, è un filologo esperto di greci e latini - «l'umanità non ha fatto niente altro che guerre, e la storia della pace non è ancora stata scritta» - e se lo definisci un intellettuale ti ridimensionerà: «Beh, è una parola nobilitante, io sono semplicemente uno studioso».
Riassumo in breve il suo pensiero, mi corregga se ho capito male: lei dice che questa è una guerra tra Russia e Nato, e che quella dei buoni e dei cattivi è solo una favola.
«Sì, così ho detto. Basta guardare le evoluzioni della carta geografica dagli anni Novanta a oggi. Il segretario di Stato americano James Baker nel 1990 garantì a Gorbaciov che se l'Urss avesse accettato lo smantellamento dell'Est Europa, la Nato non sarebbe avanzata di un centimetro».
Non andò esattamente così.
«Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Romania e Bulgaria continuo? Uno dopo l'altro sono entrati tutti nella Nato».
Un'alleanza nata nel 1949.
«Che si propose come alleanza difensiva, anche se poi nell'ultimo quarto di secolo ha fatto guerre in Jugoslavia, Iraq, Afghanistan seppure non sempre coralmente. Difficile definirli conflitti difensivi.
La storia macina, tutto cambia e tutto trasforma, e questo lo sappiamo, ma come ha detto Paolo Inzerilli, generale italiano ormai in pensione, è difficile immaginare che una potenza, per quanto ammaccata, come la Russia, possa accettare missili Nato a 180 chilometri da Mosca e a un tiro di schioppo da Pietroburgo».
Zelensky ha detto però che l'Ucraina non entrerà nella Nato.
«Ho apprezzato, sì. Il personaggio potrebbe pure essere quel che è: un amico che legge i giornali inglesi mi ha mandato un articolo del Guardian del 3 ottobre che documenta la sua pratica diciamo un po' disinvolta sul piano dei rapporti d'affari in Occidente.
Ma non è una novità che i politici possano essere disinibiti quando si tratta di soldi. Ho gioito quando ho letto le sue ammissioni sull'impossibilità di entrare nell'alleanza: sembrava irriducibile, così invece ha agevolato il tentativo di sbloccare la situazione».
Che è oggi oltre ogni livello di allarme.
«Tutto è accaduto sotto i nostri occhi, lentamente, fino al punto di rottura. È un finimondo, ma non è che non avessimo avuto segnali premonitori. E il mio dire che è un conflitto Nato-Russia non è tanto peregrino, ma condiviso da molti. Ad esempio stimo molto Lucio Caracciolo, tra i commentatori di geopolitica».
Il direttore di Limes.
«Esatto. E le sue dichiarazioni in tv, come sempre misurate e con il suo stile, non si discostano molto dalle mie. Non ho detto nulla di stravagante. Altrimenti è come se oggi ritenessimo ancora che la prima guerra mondiale è scoppiata a causa della Serbia e dell'Austria».
Così era scritto sul sussidiario delle elementari.
«Va bene, sì, ma dietro c'erano altri fattori: la crescita della potenza navale e industriale della Germania e l'insofferenza crescente dell'Inghilterra per questo: temeva di essere superata sul piano degli armamenti, e nel dominio del mondo coloniale. I nodi, a un certo punto, nella storia, vengono al pettine».
Bene, però ci sentiamo moralmente obbligati a chiederle: lei è putiniano?
«(Ride sonoramente, ndr) Ma sono cose fuori dal mondo. Davvero, mi sembra che ci sia un arretramento culturale, oggi. Si semplifica, invece che cercare di capire».
Il suo nome compare in molte delle liste stilate dai giornali di coloro che non sono contro, o non sono abbastanza contro.
«È deplorevole falsare il pensiero altrui. Deplorevole. Fare i cataloghi dei buoni e dei malvagi e la ricerca di un nemico interno è imbarazzante.
Non so se posso ricordare - ma c'è chi lo considererà provocatorio - che durante la guerra guerreggiata, l'Italia conobbe l'ossessivo ammonimento nei luoghi pubblici: "Taci, il nemico ti ascolta". Il concetto di nemico interno è persecutorio, spropositato, immetodico».
Tutto ha inizio con una sua intervista al Corriere del Mezzogiorno, e a sue dichiarazioni su profughi e passanti, giusto?
«Nella quale ho fatto due osservazioni semplici. Primo: a pochissimi giorni dall'inizio del conflitto mi sembrava che la cifra dei profughi che leggevo fosse enorme. Poi ho espresso un altro concetto, indipendente, che riguardava l'aspetto dell'informazione.
Che oggi è capillare, frantumata in tanti racconti di storie dalla guerra. E lì ho parlato di "passanti" intervistati da nostri giornalisti a Kiev, e quindi non profughi».
Perché però ha citato la donna che ha perso il suo bambino come un episodio?
«Io non ho parlato di Irina e del suo bambino, è accaduto dopo. Mi chiedo perché non si racconti per bene a che punto siano le trattative, o quali armi si stiano adoperando, o fin dove esattamente si sia spinta l'invasione. Per carità, non ho mai diretto un giornale, li leggo e basta: sbaglio forse ad aspirare a notizie complete?».
Perché pensa se la siano presa tutti con lei?
«È solo una tempesta in un bicchier d'acqua, che documenta una superficialità. Se non per un motivo serio, che non riguarda la mia persona, però, anche perché i giornali non durano che 24 ore e dopotutto gli attacchi mi lasciano indifferente».
E cioè?
«Se siamo a questo punto di sovraeccitazione ciò mi allarma molto. C'è forse nell'aria l'idea che il conflitto si allargherà e che bisogna serrare le file?».
Lo teme? È preoccupato?
«Lo è anche un moderato come Antonio Tajani, che in tv ha detto che stabilire una no fly zone potrebbe significare la terza guerra mondiale. Che nessuno, almeno tra le persone dabbene, vuole».
Forse l'informazione è drogata da due anni di pandemia, e da un racconto solo in bianco e nero?
«Io sono convinto che la scienza non possa essere mai messa in discussione. E non mi permetto di giudicare scelte che volevano evitare un disastro sanitario. Osservo solo che da quando c'è la guerra la materia sanitaria sembra quasi scomparsa.
Ognuno, poi, ricaverà le sue deduzioni. Certo non ho mai visto media così monocordi sul conflitto. Nemmeno nel 1956, un anno durissimo. Ma forse ero troppo giovane all'epoca e oggi, anziano, sono più tenero sul passato che sul presente».
In Russia all'informazione va certo peggio, no?
«(Ride ancora, ndr) Senza dubbio, non c'è tolleranza. Per tutta la mia vita - e lo farò per il tempo che mi verrà ancora concesso - sono stato schierato con la sinistra. Putin non ha niente a che fare con la sinistra. Dire che sono schierato con la Russia putiniana è sbagliato.
Mi tocca davvero ricordare che considero l'esperienza della Russia post-sovietica come molto negativa? Non ne apprezzo nulla. Ma questo non vuol dire non riconoscere i torti e i rischi della politica Nato. In ogni caso non è la prima volta che si fanno questi errori di interpretazione, quando c'è in corso una guerra».
Ad esempio?
«Quando nel 1915 l'Italia entrò in guerra a causa di una forzatura della corona - il Parlamento era contrario - Benedetto Croce fu indicato come filo-tedesco solo perché si opponeva alla guerra. Il filologo Girolamo Vitelli, solo per aver studiato in Germania, fu tacciato di essere addirittura una spia tedesca, perché non si sbracciava per l'intervento».
Lei scenderebbe in piazza per la pace?
«Sì. Per quanto possa sembrare ingenuo farlo mentre una guerra dilaga, è un dovere etico affermare l'esigenza della pace».
La sinistra si è messa l'elmetto. Avrebbe votato per inviare armi in Ucraina?
«Direi proprio di no. Ma temo che la grande informazione non abbia dato abbastanza peso a chi non ha dato il proprio voto. E comunque, non sono mai stato parlamentare in vita mia, quindi in fin dei conti questa osservazione può apparire generica».
La vulgata di questi giorni maledice anche i cosiddetti «né-né», né con la Russia, né con l'Ucraina. Si riconosce tra questi?
«Chiedo a mia volta: qual è lo stato intermedio tra la pace e la guerra?».
Cosa dovrebbe fare secondo lei l'Unione europea?
«Impossibile soddisfare questa domanda in poche battute, ci provo consigliando la lettura degli scritti recenti di Sergio Romano. E Romano non è certo un fazioso anti-occidentale. L'Europa non può oggi rimanere ingabbiata in una struttura legata a doppio filo con gli Usa. Tutti noi speriamo che l'Unione possa essere davvero un soggetto collettivo autonomo, che cammina sulle proprie gambe, ma quella della Nato è nei fatti una limitazione, rende la Ue un gigante minorato, con le braccia legate.
Se è vero che l'allarme sull'imminenza dell'attacco russo era quasi quotidiano, che cosa si è fatto? Si sono sprecati i giorni? Era necessario un forte intervento autonomo, chiarificatore. Ricordo un tentativo rimasto incompiuto, quando Luigi Di Maio tornò da Mosca e disse: ho accertato la volontà di pace del governo russo».
Mattia Feltri per huffingtonpost.it il 17 marzo 2022.
Angelo d’Orsi è un importante storico, mi auguro tutti lo conosciate e se non lo conoscete correte ai rimedi.
È stato allievo di Norberto Bobbio, ha insegnato nelle università di Torino e Milano, ma anche alla Sorbona.
Ha una produzione imponente, concentrata sul Novecento e in particolare su Antonio Gramsci, ma dedicata alla guerra di Spagna, al futurismo politico, alla Rivoluzione d’Ottobre, e riassumere qui la vastità degli studi di d’Orsi sarebbe velleitario.
Per completare la breve biografia a beneficio degli ignari, si può ricordare il pluridecennale impegno politico, che l’anno scorso ha portato d’Orsi alla candidatura a sindaco di Torino con le liste di Potere al Popolo! e del Partito comunista italiano.
L’ho letto per anni sulla Stampa, di cui è stato a lungo collaboratore e di cui ora – lo scopro con dispiacere – è diventato un erculeo avversario.
In un colloquio con il Fatto quotidiano di stamattina, imputa al direttore Massimo Giannini di avere «toccato il fondo della disonestà giornalistica». E qui bisogna spiegare che è successo.
Nell’edizione di ieri, la Stampa, sotto il titolo «La carneficina», offriva in prima pagina una delle centinaia di drammatiche foto provenienti dall’Ucraina: lì si vedeva un uomo con la testa fra le mani circondato da cadaveri.
La foto, che si poteva intuire arrivasse da Kiev o da Mariupol, era invece stata scattata a Donetsk, ovvero nel Donbass, a prevalenza di abitanti russofoni, e dunque è possibile che la strage non sia responsabilità dei russi ma degli ucraini.
«La falsificazione è oggettiva», commenta d’Orsi e rivela «in maniera violenta e volgare come l’informazione, con poche eccezioni, non esista più. È diventata comunicazione: è venuto meno il principio etico del giornalismo».
Sono espressioni impegnative: disonestà, violenta, volgare, etica. Credo che per imbastire una prima pagina ci fosse almeno un’altra ventina di foto altrettanto evocative, per cui mi pare un po’ affrettato parlare di falsificazione oggettiva, mi pare più un infortunio ma non sono qui per difendere la Stampa: se ritiene, Giannini lo farà benissimo da sé. È che questa storia marginale riserva, nel suo piccolo, un magnifico finale a sorpresa.
D’Orsi amplia il suo sguardo: «La foto è solo una ciliegina sulla torta, basta vedere com’è costruita quella prima pagina.
Una serie tremenda di pezzi a senso unico, conclusi degnamente dallo sberleffo di Mattia Feltri nei confronti di Luciano Canfora, il quale si è permesso addirittura di esprimere un punto di vista un po’ diverso sulla guerra, rivendicando la complessità di quello che sta succedendo in Ucraina».
E in effetti sì, ieri sulla prima pagina della Stampa c’era il mio Buongiorno titolato «Canfora da salotto», e forse il titolo ha tratto in inganno d’Orsi.
Perché non era uno sberleffo, era una difesa e mi permetto di dire anche abbastanza appassionata («… fra noialtri guerrafondai da salotto si scorge la tendenza, in reazione simmetrica, a mettere gli avversari pacifisti da salotto tutti in un mucchio per menarli più facilmente.
Si dedicano a Luciano Canfora gli stessi aggettivi dedicati a un Vito Petrocelli, e questo offende chi li pronuncia più di chi li riceve.
Confesso: sono innamorato di Canfora. Credo di non condividere una sua sola sillaba e dunque lo amo, ho letto i suoi libri quanto più ho potuto e penso allo sciagurato editore tedesco che non volle pubblicare il suo saggio sulla democrazia perché non parlava male di Stalin.
Il fatto è che a parlare male di Stalin basto io, a parlarne bene basta un qualsiasi pippotto nostalgico in caricatura, a parlarne bene con la scienza e la sapienza e la grazia di Canfora serve Canfora. Ritenere di aver ragione non deve esimere dall’essere meno noiosi e più rispettosi. Io, guerrafondaio da salotto, nel mio salotto ci sto benissimo in compagnia dei libri di Canfora»).
Mi risulta difficile pensare che un accademico del calibro d’Orsi abbia potuto equivocare parole così poco equivoche; forse come tutti noi pure lui è vittima di qualche pregiudizio, probabilmente ha giudicato un articolo sulle sue aspettative, senza leggerlo.
Non lo scrivo per difendere la mia reputazione: ognuno sopravvaluta la propria. Riconoscerò a d’Orsi la buona fede – in fondo costa poco e solo gli sciocchi pensano che la buona fede non sia invece un aggravante – e pazienza, è soltanto un piccolo incidente.
Né tirerò in ballo la violenza o la volgarità o la disonestà e tantomeno i principi etici, che bisognerebbe maneggiare con estrema prudenza. Ma è soltanto per sottolineare la deliziosa circostanza di un uomo che denuncia una falsificazione oggettiva mentre fa una falsificazione oggettiva.
Maria Rosa Tomasello per “la Stampa” il 12 aprile 2022.
Parlando di Giorgia Meloni in un liceo di Bari Luciano Canfora ha pronunciato le seguenti parole: «La leader di Fratelli d'Italia trattata di solito come una mentecatta pericolosissima, essendo neonazista nell'anima, si è subito schierata con i neonazisti ucraini». Se anche un intellettuale illustre utilizza questo genere di linguaggio, significa che il dibattito pubblico sulla guerra è arrivato al punto di rottura.
A ogni ora, tra social, talk show e iniziative sparse volano gli stracci, in un impeto bellicista senza precedenti, dove tra presunti filorussi, aspiranti pacifisti e supposti guerrafondai, le posizioni sono ormai talmente radicalizzate da rendere impossibile ogni confronto. Davanti agli eccidi e alle città devastate, le risse da pollaio in tv a favore di audience e lo sfogatoio ideologico appaiono sempre più insopportabili. Abbassare i toni è indispensabile. Se non ci si riesce, alla vista dei presenzialisti della guerra, ci toccherà usare l'arma definitiva: azzerare il volume e liberarsi dell'olio di Canfora.
Dal “Corriere della Sera” il 12 aprile 2022.
Scontro aperto tra il filosofo Luciano Canfora e la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni. Nel corso di un incontro al liceo scientifico Enrico Fermi di Bari, il professore che insegna filologia greca e latina all'università di Bari ha parlato di Meloni come di una «neonazista nell'anima», accusandola di essersi subito «schierata con i neonazisti ucraini».
«Parole inaccettabili», ha replicato la presidente di FdI, «ancora una volta pronunciate da una persona che si dovrebbe occupare di cultura e formazione e che invece finisce a fare becera propaganda a dei giovani studenti». Meloni, pubblicando il video dell'intervento, ha annunciato azioni legali: «Una querela non gliela toglie nessuno». E il capogruppo di FdI alla camera Francesco Lollobrigida chiederà al ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi di «fare chiarezza».
La Meloni non si abbassa al livello di Canfora che la chiama "neonazista". E lo querela: "Becera propaganda". Il Tempo l'11 aprile 2022.
Giorgia Meloni fa sapere che querelerà lo storico Luciano Canfora per averla definita "neonazista" durante una lezione che ha tenuto davanti agli studenti di un liceo a Bari. La leader di Fratelli d'Italia posta sui suoi profili social il video in cui il professore universitario di Filologia classica l'attacca senza ritegno. Scrive la Meloni su Twitter: "Ascoltate il filologo Luciano Canfora che in una scuola di Bari mi definisce "neonazista nell'animo". Parole inaccettabili, soprattutto da una persona che si dovrebbe occupare di cultura e formazione e invece finisce a fare becera propaganda. La querela non gliela toglie nessuno".
Per la precisione, Canfora si è espresso in questi termini: "Anche la temibilissima leader di Fratelli d'Italia, trattata come una mentecatta pericolosissima, essendo neonazista nell'animo, si è subito schierata con i neonazisti ucraini ed è diventata una statista importante, ed è contenta di questo ruolo". Canfora, non contento, ha anche messo nel mirino la Nato. Secondo lo storico, l'Alleanza Atlantica servendosi dell'Ucraina "ha fatto un'operazione brutale per schiacciare l'antico avversario della Guerra Fredda".
Canfora dà della "neonazista" alla Meloni perché condanna la Russia. La reazione di FdI: "Odio politico". Il Tempo l'11 aprile 2022.
"Anche la temibilissima leader di Fratelli d'Italia, trattata come una mentecatta pericolosissima, essendo neonazista nell'animo, si è subito schierata con i neonazisti ucraini ed è diventata una statista importante, ed è contenta di questo ruolo". Lo torico Luciano Canfora si è espresso con queste parole nei riguardi di Giorgia Meloni. Il professore di Filologia classica ha fatto questo discorso davanti una platea di studenti al liceo Fermi di Bari. Canfora, non contento, ha anche messo nel mirino la Nato. Secondo lo storico, l'Alleanza Atlantica servendosi dell'Ucraina "ha fatto un'operazione brutale per schiacciare l'antico avversario della Guerra Fredda".
Le parole di Canfora sulla Meloni non potevano restare senza reazioni. "Il professor Canfora non può permettersi di offendere il presidente Meloni dandole della 'nazista nell’anima'. Chiediamo al ministro Bianchi di intervenire subito con provvedimenti immediati contro il dirigente scolastico che ha permesso a Canfora di parlare in un liceo scientifico di Bari pronunciando frasi insensate e offendendo pesantemente Giorgia Meloni. Sono state fatte affermazioni assurde, offensive e gravi e su questo sarà immediatamente presentata un’interrogazione al Ministro. Troppo spesso vengono invitati nelle scuole dei professori che si dimostrano soggetti pericolosi e squilibrati e del tutto inadatti a parlare agli studenti", dichiarano i parlamentari di Fratelli d’Italia Paola Frassinetti ed Ella Bucalo responsabili dipartimento Istruzione e scuola di FdI. Il vicecapogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti, mette in ridicolo le posizioni di Canfora: "Ma davvero coloro che si schierano contro l’invasione dell’Ucraina da parte di Putin, sono -seguendo le teorie di Luciano Canfora- neonazisti nell’animo? All’evidenza, le affermazioni del predetto ci confermano di come sia molto più facile straparlare che ragionare. Spiace che proprio gli istituti scolastici, a ben altro deputati, siano sfruttati da personaggi in cerca d’autore, per esporre malsane e ridicole teorie. A Giorgia Meloni la più completa solidarietà per un attacco vile, che affonda le radici unicamente nell’odio politico".
Meloni contro Canfora: «Mi definisce neonazista nell'anima? E io lo querelo». La leader di FdI Giorgia Meloni pubblica l'intervento del prof Canfora in una scuola di Bari in cui viene definita neonazista. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Aprile 2022.
Giorgia Meloni ha deciso di querelare il prof Canfora: l'annuncio arriva tramite Facebook. «Ascoltate il filologo Luciano Canfora che, in un istituto scolastico di Bari, mi definisce «neonazista nell’animo». Parole inaccettabili, ancora una volta pronunciate da una persona che si dovrebbe occupare di cultura e formazione e che invece finisce a fare becera propaganda a dei giovani studenti. La querela non gliela toglie nessuno...».
Lo scrive su Facebook la leader di FdI Giorgia Meloni postando lo stralcio di un video in cui Canfora parla di lei in questi termini: «Essendo neonazista nell’animo, si è subito schierata con i neonazisti ucraini, è diventata una statista molto importante ed è tutta contenta, naturalmente, di questo ruolo». L'intervento di Canfora, come spiega FdI, è stato fatto in un istituto scolastico di Bari.
LE REAZIONI
«Le parole di Canfora su Giorgia Meloni sono vergognose ed è inaccettabile che un simile e gratuito odio verbale sia permesso in un Liceo ad un nostalgico del comunismo. Siamo di fronte all’ennesimo attacco da parte di chi, pur professandosi democratico, non riesce ad accettare chi la pensa diversamente. Fratelli d’Italia chiederà al ministro Bianchi di fare chiarezza su quanto accaduto oggi, perché non è tollerabile permettere che le scuole si trasformino in palchi da cui lanciare insulti e invettive». Lo dichiara il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Francesco Lollobrigida.
«Le parole di Luciano Canfora sono l'esempio di quel reducismo becero e volgare pronto a ricorrere alla diffamazione e all’insulto per screditare chi non la pensa come loro. Fortunatamente i sondaggi, i continui e crescenti attestati di stima e consenso verso Giorgia Meloni, prima, e Fratelli d’Italia, poi, dimostrano quanto queste manifestazioni di odio sono sempre più residuali e minoritarie. Ciò nonostante vanno censurate con fermezza e decisione, soprattutto quando queste dichiarazioni vengono fatte da un esponente della cultura, peraltro dinanzi a una platea di studenti, che dovrebbe fare della moderazione e del rispetto dell’altrui persona un punto di riferimento. Dal gruppo di FdI al Senato solidarietà e vicinanza a Giorgia Meloni e chiediamo al ministro Bianchi di intervenire prontamente per censurare questo gravissimo episodio». Lo dichiara il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Luca Ciriani.
E intanto il dirigente scolastico del Liceo Scientifico Statale Fermi, Giovanna Griseta, prende le distanze dalle affermazioni di Canfora. «Qualsiasi asserzione di ordine squisitamente politico, ideologico, e personale, per di più avulsa dal contesto oggetto di studio, è esclusivamente da ricondurre alla responsabilità del docente ed è da considerarsi completamente estranea alla dimensione formativa approntata per l'occasione dalla Scuola», si legge in una nota.
Vittorio Feltri distrugge Luciano Canfora: "Di cosa puzza il prof. E il suo cognome..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 14 aprile 2022.
Luciano Canfora, insigne professore, collaboratore del Corriere della Sera che ha sempre fatto incetta di comunisti per dare spessore alle proprie pagine, benché non sia l'ultimo arrivato questa volta è stato battuto da chiunque. Parlando in un istituto scolastico di Bari ha detto una tale banalità, per giunta falsa, onde denigrare Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, guarda caso al momento il primo partito del nostro insulso Paese dove la sinistra ha fatto di tutto e di più per renderci ridicoli nel mondo. Canfora, cognome francamente eccessivo, preso da un forte livore nei confronti della regina della destra, ha affermato che ella è neonazista nell'anima.
Testuale. Vorrei chiedere al docente che puzza di stalinismo, in base a quali elementi giudica Giorgia una nipotina di Hitler, lei che è nata nell'ovatta rossa, non ha mai pronunciato un discorso neppure fascista, cresciuta tra i cuscini democristiani di Andreotti e Forlani, quando Craxi era ancora il dominus della politica patria. Il suo curriculum parla chiaro: la Meloni muove i suoi primi passi in ambito ideologico nelle file di Alleanza Nazionale, il cui capo Gianfranco Fini era talmente di destra da essere culo e camicia con Napolitano, esponente antico del PCI. Poi la ragazza fondò con qualche amico un partito suo, appunto Fratelli d'Italia, che sembrava destinato a celebrare i propri congressi in una dismessa cabina telefonica. L'inizio della avventura meloniana pareva tribolato e orientato all'insuccesso. Invece, miracolo, è successo il contrario di quanto paventato.
Giorgia è maturata, è diventata la donna più interessante del circo istituzionale. Il suo temperamento e la sua abilità suscitano ammirazione nei cittadini, al punto che l'hanno scelta come loro rappresentante preferita. Vero che i sondaggi non sono Vangelo, però misurano bene gli umori dell'elettorato. In vetta al gradimento espresso dagli aventi diritto al voto la più apprezzata è lei, una piccola donna diventata grandissima e probabilmente imbattibile. Questi sono i fatti, ovvio che non piacciano al rosso Canfora e a coloro che gli somigliano. Nessuno dei quali è abbastanza intelligente per capire che Giorgia non è fascista e men che meno nazista, semplicemente è una illuminata conservatrice in un Paese nel quale c'è poco da conservare in quanto distrutto dalla sinistra. Una conservatrice di principi e di valori che vanno difesi e rilanciati, sebbene la gente come Canfora, animata da odio, cerchi di calpestarli. Forza Meloni, noi ti rispettiamo e ti consigliamo di non querelare i cafoni che ti insultano gratuitamente. Vogliono solo pubblicità immeritata.
Giorgia Meloni, nel video rubato gli insulti di Luciano Canfora: "Poveretta neonazista. Di solito la mentecatta...". Libero Quotidiano il 12 aprile 2022.
Giorgia Meloni replica a Luciano Canfora. Il filologo ha definito la leader di Fratelli d'Italia una "neonazista nell'animo" durante una lezione al liceo scientifico Enrico Fermi di Bari. Nel video, ripreso e pubblicato su Facebook dalla Meloni, Canfora pronuncia parole a dir poco vergognose. L'occasione è l'incontro intitolato "Tutta un’altra storia. Un approccio multidisciplinare al conflitto russo-ucraino". Qui il saggista ha attaccato "lo schieramento politico del nostro Paese" esente da "forze capaci di dire voglio capire".
Poi gli insulti alla leader di FdI: "Anche la terribilissima e sempre insultata leader di Fratelli d’Italia, trattata di solito come una mentecatta, pericolosissima, siccome essendo neonazista nell’animo si è subito schierata con i neonazisti ucraini è diventata una statista molto importante ed è tutta contenta di questo ruolo. Non fa parte della maggioranza di governo attuale ma è una pedina esterna molto comoda per dimostrare che il Paese è unito".
Parole a cui la diretta interessata non ha fatto mancare la sua risposta: "Ascoltate il filologo Luciano Canfora che, in un istituto scolastico di Bari, mi definisce 'neonazista nell’animo'. Parole inaccettabili, ancora una volta pronunciate da una persona che si dovrebbe occupare di cultura e formazione e che invece finisce a fare becera propaganda a dei giovani studenti". Da qui la promessa: "La querela non gliela toglie nessuno". Canfora non è nuovo a polemica. Qualche settimana fa, intervenuto nel dibattito sulla guerra, aveva accusato Kiev di aver violato gli accordi dopo la caduta del muro di Berlino. Per il filologo infatti la Nato, servendosi dell'Ucraina "ha fatto un'operazione brutale per schiacciare l'antico avversario della Guerra Fredda".
Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 13 aprile 2022.
Arguto,mai banale, polemikos, figlio di un filosofo e di una insigne grecista, nipotino di Togliatti, «ribelle in cerca di libertà», e del glorioso Pci, Luciano Canfora - filologo emerito e internazionalista militante - sa bene che una delle armi più micidiali, al pari della propaganda, è la Storia. Studiandola, insegnandola, spiegandocela, il Professore - 80 anni e una bibliografia che incute timore, fra demokratía, eleutheria e gramscismo - è diventato, veterocomunista nostalgico della grande Madre Urss, uno dei pesi massimi dell'intellighenzia italiana.
Seguitissimo all'Università e ascoltato dai politici, padrone e amante della «parola», da cui philologhía, «filologia», è sempre stato un raffinato pensatore che mortificava la Destra e spronava la Sinistra. Poi, come tanti intellos in debito con la postcontemporaneità: Cacciari, Freccero e non solo... ha infilato la china discendente: dal demos al populismo. Ed è facile, ma malinconico, passare dall'elogio di Cleofonte all'insulto da cloaca. La deriva senile da bar sport: dire tutto, troppo, a caso.
Ospite in una scuola di Bari, sua città universitaria, ha liquidato Giorgia Meloni «neonazista nell'animo» perché «schierata con i neonazisti ucraini». Poi, ieri, ha cercato di correggere la frase.
Canfora è un filologo, conosce l'arte dell'interpretazione. Ha spiegato che il termine «neonazista» è un'altra cosa rispetto a «nazista». Schematizzando ad uso degli studenti, fra il bigino geopolitico e la provocazione radicale: Hitler era un nazista, Meloni e Salvini che vogliono fermare gli immigrati sono neonazisti. Ecco.
Per la Sinistra che una volta era filo Stalin («Sempre meglio di Gorbaciov» disse Canfora nel '94) e adesso è semplicemente intollerante, è sempre «un'altra cosa». Ma il vizio rimane quello. Condannare l'avversario politico come fascista, o nazista. Si dice reductio ad Hitlerum, o reductio ad nazium, ed è una squisita sebbene un po' stuccevole tattica oratoria che mira a squalificare l'interlocutore comparandolo al Male assoluto.
Difficile poi però collocare il Bene fra quanti continuano a minimizzare i crimini del comunismo ma accusano un'intera nazione sotto le bombe di essere nazista. Poi il problema sono le scritte «DVX» sugli edifici del Ventennio... La degradazione della gloriosa Sinistra italiana, dagli intellettuali organici all'Anpi 4.0. Dalla Resistenza alla desistenza. C'eravamo tanti armati...
Desistere, desistere, desistere. E alla fine il dittatore «democratico»- Cesare, Bonaparte Stalin o Putin che sia - piace sempre di più alla vecchia Sinistra di quanto non piaccia alla giovane Meloni. La quale, quando diventerà la politica più votata dagli italiani, alla fine lo dovrà anche a Canfora. L'elettore si chiede: ma può uno stalinista non pentito rilasciare patenti di democrazia? E in un liceo?
Canfora resterà comunque impunito. Ed è curioso. Un quindicenne (va ripetuto: quin-di-cen-ne) butta in burla un saluto romano e viene radiato dai circuiti di kart, sospeso dalle corse, gli viene confiscata la licenza, la carriera distrutta e denazificata.
Bene bene. E Canfora, nazificando una intera nazione, resterà dov' è: nella scuola, nell'editoria (la democratica casa Laterza non dice niente?), in tv, sui giornali.
Del resto nell'antica Grecia, così come da noi, la democrazia non è mai stata perfetta.
Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 13 aprile 2022.
Luciano Canfora, filologo classico e storico, ha sentito che Giorgia Meloni la vuole querelare, per questa frase, pronunciata l'altro ieri in un liceo barese: «Meloni, essendo neonazista nell'animo, si è subito schierata con i neonazisti ucraini».
«Ho sentito, ma non sono turbato, una persona che riflette e poi parla perché dovrebbe?»
Pensa davvero che Meloni sia neo-nazi?
«Ho detto che Meloni è neo-nazista nell'animo. Pensavo alla sua campagna, forte, per l'intervento di navi militari contro i barconi dei migranti. Il 20 febbraio 2020 il Papa attualmente regnante, Francesco, ebbe a dire che questa violenza razzistica contro i migranti gli faceva venire in mente il nazismo. Quindi possiamo querelare anche il Papa, che è stato molto più duro di me, parlando di nazismo. Io di neo-nazismo, che è diverso».
Ma non sono i neo-nazisti oggi a sostenere Putin?
«Questa è una ritorsione polemica, per cui si ritorce sull'interlocutore un pensiero che non ha».
Lei che pensiero ha sulla guerra in Ucraina?
«Ci sono due potenze in lotta, la Nato e la Russia, rispetto alle quali mi sento completamente estraneo, essendo da sempre schierato a sinistra. È sciocco dire che sono putiniano. È un mio diritto cercare di andare in profondità, capire le cause remote. In quello stesso liceo è stato presentato un libro sulla "guerra fantasma" che dal 2015 è in atto nel Donbass, dove truppe irregolari o semi-regolari ucraine, come il famoso battaglione Azov, hanno seminato migliaia di morti tra i russofoni. È una delle cause».
Né con la Russia, né con la Nato, come gli attuali vertici dell'Anpi «È una posizione di buon senso».
Ma la sinistra non dovrebbe stare dalla parte degli oppressi?
«Come dicevo, la guerra è iniziata nel 2015, nel Donbass. Non c'è solo bianco e nero. Io dico quello che si legge in un'infinità di posti, per esempio negli interventi dell'ex generale Nato Fabio Mini. Ha ricordato quel fenomeno indiscutibile che è stata l'espansione ad Est della Nato: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Romania, Bulgaria, Macedonia. Non male, vero? A fronte dell'impegno preso nel '90-91 di non espandersi».
Putin è un dittatore?
«Per ora è il presidente della Federazione russa, se vuole una definizione, ma lei mi sta chiedendo un giudizio etico».
Come giudizio etico allora, è un dittatore?
«Anche Garibaldi prese la dittatura a Napoli quando portò il Meridione all'unità d'Italia. Se vuole da me, una definizione vibrante di Putin, non l'avrà. È goffo il modo in cui ha voluto assicurare a sé stesso una continuità di potere, prima mettendoci una sorta di vicario, poi riprendendo la presidenza e stabilendo leggi che gli assicurino il governo non so fino a che secolo. Il presidente cinese Xi Jinping ha un'investitura vitalizia. Però viene chiamato presidente, non dittatore. Forse viene trattato ora con più rispetto perché ci si augura di creare un dissidio tra Cina e Russia. Se è una colpa non usare termini scandalizzati, sono pronto a fare penitenza. Si rende conto del tono ridicolmente inquisitorio di questo tipo di indagini?».
Da parte di chi?
«Lei è portavoce di una opinio communis che pretende che uno imprechi contro il demonio. È lo stato d'animo collettivo che allarma».
Forse ci si scandalizza per quanto avvenuto a Bucha, a Mariupol. L'orrore dei civili uccisi.
«E il bombardamento della Nato a Belgrado? Portiamo la Nato al tribunale internazionale?».
A proposito di bombardamenti. Pensa anche lei come Carlo Freccero che all'ospedale di Mariupol sia stata fiction?
«Come si fa a parlare di fiction o non fiction quando non si è sul posto?
Escludo che Freccero possa documentarlo. Ogni tanto rileggo il libro di Marc Bloch, eroe della resistenza francese, "La guerra e le false notizie". È inevitabile che ci siano».
Da parte di Putin o dell'Ucraina?
«Tutti danno una mano. Ma non mi scandalizzo. È il moralismo fazioso che porta a strepitare. Bisogna ragionare e cercare di non dire troppe sciocchezze».
Miseria degli storicisti. Canfora e il cinismo degli intellettuali che non vedono oltre l’ideologia. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
La posizione “neneista” non è solo criticabile in sé, vista la mancanza di fondamenti nella realtà, ma è anche pericolosa. Spinge gli studiosi infatuati dei propri schemi a normalizzare la tragedia fino a esprimere indifferenza, se non disprezzo, per la sofferenza delle vittime.
C’è un punto oggettivo di incontro e di unità tra il partito di Canfora, Montanari, De Cesare e dei pacifisti “neneisti” (né con Putin, né con Zelensky) e quello dei Cardini, Veneziani e Borgonovo, che, dall’estremo apparentemente opposto dello spettro ideologico tradizionale, accusano l’Occidente di avventurismo per il suo sostegno alla causa ucraina: è la persuasione che della vicenda ci si stia occupando con troppo generoso volontarismo e senza coscienza delle leggi storiche, che guidano gli eventi e che condannano Kiev e i suoi amici a una sicura e pure provvidenziale sconfitta.
Negli studi strategici abbondano i fautori di un ferreo determinismo geopolitico, convinti di potere vaticinare il corso della storia dei popoli e degli stati come i climatologi possono prevedere se farà sole o pioverà. In loro soccorso, a proposito di questa guerra, che credevano sarebbe scoppiata solo «quelli che non capiscono niente» – come disse uno dei più gettonati aruspici televisivi, Lucio Caracciolo – oggi accorrono anche fior di storici e filosofi, pure molto lontani da un approccio positivista, che censurano le semplificazioni binarie (ad esempio: “aggressori e aggrediti”) e invitano a leggere gli eventi in termini più freddamente scientifici.
Il che vuol dire, all’atto pratico, fottersene di chi bombarda e di chi è bombardato e di qualunque questione di diritto in ordine al campare degli uni e al crepare degli altri, per capire invece in che direzione, tra le cataste dei cadaveri e le macerie della guerra, soffi lo Spirito del mondo, che Hegel vedeva incarnato in Napoleone seduto a cavallo e qualcuno può anche volenterosamente pensare di riconoscere oggi nelle divise dei tagliagole siriani e ceceni, chiamati a riportare l’ordine di Mosca in Ucraina.
Nel secondo dopoguerra con “Miseria dello storicismo” Karl Popper irrise la pretesa metodologica di fare di quella storica una disciplina spirituale olistica, sottratta alle verifiche del metodo scientifico, e contestò per tutta la vita la conseguenza politicamente totalitaria di questa pretesa: la presunzione di usare il potere per compiere il destino della storia. La necessità storica diventava così la grande scriminante, anzi esimente di qualunque nefandezza compiuta contro la vita e la libertà umana.
Oggi i cosiddetti neutralisti di destra e di sinistra – che per fortuna non hanno il potere politico, ma ne esercitano uno contro-politico di ragguardevole impatto – invitano a guardare alla mattanza ucraina come a una vendetta della storia contro la hybris occidentale, che da una parte conferma i loro pregiudizi sulla inevitabile entropia dell’ordine economico e sociale liberal-capitalistico e dall’altro affretta l’esito auspicato del Big Bang dell’ordine politico liberal-democratico.
In questo, com’è inevitabile, la loro pretenziosa filosofia della storia incrocia i più banali wishful thinking e la teoria, per così dire, oggettiva che vede il mondo andare in una direzione riflette il loro desiderio soggettivo che in quella direzione così agognata il mondo davvero ci vada. E chissà che non tocchi proprio al macellaio del Cremlino vendicare i torti dell’imperialismo americano.
Al che si potrebbe concludere che lo storicismo, che tanto ha imperversato nella storia della filosofia e della politica, suscitando fanatiche idolatrie in un presente o in un futuro ideologizzato, andrebbe forse letto più con gli strumenti della psicologia cognitiva e clinica che con quelli della metafisica delle idee. Rimane però il fatto che questo approccio fazioso, dissimulato nel gelido sussiego accademico-scientifico, porta a una disumanizzazione contagiosa del dibattito sulla guerra e all’educazione al cinismo e al disprezzo come strategie di normalizzazione ideologica della tragedia.
Esemplare, da questo punto di vista, è il tono con cui Luciano Canfora ha spiegato altezzosamente che «la storia di una Irina che perde il bambino è un caso particolare e basta», cioè un puro accidente al cospetto della sostanza, che questo apologeta dello stalinismo indaga dalla sua immaginaria cattedra di storia universale.
Allo stesso modo non bisogna farsi distrarre da «pianti e urla dei popoli», né farsi accorare dalle «interviste ai passanti» (cioè dalle testimonianze dei profughi), che non dicono niente del significato e della responsabilità della guerra, che è della «potenza che vuole prevaricare», cioè ovviamente dell’Ucraina. Canfora ha particolare amore, come tutti gli storiografi speculativi, per le teorie che non sono messe alla prova dalla realtà, ma che al contrario la riscrivono, cioè la ricacciano dentro uno schema prefissato, deformandola in modo grottesco.
Insomma, anche la guerra di Putin dimostra che, accanto alla miseria dello storicismo, c’è una più personale miseria degli storicisti, con la loro idea che gli uomini siano solo legno che brucia nella fornace della Storia (con la maiuscola) e che i custodi del suo fuoco sacro non possano preoccuparsi della sorte della cenere.
Vladimir Putin, la stoccata di Vittorio Feltri: comunismo e grilletto facile, a sinistra dimenticano che è uno di loro. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 10 marzo 2022.
Nelle due ultime settimane la stampa, i telegiornali e i talk show italiani hanno presentato Vladimir Putin come un nazifascista, una fotocopia di Hitler perché ha invaso proditoriamente l'Ucraina. Il suo volto è stato deturpato spesso con i baffetti del famigerato dittatore tedesco, per fortuna defunto. Si tratta di una falsità, di una distorsione polemica volta a imbrattare di bugie la realtà. Infatti si dà il caso che fior di documenti, uno dei quali ve lo offro io avendolo recuperato tra le mie scartoffie, smentiscano certe forzature. Mi riferisco a un intervento del presidente della Russia a margine del Congresso del Fronte popolare ex sovietico nel gennaio 2016. Il capo del Cremlino dichiarò solennemente durante il dibattito che «le idee comuniste e socialiste mi sono sempre piaciute». Aggiunse: «A differenza di molti funzionari, non ho stracciato la tessera del partito, non l'ho bruciata». Inoltre: «La mia tessera esiste ancora da qualche parte». Più chiaro di così il despota moscovita non poteva essere.
Comunista era e comunista è rimasto nel cuore e nella mente, altro che nazista. I compagni italiani che oggi attaccano Vladimir sappiano che costui è uno di loro, un mascalzone il quale ha sostituito la falce e martello con i missili e i cannoni che stanno radendo al suolo l'intera Ucraina. Diciamolo senza edulcorare le parole: il comunismo è una malattia mentale da cui si può migliorare ma non guarire. Putin era ed è rimasto rosso come rosse erano le Botteghe Oscure e come rosso era ed è Giorgio Napolitano che una classe politica miserabile ha voluto per ben due volte presidente della Repubblica italiana.
La sinistra nostrana è figlia del vecchio e inglorioso PCI, fratello del partito amato e mai tradito dal signorotto che, per nostalgia dell'impero URSS, sta occupando manu militari Kiev. Il nemico pubblico numero uno rimane il comunismo residuale dal grilletto facile, insensibile alla sacralità della vita, che non arretra neppure davanti a donne inermi e ai loro bambini che piangono disperati. Hitler con Putin c'entra come i cavoli a merenda. Siamo di fronte a gente crudele che non esitava a chiudere nei campi di concentramento della Siberia chiunque non si inchinasse al bolscevismo disumano. Smettiamola di raccontarci bugie: il male assoluto è il comunismo spietato che ha sterminato anche migliaia di ebrei senza neppure essere deplorato. Non conoscere la storia è un delitto imperdonabile.
Dagospia il 10 marzo 2022. Dall’account twitter di Jacopo Iacoboni.
«La politica internazionale ha bisogno di uomini di stato forti come loro [Trump e Putin]. Lo considero un beneficio per l’umanità. Putin è quello che dice le cose più sensate in politica estera»
Beppe Grillo, fondatore del M5S, intervista al Journal du Dimanche, 22 gennaio 2017
Beppe Grillo (22 gennaio 2017):
"La politique internationale a besoin d'hommes d'État forts comme eux. Je les vois comme un bénéfice pour l'humanité. Poutine est celui qui dit les choses les plus sensées sur la politique étrangère"
"L'embargo que nous imposons à la Russie nous coûte 7 milliards d'euros par an. Nous sommes en faveur de la levée des sanctions contre Moscou. Et si Donald Trump veut sortir de l'Otan, qu'il le fasse!"
Beppe Grillo, 5Star founder (Jan 2017):
"International politics needs strong hommes d'État like them [Trump and Putin]. I see them as an advantage for humanity. Putin is the one who says the wisest things about foreign policy"
Beppe Grillo (Jan 2017):
"The embargo that we impose on Russia costs us 7 billion euros a year. We are in favor of lifting the sanctions against Moscow. And if Donald Trump wants to leave NATO, let him do it!"
Senatori, QAnon ed ex grillini: ecco la rete dei fan di Putin. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 10 marzo 2022.
I rapporti dei servizi segreti in Occidente raccontano la guerra di propaganda avviata dai russi in Italia. Usati app, siti e blog di controinformazione
Analizzati i canali social della parlamentare ex grillina Granato. I siti no vax e i canali Telegram che rilanciano fake news su laboratori bio-militari
«C’è una strategia mediatica volta a orientare i consensi degli italiani verso posizioni filorusse, approfittando del sentimento antigovernativo dei gruppi no vax
La guerra tra Ucraina e Russia si combatte sul campo, sui mercati finanziari attraverso le sanzioni economiche, attraverso pressioni diplomatiche e strategie geopolitiche dei fronti contrapposti. Ma, di pari passo ai bombardamenti, il conflitto si gioca anche nella battaglia, violentissima, della propaganda. Che può alterare il sentiment dell’opinione pubblica e – secondo i servizi russi e occidentali che lavorano sul dossier – persino l’esito finale della campagna di Vladimir Putin.
Il tema è cruciale, e non è un caso che le intelligence occidentali stiano da giorni sfornando dossier e rapporti segreti su come i russi e i suoi simpatizzanti stiano incrementando la pubblicazione sui social e sui media compiacenti di contenuti di disinformazione sulla crisi. Analisi che Domani ha letto, e che evidenziano come canali di controinformazione pro-Putin utilizzino utenti anonimi che viralizzano su Telegram e altre app di messaggistica contenuti veri o falsi che di fatto giustificano il conflitto, ma pure soggetti noti, blog famosi, siti di partiti di estrema destra e politici che siedono ancora in Parlamento.
Alcune schede si soffermano anche sull’Italia, analizzando siti e hub usati dai No-vax e persino pagine Facebook di senatori della repubblica. «Nella galassia degli account riconducibili alle ideologie no vax e no pass si assiste quotidianamente alla diffusione massiva (post, video e articoli di quotidiani online) che “documentano” l’evoluzione della crisi e forniscono interpretazioni tipicamente pro-Russia ai followers dei canali stessi», si legge nel report. I contenuti che viaggiano sul web sarebbero spesso e volentieri «originati da siti e canali noti negli ambienti della disinformazione, per lo più riconducibili a fonti russe, e sono volti a sostenere la tesi che legittima la scelta russa di attaccare l’Ucraina».
I FANATICI DI QANON
A parte «l’incosciente» allargamento della Nato a guida americana verso paesi confinati con Mosca che prima erano parte dell’Urss o aderenti al patto di Varsavia, secondo gli analisti informatici le motivazioni più diffuse negli ultimi giorni sono molteplici. Ultimamente si sta diffondendo su centinaia di canali la tesi che l’Ucraina starebbe sviluppando, con il supporto di Stati Uniti e altri paesi occidentali, «agenti patogeni nei laboratori di Poltava e Kharkiv».
Una tesi diffusa, secondo l’intelligence, prevalentemente su canali riconducibili alla teoria di QAnon, il gruppo trumpista di estrema destra che intende disarticolare un presunto deep state che sarebbe colluso con reti internazionali di pedofili e gruppi occulti che dominerebbero il pianeta. Canali che da tre giorni rilanciano senza sosta presunti documenti dei ministeri della Salute ucraina che proverebbero l’esistenza di 26 laboratori bio-militari.
Una notizia (ancora non verificata) rilanciata anche dalla Cina, che per bocca del portavoce del ministro degli Esteri ha chiesto agli Stati Uniti di consentire «verifiche multilaterali» sui siti ucraini, alcuni dei quali conquistati dall’esercito russo che avrebbe scoperto depositi di antrace, peste, tularemia e colera. Se QAnon suggerisce che di fatto «Putin ha salvato il mondo da un’altra pandemia», i cinesi - che ieri hanno chiarito che ha loro parere la guerra è scoppiata a causa degli Usa e della Nato - evidenziano come «in queste strutture sarebbe stoccata una grande quantità di virus pericolosi: la Russia ha verificato che gli Usa usano queste strutture per condurre progetti militari».
Gli analisti delle intelligence occidentali stanno scandagliando Telegram e i canali di controinformazione più attivi dal 24 febbraio, giorno dell’inizio dell’operazione speciale militare” di Putin. Tra questi viene segnalato IL RISVEGLIO_Q 1776, seguito da migliaia di utenti, dove è stato pubblicato «un video che riporterebbe in italiano il vero discorso del presidente Putin “senza la censura americana”». Un filmato dove la doppiatrice «sviluppa una serie di argomentazioni con le quali si sostiene che la Nato si starebbe pericolosamente espandendo verso i confini russi, usando l’Ucraina per attaccare la Russia».
I POST DELLA SENATRICE
Il video, si legge in un altro report, «è stato originariamente condiviso, alle 19.32 del 5 marzo, sulla pagina Facebook ufficiale della senatrice Bianca Laura Granato». Una insegnante di Catanzaro eletta nel 2018 nelle fila del Movimento Cinque Stelle ma espulsa dopo il suo voto contrario alla fiducia al governo Draghi. Leggendo la pagina della politica oggi entrata nel gruppo misto “L’alternativa c’è”, si leggono non solo post dove si segnala che il «siero sperimentale anti-Covid» avrebbe causato la morte in Usa di 88 bambini, ma pure messaggi che sostengono come – a cause di campagne di disinformazione degli occidentale volte a screditare l’immagine della Russia - cittadini russi starebbero subendo in Europa gravi minacce ed episodi di discriminazione.
La Granato segnala (parallelamente altri canali Telegram di ispirazione no vax) una presunta lettera ricevuta da una paziente da parte del direttore di una clinica tedesca, che annuncerebbe che a causa «della grave violazione del diritto internazionale da parte dell’autocrate Putin, apparentemente mentalmente disturbato, ora ci rifiutiamo categoricamente di curare i pazienti russi». La senatrice italiana nel post dichiara di avere ricevuto la missiva «da fonte attendibile», ma secondo fonti dei servizi non ci sono riscontri alla notizia.
Siti putiniani, ovviamente, sfruttano anche la russofobia che si sta diffondendo in occidente a causa del conflitto: la vicenda (vera) che ha coinvolto lo scrittore Paolo Nori, a cui l’università Bicocca di Milano ha chiesto di sospendere un corso sullo scrittore russo Dostoevskij, è stata spammata ovunque. Così come un “attacco” con una bottiglia incendiaria alla Casa russa delle scienze e e della cultura di Parigi, segnalato dalla portavoce della diplomazia russa Maria Zakharova e subito rilanciato da Francesca Totalo, influencer della rivista di estrema destra Primato nazionale.
«La narrativa secondo la quale i russi in Europa sarebbero vittime di episodi di ostracismo è stata rafforzata da un messaggio in lingua russa pubblicato dall’account ufficiale dell’ambasciata russa a Roma» spiegano fonti del comparto di sicurezza «nel quale si invitano i cittadini russi che dovessero essere oggetto di “molestie, aggressioni o violenze fisiche” a contattare» una linea telefonica predisposta.
LA GUERRA INVENTATA
Le relazioni segnalano anche altri temi ricorrenti della controinformazione pro-Russa: si va dalla minimizzazione dell’impatto della devastante crisi umanitaria (secondo Filippo Grandi, Alto commissario dell’Onu per i rifugiati , i profughi sarebbero già due milioni), alle fake news che addosserebbero alla brigata ucraina neonazista, il battaglione Azov, il fallimento dei corridori umanitari dalla città assediata di Mariupol, dove ieri i russi hanno bombardato un ospedale pediatrico. Non solo. «Su diversi canali no vax e no pass è diffusa la convinzione che la guerra attualmente in corso in Ucraina in realtà non sia vera, così come non era vera la pandemia da Covid 19, entrambe appositamente “raccontate” per tenere sotto controllo la popolazione mondiale».
Il 7 marzo sulla rete viene fatto girare un video di cinque minuti in cui viene riportata la conferenza stampa del presidente della filorussa Repubblica popolare di Doneck, Denis Pushilin, in cui il leader dichiara di avere le prove dei «piani militari aggressivi del regime ucraino e di coloro che vi sono dietro». L’evidenza sarebbe nei file di un computer ritrovato dai suoi soldati nella sede di un’organizzazione paramilitare di estrema destra Pravyj Sektor. Un laptop con matricola della Nato che avrebbe mappe della Crimea e di Donetsk e programmi militari per «l’assemblaggio, il controllo e il funzionamento di droni». Nel video – rimbalzata in Italia sui canali filo Putin di Telegram – Pushilin dice pure che i prigionieri ucraini avrebbero ammesso l’esistenza di piani di accatto contro la Crimea e le repubbliche separatiste che sarebbero state messe in atto «il giorno 8 marzo», e che il piano sarebbe saltato grazie al tempestivo intervento russo del 24 febbraio.
Su Telegram, su Twitter, sul seguitissimo sito Byoblu fondato da Claudio Messora, ex capo della comunicazione in Senato, si segnala come il conflitto abbia di fatto cancellato la pandemia, e si ricorda che i profughi potranno entrare in Italia anche senza green pass: «Mentre milioni di italiani sono discriminati ed esclusi dai luoghi di lavoro e da attività ricreative perché privi della tessera verde, milioni di profughi potranno entrare senza il codice QR. Si tratta di una ulteriore priva che il super green pass non assolve ad alcuna finalità sanitaria, me è uno strumento politico» scrive il blog dell’ex grillino. «Il punto è che gli ucraini sono una popolazione che i media mainstream definirebbero dispregiativamente no vax. Non tutti i no vax sono però brutti sporchi e cattivi: quelli ucraini, in quanto migranti, frutteranno bei soldi a chi si occupa di accoglienza?».
L’allarme degli apparati di sicurezza americani, tedeschi, francesi e italiani è sempre la stessa. «L’analisi del fenomeno descritto in Italia» spiega un analista «evidenzia in modo pressoché inequivocabile la strategia mediatica messa a segno da enti ufficiali russi, quali media e organi istituzionali, volta a orientare i consensi della popolazione italiana verso posizioni filorusse, approfittando del già dichiarato sentimento antigovernativo dei gruppi no vax e no pass». EMILIANO FITTIPALDI
Il nipote di Gramsci che sostiene Putin: «Voi non capite, il Paese è con lui». Marco Imarisio, nostro inviato a Mosca, su Il Corriere della Sera il 7 marzo 2022.
Con quel cognome, potrebbe dire quello che vuole. O quasi. Ma non ora, non qui. «Mi ritengo un moderato sostenitore di Vladimir Putin». Parlare con Antonio Gramsci, nipote e omonimo del fondatore del Partito comunista italiano, non è una operazione da strano ma vero. Significa anche fare un viaggio nella testa dell’elettore medio russo. Per provarci, a capire davvero. Nato e cresciuto a Mosca, dove nel 1921 il nonno, appena arrivato ammalato di tisi, aveva conosciuto in sanatorio e poi sposato Julia Schucht, da un quarto di secolo è un docente di musica e di biologia che insegna alla scuola in lingua italiana della nostra ambasciata.
Ogni giorno in cattedra a insegnare agli adolescenti russi. «Nessuna delle persone con le quali parlo è d’accordo con i media occidentali, che secondo me non ci stanno capendo molto, quando dicono che il presidente ha iniziato questa guerra senza alcuna ragione. Il diavolo è sempre nei dettagli di questi otto anni di tensione continua con l’Ucraina, di un conflitto a bassa intensità nel Donbass che è andato avanti senza che il governo di Kiev facesse nulla per fermarlo».
Gramsci junior, 56 anni, l’età media del sostenitore di Putin secondo le analisi dell’ultima elezione per il Cremlino, rigetta l’idea di essere anche lui sedotto dalla propaganda martellante dei media statali. «Ma no, passo gran parte del mio tempo sugli spartiti musicali, e per natura sono scettico sulle informazioni dei media. Mi baso sulle testimonianze dirette». Appunto. A domanda diretta, Gramsci risponde. «Nella Russia di oggi non esistono valide alternative a Putin. Questo la gente lo sente, lo capisce. Certo, a ogni elezione esiste un’altra possibilità di scelta, ma nessuna garantisce la stabilità di questo Paese come lui. Per questo l’ho votato e, quando sarà, penso che lo farò ancora».
Notizie e aggiornamenti sulla guerra in Ucraina
Medvedev: «Putin vuole tornare ai confini di Pietro il Grande» di Un piano degli 007 russi in Ucraina dietro la morte del negoziatore di Gomel di L’evacuazione impossibile da Mariupol: Putin vuole punire la «città ribelle» di «Putin non ci sopporta, la prosperità dell’Occidente è il suo vero nemico» di La verità oltre la propaganda: nessuno ha minacciato Putin di Kirill, Fedor e Marina, la pietà contemporanea Quelle foto da mostrare a Putin di
Sul concetto di stabilità, e di come essa viene indotta, ci sarebbe da parlare a lungo. Gramsci si chiama fuori dalla discussione sui metodi autoritari del Cremlino. «Il nostro popolo non ha mai conosciuto una vera libertà. Io c’ero ai tempi dell’Urss, ci sono nato. Meglio ora. Esistono ancora povertà e deficit, di soldi nella Russia del ceto medio non ne girano poi molti. Ma la sensazione che solo Putin possa garantire gli interessi del suo Paese, e che quindi quel che decide va bene, le posso assicurare che è molto diffusa».
Ha imparato l’italiano da adulto, e nella nostra lingua ha scritto un bel libro sulla storia del filone russo della sua famiglia. Ride quando gli viene chiesto se il nonno avrebbe votato Putin. «Ma che discorsi. Parlare di comunismo ormai è come parlare di antiquariato, così come il concetto del proletariato oppresso è superato da tanto tempo. Io poi mi considero un anarchico. E come tale, considero la guerra un disastro, sempre. Anche questa».
Alla fine, sostiene il professor Gramsci che esista un nostro errore di prospettiva nella lettura del suo Paese. La lotta di classe è defunta da tempo. L’unica contrapposizione possibile è la solita, che esiste ovunque. «Credo che il mondo guardi alla Russia attraverso la lente delle sue due grandi città. E allora si fanno grandi teorie sulla nostra occidentalizzazione. Ma esiste una grande differenza tra il livello di vita delle metropoli russe e le loro periferie. Chi vive altrove, considera i cittadini come piccolo borghesi che non producono nulla. E in parte ha ragione. Mosca può sembrare una capitale abitata da persone che si divertono e fanno affari, dedite alla finanza e al terziario. Come a Londra o a Milano. Basta spostarsi di cento chilometri appena, ed è tutta un’altra storia. La Russia profonda è tutt’altro che omologata all’Occidente. E quindi, non ne ha tutto questo desiderio. L’isolamento fa più paura agli “occidentali”, i giovani russi abituati a viaggiare. Gli altri, quelli come me che sono cresciuti in epoca sovietica, sono già immunizzati».
Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” l'8 marzo 2022.
Con quel cognome, potrebbe dire quello che vuole. O quasi. Ma non ora, non qui. «Mi ritengo un moderato sostenitore di Vladimir Putin». Parlare con Antonio Gramsci, nipote e omonimo del fondatore del Partito comunista italiano, non è una operazione da strano ma vero. Significa anche fare un viaggio nella testa dell'elettore medio russo. Per provarci, a capire davvero. Nato e cresciuto a Mosca, dove nel 1921 il nonno, appena arrivato ammalato di tisi, aveva conosciuto in sanatorio e poi sposato Julia Schucht, da un quarto di secolo è un docente di musica e di biologia che insegna alla scuola in lingua italiana della nostra ambasciata.
Ogni giorno in cattedra a insegnare agli adolescenti russi. «Nessuna delle persone con le quali parlo è d'accordo con i media occidentali, che secondo me non ci stanno capendo molto, quando dicono che il presidente ha iniziato questa guerra senza alcuna ragione. Il diavolo è sempre nei dettagli di questi otto anni di tensione continua con l'Ucraina, di un conflitto a bassa intensità nel Donbass che è andato avanti senza che il governo di Kiev facesse nulla per fermarlo».
Gramsci junior, 56 anni, l'età media del sostenitore di Putin secondo le analisi dell'ultima elezione per il Cremlino, rigetta l'idea di essere anche lui sedotto dalla propaganda martellante dei media statali. «Ma no, passo gran parte del mio tempo sugli spartiti musicali, e per natura sono scettico sulle informazioni dei media. Mi baso sulle testimonianze dirette». Appunto.
A domanda diretta, Gramsci risponde. «Nella Russia di oggi non esistono valide alternative a Putin. Questo la gente lo sente, lo capisce. Certo, a ogni elezione esiste un'altra possibilità di scelta, ma nessuna garantisce la stabilità di questo Paese come lui. Per questo l'ho votato e, quando sarà, penso che lo farò ancora».
Sul concetto di stabilità, e di come essa viene indotta, ci sarebbe da parlare a lungo. Gramsci si chiama fuori dalla discussione sui metodi autoritari del Cremlino. «Il nostro popolo non ha mai conosciuto una vera libertà. Io c'ero ai tempi dell'Urss, ci sono nato. Meglio ora. Esistono ancora povertà e deficit, di soldi nella Russia del ceto medio non ne girano poi molti. Ma la sensazione che solo Putin possa garantire gli interessi del suo Paese, e che quindi quel che decide va bene, le posso assicurare che è molto diffusa».
Ha imparato l'italiano da adulto, e nella nostra lingua ha scritto un bel libro sulla storia del filone russo della sua famiglia. Ride quando gli viene chiesto se il nonno avrebbe votato Putin. «Ma che discorsi. Parlare di comunismo ormai è come parlare di antiquariato, così come il concetto del proletariato oppresso è superato da tanto tempo. Io poi mi considero un anarchico. E come tale, considero la guerra un disastro, sempre. Anche questa».
Alla fine, sostiene il professor Gramsci che esista un nostro errore di prospettiva nella lettura del suo Paese. La lotta di classe è defunta da tempo. L'unica contrapposizione possibile è la solita, che esiste ovunque. «Credo che il mondo guardi alla Russia attraverso la lente delle sue due grandi città. E allora si fanno grandi teorie sulla nostra occidentalizzazione. Ma esiste una grande differenza tra il livello di vita delle metropoli russe e le loro periferie.
Chi vive altrove, considera i cittadini come piccolo borghesi che non producono nulla. E in parte ha ragione. Mosca può sembrare una capitale abitata da persone che si divertono e fanno affari, dedite alla finanza e al terziario. Come a Londra o a Milano. Basta spostarsi di cento chilometri appena, ed è tutta un'altra storia. La Russia profonda è tutt' altro che omologata all'Occidente. E quindi, non ne ha tutto questo desiderio. L'isolamento fa più paura agli "occidentali", i giovani russi abituati a viaggiare. Gli altri, quelli come me che sono cresciuti in epoca sovietica, sono già immunizzati».
Articolo di “The Guardian” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 7 marzo 2022.
È stato uno di quei momenti surreali in cui l'intrattenimento leggero si scontra con la storia. Vladimir Putin ha cantato la canzone Blueberry Hill in un evento di beneficenza per bambini a San Pietroburgo nel 2010, mentre una folla di celebrità - tra cui Sharon Stone, Kevin Costner, Kurt Russell, Goldie Hawn, Gérard Depardieu, Vincent Cassel e Monica Bellucci - applaudiva come se fossero all'asilo.
Quando il politico ha recitato la battuta iniziale - "Ho ritrovato il mio entusiasmo" - i pensieri dell'invasione georgiana o dell'avvelenamento di Alexander Litvinenko non sembravano affiorare con urgenza nella testa di nessuno. Sapendo quello che sappiamo ora, lo spettacolo suona più come l'interpretazione del Dr Evil di Just the Two of Us - ma molto meno divertente.
Nel 2022, dopo lo spietato assalto di Putin all'Ucraina, gli ospiti presenti quel giorno devono sentirsi molto ingenui, forse persino vergognarsi - ma non sono le uniche celebrità occidentali che hanno fatto amicizia con Putin. In difesa di questo gruppo, erano stati prenotati per apparire da Samuel Aroutiounian, un newyorkese specializzato nel portare talenti di Hollywood in Russia e che in seguito ha detto che non era a conoscenza che Putin sarebbe apparso. Scrive il The Guardian.
Ora, mentre grandi nomi, da Angelina Jolie a Sean Penn e Mark Ruffalo, esprimono il loro sostegno all'Ucraina assediata, Hollywood deve rimpiangere i giorni in cui un'apparizione pubblica con Putin non era fuori discussione. A metà degli anni '00, si era limitato a rosicchiare qualche provincia ex sovietica e ad allontanare lo strano dissidente - eventi che non preoccupavano la maggior parte dei lettori di Entertainment Weekly.
La Russia era un importante mercato cinematografico emergente, e saldamente nel circuito delle giunte delle celebrità. Così Jean-Claude Van Damme, nel 2007, poteva allegramente lucidare le credenziali da macho del presidente ad un evento di MMA a San Pietroburgo, mentre Leonardo DiCaprio faceva le fusa al suo compagno amante dei felini durante un summit sulla conservazione dei grandi felini nel 2010.
La sua egemonia era ormai consolidata, Putin aveva già una macchina dell'intrattenimento nazionale che lavorava duramente a suo favore. Channel One - discendente della stazione televisiva statale dell'era sovietica RTO - aveva prodotto Night Watch e Day Watch, due aspiranti blockbuster globali che mettevano una lucentezza manichea sulla caotica Russia post-comunista che Putin aveva sedato all'inizio del XXI secolo.
"L'oscurità significa libertà e la luce significa responsabilità - e, nella vita reale, Putin, di sicuro, è una luce", disse il regista Timur Bekmambetov all'epoca. "Sta cercando di sistemare tutto, di rendere tutto organizzato. Ma è molto negativo per la libertà". Forse la successione di film militari sciovinisti che anche l'industria cinematografica russa stava iniziando a sfornare - tra cui 9th Company del 2005, Admiral del 2008 e Stalingrad del 2013 - erano un vero campanello d'allarme della sua effettiva fedeltà.
Ma Putin - criticato per le sue aggressioni in Cecenia e in Georgia, e con i sospetti che serpeggiavano intorno alle agenzie statali dopo gli omicidi di Litvinenko e Anna Politkovskaya - aveva un gran bisogno di legittimità internazionale. Le foto con le grandi star e l'implicito ingresso nell'area VIP dell'intrattenimento globale di massa hanno aiutato a normalizzare il suo stato canaglia agli occhi del mondo.
O così supponeva. Nel 2014, quando Putin aveva annesso la Crimea e a quel punto era ovvio che non avrebbe ceduto la leadership tanto presto, Hollywood cominciava a essere timida. Parlando alla rivista Time, la mente di Blueberry Hill Aroutiounian ha detto della A-list: "Sono molto più preoccupati di non uccidere le loro carriere. [Nell'attuale clima politico] non sanno cosa succederà loro quando torneranno a casa. Si prenderanno un sacco di botte".
Con la sua aria imperscrutabile, i suoi machiavellici schemi geopolitici e l'abitudine dei suoi oppositori di morire in stravaganti assassinii, Putin assomigliava sempre più a un arcicattivo da cartone animato del tipo Blofeld. La sua agenzia di intelligence militare straniera si chiamava addirittura GRU, come il cattivo di Cattivissimo Me. Ma c'era ancora un gruppo di rifiutati del mondo del cinema che non si preoccupavano del suo crescente status di paria: non solo Depardieu, ma anche Mickey Rourke, Steven Seagal e il regista Oliver Stone. In effetti, questo insieme di iconoclasti coriacei e libertari sembrava abbracciarlo attivamente.
Tre di loro rientravano nel campo degli utili-idioti. Depardieu ha preso la cittadinanza russa, e la sua rinfrescante flat tax del 13%, nel 2013, dopo aver criticato il governo francese sui suoi piani di prelievo. In termini amichevoli con Putin, ha definito la Russia "una grande democrazia" in una lettera aperta. A un festival del cinema lettone nel 2014, Depardieu era abbastanza su di giri per dichiarare l'Ucraina "parte della Russia". I carri armati rotolano attraverso il confine nel 2022 e il suono della tarte à l'humble che viene scofanata: "Sono contro questa guerra fratricida", ha detto. "Io dico: 'Fermate le armi e negoziate'".
Rourke, nel frattempo, è rimasto indifferente all'incursione di Putin in Crimea e lo ha giudicato "un vero signore" mentre comprava una maglietta con la faccia del leader in un grande magazzino di Mosca nel 2014. "L'ho incontrato un paio di volte ed è stato un ragazzo normale molto cool, mi ha guardato dritto negli occhi", ha detto a Sky News. È facile supporre che questa sia stata una specie di trovata pubblicitaria da parte dell'uomo che una volta ha fatto l'inferno, ma lui ha offerto la sua ragazza russa come vera ragione: "È tutta una questione di famiglia. Non me ne frega un cazzo della politica. Non è il mio campo".
Seagal non prova nemmeno a giocare la carta "esci gratis di prigione". Ottenuta la cittadinanza russa nel 2016, aveva già definito l'annessione della Crimea da parte di Putin "molto ragionevole" e lodato il presidente come "uno dei più grandi leader viventi del mondo". Con il suo vecchio amico che ora cestina il resto dell'Ucraina, ha solo ridotto il suo sostegno di una tacca: "Guardo la Russia e l'Ucraina come una sola famiglia e credo davvero che sia un'entità esterna che spende enormi somme di denaro in propaganda per provocare i due paesi ad essere in contrasto tra loro", ha detto a Fox News.
Si può capire perché - in una sorta di versione botox del 21° secolo dei Dieci di Hollywood - tre attori strafatti potrebbero identificarsi e voler convivere con il presidente russo. Il caso di Stone è più complicato. Aveva già fatto documentari su Fidel Castro e Hugo Chávez, quindi con la sua passata propensione per le figure rivoluzionarie, Putin era un logico candidato successivo. La serie di quattro ore del 2017 del regista, The Putin Interviews, indubbiamente asseconda il leader, ma nel farlo lo tira fuori in tutto il suo blando cinismo. Sceglie anche i suoi momenti per sfidarlo: sulla Cecenia, sulla "democrazia" russa, sulle interferenze elettorali.
Non è difficile capire cosa ha ottenuto Stone discutendo di realpolitik con l'avversario del suo paese. La domanda più grande è come Putin abbia beneficiato di questo accordo. La serie, insistendo continuamente sull'equivalenza tra l'espansionismo americano e quello russo, potrebbe aver fatto parte della sua più ampia strategia di disinformazione? Gettare un osso stuzzicante ai simpatici liberali anti-imperialisti per distrarli dal suo vero scopo durante il periodo: radicalizzare la destra nativista degli Stati Uniti e dell'Europa.
Almeno la relazione di Stone con Putin ci ha dato l'opportunità di sederci e guardare la superficie dell'uomo - anche se non è riuscita a capire cosa c'è oltre. In una vignetta notevole, il regista fa sedere l'autocrate per la sua prima visione del Dottor Stranamore. Mentre il montaggio climatico delle nuvole a forma di fungo si svolge, Putin sembra vagamente divertito da questa rappresentazione della distruzione reciprocamente assicurata: "Non è cambiato nulla". Forse questo è ciò che il treno delle celebrità moscovite ha contribuito ad oscurare per tutto il tempo - per Putin, si è sempre trattato davvero di una realtà più fredda e dura.
Russia, Paragone: "Tifo Putin? Non è un dittatore, altri si facevano i selfie al Cremlino e ora hanno cambiato idea". Lorenzo De Cicco su La Repubblica il 26 febbraio 2022.
L'ex giornalista, ora leader di ItalExit: "Sull'Ucraina l'Italia ha preso posizione troppo in fretta. Bisognava giocare un'altra partita, diplomatica".
“Lo so che ora sarò etichettato come l’amico di Putin, l’amico del cattivo della Storia. Ma dobbiamo trattare con lui”, dice Gianluigi Paragone. Si smarca, l’ex giornalista, senatore ex M5S, ora leader di Italexit, da quel battaglione di politici “che andavano a farsi le foto con le felpe no-euro al Cremlino e ora hanno cambiato idea”.
Laura Cesaretti per “il Giornale” l'8 marzo 2022.
È accettabile che un organismo delicato come la Commissione Esteri del Senato italiano sia guidato da un fiero supporter di Putin e della sua guerra all'Ucraina, apertamente ostile alla linea del governo italiano, dell'Ue e della Nato? La questione è aperta, e in Parlamento la spinta per liberare una postazione così delicata dal grillino filo-russo Vito Petrocelli, che ha legami affettuosi con Mosca (oltre che con Pechino) e pochi giorni fa ha votato contro la risoluzione di maggioranza sulla guerra in Ucraina, cresce di ora in ora.
Il redde rationem è fissato per questo pomeriggio, alle 15, quando si riunirà l'ufficio di presidenza della Commissione di Palazzo Madama. Non sarà una riunione ordinaria: alla seduta parteciperanno i capigruppo di tutti i partiti ma anche pezzi da novanta della politica estera come Pierferdinando Casini, che ha guidato lo stesso organismo, e l'ex premier Mario Monti.
E sul tavolo ci sarà la richiesta di dimissioni, ma anche un ipotesi di compromesso: Petrocelli, chiede il Pd con il capogruppo Alessandro Alfieri, prenda carta e penna disdica immediatamente il protocollo di intesa con la commissione Esteri della Duma putiniana, da lui sottoscritto durante uno dei suoi numerosi pellegrinaggi alla corte del Cremlino, per «dimostrare con chiarezza che sta con le democrazie occidentali e non con la dittatura russa».
Un gesto simbolico, che anche M5s (che non vuol perdere la poltrona) lo spinge a fare. Non a caso il redivivo Giuseppe Conte, da un po' sparito dai radar politici, è rispuntato ieri per assicurare che «non succederà nulla» e che il prode Petrocelli resterà sereno al suo posto, anche se «è giusto, in un contesto del genere, riprendere in considerazione alcuni accordi di collaborazione oggi non più attuali».
Del resto, quegli accordi con Putin furono pienamente avallati dal suo governo, che si spendeva animatamente per l'annullamento di ogni sanzione alla Russia e per una vicinanza strategica tra l'Italia e le principali autocrazie di Mosca e Pechino, in barba all'Occidente, e che autorizzò colonne militari russe a scorrazzare per l'Italia in piena pandemia. Oggi Conte e M5s sono stati costretti alla retromarcia, ma M5s è spaccato tra filo-occidentali e filo-putinisti, e il leader cerca di tenere insieme capra e cavoli, evitando la gogna delle dimissioni a Petrocelli.
Il quale, del resto, non vuole assolutamente perdere i galloni e gli extra (anche monetari) da presidente, e dunque sarebbe in procinto di accettare la condizione e cancellare il protocollo pur di restare al proprio posto. Ma «si tratta di una condizione necessaria ma non sufficiente», dice la capogruppo di Italia viva Laura Garavini.
«Poniamo che, come probabile, Petrocelli dica di sì per salvare la poltrona: tra un paio di settimane, quando arriveranno al nostro esame di decreti sulla guerra in Ucraina, come voterà? Non possiamo mantenere in quel posto chiave un presidente che non è assolutamente di garanzia».
I renziani, con altri gruppi, sono pronti a «boicottare il funzionamento della Commissione», non partecipando alle sedute. E propongono anche di rivolgersi alla presidente del Senato Casellati per chiederle di sciogliere la commissione, visto che non è possibile, per regolamento, sfiduciare un presidente di commissione. Il Pd non scarta l'opzione e dice che «la disdetta del protocollo sarebbe un primo segnale che ha capito la gravità della situazione». Ma se oggi Petrocelli, come probabile, si piegherà per salvare la cadrega, l'imbarazzante scandalo del presidente filo-russo rischia di riproporsi presto.
Dagospia il 4 maggio 2022. Da iene.mediaset.it il 4 maggio 2022.
Stasera in prima serata su Italia 1, nel nuovo appuntamento con “Le Iene”, condotto da Belén Rodriguez e Teo Mammucari, il servizio di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti con l’intervista al presidente della Commissione Affari Esteri al Senato Vito Petrocelli.
Il senatore grillino aveva suscitato numerose polemiche all’interno del Movimento 5 Stelle con cui è stato eletto per aver disertato la seduta congiunta con il premier ucraino Volodymyr Zelenskij e per aver votato contro al decreto sull’invio di aiuti militari al paese invaso dalla Russia. In questi giorni è balzato di nuovo agli onori delle cronache per aver scritto, alla vigilia del 25 Aprile, sulla sua pagina Twitter: “Per domani buona festa della LiberaZione…”.
Parola scritta con la Z maiuscola all’interno della parola liberazione, che ricorda a tutti quella impressa sui carri armati dell’esercito russo, che starebbe per “za pobedu” e che significa “per la vittoria”. Al suo tweet ha risposto duramente il presidente del M5S Giuseppe Conte, con queste parole: “Il suo ultimo tweet è semplicemente vergognoso. Vito Petrocelli è fuori dal Movimento 5 Stelle”. La decisione di Conte di espellerlo dal Movimento è stata poi condivisa sia dal ministro degli Esteri Luigi di Maio, che ha chiesto anche le sue dimissioni dal ruolo di presidente della commissione, che da tutti gli altri partiti politici. Nel servizio anche le dichiarazioni dell’ex premier Giuseppe Conte.
Conte: Petrocelli deve avere la bontà di dimettersi perché, come sapete dai regolamenti, l'espulsione dal gruppo non è sufficiente per rimuoverlo dalla presidenza. Io lo invito a dimettersi perché chiaramente in questo momento, lui non è in condizione di poter garantire il buon funzionamento della Commissione, a prescindere dalle sue convinzioni.
Monteleone: Anche l'immagine di indipendenza, secondo lei, quindi?
Conte: Diciamo che le ultime uscite hanno compromesso, ecco, quel ruolo di quella funzione che aveva il presidente di autorevolezza, imparzialità e, ripeto, garanzia del buon funzionamento dei lavori della Commissione.
Questi alcuni stralci dell’intervista a Vito Petrocelli:
Monteleone: La liberazione, dalla A alla Z.
Petrocelli: Che domanda è? È ironica?
Monteleone: No, il tweet è il suo.
Petrocelli: Io ho sempre festeggiato il 25 aprile come la Festa della Liberazione, e ho deciso di scrivere un tweet per lanciare una provocazione.
Monteleone: Però, la z maiuscola, considerato che i russi la mettono sui carri armati che vanno a invadere un paese sovrano…
Petrocelli: E, ripeto, è una provocazione. Avrei potuto mettere la bandiera della Nato.
Monteleone: Perché non lo cancella?
Petrocelli: No, non si cancella, era necessario e discutibile.
Monteleone: Lei non fa il capo ultras. Lei fa il presidente della commissione Esteri del Senato della Repubblica.
Petrocelli: Certo, il momento è difficile. C'è un governo che sta portando il Paese sull'orlo di una guerra. Allora è necessaria una provocazione.
Monteleone: Ma, per fare una provocazione, è necessario solidarizzare con degli invasori secondo lei?
Petrocelli: È necessario solidarizzare.
Monteleone: Se lei mette la Z maiuscola dentro la parola liberazione qualcuno potrebbe offendersi. Qualcuno a cui sono morti familiari, magari…
Petrocelli: Io credo che una provocazione debba essere forte, altrimenti non ha senso. Altrimenti non è una provocazione.
Monteleone: In politica estera quando c’è un'aggressione bisogna scegliere da che parte stare.
Petrocelli: No, non necessariamente. Bisogna scegliere di stare dalla parte della legalità della Costituzione italiana che dice che l'Italia non deve partecipare ai conflitti. A me non sembra che la Russia stia minacciando la sicurezza nazionale.
Monteleone: L'ultima volta che ha fatto una previsione così è andata male, lei diceva che la Russia non ha mai attaccato nessuno nel corso della sua storia.
Petrocelli: Era vero fino a quel momento, io credevo che la Russia non sarebbe entrata in guerra. Mi sono sbagliato.
Monteleone: Però lei si fida un po’ troppo della Russia e un po’ meno degli alleati occidentali. Come facciamo cessare l'aggressione russa ai danni dell'Ucraina?
Petrocelli: Di sicuro noi non dobbiamo partecipare a un conflitto che non ci riguarda, quindi dovremmo smettere.
Monteleone: Lasciare l'Ucraina indifesa?
Petrocelli: Dovremmo smettere di inviare armi.
[…]
Petrocelli: Lei ricorda che quella Z significa anche denazificazione di un Paese.
Monteleone: Ma che cosa vuol dire per la vittoria?
Petrocelli: Lei ricorda che il 2 maggio è anche l'anniversario dell'eccidio a Odessa perpetrato nella Casa del Lavoro di circa 50 persone da parte di coloro i quali oggi siedono nelle istituzioni ucraine. È un conflitto cominciato otto anni fa. Noi non dobbiamo averci a che fare. Questo è il senso del mio tweet. Dovremmo aver a che fare con una guerra?
[…]
Monteleone: Dice Giuseppe Conte: «Vito Petrocelli è fuori dal Movimento 5 Stelle. Stiamo completando la procedura di espulsione».
Petrocelli: Non mi è stata ancora notificata.
Monteleone: Ma lei perché rimane presidente della commissione Esteri, visto che adesso ci sono i suoi colleghi che non vogliono più partecipare ai lavori?
Petrocelli: Io rimango presidente perché credo di dover rappresentare un pezzo di paese che nel Parlamento italiano non è rappresentato. Perché non devo rimanere alla presidenza della Commissione Esteri se rappresento il pensiero sul tema specifico di buona parte degli italiani?
[…]
Monteleone: Lei cosa pensa della Nato?
Petrocelli: Io penso della Nato quello che pensava il Movimento 5 Stelle quando ha fatto il programma del 2018.
Monteleone: Cioè?
Petrocelli: Il ruolo dell'Italia nella Nato andrebbe riformato. Significa che bisogna stare in un'associazione come è l'Alleanza atlantica da pari e non da sottomessi. In questo momento…
Monteleone: Noi saremo sottomessi?
Petrocelli: È evidente
Monteleone: A chi?
Petrocelli: Agli Stati Uniti, soprattutto.
Monteleone: Le pare bello quello che ha detto Lavrov che Zaleski è ebreo come Hitler? Le sembravano farneticazioni inaccettabili da un ministro degli Esteri di un Paese?
Petrocelli: Avrà avuto le sue ragioni. Io non lo so se Hitler era ebreo, nel senso di quello intende Lavrov.
Monteleone: Ma a lei sembra che stiano denazificando l’Ucraina i russi?
Petrocelli: Mi sembra di sì.
Monteleone: E come la stanno denazificando? Ammazzando donne e bambini civili, bombardando teatri, infrastrutture civili?
Petrocelli: No, eliminando questa presenza.
Monteleone: Ma le ha viste le bombe sulle case? Quello è denazificare?
Petrocelli: Lei le ha viste le bombe sulle case del Donbass?
[…]
Monteleone: Beppe Grillo l’ha chiamata per esprimere solidarietà?
Petrocelli: No.
Monteleone: È un silenzio vergognoso quello di Grillo?
Petrocelli: È un silenzio vergognoso quello di Grillo sì, su questa vicenda, non perché non mi ha chiamato.
[…]
Monteleone: È vero che lei è marxista, giusto?
Petrocelli: Sì.
Monteleone: Lo è ancora?
Petrocelli: Sì.
Monteleone: Si dimette?
Petrocelli: No, non mi dimetto.
Monteleone: Nemmeno se glielo chiede il suo partito?
Petrocelli: Me l'ha già chiesto il mio partito, tra l'altro, me l'ha chiesto il ministro degli Esteri. Piccolo l'errore.
Monteleone: Diciamo, lo sbaglio è nel 2018.
Petrocelli: È da vedere.
Ieri tuonava contro la casta ora non lascia la «poltrona». La trincea di Petrocelli-Petrov. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2022.
«Io, da lì, non me ne vado. Non intendo lasciare la presidenza della commissione Esteri», continua a ripetere ai pochissimi a cui risponde al telefono, impegnato com’è nel resto del tempo a innaffiare le sue radici su quella stessa «poltrona» un tempo brandita come parolaccia a uso e consumo degli avversari politici. Già, perché quando si trattava di quella degli altri, la parola «poltrona» abbondava sempre nella bocca di Vito Petrocelli, il senatore del Movimento, filorusso e ultras del putinismo in salsa nostrana, che in barba alle più basilari regole democratiche resiste alla guida della commissione Esteri del Senato in cui rappresenta ormai solo se stesso. «Avvinghiato alla poltrona manco fosse una preda», diceva nel 2015 di Maurizio Lupi, che tra l’altro poi si dimise da ministro dei Trasporti per una storia in cui non era neanche indagato. «Sotto la poltrona la casta campa. Sotto l’urna la casta crepa», scriveva invece nel 2017 in un tweet con le foto di Luca Lotti e Augusto Minzolini.
Che sia dimentico dell’inossidabile lezione di vita reale esportata meritoriamente in politica dal vecchio leader socialista Pietro Nenni — «A fare a gara a fare il puro, troverai sempre uno più puro che ti epura» — è quasi una questione secondaria. Con l’occupazione della presidenza della commissione Esteri del Senato, Petrocelli fa fare un salto di qualità al suo personalissimo putinismo: la sua ammirazione teorica per certe deroghe alla democrazia, che in passato l’ha spinto fino a negare il genocidio degli uiguri in Cina, si trasforma come per magia in esercizio pratico. Sconfessato dal suo stesso partito (« Vogliono espellermi? Vedano loro quali conseguenze», replica lui), isolato dal resto della commissione che presiede, con un piede fuori dalla maggioranza ( «Non voterò più la fiducia») e una posizione («Non inviare armi all’Ucraina») che difende praticamente da solo, il senatore che ha percorso la strada dal maoismo al putinismo (lo chiamano «Petrov») rimane «presidente» forse in virtù di quella regoletta, tutt’altro che democratica, che faceva dire al marchese del Grillo di Alberto Sordi che «io so’ io e voi non siete un c…o». Altrimenti non si spiega.
L’occupazione della commissione Esteri «manu petrocelli» ricorda il precedente di Riccardo Villari, il senatore del centrosinistra che all’inizio della legislatura del 2008 si fece eleggere alla presidenza della Vigilanza sulla Rai coi voti del centrodestra e rimase asserragliato per tre mesi, e coi voti dell’allora maggioranza, in una postazione che toccava all’opposizione. Espulso dal suo partito, il Pd, Villari resistette a una messa in pratica a tutti i livelli istituzionali; per toglierlo da lì, dopo averle pensate tutte, dovettero dimettersi in blocco tutti i commissari (tranne tre) e rifare la commissione daccapo, stavolta senza di lui. Che tentò addirittura un ricorso alla Corte Costituzionale, senza risultati.
Il caso di Petrocelli va addirittura oltre. Una maggioranza, anche se quella «sbagliata», Villari fino a un certo punto ce l’aveva; lui, invece, neanche quella. Forte dei regolamenti parlamentari che non prevedono la sfiducia al presidente di una commissione né una procedura per la sostituzione dei commissari, il senatore filorusso può continuare a fischiettare, ignorando il pressing di Giuseppe Conte che verosimilmente lo accompagnerà alla porta.
La missione negli Stati Uniti della commissione Esteri, in programma dal prossimo 28 marzo al 4 aprile, è stata annullata. Petrocelli, quindi, non potrà fregiarsi del titolo di primo «putiniano» ad aver messo piede a Washington alla guida di una delegazione dall’inizio della guerra e sarà quindi in Senato per il voto sulla conversione del decreto Ucraina. A dire il proprio «no», che gli costerà l’espulsione dal Movimento. E, chissà, a continuare a respingere le richieste di dimissioni che gli arrivano ormai da tutte le parti. Perché per lui, in fondo, le dimissioni sono come il verde dell’erba del vicino: se sono degli altri, sono sempre più belle.
Ilario Lombardo e Alberto Simoni per “la Stampa” il 24 marzo 2022.
Che questa storia sarebbe potuta finire così com' è finita era già chiaro due settimane fa, quando fonti diplomatiche da Roma riferiscono ai vertici del ministero degli Esteri di una certa agitazione a Washington. Il viaggio di Vito Petrocelli, presidente della Commissione Esteri in Senato, fissato per la prossima settimana, non si farà.
Rinviato, dicono ufficiosamente a Palazzo Madama. Di fatto, è annullato. L'epilogo è spiegabile con l'imbarazzo che da almeno dieci giorni viene trasmesso dalla Farnesina. Petrocelli è un fiero difensore delle ragioni di Vladimir Putin, e anche davanti alle bombe, il senatore non indietreggia dalle sue posizioni. Negli Stati Uniti certe sfumature sono difficili da comprendere.
La Russia sta smembrando l'Ucraina. Per i repubblicani e i democratici basta questo. Putin è una minaccia per l'Occidente. Petrocelli è il presidente di una commissione parlamentare, scelto in quota maggioranza. Pur nella sua terzietà, rappresenta la linea del governo. Dovrebbe. Perché, come ha dichiarato, a costo di farsi espellere, è pronto a votare contro la fiducia al decreto dell'esecutivo che conferma l'invio delle armi a Kiev. La delegazione guidata da Petrocelli sarebbe dovuta sbarcare in Usa lunedì 28 marzo.
Negli incontri fissati in agenda erano previste tappe alla Nasa, a Houston, e alla Silicon Valley, a San Francisco, dove i senatori avrebbero incontrato i ricercatori italiani. La parte politicamente più delicata del viaggio era, però, a Washington, dove Petrocelli era atteso per un colloquio con l'omologo al Senato americano Robert Menendez, e al German Marshall Fund, think thank che sostiene lo sviluppo delle democrazie e delle relazioni transatlantiche. Il senatore assicura che avrebbe illustrato la posizione del governo italiano. Ma Mentre Mariupol viene rasa al suolo e si combatte per le città ucraine con il sostegno di tutto l'Occidente, si sarebbe anche trovato a dover spiegare agli americani perché secondo lui l'Italia deve uscire dalla Nato e restare equidistante da Russia e Stati Uniti.
Queste le sue idee, rivendicate ancora ieri: «Resto coerente con le posizioni con cui il M5S è stato eletto. Se i miei colleghi hanno cambiato idea, è un problema loro». Prima di annullare il viaggio i senatori che dovrebbero accompagnarlo provano a offrirgli una via d'uscita. Sostituirlo o affidare a un altro la guida della delegazione. Petrocelli rifiuta. E allora, d'accordo con la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati, la visita salta. Petrocelli non muove di un millimetro le sue convinzioni. Non ha partecipato alla seduta comune con il presidente ucraino Volodymyr Zelenskyj, e al segretario del Pd Enrico Letta che gli chiede di dimettersi per opportunità, ha risposto che non lo farà. Infine, risulta assente alla votazione della risoluzione che dà un mandato al governo per il Consiglio europeo di domani.
Un testo che fa emergere tutta la contraddizione interna al M5S sul riarmo. Mario Draghi, alla Camera e in Senato, ha illustrato i punti che si tratteranno al vertice. Tra questi, le spese militari. Il premier ha detto che il governo vuole «adeguarsi all'obiettivo del 2% del Pil che abbiamo promesso alla Nato». Al momento l'Italia spende per armamenti circa l'1,4. Il tema è spinoso. Un ordine del giorno che impegna il governo, senza vincolarlo, ad aumentare la spesa è stato votato quasi all'unanimità alla Camera. Ma il M5S, per volontà del leader Giuseppe Conte, ha fatto sapere che si opporrà in Senato. Su questo, la posizione nel governo si fa complicata. Anche perché da quanto risulta alla Stampa, Draghi vorrebbe segnare una prima indicazione di spesa in più già nel Def, tra una settimana.
Il premier, nella replica ai senatori, prova a ammorbidire l'effetto dell'annuncio e a contestualizzare l'impegno preso con la Ue: «È importante - dice - che questi aumenti vengano annunciati all'interno di una strategia europea e non di una strategia nazionale». La Bussola strategica, documento che delinea le priorità della futura Difea Ue, «è un primo passo». La risoluzione passata ieri in Parlamento, al punto 5, si impegna a implementarla «nel più breve tempo possibile» per rafforzare il coordinamento europeo in collaborazione con la Nato. All'interno della Bussola, che il testo votato anche dai 5 Stelle approva, si prevede però un aumento «sostanziale» delle spese nazionali.
E’ bufera sul grillino ‘dissidente’ Petrocelli. Per Conte: “È fuori dal Movimento 5 Stelle”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Marzo 2022.
Il presidente della Commissione Esteri del Senato, che non vuole lasciare l'incarico, critica la scelta di ospitare in videoconferenza Zelensky in Parlamento, e chiede al suo partito di chiudere con il governo Draghi. L'ex premier: "Fraintende la linea del Movimento".
“Se lui dichiara questo oggi, a dispetto del ruolo che ha avuto sin qui in commissione, evidentemente si pone fuori da M5s, per scelta personale”. Le parole sono del presidente di M5s, Giuseppe Conte, a “Porta a porta” su RAIUNO , commentando le dichiarazioni del Sen. Vito Petrocelli, attuale presidente della commissione Esteri del Senato, il quale ha dichiarato di non voler più votare la fiducia al Governo, in dissenso alla linea adottata nel conflitto in Ucraina.
Conte ha aggiunto su Petrocelli : “fraintende la linea di M5s: non siamo stati mai mediatori, abbiamo avuto sempre una posizione di parte. Non si puo’ essere a meta’ strada in un conflitto del genere”. Su Vito Petrocelli si addensano adesso le ombre di una crisi interna alla maggioranza. Il presidente della Commissione Esteri del Senato, è fortemente critico con la scelta di ospitare in videoconferenza il presidente Ucraino in Parlamento, chiede al suo partito di chiudere con il governo Draghi: “Penso che per il M5S sia arrivato il momento di ritirare ministri e sottosegretari dal governo Draghi. Questo governo ha deciso di inviare armi all’Ucraina in guerra, rendendo di fatto l’Italia un paese co-belligerante”.
Tutto ciò dopo le esternazioni contro la risoluzione bipartisan per gli aiuti all’Ucraina e mentre Petrocelli si prepara a presiedere i lavori della commissione del Senato sul decreto Ucraina. Di più: mentre la commissione è riunita, il senatore annuncia che non voterà più la fiducia al governo Draghi. Ce ne è a sufficienza da provocare la reazione di parti della maggioranza, a cominciare da Italia Viva che chiede ai vertici del Movimento 5 Stelle di prendere le distanze e al senatore di dimettersi dal suo incarico.
“I vertici del M5S si dissocino dalle gravissime parole di Vito Petrocelli riguardo al ritiro dei ministri e sottosegretari a un governo italiano definito ‘interventista’ che sta giustamente difendendo i valori della democrazia incarnati dalla eroica resistenza del popolo ucraino”, afferma la vice presidente dei senatori di Italia Viva, Laura Garavini.
Un richiesta alla quale si è unito anche il senatore dem, Andrea Marcucci: “La posizione del presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, non è più sostenibile. Il M5S deve assumere una decisione”. Da Azione, è il deputato Osvaldo Napoli a sottolineare che Petrocelli “apre una grave questione politica nella maggioranza e la soluzione può venire soltanto da un’iniziativa del leader Cinquestelle Giuseppe Conte”.
Anche perchè Petrocelli non ha alcuna intenzione di dimettersi. “Non intendo lasciare la presidenza della commissione Esteri”, ed aggiunge: “Credo di poter portare, come ho fatto in tre anni con tre maggioranze diverse, anche quando non condividevo passaggi di quelle maggioranze, la voce del governo in carica in ogni consesso internazionale, come farò anche lunedì a Washington“.
Il deputato Osvaldo Napoli osserva che “è il leader del M5s che deve prendere la situazione di petto e provocare le dimissioni di Petrocelli”, e suggerisce ancora: “Se poi non vuole espellerlo dal partito, vorrà dire che aggiungerà un’altra contraddizione alle tante del movimento. Ma Petrocelli non può rimanere un minuto di più alla guida della Commissione. Nè Conte può traccheggiare oltre”, conclude l’esponente di Azione.
L’espulsione è, in ogni caso, una possibilità che Petrocelli ha bene presente. “Il Movimento 5 Stelle prenderà una decisione, può decidere di espellermi. Il presidente Conte può fare quello che vuole. Vogliono espellere un senatore perchè non vota per l’invio di armi a un Paese in guerra? Vedano loro quali sono le conseguenze“.
I vertici del Movimento Cinque Stelle in forte imbarazzo cercano di minimizzare: “Quelle del senatore Petrocelli sono considerazioni personali che non rappresentano la posizione del M5S“, spiega il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà. che aggiunge “Le posizioni del M5S sono quelle indicate da Conte, siamo qui per lavorare“.
Nel frattempo, però, il volto segnato dalla stanchezza del presidente ucraino comparso sugli schermi piazzati nell’Aula di Montecitorio, l’appello è a non lasciare solo il popolo ucraino. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, conferma l’aiuto da parte del governo italiano, auspica l’ingresso dell’ Ucraina nell’ Unione Europea, sebbene non dimentichi di segnalare che c’è un iter da seguire. Gli assenti non mancano, è vero, ma si tratta in gran parte di assenze “giustificate”. Vito Petrocelli è fra questi. “Vengo, non vengo ad ascoltare Zalensky. Indecoroso balletto. Disonorevole scelta”, osserva il segretario Pd, Enrico Letta, senza citare il senatore M5s. Redazione CdG 1947
I partiti di maggioranza chiedono le dimissioni. Il ‘putinista’ Petrocelli spacca il Movimento 5 Stelle sull’Ucraina: “Fuori da questo governo interventista”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 22 Marzo 2022.
“Fuori da questo governo interventista, che vuole fare dell’Italia un paese co-belligerante”. Con poche ma nette parole Vito Petrocelli, il senatore putinista del Movimento 5 Stelle presidente della Commissione esteri di Palazzo Madama, aspre uno squarcio importante all’interno del mondo pentastellato.
La posizione del senatore lucano sul conflitto in Ucraina, scatenato dall’invasione avvenuta quasi un mese fa dalle forze armate di Vladimir Putin, non è infatti isolata: nell’Aula della Camera che oggi ha ospitato in videocollegamento il presidente ucraino Volodymyr Zelensky non c’era la grillina Enrica Segneri, così come gli ex pentastellati ora passati nel gruppo di ‘Alternativa c’è’ in dissenso con l’appoggio del Movimento al governo Draghi, ma anche alcuni ex pentastellati usciti dal partito per passare in altri lidi, come Veronica Giannone, Matteo Dall’Osso ed Emanuele Dessì.
La richiesta di uscire dal governo era stata spiegata questa mattina da Petrocelli all’Agi. “Che senso ha confermare la fiducia ad un governo interventista? La maggioranza degli italiani non vuole alcun coinvolgimento del nostro paese in una guerra dagli esiti imprevedibili. Invito tutti i colleghi 5 stelle ad una riflessione su questa proposta”, era stato l’appello del senatore, che annunciava contemporaneamente che “da questo momento io non gli darò più la fiducia”.
All’interno del Movimento si tenta quindi di abbassare i toni, con la capogruppo al Senato Mariolina Castellone che definisce quella di Petrocelli “una posizione personale”. “Poi si vedrà quando ci sarà il voto (sul decreto Ucraina, che sarà esaminato a breve al Senato, ndr). Lui prenderà le sue decisioni. È chiaro che se voterà in maniera diversa rispetto al gruppo su una fiducia, è un problema. In quel caso sono previste sanzioni, poi vedremo”, sono le parole all’Ansa di Castellone.
Sulla stessa linea anche il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Federico D’Incà, che giudica quelle di Petrocelli “considerazioni personali e lui esprime le proprie riflessioni”. Per il ministro pentastellato infatti “non c’è dubbio sulla posizione del nostro Paese: una condanna dell’aggressione russa e di una ricerca in tutti i modi di una soluzione di pace. Una tregua prima e un tavolo poi per mettere assieme le persone, anche con un percorso di pace come indicato da Zelensky. La posizione è quella indicata da Conte”.
Petrocelli che, scrive l’Ansa, avrebbe confermato il suo voto contrario al decreto Ucraina “e non so se sarò espulso dal Movimento 5 Stelle“, come riferito da più fonti parlamentari durante la seduta comune delle commissioni esteri e Difesa in corso a Palazzo Madama, confermando però di non avere alcuna intenzione di dimettersi.
Ma dagli altri partiti e anche all’interno del Movimento si moltiplicano le richieste di dimissioni dalla carica di Presidente della Commissione esteri di Palazzo Madama. In coro l’hanno chiesta il senatore del Pd Andrea Marcucci, che chiede al Movimento di “assumere una decisione” in merito, ma anche la senatrice di Forza Italia Stefania Craxi, che è vice presidente della Commissione: “Le odierne dichiarazioni di Petrocelli palesano una sostanziale incompatibilità tra il suo ruolo e le sue idee, una posizione aggravata per giunta da una dichiarazione di dissenso totale dalla linea non solo della maggioranza di governo e della stragrande maggioranza parlamentare, ma della totalità dei membri della Commissione esteri del Senato”.
Ma contro Petrocelli si esprime anche il suo compagno di partito, il deputato Gianluca Vacca: “Dovrebbe prendere seriamente in considerazione le dimissioni dalla Presidenza della Commissione Esteri del Senato”, spiega all’Adnkronos.
Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia
Vito Petrocelli, lo strano caso del geologo amico del nemico di palazzo Madama. Il presidente della Commissione Esteri della Camera, annuncia il voto contrario al suo stesso governo. Elogia Putin e vuole un gemellaggio con la commissione russa. Tutti ne chiedono le dimissioni, ma lui, benignamente, se ne fotte...
Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 05 marzo 2022
Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...
Il senatore pentastellato Vito Petrocelli – eterna grisaglia che si confonde con l’ambiente, mai un sorriso, faccia triste da italiano in gita tra le brume di Leningrado- , di professione vera, sarebbe geologo. Risulta dunque avvezzo alla seduzione del sisma.
lo si è visto nei principali Tg, a Rai Parlamento, nei talk show di approfondimento (comparve per la prima volta a La7 in un'intervista stradale di Ivo Mej mi pare a Coffee Break) a Per lui i terremoti istituzionali, i lapilli ideologici e le eruzioni sintattiche fanno parte del carattere. E sarà per questo che Vito, nel mezzo del massacro della guerra d’Ucraina, oggi risulta l’unico parlamentare della maggioranza ad essere fieramente “contro”. “Contro” tutto. “Contro l’invio di armi” a Kiev, contro l’assurdo accanimento verso quel galantuomo di Putin, contro il suo stesso leader Conte che presterebbe la pochette all’abito propagandistico dell’Occidente. Vito, per capirci, è quello che ammoniva via Twitter, soltanto il 21 febbraio scorso, “Vi ricordiamo che la Russia non ha mai attaccato nessuno nel corso della sua storia. E la Russia, sopravvissuta a tante guerre, è l'ultimo Paese in Europa che vuole parlare, anche pronunciare la parola guerra…”. E, infatti, s’è visto. Vito è quello che, tenacemente, definiva il dissidente Aleksej Navalnj chiuso da Putin nelle patrie galere senza un perché, “un blogger del piffero”. Vito colui il quale tentava di convincere i colleghi del Movimento a Bruxelles a non votare la risoluzione contro le repressioni cinesi a Hong Kong.
Sì, è questa la fascinosa antropologia che lo contraddistingue: Vito non è solo filorusso, è filorusso, filocinese e atlantista al tempo stesso in un funambolico esercizio di torsione geopolitica. E se gli fai notare la contraddizione sul suo fondamentale pensiero (“A differenza di altri non devo ogni volta ribadire la mia fede filoatlantica, ma penso che proprio all’interno del campo occidentale l'Italia debba essere il miglior riferimento per Russia, Cina e Iran"), be’, lui ti risponde citando il paradosso della Fiat che, insomma, costruì uno stabilimento a Togliattigrad e nessuno ebbe a che dire. Ci sarà un motivo, se le cronache parlamentari lo ricordano come il primo capogruppo della storia espulso da un’aula parlamentare, l’8 ottobre 2014, nel corso della dura contestazione a Ministro del Lavoro Poletti in merito al Jobs Act. Come punizione, l’hanno promosso.
Ora, nel nome della libertà d’espressione, sarebbe anche tollerabile, questa sua paradisiaca visione del comunismo; se non fosse che Petrocelli è, accidentalmente, anche il Presidente della Commissione Esteri del Senato. Quindi teoricamente oggi abbiamo come “numero tre dei Cinque Stelle in politica estera” -dopo il ministro Di Maio e il sottosegretario Di Stefano- un fan accanito di Vlad Putin, mentre il resto del mondo gli rema contro. Certo, uno dice, le idee del senatore, in fondo, sono note a tutti. Petrocelli, classe 64’, lucano e pugliese al tempo stesso, sposato con due figli, eletto al ballottaggio battendo la collega di partito la “liberal” Nunzia Catalfo, viene dalla militanza nei Carc. Ossia del partito maoista e marxista-leninista tra i più oltranzisti della microgalassia comunista italiana e che a sorpresa nel 2013, come organizzazione, appoggiò i 5 Stelle. E sin dalla sua entrata in Parlamento –dopo viaggi in Russia e gli indimenticati pranzi all’ambasciata moscovita- l’uomo ha sempre agevolato il “soccorso rosso”, le ratifiche di norme vicino agli interessi sia cinesi che russi. In pratica, Petrocelli è una sorta di ibrido tra Il Peppone di Guareschi, l’Armando Cossutta della Rifondazione Comunista dura e pura e il Mario Capanna barricadero del ’68. Compagni dei campi e delle officine.
Tra l’altro, nel suo amore incondizionato per Xi Jingping, Petrocelli è pure un tantino negazionista. Per esempio ritenne “assurda” la previsione del direttore di Repubblica Maurizio Molinari sull’invasione putiniana. Per esempio, sul genocidio culturale della minoranza uigura in Cina, dichiarò: “"No, non credo che si possa parlare di genocidio, come non credo che vengano sterilizzate milioni di donne. Non c'è alcuna pulizia etnica. Mi piacerebbe portare una delegazione parlamentare nello Xinjiang, di modo che ciascuno possa giudicare con i propri occhi". Vito ha una passione per la Via della Seta, la Vodka, gli oligarchi e gli involtini Primavera, ma maldigerisce il suo incarico istituzionale; al punto da invocare la “libertà di coscienza” sul voto per l’invio di armi in Ucraina, e da votare contro. Ora, pur trovandone vergognosa la condotta in aula, il suo ministro Di Maio, non può tecnicamente rimuoverlo; né il suo Presidente Conte, a causa del vuoto statutario del Movimento, può sanzionarlo. Tra l'altro, ora Vito popone un gemellaggio tra la Commissione Esteri russa e la nostra; il che sarebbe una follia, se Vito non avesse proposto lo stesso giochino con l'Iran (dove era andato in visita ufficiale pagato da noi, ovviamente da solo). Insomma, dopo tutto questo, che l'uomo sia ancora lì è una cosa che spiazza
E lui, ovviamente non ha la minima intenzione di sbullonarsi dallo scranno. Il geologo Petrucelli è uno studioso delle faglie; la sua, oramai, è grande come la pazienza dei suoi elettori…
Da huffingtonpost.it il 24 aprile 2022.
"Per domani buona festa della LiberaZione...". Il tweet di Vito Petrocelli alla vigilia della celebrazione del 25 aprile scatena la reazione delle forze politiche che tornano a chiedere un suo passo indietro. Il presidente della Commissione Esteri del Senato scrive in maiuscolo la Z, la lettera che è diventata il simbolo dell'offensiva russa in Ucraina.
"Vito Petrocelli è fuori dal Movimento 5 Stelle". Lo annuncia su twitter il leader pentastellato Giuseppe Conte. "Stiamo completando la procedura di espulsione. Il suo ultimo tweet è semplicemente vergognoso. Il 25 aprile è una ricorrenza seria. Certe provocazioni sono inqualificabili", aggiunge ancora.
M5S, la Z negli auguri di Petrocelli per il 25 aprile: "Buona festa della LiberaZione". Conte: "Vergognoso". La Repubblica il 24 Aprile 2022.
Il presidente della commissione Esteri del Senato, noto per le sue posizioni apertamente filo-Cremlino, usa su Twitter il simbolo della guerra per la Russia. Il leader del Movimento replica: "Provocazioni inqualificabili, stiamo completando la procedura di espulsione" dal partito.
Verniciata sui carri armati. Scritta col gesso sui mezzi blindati e sui camion militari russi che hanno invaso l'Ucraina. A Mosca è comparsa sulla fiancata delle auto, sui cartelloni pubblicitari e sulle bandiere sventolate dai seguaci di Vladimir Putin. Una Z maiuscola è diventata il simbolo della guerra per la Russia. Oggi, però, a usarla sui social è stato Vito Petrocelli, senatore M5S e presidente della commissione Esteri di Palazzo Madama, noto per le sue posizioni apertamente filorusse.
Alla vigilia di un 25 aprile su cui il dibattito nei giorni scorsi è stato già decisamente acceso, quella Z Petrocelli l'ha infilata - incastonata ma ben visibile - in una frase di augurio inviata pubblicamente via Twitter: "Buona festa della LiberaZione", si legge nel post.
A stretto giro, la presa di posizione di Giuseppe Conte, leader del Movimento: "Vito Petrocelli è fuori dal Movimento 5 Stelle. Stiamo completando la procedura di espulsione. Il suo ultimo tweet è semplicemente vergognoso. Il 25 aprile è una ricorrenza seria. Certe provocazioni sono inqualificabili".
Tra le repliche al post di Petrocelli c'è chi subito risponde "buona festa di Liberazione denazificata", riportando quella "z" alla sua originaria versione minuscola, e chi gli scrive sinteticamente "mercante di Z". E dal Pd arriva la reazione: "Basta con queste continue provocazioni - afferma il capogruppo dem in commissione, Alessandro Alfieri -. Si è passato il segno. È ora che intervenga la presidente del Senato, Elisabetta Casellati".
Le ultime vicende legate a Petrocelli sono note: dopo l'invasione della Russia in Ucraina, due mesi fa, nel Movimento e nella maggioranza di governo sono esplose le polemiche sul parlamentare pentastellato amico del Cremlino: Petrocelli, infatti - in politica estera vicino alla Cina e con ottimi rapporti anche con Mosca - lo scorso 31 marzo ha votato no alla fiducia sul decreto Ucraina. Una posizione, rivendicata più volte dal senatore, che ha aperto un fronte, su cui ancora si continua a dibattere, in merito alla sua espulsione dai 5S.
Quanto al significato della Z, nelle scorse settimane un programma del Primo Canale della tivù di stato di Mosca aveva spiegato che si tratta di un distintivo abbastanza comune in unità militari russe. Un veterano, Sergej Kurkin, aveva rivelato su un sito russo che simboli del genere aiutano le truppe a riconoscersi sul campo di battaglia. Un sito russo-ortodosso pro-Putin, Tsargrad, aveva poi confermato che la Z serve ad aiutare i soldati a non diventare vittime del "fuoco amico" in un conflitto.
La “Z” negli auguri per il 25 aprile del senatore Petrocelli . Conte lo espelle dal M5S. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 24 Aprile 2022.
Il presidente della commissione Esteri non ha mai nascosto le simpatie filo russe: «Buona festa della LiberaZione». Immediata la presa di posizione del presidente del Movimento, Giuseppe Conte, che ha annunciato via Twitter l’espulsione del parlamentare.
“Buona festa della LiberaZione”. Con questo gioco di parole a dir poco vergognoso Vito Petrocelli, senatore del Movimento 5 Stelle, ha voluto celebrare pubblicamente il 25 aprile: utilizzando la Z maiuscola “simbolo” della guerra della Russia all’ Ucraina. Una lettera verniciata , la “Z” sui carri armati e sui mezzi blindati che stanno occupando l’Ucraina seminando morti civili e militari, distruzioni, stupri e furti nelle abitazioni civili.
Petrocelli, presidente della commissione Esteri di Palazzo Madama, è noto da tempo per le sue posizioni apertamente “filorusse”. E anche per questo c’è chi al tweet del senatore non ha tardato a rispondere: “buona festa di Liberazione denazificata“, riportando quella “Z” alla sua originaria versione minuscola. Altri, più sinteticamente gli hanno lo hanno definito “mercante di Z”.
58 anni, geologo lucano, in Parlamento dal 2013 dopo un passato nella sinistra extraparlamentare, era già stato investito dalle polemiche un mese fa: senza mai dimettersi dal ruolo che ricopre in quanto esponente di un partito di maggioranza, invocava l’uscita del Movimento dal «governo Draghi interventista che vuole fare dell’Italia un paese cobelligerante». Immediata la richiesta di dimissioni dall’incarico “incompatibile con la posizione che esprime”, avanzata prima di tutto da Italia Viva ma poi da tutti gli altri partiti della maggioranza. Ma Petrocelli non ci pensò nemmeno per un momento: «Non intendo lasciare la presidenza della commissione. Non voterò più la fiducia al governo, su nessun provvedimento. L’atteggiamento del governo sulla guerra è la goccia che fa traboccare il vaso, perché ormai considero le politiche del governo Draghi su esteri e difesa molto lontane dal programma del Movimento 5 Stelle».
Due mesi fa subito dopo l’invasione della Russia in Ucraina, nel Movimento 5 Stelle e nella maggioranza di governo erano esplose le polemiche sul parlamentare “pentastellato” amico del Cremlino. Petrocelli, in politica estera era vicino alla Cina e con ottimi rapporti anche con Mosca, arrivando a votare lo scorso 31 marzo contro la fiducia al Governo Draghi sul decreto Ucraina.
«Basta con queste continue provocazioni – commenta all’Agi l’esponente del Pd Alessandro Alfieri capogruppo dem in Commissione Esteri. “Si è passati il segno. E’ ora che intervenga il presidente del Senato Casellati“. Immediata anche la presa di posizione del presidente del Movimento, Giuseppe Conte, che ha annunciato via Twitter l’espulsione del parlamentare.
Oggi alle porte della festa della Liberazione dal nazifascismo che l’Italia si appresta a celebrare inevitabilmente ricordando la resistenza ucraina, che prosegue ormai da due mesi, arriva il nuovo tweet vergognoso di Petrocelli con un palese sostegno all’«operazione militare speciale», come la definisce il leader russo, di Putin. “Il suo ultimo tweet è semplicemente vergognoso — replica sempre via twitter Conte —. Il #25aprile è una ricorrenza seria. Certe provocazioni sono inqualificabili”.
Prende posizione contro Petrocelli anche la vicepresidente del Senato Paola Taverna esponente del M5S: «Sinceramente non ho più parole. Quella tua Z offende chi lotta oggi e chi ha lottato ieri. Quella Z offende la libertà, offende i valori su cui si fonda la nostra democrazia, offende chi è morto per la libertà, anche per la tua. Offende te, senatore della Repubblica nata dalla Resistenza».
Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 5 marzo 2022.
E Vauro se la prese con Formigli che attaccò Giulietto Chiesa; e Vauro litigò poi con Caprarica che a sua volta bisticciò con Paolo Ferrero. Che alla fiera dell'Est (Europa) mio padre comprò. Giornalisti, vignettisti e commentatori rossi stanno dando prova, in questi giorni, del doppio male da cui sono affetti di solito i partiti di sinistra: il tafazzismo e il correntismo.
E cioè, sono autolesionisti e si dividono su un ex (o forse ancora) comunista come Putin. D'accordo, stiamo parlando di farsa a fronte della tragedia che si sta consumando in Ucraina. Però si tratta di uno scenario intrigante: finché a spaccarsi sono le formazioni politiche di sinistra non c'è notizia, visto il loro talento nel creare scissioni, tra correnti, personalismi e vendette.
Ma che a lacerarsi siano gli intellettuali o presunti tali è cosa piuttosto inedita, considerata l'immagine di solidità, di blocco unico (sovietico, saremmo tentati di dire), che quel mondo trasmette usualmente in ambito culturale, esercitando la rinomata egemonia. E invece ora, a causa di Putin, quel Monopensiero rosso si sta incrinando e conosce distinguo e defezioni. In particolare si generano due battaglioni l'un contro l'altro armati: da un lato i filo-occidentali, dall'altro i "ma-anchisti" che non stanno con Putin ma neppure con la Nato.
Caso Petrocelli, infuria la protesta in Senato: cosa succede. Francesca Galici il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.
Espulso dal Movimento 5 stelle per le sue posizioni filo-russe, Vito Petrocelli non è intenzionato a lasciare la poltrona di presidente della Commissione esteri.
Quello del senatore Vito Petrocelli non è più solo un caso interno al Movimento 5 stelle. Al Senato ora si chiede di valutare l'espulsione dell'ormai ex esponente pentastellato, tanto che tutti i gruppi hanno inviato una richiesta di incontro al presidente Elisabetta Casellati per valutare le condizioni per risolvere quello che per tutti è diventato un nodo da sciogliere nel più breve tempo possibile. Il Movimento 5 stelle ha annunciato di voler espellere il senatore per le sue posizioni filo-russe ma l'allontanamento dal suo partito di elezione non implica altre conseguenze.
Durante la riunione dei capigruppo della commissione Esteri, tutte le forze politiche hanno contattato gli uffici della presidente del Senato. Anche Fratelli d'Italia, più importante gruppo dell'opposizione, si sarebbe unita alla richiesta fatta dai partiti governativi. L'aspetto più importante per il quale si richiede la massima urgenza di intervento riguarda la presidenza della Commissione esteri, che attualmente è in mano proprio a Vito Petrocelli, al quale tutti i gruppi hanno chiesto le dimissioni per permettere alla commissione di poter svolgere il suo lavoro, finora impossibile da portare avanti in queste condizioni.
"Al di là dei regolamenti, credo che ci sia una grossa questione politica: non si può restare a capo di una commissione così importante a dispetto del proprio gruppo, della maggioranza e della opposizione. Le sue dimissioni sono l'unica conclusione, rapida e concreta, a questa vicenda", ha detto al termine della riunione dei capigruppo Luca Ciriani, capogruppo di FdI a Palazzo Madama. L'esponente del partito di Giorgia Meloni ha aggiunto: "Serve una sua presa di responsabilità, ricordo che loro, i 5 stelle di cui fa parte Petrocelli o ne faceva parte, partivano dal non attaccamento alle poltrone, serve un gesto di buon senso, lasci la presidenza, e aiuti le istituzioni ad andare avanti".
A Palazzo Madama le acque sono molto agitate nelle ultime ore e il caso Petrocelli rischia di diventare un precedente importante. Anche Giuseppe Conte è intervenuto nelle ultime ore per spiegare quali sono i passi che sta compiendo il Movimento 5 stelle in merito: "C'è una riunione dell'assemblea del Gruppo al Senato per una modifica del regolamento, che consentirà anche l'espulsione dal Gruppo del senatore Petrocelli. Ho chiesto anche conferma del mandato per deferirlo al Collegio dei probiviri per l'espulsione dal Movimento". Inoltre, il leader dei pentastellati ha ripreso la strada delle dimissioni in blocco di tutti i componenti della Commissione esteri, nel caso in cui Vito Petrocelli non dovesse lasciare il suo posto: "Questa è una decisione che va presa con gli altri gruppi politici perché deve essere una decisione collettiva. Valuteremo tutte le iniziative utili per assicurare alla Commissione Esteri del Senato la piena funzionalità".
Stefania Craxi è la nuova presidente della Commissione Esteri del Senato. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Maggio 2022.
Prende il posto del senatore M5s Vito Petrocelli con 12 voti a favore, 9 i contrari e un astenuto. Forza Italia ottiene così la presidenza di una commissione di Palazzo Madama
ÈStefania Craxi la nuova presidente della commissione Esteri del Senato. Sono stati 12 i voti a favore, nove i contrari e un astenuto. La senatrice azzurra prende così il posto del pentastellato Vito Petrocelli, alla guida della terza commissione di palazzo Madama. La Craxi ha prevalso sul grillino Ettore Licheri, che ha avuto 9 preferenze, contro i 12 voti ricevuti da Craxi. Forza Italia ottiene cosi’ la presidenza di una commissione: finora non ne aveva in Senato. Per lei voto del centrodestra, per il pentastellato le preferenze del suo gruppo e del Pd, a decidere i voti del misto. Il tutto a scrutinio segreto (1 scheda bianca). Un primo voto non era andato a buon fine, con la senatrice berlusconiana ferma a quota 11. Poi l’elezione.
Una nuova sconfitta per il Movimento Cinque Stelle, dopo il caso del presidente Vito Petrocelli filoputiniano e le dimissioni della commissione per farlo decadere. Fuori di se il leader Cinque Stelle Giuseppe Conte, che ha convocato un consiglio nazionale straordinario. “Registriamo che di fatto si è formata una nuova maggioranza da FdI a Italia viva. L’opposizione di FdI è molto anomala (…) ieri avevamo avvertito il presidente del Consiglio e il governo, perché ieri si è capito che si stava lavorando in modo surrettizio a violare patti regole e accordi“, ha detto il leader M5S, “quindi è stato avvertito il presidente del Consiglio e spetta innanzitutto a lui prendere atto della responsabilità di tenere in piedi questa maggioranza“.
A quota “una presidenza” di commissione, anche il gruppo Misto che guida la commissione Ambiente con Vilma Moronese. Le altre presidenze sono 4 del M5s, dopo aver perso quella degli Esteri in mano a Vito Petrocelli; 4 del Pd; 2 della Lega e altrettante di Italia viva. Craxi è stata eletta con 12 voti su 22 e con scrutinio segreto. Il dato più verosimile mette in fila i consensi di Lega-FI-FdI per la Craxi, cui si sarebbero aggiunti 3 voti del Misto e quello – a sorpresa – di Dessì di Cal.
Figlia dell’ex segretario socialista Bettino Craxi, Stefania Craxi ha 61 anni, imprenditrice, produttrice televisiva, è stata eletta nel 2006 alla Camera nelle liste di Forza Italia, venendo rieletta alle politiche del 2008 con Il Popolo della libertà. Nominata sottosegretario di Stato agli Affari Esteri con la nascita del governo Berlusconi IV, nel 2011 si iscrive al gruppo Misto. Impegnata con i Riformisti italiani in cui confluiscono i Socialisti italiani-Psi, nel dicembre 2013 Stefania Craxi riprende il rapporto e la collaborazione con la nuova Forza Italia e Silvio Berlusconi. Eletta senatrice nel 2018, diventa vicepresidente della commissione Esteri.
“Con onore e con grande senso di responsabilità mi accingo a ricoprire, in questo scorcio di legislatura, il ruolo di presidente della Commissione esteri del Senato, in uno scenario internazionale delicato che non consente tentennamenti ed equivoci di sorta e richiede al contempo un surplus di diplomazia”. Così Stefania Craxi, senatore di Forza Italia (FI) ha commentato la sua elezione a presidente della Commissione Affari Esteri.
“La politica estera di un grande Paese come l’Italia, per ragioni valoriali e culturali, ancor prima che storiche e geopolitiche, non puo’ non avere chiari connotati atlantici, un atlantismo della ragione che non ammette deroghe ma non accetta subalternità – prosegue -. È in questo contesto che dobbiamo avere l’ambizione di essere protagonisti di pace, ricoprendo un ruolo guida sul fronte Sud e nelle acque inquiete del Mediterraneo allargato“.
Antonio Tajani coordinatore nazionale di Forza Italia, ha commentato l’elezione: “Congratulazioni a Stefania Craxi eletta Presidente della Commissione Affari esteri del Senato. Un ruolo molto importante e delicato, soprattutto in questa fase storica. Persona autorevole e competente saprà svolgere al meglio il suo lavoro. Auguri!“. Matteo Salvini, leader della Lega, ha scritto su Twitter: «Buon lavoro Stefania Craxi: felice che sia tu a guidare la Commissione Esteri nel nome dell’equilibrio, del buonsenso e della Pace».
Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 19 maggio 2022.
Quando si dice un caratterino. Stefania Craxi, eletta presidente della commissione Esteri del Senato come esito dell'ultimo suicidio cinque stelle, è solo un pochino meno tosta di suo padre, a cui da oltre vent' anni ha dedicato ogni sua opera e ogni moto dell'animo, compreso il risentimento, che sul piano umano si può capire, ma in politica è alla lunga un ingombro paralizzante.
Sia come sia, i senatori grillini di qualsiasi osservanza impareranno presto a conoscerla; ma fin da ora è bene siano consapevoli che Craxi certamente non avrà dimenticato l'aspro commento piovutole addosso da qualche blog delle stelle o Rousseau in occasione del ventennale della morte di Bettino (come lei continua a chiamarlo per rimarcare la propria "distanza emotiva"): «Beatificano un latitante condannato per corruzione».
Ecco, come ovvio si tratta di faccende delicate, tanto più in uno scenario che, ormai quasi del tutto alieno da ideali e progetti, pone l'elemento personale al centro della contesa, e qui si ritorna al caratterino di Stefy, come d'altra parte al disastro umano entro il quale si va consumando fra sospetti e rancori l'evidente dissoluzione dei cinque stelle.
Così chi vuol bene a Stefania Craxi potrà dire, col sussidio dei proverbi, che buon sangue non mente, nel senso che ha ereditato moltissimi tratti paterni: coraggio, testa dura, gusto per la battaglia, oltre a una certa imprevedibilità.
Mentre chi non le vuol bene, o ne teme la forza d'urto, trova facile notare con quanta rapidità quelle stesse attitudini si trasformino in superbia, umoralità e tracotanza - ciò che non ha aiutato l'ultima fase del ciclo politico del craxismo.
In entrambi i casi la politica-politica appare comunque un'entità abbastanza remota dall'incidente parlamentare che ha generato l'elezione. Fin troppo complicato, oltre tutto, anche dopo tanti anni qualificare in termini storici e culturali a quale mondo abbia fatto riferimento la stessa figura di Bettino Craxi. Fu un socialista? Si, ma non solo. Un riformista? Chissà, forse, dipende. O magari un proto- sovranista? E qui per certi versi la risposta potrebbe essere affermativa, ma a patto di includere nella categoria anche un certo numero di democristiani, a partire da Enrico Mattei.
Ieri Stefania stessa si è designata "atlantista" e ha voluto aggiungere: come mio padre. Ma se la definizione, per quanto iper-semplificata, funziona certamente per la fine degli anni 70 e nei confronti del mondo sovietico (vedi l'intervento decisivo del leader del garofano nella dislocazione degli euromissili), è anche vero che alla metà degli anni 80 la chiara scelta di campo di Craxi a favore dei palestinesi e del mondo arabo (Gheddafi avvisato del blitz aereo Usa) e la più conclamata fermezza dimostrata nella vicenda dell'Achille Lauro e di Sigonella, non sembrarono, almeno agli occhi di Washington, la più specchiata prova di fedeltà o acquiescenza atlantica.
Fu in ogni caso un padre difficile, fin troppo preso dalla sua missione politica e quindi portato a muoversi in famiglia come - l'ha definito lei - «un elefante in una collezione di cristalli». Stefania gli è stata vicina fino all'ultimo, poi le si deve in gran parte il riscatto della figura storica e della memoria ottenuti a suon di anniversari, convegni, cerimonie, libri, mostre d'arte, film, spettacoli teatrali, senza contare la Fondazione Craxi.
Forse era anche destino che la Prima Repubblica s' incrociasse con la Terza e in particolare con i cinque stelle; e anche se queste combinazioni e sovrapposizioni lasciano il tempo che trovano, viene da pensare a quando - era il novembre 1986 - in prima serata Grillo osò raccontare una barzelletta anticraxiana che gli costò l'allontanamento perpetuo dalla Rai. A riprova che tutto un po' torna, in Italia, ma al tempo stesso scivola nell'oblio.
Stefania Craxi, quando la nuova presidente della commissione Esteri elogiava Putin. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 18 maggio 2022
Il Movimento 5 stelle ha perso la presidenza della commissione dopo che si sono dimessi tutti per fare andare via Petrocelli perché troppo vicino a Mosca. La senatrice di Forza Italia raccontava a Piazza Craxi che «la Crimea è da sempre stata terra russa»
Si è aperto un nuovo caso all’interno della maggioranza Draghi. La senatrice di Forza Italia Stefania Craxi è diventata la nuova presidente della commissione Esteri del Senato con 12 voti. Solo 9 per il pentastellato Ettore Licheri. La commissione che ha fatto di tutto per cacciare Vito Petrocelli per allontanare il presidente filo Putin, ha lasciato spazio alla forzista a sua volta vicina a Mosca e il Movimento 5 stelle ha perso la presidenza. La sintesi l’ha offerta il politico di lungo corso di scuola democristiana Pierferdinando Casini, membro della commissione: «Craxi promossa» e «maggioranza bocciata». Lui l’unico astenuto.
CRAXI COME BERLUSCONI
Nel 2016 presentava il libro del direttore del Tg2 Gennaro Sangiuliano “Putin, vita di uno Zar”. Il giornalista ha dimostrato spesso posizioni morbide con Mosca. A “Piazza Craxi”, riportava il sito Formiche, Stefania Craxi raccontava che Putin ha il merito storico «di aver ridato orgoglio e identità alla Russia, è riuscito a riplasmare un’identità nazionale forte, in cui tutti possono ritrovarsi, che tiene insieme lo stemma e il nastrino zarista, l’inno sovietico con la vecchia musica e nuove parole».
La senatrice se la prendeva anche con il governo italiano che «non ha fatto nulla contro il dissolvimento del progetto del gasdotto Southstream», gasdotto che avrebbe collegato l’Italia alla Russia senza passare dall’Ucraina.
Berlusconi oltre ad avere intrattenuto rapporti personali e politici con Putin sin dal 2001, nel 2009 benedì il nuovo memorandum per proseguire il progetto con il presidente russo e gli amministratori delegati delle società, Eni e Gazprom. Alla fine non arrivò a nulla perché sia la Commissione europea, sia gli Stati uniti, ritenevano l’opera strategicamente troppo filorussa.
Politica energetica e non solo. Craxi per buona misura era anche contro le sanzioni a Mosca per l’occupazione della Crimea nel 2014, per lei «la Crimea è stata da sempre una terra russa».
L’approccio mercantile nella politica estera è destinato a essere fallimentare, rilevava la senatrice. Per Craxi, bisogna domandarsi «come è stato possibile» spingere Mosca «fra le braccia» di Pechino. Una linea perfettamente berlusconiana. Recuperare un rapporto con la Russia «è fondamentale per noi» ha proseguito Craxi, adducendo l’importanza per il tessuto economico e produttivo italiano. «Sono convinta che fra i tanti scenari possibili, stiamo andando verso un nuovo bipolarismo globale», in cui scegliere da che parte stare, ha detto ancora.
I RAPPORTI CON MOSCA
Fino al 2021, si trova sull’agenzia Nova, Craxi predicava la necessità di recuperare i rapporti con la Russia: «È fondamentale per l’Italia e l’Europa» affermava da vicepresidente della commissione Affari esteri al convegno “Il 1991 e l’Europa a trent’anni dal crollo dell’Urss”.
Il padre, Bettino Craxi (fuggito ad Hammamet dopo essere finito nello scandalo di Tangentopoli) raccontava, è fra le personalità che hanno lavorato maggiormente «per arrivare al crollo del Muro di Berlino». Non solo: «Sul grande scacchiere internazionale non siamo noi come Italia, e tantomeno l’Europa, a dare le carte».
A livello europeo, prima della difesa comune è necessaria una politica estera comune, ricordava. Sempre in tema di Unione europea, Craxi ha lanciato l’allarme sulla politica mercantilista, che mette le questioni economiche e commerciali prima di quelle strategiche, e sulla «sfida epocale» con la Cina.
LE REAZIONI
Dopo l’elezione, Craxi ha assicurato che sarà «atlantista». Lo scenario internazionale, ha scritto in una nota, «non consente tentennamenti ed equivoci di sorta e richiede al contempo un surplus di diplomazia». Nessun riferimento alle sue posizioni su Putin, di cui non fa menzione. L’Italia, scrive, «non può non avere chiari connotati atlantici». Adesso ha «l'ambizione di essere protagonisti di pace». Poi ha ringraziato la presidente del gruppo Anna Maria Bernini «a cui ascrivo il merito di questa mia elezione», a Forza Italia, «da sempre baluardo dei valori atlantici», e nello specifico Antonio Tajani e «a tutte le forze di centrodestra che ancora una volta dimostrano che sulle grandi questioni di fondo trovano sempre le ragioni della loro unità».
Su Mosca e Putin eppure, le idee non sembrano troppo cambiate. L’uscita più recente di Craxi, di poco più di un mese fa, è il no a un processo per i crimini di guerra: «Per trovare una via d’uscita possibile Putin non va messo all'angolo: è un errore minacciare di portarlo al Tribunale dell'Aia, di processarlo. Si rischiano solo reazioni scomposte e pericolose. Serve un’Europa che non c’è», ha detto alla Convention di Forza Italia.
Il centrodestra è entusiasta. Il leader della Lega Matteo Salvini ha fatto un Tweet definendola una personalità di «equilibrio» e «pace» con la “P” maiuscola.
Forza Italia ha dato una versione più istituzionale con il tweet di Antonio Tajani.
Per Pierferdinando Casini «Craxi promossa» e «maggioranza bocciata».
Nel pomeriggio la situazione è degenerata sulla votazione dei vice e a ripetizione è mancato il numero legale per procedere. Per Giuseppe Conte è l’ennesima sconfitta in parlamento. Il presidente del Movimento Cinque Stelle punta il dito contro «la nuova maggioranza che va da Fratelli d’Italia a Italia viva» visto che la maggioranza Craxi include anche il partito di Matteo Renzi.
VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.
Francesco Olivo per “la Stampa” il 26 aprile 2022.
Come si reagisce alle sparate in tv? Un modo lo ha trovato Ada Pastore. Questa signora con maglietta «ostinatamente antifascista» era a Porta San Paolo, luogo sacro della resistenza romana, quando le è toccato ascoltare le parole di Vauro Senesi che, collegato con l'Aria che tira, sparava l'ultima bordata: «Affermo che il presidente Mattarella non è più il garante della Costituzione».
Il Quirinale non si sarà sconvolto, la conduttrice Myrta Merlino mostrava una certa abitudine alle frasi forti del vignettista. Ma Vauro non l'ha passata liscia perché da quelle parti c'era una manifestante che lo ha affrontato tra lo stupito e lo sconsolato: «Ma cosa dici?». Aggiungendo poi: «Quando uno mi aggredisce, mi devo poter difendere». Aggiungendo una domanda che sarebbe utile porci: «E lo state pure a sentire?». Buon senso invece degli eccessi. Meglio di una vignetta.
VAURO CONTRO TUTTI E allora vedevi due giorni fa la puntata di Piazzapulita su La7 scatenare una rissa a distanza tra il presentatore (compagno) Corrado Formigli e il vignettista Vauro, di note simpatie sinistrorse e spesso ospite della trasmissione. Il primo riprendeva un intervento di 7 anni fa di Giulietto Chiesa, giornalista a lungo corrispondente da Mosca per L'Unità e iscritto al Pci, scomparso due anni fa, il quale nel 2015 "profetizzava" la guerra tra Russia e Occidente, dando la colpa all'«offensiva degli Usa e dell'Europa» contro Putin.
Nel commentare negativamente le sue parole, Formigli definiva Chiesa «il ventriloquo di Putin». Un'espressione infelice che suscitava l'ira di Vauro, per anni amico di Chiesa. «Mi sono arrabbiato molto», faceva sapere all'AdnKronos. «In quell'intervento Giulietto dice cose sensatissime».
E invece Formigli «lo ha preso e lo ha presentato con queste parole: "il ventriloquo di Putin". Ecco, se arriviamo a criminalizzare i morti, cosa ci manca ancora? Formigli se la deve vedere con la sua etica professionale e morale». Il giornalista, che per quell'espressione si era già scusato in diretta, ha poi ammesso di aver usato un «termine inappropriato». Ma ormai il patatrac si era compiuto. E infatti Vauro ha annunciato di non avere più intenzione di «partecipare a Piazzapulita».
(EX) COMPAGNO CAPRARICA L'ira funesta di Vauro non si placava mica in questo scazzo. Ieri a L'Aria che tira su La7 il vignettista si sfidava a signolar tenzone, sempre su Putin, col giornalista Antonio Caprarica, con un passato di sinistra-sinistra. Vauro lamentava il crearsi di un Pensiero Unico sulla guerra tale per cui il corrispondente della Rai Marc Innaro finisce per essere additato come filo-putiniano per aver fatto riferimento all'espansione della Nato, e un giornalista ucraino si permette di definire filo-russo l'inviato del Corriere della Sera Andrea Nicastro, mettendolo a «serio rischio», visto che nell'area di Mariupol, dove è lui, è attivo il Battaglione Azov, composto da «nazisti».
Caprarica a quel punto tirava fuori le sue armi (dialettiche) sparando a zero contro Vauro: «Pensare che ci sia il pensiero unico sulla guerra», avvertiva, «è una sciocchezza, tant' è che ne stiamo discutendo». Quanto al giornalista ucraino, «ce ne vuole ad accusarlo di scarsa obiettività. Vorrei vedere Vauro sotto le bombe se riuscirebbe a mantenere una sua terzietà».
Caprarica aveva già dato prova di sé la sera prima a Dritto e rovescio su Rete4, allorché si era inalberato contro Paolo Ferrero, già segretario di Rifondazione Comunista, il quale sosteneva che «Putin non è l'unico delinquente. La responsabilità è pure della Nato che ha lavorato per estendersi verso la Russia. Un atto criminale e irresponsabile», consistito nel «pilotare i popoli» dell'ex blocco comunista. Tesi che Caprarica rintuzzava con sarcasmo: «Ma quei popoli sono liberi di scegliere o no? Lei crede all'autodeterminazione?». Insomma, il clima tra i compagni non è dei più sereni. Ora non vorremmo che le loro divisioni replicassero quelle tra marxisti-leninisti, trotzkisti e stalinisti. O perlomeno ci auguriamo che abbiano un esito molto meno tragico.
Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 5 marzo 2022.
Andrea Scanzi, firma del Fatto Quotidiano, attacca il suo acerrimo nemico Matteo Salvini in un post su Facebook nel quale pubblica una sua fotografia con Vladimir Putin corredata da una dichiarazione del leader della Lega datata 12 luglio 2019: "Staremmo meglio se avessimo un Putin in Italia". Scanzi aggiunge anche il proprio commento "Poveraccio."
La scelta dell'immagine tuttavia gli si ritorce contro poiché si tratta della parte di una foto nella quale, alla sinistra di Putin, erano immortalati anche l'allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e l'allora Ministro del Lavoro Luigi Di Maio, ritratti assieme a Salvini con il Presidente russo agli inizi di luglio 2019 quando lo "Zar" era in visita a Roma.
Molti commentatori hanno rinfacciato a Scanzi il taglio strategico dei suoi beniamini, allegando la foto completa, e rivolgendogli lo stesso epiteto indirizzato dal giornalista del Fatto Quotidiano a Salvini: "Poveraccio".
Guerra in Ucraina. Destra, sinistra e no Green Pass: identikit dei putiniani d’Italia. Gianni Riotta su La Repubblica il 03 marzo 2022.
Uno studio della Columbia University analizza il fenomeno dei “Putinversteher” nostrani, per i quali il presidente russo fa solo “gli interessi nazionali”. Da Savoini a Fusaro, da Spinelli a Mattei a Foa, ecco chi giustifica il Cremlino.
"Putinversteher" è neologismo tedesco che indica "Chi si intende con Putin", un intellettuale, giornalista, parlamentare, imprenditore pronto a sottolineare ragioni, interessi, personalità, meriti del presidente russo e, di converso, a scatenare geremiadi sulle colpe europee, americane, Nato. I "Putinversteher" sono attivi nel partito repubblicano Usa, guidati dall'ex presidente Trump che considera Putin "un genio", come in Germania, con l'ex cancelliere Schroeder, lobbista Gazprom, che paragona l'offensiva di Mosca in Crimea ai pogrom in Jugoslavia. Anche in Italia, basta accendere la televisione, sfogliare un quotidiano, leggere un blog o studiare gli atti di un think tank, per imbattersi in colti, forbiti, suadenti "Putinversteher" nostrani, capaci di "capire" Putin e diffonderne le ragioni. Caratteristica peculiare del "Putinversteher" è, naturalmente, reagire con offesa veemenza se gli date del "putinista", spiegando piccato che si tratta di non prender partito, di Realpolitik, interessi nazionali, mettendo invece sullo stesso piano aggressori e vittime, regimi e democrazia, falso e vero.
Uno studio della Columbia University, "Russian Active Measures: Yesterday, Today, Tomorrow", curato dai docenti Olga Bertelsen e Jan Goldman, analizza il fenomeno dei "Putinversteher" italiani, collazionati nel capitolo "Russian Influence on Italian Culture, Academia, and Think Tanks" curato da Luigi Germani e Massimiliano De Pasquale, anticipato dal magazine online Linkiesta, diretto da Christian Rocca. "Putinversteher" che vengono da destra, ammirando il nazionalismo muscolare di Putin, includono Claudio Mutti, editore del fascio-putinista Aleksandr Dugin che, spiega su Linkiesta Maurizio Stefanini, muovendo dalle colonne della rivista Eurasia contro le guerre del presidente Usa Bush, con altri ex dirigenti del vecchio Msi, Carlo Terracciano e Maurizio Murelli, o attivisti come Tiberio Graziani, cerca intese con la sinistra anti-yankee, in nome di Dugin. Sarà invece, come noto, Gianluca Savoini, "Associazione culturale Lombardia-Russia", a far colloquiare Dugin con aree di interessi vicini alla Lega e ad aziende impegnate in Russia. Il saggio della Columbia analizza anche scritti dell'ex ambasciatore a Mosca Sergio Romano, su Putin ed Ucraina, che avanza, per esempio nella prefazione al saggio di Edward Lucas sulla nuova guerra fredda, edito da Bocconi, il timore che l'Occidente voglia umiliare la Russia. Anche il filosofo Massimo Cacciari, di recente guru no greenpass, in un'intervista al Piccolo del 2014, si disse certo che sull'annessione della Crimea l'UE fosse "incauta", perché "Il Cremlino si fermerà".
Ahinoi, il Cremlino non si è fermato e tocca ora al giurista Ugo Mattei, che ha avuto 15 minuti di fama battendosi contro la "dittatura greenpass", spiegare che "Putin fa gli interessi nazionali russi", tesi ardita per chi muore sotto le bombe in Ucraina. Pino Cabras, ex M5S, vuole, come Putin, l'Ucraina neutralizzata a forza, per porre fine alla "grande umiliazione subita dopo la fine del Muro da parte dell'ex Unione Sovietica". Secondo Diego Fusaro, autore Einaudi, è il presidente "Zelensky che manda il popolo ucraino al massacro", mentre Barbara Spinelli, ex analista filo Nato, vede il suo saggio per il quotidiano Il Fatto rilanciato, con applausi, dai social media dell'Ambasciata russa a Roma, "Putinversteher" con bollo diplomatico. Né si tratta di opposizione destra-sinistra, leggete "Putinversteher" sul Giornale e sul Manifesto, mentre tocca al direttore dell'Espresso Marco Damilano, contraddire su La 7, da Giovanni Floris, l'ex presidente della Rai Marcello Foa, commentatore di reti di propaganda russa, per le fake news diffuse sul tema.
In politica brilla il presidente della Commissione Esteri della Camera, il 5 Stelle Vito Petrocelli, che vota contro il governo Draghi per le forniture di armi a Kiev, battuto perfino dalla leader di FdI Giorgia Meloni che, a lungo considerata "Putinversteher", raccoglie con il Sì a Draghi apprezzamenti da diplomatici Usa. E i distinguo, con l'astensione, dell'ex presidente della Camera Laura Boldrini e del parlamentare di sinistra Stefano Fassina, sul sostegno militare italiano all'Ucraina assediata, odorano di "Putinversteher", e il chiarimento che Fassina prova ad offrire ai microfoni radio di "Un giorno da pecora" - Noi non vorremmo, dando forza agli ucraini, indurre Putin a bombardamenti più feroci -, non sembra avere la forza strategica di Sun Tzu o von Clausewitz.
Nessun "Putinversteher" ammetterà mai di esserlo, ce ne sono per interesse, ideologia, snobismo, ma tutti hanno la stessa caratteristica, li riconoscete a prima vista, "Eroi del nostro tempo", come il titolo del vecchio romanzo di Lermontov, che hanno in uggia l'autodeterminazione dei popoli.
Dagonota il 18 marzo 2022.
Dal ginnasta russo Kuliak che la esibisce sul podio fino ai nazionalisti che la disegnano sui muri: la 'Z' è diventata il simbolo dell'invasione russa dell'Ucraina, una firma di chi si schiera senza se e senza ma con la guerra voluta da “Mad Vlad” Putin.
Quello che fa sorridere è che in Italia “il cortigiano Johnny” Riotta, autore dell’odiosissima lista di proscrizione dei “putiniani d'italia”, ha chiamato, già da qualche anno, la testata giornalistica della scuola di giornalismo Luiss che dirige con il nome di “Zeta Luiss”.
Applicando il suo feroce metro “antiputin” che contraddistingue le sue articolesse, Johnny può essere accusato tranquillamente di essere un russofilo di complemento finendo per direttissima tra i “Putinversteher” (quelli che se la intendono con Putin).
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 9 marzo 2022.
Riassunto con aggiornamenti: qualche giorno fa il giornalista Gianni Riotta, che merita tutto il biasimo umano e professionale del caso, ha pubblicato su Repubblica un'odiosa, pasticciata e dolosamente infame lista di proscrizione dei «putiniani d'Italia», intesa come una porcheria - con foto e ridicoli addebiti fatta per associare le persone antipatiche a Riotta all'attuale Putin guerrafondaio, quindi per mescolare, nell'insieme, una macedonia professionalmente vergognosa di cui qualche dettaglio tuttavia non ci era ancora noto.
E ora ve lo esponiamo. L'articolo di Riotta, per cominciare, ha copiato parzialmente, deformandolo, un articolo pubblicato sul sito Linkiesta e si è inventato, Riotta, il neologismo tedesco «Putinversteher» che indicherebbe «chi si intende con Putin» ma che è un termine che semplicemente non esiste: è la personale traduzione di Riotta di «Russlandversteher», espressione adottata da un vecchio studio della Columbia University di New York (vecchio nel senso di ante-guerra, e che parlava di tutt' altro) e titolato «Russian Active Measures Yesterday, Today and Tomorrow»;
dopodiché Riotta ha fatto finta di aver consultato questo studio della Columbia University, come se fosse una primizia, ma in realtà non l'ha neppure letto: questo lo assicurano a Libero gli stessi autori dello studio («Paper») dell'università newyorchese, spiegando peraltro che Riotta ha sbagliato persino a scrivere il cognome di uno degli autori (che si chiama De Pasquale e non Di Pasquale) e specificando, poi, che Riotta ha ambiguamente infilato nella sua lista anche gente che nello studio universitario (e nell'articolo de Linkiesta scritto da Marcello Stefanini) neppure comparivano: è tutta farina sua, di Riotta. Esempi: Barbara Spinelli, Laura Boldrini, Stefano Fassina e Giorgia Meloni: è tutta gente che probabilmente a Riotta sta solo sulle palle.
Poi. Lo studio statunitense è stato pubblicato sui social nel marzo 2021 (in lingua inglese, che Riotta conosce sicuramente meglio di quella italiana: non è un complimento) ed è stato tradotto nella nostra lingua nel settembre scorso, sempre disponibile sui social: questo assai prima di qualsiasi vento di guerra e comunque con modalità che potete andarvi a leggere direttamente al link fondazionegermani.org e vi faranno apprendere che trattasi di uno studio serio e titolato «L'influenza russa sulla cultura, sul mondo accademico e sui think thank italiani» e che corrisponde a un'analisi storica che parte dal periodo mussoliniano e parla di tutto, di molte cose, ma sicuramente non degli attuali dementi filo-putiniani che Riotta ha mischiato a gente tranquilla o magari anche meno tranquilla: ma sicuramente non guerrafondaia e filo-putiniana da segnalare in un «identikit» (titolo di Repubblica) da additare alla pubblica vigilanza.
Ergo, è così che Riotta è riuscito ad associare Claudio Mutti (editore del fascio-putinista Aleksandr Dugin) a Barbara Spinelli, «ex analista filo nato» colpevole di aver scritto un commento «rilanciato sui social dall'ambasciata russa a Roma»; è così che ha mischiato il giurista «No Green Pass» Ugo Mattei (e chi è?) all'importantissimo «filosofo rossobruno Diego Fusaro» e poi, con salto triplo con doppio avvitamento carpiato, a Sergio romano, che banalmente scrisse la prefazione di un libro di Edvard Lucas sulla nuova guerra fredda, e ancora a Massimo Cacciari, reo di aver rilasciato un'intervista al Piccolo di Trieste nel 2014 in cui parlava dell'annessione russa della Crimea.
Tralasciamo altri, compresi ex collaboratori di Repubblica, e tacciamo del sorprendente omesso controllo di una persona seria come il direttore di Repubblica Maurizio Molinari. Segnaliamo solo l'eccesso di sintesi di Massimo Cacciari su Riotta («è un idiota») e l'abile primato professionale, quello sì, nel promuovere se stesso e uno specialistico accumulo di poltrone legato a relazioni personali e non certo a meriti sul campo: nessuno ricorda memorabili articoli di Riotta, però qualcuno magari ricorda la sua amicizia con Emma Marcegaglia di Confindustria prima che la medesima lo nominasse direttore del Sole 24 ore, e prima che lo stesso quotidiano registrasse, con la sua direzione, il record negativo delle vendite.
Da segnalare, ancora, che Riotta si è autodefinito «tra i top influencer internazionali più noti» e che uno come lui insegna giornalismo all'università Luiss di Milano (da direttore) e che, ancora più incredibilmente, Riotta è persino riuscito a infilarsi in questi giorni nell'attuale e neonata Task Force sulla guerra in Ucraina (rappresentante per l'Italia) creata per monitorare la disinformazione, cioè per monitorare, anzitutto, se stesso e gli articoli come i suoi.
Finito? Quasi. Rimane lo spazio per ricordare che il premio pulitzer Glenn Greenwald (già noto per alcuni servizi sulle rivelazioni di Edward Snowden su alcuni servizi di sorveglianza statunitensi) definì Gianni Riotta «il contrario del giornalismo» per via di un editoriale che Riotta scrisse nel 2013 sulla Stampa. Per la storia, Glenn Greenwald resterà il giornalista del Guardian che ha fatto scoppiare il caso Datagate, mentre Gianni Riotta - salvo nuove mirabolanti imprese - resterà quello delle liste di proscrizione che sintetizzano il livello attuale del giornalismo italiano. Lezione del giorno: se domattina un sito di nazisklinlinkerà un articolo di Riotta, Riotta sarà un filo-nazista.
Lezione di sempre: di queste cose, non altre, dovrebbe occuparsi un vero Ordine dei giornalisti, in un Paese dove le percussive relazioni di Riotta, provinciale cronico, non fanno invece che procurargli premietti e premiolini buoni da appoggiarsi su qualche bacheca della nativa Palermo. Ps: occhio oggi a non comprare l'insalata russa al supermercato, che Riotta vi segnala. Infine, refuso volontario: al tramonto, se non è nuvolo, il sole è russo. No, così, per farci catalogare anche noi.
La lista di proscrizione di Riotta contro i presunti “putiniani d’Italia”: cita “uno studio”, ma elenca nomi che in quel testo non ci sono. Nel pezzo su "Repubblica" in cui enumera i presunti "collusi col nemico" l'ex direttore del Tg1 poggia la sua tesi su quello che definisce uno "studio della Columbia university". Ma non è uno studio, non è della Columbia University e metà dei nominativi che cita con compaiono mai in quel testo. Al contrario lascia fuori dal suo articolo quelli che invece esistono, comprese (per coincidenza) Luiss e Repubblica. Paolo Frosina e Diego Pretini su Fatto Quotidiano il 05 marzo 2022.
Il professore di diritto civile Ugo Mattei, il deputato di Liberi e Uguali Stefano Fassina, l’ex presidente della Camera e parlamentare del Pd Laura Boldrini e perfino Barbara Spinelli, figlia di Altiero padre fondatore dell’Unione europea e compagna di Tommaso Padoa Schioppa, padrino dell’euro. Eccoli, i putiniani d’Italia: li ha messi tutti in fila su Repubblica di venerdì Gianni Riotta in un articolo in cui ha raccontato chi sono i cosiddetti “Putinversteher“, quelli che “capiscono Putin”, che lo giustificano. Una lista di “cattivi”, di presunti “collusi col nemico“, che Riotta addita rivestendo il suo articolo con la patina di autorevolezza per mezzo di una pubblicazione (che lui chiama “studio”) uscita un po’ di mesi fa, nel 2021, negli Stati Uniti (titolo: Russian Active Measures: Yesterday, Today, Tomorrow). In realtà quello di Riotta per una buona parte si rivela un elenco di nomi del tutto personale: Mattei, Fassina, Boldrini, Spinelli, infatti, in quel testo “americano” non esistono. Eppure, nonostante la lunga esperienza da ex direttore e corrispondente, nello sviluppo del pezzo riesce a non dire mai agli ignari lettori di Repubblica che circa metà dei nomi che elenca non sono frutto di quello “studio” su cui si regge la sua tesi. Viceversa in quel testo si trovano molte altre citazioni che nell’articolo di Riotta non compaiono: per esempio c’è un lungo passaggio dedicato alla Luiss, università della quale Riotta dirige la scuola di giornalismo.
Riotta sostiene il suo pezzo appoggiandosi su un testo che chiama “studio della Columbia university curato dai docenti Olga Bertelsen e Jan Goldman“. Ma non è uno studio e men che meno è “della Columbia university”, come già avevano sottolineato alcuni giornalisti sui social nei giorni scorsi (Simone Fontana tra questi).
Si tratta a dire il vero di un documento di ricerca che fa parte di una raccolta di saggi (totale di oltre 400 pagine) pubblicata dalla casa editrice tedesca Ibidem che negli Usa è distribuita dalla Columbia university press, cioè la casa editrice dell’università newyorkese. I curatori non sono docenti della Columbia: Bertelsen lavora alla Embry-Riddle Aeronautical University di Prescott, Arizona, Goldman alla Citadel di Charleston, South Carolina. Gli autori italiani dello “studio” (che studio non è) non lavorano alla Columbia e, anzi, non hanno alcun incarico accademico: Massimiliano Di Pasquale si presenta come “fotogiornalista e saggista”, Luigi Sergio Germani è “direttore scientifico dell’Istituto Gino Germani di scienze sociali e studi strategici”.
Gli autori del documento di ricerca si propongono di “discutere l’influenza russa sulla cultura e sull’accademia italiana”. E distinguono “due diversi tipi di intellettuali filorussi in Italia”: i neo-eurasianisti, con “posizioni radicali pro-Mosca e anti-occidente”, e i “Russlandversteher” con “una posizione pro-russa pragmatica e moderata, basata su considerazioni di realpolitik“. Nel trasferimento dal testo di Di Pasquale e Germani all’articolo di Riotta, però, per effetto di un colpo di bacchetta magica, diventano “Putinversteher”, espressione mai usata nel cosiddetto “studio”.
Ne viene una visione un po’ ossessiva, nella quale si inserisce nello stesso fenomeno sia chi fa l’ultrà di Putin sia chi sbaglia un pronostico, sia chi è accusato di fare affari coi russi sia chi firma accordi negli scambi culturali. Ad ogni modo tra i primi, cioè tra i “radicali pro-Mosca”, vengono citati esponenti del Movimento sociale italiano come l’editore Claudio Mutti e il leader del Fronte della gioventù Carlo Terracciano, ma anche Gianluca Savoini – noto per le vicende legate ai presunti fondi russi alla Lega -, il filosofo Diego Fusaro e il corrispondente storico della Stampa – oggi scomparso – Giulietto Chiesa. Tra i “Russlandversteher”, invece, compaiono Sergio Romano, ex ambasciatore italiano a Mosca e storica firma del Corriere della Sera – secondo cui, scrivono gli autori, “gli interessi geopolitici russi non dovrebbero essere minati dai movimenti democratici in Ucraina” – e il filosofo Massimo Cacciari, “condannato” per una previsione sbagliata ai tempi dell’invasione della Crimea nel 2014 quando “affermò che i russi si sarebbero fermati” e che “i timori per il resto dell’Ucraina erano infondati”. Tra gli altri nomi inseriti nell’analisi ci sono quelli dell’ex presidente della Rai Marcello Foa e dell’ex direttore di Rai2 Carlo Freccero perché, nel 2019, secondo gli autori si schierarono a favore della messa in onda sulla tv pubblica di un programma di ispirazione sovranista L’ottavo blog.
Viceversa né nel saggio di Di Pasquale e Germani né in nessuna del totale delle 402 pagine della raccolta pubblicata in Usa dalla Columbia university press compare mai il nome di Barbara Spinelli, che Riotta su Repubblica ha promosso sul campo “Putinversteher con bollo diplomatico” riferendosi al fatto che il suo intervento sul Fatto alcuni giorni fa è stata rilanciato su Twitter dall’ambasciata russa a Roma. Né lì dentro si trovano i nomi di Ugo Mattei, professore di diritto civile diventato noto nell’ultimo anno per aver guidato le proteste no green pass del mondo universitario, o della presidente della Camera Laura Boldrini – colpevole di essersi astenuta sulla risoluzione del Parlamento sull’invio di armi in Ucraina – o ancora del parlamentare del M5s Vito Petrocelli (che ha votato contro), tutti citati da Riotta nel suo pezzo che così si è trasformato da parvenza di analisi a giudizio personale (o viceversa).
Al contrario dal pezzo di Riotta restano fuori parecchi nomi contenuti in quello “studio” di cui ha raccontato, sì, ma fino a un certo punto, con un largo uso di cherry picking – come direbbe lui -, con il quale l’ex direttore ha scelto di citare alcuni nomi e di scartarne altri. In quel volume vengono per esempio citate personalità di molte università italiane, dalla Sapienza a Ca’ Foscari. E tra queste c’è anche la Luiss, l’università privata intitolata a Guido Carli. Poiché il passaggio del documento dedicato alla Luiss è molto lungo qui ci si limiterà ad alcuni esempi. Il volume ricorda la partnership tra l’ateneo privato, l’Istituto statale di Mosca per le relazioni internazionali e l’Enel e anche le parole pronunciate da Mariasilvia Ciola, allora capo della delegazione che visitò l’istituto moscovita che parlò di un’operazione “anche politica”: “Malgrado il peggioramento delle relazioni tra Russia e Occidente – rilevano gli autori del testo – ‘gli scambi accademici restano'” (le virgolette interne sono una citazione delle parole di Ciola). E ancora Di Pasquale e Germani parlano di Raffaele Marchetti, allora delegato del rettore all’Internazionalizzazione che “coopera strettamente con il Dialogue of Civilizations Research Institute (che è un think tank con sede a Berlino, ndr), creato e finanziato dall’oligarca russo ed ex generale del Kgb Vladimir Yakunin“. Di questo e di altro che riguarda la Luiss non c’è niente nell’articolo di Gianni Riotta, che per coincidenza è direttore della scuola di giornalismo proprio della Luiss.
Nella squadra di chi avrebbe una posizione “pro-russa moderata” finisce – secondo gli autori del mini-saggio – perfino Lucio Caracciolo, il direttore della storica rivista di geopolitica oggi edita da Gedi. Secondo questo volume Caracciolo, insieme a Germano Dottori (altra firma della rivista), “rappresenta la scuola di pensiero Russlandversteher”. Quanto a Dottori “in un’intervista a Start Magazine, Dottori, che ha pubblicato una serie di analisi geopolitiche su Sputnik Italia, sostiene che la Nato può ancora svolgere un ruolo rilevante, se Washington e i Paesi occidentali si liberano delle loro “ossessioni anti-russe, e la Nato cessa di essere un’alleanza anti-russa e diventa un’alleanza anti-cinese”. Ce n’è persino per il Corriere della Sera e Repubblica, cioè il giornale su cui Riotta scrive: sono accusati di aver pubblicato editoriali che “hanno rinforzato messaggi di propaganda russi” durante le proteste di Euromaidan nel 2013. L’unico quotidiano “salvato” dagli autori è La Stampa, che “ha offerto un’interpretazione bilanciata e un’analisi completa degli eventi”. Eppure Riotta ha lavorato anche lì.
Nella versione originale di questo articolo veniva indicata la “fine del 2021” come data di pubblicazione del report Russian Active Measures: Yesterday, Today, Tomorrow. In realtà la data corretta di prima uscita della pubblicazione è marzo 2021, stando al sito della Columbia University Press. Il documento dei due analisti italiani è poi stato pubblicato in Italia nel settembre 2021, come recita il sito dell’Istituto Gino Germani.
Antonello Piroso per “la Verità” – 7 ottobre 2018 il 5 marzo 2022.
Ospite ad Agorà su Rai 3, quando l’economista Antonio Maria Rinaldi ha ricordato che per l’articolo 1 della Costituzione «la sovranità appartiene al popolo», Gianni Riotta ha alzato il ditino: «Scusi, dove sta scritto?». Per poi aggiungere, con l’aria di chi la sa lunga: «Perché l’articolo 1 recita che l’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro. Se uno studente va all’esame di diritto costituzionale ripetendo quello che si sta dicendo qui, lo bocciano».
E Rinaldi, più divertito che infastidito: «Nel secondo comma». Una bella gaffe, per il giornalista - italiano naturalizzato americano - che piace alla gente di Confindustria e dintorni. Un errore che, invece di nuocergli, pare lo spedisca alla direzione della scuola di giornalismo della Luiss, l’ateneo privato della medesima Confindustria. Questo, secondo il sito Dagospia, per volere di Emma Marcegaglia, già presidente di entrambe le istituzioni - Confindustria e della Luiss, e anche dell’Eni su nomina del governo di Matteo Renzi -che per Riotta ha simpatia e stima, come per Oscar Giannino di cui è stata testimone di nozze.
Affinità elettive che fanno curriculum, per dir così (scusami, Oscar, ma non riesco ad addomesticare il Franti che è in me). Intendiamoci: Riotta - Johnny Ricotta per chi ama maramaldeggiare - ha un palmares da far invidia alla più parte degli scribacchini nostrani, a cominciare dal sottoscritto.
Nato a Palermo nel 1954, figlio d’arte - il padre Salvatore era una firma del Giornale di Sicilia - diventa corrispondente del Mani festo. Ricorderà Nina Gagliardi, che il quotidiano comunista diresse: «Appare questo bel figurino, tutto impettito. Capii subito che il ragazzo puntava in alto, che avrebbe fatto strada». E difatti: Johnny diventerà condirettore di Marcello Sorgi alla Stampa, vicedirettore di Paolo Mieli al Corriere della Sera, direttore del Tg1 e del Sole 24 Ore.
Un numero di poltrone proporzionale agli svarioni e alle topiche in cui è inciampato. Alla vigilia della vittoria di Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane, vaticinava su Facebook: «La campagna elettorale di Trump è ufficialmente finita stanotte, al terzo dibattito con la rivale democratica Hillary Clinton. Trump era partito alla grande, senza sniffare (ehhhh?, ndr). D’improvviso, ha distrutto le residue, esili chance di vittoria repubblicana. Vincerà Hillary, The Donald è stata una grande distrazione, colorata, petulante e vana».
In passato, siccome non gli fa difetto l’autostima, Riotta decise di cantarsela e suonarsela: «Spesso ho infastidito persone verso cui i giornalisti scodinzolano alla grande». Tipo chi? Gianni Agnelli? Giulio Tremonti? O in tempi più recenti Matteo Renzi? Macché: Adriano Sofri, già condannato come mandante dell’omicidio del commissario Luigi Calabresi , «penso sia colpevole e ho aiutato Mario Calabresi quando ha scritto il libro sull’assassinio di suo padre».
Peccato che l’amarcord di Sofri sul Foglio suonasse un tantinello diverso: «Questo piccolo tomo ha “scodinzolato”, per usare il suo miserando linguaggio, nei miei confronti a lungo e in più occasioni, fino a che, avendo scritto una gratuita vigliaccheria da quattro soldi contro Giorgio Pietrostefani (anche lui condannato per l’omicidio Calabresi, ndr), che non poteva rispondergli, fu da me qui trattato come meritava. Da allora, incassato il mio pubblico disprezzo, ha trovato l’audacia necessaria a vantarsi mio nemico».
A fine 2009, da direttore del Sole 24 Ore, il 31 dicembre fa scrivere in prima pagina che «le firme della testata hanno discusso per scegliere la persona dell’anno 2009 per l’eco nomia italiana»: Giulio Tremonti, l’allora potente ministro dell’Economia di cui si narrava potesse sostituire Silvio Berlusconi alla guida del centrodestra. Solo che la vicenda, per i rappresentanti sindacali dei giornalisti, aveva avuto uno svolgimento diverso: «Quella frase può indurre il lettore a pensare che il corpo redazionale sia stato consultato in questa scelta. Così non è stato. La decisione è stata presa dalla direzione che ne ha discusso solo durante la riunione di redazione, cui partecipa un gruppo ristretto di giornalisti».
Prima della direzione del Sole (che lascerà con 100 copie perdute al giorno in edicola, 54.000 in 16 mesi, e un -30 per cento di abbonamenti), Riotta si era guadagnato quella del Tg1, ricordata per il «bollettino della vittoria» dopo il terremoto dell’Aquila.
«Con metodico compiacimento onanistico», così verrà scritto, farà sciorinare per 90 secondi i lusinghieri dati di ascolto delle edizioni straordinarie post sisma. «Con centinaia di morti e una regione in macerie, questo non è giornalismo, ma pornografia necrofila, è stupro di cadavere», sarà uno dei rilievi più soavi del Web. Sempre attento ai fenomeni globali, ecco Johnny occuparsi di aviaria, malattia dei volatili e dei polli (lato sensu), circostanza già qui segnalata tra le cosiddette «bufale apocalittiche».
Riotta presentava così l’Armageddon ai lettori del Corriere della Sera nell’agosto 2005 : «Il virus H5N1 va alla guerra». Nientemeno. Cioè? «Il Presidente George W. Bush è stato informato del rischio epidemia della nuova influenza che terrorizza la sanità di tutto il mondo». Ciumbia. Riotta poi la tocca piano: «La paura è che il virus, mutando senza soste, possa infettare direttamente gli uomini. Gli epidemiologi hanno stime macabre. Le più pessimistiche, spesso lasciate in sordina per non generare panico, calcolano un miliardo di casi nel mondo e 360 milioni morti».
Giusto: perché lasciarle in sordina, ’ste cifre? Ma mettiamoci pure il carico da 11: «H5N1 potrebbe riuscire, invisibile, nel disegno di morte e devastazione che Osama Bin L ad e n va perseguendo». E certo: come non capire che Osama voleva annientare l’Occidente a colpi di uccelli morti? Da questi scivoloni Riotta si è sempre rialzato senza fare neanche un plissé. Anche quando Micromega usò la scimitarra avvolta nel velluto: «Oggi i prototipi del giornalista di successo sono Riotta e Barbara Palombelli, simpatici e preparati, ma che se avessero potuto intervistarlo, avrebbero trovato tracce di cordialità anche in Adolf Hitler», da lui nulla, zero reazioni. Solo una volta gli saltò la mosca al naso.
Avendo sostenuto da direttore del Tg 1 che la sua nomina - avvenuta con il secondo governo di Romano Prod nel 2006 - non era dettata da logiche lottizzatorie, che non riceveva pressioni e che i politici non lo chiamavano, Giampaolo Pansa ribatté: «Questo vallo a raccontare a tua nonna». E Riotta: «Se uno per strada ti risponde: “Dillo a tua nonna”, tu replichi “scusa...?” e scendi con il cric. Se te lo dice in tv, devi incassare».
«È stato un appassionato comunista, ma si è anche guadagnato l’amicizia del monarca del capitalismo italiano, Gianni Agnelli» ha scritto Repubblica . Un po' come Gad Lerner, che proprio con La Verità ha però fatto (una molto tardiva) ammenda sulle relazioni pericolose tra chi in Italia sognava il sol dell’avvenire e chi faceva il capitalista con i soldi degli altri, da Carlo De Benedetti ai Benetton. Non a caso, nel 1993 Riotta sostituirà Lerner alla guida di Milano, Italia su Rai 3.
Rete su cui tornerà con 4735 Parallelo Italia, sette puntate in prima serata nell’estate 2015, una fulminante intuizione del direttore Andrea Vianello per raccontare le magnifiche sorti e progressive del Belpaese a trazione renziana, con un budget di tutto rispetto: 2 milioni di euro. Dopo la prima puntata Riotta confessò: «Un debutto con un po’ di batticuore perfino per un vejo gringo co me me...».
I risultati tuttavia furono tutt'altro che esaltanti, come ricorderà Carlo Freccero a Michele Anzaldi - lo stalliere del cavallo di viale Manzini per conto di Matteo Renzi - quando eccepirà sulla scarsa resa di un’altra trasmissione: «Ma perché non intervenivi quando Riotta faceva ascolti più scarsi con un programma come Parallelo Italia che era senza concorrenza?».
In quel viaggio-reportage fu intervistata la creme delle élite, persone quali il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio e Luciano Benetton. Domande su concessioni, rapporti tra ricavi, utili e investimenti sulla rete autostradale? Non pervenute. Forse non erano funzionali allo storytelling, che Riotta realizzerà in un clima da volemose bene immemore dell’avvertenza di Talleyrand: «Sourtout, pas trop de zèle», soprattutto: niente eccessi di zelo. A chi lo accusava di sudditanza verso Tremonti , con il sospetto che nel 2009 il premiato lo avesse deciso lui insieme a pochi altri nelle segrete stanze, si limitò a ribattere che «l’infelicità del servo è credere che tutto il mondo sia popolato solo da servi». Riotta servo? No, sarebbe insolente e offensivo. Ma un dandy cortigiano e cicisbeo, magari sì.
Estratto dell’articolo di Tommaso Rodano per il “Fatto quotidiano” il 5 marzo 2022.
"Lo scriva così come glielo dico: Gianni Riotta è un coglione". A Massimo Cacciari si può contestare molto, mai la noia. Risponde al telefono seccato, come d'abitudine, ma si accende subito quando gli viene chiesta una considerazione sul fatto che Repubblica l'abbia inserito nella listarella infame degli amici italiani di Putin.
"Come sarebbe a dire? Io? Non ne so nulla, non leggo più i giornali". Gli viene quindi letto il passaggio dell'articolo di Riotta che lo battezza tra i "Putinversteher" nostrani, i simpatizzanti dello zar (insieme, tra gli altri, a Barbara Spinelli), per una sua vecchia considerazione sull'annessione della Crimea. Cacciari sbotta: "Si è bevuto il cervello". [...]
Da video.corriere.it il 9 marzo 2022.
Massimo Cacciari ingaggia un botta e risposta sul tema Ucraina (e Putin) con Piero Fassino a diMartedì su La7: «L’allargamento dell’Unione europea, tirandosi dentro la NATO, non è stato un modo di trattare con la Russia- dice il filosofo che poi, incalzato dalle domande di Floris, sbotta: «Io filo Putin, ma cosa dice».
Il botta e risposta tra Piero Fassino e Massimo Cacciari a diMartedì: "L'Unione europea non ha sviluppato un atteggiamento antagonistico contro la Russia", "L'allargamento dell'Unione europea, tirandosi dentro la NATO, non è stato un modo di trattare con la Russia"
Non è l'arena, Massimo Cacciari gela Giletti: "Stupidaggini, con gli idioti non discuto". Libero Quotidiano il 07 marzo 2022.
"Io putiniano? Non rispondo a queste stupidaggini, con gli idioti non discuto". Massimo Cacciari risponde così alla domanda a bruciapelo di Massimo Giletti. Il filosofo è in collegamento con Non è l'arena, su La7, per parlare della guerra tra Ucraina e Russia. Il padrone di casa gli chiede subito conto della discussa "lista di proscrizione" di Giannni Riotta che su Repubblica, qualche giorno fa, ha stilato elencando i nomi di politici e intellettuali italiani presunti "fiancheggiatori" di Vladimir Putin. "Una lista un po' particolare", la definisce Giletti con un certo imbarazzo. Il filosofo stronca il dibattito: "Se vogliamo parlare seriamente, parliamo seriamente. Con questo idiota non discuto. L'altra faccia della medaglia è la censura su Dostoevskij", sottolinea riferendosi alla censura dell'Università Bicocca di Milano che aveva annullato (poi ripensandoci) il ciclo di lezioni di Paolo Nori sul grande scrittore russo, per paura di polemiche.
Poi, finalmente, si parla di guerra. "Putin ha sottovalutato la reazione, le sanzioni sono pesanti: non so quanto la Russia potrà andare avanti, di fronte anche ad una resistenza che non si aspettava", sottolinea Cacciari, che intravede uno spiraglio di ottimismo. "Credo ci siano i margini per costringere ad una trattativa seria per un cessate il fuoco, imperativo categorico, e per risolvere le questioni secolari di contenzioso tra Ucraina e Russia. Secolari, si deve partire almeno da Caterina la Grande per capire questa tragica storia tra ucraini e russi".
"Oggi l'Europa dovrebbe avere finalmente le capacità per costringere le parti, la Russia aggressore in particolare, per risolvere le questioni. Innanzitutto, il ruolo dell'Ucraina sul piano internazionale. Non si può discutere della annessione russa dell'Ucraina, ma al tempo stesso non può essere vista come una minaccia alla Russia. Il mio problema è fermare la guerra, non possiamo semplicemente dire agli ucraini andate avanti, combattete, morite e poi vediamo come va a finire la partita".
Otto e Mezzo, caos fuori onda: "Cosa mi ha detto Massimo Cacciari", la denuncia di Silvia Borrelli. Libero Quotidiano il 05 marzo 2022.
Gli ultimi due anni di pandemia sembrano avere un po’ annebbiato la mente di Massimo Cacciari, non sempre lucido nelle sue uscite televisive, al punto che si inizia ad avere il sospetto che venga invitato in tv soprattutto per fare polemica e quindi far parlare del programma in cui viene ospitato.
Nella puntata di Otto e Mezzo di sabato 5 marzo è stato chiamato da Lilli Gruber per parlare dell’aggressione russa in corso in Ucraina, ma a quanto pare Cacciari avrebbe avuto uno scontro con Silvia Sciorilli Borrelli a telecamere spente. “Ieri, fuori onda, Cacciari mi ha chiamato ‘suffragetta’ ignorando che fossi ancora collegata - ha denunciato la corrispondente del Financial Times - abbiamo idee diverse. Ero imbufalita, quanto paternalismo. Ma libertà significa anche poter dire ‘no grazie’. No al blablabla durante una guerra. Per un po’ la tv mi limiterò a guardarla”.
"Lo scriva così, è un c...". Cacciari scatenato: con chi ce l'ha. Federico Garau il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il filosofo risponde duramente all'articolo di Gianni Riotta sui "putiniani d'Italia" e fa delle considerazioni sugli errori commessi dal presidente russo.
Un Massimo Cacciari scatenato quello intervenuto su Il Fatto Quotidiano per rispondere al giornalista Gianni Riotta, definito senza mezzi termini "un coglione" dall'ex sindaco di Venezia.
Cacciari ha risposto così all'articolo pubblicato da Repubblica relativo ai cosiddetti "putiniani" presenti in Italia. Articolo a firma Gianni Riotta. Con la maggior parte dell'opionione pubblica ormai apertamente ostile al presidente russo Vladimir Putin, Repubblica ha infatti voluto riportare un elenco dei cosiddetti russofili e, nello specifico, Cacciari è stato inserito fra i Putinversteher insieme a Barbara Spinelli, il professor Ugo Mattei, il deputato di Liberi e Uguali Stefano Fassina e molti altri per una sua passata considerazione relativa all'annessione della Crimea. Insomma, reo di essersi discostato dall’opinione unica, anche il filosofo è finito sotto la lente d'ingrandimento.
Intervistato al telefono da Il Fatto Quotidiano, Cacciari non le ha mandate a dire al giornalista Riotta. Inizialmente, il filosofo ha liquidato la questione affermando di non leggere più i giornali e di sapere dunque ben poco dell'articolo. Venuto a conoscenza del passaggio in cui veniva menzionato, Cacciari ha perso le staffe, affermando che Riotta "si è bevuto il cervello".
Il filosofo ha quindi affermato di non considerarsi affatto un putiniano, e che quando si parla di guerra i ragionamenti devono essere ben più elaborati di così. “Ogni considerazione sulla guerra più complessa del riconoscere le colpe atroci di Putin è praticamente bandita", ha quindi commentato con amarezza. "Articolare un ragionamento, discernere, comprendere senza piangere né ridere è diventato impossibile". "Viviamo un’epoca di emergenza perenne, nella quale è tutto bianco o tutto nero. Provare a discernere è sempre più rischioso", ha dunque denunciato l'ex sindaco di Venezia, riportando il pensiero di molti. "In certi paesi si finisce in galera, in altri, se ci si avventura oltre l’opinione comune, ci si becca un Riotta”. In conclusione, Cacciari ha voluto far riferire un chiaro messaggio al giornalista in questione: "Lo scriva così come glielo dico: Gianni Riotta è un coglione".
Tornando al conflitto che si è scatenato fra Russia ed Ucraina, Cacciari ritiene che il presidente Putin abbia commesso un grave errore strategico optando per una "invasione in stile sovietico", ben diversa da quanto accadde invece con la Crimea. "Un errore colossale dal punto di vista politico e militare”, ha ribadito il filosofo.
Ucraina, la lista nera di Joe Biden: schedati i sostenitori italiani di Vladimir Putin, spuntano nomi scottanti. Libero Quotidiano il 03 marzo 2022.
I “putiniani d’Italia” sono stati “schedati” dalla Columbia University, che ha deciso di realizzare uno studio specifico su “chi se la intende con Vladimir Putin”. Curato dai docenti Onda Bertelsen e Jan Goldman”, il report riguarda anche i principali personaggi italiani che subiscono “l’influenza russa”: si tratta di intellettuali, giornalisti, parlamentari e imprenditori che in passato o negli ultimi tempi hanno sottolineato “meriti e qualità” del leader del Cremlino.
Linkiesta ha anticipato i contenuti dello studio, almeno quelli che riguardano strettamente l’Italia. E così è stato possibile scoprire quali sono i nomi dei “putiniani nostrani” secondo gli americani: si parte da Claudio Mutti, ex attivista di estrema destra e fondatori delle Edizioni all’Insegna del Veltro, dagli ex Msi Carlo Terracciano e Maurizio Murelli e dall’esperto di geopolitica Tiberio Graziani. Non poteva mancare il giornalista Gianluca Savoini, quello del caso dell’Hotel Metropoli.
Tra coloro che “se la intendono con Putin” ci sono anche nomi più conosciuti: il filosofo Massimo Cacciari, Diego Fusaro, l’ex inviato nell’ursa Giulietto Chiesa, lo scrittore Nicolai Lilin, il leader di CasaPound Simone Di Stefano, l’ex direttore di Rai2 Carlo Freccero, il reporter di guerra Fausto Biloslavo, lo storico Franco Cardini e i giornalisti Sebastiano Caputo e Maurizio Blondet.
Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” il 4 marzo 2022.
Sgominati il direttore d'orchestra e la soprano russi alla Scala, respinto l'assalto della Brigata Dostoevskij all'Università Bicocca, attendevamo con ansia che qualcuno bombardasse l'hotel de Russie di Roma e la fermata Moscova della metro milanese, o boicottasse la griffe Moschino, o prendesse sul serio chi sul web propone di ribattezzare Ignazio La Russa "L'Ucraina" (Maurizio Mosca l'ha scampata bella, defungendo per tempo).
Poi è giunto l'annuncio della Federazione Internazionale Felina che, "in segno di vicinanza verso gli ucraini", ha deciso di "non registrare più gatti provenienti dalla Russia e mettere uno stop alla partecipazione degli allevatori russi alle esposizioni internazionali". E abbiamo pensato che nessuno ne avrebbe più battuto il record di stupidità. Ma avevamo sottovalutato Johnny Riotta, che c'è riuscito in scioltezza su Repubblica con la lista di proscrizione "Destra, sinistra e no Green pass: identikit dei putiniani d'Italia. Da Savoini a Fusaro, da Barbara Spinelli a Mattei, Foa e Mutti, editore del fascio-putinista Dugin".
Un frittomisto scombiccherato e imbarazzante (non per lui, che non conosce vergogna e non ha mai la più pallida idea di ciò che dice, tipo quando negava in tv che l'articolo 1 della Costituzione affermi che la sovranità appartiene al popolo, ma per gli eventuali lettori).
Piluccando da uno studio della Columbia University, forse per dimostrare la bruciante attualità de L'Idiota di Dostoevskij, il cortigiano Johnny frulla personaggi, storie, tesi diversi e spesso opposti, accomunando il leghista che chiedeva tangenti all'hotel Metropol di Mosca a chi osa obiettare al fumetto dell'Occidente buono, democratico e pacifista minacciato dal Nuovo Satana.
Una barzelletta che farebbe scompisciare pure Kissinger, i migliori diplomatici Usa e il capo della Cia Burns, tutti molto critici sull'allargamento della Nato a Est. Ma curiosamente Riotta, nella lista dei nemici pubblici, si scorda quei fottuti putinisti di Kissinger e Burns. E omette la Luiss, citata dalla Columbia fra gli amici della Russia, forse perché lui vi dirige una scuola di giornalismo (per mancanza di prove). In compenso ci infila la Spinelli, che scriveva su Rep quando era ancora un giornale e non il pannolone di Biden.
E pure l'ex presidente Rai Marcello Foa, "commentatore di reti di propaganda russa": cioè di Russia Today, che fino a sei anni fa usciva come inserto mensile di Rep. Il finale è un'istigazione ai rastrellamenti che piacerebbe un sacco a Putin e sarebbe un tantino inquietante, se Riotta lo leggesse e lo prendesse sul serio qualcuno: "Li riconoscete a prima vista: tutti hanno la stessa caratteristica". Quella di pensare con la propria testa, ma soprattutto di averne una.
Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 4 marzo 2022.
Finalmente una lista di proscrizione nella sua forma più pura, fatta come si deve: l'ha compilata Gianni Riotta su Repubblica di ieri. Era anche ora, perché in Italia per additare una «lista di proscrizione» bastava niente, era sufficiente che i soggetti indicati fossero più di due (come l'associazione per delinquere) e fossero accomunati da un'opinione vagamente condivisa: il semplice segnalarlo, poi, faceva scattare l'accusa generica di aver compilato una delle famose «liste» come quelle utilizzate da Silla e dal secondo triunvirato romano per colpire i nemici, sopprimendone e incamerandone i beni.
Ora invece Riotta ha fatto le cose per bene, e il risultato è la paginata di Repubblica di ieri: i «putiniani d'Italia» rintracciabili tra «Destra, sinistra e no green pass», infatti, erano ben esposti con fotina e sintesi dell'accusa, pronti per il pubblico safari. Ed è questo a contare: il risultato, non come ci sei arrivato.
Conta aver messo insieme Claudio Mutti, editore del fascio-putinista Aleksandr Dugin, a Barbara Spinelli, «ex analista filo nato» colpevole di aver scritto un commento «che è stato rilanciato sui social dall'ambasciata russa a Roma»; e aver mischiato il giurista «No Green Pass» Ugo Mattei, colpevole di aver scritto che «Putin fa gli interessi nazionali della Russia» (pazzesco), al «filosofo rossobruno Diego Fusaro», secondo il quale «Zalensky manda il popolo ucraino al massacro».
Ma non vorremmo, ora, per biasimarla, replicare la schifosa lista di proscrizione compilata da Riotta: ci si limiterà perciò a qualche altro nome (russofili, mezzi nazisti e persone normalissime mischiate alla rinfusa) e all'esposizione del criterio di compilazione riottiano.
Il quale, a proposito, ha compilato la lista attingendo al magazine online Linkiesta diretto dal suo conterraneo siciliano Christian Rocca, da lui già assunto quando Riotta era direttore del Sole 24 Ore: basterebbe un terzo o quarto siculo (ne avremmo pronti i nomi) per compilare la lista del «clan dei siciliani» ex neocon.
Oppure basterebbe ricordare quando Glenn Greenwald, già Premio Pulitzer per alcuni servizi sulle rivelazioni di Edward Snowden su alcuni servizi di sorveglianza statunitensi, nel 2014, definì Gianni Riotta «il contrario del giornalismo»: ce n'è abbastanza per definire Riotta antisemita perché Greenwald è di famiglia ebraica, il livello di superficialità è lo stesso, oppure Snowden un banale putiniano perché ha lo status di rifugiato politico a Mosca.
Ma continuiamo con l'elenco: c'è l'ex presidente Rai Marcello Foa che «tocca a Marco Damilano contraddire su La7», lui «commentatore di reti di propaganda russa per le fake news diffuse sul tema», e chissà a chi toccherà contraddire Foa per i dieci anni passati alla Radio della Bbc.
Dentro anche Sergio Romano, colpevole di aver scritto una prefazione a un saggio di Edvard Lucas sulla nuova guerra fredda, e dentro anche Massimo Cacciari, reo di aver rilasciato un'intervista al Piccolo di Trieste nel 2014 (nel 2014) in cui si disse certo che sull'annessione russa della Crimea l'Unione europea fosse «incauta».
Affianco a loro, su uno stesso evidente piano, l'ex grillino Pino Cabras, che «vuole, come Putin, l'Ucraina neutralizzata a forza» e che scrive dei saggi con Giulietto Chiesa tradotti in russo, e altri che «odorano di Putinversteher» (hanno anche un odore, i poscritti) come Laura Boldrini e Stefano Fassina, che sul sostegno militare all'Ucraina si sono astenuti, da affiancare a loro volta - dentro tutti - agli ex dirigenti del vecchio Msi Carlo Terracciano e Maurizio Murelli e a Tiberio Graziani, quest' ultimo docente universitario ed esperto di geopolitica che ha collaborato con Il Sole 24 Ore, Sky Tg 24, Radio Vaticana, Uno Mattina Rai, Class New e però anche - attenzione - La Voce della Russia. Domanda: come ha complilato la sua purissima lista di proscrizione, Riotta, alias Repubblica? Con la scusa, puerile e irreale, che altri l'avrebbero preceduto.
Ha spiegato che «Putinversteher» è un neologismo tedesco che indica «Chi si intende con Putin» e che i medesimi sono attivi anche in Germania e negli Usa, ovviamente nel partito repubblicano Usa. E sin qui non c'entra niente.
Poi ha citato, copiandolo da Linkiesta, uno studio della Columbia University dove c'è anche un focus dedicato ai putiniani italiani, curato da Luigi Germani e Massimiliano De Pasquale, due evidenti e illuminate menti. Il focus fa schifo a sua volta, ma a non è questo a contare.
A contare è il processo di trasformazione di questo malriuscito rassemblement nella realtà italiana di oggi, che lo inserisce in un punto qualsiasi dell'inarrestabile escalation che ha fatto della violenza verbale e del ludibrio grillesco un modus comunicativo in crescendo, sino a trasformare in articolo presunto «normale» un orribile e malfatta lista di proscrizione vera e propria, titolata «Identikit dei putiniani d'Italia»: perché anche «identikit» ormai, è un termine ormai anestetizzato, normale, anche se indica, in origine, la procedura della polizia per ricostruire i tratti somatici di criminali veri o presunti. Domani, su Libero, l'identikit dei riottiani d'Italia.
Hanno tutti ragione. Quegli intellettuali che agli ucraini dicono: il prezzo della pace è la vostra servitù. Stefano Cappellini su La Repubblica il 4 Marzo 2022.
Forse per la prima volta dal secondo dopoguerra c'è qualcosa che non torna e non basta nelle posizioni di chi grida: pace! Il pacifismo ha una lunga e ammirevole storia. Nel secondo dopoguerra ha rappresentato il sentimento di popoli che avevano conosciuto l'orrore delle guerre mondiali e consideravano loro missione principale quella di consegnare ai propri figli un mondo non più regolato dai conflitti armati come metodo di risoluzione delle controversie.
Putin boy. Ci voleva un sindaco polacco per farci capire che Salvini è un politico scarso (e ipocrita). Mario Lavia su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.
Woicech Bakun ha avuto il coraggio di mandare al diavolo il leader della Lega, arrivato al confine tra Polonia e Ucraina per fare l’ennesima operazione propagandistica. Sono anni che tra citofoni, rosari e mojito non ne azzecca una. Sarebbe ora che Zaia e Fedriga alzassero la voce contro un leader che gli fa fare una figura barbina agli occhi del mondo.
In trenta secondi il sindaco di Przemys, Woicech Bakun, uomo di destra, ha dato una memorabile lezione a tutti noi italiani. Ma perché, in tanti anni che lo conosciamo, nessuno di noi ha avuto il coraggio, la prontezza, la dignità di mandare Matteo Salvini al diavolo come ha fatto Bakun?
D’accordo, qualche contestazione il capo leghista l’ha avuta (ricordiamo una coraggiosa Elly Schlein inseguirlo a voce alta per strada: «Come mai non siete mai venuti alle riunioni su Dublino?») ma mai come ha fatto il sindaco della cittadina polacca dove l’ex Capitano si era recato.
Eppure abbiamo avuto qui le citofonate bolognesi, il mojito per far cadere un governo, il blocco degli sbarchi, il rosario nei comizi, di tutto e di più, ma gli italiani lo vota(va)no lo stesso – è anche vero che scende nei sondaggi, ieri Swg lo dava al 17%: è sempre lo stesso Salvini, non è cambiato, forse un po’ di esperienza in più ma è il solito spaccone da sala di biliardo, uno che pensa di prendere il mondo per i fondelli, che fa il contrario di quello che dice e dice il contrario di quello che fa.
E dunque è come se il sindaco di Przemys, a pochi chilometri dall’Ucraina, esibendo con nonchalance la maglietta col faccione di Putin che Salvini sfoggiò in più di un’occasione, avesse detto a noi italiani: ma ancora credete a questo buffone? Come potete credere a uno che è venuto qui, a pochi passi dal Paese insanguinato dal suo faro Putin? «Io non la rispetto», ha detto sul muso al politico italiano intabarrato nel giaccone sponsorizzato, ed è come se avesse detto a noi: ma come fate a rispettarlo?
Già, noi, gli italiani brava gente che se la ridono fino a che non vedono in faccia la tragedia, come accade ai soldati di quel vecchio film di Giuseppe De Santis, noi il sussulto morale del sindaco Bakun non l’abbiamo avuto abbastanza, facciamo troppo il callo al bullismo di certi politici, e forse Mario Draghi, Enrico Letta, Matteo Renzi ma pure Giorgia Meloni avrebbero dovuto dirgli «Matteo, ma che vai a fare al confine polacco-ucraino?», senza dire che sarebbe ora che i vari Luca Zaia e Massimiliano Fedriga alzassero la voce contro un leader che gli fa fare una figura barbina agli occhi del mondo.
Ma anche noi siamo stati distratti, noi tutti, e per esempio i giornali avrebbero dovuto sollevare il problema di un leader politico italiano che si apprestava a compiere un’operazione pasticciona e vampiresca alla ricerca di sangue propagandistico da mescolare all’anemico plasma fatto di slogan sul catasto e altra robetta di questo genere, una macchietta del sovranismo che non si pone mai il problema di un ripensamento, una revisione, un’autocritica, sgambettando piuttosto da una trovata e l’altra.
Ma intanto la maglietta con l’immagine di Putin soldato era lì sotto il giubbotto del sindaco Bakun, un giubbotto esplosivo per l’ospite inatteso e sgradito giunto da lontano per lucrare facili consensi e soprattutto qualche fotografia da gettare sulle bancarelle della Storia, il tutto seguito dalla sentenza del Giusto: «Salvini, io non la ricevo. Venga con me al confine a condannare Putin»: al che l’imputato Salvini si è fatto scurissimo inseguito dai «buffone, pagliaccio» è tornato indietro alla De Niro-Al Capone (“Gli intoccabili”) ma ha capito che non era aria: “chiacchiere e distintivo” era lui.
Frittata mai vista davanti al pianeta intero. Incredibile che un uomo che è stato vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno abbia potuto pensare di fare una cosa sensata. Ma come dice Shakespeare (“Come vi piace”), «il folle pensa di essere saggio». E ci voleva un sindaco di una sperduta cittadina polacca per farci capire che c’è un “folle” che si aggira nella politica italiana.
Dal profilo Instagram di Matteo Renzi l'8 marzo 2022.
Ho detto a Salvini in tutti i modi che in questa fase serve la politica, non le pagliacciate. Questo sindaco polacco glielo ha spiegato in modo ancora più chiaro. Meglio se Salvini torna a casa prima possibile, meglio per lui dico
Da adnkronos.com l'8 marzo 2022.
"Fermare la guerra si può. Per il Donbass serve un accordo sul modello di quello per il Trentino Alto Adige, che garantisca autonomia e libertà. L’Europa prenda una iniziativa diplomatica, non lasciamo la responsabilità del dialogo solo a Turchia o Cina #StopWar". Lo scrive su Twitter Matteo Renzi, leader di Italia Viva, in relazione alla guerra tra Ucraina e Russia innescata dall'invasione ordinata da Vladimir Putin. Mosca ha riconosciuto le repubbliche separatiste di Donetsk e di Lughansk, nel Donbass.
Da open.online l'8 marzo 2022.
«Non ci interessa la polemica della sinistra italiana o polacca, siamo qui per aiutare chi scappa dalla guerra». Così il leader della Lega Matteo Salvini al suo arrivo alla stazione di Przemysl, in Polonia, a una decina di chilometri dal confine con l’Ucraina.
Il sindaco della città Wojciech Bakun, pur ringraziando l’Italia, ha dato a Salvini una maglietta con la scritta «Esercito di Putin» e, parlando al segretario leghista, ha detto: «Io non la ricevo, venga con me al confine a condannare» il presidente russo. Il leader della Lega è stato contestato anche da alcuni italiani, che hanno gridato: «Buffone».
Francesco Moscatelli per “la Stampa” il 9 marzo 2022.
«A Matteo Salvini ho portato la t-shirt che aveva indossato cinque anni fa a Mosca e gli ho ricordato chi sono i suoi amici. E poi volevo mostrargli quello che il suo amico Putin sta facendo per il popolo ucraino». Wojciech Bakun è il sindaco di Przemyl, la città polacca al confine con l'Ucraina in prima linea nell'emergenza profughi, che ieri ha accolto provocatoriamente il segretario della Lega.
Sindaco, lo conosceva già Salvini?
«Era la prima volta che lo vedevo. Lunedì mi hanno detto che sarebbe venuto qui e così gli ho fatto stampare apposta la maglietta come regalo».
Avete parlato di quello che sta succedendo?
«Dovrebbe saperlo, non c'era bisogno che glielo spiegassi».
Le sue giornate iniziano all'alba e finiscono a notte fonda. Cosa state facendo? «Recuperiamo tutte le persone che scappano dalla guerra, le portiamo ai punti dove vengono registrate, diamo loro da mangiare e organizziamo i trasferimenti».
Alcuni giorni fa ha oltrepassato la frontiera per andare a portare la sua solidarietà al primo cittadino di Mostys'ka, la città ucraina gemellata con Przemyl. Cosa vi siete detti?
«Abbiamo discusso di quali sono le cose più urgenti da fare per aiutare la sua città e le altre città ucraine di quest' area. Mi ha ringraziato per il generatore che gli abbiamo dato e che servirà per garantire l'elettricità all'ospedale».
Cosa chiedete ai governi dell'Unione europea?
«Tutti i Paesi della Ue si devono preparare ad accogliere un numero gigantesco di rifugiati. Finora ne abbiamo ricevuti circa un milione ma siamo solo all'inizio».
Se potesse riparlare con Salvini che cosa gli direbbe?
«Deve vergognarsi, non lo voglio incontrare mai più. Ero sorpreso che volesse visitare Przemyl: siamo in prima linea nell'affrontare gli effetti di quanto Putin sta facendo».
Lei di che partito è?
«Non appartengo ad alcun partito polacco. Sono solo il sindaco. Posso aggiungere una cosa?».
Prego
«Ho un grande rispetto per il popolo italiano. Stiamo lavorando con tante ong italiane e voglio ringraziare l'Italia per quello che sta facendo».
Luca Fornovo per “la Stampa” il 9 marzo 2022.
Non bastava l'imbarazzante amicizia con Putin. A mettere nei guai Matteo Salvini è anche la pericolosa liaison con Francesca Immacolata Chaouqui, finita nello scandalo di Vatileaks 2 nel 2015. È stata lei, nella sua veste di fondatrice della "Ripartiamo Onlus", a fornire al Capitano della Lega il giaccone-marketta, indossato a Prezmysil, che conta più sponsor dello stadio di San Siro quando si disputa il derby della Madonnina.
E così, dopo la bufera social per il giaccone megapubblicitario, le aziende sono scese in campo per prendere le distanze in modo netto dal segretario leghista (e dalla Chaouqui). Da Audi a Colmar le società hanno rimarcato «la propria opposizione a qualsiasi forma di promozione o sponsorizzazione di personalità politiche italiane ed estere e di qualsiasi loro esternazione passata, presente o futura». Dopo la figuraccia in Polonia, l'irritazione delle aziende incrina ulteriormente l'immagine di Salvini. La misura è Colmar.
Gianmarco Aimi per mowmag.com il 9 marzo 2022.
Ci sono momenti nei quali non si può tacere. E i fotografi piacentini Sergio Ferri e Marco Salami, di fronte alla scena a cui hanno assistito, sono sbottati rendendo la visita di Matteo Salvini nella stazione di Przemysl, al confine tra la Polonia e l’Ucraina, una contestazione civile che ha fatto il giro del mondo e passerà alla storia.
I due, che si trovavano in zona dopo aver deciso di portare un sostegno alle popolazioni che scappano dalla guerra - oltre che per documentare quanto sta avvenendo con i loro scatti – non hanno infatti resistito a quella che, secondo loro, era una operazione decisamente ipocrita del leader della Lega.
Cioè di dichiararsi vicino alle persone che cercano una via di fuga dai bombardamenti russi, dopo che in passato aveva pubblicamente e a più riprese sostenuto Vladimir Putin. Il pretesto per urlargli “buffone” o “vergognati”, inoltre, gli è stata data dalle dichiarazioni a sorpresa del sindaco della città Wojciech Bakun, il quale prima si è rifiutato di ricevere Salvini e poi, di fronte ai microfoni dei reporter di diverse testate europee, ha sventolato una maglietta con l’immagine del presidente russo.
Un chiaro riferimento alla t-shirt che il leghista esibì al Parlamento europeo nel 2017 dichiarando: “Agli eurocretini che giocano a fare la guerra alla Russia”. Immagini, quelle di oggi, che nel giro di poche ore sono diventate virali. Per questo abbiamo contattato Sergio Ferri, uno dei due fotografi che hanno contestato Salvini, per farci spiegare come mai non ha resistito a fargli notare l’incongruenza del suo comportamento in un momento così drammatico.
Sergio, c’è chi dice che la vostra contestazione fosse preparata. È così?
Assolutamente no. Eravamo lì il giorno prima per portare aiuti e trasportare in Italia alcune persone che stanno scappando dalla guerra. E il giorno dopo, cioè oggi, visto che non parliamo russo o ucraino, eravamo in piazza perché stavamo cercando qualcuno che potesse aiutarci a tradurre. In quel momento ci siamo accorti della piazza transennata e ci siamo avvicinati per capire cosa stesse avvenendo.
E in quel momento è arrivato Salvini?
Abbiamo chiesto alle altre troupe e ci hanno detto che sarebbe arrivato a breve. Per cui non ce lo volevamo perdere. E infatti è arrivato verso l’orario in cui vanno in onda i telegiornali, verso l’una.
Ma sapevate che il sindaco della città avrebbe esposto quella maglietta che ricordava il sostegno di Salvini a Putin?
Macché, anche perché parlava in polacco e noi non conosciamo quella lingua. In più non me ne sono accorto subito, perché ero impallato da una giornalista spagnola. Quando ho visto la maglietta pensavo avesse dei simboli di solidarietà. Però mi è venuto spontaneo dire: “Tira fuori quella di Putin”. Solo dopo qualche secondo, quando ho visto Salvini rabbuiarsi e balbettare qualche parola in inglese, ho notato che sulla maglia c’era effettivamente l’immagine di Putin.
Una coincidenza incredibile.
Sì, davvero. Allora Marco, il mio collega, inizia a dire: “Adesso mettiti la maglietta di Putin”. Mentre io lo seguo, visto che Salvini ha provato ad allontanarsi, e gli dicevo “sei un ipocrita” e poi “buffone”.
Come mai non hai resistito dal contestare Salvini?
Perché secondo me era una situazione vergognosa. Non si può un giorno dire una cosa e il giorno dopo dirne un’altra. Ma soprattutto sciacallare su una tragedia del genere per una convenienza politica. Ha provato a cavalcare questa storia drammatica per rifarsi una verginità, quando fino a qualche giorno prima diceva cose terribili sulle persone che hanno sofferto le conseguenze di altre tragedie, oppure non dava sostegno a chi ha il colore della pelle diverso o bloccava i porti per chi aveva bisogno. Per cui, per me, è un atteggiamento scandaloso. Dovrebbe stare in silenzio e fare una profonda riflessione.
È una scena che, in qualche modo, passerà alla storia.
Tra l’altro c’è una curiosità. Io e Marco (Salami, nda) siamo stati a Pontida nell’ultima apparizione di Umberto Bossi come leader della Lega. E poi sappiamo tutti come finì. E l’altro giorno abbiamo assistito a uno dei momenti, credo, di svolta nella parabola politica di Salvini. Credo che anche nella Lega, dopo questa figuraccia, qualcuno gli dirà che non può andare avanti così. Ma io non condanno mai per principio, si può pensarla diversamente, ma che siano posizioni rispettabili. Sono convinto che molte persone che votano Lega assolutamente in buona fede e con degli interessi da difendere e quella è politica, ma queste scene sono soltanto scandalose.
Tu e il tuo collega siete al seguito di una organizzazione umanitaria?
Noi prima dello scoppio della guerra stavamo facendo un lavoro fotografico in Transnistria, tra Ucraina e Moldavia, con una Ong e che riguardava le donne maltrattate. Ma poi eravamo tornati in Italia. Quando è partito il conflitto abbiamo organizzato una raccolta di beni di prima necessità. In tre giorni, solo con i messaggi Whatsapp tra i nostri amici e conoscenti, abbiamo caricato una macchina di medicinali, latte in polvere e omogeneizzati. Mentre un altro mezzo lo abbiamo messo a disposizione come navetta tra Piacenza e questa zona per portare chi scappa a essere accolti in una zona sicura o si vogliono ricongiungere con i loro parenti. Ma è tutto autogestito.
Quindi anche singolarmente, volendo, si può fare molto.
Chi ha una certa età e ha vissuto l’epoca della guerra nei Balcani una certa sensibilità l’ha maturata. Si può benissimo organizzare degli aiuti autogestiti. Certo, l’importante è fare attenzione.
Il sindaco polacco: “Niente scuse a Salvini, il suo è stato un gesto ipocrita”. La Stampa il 12 Marzo 2022.
Non ha cambiato idea il sindaco di Przemysl, Wojciech Bukan, il cui volto è ormai noto a tutti dopo che qualche giorno fa aveva accolto fa il leader della Lega, Matteo Salvini, sventolandogli una maglietta con il volto di Putin per svergognare pubblicamente il politico del Carroccio ricordandogli la sua antica simpatia per il capo del Cremlino. «Ho detto tutto quello che avevo da dirgli. La guerra non è iniziata due giorni fa, ora si è solo estesa a tutto il Paese. All'epoca Salvini ha continuato a sostenere Putin e la sua guerra, questa è la cosa terribile. Ora viene qui a mostrare solidarietà ai profughi», ha detto il primo cittadino. Il quale evidentemente non ha alcuna intenzione di chiedere scusa e neppure di cercare un chiarimento che metta a tacere il sarcasmo dei social o dia all’intera vicenda una parvenza di episodio fortuito e da dimenticare in fretta e senza rancori. Quasi quasi, il sindaco rincara la dose: «Quello dell'ex ministro è stato "un gesto ipocrita», ha voluto commentare ancora in queste ultime ore. «La nostra priorità - ha poi sottolineato - è organizzare dei punti di ristoro. Przemysl fa 60 mila abitanti, in due settimane sono passate da qui mezzo milione di persone». Poco più 72 mila arrivi nella giornata di venerdì. Ha commentato il capo della regione dei Precarpazi, Wladyslaw Ortyl: «Nei prossimi giorni ci aspettiamo una nuova ondata che potrebbe creare problemi».
Il fiasco del segretario della Lega. Il fotografo che ha contestato Salvini in Polonia, Sergio Ferri: “Non sopporto sciacallaggio e ipocrisia”. Vito Califano su Il Riformista il 9 Marzo 2022.
Sergio Ferri è stato il più duro contestatore di Matteo Salvini in Polonia. Il segretario della Lega, nel suo viaggio ai confini con l’Ucraina per portare solidarietà e sostegno alla popolazione colpita dalla guerra, è inciampato in un colpo di scena imprevisto. Una contestazione ironica e fortemente critica. Sorta di agguato, quello che gli ha testo Wojciech Bakun, sindaco di Przemysl, a una decina di chilometri dal confine con il Paese invaso.
Bakun, dopo aver ringraziato l’Italia per il sostegno ai rifugiati ucraini (oltre due milioni secondo le Nazioni Unite) ha tirato fuori una t-shirt con il volto di Vladimir Putin uguale a quella che Salvini aveva sfoggiato in Piazza Rossa a Mosca, quando celebrava il Presidente della Russia. “Io non la ricevo, venga con me al confine a condannarlo”. Il segretario del Carroccio è rimasto di ghiaccio, ha provato a replicare in inglese, quindi si è allontanato.
Presenti alla scena un gruppetto di italiani che ha contestato il leader leghista. Gli hanno dato del “buffone” e del “pagliaccio”. Ferri, tra i più energici nella protesta, è un fotografo in missione umanitaria in Polonia. “Quando abbiamo visto il sindaco che tirava fuori la maglietta di Putin, lui che indossava pure una tuta mimetica, abbiamo capito che qualcosa stava succedendo, a quel punto, sia io che il mio collega Marco Salami, e forse un altro italiano, abbiamo iniziato a incalzare Salvini, chiedendogli di indossare quella t-shirt”.
Il fotografo free-lance piacentino ha parlato ad Adnk-Kronos. “È stato più forte di me, non sopporto lo sciacallaggio e l’ipocrisia. Noi siamo qui perché abbiamo portato farmaci e aiuti agli ucraini. A un certo punto Salvini è venuto verso di noi, io gli ho ricordato quando diceva che due Mattarella non valgono mezzo Putin, e avendolo davanti gli ho chiesto di dire chiaramente di condannare Putin, cosa che lui non ha voluto fare”.
Ad “altri colleghi – dice ancora Ferri – uno spagnolo gli chiede la stessa cosa, con lui Salvini dice che Putin è l’aggressore, è da condannare, almeno così mi raccontano”. Salvini aveva provato a smarcarsi dal gesto del sindaco polacco osservando che “non ci interessa la polemica della sinistra italiana o polacca, siamo qui per aiutare chi scappa dalla guerra”. Bakun è esponente del partito di destra Kukiz’15.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Lega sempre più debole. Autogol di Salvini in Polonia, la passerella pacifista finisce in figuraccia. Claudia Fusani su Il Riformista il 9 Marzo 2022.
Le immagini planano nell’aula di Montecitorio via telefonino mentre si discutono le pregiudiziali del decreto Ucraina, quello che invia le armi ai resistenti ucraini ma stanzia anche danaro per organizzare l’accoglienza e una dignità alla vita dei profughi e per sostenere le aziende italiane costrette a chiudere l’attività in Ucraina. Sono i social bellezza, e non ci si può fare nulla. Matteo Salvini dovrebbe saperlo bene. Così, appunto, mentre l’aula discute di cose serie e la Commissione Finanze è di nuovo alle prese con la delega fiscale e un emendamento che vorrebbe far fuori il famoso articolo 6 con la riforma del catasto, sugli smartphone dei vari deputati arrivano le immagini della figuraccia internazionale collezionata da Matteo Salvini al confine con la Polonia. Un video così cliccato urbi et orbi forte da mettere quasi in secondo piano le “bandierine” sulla presunta “patrimoniale” denunciata dalla Lega e del centrodestra. I deputati leghisti per ore hanno potuto verificare sui social il numero di visualizzazioni in costante crescita del video incriminato.
Matteo pacifista
Il leader della Lega, da quando Mosca ha invaso l’Ucraina e bombarda i civili, è stato colto da un improvviso afflato pacifista, caritatevole, quasi missionario. Prega davanti ai portoni delle ambasciate, invoca la pace mentre vota per mandare le armi, organizza carovane di pace e viaggi della speranza per i profughi. Vabbè, ci sta che anche un leader abbia un po’ di confusione in testa in momenti come questi. Solo che, invece di fermarsi e capire, Salvini è partito in missione. Destinazione Polonia, la frontiera dove il fiume dei profughi scorre ininterrotto. Ma vorrebbe anche andare in Ucraina. Se potesse, vorrebbe convocare lui il tavolo della mediazione. Diciamo subito che i suoi osservano gli sviluppi della missione umanitaria e pacifista con qualche dubbio e scetticismo. Che ieri, nel primo pomeriggio, è diventato un incubo. Salvini infatti prima ha fatto tappa al centro della Caritas a Rzeszów, uno dei principali snodi per lo smistamento degli aiuti verso l’Ucraina e poi è arrivato in due località al confine tra Polonia e Ucraina: Przemyśl e poi Kijowska. Tra una tappa e l’altra il leader della Lega è stato in contatto con il premier Mateus Morawiecki, colui che ha voluto Giorgia Meloni alla guida del partito europeo dei Conservatori europei. Arrivato a Przesmyl, è successo l’inimmaginabile. Ma che non è escluso, viste le modalità, che possa invece essere stato organizzato.
Il sindaco e la maglietta di Putin
Alla stazione dove arrivano i rifugiati in fuga, Salvini ha trovato il sindaco Wojciech Bakun. I due si sono salutati, si sono parlati un attimo e poi si sono messi in posa per la foto di cortesia. Dopo aver ringraziato l’Italia per gli aiuti, il sindaco Bakun ha tirato fuori una maglietta bianca e se l’è appoggiata sulla giacca. Sopra la faccia di Putin con la scritta “esercito russo” simile a quella che Salvini indossava nel 2017 davanti al Cremlino a Mosca per decantare tutta la sua stima per lo zar di Mosca. Il leader della Lega è rimasto senza parole, ha provato a replicare “sorry, siamo qui per aiutare i bambini” ma il sindaco non ha sentito ragioni e gli ha detto: “Adesso, se vuole, ha l’opportunità di venire con me dai rifugiati a condannare Putin…”. Mentre dal gruppetto dei fotografi si alzavano piccoli cori “buffone”, “pagliaccio”, Salvini ha salutato e se n’è andato.
“Un affronto” dirà, poi, il sindaco che ieri mattina, quando ha saputo della visita del leader della Lega, lo ha vissuto “come un affronto”. È stato allora che ha deciso di regalargli una maglietta con l’immagine del “suo” amico Putin. Sarà anche come dice il sindaco. Ma ci sono anche tutti gli indizi per pensare ad una imboscata bella e buona. In ogni modo, un politico locale ha postato il video che in meno di un’ora è diventato virale. “Basta aprire Instagram e si parla solo di questo…” diceva sconfortato un deputato leghista. Una figuraccia internazionale che segherebbe le gambe a chiunque. Vedremo. Di sicuro non ha aiutato il fronte del centrodestra ieri impegnato, anche se non in modo compatto, sul fronte della delega fiscale ancora ferma in Commissione dal 29 ottobre scorso quando fu approvata in Consiglio dei ministri.
E si parla di catasto…
La scorsa settimana la maggioranza si è spaccata sull’emendamento soppressivo dell’articolo 6 che riforma il catasto. Il governo non ha accettato mediazioni visto che la versione approvata in Cdm lo scorso 29 ottobre era già una mediazione nel momento in cui – si legge nel testo – “la mappatura del patrimonio immobiliare non avrà alcuna conseguenza sugli estimi catastali e quindi di tipo fiscale”. Spazzata via, così, ogni rischio di patrimoniale. Almeno fino al 2026. Allora ci penserà chi sarà al governo.
La Lega non ha votato in Cdm. Forza Italia sì. Ma la scorsa settimana, quando il Carroccio è tornato alla carica sulla scia di Fratelli d’Italia, anche Forza Italia ha votato per la soppressione dell’articolo 6. Smentendo il voto dei suoi ministri. Il sottosegretario Cecilia Guerra fu chiarissima nel minacciare la crisi: “Se passa questo emendamento il governo ne trarrà le conseguenze”. L’emendamento è stato respinto per un voto (22 a 23): a favore Fdi, Lega, Fi, Coraggio Italia; contrati Pd, M5s, Iv, Leu e Noi con l’Italia (onorevole Colucci). La frattura dentro Forza Italia è stata evidente, i ministri azzurri “contro” il capogruppo Martino. Anche nella Lega c’è stata l’ala filogovernativa che ha cercato di mediare.
Un’altra giornata di trattative
Il nodo dell’articolo 6 è tornato ieri sul tavolo con la ripresa dei lavori in Commissione. Questa volta l’emendamento soppressivo è di Alternativa c’è, gli ex 5 Stelle. Un’altra giornata di trattative, numeri sempre ballerini fino alle 20 quando la Commissione è tornata a votare. Il ministro per i Rapporti con il Parlamento ha fatto pressing nel pomeriggio su Forza Italia (6 voti) per spingerli all’astensione. Anche Coraggio Italia (due voti) ha ragionato fino a che punto “fosse conveniente votare un emendamento di Alternativa c’è”. Ha prevalso l’ordine di scuderia della sgangherata coalizione di centrodestra. È finita come una settimana fa, un piccolo scarto a favore della maggioranza. Un altro scampato pericolo per la maggioranza Draghi. Ma quanto può durare? Il premier, impegnato in queste settimane su ben altri fronti, anche lunedì da Bruxelles aveva ribadito che “nessuno pagherà più tasse sulla casa”. Negando per l’ennesima volta l’ultimo tormentone di Fratelli d’Italia (“è una nuova patrimoniale”) a cui si sono accodati Lega e Forza Italia. Draghi va quindi a diritto forte del fatto che non solo la riforma del catasto è un’operazione di equità, giustizia e trasparenza, ma anche che in tutto il mondo occidentale il patrimonio immobiliare viene “fotografato” ogni cinque anni per verificare ampliamenti ed eventuali abusi. La riforma, poi, è una di quelle legate al Pnrr.
Un Parlamento “scollegato”?
Il Parlamento sembra non curarsi degli scenari di guerra alle porte dell’Europa, della crisi umanitaria che si sta riversando nei nostri paesi con milioni di profughi in arrivo dall’Ucraina e della crisi energetica e di materie prime figlia di decenni di politiche miopi che hanno legato mani e piedi le nostre economie alla Russia di Putin. Scollegato, non tutto, dalla realtà. Lega e Forza Italia, che sono in maggioranza, sembrano intenzionati ad alzare in continuazione bandierine su ogni provvedimento. Lo farà presto anche il Movimento 5 Stelle. Ieri la delega fiscale che continuerà a ballare anche su altri passaggi e il cui iter in seconda lettura al Senato rischia di essere ancora più accidentato per via dei numeri in Commissione. Oggi la riforma degli appalti in aula al Senato e anche qui non c’è accordo. Come non c’è sulla riforma del Csm, votato da tutti i partiti di maggioranza in Consiglio dei ministri eppure subito “riscritto” dai sub-emendamenti in Commissione Giustizia dove giovedì scadono i termini. Un conto è migliorare un testo. Anzi, auspicabile. Diverso saccheggiarlo per poi poter dire “ho vinto io-ha perso l’altro”. A questa logica Mario Draghi non ci sta. E ha avvisato tutte le forze parlamentari. Ciascuno se ne assumerà le conseguenze.
Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.
Stefano Folli per “la Repubblica” il 9 marzo 2022.
Era evidente che la guerra in Ucraina, cioè in Europa, avrebbe spazzato via anche in Italia un vecchio modo di far politica, impastato di astuzie, giochi verbali, ammiccamenti, retorica da "talk show", enfasi stile "ultras" allo stadio. La guerra ribalta tutte le pseudo certezze e impone una nuova serietà.
Qualcuno sembra averlo già capito - ad esempio il Pd di Enrico Letta - , qualcun altro invece paga un prezzo salato alla propria ostinazione. In fondo non era difficile supporre che il viaggio di Salvini al confine polacco-ucraino avesse discrete probabilità di risolversi in un disastro.
Tuttavia la realtà è andata oltre ogni previsione. L'immagine del sindaco di Przemysl che accoglie - si fa per dire - il capo della Lega srotolando la maglietta con l'effige di Putin davanti alle telecamere, e gli ricorda il suo stretto legame con l'autocrate di Mosca, resterà nella storia a testimoniare una straordinaria insipienza politica.
Se Salvini pensava davvero di far dimenticare i suoi errori con un viaggetto di un paio d'ore alla frontiera così da inalberare il cartello "Sos Ucraina" - senza mai citare Putin, s' intende - , significa che ha perso ogni lucidità. Nel mondo globale tutti sono al corrente di tutto: basta un'occhiata a Twitter o alle vignette di Osho.
Anche in una cittadina polacca di confine hanno avuto il tempo di procurarsi una maglietta identica a quella che un paio d'anni fa il leghista esibiva orgoglioso sulla Piazza Rossa. Veramente strano che l'uomo che è stato vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno non lo avesse messo in conto. Forse è mal consigliato o forse non riesce a distinguere ciò che è drammatico da ciò che è ludico.
Nel 2019 aprì la crisi di governo da uno stabilimento balneare, ieri ha tentato goffamente di ricostruirsi un'immagine con un colpo di dadi dall'esito catastrofico. Aveva invece una carta semplice da mettere sul tavolo. Comprendere la portata del passaggio storico che l'Italia e l'Europa stanno vivendo e agire di conseguenza.
Sostenere senza ambiguità e fino a tempi migliori il governo di cui peraltro la Lega fa parte, considerando che non ci sono alternative a Draghi e a una linea di politica estera condivisa, nel rispetto del sistema di alleanze in cui l'Italia è collocata. Accantonare i vari "sovranismi" ed euro-scetticismi che non sono di alcuna utilità al momento: non a caso l'incidente è avvenuto in Polonia, uno dei paesi nazionalisti a cui la destra italiana guardava con attenzione. Ma è la guerra, appunto.
La guerra che restituisce spessore alle cose e una gerarchia ai valori. Il problema politico riguarda adesso la Lega e il centrodestra nel suo insieme. Salvini esce dall'episodio polacco con una reputazione a pezzi, anche se egli cerca di minimizzare accusando "la sinistra polacca e italiana". Davvero poco convincente.
L'uomo ambiva a essere il "leader" dell'intero schieramento, ma adesso non è credibile che tutto prosegua come prima. Per cui il dibattito a destra diventa interessante e potrebbe condurre a esiti imprevisti. Il che non significa una destra che rinuncia ai suoi principi. Il tema del catasto, ad esempio, è controverso, ma non può essere oggetto di ironie, nemmeno in un'epoca di tensioni internazionali. Contribuisce all'identità di una parte politica che teme l'aumento delle tasse, magari a torto, ed è pronta a farne oggetto della prossima campagna elettorale
Salvini ha detto che l’obiettivo della sua “missione” in Polonia è quello di «lavorare per la pace, garantendo l’invio di aiuti italiani», e «impegnarsi per favorire l’arrivo e l’ospitalità in Italia di bimbi, donne e famiglie in fuga dalla guerra».
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 9 marzo 2022.
Sarebbe facile infierire sul Salvini pacifista, umiliato dal sindaco di un paesino polacco ai confini dell'Ucraina, il quale si è rifiutato di riceverlo sventolandogli davanti alla faccia e, quel che è peggio, alle telecamere, la maglietta con l'effigie di Putin da lui più volte indossata in passato.
Quando hai uno scheletro nell'armadio, o tieni chiuso l'armadio o butti lo scheletro. O taci su Putin, come Berlusconi, o riconosci di avere sbagliato a tesserne le lodi. L'unica cosa che non puoi fare è fare finta di nulla, pensando di poterti reinventare senza doverti giustificare.
Salvini si è tolto la maglietta del putiniano per mettere quella del crocerossino con la disinvoltura di un bambino che cambia maschera di carnevale. Non mi interessa sapere perché lo ha fatto, ma come ha fatto anche solo a immaginare di poterlo fare. Credo che l'unica risposta plausibile sia che il segretario della Lega è il prodotto politico dei social, di una comunicazione senza memoria che si muove in un eterno presente.
Sembra la pesciolina Dory, che non ricorda mai cosa le è successo un attimo prima . Salvini ricorda benissimo di averci spacciato Putin per una via di mezzo tra Cavour e Nembo Kid, però pensava che quest' ultimo travestimento da «neutrale» sarebbe riuscito a farcelo dimenticare, evitandogli l'imbarazzo di un'abiura. Invece gli è bastato avvicinarsi a un teatro di guerra perché l'incanto si rompesse e lui si ritrovasse di nuovo nel tempo, con il passato addosso.
Marcello Sorgi per “la Stampa” il 9 marzo 2022.
Ma chi lo avrebbe mai detto a Salvini di dover pagare lo scotto delle sue t-shirt e dei social in cui è onnipresente. Contestato in Polonia, prima tappa della sua strana missione pacifista, Il leader leghista ha trovato ad aspettarlo - non ad accoglierlo - il sindaco di Przemysl Bakun che mostrava la maglietta con il volto dell'autocrate russo altre volte indossata dal Capitano. Si sa: Salvini usa molto per la sua propaganda il linguaggio delle felpe e dei travestimenti.
Ma forse, prima di mettersi in viaggio, non ha valutato bene la serie di interventi in favore di Putin rimasti a galleggiare sulla rete. 11 marzo 2015: «La Russia è più democratica dell'Unione europea». 25 marzo 2017: «Putin è il leader più lungimirante al potere. Se dovessi scegliere tra Merkel e Putin, vi lascio Merkel e mi tengo Putin».
18 ottobre 2016: «Qualcuno ha paura di essere invaso dai russi? Io piuttosto ridiscuterei la presenza dell'Italia nella Nato». 28 novembre 2017: «Se avessimo un Putin anche in Italia, staremmo sicuramente meglio». 12 luglio 2019: «Putin è uno dei migliori uomini di governo che ci siano sulla faccia della terra». Si tratta di una serie di interventi video davanti alle telecamere, più difficili da rinnegare delle dichiarazioni scritte o a voce.
Ma d'altra parte Salvini, che ha respinto l'invito del sindaco Bakun di andare a manifestare al confine con l'Ucraina contro l'invasione russa, non ha alcuna intenzione di smentirsi. Colpisce che almeno uno degli interventi si riferisca al periodo in cui il leader leghista era ministro dell'Interno dell'esecutivo gialloverde, a conferma della forte tentazione di uscire dalla tradizionale collocazione internazionale dell'Italia.
E come hanno ricordato ieri i radicali dell'Associazione Aglietta, il 6 marzo 2017 Salvini firmò a Mosca con "Russia Unita", il partito di Putin, un "patto di partenariato paritario e confidenziale", scambio di informazioni sulle relazioni bilaterali e internazionali, che scade in questi giorni, ma che Salvini non sembra aver alcuna voglia di disdettare.
I soliti “scivoloni” della Lucarelli che non sa più cosa scrivere pur di apparire e creare polemiche. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Marzo 2022.
La Lucarelli, ieri ha realizzato addirittura una "storia" su Instagram titolando: "Va dai profughi ucraini con i marchi sul petto...". accusa che in poco tempo ha scatenato una marea di insulti in base ad un conseguente effetto virale che i social a volte generano. la Lucarelli ed i suoi adepti e seguaci farebbero meglio ad informarsi per capire cosa ci sia dietro e parlare in coscienza, non sull'onda emotiva del momento
I social network sono diventati un’importante megafono di comunicazione, allorquando vengono usati con raziocinio e sopratutto intelligenza, ma nello stesso tempo diventano una cassa di risonanza in senso negativo e qualunque cosa venga pubblicata rischia di diventare virale. Purtroppo chiunque li utilizzi non si rende conto che può causare effetti devastanti che hanno portato in alcuni casi persino al suicidio.
Troppo spesso molto spesso il “popolino” si unisce al coro senza verificare che quanto si sostiene sia vero, e senza aver alcuna informazione attendibile. Il risultato è un volano di “fake news” come ad è accaduto ieri sul giaccone indossato dal leader della Lega di Matteo Salvini, in occasione della visita nella cittadina di Przemysl, al confine con l’Ucraina, dove arrivano ogni giorno migliaia di profughi e dove il leader della Lega è stato contestato da alcuni italiani presenti sul posto.
La polemica questa volta è esplosa sui social, ma non per la famosa maglietta di Putin, ma bensì sui loghi dei brand ben visibili sul giaccone indossato da Salvini, che in realtà contrariamente a quanto sostenuto dalla solita Selvaggia Lucarelli, che non perde occasione per fare dello squallido protagonismo, avevano in realtà un valore “nobile” e sopratutto benefico.
A differenza di quanto sostenuto dalla Lucarelli e dai suoi “seguaci” sui social per montare la polemica contro il leader della Lega, i marchi sul giaccone non sono assolutamente legati in alcun modo a Matteo Salvini. Quel giaccone è dell’associazione no-profit Cancro primo aiuto Onlus con la quale Salvini collabora ormai da diversi anni. La Cancro primo aiuto Onlus è stata fondata dalla figlia di Walter Fontana, l’ ex senatore Dc ed ex presidente dell’associazione Industriali di Monza e Brianza. Infatti, basta andare sulla pagina Instagram dell’organizzazione per trovare un post datato 14 gennaio 2022 in cui Isabella Tovaglieri testimonial della Onlus, indossava la stessa giacca che Matteo Salvini indossava ieri.
La Lucarelli, ieri ha realizzato addirittura una “storia” su Instagram titolando: “Va dai profughi ucraini con i marchi sul petto…”. accusa che in poco tempo ha scatenato una marea di insulti in base ad un conseguente effetto virale che i social a volte generano. Come accade in queste situazioni immediatamente sono partiti gli appelli a boicottare gli sponsor visibili sul giaccone indossato da Salvini, senza sapere che è proprio grazie alle sponsorizzazioni di quelle aziende, che l’associazione CPA (Cancro primo aiuto) Onlus riesce svolgere la propria attività sostenendo delle persone in difficoltà. Forse, prima di scrivere “cazzate”, la Lucarelli ed i suoi adepti e seguaci farebbero meglio ad informarsi per capire cosa ci sia dietro e parlare in coscienza, non sull’onda emotiva del momento.
Il vero problema è che la Lucarelli nata “blogger”, dopo una lunga gavetta durata 20anni, ora fa la giornalista pubblicista, ma probabilmente non conosce la Carta dei Doveri del Giornalista, che è il codice deontologico dell’ Ordine Nazionale dei Giornalisti. E sarebbe il momento che qualcuno glielo ricordasse! Redazione CdG 1947
Le due aziende hanno preso le distanze dall'iniziativa del leader della Lega. Il caso del giubbotto di Salvini in Polonia imbarazza Colmar e Audi: “Nessuno sponsor”. Roberta Davi su Il Riformista il 9 Marzo 2022.
Non si placano le polemiche per la ‘missione di pace’ all’estero di Matteo Salvini.
Il leader del Carroccio si è recato ieri 8 marzo a Przemysl- cittadina polacca a circa 10 chilometri dal confine con l’Ucraina martoriata dalla guerra, dove è stato contestato- sfoggiando un giubbotto su cui erano impressi loghi di diverse aziende e la scritta ‘Areu’ (l’Agenzia Regionale Emergenza Urgenza della Lombardia).
Un particolare che non è passato inosservato. Tanto che due dei brand presenti sulla giacca, Colmar e Audi, hanno voluto prendere le distanze dall’iniziativa di Salvini tramite note ufficiali.
“In merito a quanto emerso a mezzo social circa l’associazione erronea del marchio Colmar alle esternazioni, di una rappresentanza della politica italiana, Colmar rimarca la propria opposizione a qualsiasi forma di promozione o sponsorizzazione di personalità politiche italiane ed estere e di qualsiasi loro esternazione passata, presente o futura“. È quanto si legge sul comunicato dell’azienda Manifatture Mario Colombo, titolare del marchio Colmar, diffuso dopo le polemiche sorte per la presenza di vari brand sulla giacca di Matteo Salvini. “Colmar– conclude poi la nota- afferma la propria assoluta opposizione alla guerra in ogni sua forma”.
In un’altra nota l’azienda ha inoltre specificato che il giubbotto indossato ieri da Salvini è un capo fornito all’associazione ‘Cancro Primo Aiuto Onlus (Cpa)’ e “gli sponsor che appaiono sulla giacca sostengono solo la ‘Cancro primo aiuto Onlus’ e non sono riconducibili in alcun modo alla condivisione delle azioni e delle opinioni di nessun politico italiano.” La giacca, riporta il sito affaritaliani.it, sarebbe stata donata dall’associazione a diversi politici, tra cui Salvini.
Il marchio tedesco Audi, a sua volta, ha precisato che “In merito a quanto erroneamente evidenziato a mezzo social circa l’associazione del marchio Audi alle esternazioni, passate, presenti o future di una rappresentanza politica italiana, Audi Italia rimarca con fermezza la piena adesione alle regole di compliance del Gruppo Volkswagen che impediscono qualsiasi forma di promozione o sponsorizzazione di personalità politiche.” La nota riporta anche parole di condanna nei confronti del conflitto: “Audi Italia unitamente a Volkswagen Group Italia conferma inoltre la propria assoluta opposizione alla guerra in ogni sua forma”.
Salvini: “Un sindaco un po’ maleducato”
Il viaggio di Salvini all’estero, legato all’invasione russa in Ucraina, ha suscitato diverse reazioni. Il leader della Lega, dopo essersi recato a Varsavia lunedì 7 marzo, si è presentato il giorno successivo a Przemysl. Qui il sindaco Wojciech Bakun ha prima ringraziato l’Italia e ha poi mostrato una maglietta con il volto di Putin, dicendo a Salvini: “Io non la ricevo, venga con me al confine a condannarlo.“ A rincarare la dose, alcuni italiani che gli hanno urlato ‘buffone’ e ‘pagliaccio’.
“L’iniziativa dell’incontro odierno è nata da Salvini – ha poi sottolineato il primo cittadino -. Stamattina ho ricevuto la notizia che avrebbe visitato Przemysl. Lo ritengo insolente da parte sua, così ho deciso di regalargli una maglietta con l’immagine del suo amico Putin e invitarlo a visitare un centro con i rifugiati in cui ci sono migliaia di vittime di questa guerra. Solo l’ultimo giorno la Polonia ha accolto 150mila rifugiati, di cui solo Przemysl circa 43mila.”
La contestazione è nata dai legami ‘storici’ tra il Carroccio e Putin e in particolare con il partito dello Zar, Russia Unita. Lo stesso Salvini, in un tweet del 2017, aveva detto di preferire Putin alla cancelliera tedesca Angela Merkel.
“Abbiamo incontrato parroci, volontari, bimbi, mamme, nonne e anche un sindaco un po’ maleducato. Però ci sta, portare una parola di pace vale anche qualche attacco, qualche insulto, qualche polemica” ha successivamente replicato il leader della Lega. Roberta Davi
Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 9 marzo 2022.
La notizia della contestazione di Wojciek Bakun, sindaco della città polacca di Przemysl, a Matteo Salvini impegnato in una missione umanitaria, ha fatto il giro del mondo e così il video che immortalava il leader della Lega apostrofato con gli epiteti rivoltigli da alcuni italiani presenti sul posto: "buffone", "pagliaccio", "vergognati", "tu dicevi mezzo Putin per due Mattarella" e altre carinerie su questi toni.
Con il diffondersi virale del video sui social network, Salvini è stato subissato di commenti negativi, anche da parte di utenti vicini alla sua area politica che gli hanno rimproverato il passo falso, giacché il sindaco contestatore è espressione di una "iper-destra" neanche europeista. Come ha fatto notare più d'uno, la sequenza di un Salvini contestato da un "Salvini al cubo" che gli mostrava la maglietta con il volto di Putin rievocandogli la trascorsa vicinanza con il Presidente russo con l'invito a raggiungere il confine ucraino per condannare quest'ultimo, si è rivelata per molti del tutto controproducente per l'immagine del Capitano e del suo partito.
I principali notiziari Rai, e soprattutto il Tg1, avrebbero mostrato il video integrale dell'umiliazione di Salvini? era la domanda che girava in rete nel pomeriggio. La curiosità è stata presto soddisfatta.
Il Tg3 delle 19.00 ha mandato in onda la prima parte del video dando spazio alla contestazione del sindaco Bakun, censurando però la seconda parte con le offese rivoltegli dagli italiani presenti sul posto.
Il Tg1 delle 20.00 è andato molto oltre, scatenando un putiferio in rete. Il notiziario diretto da Monica Maggioni ha infatti liquidato in tre parole la contestazione, mostrando pochi secondi del video senza audio, e dando subito spazio alla missione di Salvini e alle dichiarazioni di quest'ultimo, ovviamente senza il minimo riferimento da parte del leader della Lega alla protesta del sindaco polacco.
Michele Anzaldi, Segretario della Commissione di Vigilanza Rai, ha twittato allegando il video del notiziario: "Al Tg1 vergognosa censura della contestazione a Salvini in Polonia: oscurate le critiche del sindaco polacco e le ragioni del gesto di mostrare al leader leghista la maglia di Putin (che indossò a Mosca): altro che Rai di Draghi, da far impallidire la Rai gialloverde". E ancora: "Un'operazione da manuale della disinformazione: la notizia scompare e viene dato spazio solo alla propaganda. Senza precedenti. Agcom, Usigrai, Fnsi, Ordine dei Giornalisti, Cdr: nessuno dice nulla? In altri tempi avremmo avuto una pioggia di richieste di dimissioni".
Il Tg2 diretto da Gennaro Sangiuliano in quota Lega non è stato da meno: liquidato in una manciata di secondi il video della polemica del sindaco, anche qui senza audio, per poi andare a illustrare la missione di Salvini senza più alcun riferimento alla figuraccia rimediata in Polonia. Anche RaiNews24 nel pomeriggio di ieri ha mostrato il video senza l'audio, dando poi voce a Salvini. Per spezzare una piccola lancia a favore del canale diretto da Paolo Petrecca in quota Fratelli d'Italia, c'è da segnalare che almeno sul sito ufficiale si trova la descrizione completa di quanto avvenuto tra il leader del Carroccio e il sindaco Bakun al confine con la Polonia.
Frattanto le infuocate proteste in rete, unite a quelle istituzionali del Deputato Anzaldi, contro il "Tg1 russo" non hanno minimamente scalfito la Direttrice Maggioni, che già fin dalle 7.09 di questa mattina era in video su Rai1... ribattezzata ormai TeleMonica.
Mario Ajello per “il Messaggero” il 10 marzo 2022.
La Lega lo vive come uno sgambetto di Fratelli d'Italia. Il partito meloniano non vuole spaccare il centrodestra ma all'Europarlamento vota la risoluzione, in cui è citato il Carroccio, contro i partiti che hanno o avrebbero avuto rapporti politici ma in qualche caso anche finanziari con la Russia.
Il testo è passato a larghissima maggioranza, con 552 voti a favore, 81 contrari e 60 astenuti. Il Carroccio è tra questi ultimi, FdI è tra i favorevoli e assesta di fatto un colpo al partito salvinista. Che a proposito delle accuse di trascorse relazioni pericolose con il putinismo si difende così: «Su di noi soltanto illazioni superate dai fatti e dalla storia». Sarà, ma tra Strasburgo e Bruxelles ci vogliono vedere chiaro.
«Voteremo a favore della relazione della commissione Inge sulle interferenze straniere ha annunciato il capogruppo di FdI all'Europarlamento, Raffaele Fitto, poche ore prima dello scrutinio serale - perché il testo contiene parole chiare di condanna per le ingerenze russe in coerenza con la posizione netta assunta dal nostro partito». «Ci dispiace però che le sinistre - incalza Fitto - abbiano voluto utilizzare questa relazione per colpire gli avversari (come nel caso della Lega)».
C'è insomma divisione tra meloniani e salvinisti sul giudizio nei riguardi di Putin e della guerra scatenata dalla Russia - con FdI molto più esplicita nella condanna del capo del Cremlino e molto più allineata nell'atlantismo agli Stati Uniti e alla Nato, mentre Salvini parla solo di pace-pace-pace e cerca di non nominare mai il capo del Cremlino - e questa divisione è rimarcata adesso dalla scelta di FdI di appoggiare il testo che vuole fare luce sui finanziamenti russi e cinesi ai partiti europei. Ed è esplicitamente citata la Lega fra questi.
Mentre da più parti nell'Europarlamento si vuole fare luce anche su passati rapporti tra M5S e i governi venezuelani di Chavez e di Maduro. Dopo l'esibizione sfortunata di Salvini ai confini russo-ucraini con il sindaco polacco che lo ha sbeffeggiato (e la Meloni non ha infierito sull'ex amico Matteo: «Se qualcuno fa qualcosa per la pace va sempre bene»), altra tegola sul Carroccio.
La risoluzione di ieri mette sotto accusa le forze sovraniste europee che danno il proprio sostegno a Mosca e a Pechino. Ed appunto, tra i soggetti espressamente condannati, oltre al Rassemblement National di Marine Le Pen, all'austriaco Freiheitliche Partei Österreichs e alla tedesca AfD, anche «il partito italiano Lega Nord» figura nel documento. Si condannano quelle forze che hanno stretto «accordi di cooperazione» con il partito putiniano, Russia Unita.
E la Lega è stato uno di questi. Scopo della risoluzione è bloccare i finanziamenti e qualsiasi tipo di supporto che dall'estero, in particolare dalla Cina e dalla Russia, arriva ai partiti della Ue. Oltreché porre un freno al processo di distorsione dell'informazione nei Paesi europei. «Prove concrete si legge nella risoluzione - dimostrano che gli attori stranieri hanno interferito attivamente nei Paesi europei, attraverso operazioni di finanziamento occulto durante le campagne elettorali. Tali operazioni dolose mettono a repentaglio l'integrità delle elezioni, poiché favoriscono una concorrenza sleale tra i partiti, stanziando ulteriori risorse a taluni gruppi generalmente quelli antieuropeisti non conteggiate nelle dichiarazioni ufficiali delle campagne elettorali».
DUE LINEE La divaricazione tra Salvini e Meloni in questa fase è sempre più ampia. E la vicenda ucraina contribuisce ad allargarla. «Sono pronto a ripartire, a tornare lì nei prossimi giorni, spero in buona compagnia», ha detto ieri Salvini. Alludendo forse al fatto che vorrebbe la Meloni impegnata sul campo come lui. E Giorgia replica: «Andare in Polonia? Dipende a fare che cosa».
Come a dire: inutile andarci per fare passerella. Sull'Ucraina la Meloni ha evitato finora la sovraesposizione mediatica, mentre Salvini è diventato più direttamente parte di questa vicenda tra preghiere e viaggi umanitari. E se Giorgia (molto critica sui ritardi Ue in questa crisi) ha adottato un atlantismo utile per un eventuale ingresso a Palazzo Chigi nel caso il centrodestra vincesse le elezioni e il suo fosse il partito più votato, Matteo sembra più ambiguo e più legato a trascorse affinità, proprio quelle con la Russia che la risoluzione dell'Europarlamento vuole mettere in evidenza.
Da “Posta e Risposta” - “la Repubblica” il 10 marzo 2022.
Caro Merlo, non le fa pena Salvini, sbeffeggiato da un sindaco polacco e da quegli stessi italiani che lo idolatrarono quando finì sulla copertina di Time come uomo dell'anno? Mi sono ricordata che lei gli aveva profetizzato la pernacchia come destino. Direi che ci siamo quasi. Elvira Dottorini - Perugia
Risposta di Francesco Merlo:
Non solo per quel sindaco polacco, ma anche per noi, che lo battezzammo l'incredibile Hulk, Salvini è rimasto il ministro degli Interni che eccitava il razzismo e invitava a sparare ai ladri (alle spalle). Non mi commuove dunque la sua corsa verso il fallimento senza gloria.
Come unica attenuante gli concedo di essere, senza saperlo, una delle tante facce dell'anomalia italiana che, invece che leader, produce furbetti, bulletti, capetti dove la desinenza in "etti" è l'aggravante della mancanza di misura dei nanetti che l'adulazione italiana tratta da giganti.
A pari merito c'è Conte che, titolare della quasità, a furia di essere quasi di destra e quasi di sinistra, quasi professore e quasi statista, è ora un quasi niente.
Poco più in alto c'è Beppe Grillo, che trascinò il Paese nel vaffa, fondò il partito di maggioranza relativa e ora viaggia, con tutte le sue anime perse, verso l'insignificanza.
Da troppi anni l'Italia registra solo fiaschi senza nobiltà politica, anche a sinistra sino a Bersani e a Renzi. Ebbene, di tutti i finti leader che si sono smarriti per strada, Salvini è il più suonato, quello che le prendeva anche quando vinceva.
Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 10 marzo 2022.
Il Putin che oggi bombarda un ospedale pediatrico è lo stesso Putin che sedeva nei consessi civili del mondo dove era accolto con tutti gli onori? Perché se la risposta è "sì" allora nessun politico italiano o estero, di destra e di sinistra, si può salvare dall'accusa di essere stato amico di un delinquente. Se viceversa si ammette che il Putin di oggi è una persona diversa che è impazzita oppure ha gettato la maschera e mostrato il suo vero volto allora perché prendersela solo con Matteo Salvini per la sua vecchia simpatia e ammirazione nei confronti del leader russo?
Per di più quando le accuse arrivano da chi, a sinistra, è erede di una tradizione politica, il comunismo, che dai tiranni di Mosca con le mani sporche di sangue ha ricevuto appoggi e aiuti economici illegali senza i quali la storia della sinistra europea sarebbe stata ben diversa. Da Prodi a Letta, da Renzi a Berlusconi tutti i nostri politici di rango hanno avuto a che fare amichevolmente con Putin durante la sua precedente vita e in modi e forme diverse gli elogi nei suoi confronti non sono mai mancati.
A Salvini solo questo non è perdonabile, se ho capito bene, per una questione di look. Già, perché un conto è andare a stringere la mano a Putin con sorriso a favore di fotografi in doppiopetto scuro, altro sarebbe indossare una maglietta con la sua effigie. Se vogliamo buttarla sulla forma non c'è dubbio, meglio il doppiopetto di quelle orribili e ridicole t-shirt che il leader leghista purtroppo ama esibire manco fosse un cafone di periferia in versione ultrà.
Ma sulla sostanza, per favore, non scherziamo e alzi la mano chi fino a pochi anni fa non riteneva Putin uno statista, al massimo da sanzionare (ma non troppo) per alcune sue interperanze ed eccessi nel sedare il dissenso.
Detto quindi che a mio avviso Salvini dovrebbe lasciare perdere, a sua tutela e a futura memoria, abbigliamenti pericolosi per chi aspira a guidare un paese come l'Italia, trovo ulteriormente ridicolo che a sinistra politici e opinionisti stiano trasformando in eroe della libertà questo Bakun, il sindaco di Przemysl che si è rifiutato di incontrare il leader leghista in visita umanitaria in Polonia proprio per via delle sue trascorse simpatie putiniane.
Probabilmente Letta e soci non sapevano che Bakun è leader di un partito di estrema destra, iper sovranista e nazionalista che in confronto Salvini è un agnellino. Ognuno si sceglie gli eroi che vuole, i miei non sono né Putin né Bakun. Come per l'abbigliamento è una questione di gusto.
Enrico Letta, lo strano intreccio con Vladimir Putin: "I 28 accordi", la bomba di Francesco Storace. Libero Quotidiano il 10 marzo 2022.
Con la guerra in Ucraina non si fa che attaccare Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, rei di aver intrattenuto rapporti con Vladimir Putin. Peccato però che la sinistra preferisca nascondere la polvere sotto il tappeto. Infatti i veri affari con il presidente russo, oggi definito "animale" e "abominevole", li abbia conclusi niente di meno di Enrico Letta. A riportare alla mente quanto fatto dal segretario del Partito democratico è Francesco Storace, vicedirettore del Tempo. Il nastro si riavvolge a dieci anni fa: "Era il 26 novembre del 2013 e a Trieste faceva un freddo cane. E Putin si faceva pure attendere. Ma in quella mattinata gelida Enrico Letta non si fece scrupolo di benedire, proprio di fronte al suo interlocutore russo, la bellezza di 28 accordi nel nome dei due paesi".
Proprio così: ben 28 accordi. E tutti alla presenza delle squadre dei due governi quasi al completo. "Il Business Forum promosso dal Foro di dialogo italo-russo e organizzato dall’Ispi fu la culla, in quel novembre 2013, di numerosi accordi firmati con la benedizione di Putin e Letta - prosegue -. Equamente distribuiti in tre 'cluster', finanza, energia e industria". Un incontro quello tra il dem e lo zar, ad oggi difficile da credere. All'epoca infatti si parlava di un sostegno all’export che, secondo le previsioni di Sace, in Russia poteva crescere del 10,5 per cento nei quattro anni successivi, arrivando dagli 11 miliardi del 2013 ai 16 miliardi del 2017.
Il fulcro dei colloqui tra i due fu però il dossier sull'energia. Sì, la stessa energia che oggi richia di mettere ko l'Italia. Da qui la riflessione di Storace che, passati dieci anni, si chiede se il segretario del Pd, ne conserva ancora buona memoria: "Le bollette che esplodono oggi, magari sono figlie anche di quel tempo".
Da liberoquotidiano.it il 10 marzo 2022.
Matteo Salvini ha ricevuto il tapiro d’oro di Striscia la Notizia. L’incontro con Valerio Staffelli verrà trasmesso nel corso della puntata che andrà in onda su Canale 5 stasera, giovedì 10 marzo. Il segretario della Lega ha ritirato il premio con sportività, non volendo alimentare ulteriori polemiche dopo quanto accaduto in Polonia.
Il sindaco di destra di Przemysl, città al confine con l’Ucraina, ha mostrato di essere meno indulgente di tanti italiani e di non aver dimenticato i rapporti di Salvini con Vladimir Putin: il leghista è stato contestato duramente, anche da un gruppetto di italiani, e poi ha dovuto incassare la “sventolata” da parte del sindaco della maglietta raffigurante il volto di Putin, che lui stesso aveva indossato nel 2015 durante una visita a Mosca. “Io non la ricevo, venga con me al confine a condannare”, sono le parole che il sindaco ha rivolto a Salvini.
Quest’ultimo è rientrato in Italia dopo la trasferta in Polonia e si è difeso con Staffelli da quella maglietta indossata in passato: “Era anni fa, quando nessuno bombardava”. Poi ha accettato il tapiro d’oro: “Sono orgoglioso di averlo ricevuto perché viene da una missione di pace.
Noi eravamo lì per aiutare quei bimbi, poi il sindaco ha preferito far polemica. Mi spiace, perché la guerra non dovrebbe portare divisioni. Manderò il tapiro al sindaco. Anzi, lo metto all'asta su Instagram e se raccogliamo una bella cifra la usiamo per mandare qualcosa di buono in Ucraina”.
Bakun, il sindaco polacco contro Salvini? Alessandro Sallusti: il nuovo eroe della sinistra è un nazionalista iper-sovranista. Libero Quotidiano il 10 marzo 2022.
Il Putin che oggi bombarda un ospedale pediatrico è lo stesso Putin che sedeva nei consessi civili del mondo dove era accolto con tutti gli onori? Perché se la risposta è "sì" allora nessun politico italiano o estero, di destra e di sinistra, si può salvare dall'accusa di essere stato amico di un delinquente. Se viceversa si ammette che il Putin di oggi è una persona diversa che è impazzita oppure ha gettato la maschera e mostrato il suo vero volto allora perché prendersela solo con Matteo Salvini per la sua vecchia simpatia e ammirazione nei confronti del leader russo?
Per di più quando le accuse arrivano da chi, a sinistra, è erede di una tradizione politica, il comunismo, che dai tiranni di Mosca con le mani sporche di sangue ha ricevuto appoggi e aiuti economici illegali senza i quali la storia della sinistra europea sarebbe stata ben diversa. Da Prodi a Letta, da Renzi a Berlusconi tutti i nostri politici di rango hanno avuto a che fare amichevolmente con Putin durante la sua precedente vita e in modi e forme diverse gli elogi nei suoi confronti non sono mai mancati. A Salvini solo questo non è perdonabile, se ho capito bene, per una questione di look. Già, perché un conto è andare a stringere la mano a Putin con sorriso a favore di fotografi in doppiopetto scuro, altro sarebbe indossare una maglietta con la sua effigie. Se vogliamo buttarla sulla forma non c'è dubbio, meglio il doppiopetto di quelle orribili e ridicole t-shirt che il leader leghista purtroppo ama esibire manco fosse un cafone di periferia in versione ultrà.
Ma sulla sostanza, per favore, non scherziamo e alzi la mano chi fino a pochi anni fa non riteneva Putin uno statista, al massimo da sanzionare (ma non troppo) per alcune sue intemperanze ed eccessi nel sedare il dissenso. Detto quindi che a mio avviso Salvini dovrebbe lasciare perdere, a sua tutela e a futura memoria, abbigliamenti pericolosi per chi aspira a guidare un paese come l'Italia, trovo ulteriormente ridicolo che a sinistra politici e opinionisti stiano trasformando in eroe della libertà questo Bakun, il sindaco di Przemysl che si è rifiutato di incontrare il leader leghista in visita umanitaria in Polonia proprio per via delle sue trascorse simpatie putiniane. Probabilmente Letta e soci non sapevano che Bakun è leader di un partito di estrema destra, iper sovranista e nazionalista che in confronto Salvini è un agnellino. Ognuno si sceglie gli eroi che vuole, i miei non sono né Putin né Bakun. Come per l'abbigliamento è una questione di gusto.
"Il sindaco? Un agguato organizzato. La Lega aiuta, il Pd giudica dal salotto". Paolo Bracalini il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.
Il leghista a Bruxelles: "È stato il polacco a insistere per incontrarci".
«È stato un agguato» dice Marco Campomenosi, capogruppo della Lega al Parlamento Europeo, anche lui in missione con Salvini in Polonia. Ovviamente si parla della scena con il sindaco polacco che ha rinfacciato a Salvini la maglietta con l'immagine di Putin.
Onorevole, agguato nel senso che era tutto organizzato?
«È stato lui a chiedere, con insistenza, se poteva incontrarci».
Quindi non era in programma un incontro?
«A Przemys avremmo dovuto visitare la stazione ed è normale che il sindaco venga informato. Lui però ha voluto salutarci e poi ci ha portati davanti ad un gruppo di giornalisti. È chiaro che siamo caduti in una imboscata organizzata».
Da chi?
«C'erano dei fotoreporter italiani, che adesso danno interviste e dicono che è stata una cosa spontanea, come se passassero lì per caso...».
Insomma pensa che sia stata organizzata dall'Italia.
«Beh, direi proprio di sì. Amici polacchi mi dicono che l'episodio ha avuto pochissimo spazio sui loro media, a differenza che in Italia. Tra l'altro è girato solo un pezzo del video, non la parte in cui Salvini risponde alle domande su Putin».
Condannando esplicitamente il presidente russo?
«Certo, Matteo dice chiaramente che la Lega condanna l'aggressione russa e condanna Putin. Ma in rete gira solo uno spezzone senza questa parte».
Però il supporto di Salvini a Putin negli anni scorsi non è una invenzione.
«Ma qui si vuol far passare l'idea che sia stato l'unico leader ad avere avuto relazioni con la Russia. È un processo che la sinistra ha imbastito fin dal primo giorno per fare campagna elettorale anche sulla guerra. Una polemica disgustosa vista la situazione drammatica. E non credo poi che gioire perché questo sindaco avrebbe fatto fare una brutta figura a Salvini faccia bene all'immagine dell'Italia nel mondo. Noi siamo andati lì per dare un aiuto concreto, altri giudicano dal salotto di casa loro».
Ma è vero che le ambasciate e i servizi italiani vi avevano sconsigliato il viaggio?
«Solo in Ucraina, perché avrebbe messo in pericolo le persone che ci avrebbero accompagnato, ma non è mai stata presa in considerazione l'Ucraina come tappa. Mentre in Polonia non c'è nessuna situazione di pericolo».
È stata un'idea di Salvini la missione?
«Idea sua, certo»
Una buona idea, viste le polemiche?
«Guardi, le farei leggere il messaggio che ci ha mandato una signora ucraina che vive in Italia per ringraziarci di aver portato da lei i suoi parenti. Stiamo organizzando una carovana di navette e bus, forse già sabato, li guideranno i volontari della Lega, i nostri giovani. E sa quale problema abbiamo? Troppe persone che si offrono di guidarli e non abbastanza furgoni».
Da lastampa.it il 9 marzo 2022.
Un breve affondo quello che Matteo Salvini dedica al sindaco di Przemysl che nella giornata di ieri gli ha regalato una maglietta con il volto di Putin.
In un lungo videomessaggio lasciato ai suoi followers, il segretario della Lega ha dedicato poche parole per smorzare i toni dopo la polemica: "Abbiamo incontrato tante persone tra cui anche un sindaco un po' maleducato".
Guido Crosetto difende Matteo Salvini: “Perdonatelo, non ha invaso lui l'Ucraina”. Parla il contestatore. Il Tempo l'8 marzo 2022.
Brutta disavventura per Matteo Salvini e arriva Guido Crosetto a sua difesa. Questa mattina è andata in scena una contestazione al leader della Lega al confine sud-est con l’Ucraina, dopo che il primo cittadino di Przemysl, Wojciech Bakun, ultranazionista, ha rinfacciato al senatore del Carroccio la sua vicinanza con Vladimir Putin, invitandolo ad andare assieme a lui alla frontiera, che dista una manciata di chilometri, per condannare da lì il numero uno di Mosca. Questo il messaggio su Twitter dell’imprenditore e fondatore di Fratelli d’Italia: “Basta. Non è stato Salvini ad invadere l’Ucraina. Ha dato credito a Putin pensando che mai avrebbe invaso una nazione libera? Si, lo ha fatto, sbagliando. Come altri. Avete perdonato gente che ha applaudito i carri armati dell’URSS e la guerra in Libia, potete anche farlo con lui”.
A parlare è anche Sergio Ferri, fotografo in missione umanitaria in Polonia, che ha urlato “vergognati buffone” a Salvini: “È stato più forte di me, non sopporto lo sciacallaggio e l’ipocrisia. Noi siamo qui perché abbiamo portato farmaci e aiuti agli ucraini”. Raggiunto dall’AdnKronos a Cracovia il fotografo free-lance piacentino spiega che non ha resistito: “Quando abbiamo visto il sindaco che tirava fuori la maglietta di Putin, lui che indossava pure una tuta mimetica, abbiamo capito che qualcosa stava succedendo, a quel punto, sia io che il mio collega Marco Salami, e forse un altro italiano, abbiamo iniziato a incalzare Salvini, chiedendogli di indossare quella t-shirt. A un certo punto - racconta Ferri - Salvini è venuto verso di noi, io gli ho ricordato quando diceva che due Mattarella non valgono mezzo Putin, e avendolo davanti gli ho chiesto di dire chiaramente di condannare Putin, cosa che lui non ha voluto fare”. La scena continua, Salvini lascia la piazza e si dirige altrove “ma ci sono altri colleghi - dice ancora Ferri - uno spagnolo gli chiede la stessa cosa, con lui Salvini dice che Putin è l’aggressore, è da condannare, almeno così mi raccontano”.
Lo smemorato. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 9 Marzo 2022.
Sarebbe facile infierire sul Salvini pacifista, umiliato dal sindaco di un paesino polacco ai confini dell’Ucraina, il quale si è rifiutato di riceverlo sventolandogli davanti alla faccia e, quel che è peggio, alle telecamere, la maglietta con l’effigie di Putin da lui più volte indossata in passato. Quando hai uno scheletro nell’armadio, o tieni chiuso l’armadio o butti lo scheletro. O taci su Putin, come Berlusconi, o riconosci di avere sbagliato a tesserne le lodi. L’unica cosa che non puoi fare è fare finta di nulla, pensando di poterti reinventare senza doverti giustificare. Salvini si è tolto la maglietta del putiniano per mettere quella del crocerossino con la disinvoltura di un bambino che cambia maschera di carnevale. Non mi interessa sapere perché lo ha fatto, ma come ha fatto anche solo a immaginare di poterlo fare. Credo che l’unica risposta plausibile sia che il segretario della Lega è il prodotto politico dei social, di una comunicazione senza memoria che si muove in un eterno presente. Sembra la pesciolina Dory, che non ricorda mai cosa le è successo un attimo prima.
Salvini ricorda benissimo di averci spacciato Putin per una via di mezzo tra Cavour e Nembo Kid, però pensava che quest’ultimo travestimento da «neutrale» sarebbe riuscito a farcelo dimenticare, evitandogli l’imbarazzo di un’abiura. Invece gli è bastato avvicinarsi a un teatro di guerra perché l’incanto si rompesse e lui si ritrovasse di nuovo nel tempo, con il passato addosso.
Pensiero (il)liberale. Il quasi matrimonio di Berlusconi e il rapporto ambiguo con il freddo Putin. Amedeo La Mattina su L'Inkiesta il 19 Marzo 2022.
Il cerchio magico dei fedelissimi ha convinto il Cavaliere a non convogliare a nozze con la sua giovane fidanzata Marta Fascina. Ma la festa si farà comunque a Villa Gernetto, luogo di tanti incontri con il dittatore russo. Il leader di Forza Italia non riconosce più il suo vecchio amico, ma finora ha evitato di condannare pubblicamente l’invasione.
I corsi e ricorsi della storia hanno risvolti comici, imbarazzanti, spesso drammatici e hanno anche dei luoghi simbolici come quello damascato di Villa Gernetto, la residenza settecentesca dove Silvio Berlusconi è convolato a nozze per finta. La famiglia, i figli eredi, hanno convinto il patriarca a non stringere vincoli civili con la giovane fidanzata e onorevole Marta Fascina, che di anni in meno rispetto al finto marito ne ha 53.
Sembrava che la ragazza ce l’avesse fatta, come era successo a Francesca Pascale in altri tempi, ma all’ultimo miglio ha dovuto desistere sotto il fuoco non amico degli amici del Cavaliere, come Fedele Confalonieri e Gianni Letta. L’accerchiamento del povero Berlusconi per proteggere la roba patrimoniale sembra sia stato stretto in ospedale, al San Raffaele, dove era stato ricoverato durante la fallimentare campagna per il Quirinale.
Vabbè, avrebbe detto Marta, però voglio lo smeraldone (e figuriamoci se Zio Silvio non glielo ha regalato) e una grande festa in pompa magna. Dove se non a Lesmo, nella reggia di Villa Germetto. Sì, certo, però… forse è meglio rinviarla, con la guerra in Ucraina, con tutti quei morti per strada, le case sventrate, vecchi e bambini che vivono come topi nelle cantine, insomma con la macelleria per mano di… Già, per mano dell’amico Vladimir Putin, che Berlusconi voleva far salire in cattedra come primo e sublime insegnante della materia libertà presso l’Università del libero pensiero. Dove? A Villa Gernetto.
Alla fine la celebrazione si fa: è li che sabato si celebra il quasi matrimonio, il matrimonio non matrimonio, la promessa laica di amore e fedeltà, alla presenza di pochi amici, pochissimi politici (esclusi i tre ministri troppo filo-draghiani e anti-leghisti), con il forfait di Pier Silvio Berlusconi. È li che il Cavaliere celebrava davanti a tutto il mondo la sua grande amicizia con Putin.
Correva l’anno 2010. Per la precisione il 26 aprile del 2010. Berlusconi era presidente del Consiglio (da lì a un anno avrebbe lasciato Palazzo Chigi inseguito da uno spread a circa 600 punti, una maggioranza a pezzi, il presidente della Camera Gianfranco Fini all’opposizione dentro il Partito delle Libertà – «che fai mi cacci?». E lo cacciò – e l’Italia finita tra i Paesi Piigs, praticamente in default).
Il suo omologo primo ministro di tutte le Russia era Putin, che aveva lasciato momentaneamente e per finta la presidenza della Federazione russa a un certo Dmitri Medvedev. L’ospite freddo come sempre, mentre il padrone di casa, raggiante come sempre, apriva i cancelli di Villa Gernetto, acquistata da poco. Li apriva ai giornalisti proprio in occasione di un incontro bilaterale Italia-Russia ad altissimo livello. Amministratori delegati di Eni, Enel, Gazprom, accordi sul gas, protocolli per la creazione in Russia di un reattore termonucleare sperimentale Ignitor.
Berlusconi immaginava un ritorno dell’Italia al nucleare nonostante un referendum l’avesse bocciato – «faremo cambiare idea agli italiani con una campagna informativa, mobiliteremo le televisioni», le sue e quelle satelliti della Rai. Si parlava di SouthStream, il progetto di mega-gasdotto che avrebbe collegato Russia e Unione Europea e avrebbe evitato di passare sul territorio della perfida, insicura, infedele Ucraina. A proposito di corsi e ricorsi della storia che torna come tragedia.
Insomma, affari e politica in giacca e cravatta. E guarda caso quell’anno, nel dicembre del 2010, sono saltati fuori dei file riservati pubblicati da Wikileaks su un rapporto del 2009 dell’allora ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli che riportava voci di percentuali riconosciute a Berlusconi per il gasdotto costruito da Gazprom.
Quel giorno il presidente del Consiglio italiano era ad Astana in visita al padre-padrone del Kazakistan, il dittatore Nursultan Nazarbayev, un altro amico di Putin che sedeva sopra un oceano di gas e che il Cavaliere elogiava come grande leader molto amato («ho letto un sondaggio che gli assegna il 92% di stima e amore del suo popolo»). Da Astana Mr Mediaset replicò che era tutto falso: «Faccio gli interessi dell’Italia». Gli americani avevano il dente avvelenato con Assange, ma con Berlusconi le cose non andavano bene. L’amicizia con Putin, considerato un grande statista e amico, con cui passava i fine settimana e i compleanni nelle dacie dello Zar e da cui riceveva il lettone per il bunga bunga, veniva vista da Washington con sospetto e tanto fastidio.
E così a Villa Gernetto nel 2010 abbracci e grandi risate quando si aprì un siparietto tra Putin e una giornalista italiana. Qual è il segreto del «longevo matrimonio politico» tra lei e il presidente Medvedev? «Matrimonio? Io e Medvedev siamo persone di orientamento tradizionale…», rispose Putin senza scomporsi. Ma per capire come ragionava e ragiona adesso, sempre in quell’occasione, lo Zar aveva gelato Berlusconi. Il Cavaliere si era lanciato nella esaltazione dello splendido rapporto politico ed economico tra Italia e Russia grazie ai rapporti personali. Ma Vladimir spiegò che i rapporti personali certamente aiutano: ma contano i «reciproci interessi statali».
Forse memore di queste parole e conoscendo la forma mentis dell’amico, Berlusconi ha evitato di mettersi in mezzo sull’Ucraina. Sembra una telefonata gliel’abbia fatta: avrebbe poi confidato ai suoi collaboratori di non riconoscere più lo statista di una volta, quel potenziale docente del pensiero libero e liberale. «Non è vero che l’ha chiamato», smentiscono ad Arcore per non far fare brutte figure al capo, che avrebbe cazziato di brutto tutti quelli che hanno spifferato i suoi nuovi sentimenti per l’orso del Cremlino. Meglio non amareggiarlo troppo, proprio nel giorno del suo matrimonio virtuale. A Villa Gernetto. Ma una parola, non le generiche dichiarazioni filo-atlantiste di Forza Italia, una parola su Putin: perché Berlusconi non l’ha ancora detta in pubblico?
P.S.
L’idea dell’Università nella sontuosa villa brianzola sembra ritornata in auge. Si parla di un accordo con l’Università telematica Niccolò Cusano per lo svolgimento di corsi on line. Ovviamente nel corpo docenti non c’è Putin, occupato a bombardare le città e le case ucraine. Avvocati, manager, politici, ex ministri come Mario Baccini e persino una psicosessuologa, Sara Negrosini, che insegnerà «Il linguaggio del corpo nella comunicazione pubblica».
Quando Vladimir Putin era “un dono del signore”: dieci anni di dichiarazioni d’amore dei nostri politici. Matteo Salvini certamente ma anche Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni, Beppe Grillo e tanti altri. Ora fanno tutti un passo indietro ma gli elogi nei confronti dell’autocrate russo si sono sprecati. Li abbiamo raccolti tutti. Wil NonLeggerlo su L'Espresso il 25 febbraio 2022.
Vladimir Putin vero e proprio “dono del Signore”, meritevole del “Nobel per la Pace”, il “miglior statista” sulla scena internazionale. Un leader che “garantisce la pace in Europa” e con cui allearsi per “scrivere la storia”. Matteo Salvini ne vorrebbe almeno “una decina”, di Vladimir, da sparpagliare su tutto il territorio nazionale. E poi la “sensibilità democratica”, il suo “sentire delicato”, qualità più volte decantate da Silvio Berlusconi. Come posterebbe Alessandro Di Battista, “meno male che Putin c’è”. Ora che il territorio ucraino è stato invaso e l'indignazione zampilla anche tra nuovi ed “insospettabili” censori, è giunto il momento di ricordare il modo in cui certe figure apicali della politica italiana hanno raccontato l'autocrate russo. Una sequela di elogi lunga oltre dieci anni che non si può cancellare con un tweet di condanna o un mazzo di tulipani deposto presso l'ambasciata ucraina. Partiamo da qui.
Putin dono di Dio
“Vladimir Putin è un dono del Signore”
(Silvio Berlusconi, Forum sulla democrazia a Yaroslav, in Russia, 10 settembre 2010)
Celo, manca
“Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!”
(Matteo Salvini su Facebook, 25 novembre 2015)
La sensibilità di Putin
“Vladimir è sensibile, aperto, ha il senso dell'amicizia, ha rispetto per tutti, soprattutto per le persone umili, e una profonda comprensione della democrazia”
(Silvio Berlusconi alla Frankfurter Allgemeine Zeitung, 22 ottobre 2010)
Il Nobel a Putin
“Bisogna dare il Nobel della pace a Berlusconi, a Putìn, che stanno veramente lottando per la pace nel mondo”
(Antonio Razzi, senatore di Forza Italia, a La Zanzara su Radio 24, 19 marzo 2014)
Putin il n.1 al mondo
“Ho un rapporto fraterno con Vladimir. Credo sia il migliore: ritengo che per la Russia sia una fortuna”
(Silvio Berlusconi a Euronews, 17 gennaio 2013)
Putin e la Crimea
Sulla questione ucraina ha ragione Putin? “Assolutamente sì. Putin porta le sue truppe sul confine e le porta perché gli abitanti della Crimea hanno paura che Kiev invii truppe che possano compiere stragi”
(Silvio Berlusconi a Bersaglio mobile, La7, 20 maggio 2014)
Con Vladimir
“Ci sono tante ragioni per cui dovremmo essere dalla parte di Putin”
(Daniela Santanchè, Forza Italia, ad Agorà, Rai 3, 3 settembre 2014)
Il Vladimir giusto
Gay: Salvini, “Luxuria? Ho scelto l'altro Vladimir, Putin”
(Matteo Salvini commenta la cena Berlusconi-Luxuria ad Arcore, Ansa, 16 ottobre 2014)
Non rompetegli le palle
Ucraina: Salvini, “non si rompano le palle a Putin”
(Matteo Salvini, TgCom24, Ansa, 12 novembre 2014)
Putin premier, subito!
“Fra Putin e Renzi io scelgo Putin tutta la vita. Putin lo vorrei domani mattina come presidente del Consiglio”
(Matteo Salvini a Radio Anchi'io, 3 dicembre 2014)
I deficienti
“Chi gioca contro Putin è un deficiente”
(Matteo Salvini incontrando la stampa estera, 10 dicembre 2014)
Gli euro-buffoni
“L’Europa processa Putin, ma io lo preferisco a tanti euro-buffoni!”
(Matteo Salvini su Facebook, 11 marzo 2015)
Meglio Putin dell'Ue
“Io credo che la Russia sia sicuramente molto più democratica dell’Unione Europea di oggi, una finta democrazia. Io farei a cambio, porterei Putin nella metà dei paesi europei, mal governati da presunti premier eletti che non sono eletti da nessuno, ma telecomandati da qualcun altro”
(Matteo Salvini al Parlamento europeo, 11 marzo 2015)
Renzi per Putin
“Putin è una delle persone con le idee più chiare al mondo, mi basterebbe essere a un minimo del suo livello. Scambierei Renzi con Putin domani mattina, saremmo un Paese migliore”
(Matteo Salvini a Radio Cusano Campus, 20 marzo 2015)
Salvini sta con Putin
(ANSA) - ROMA – Salvini posta sul suo profilo Facebook delle foto con Putin e poi scrive, “Io sto con lui”
(Matteo Salvini 9 maggio 2015)
La maglietta di Putin e gli eurocretini
(ANSA) - STRASBURGO – Matteo Salvini si è presentato oggi al Parlamento europeo con una maglietta bianca con la faccia di Vladimir Putin di profilo, sotto un colbacco militare. “L'ho comprata a Mosca”, ha affermato il leader del Carroccio, “è una risposta agli eurocretini che giocano alla guerra con Putin e con la Russia”
(Matteo Salvini, 9 giugno 2015)
La tassazione russa
“Preferisco Putin all'Europa, non ci sono dubbi. Basta pensare che in Russia hanno una tassazione bassa, al 15%”
(Matteo Salvini a Zanzara, su Radio 24, 17 luglio 2015)
Vladimir guerriero della libertà
“Putin è una persona sensibile, di sentimenti profondi, ha un sentire delicato: è un vero guerriero della libertà e della democrazia nel suo paese”
(Il Cav. in una videointervista per il libro “Berlusconi si racconta a Friedman, my way”, 6 ottobre 2015)
La conferma di Meloni
“Putin meglio di Renzi, ha ragione Salvini”
(Giorgia Meloni a Otto e mezzo, su La7, 3 dicembre 2015)
Lo statista Putin e il futuro pacifico
“Putin e Le Pen sono due tra i migliori statisti in circolazione. Noi siamo vicini a chiunque difenda un futuro pacifico per l'Europa”
(Matteo Salvini a Montecitorio, 9 dicembre 2015)
Ansa – Russia: Salvini, venerdì a Mosca, vedrò anche Putin (12 dicembre 2015)
Ansa – Russia: Salvini a Mosca, mai detto che avrei visto Putin (18 dicembre 2015)
Fatiche letterarie
Russia: Salvini presenta libro su Putin, “lui ha idee chiare”
(Ansa, 21 dicembre 2015)
Carte false
“Io farei carte false per avere domani mattina presidente Putin al posto di Renzi. Purtroppo oggi sono indegnamente rappresentato da Renzi. Ma mi riconosco di più in Putin”
(Matteo Salvini a La Zanzara, 22 dicembre 2015)
Il 5 Stelle Manlio Di Stefano e Putin
Come non ricordare anche Manlio Di Stefano, che nel 2016 definiva l’Ucraina “uno Stato fantoccio della Nato (Usa e Ue)”. Per lui, nel 2014 in Ucraina ci fu “un colpo di Stato” che mandò al potere “un governo composto da convinti neo-nazisti e dalla peggior tecnocrazia finanziaria internazionale”
(Corriere.it)
“Ci rido sopra”
“Mi aspetto che domani escano dossier segreti che coinvolgono Putin nella strage di piazza Fontana e sull'aereo di Ustica. O ci sono prove o ci rido sopra”
(Matteo Salvini e le ipotesi di coinvolgimento del leader russo nella morte Alexander Litvinenko, Ansa, 21 gennaio 2016)
Ai fessi
“Ai fessi che prendono in giro Salvini ricordo che lui con largo anticipo ha puntato su Putin, Trump e Le Pen. E voi, geni della geopolitica?”
(Claudio Borghi, futuro parlamentare leghista, su Twitter, 11 novembre 2016)
Grillo e gli uomini forti
Beppe Grillo e gli idoli Putin-Trump: servono uomini di stato forti come loro. Lui smentisce, ma il giornale francese Journal du Dimanche conferma: “Ha riletto il testo”
(La Stampa, 23 gennaio 2017)
Grillo e il vantaggio per l'umanità
“La politica estera degli Stati Uniti è stata un disastro sotto Obama. Se Trump ha voglia di convergere con Putin, di rimettere le cose sulla giusta strada, non può che avere il nostro appoggio Due giganti come loro che dialogano: è il sogno di tutto il mondo! Eravamo in guerra fredda, con l’arma nucleare. La politica internazionale ha bisogno di statisti forti come loro. Considero questo un vantaggio per l’umanità. Putin è quello che dice le cose più sensate sulla politica estera”
(La “traduzione autentica” dell'intervista rilasciata al settimanale francese Journal du Dimanche, a cura del M5S Europa, 23 gennaio 2017)
Salvini farà la storia
“Faremo la storia con Trump, Le Pen e Putin”
(Matteo Salvini, manifestazione a Milano, 29 maggio 2016)
Il gigante Putin
“Renzi vede Putin? Un coniglio che incontra un gigante”
(Matteo Salvini, Ansa, 17 giugno 2016)
Vladimir è la speranza
Putin è una “fonte di speranza”, Donald Trump “un grande uomo”, Marine Le Pen una “donna forte”, e Nigel Farage “ha avuto il merito storico di aver creduto nella Brexit”
(Matteo Salvini a die Welt, 3 gennaio 2017)
Garantisce Di Maio
“L’alleanza Trump-Putin ci deve rassicurare”
(Luigi Di Maio, M5S, a Di Martedì su La7, 10 gennaio 2017))
La salvezza putiniana
“Trump, Le Pen, Putin e Salvini sono la salvezza per il futuro dei nostri figli e dei nostri nipoti. O si capisce questo o il futuro sarà solo di morte, terrorismo e violenza”
(Tony Iwobi, responsabile federale Dipartimento Sicurezza e Immigrazione della Lega Nord, Ansa, 2 febbraio 2017)
Salvini e gli hacker russi
“A parte il fatto che spiare l'inutile Gentiloni è fatica sprecata, ma ormai qualunque cosa accada al mondo è colpa di Putin”; “Il tuo televisore non funziona? Sono stati gli Hacker Russi. Hai perso a Risiko? Sono stati gli Hacker Russi. La benzina costa troppo? Colpa degli Hacker Russi. Ti hanno sospeso da Facebook? Sono stati gli Hacker Russi. Trump, Le Pen o Salvini vincono le elezioni? Merito degli Hacker Russi. P.s. Non guardate Sanremo, è truccato dagli Hacker Russi...VIVA GLI HACKER RUSSI!”
(Matteo Salvini su Facebook, 10 febbraio 2017)
10 Putin per noi
“Averne dieci di Putin in Italia, metterebbe un po' di ordine”
(Matteo Salvini a Napoli, Ansa, 11 marzo 2017)
Angela chi?!
“Se devo scegliere tra Putin e la Merkel... vi lascio la Merkel, mi tengo Putin! #ottoemezzo”
(Matteo Salvini su Twitter, 25 marzo 2017)
E Di Stefano ora ammette: “Putin è già un interlocutore, ha vinto su tutta la linea”
“Gli arresti a Mosca? E allora Guantanamo? Non tocca a me valutare la democrazia in un altro Paese”
(Manlio Di Stefano, M5S, La Stampa, 30 marzo 2017)
Gasparri e le palle di Putin
“Io sono amico della Russia, è un complotto?, no!, faccio dei convegni con i membri del partito di Putin, e me ne vanto. Il grande, grandissimo Putin! Magari averne uno in Italia... Questi deputati russi mi hanno regalato delle palle di Natale, eccole, queste sono le palle di Putin, non le palle di Renzi, che racconta da pallonaro qual è. Oggi c’è la grande repubblica federativa russa, del grande Putin, altroché rovinare la vita dell’Occidente con le bugie, ma andatevi a seppellire bugiardoni! Io ho fatto l’albero di Natale con le palle di Putin, alla faccia di Obama, della Clinton e di chi ci vuole male!”
(Maurizio Gasparri, vice presidente del Senato, pubblica un video su Facebook dopo aver addobbato il proprio albero di Natale, 10 dicembre 2017)
Blogger del piffero
“Io sono sempre dalla parte dei governi legittimi. Come sono quello di Putin in Russia e quello di Maduro in Venezuela. Gli arresti in Russia riguardavano manifestazioni non autorizzate, rispetto a Grillo Navalny è un blogger del piffero”
(Vito Petrocelli, senatore M5S, La Repubblica, 6 aprile 2017)
Slogan vincenti
“Meno male che Putin c'è”
(Matteo Salvini live su Facebook, 7 aprile 2017)
Amici di Putin
Di Battista parla russo con una giornalista: “Ora diranno che siamo amici di Putin”
(CorriereTv, 18 maggio 2017)
Non manca più nessuno
CasaPound: Di Stefano, noi fascisti, ci piace anche Putin
(Ansa, 16 novembre 2017)
Credo in Putin (davvero)
“Ritengo che Putin sia uno dei migliori uomini di governo al mondo. Lo dico perché lo credo e non perché me lo suggerisce qualcuno: se avessimo un Putin in Italia staremmo assolutamente meglio”
(Matteo Salvini, Ansa, 28 novembre 2017)
Credo in Putin (gratis)
“Putin mi piace perché lo stimo, non perché mi pagano per dire che mi piace”
(Matteo Salvini su Radio 1, 11 dicembre 2017)
Forza Vladimir
“Mi auguro che domani i russi rieleggano il presidente Putin, uno dei migliori uomini politici della nostra epoca, e che tutti rispettino il voto democratico dei cittadini”
(Matteo Salvini su Twitter, 17 marzo 2018)
Fratelli di Russia
“Complimenti a Vladimir Putin per la sua quarta elezione a presidente della Federazione russa. La volontà del popolo in queste elezioni russe appare inequivocabile”
(Giorgia Meloni su Facebook, 18 marzo 2018)
Putin a pacchi
“Vado a incontrare Putin. Uomini come lui, che fanno gli interessi dei propri cittadini, ce ne vorrebbero a decine in questo Paese”
(Matteo Salvini durante un comizio nel Bresciano, 8 luglio 2018)
Salvini e la Crimea
“L’annessione della Crimea alla Russia è avvenuta dopo un referendum”; “Ci sono alcune zone storicamente russe, in cui c’è una cultura e delle trazioni russe, e che quindi appartengono legittimamente alla Federazione Russa”. Che sia stato un referendum falsato dalla presenza dei militari di Mosca “è un punto di vista, ma non è il mio”
(Matteo Salvini al Washington Post, La Stampa, 20 luglio 2018)
Putin non ti fa il tweet contro
Vladimir Putin “è in assoluto il numero uno dei leader mondiali. Lo assumerei in una mia impresa”, “ha un'idea molto chiara della pace del mondo. Tra tutti i leader mondiali è quello che ha una visione più lucida della situazione mondiale”; Putin “è una persona di grandissima intelligenza e rispettosa degli altri, non prende il telefonino e fa un tweet quando sente che un capo di Stato gli ha detto qualcosa contro”
(Silvio Berlusconi alla convention di Forza Italia a Milano, Ansa, 5 ottobre 2018)
E facciamoglielo dire
“Io stimo Putin come uomo di governo e spero di poterlo dire anche se non sono pagato in rubli o matrioske, spero di poterlo dire senza subire sanzioni da qualcuno in Europa”
(Matteo Salvini durante la presentazione del libro di Maurizio Molinari, Ansa, 24 ottobre 2018)
Di Battista e la pace mondiale
Per la pace mondiale “meno male che c’è Putin”, dice Alessandro Di Battista
(Il Post, 25 gennaio 2019)
Indicatori
“Il fatto che, dopo Papa Francesco e il capo dello Stato Mattarella, Putin tra le personalità politiche incontri, oltre al premier Conte e i due vicepremier Salvini e Di Maio, il presidente Berlusconi, è un'ulteriore grande conferma che Berlusconi resta l'italiano più rilevante dal punto di vista internazionale. Conferma il suo valore sulla scena mondiale”
(Lucio Malan, vicepresidente vicario di Forza Italia al Senato, a Spraynews.it, 4 luglio 2019)
Se la gioca con Trump
“Lasciatemi dire che Putin è uno dei migliori uomini di governo che ci sia ora sulla faccia della terra... Insieme a Trump”
(Matteo Salvini alla festa della Lega di Oppeano, Verona, Ansa, 12 luglio 2019)
Savoini e il caso Lega Russia: cosa c'è da sapere
L'Espresso e Buzzfeed svelano i dettagli (con audio) di un incontro del 18 ottobre 2018 all'hotel Metropol di Mosca tra Gianluca Savoini, amico e collaboratore di Matteo Salvini, e altri personaggi italiani e russi per discutere di finanziamenti alla Lega. Da lì parte l'inchiesta della magistratura per corruzione internazionale e scoppia un caso politico che coinvolge il vicepresidente del Consiglio.
(La Repubblica, 15 luglio 2019)
“Dopo aver elogiato anche Trump, Bolsonaro e Orban”
“Putin è un grande presidente. E lo dico perché lo penso, non perché mi pagano”
(Matteo Salvini alla festa della Lega Romagna, Ansa, 3 agosto 2019)
C'è stima
“Putin è un uomo di governo stimato e stimabile”
(Matteo Salvini incontra la stampa estera, 13 febbraio 2020)
Dream team per la pace
“Voi ritenete davvero che Obama sia il buono e Putin il dittatore? Non insultate l’intelligenza della gente. (…) Io spero che Trump, Putin, Marine Le Pen e il sottoscritto possano fare qualcosa di utile per la democrazia e la pace nel mondo”
(Matteo Salvini a Otto e mezzo, La7, 30 marzo 2017)
–– POCO PRIMA DELL'INVASIONE, IN QUESTI GIORNI…
Le ultime parole... (1)
Ucraina-Russia, Di Battista: “Putin riconosce Donbass? Nulla di preoccupante”
“La Russia non sta invadendo l'Ucraina. Poi, per carità, tutto può accadere ma credo che Putin (e non solo) tutto voglia fuorché una guerra”
(Alessandro Di Battista su Facebook, Adnkronos, 22 febbraio 2022)
Le ultime parole... (2)
“Non si capisce che convenienza avrebbe Putin a scatenare una guerra…”
(Matteo Salvini a 24 Mattino, su Radio 24, 21 febbraio 2022)
Zitti e Mosca. Prima o poi bisognerà fare i conti coi danni fatti dal putinismo in Italia. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 5 marzo 2022.
Prodi e Berlusconi hanno legittimato il dittatore russo, malgrado ammazzasse i suoi oppositori come un capomafia. Poi sono arrivati i politici tifosi che hanno eletto il gerarca come alfiere dei valori cristiani contro il relativismo. Per rimediare dovrebbero fare un voto del silenzio tutti coloro che hanno definito inique le sanzioni al Cremlino dopo il 2014.
Ai servi sciocchi e volenterosi del Cremlino, che da anni spiegano che Putin è un bene o comunque non è tutto il male che si vorrebbe far credere, la flessibilità trasformistica della politica italiana darà modo, ovviamente, di redimere l’amore e l’amicizia passata in una dolorosa compunzione, esibita come prova di resipiscenza. Tutti, ora, delusi o sorpresi o sconvolti dal Grande Dittatore e desiderosi di pace.
Ai più fortunati, cioè ai più presentabili, sarà possibile anche contestualizzare le aperture di credito all’avvelenatore di Mosca, alla luce di quanto è successo, come tentativo di arginarne la ferocia vellicandone l’orgoglio e il narcisismo o ingolosendone l’interesse. Insomma, come un malriuscito esercizio di necessitato realismo.
Sbaglia però chi pensa che il putinismo italiano sia stato concentrato nelle suburre populiste e sovraniste dei Manlio Di Stefano e Gianluca Savoini, Alessandro Di Battista e Matteo Salvini, Vito Rosario Petrocelli e Maurizio Marrone, e sia destinato a estinguersi con l’emarginazione di queste frange e l’istituzionalizzazione atlantica ed europeista di grillini, leghisti e post-fascisti.
Il putinismo italiano non è stato affatto un fenomeno da sbandati, svitati e avventurieri, o di estremisti ora ai margini della politica che conta.
Il putinismo è stato il cuore della politica internazionale dell’Italia per due decenni ed è stato impersonato dai massimi rappresentanti del bipolarismo italiano, Silvio Berlusconi e Romano Prodi, in due versioni diverse, ma non opposte e neppure alternative.
Al di là degli aspetti di folclore e di colore che hanno compromesso assai più fortemente il Cavaliere – dalle feste di compleanno, al lettone regalato dal leader russo per le sue notti magiche – Prodi e Berlusconi hanno condiviso nelle relazioni con Putin il principio della imprescindibilità e per certi versi della “provvidenzialità” della leadership putiniana, come forma d’ordine politica preferibile, perché più caratteristicamente russa, al disordine seguito al disfacimento sovietico.
Ancora più radicalmente, Prodi e Berlusconi hanno ritenuto che per gli interessi dell’Europa e dell’Italia il putinismo fosse un fattore di stabilità (di stabilità!) e che la causa della democratizzazione della Russia e della sua emancipazione dai fantasmi e dalle frustrazioni del fallimento dell’Urss e dei sogni imperiali fosse in sé pericolosa per la libertà e sicurezza e dell’Europa. Putin è la Russia, e la Russia è Putin, al bando le fantasie democratiche. Di qui i colloqui ripetuti, le interviste comprensive, lo sforzo di dialogo ininterrotto e regolare e anche mediaticamente rivendicato, da parte di entrambi i campioni del bipolarismo all’italiano. Entrambi amici, confidenti e consiglieri del capopalazzo del Cremlino e orgogliosi di esserlo.
Sia Prodi che Berlusconi sono stati convinti che legittimare Putin, malgrado ammazzasse i suoi oppositori come un capomafia, pure vantandosene, era il modo migliore per non fare esplodere né la Russia, né l’Europa. «L’Ue sta sbagliando» e «abbiamo bisogno della Russia»: anche dopo l’invasione del Donbass e l’annessione della Crimea.
A far divergere Berlusconi e Prodi non è stato quindi il giudizio su Putin ma la strategia di legittimazione da seguire, che per Berlusconi era quella dell’inglobamento surrealistico della Russia nella Nato per un unico governo militare del mondo e per Prodi quello della contestuale amicizia con Mosca e Washington, a suggello della centralità di un’Europa equidistante ed equivicina, amica di tutti e nemica di nessuno.
Lasciamo pure da parte il razzismo implicito nella persuasione che i russi siano immeritevoli di libertà politica e stato di diritto e per destino storico debbano essere sudditi di un potere assoluto. Ma il putinismo adulto di Prodi e Berlusconi, a differenza di quello infantile e sperticato della teppa populista e sovranista, è stato il sostrato su cui si è appoggiata la strategia di ricatto e di condizionamento del Cremlino, con la sua infiltrazione nei gangli del sistema accademico, dell’informazione e della comunicazione, perfettamente raccontata da Massimiliano Di Pasquale e Luigi Sergio Germani ne L’ influenza russa sulla cultura, sul mondo accademico e sui think tank italiani.
A valle e non in contraddizione con tutto questo si è sviluppato il putinismo para-squadristico dei «Forza Putin», che, mischiando i vecchi riflessi anti-atlantisti della sinistra comunista e post-comunista e le fobie antimondialiste della destra fascista e post fascista, ha eletto il gerarca maggiore di tutte le Russie ora a difensore del mondo libero contro il dominio americano, ora ad alfiere dei valori dell’Occidente e della Cristianità contro il relativismo e l’immoralismo Lgbt.
In Italia, a essere state attivamente antiputiniane in questo ventennio sono state piccole minoranze intellettuali liberal-progressiste e liberal-conservatrici senza nessuna vera influenza politica. Non hanno toccato palla e hanno fatto per vent’anni la figura delle Cassandre sfigate, continuamente schernite dai realisti amici del Cremlino, che ancora pochi giorni prima dell’invasione di massa dell’Ucraina irridevano l’isteria degli allarmi americani e cianciavano di un fantomatico negoziato europeo.
Insomma, con il putinismo, presto o tardi (speriamo prestissimo), dovrà fare i conti la Russia. Ma, da subito, i conti bisogna iniziare a farli anche in Italia.
Si potrebbe partire dal lodo, per così dire, del silenzio: tutti quelli che hanno dichiarato eccessive, sbagliate e inique le sanzioni alla Russia dopo la prima fase dell’invasione dell’Ucraina del 2014, auspicandone o reclamandone il superamento, da adesso in poi stanno zitti, fino alla fine di Putin. Una fine auspicabilmente civile, da imputato al Tribunale penale internazionale dell’Aja, non la fine incivile e barbara che lui ha fatto fare da sempre ai suoi oppositori. La fine di Slobodan Milosevic, non quella di Anna Politkovskaja.
D’accordo Berlusconi, Prodi, Salvini, Conte, D’Alema, Di Maio, Meloni, Emiliano, Zaia… (l’elenco potrebbe lungamente continuare)? Fate tutti un bel silenzio bipartisan? Il Tempo il 05 marzo 2022.
Amuso duro contro la Nato. Il presidente dell'Ucraina, Volodymyr Zelensky, ha accusato la Nato per la decisione di non introdurre una 'no fly zone' sul paese, impegnato nella guerra con la Russia dopo l'invasione ordinata 10 giorni fa da Vladimir Putin. "La Nato ha deliberatamente deciso di non 'coprire' i cieli sopra l'Ucraina", dice Zelensky, in un videomessaggio pubblicato su Facebook nella tarda serata di venerdì 4 marzo. "Crediamo che i paesi della Nato abbiano creato una narrativa per cui la chiusura dei cieli sull'Ucraina provocherebbe la diretta aggressione della Russia nei confronti della Nato", dice ancora Zelensky. "Questa è un'autoipnosi di coloro che sono deboli, interiormente insicuri nonostante abbiano le armi molto più potenti rispetto a quelle che abbiamo noi", le parole del presidente dell'Ucraina.
La Nato, secondo Zelensky, "rifiutando di introdurre la no fly zone ha dato luce verde per altri bombardamenti su città e villaggi dell'Ucraina. Avreste potuto farlo! È stato un summit debole, confuso, che mostra come non tutti considerino la lotta per la libertà un obiettivo primario dell'Europa. Per 9 giorni abbiamo visto una guerra durissima: le nostre città distrutte, la gente bombardata. I nostri bambini, i quartieri, le chiese, le scuole... È stato distrutto tutto ciò che serve per una vita normale".
"Tutte le persone che moriranno d'ora in poi - prosegue il numero uno ucraino- moriranno anche per colpa vostra, per la vostra debolezza e mancanza di unità. Sono grato agli amici del nostro paese, nella Nato ci sono molte nazioni amiche che ci aiutano". Su tutto, la convinzione che l'Ucraina trionferà: "Dal primo giorno dell'invasione, sono certo della vittoria. Non ci sentiamo soli, continueremo a lottare, difenderemo il nostro paese e - conclude Zelensky - libereremo la nostra terra”. ieri gli Stati Uniti hanno dichiarato che una decisione sui cieli ucraini scatenerebbe certamente una guerra tra la Nato e la Russia.
Volodymyr Zelensky seduto sulla tazza del wc. Calderoli: "Vergogna, propaganda filo-russa su Rai3". Libero Quotidiano il 04 marzo 2022.
Uno sfregio in diretta a Volodymyr Zelensky, su Rai3, più o meno nelle stesse ore in cui il presidente ucraino trasmetteva il suo video-messaggio più teso e drammatico, sotto il peso dell'assedio russo a Kiev e con il fardello del terrore nucleare vissuto la scorsa notte, per l'incendio alla centrale atomica di Zaporizhzhia, fortunatamente senza conseguenze.
"Stasera su Rai3 nella trasmissione Blog passa un vecchio filmato di un giovane Zelensky seduto sulla tazza del water, durante un suo sketch quando faceva il comico - è la denuncia del senatore della Lega Roberto Calderoli -. Che il servizio radiotelevisivo pubblico italiano, in questi giorni, con la tragedia che si sta consumando in Ucraina, si permetta di trasmettere spezzoni -in cui l'attuale Presidente ucraino viene mostrato nella sua precedente veste di attore comico, con gag riconducibili ad un passato ormai lontano, addirittura riprendendolo seduto sul water- è un'offesa alla figura di questo eroico Presidente, che sta lottando anche a costo della sua vita per difendere la libertà del suo popolo".
"Queste immagini, in questo momento, offendono il popolo ucraino e tutto il mondo civile che si è schierato a loro sostegno - prosegue Calderoli -, dando l'idea di voler sostenere la propaganda degli aggressori. Dopo le odiose esternazioni di alcuni volti noti dipendenti Rai, riconducibili a quella testata, questa ennesima offesa, che addirittura definirei una bestemmia, nei confronti degli ucraini e delle ucraine. Questa - conclude il senatore leghista - è una vergogna. Mi auguro che la commissione di vigilanza Rai dia un seguito a questo episodio e che vada in fondo, perché a tutto c'è un limite".
Manager di Stato, imprenditori, diplomatici hanno spianato la strada a Putin in Italia. Ecco i loro nomi. Gli affari dell’Eni ai tempi di Scaroni hanno consolidato la nostra dipendenza energetica dalla Russia. Mentre grandi banche come Intesa e Unicredit incassavano profitti enormi grazie ai rapporti con le aziende controllate dal Cremlino. Che ha arruolato anche ex ambasciatori a Mosca e finanziato associazioni e lobby. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 4 Marzo 2022.
Non l’ha fatto da solo. Non l’ha fatto da poco. Ha ricevuto il supporto di politici, imprenditori, dirigenti, banchieri, diplomatici. È merito, colpa, loro se qualcuno in Italia ha reputato Vladimir Putin uno statista. Le bombe russe che uccidono in Ucraina annientano le polemiche, ma non possono tramortire pure la memoria. Ecco come il fenomeno putiniano ha soggiogato Roma per vent’anni.
Sono “compagni” ma “putiniani”. E la sinistra impazzisce. Berlinguer, Santoro, Caracciolo: faida della sinistra sugli “intellettuali” di casa sua. Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 10 Aprile 2022.
Un tempo sarebbe stato tutto più semplice: la sinistra si sarebbe schierata con la Russia e avrebbe lanciato i suoi strali sull’America imperialista e la Nato guerrafondaia. E l’aggressione ad un popolo sovrano sarebbe stata definita “guerra di liberazione”, e poco importa se i “liberati” non desideravano esserlo e preferivano stare con gli yankee. L’“aristocrazia rossa”, cioè quegli intellettuali borghesi che dettavano la linea (anche i dirigenti di partito erano per lo più intellettuali), l’“avanguardia del proletariato” teorizzata e messa in pratica da Lenin, non aveva dubbi: l’ideologia non permetteva sfumature.
Oggi che però la lotta di classe è diventata quella per gli interessi della propria classe, borghese e “riflessiva”, e si è spostata “dai campi e dalle officine” (come recitava una nota canzone) direttamente al sofà di casa (rigorosamente in zona ZTL), la sinistra si è imposta di essere occidentalista e americanista. Ha preteso di farlo come al solito senza sfumature, facendosi più realista del re, sempre con l’dea di di rappresentare il Bene (in nome di una presunta “superiorità morale”) e con la propensione istintiva a togliere la parola a chi solo un po’ dissente dalla linea ufficiale stabilita dai vertici.
Senonché la storia non si può cancellare con un tratto di penna: le vecchie pulsioni sono forti, la mentalità è sempre più o meno la stessa, e quello che un tempo era chiamato “centralismo democratico” oggi appare anche all’interno nella sua vera sostanza, che è l’ipocrisia. Il rimosso viene così a galla e rovina la festa.
Succede quindi che, come inatteso “effetto collaterale” della putiniana “operazione speciale” di Ucraina, alla chiamata in correità di Enrico Letta, la sinistra intellettuale (o paraintellettuale) prima ha fatto finta di aderire compatta e poi si è spaccata ed ha iniziato a farsi guerra da sola, in casa propria. Non una battaglia delle idee, che dovrebbe essere sempre la benvenuta per un liberale, ma proprio una guerra fatta di anatemi, linciaggi mediatici, invocazioni alla epurazione dei reprobi, e via dicendo.
Nella migliore tradizione comunista, ci si è come dimenticati degli avversari e ci si è concentrati sui “traditori”, su quelli che un tempo erano additati come “socialfascisti”. Ecco allora che Bianca Berlinguer, figlia dell’idolo del comunismo italiano par excellence, già direttrice del telegiornale Rai più partigiano, viene sconfessata dai vertici della sua azienda (sempre e solo rigorosamente di area Pd) per ostinarsi a invitare Alessandro Orsini nella sua trasmissione. “Il Foglio” riesce persino a scovare lo zio ultranovantenne della giornalista carpendogli delle generiche affermazioni (sulla “logica dei media” e sulla responsabilità di portare un cognome simbolo di austerità e sobrietà) che vengono “vendute” come sconfessione familiare. E che dire di Michele Santoro, il “tribuno del popolo” un tempo osannato dalla sinistra perché sollevava le masse televisive contro Silvio Berlusconi e che ora di colpo è stato messo ai margini dai suoi compagni?
C’è stato poi Gianni Riotta che ha annoverato persino il pacifico e sempre molto british Lucio Caracciolo fra i “putiniani” d’Italia, generando sui social una ostilità per una rivista di geopolitica come “Limes” che pure nasce da una costola di quella “MicroMega” che era la più schierata delle riviste italiane. Anche Donatella Di Cesare, che, oltre ad essere un’eccellente filosofa è una tanto faziosa quanto onesta intellettualmente anarco – comunista d’antan, è stata praticamente messa in un angolo dai giornali del gruppo “Repubblica” sulle cui pagine pure imperversava.
Gli esempi potrebbero continuare, e non è dubbio che assistere allo spettacolo dà una certa soddisfazione. Ma non è questo il punto. Chi scrive pensa che la destra liberale e conservatrice, che è sempre stata dalla parte dell’Occidente e dell’America proprio in nome della libertà e della possibilità di esprimersi che il nostro mondo garantisce ad ogni individuo (pur ovviamente tra le mille difficoltà e contraddizioni che ineriscono sempre alle cose umane), dovrebbe approfittare di questa situazione.
Da due punti di vista: uno, non perdendo la bussola che l’ha sempre orientata a Ovest e non verso le autocrazie o le sedicenti “democrazie illiberali” (che è qualcosa, come si dice a Roma, che nun se po’ sentì); due, mostrando che la recente adesione della sinistra che conta al campo occidentale è per lo più ipocrita e interessata, oltre a conservare col segno cambiato quell’illiberale propensione a zittire e ad eliminare (per fortuna non più fisicamente) chi la pensa in modo diverso. Detto con franchezza: non si possono accettare lezioni di antiputinismo da chi, ancora quando Putin era un funzionario del KGB, guardava a Mosca come la capitale del socialismo che presto avrebbe redento anche la parte di mondo in cui per fortuna viviamo! Corrado Ocone, 10 aprile 2022
La guerra in Ucraina. Chi appoggia Putin in Italia: da quelli di “parlateci di Bibbiano” ai no vax chi sono i tifosi dello Zar. Fulvio Abbate su Il Riformista il 4 Marzo 2022.
CasaPutin. Potrebbe mostrare questa insegna il nuovo punto di ritrovo dei no vax. Frequentata da chi fino a ieri ringhiava l’esistenza in atto di una “dittatura sanitaria”. Ora trasmigrati nel sostegno alle presunte ragioni della Russia. Di Putin, appunto. Sullo sfondo, persiste l’ossessione sovranista propalata nei social, che essi sostengono essere invece l’unica verità pienamente “libera” nel contesto geopolitico e clinico planetario. Ignorano il tratto imperialistico del nuovo idolo, mostrano perfino orgoglio per la scelta di campo. Forse, molti di loro hanno in casa il volume Impara il judo con Putin (Mondadori, 2001).
Innalzano un ritrovato antisemitismo; puro razzismo plebeo. Nei tweet, sollevano ulteriori accuse ai “poteri forti”, ai “guerrafondai”, escludendo tuttavia dagli indesiderabili chi una guerra d’aggressione a uno stato sovrano, l’Ucraina, l’ha appena messa in atto. Torna il disprezzo per gli Stati Uniti d’America: “Yankee Go Home”, remixato tra narrazione sulla pandemia “procurata” e il resto che giunge da Mosca. Un combinato disposto nazi-fascio-comunista compiaciuto del proprio sentire; analfabetismo autoritario e frustrazione sociale che condanna l’esistenza stessa della Nato.
Dopo “Parlateci di Bibbiano!”, l’appello a non farsi mai “inoculare”, la profezia secondo cui gli altri – i “sierati” – “moriranno tutti”, la bugia del vaccino “sperimentale”, se non certamente un prodotto “satanico”, dopo le stelle di Davide disegnate sulle mascherine in nome del rifiuto del green pass, questa stessa massa populista ha scelto di trasferire la propria subcultura nelle piazze che la propaganda di Putin ha offerto loro in comodato d’uso ideologico, sempre in nome di una presunta libertà altrove negata. Opzione ideologica e insieme tecnica di sopravvivenza mediatica con intenti ora eversivi ora commerciali; modalità di galleggiamento politico ulteriore del populismo.
Una loro portavoce, deputata europea già leghista, insinuava in un talk queste “verità” con sicumera demagogica. Subito acclamata dalla sponda rosso-bruna. Colpa del sistema dell’informazione e del controllo sociale pervasivi, il “mainstream” ufficiale “occidentale” come megafono. Altrove, un apprezzato scrittore fascista sosteneva, circa le ripercussioni che la guerra presto determinerà in casa nostra, che Berlusconi, lui sì, da una posizione di governo avrebbe garantito all’Italia una conveniente risoluzione rispetto all’attuale nodo ucraino, riportando l’ “amico” Vladimir a più miti consigli. Lo stesso utilizzo ambiguo della svastica, semanticamente ribaltata come distintivo della volontà di potenza della Nato che non avrebbe rispettato i patti con la Russia, indica una doppia nostalgia feticistica sia per il “Reich millenario” sia per l’Urss. Su tutto, tralasciando per un istante la questione del vaccino, Putin e la “sua” Russia come unica vera parte lesa.
Politicamente parlando, siamo in presenza di un pensiero tossico che mostra un deficit culturale perfino all’interno della sinistra radicale, tra centro sociale occupato e presidio presunto “antifascista”. Simmetrico alla difesa pubblica del criminale Milosevic cui abbiamo assistito da parte dello stesso contesto anni addietro. Il leninismo nella sua sostanza autoritaria mai del tutto tramontato; supportato tra distinguo e “però!” Un mondo mai sfiorato dall’idea dell’irricevibilità del linguaggio di chi definisce il governo legittimo ucraino “una banda di drogati e neonazisti”.
Da riportare alla memoria le parole di disprezzo assenti a ogni diritto con cui il procuratore dei processi-farsa di Mosca in epoca staliniana concludeva le requisitorie: “Fucilateli, questi cani rabbiosi!”. Chiunque abbia fatto proprie le semplici aste del pensiero democratico, a parere di questa gente dovrebbe ritenersi un “rinnegato”. Il fiele della menzogna che fa vergognare perfino il sottoscritto d’essere stato un tempo comunista. Nel frattempo, la Federazione judo ha sospeso dalla carica di presidente onorario Vladimir Putin.
Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “La peste bis” (1997), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Pasolini raccontato a tutti” (2014), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "I promessi sposini" (2019). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.
DALLA PARTE SBAGLIATA. Ucraina, i No-vax hanno un nuovo amore: fanno il tifo per Vladimir Putin. CASADIO ANDREA su Il Domani il 05 marzo 2022
Negli ultimi giorni s’è verificato uno strano miracolo antropologico: tutti i No-vax hanno abbandonato per il momento la loro lotta contro la dittatura sanitaria e i vaccini e si sono trasformati in accaniti sostenitori del presidente russo.
I No-vax ora filo russi sono accomunati da un’idea: che il capitalismo e l’occidente, soprattutto gli Stati Uniti, sono il male. Per questi individui, tutto è cospirazione.
Alcuni tratti psicologici caratterizzano tutti i No-vax. Sono rabbiosi, sospettosi e fermi nella convinzione che dietro ogni fatto della storia si muovano forze oscure che solo loro sono in grado di scovare e comprendere. Dicono di lottare perché prevalga la verità e il bene ma più spesso finiscono per difendere la parte sbagliata.
Negli ultimi giorni s’è verificato uno strano miracolo antropologico: tutti i No-vax, anzi chiamiamoli gli “esitanti sul vaccino” che sennò s’arrabbiano, da quelli più famosi che compaiono ogni sera in tv, a quelli sconosciuti che si sfogano solo sui social o in piazza, hanno abbandonato per il momento la loro lotta contro la dittatura sanitaria e i vaccini e si sono trasformati in accaniti sostenitori di Vladimir Putin, nella sua guerra folle contro l’Ucraina.
Ugo Mattei, il professore di diritto che, assieme a Giorgio Agamben e Massimo Cacciari, filosofi, ha fondato prima la Commissione dubbio e precauzione (Dupre) – così chiamata perché i suoi dotti componenti dicono di nutrire dubbi verso i vaccini, contro i quali invitano tutti a prendere precauzioni – e poi il Comitato di liberazione nazionale (Cln), formato da tutti quelli che, dice Mattei, si oppongono al “regime draghista”, identico a quello fascista.
Mattei ha scritto su Facebook: «A nome del Cln condivido questo comunicato con preghiera di massima diffusione. È in corso un evidente tentativo dell’asse angloamericana di impedire amichevoli rapporti fra Europa e Russia. Ovviamente gli stessi interessi guerrafondai dei democratici di Biden sono quelli del regime draghista».
Ed eccolo, il comunicato: «Lungi dalle ricostruzioni parziali dei media di massa, si precisa che l’attuale crisi ucraina va inquadrata nell’attacco lanciato dalla Nato contro la Federazione Russa, mirato a smembrarla per il controllo egemonico dell’Eurasia. È questo il contesto nel quale va inserito il colpo di stato del 2014 nella Euromaidan, teatro di un’ennesima operazione di regime-change, che ha visto in azione formazioni paramilitari neonaziste e cecchini georgiani che sparavano contemporaneamente su polizia e manifestanti per infiammare la rivolta e inglobare l’Ucraina nella sfera di appartenenza occidentale».
«Le vessazioni contro la popolazione russa del Donbass, presto degenerate in veri e propri scontri sono sfociate in un’offensiva che negli ultimi mesi ha visto l’impiego di sistemi missilistici a lancio multiplo BM-21 Grad posizionati lungo la linea di contatto in aperta violazione ai protocolli di Minsk I e Minsk II. Un’ennesima provocazione, alla quale Vladimir Putin questa volta ha risposto», si legge.
Ah. Non è stato il presidente russo Vladimir Putin a dichiarare la guerra e invadere senza motivo l’Ucraina? Spiega Mattei che Joe Biden e Mario Draghi sono pericolosi guerrafondai e l’attacco in Ucraina l’ha lanciato la Nato. La Nato ha lanciato un attacco contro la Russia? E quando? Me lo sono perso.
Vladimir Putin, quindi, non ha mandato l’esercito a invadere un paese libero, massacrando militari e civili, per destituire Volodymyr Zelensky, un presidente democraticamente eletto dal popolo ucraino, e il suo governo, che Putin ha gentilmente definito «una banda di nazisti drogati», anche se Zelensky è un ebreo che ha avuto mezza famiglia massacrata ad Auschwitz.
ESPERTI DI DITTATURE
No, il povero presidente Putin ha solo risposto a una provocazione della Nato e degli ucraini. Mi deve essere sfuggito qualcosa. Ma forse ha ragione il professor Mattei, che di storia e di dittatori se ne intende: difatti, lui sostiene che in Italia c’è una dittatura sanitaria dato che Draghi, lui sì che è un dittatore, ha introdotto il Green pass che riduce la nostra libertà.
Invece Putin, che mette in carcere chi protesta, fa uccidere i politici che gli si oppongono (come Boris Nemcov, assassinato su un ponte vicino al Cremlino nel 2015) e i giornalisti che non gli piacciono (coma Anna Politkovskaja, uccisa a revolverate nel 2006 mentre stava rincasando, perché aveva osato raccontare i massacri in Cecenia da parte dell’esercito russo), non è un dittatore: lui agisce così solo perché tutta quella brutta gente l’ha provocato.
Diego Fusaro, altro paladino dei No-vax, scrive che i paesi europei «hanno accerchiato la Russia violando ogni accordo e ora cercano di fare ricadere su lei soltanto la responsabilità di ciò che sta accadendo. Una narrazione fumettistica eppure oggi dominante. Il vero nemico sono gli Usa».
Dovrebbe dirlo agli abitanti di Kiev, sulle cui teste piovono bombe dei russi, mica degli americani. E Fusaro prosegue: «Vladimir Putin, per me, rappresenta l’eroica resistenza all’imperialismo statunitense, la capacità di uno stato sovrano nazionale di resistere e di non lasciarsi piegare. Putin, poi, rappresenta anche l'importanza di aver riscoperto le identità e la sovranità nazionale come baluardo di resistenza all'imperialismo». Il filosofo amante della libertà tra Biden e Putin preferisce Putin. Basta saperlo.
TUTTO È COSPIRAZIONE
I leader del movimento No-vax si comportano come se fossero diventati i portavoce ufficiali del presidente russo. Anche sui canali social sono diventati tutti suoi accaniti sostenitori: c’è chi posta la dichiarazione di guerra di Putin commentando con emoticon di giubilo, chi fa il tifo per i soldati di Mosca e scrive “la Russia sta ripristinando la giustizia!”, chi sostiene che è tutta colpa degli americani, chi posta video in cui si vede un giornalista occidentale con l’elmetto e il giubbotto antiproiettile mentre dietro di lui cittadini ucraini tornano a casa imperterriti con le borse della spesa, e conclude che la guerra non esiste, è solo un’invenzione dei nostri media. Un delirio paranoide.
Eppure, c’è del metodo in questa pazzia. Per questi individui, tutto è cospirazione, tutto è colpa dell’Occidente. Noi ci fermiamo alle superficie e ci fidiamo del racconto dei media mainstream, mentre loro sanno che c’è sempre una verità più vera, più pura, che si nasconde dietro le apparenze. Tutti dicono che il virus è nato in natura ed è passato da un animale all’uomo?
Non è vero: loro sanno che è stato creato in laboratorio. Tutti dicono che il Covid ha fatto milioni di morti? Non è vero: loro sanno che il Covid è una malattia poco più grave di un’influenza, e che la pandemia è un’invenzione dei media occidentali creata per limitare le nostre libertà.
Tutti dicono che i vaccini salvano milioni di vite? Non è vero: loro sanno che i vaccini – prodotti dalle odiose Big Pharma americane – uccidono. Adesso sembra che Putin abbia invaso l’Ucraina, ma non è vero: la longa manus della Nato ha spinto Putin, poveretto, a bombardare Kiev. E di tutto questo hanno le prove.
L’INVENZIONE DEL NEMICO COMUNE
I No-vax ora filo russi sono accomunati da un’idea: che il capitalismo e l’occidente, soprattutto l’America, sono il male. Così, tenuti assieme dal nemico comune, alle manifestazioni contro il Green pass trovi gli anti capitalisti di estrema sinistra – dai residuati del sessantotto come Cacciari, Agamben e Mattei, agli adepti vegani della new age in sandali e maglioni di lana cotta – che marciano a braccetto con gli anti capitalisti di destra, dai ribelli anti sistema in giacca, cravatta e corna da vikingo, ai simpatizzanti di Forza Nuova eredi dei celti. Ora, questo strambo popolo di sinistrorsi libertari e nazionalpopulisti tutto unito fa il tifo per Putin.
Alcuni tratti psicologici caratterizzano i No-vax, ora filo Putin. Sono rabbiosi, sospettosi e fermi nella convinzione che dietro ogni fatto della storia si muovano forze oscure che solo loro sono in grado di scovare e comprendere.
Loro sono i vati della realtà, gli eletti, mentre noi siamo il gregge che crede a tutto. Quel che li accomuna è il narcisismo: sono sicuri di capire e di saperne più di noi, di essere meglio di noi. Forti della loro superiorità intellettuale, si lanciano in ragionamenti lunghissimi e pedanti che arrivano a conclusioni opposte a quelle desiderate.
Si dichiarano libertari, e finiscono per idolatrare un despota come Putin. Si dicono amanti del dubbio e enunciano verità dogmatiche che nessun dato di fatto può scalfire. Si vantano di non cadere nei tranelli tesi dalla medicina ufficiale, e rischiano di morire dieci volte più degli altri. Affermano di lottare perché prevalga la verità e il bene, ma più spesso finiscono per difendere la parte sbagliata. CASADIO ANDREA
La guerra Russia-Ucraina. Sanders giustifica Putin ma dovrebbe ripetere la storia: l’invasione dell’Ucraina arriva 18 anni dopo l’allargamento della Nato. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 4 Marzo 2022.
Bernie Sanders, senatore del Vermont e fervente democratico, più volte in competizione per ottenere la candidatura del suo partito nelle elezioni presidenziali, si è profuso in un’analisi che non lascia scampo a quanti oggi solidarizzano con la resistenza ucraina. Ovviamente Sanders non esita a condannare l’invasione della Russia, che, a suo avviso, non è una risposta; come – ha scritto sul Guardian – non “lo è l’intransigenza della Nato”. «Sono estremamente preoccupato quando sento i familiari tamburi a Washington – dichiara Sanders – la retorica bellicosa che viene amplificata prima di ogni guerra, chiedendo che dobbiamo “mostrare forza”, “diventare duri” e non impegnarci nella “pacificazione”. Un semplicistico rifiuto di riconoscere le complesse radici delle tensioni nella regione mina la capacità dei negoziatori di raggiungere una soluzione pacifica».
A dire il vero, sembra che questi tamburi di guerra li senta suonare solo lui, poiché l’inquilino della Casa Bianca, da giorni non fa che ripetere la classica formula del “non aderire né sabotare”. Sanders ritiene che «uno dei fattori precipitanti di questa crisi, almeno dal punto di vista della Russia, è la prospettiva di un rafforzamento delle relazioni di sicurezza tra l’Ucraina e gli Stati Uniti e l’Europa occidentale (ne esiste una orientale? ndr), compresa quella che la Russia vede come la minaccia dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, un’alleanza militare originariamente creata nel 1949 per affrontare l’Unione Sovietica». E a questo punto il senatore invita a ripassare la storia ricordando che quando l’Ucraina divenne indipendente dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, i leader russi chiarirono le loro preoccupazioni sulla prospettiva che gli ex stati sovietici entrassero a far parte della Nato e schierassero forze militari ostili lungo il confine della Russia.
I leader statunitensi riconobbero, allora, la legittimità di queste preoccupazioni, che secondo Bernie Sanders, lo sarebbero ancora. Poi il senatore si lancia in una rievocazione della linea di politica internazionale degli Usa, dalla Dottrina Monroe (“l’America agli americani” considerata dall’amministrazione Trump “viva e vegeta”) in poi, passando per la crisi di Cuba del 1962, fino all’appoggio ai golpe sudamericani, indicando come esempio politicamente corretto il caso della Finlandia, «uno dei paesi più sviluppati e democratici del mondo, confina con la Russia e ha scelto di non essere membro della Nato’’. Come gli Usa hanno di fatto delle “sfere di influenza” è ipocrita – ecco la dottrina Sanders – non concedere a Putin il diritto di intervenire contro qualsiasi paese che possa minacciare gli interessi russi. Per dare credibilità alla sua analisi, Sanders termina con un paradosso: «qualcuno crede davvero che gli Stati Uniti non avrebbero qualcosa da dire se, ad esempio, il Messico dovesse formare un’alleanza militare con un avversario degli Stati Uniti?».
In realtà è il senatore che dovrebbe ripassare la storia, perché nella sua ricostruzione ignora parecchi passaggi importanti nelle vicende degli ultimi trent’anni. Anche ammettendo che il gentlemen’s agreement tra Bush e Gorbaciov sia avvenuto (Der Spiegel ha pubblicato persino dei documenti) e che la Nato si fosse impegnata ad accontentarsi dell’adesione della Germania unificata senza spingersi troppo ad Est, inglobando come è avvenuto dal 1999 a 2004 tutti i paesi ex satelliti e le Repubbliche baltiche, Vladimir Putin ha impiegato 18 anni per ritenere intollerabile il nuovo assetto determinatosi dopo l’implosione dell’Urss (l’Impero sovietico fece tutto da solo, mentre l’Occidente stava a guardare meravigliato)? E non è neppure vero che nei confronti della Federazione russa vi siano stati degli atteggiamenti ostili da parte delle potenze occidentali.
Nel 2002 furono sottoscritti tra i premier dei 19 Paesi della Nato e Putin gli accordi di Roma, in base ai quali venivano individuati ambiti importanti di collaborazione tra cui la lotta al terrorismo, la difesa e la collaborazione militare; rafforzando, così, i rapporti amichevoli stabiliti in precedenza. Dal 1989 ai lavori dell’Assemblea dell’Onu partecipavano rappresentanti dei Parlamenti dei paesi dell’Unione europea e dell’Europa centro-orientale, cui venne attribuito lo status di membri associati (Armenia, Austria, Azerbaijan, Bosnia Erzegovina, ex Repubblica iugoslava di Macedonia, Federazione russa, Finlandia, Georgia, Moldavia, Montenegro, Serbia, Svezia, Svizzera, Ucraina). Il G7 fu allargato alla Russia fino a quando nel 2014 Putin decise di annettere la Crimea. La Georgia e l’Ucraina sono considerati dalla Nato “paesi attenzionati” da quasi un decennio. Putin ha cambiato atteggiamento dopo la cosiddetta rivoluzione dell’Euromaidan, quando gli ucraini, nel 2014, rovesciarono il governo filo-russo e si avvicinarono alla Ue e alla Nato.
Se gli Usa non hanno mai rinunciato – come ha scritto Sanders – alla Dottrina Monroe, Putin ha riattivato gli accordi di Yalta? I Paesi vicini della Federazione russa devono essere osservanti ai diktat del Cremlino come il boss della Bielorussia? Altrimenti arriva l’Armata rossa come – ai tempi delle “zone di influenza’’ – in Ungheria (1956) e in Cecoslovacchia (1968)? Diciamoci la verità. I casi della Crimea, della Georgia, fino alla pratica annessione del Donbass sono gravi violazioni del diritto internazionale, ma secondo la realpolitik potevano essere interpretate come azioni a scopo precauzionale e difensivo. Ma l’invasione dell’Ucraina è un atto di guerra che non può avere alcuna “comprensione”. Putin con quest’azione ha riscritto la storia del “secolo breve”. Si è arrogato il diritto di “denazificare” l’Ucraina; ma questo è un percorso insidioso. Absit iniuria verbis perché – come ha scritto Sansonetti è assurdo paragonare Putin a Hitler – ma anche il nazismo in Germania costruì la propria “resistibile” ascesa sulle condizioni capestro che le potenze vincitrici della Grande Guerra avevano inflitto alla Germania sconfitta.
Oggi gli storici riconoscono che furono commessi gravi errori da parte delle potenze vincitrici della Grande Guerra nei confronti della Germania, che fu privata del bacino della Ruhr, sottoposta a un debito di guerra esorbitante che condizionò in modo negativo la Repubblica di Weimar (un’eccellenza di democrazia per quei tempi). Poi a Versailles si disegnarono i confini degli Stati creando otto milioni di apolidi. Oltre al caso Danzica, fu costituita a tavolino la Cecoslovacchia, dove – nella regione dei Sudeti – vi erano tre milioni di tedeschi (sui 12 milioni di cittadini del nuovo Stato). Se è politicamente comprensibile la guerra scatenata da Putin in difesa della popolazione russofona, ci tocca di rivalutare Neville Chamberlain che a Monaco riconobbe le pretese di Adolf Hitler sulla Cecoslovacchia allo scopo di salvaguardare la pace in Europa.
Se un Paese crede di aver diritto ad uno “spazio vitale”, pretende di rivendicare i confini “naturali” di un “glorioso” passato (lastricato di milioni di morti e piagato da un regime di feroce oppressione), vuole superare lo status di potenza regionale (copyright Barack Obama) per ritornare al medesimo rango degli Usa e della Cina, il mondo deve stare a guardare imbelle? Nel 1938, Gran Bretagna e Francia – disse Winston Churchill – persero l’onore per evitare la guerra; ed ottennero sia il disonore che la guerra. Ma almeno si fecero garanti (pur inutilmente) dell’indipendenza della Polonia, la nazione oggi aderente alla Nato, ai confini della Russia. Al pari delle Repubbliche baltiche. Forse l’Alleanza atlantica dovrebbe “battere un colpo”. Come fanno i fantasmi.
Si fa un gran parlare della ritrovata compattezza dell’Occidente, dimenticando che in Europa (adesso si spiegano le ragioni degli aiuti finanziari ad alcune forze politiche e le incursioni informatiche) Putin ha disseminato in alcuni paesi, dove si andrà presto a votare, delle “quinte colonne’’ che potrebbero vincere le elezioni o condizionare comunque la politica estera. Siamo sempre lì. Arriva un momento, nella storia, in cui alle democrazie viene chiesto se sono disposte a morire per Danzica. Chi offre l’altra guancia prende solo due schiaffi. Giuliano Cazzola
Reductio ad Putinum. Siamo tutti ucraini, siamo tutti europei (anche se non proprio tutti tutti). Christian Rocca su L'Inkiesta il 4 Marzo 2022.
Putin vuole annettersi l’Ucraina e annientare la democrazia liberale. Sono anni che lo dice e che lo fa, nell’indifferenza generale e nonostante in molti l’abbiano fatto notare per tempo. La drammatica tragedia degli assediati sotto le bombe del Cremlino e quella surreale di chi ancora non vuole capire.
Quella canaglia di Vladimir Putin vuole annettersi l’Ucraina, tutta l’Ucraina, senza eccezione territoriale, senza mediazione alcuna, possibilmente anche senza più ucraini e certamente senza soluzione di continuità con la grande madre Russia, come fece Hitler con l’Austria ancora più che con la regione dei Sudeti in Cecoslovacchia nel 1939.
La reductio ad Hitlerum è sempre un artificio retorico odioso da usare per commentare l’attualità, ma mai come questa volta la storia, le parole d’ordine, la lucida follia omicida del condottiero, e la corrispettiva sottovalutazione del pericolo dopo anni di preparativi in Cecenia e in Georgia fino alla Crimea, sembrano il remake annunciato di un horror già visto.
Putin si prenderà l’Ucraina e non si fermerà all’Ucraina. Il passo successivo sarà l’annessione della Sudetenland del XXI secolo, ovvero dei paesi baltici o della Moldova o di chissà quale altro paese dell’ex impero sovietico e non è detto che il criminale del Cremlino si fermerà prima di arrivare alle porte di Berlino, dove ai tempi dell’impero del male comunista si aggirava nei panni del farabutto del Kgb.
Il progetto di Putin è chiaro, addirittura è stato codificato in un’intervista al Financial Times che fu salutata tra gli applausi dai beoti e tra mille considerazioni pensose dei fessi di Davos e dell’Ambrosetti: Putin vuole cancellare la democrazia liberale perché la democrazia liberale è l’arma di mobilitazione popolare più micidiale a disposizione dei suoi connazionali interessati a combattere la cosca mafiosa di trafficanti e di oligarchi che si è installata al Cremlino.
Nel 2016, Putin pensava di aver vinto la partita, dopo aver contribuito a far uscire la Gran Bretagna dall’Europa e a far eleggere alla Casa Bianca il primo presidente antiamericano degli Stati Uniti, una specie di “season finale” della serie tv The Americans, senza dimenticare l’amicizia imperitura con i governi populisti ai suoi piedi in giro per l’Europa, a cominciare da quello Conte-Salvini-Di Maio, e senza sottovalutare la penetrazione propagandistica e ingegnerizzata di fake news con cui ha approfittato della deboli difese della società aperta e dell’irresponsabilità dei suoi volenterosi complici come coloro che in Italia hanno piazzato un personaggio ridicolo come Marcello Foa a presiedere la Rai, gli amici di Dugin al Tg2, gli squadristi populisti in vetrina serale sulla 7 e le macchiette retequattriste a Mediaset.
La sconfitta infamante di Trump – dopo il fallimento della falsa pista del fantomatico complotto ucraino dietro le manovre russe pro Trump, cui ha creduto buona parte dell’informazione italiana sotto dettatura di Rocco Casalino – ha cambiato la strategia di Putin, costringendolo ad accelerare il suo piano imperiale perché il vento era improvvisamente cambiato. A maggior ragione dopo il flop del tentativo di colpo di stato americano del 6 gennaio 2021 e la conseguente riscossa atlantica e liberale in giro per il mondo, a cominciare dalla riscossa delle istituzioni europee alla pandemia fino all’insediamento di un governo pienamente atlantista in Italia.
Eppure pare non bastare nemmeno l’aggressione criminale contro gli ucraini: c’è ancora chi non ha capito che i baffetti hitleriani delle mille caricature di Putin sono una fotografia perfettamente realista del dittatore che ha infuocato l’Europa. C’e ancora chi non ha capito chi è e che cosa vuole Putin, nonostante lui lo dica chiaramente, perché mille sono ancora i distinguo stravaganti, i «sì, ma» e le altre scemenze giustificazioniste del despota che si sentono in giro.
Basta leggere le puntute reazioni di ex direttori del Tg3 comunista, di sgherri del Fatto, di direttori di riviste ex liberali (povero Nicola Matteucci) e di vari mentecatti di ogni ordine e grado all’articolo di Gianni Riotta sulla Repubblica di Maurizio Molinari di ieri a proposito di uno studio della Columbia University, su cui aveva scritto Linkiesta un anno fa, sulla tendenza putiniana (detta con parola tedesca: «Russlandversteher») di una parte dell’intellighenzia globale anche italiana, non solo dei senza arte né parte della Lega e dei babbei a cinque stelle, che – consapevole o no – ripete e giustifica e amplifica la propaganda maleodorante del Cremlino.
Quelli che invece conoscono le reali intenzioni criminali di Putin, e che avvertono da tempo della pericolosità, sono altri: sono Anna Zafesova, Bernard Henri Levy, Riotta e Molinari, Paolo Garimberti e Gianni Vernetti, Jacopo Iacoboni della Stampa, buona parte della squadra del Foglio e pochissimi altri, casi più unici che rari, isolati e sbeffeggiati in mezzo a legioni di rossobruni di destra e di sinistra, berlusconiani e comunisti, fascisti e antagonisti, anti americani e assangisti.
La cosa più grave è che sull’Ucraina non si intravedono buone soluzioni, se non l’urgenza di aiutare gli assediati a difendersi, di assistere le loro famiglie sfollate e di inasprire fino all’impossibile le sanzioni contro la cosca di Putin, nella speranza che siano proprio gli oligarchi a defenestrare il tiranno a furor di popolo russo.
La resistenza sul campo è in mano al valoroso popolo ucraino, la cui attuale leadership churchilliana sta commuovendo mezzo mondo ma porta con sé la gigantesca responsabilità di non essere riuscita a mobilitare l’opinione pubblica internazionale prima dell’invasione. Ma ciò che importa è che ora, di fronte a un’aggressione criminale contro un popolo democratico, non possiamo non dirci tutti ucraini. E non possiamo non dirci tutti europei. Anche se non proprio tutti tutti.
Dagonews il 3 marzo 2022.
L’aggressione della Russia all’Ucraina ha aperto la caccia ai “putiniani d’Italia”. Chi sosteneva “Mad Vlad”? Chi lo elogiava? Chi ha suonato la grancassa al capoccione del Cremlino? Salvini e Berlusconi sono stati i primi a finire sul banco degli imputati per i loro rapporti con l'ex capo del Kgb.
Il direttore de “l’Espresso” Marco Damilano, durante la puntata di “DìMartedì”, ha rinfacciato all’ex direttore della Rai, il salviniano Marcello Foa, le simpatie per Putin ('Lei faceva il commentatore per agenzie come Sputnik o Russia Today e diceva che le rivolte in Ucraina erano pianificate e guidate dall'Occidente”).
Il “Fatto quotidiano”, accusato di sostenere Putin per aver pubblicato un articolo di Barbara Spinelli critico verso Ue e Usa (ritwittato dall’ambasciata russa in Italia), ha ricordato come fosse invece “Repubblica” a ospitare un inserto celebrativo (“Russia Oggi”) pagato dagli uffici della propaganda di Mosca.
Sicuramente il sito “l’Antidiplomatico” è il megafono dei 5stelle per la propaganda di Putin in Italia e ne rilancia puntualmente le “ragioni”. Che non esita a parlare di maccartismo anti-russo, di fake news per danneggiare Mosca, di “umiliazione” subìta dalla Russia. Il sito rilancia anche gli scritti polemici anti-Usa (o pro-Mosca) che Alessandro Di Battista pubblica su facebook.
Non solo: molti articoli de “l’Antidiplomatico” sono finiti nel mirino dei cacciatori di bufale. Uno di questi sosteneva, in un ingarbugliato schema che coinvolgeva anche Pfizer e i vaccini, che Microsoft, Amazon e Facebook fossero i primi tre azionisti di BlackRock.
Un altro, riportava le dichiarazioni di un ricercatore francese che minimizzava gli effetti del covid e la portata della pandemia. Il direttore Fabrizio Verde, un giornalista napoletano di 41 anni. Nel suo passato professionale, un blog sul sito “Linkiesta”, alcune collaborazioni con siti sportivi come “Goal” e “Transfermarkt Italia”, un periodo da corrispondente locale per “Cronache di Napoli”. Ma il fondatore del sito si chiama Alessandro Bianchi che, grazie a Di Battista, divenne un collaboratore dei deputati 5Stelle. Illuminante l'articolo che segue di Iacoboni che La Stampa pubblicò nel 2016.
Jacopo Iacoboni per La Stampa - articolo pubblicato 8 Novembre 2016
Non avendo pronta una chiara linea geopolitica, e un network sperimentato di interlocutori, la politica estera del Movimento cinque stelle della prima fase, tra la nascita (2009) e lo Tsunami tour (2012-2013), s’è sempre risolta nelle visite - più o meno estemporanee - di Beppe Grillo alle ambasciate.
L’ambasciata tedesca, quella americana, il consolato americano, cominciarono a manifestare anni fa curiosità per questo «comedian» trasformatosi in agitatore politico di folle. Volevano capire. Annusavano. Alla vigilia delle elezioni del 2013 sollevarono un caso le parole pronunciate il 13 marzo dall’ambasciatore Usa David Thorne al liceo Visconti, a Roma: «Voi giovani siete il futuro dell’Italia. Voi potete prendere in mano il vostro Paese e agire, come il Movimento 5 Stelle, per le riforme e il cambiamento».
Grillo esultò. Vergò sul blog un post trionfale: «L’ambasciatore Usa e il M5S». Poi però le cose sono drasticamente cambiate. Negli ultimi due anni ha cominciato a farsi strada, nel M5S, un mantra totalmente opposto, «la Russia non è un nemico». La chiave della loro geopolitica è diventata via via la richiesta di abolire le sanzioni contro Mosca.
Gli incontri, parallelamente, si sono spostati dal livello teatrale di Grillo alle ambasciate a un livello più prosaico ma confidenziale: quello degli imprenditori, o dei colonnelli Alessandro Di Battista e Manlio Di Stefano. Due a Mosca, e poi a Roma, con personaggi chiave del partito di Putin, uno dei quali assai discusso. È in questa fase che diventa di riferimento, nel divulgare la linea, un sito, L’Antidiplomatico.
Nonostante neghi un’inclinazione filo-Putin, L’Antidiplomatico descrive bene il legame culturale sempre più stretto tra cinque stelle e propaganda di Mosca. Basta leggere gli ultimi dieci articoli in cui, direttamente o indirettamente, si parla del leader russo. «Oliver Stone: Trump è pericoloso, ma cosa vi fa pensare che Hillary non lo sia?».
«Come mai i giornalisti diffamano Putin e non indagano sull’immenso patrimonio accumulato da Bill e Hillary Clinton?». «La Russia annuncia una tregua umanitaria ad Aleppo» (parentesi: Aleppo viene paragonata storicamente alla battaglia di Stalingrado, un grande classico della propaganda russa attuale). «Il ministro della Difesa russo: “È tempo che l’Occidente definisca se lottare contro i terroristi o contro la Russia”». «Putin: “Mi piacerebbe avere in Russia la macchina di propaganda in mano agli Usa». E via così. La Clinton non riscuote certo, eufemismo, la loro simpatia.
Lantidiplomatico.it è registrato a nome di Alessandro Bianchi, un giovane pescato nelle reti della sinistra radicale romana, poi diventato il più stretto collaboratore di Alessandro Di Battista, e utilizzato dal M5S anche per la commissione esteri della Camera. Bianchi, la settimana scorsa, non ha risposto quando La Stampa l’ha contattato. Con lui c’è una redazione agile di collaboratori; il principale dei quali, Fabrizio Verde, ha le stesse origini politiche, più altre due persone.
Le firme fisse non colpiranno i lettori giovani; ma i meno giovani sì: nel colophon della rivista online tra i soli quattro «collaboratori assidui» compare Achille Lollo, alla cui biografia L’Antidiplomatico scrive, assai stringato: «Corrispondente di Brasil de Fato in Italia, curatore del programma TV “Quadrante Informativo” e colonnista del “Correio da Cidadania”».
Altrove sul sito Bianchi aggiunge: «È stato direttore delle riviste Naçao Brasil e Conjuntura Internacional». L’ex militante di Potere Operaio - per diciott’anni latitante in Brasile, e prima dieci anni in Angola, condannato per il rogo di Primavalle appiccato alla casa dei Mattei in cui morirono un bambino di 10 e un ragazzo di 22, figli del segretario della sezione missina di quel quartiere romano - è oggi libero cittadino, dopo la prescrizione della pena.
In questo milieu matura il sito che in questi mesi sta vedendo lievitare i suoi accessi, e l’influenza tra i parlamentari cinque stelle che si occupano di geopolitica.
Anticipazione da “Oggi” il 3 marzo 2022.
Il settimanale Oggi in edicola, oltre a un reportage da Kiev di Francesca Mannocchi e Alessio Romenzi e le interviste a famiglie ucraine e italiane coinvolte nella guerra, contiene una biografia di Putin di 40 pagine, scritta da Giorgio Dell’Arti. Si tratta, come spiega il direttore Carlo Verdelli di «un mosaico costruito attraverso i profili di famigliari, mogli, amanti, amici di ventura, sodali e avversari internazionali. Tanti tasselli, che messi insieme, compongono il ritratto inedito di un leader senza scrupoli». Sul sito oggi.it gli aggiornamenti sulla guerra in Ucraina, con approfondimenti e storie.
Estratti della biografia di Vladimir Putin, raccolti da Giorgio dell’Arti per “Oggi” il 3 marzo 2022.
Silvio Berlusconi (1936). Imprenditore nell'edilizia, poi nella televisione (Canale 5. Italia 1, Retequattro), poi nello sport (Milan, poi Monza), infine protagonista della vita politica dal 2004 a oggi, come presidente del Consiglio (1994-1995; 2001-2006; 2008-2011) e capo di un partito di centro-destra detto Forza Italia e di una coalizione di conservatori chiamata Polo della o delle Libertà. Grandissimo amico di Putin
Che fosse amico di Putin si sapeva, ma qualche gusto gustoso dettaglio venne fuori dalla massa di documenti diffusa nel novembre 2010 da Julian Assange, i cosiddetti "wikileaks". cioè i rapporti sui leader di tutto il mondo dei servizi segreti americani. Dopo aver descritto Berlusconi come un uomo «vanitoso, inutile e incapace», «debole fisicamente e politicamente», troppo dedito alle «feste selvagge» (wild parties) che gli impediscono di riposare come dovrebbe, si definisce "'inquietante" l'amicizia troppo stretta con Putin: regali generosi, contratti lucrosi nel settore energetico e un mediatore-ombra russian-speaking, cioè che parla russo.
Questa potrebbe essere la rivelazione più preoccupante, perché certo non c'è bisogno di un mediatore (go-between) per far incontrare Berlusconi e Putin, e dunque questo signore - se esiste - dovrebbe esser quello che si occupa del lato sporco di parecchie faccende, comprese eventuali tangenti (che, nel settore energetico specialmente, esistono da sempre).
Berlusconi in effetti - secondo la Onlus Wikileaks - avrebbe una forte propensione a fare il ministro degli Esteri e a siglare accordi direttamente con Putin, saltando tutte le strutture e frustrando parecchio i diplomatici dell'ambasciata italiana a Mosca. Infine: «Berlusconi appare sempre di più come il portavoce (mouthpiece) di Putin in Europa». Invece Putin, capace di dominare tutti gli uomini politici del Paese, viene fatto "fesso" (undermined) dalla sua burocrazia, un apparato che il funzionario statunitense giudica ingovernabile
Putin ha detto molte volte in televisione che all'80% delle sue disposizioni non si dà alcun seguito.
Luciano Canfora: “Pensiero critico: nessuno è più intollerante dei liberali”. IL PROFESSORE BARESE - “Rivendico la possibilità di osservare e analizzare lucidamente i fatti. Da quando è caduta l’Urss il metodo dell’Occidente è stato demolire tutto il blocco ex sovietico, pezzo per pezzo, facendo avanzare minacciosamente il confine della Nato fin sotto Pietroburgo”. SILVIA TRUZZI su Il Fatto Quotidiano il 3 marzo 2022.
Luciano Canfora – storico, filologo, professore dal lunghissimo curriculum, autore prolifico sia per il sacro (l’accademia) che per il profano (noi), oggi emerito all’Università di Bari – ha il guaio dell’autorevolezza nell’epoca buia del pensiero unico. Un cortocircuito non nuovo, acuito in questi giorni dall’emotività suscitata dall’invasione russa in Ucraina. Lo chiamano in tivù per […]
La strana e ambigua democrazia immaginata da Luciano Canfora. PAOLO D'ANGELO, filosofo, su Il Domani il 05 febbraio 2022.
In La democrazia dei signori (Laterza 2022) Canfora vede nella presidenza del Consiglio affidata a Mario Draghi il complotto dei poteri forti, dimenticando interessatamente che più volte già in passato il premier è stato scelto al di fuori delle assemblee parlamentari e che non si tratta affatto di una procedura anticostituzionale.
I paralleli storici imbastiti da Canfora sono altrettanto spericolati, dato che giunge a paragonare l’incarico a Draghi a quello conferito a Benito Mussolini dopo la marcia su Roma e a sostenere che le forze che lo appoggiano sono le stesse che portarono il fascismo al potere.
Non solo Canfora riecheggia tutta una serie di posizioni tradizionalmente appannaggio delle destre, dal “colpo di Stato” contro Berlusconi nel 2011 alle accuse all’Unione europea, ma attacca Marta Cartabia e le giornaliste con argomenti degni del più rancido maschilismo.
PAOLO D'ANGELO, filosofo. Professore ordinario di estetica presso l’Università di Roma Tre dal Settembre 2001. Dopo la laurea presso l’Università di Roma “La Sapienza”, ha ottenuto il dottorato di ricerca in Estetica presso l’Università di Bologna. Ha insegnato come professore associato di Estetica presso l’Università di Messina dal 1992 al 2000. È stato Direttore del Dipartimento di Filosofia, Comunicazione e Spettacolo dal 2013 al 2018. È stato vicepresidente della Società Italiana di Estetica dalla fondazione di quest’ultima nel 2001 al 2014.
Da Fusaro a Dessì, passando per i No green pass e fino agli ex M5s: ecco il fronte italiano pro-Putin. Da open.online 1 marzo 2022. In Parlamento siedono tra i banchi di Alternativa e Manifesta. E continuano a parlare dell’espansione della Nato a est come ragione dell’invasione russa. «Ripudiamo le guerre e il pensiero unico»
Dai No Green Pass ai Sì Putin è un attimo, in Italia, in tempi di guerra della Russia contro l’Ucraina e mentre le notizie da Kiev diventano di ora in ora più drammatiche. «No, Putin non è Hitler. Non penso nemmeno che sia pazzo. Semplicemente fa l’interesse della Russia e del suo popolo», dice Ugo Mattei, giurista di sinistra già alla guida della fronda intellettuale contraria al Green Pass contro il Coronavirus. C’è, nota Concetto Vecchio su Repubblica, un fronte fatto di odio verso la Nato, unito a una passione per Putin e a una sorta di pacifismo riscoperto. «Mi rifiuto di arruolarmi», dice il vignettista Vauro. Mentre Mattei rigetta «la logica dei buoni e dei cattivi, ma non dimentico che Putin è stato messo lì dagli americani, e che poi è sfuggito di mano. Non è un sanguinario, non bombarderà i civili, né userà il nucleare. Sono totalmente contrario all’invio di armi da parte del nostro governo all’Ucraina». Per fermare i carri armati, dice, «convocherei d’urgenza l’assemblea generale delle Nazioni unite e farei approvare una risoluzione che fermi l’invasione. Servono i caschi blu». Assemblea convocata, mentre “attaccare” la Russia vedrà sempre, ovviamente, il veto di Mosca).
E in Parlamento?
Nei palazzi torna a farsi vedere qualcosa che mancava dalla fine della sinistra radicale. Si tratta, nota Repubblica, di già esponenti 5 Stelle che ora militano in Alternativa e Manifesta. Pino Cabras, 53 anni, presidente di Alternativa e allievo di Giulietto Chiesa, è stato mandato via dal Movimento perché contrario al Mes. «È in corso una mutazione radicale dell’Unione europea, che accetta la militarizzazione. Va trovata una soluzione che metta d’accordo tutte le componenti e che faccia scemare le tensioni che si sono accumulate in quell’area. L’Ucraina sia neutrale», dice a Repubblica. Quello che sta succedendo, dice, è dovuto «alla grande umiliazione subita dopo la fine del Muro da parte dell’ex Unione sovietica». Il comunista Emanuele Dessì, ex grillino che fa riferimento a Marco Rizzo, segretario del Partito comunista, dice: «Ripudiamo le guerre e il pensiero unico». Ma il governo guidato da Mario Draghi è «servo delle multinazionali, della Ue e della Nato». Simona Suriano, Doriana Sarli, Yana Ehm, Silvia Benedetti, le quattro deputate di Manifesta, hanno come riferimenti Rifondazione comunista e Potere al popolo. «Putin non è giustificabile, con tutte le attenuanti generiche che l’espansione della Nato a est ha determinato», dice Sarli. Annunciano la decisione di non votare il decreto per l’Ucraina né la risoluzione. «Inviare armi è gettare benzina sul fuoco», aggiunge.
Vito Petrocelli, del M5S, presidente della commissione Esteri al Senato, simpatizza per Putin e ha la stessa linea, che il sottosegretario Manlio Di Stefano ritiene «legittima». Contro l’invio da parte dell’Italia di armi a Kiev è anche l’Anpi, «pur condannando in modo fermissimo la guerra di Putin». «Zelensky sta mandando al massacro il proprio popolo», dice il filosofo Diego Fusaro, che parla dell’espansionismo della Nato come ragione (e giustificazione) dell’invasione russa. «Il disastro poteva forse essere evitato se Stati Uniti e Unione europea non avessero dato prova di cecità», ha scritto nei giorni scorsi la giornalista ed ex europarlamentare con L’Altra Europa di Tsipras Barbara Spinelli. Il suo articolo sul Fatto Quotidiano è stato ritwittato come consiglio di lettura dall’ambasciata russa in Italia.
E infine c’è la posizione di Matteo Salvini, che parla con posizioni similari in tema di aiuti militari – anche se poi la Lega ci ha ripensato e ha votato a favore sul decreto. Comencini, deputato leghista la cui moglie è una pittrice russa, sull’annessione delle Repubbliche del Donbass diceva qualche giorno fa: «Lì serviva uno statuto speciale come in Alto Adige». Enrico Michetti, già candidato a Roma con Giorgia Meloni, sconfitto al Campidoglio da Roberto Gualtieri, si dice infine contrario all’invio di armi.
Russlandversteher. Fenomenologia degli intellettuali italiani filo russi. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 30 Marzo 2021.
Gli analisti Germani e Di Pasquale dividono i pensatori pro Russia del nostro Paese in Euroasianisti, che invocano un’alleanza strategica col Cremlino anti-Nato e anti-Ue, e i simpatizzanti convinti che Putin sia un alleato per combattere i due veri nemici: la Cina e l’Islam.
Come l’Italia divenne Russlandversteher: è questo il soggetto di «Russian Influence on Italian Culture, Academia, and Think Tanks», capitolo sull’Italia del libro Russian Active Measures Yesterday, Today and Tomorrow.
Il libro, pubblicato dalla Columbia University Press, si presenta come una antologia di contribuiti «in cui studiosi di una vasta gamma di discipline condividono le loro prospettive sulle attività segrete russe note come misure attive russe, aiutano i lettori a osservare la profonda influenza dell’azione segreta russa sulle politiche, le culture e la mentalità delle persone degli Stati stranieri e istituzioni sociali, passate e presenti». «Disinformazione, falsificazioni, grandi processi farsa, cooptazione del mondo accademico occidentale, memoria e guerre cibernetiche e cambiamenti nelle dottrine di sicurezza nazionali e regionali degli Stati presi di mira dalla Russia» sono esaminati attraverso il prisma di nuovi documenti scoperti negli archivi dell’ex Kgb, che mettono in luce la continuità profonda tra i metodi sovietici e quella della Russia di Putin. Non a caso, ex-agente del servizio segreto dell’Urss.
La curatrice Olga Bertelsen è Assistant Professor of Intelligence Studies alla Embry-Riddle Aeronautical University di Prescott, Arizona, e autrice di vari studi sulla storia ucraina. L’autore della prefazione è Jan Goldman: Professor of Intelligence and Security Studies at the Citadel, Charleston, South Carolina, e editor-in-chief of the International Journal of Intelligence and CounterIntelligence. I due autori del capitolo sull’Italia sono Luigi Sergio Germani, direttore dell’Istituto Gino Germani di Scienze sociali e Studi strategici, esperto di Russia e uno dei sette autori del rapporto dell’Atlantic Council del 2017 The Kremlin’s Trojan Horses 2.0: Russian Influence in Greece, Italy, and Spain ; e Massimiliano Di Pasquale, esperto di Ucraina sulla quale ha appena pubblicato un libro.
Come ricordano appunto Germani e Di Pasquale, il termine «Russlandversteher» è nato nel dibattito politico tedesco recente. Viene reso normalmente con «simpatizzante della Russia», ma più letteralmente è «uno che comprende la Russia». Nel senso che non solo comprende le ragioni della Russia, ma le ritiene legittime, e ne spiega appunto questa legittimità. In questo testo, però, il termine ha forse una sfumatura ulteriore. Non si tratta solo di spiegare la legittimità degli interessi russi, ma anche di convincere gli italiani che questi interessi sono complementari a quelli del nostro Paese, o che per difendere gli interessi del nostro Paese ci potrebbe essere utile fare sponda con certi interessi del Cremlino che vengono ad essere coincidenti.
Più in dettaglio, gli intellettuali e esperti di politica estera filo-russi presenti in Italia sono da Germani e Di Pasquale divisi in due grandi categorie: i neo-Euroasianisti e, appunto, i Russlandversteher. «I neo-eurasiatici italiani hanno visioni radicali filo-Mosca e anti-occidentali. Sono spesso ammiratori di Aleksandr Dugin, un analista politico russo con stretti legami con il Cremlino, noto per le sue opinioni scioviniste e fasciste. Percepiscono la Russia di Putin come un modello sociale e politico, nonché un potenziale alleato contro l’Ue e le élite globaliste che avrebbero impoverito l’Italia e l’hanno privata della sua sovranità. I neo-eurasiatici esprimono opinioni radicali anti-Nato e anti-Ue e invocano un’alleanza strategica tra Europa e Russia», spiegano.
«I Russlandversteher, italiani, invece, hanno una posizione filo-russa moderata e pragmatica, spesso basata su considerazioni di realpolitik. Tendono a percepire che: a) la Russia è un’opportunità piuttosto che una minaccia; b) l’Occidente è in gran parte responsabile delle rivoluzioni ucraine e dell’attuale crisi nelle relazioni Russia-Ovest; e c) anche se l’Italia è un membro della Nato e dell’Ue, ha bisogno di avere un ’rapporto speciale’ con la Russia al fine di garanzia nazionale ed energetica dell’Italia».
Anche in questa componente c’è una componente di risentimento per l’Europa a guida tedesca, che spesso si unisce infatti a simpatie per Trump o per la Brexit. Una idea abbastanza diffusa tra i Russlandversteher è però soprattutto quella secondo cui i veri nemici dell’Occidente sono la Cina e/o l’Islam radicale, piuttosto che Putin.
Putin può invece essere un utile alleato nei loro confronti: una suggestione sempre presente è quella dello schema «triangolare» per cui Kissinger da Segretario di stato di Nixon impostò l’alleanza tra Occidente Cina maoista contro l’Urss, facendo prevalere la convergenza di interessi strategici sulla purezza ideologica. Compito dell’Italia dovrebbe essere dunque anche quello di far capire a Usa e Occidente questa cosa.
Lo studio riconosce che le posizioni del primo tipo sono minoritarie. Sono però in espansione, e tendono oggi ad essere collocabili in un’area ideologica che si colloca a destra, in contrasto con una storia recente in cui l’ideologia filo-russa era ancorata soprattutto a sinistra. Il saggio ricostruisce la storia dei sentimenti filo-russi in Italia indietro nel tempo, in cui si ricorda che il 24 ottobre Vittorio Emanuele III e Nicola II firmarono a Racconigi una alleanza tra Italia e Impero Zarista, e anche come al di là degli slogan ufficiali su antibolscevismo e antifascismo Mussolini abbia tentato spesso di fare sponda con Stalin per controbilanciare lo strapotere di Hitler, prima di arrivare alla dichiarazione di guerra. La macchina di propaganda del regime fascista, pronta a pompare le malefatte dei «rossi» in Spagna, tacque ad esempio sull’Holodomor, il genocidio per fame in Ucraina del 1932-33. E anche le relazioni economiche tra Italia fascista e Urss si mantennero sempre floride.
In seguito, nella Prima Repubblica i governi a guida democristiana legarono l’Italia alla Nato e alla Comunità economica europea e i partiti della maggioranza usarono spesso anche la propaganda antisovietica in campagna elettorale, ma da Enrico Mattei a Togliattigrad continuarono a fare affari col blocco comunista in quantità. Era però un atteggiamento di fatto filo-russo che non era ostile all’Occidente. Viceversa, il Pci gramsciano e togliattiano tra 1944 e 1989 cercò di costruire una «egemonia culturale» in cui era presente non solo l’esaltazione del socialismo reale, ma anche una continua denigrazione dell’American Way of Life, e poi in generale del «consumismo occidentale».
Quello che dopo il 1991 si caratterizza come «eurasianismo» riprende in pratica questo humus culturale, facendolo però virare da sinistra a destra e dal rosso al rossobruno. Restano l’avversione verso il capitalismo, la democrazia liberale, la cultura Usa, l’integrazione europea. Piuttosto che basati su slogan come il no a imperialismo e sfruttamento del proletariato, però, vengono ancorati a temi come la difesa dei valori cristiani tradizionali contro la globalizzazione, l’immigrazione, il femminismo, le teorie di gender e le lotte Lgbt.
In effetti questo interesse anticipa l’arrivo al potere di Putin, e anticipa anche la ripresa di «misure attive» da parte dei Servizi russi per influenzare l’opinione pubblica occidentale dopo la stasi del periodo di Eltsin. Sono piuttosto certi ambienti di estrema destra a scommettere che dopo il collasso del comunismo il previsto fallimento della transizione eltsiniana potrà fare della Russia un terreno fertile per le loro idee, ed a prendere contatto con personaggi come il già citato Dugin, Aleksandr Prokhanov, Sergei Baburin, Sergei Glaziev o Vladimir Zhirinovsky.
Uno dei pionieri italiani di questo movimento è individuato dallo studio in Claudio Mutti: ex-attivista di estrema destra, esperto di lingue Ugro-Finniche, e fondatore delle Edizioni all’Insegna del Veltro, con cui oltre a testi di Corneliu Codreanu, Julius Evola, Pierre Drieu La Rochelle e anche Adolf Hitler pubblica anche, nel 1991, la prima traduzione in italiano di una antologia di saggi di Dugin.
Altri personaggi di riferimento sono gli ex-dirigenti del Msi Carlo Terracciano e Maurizio Murelli, e l’esperto di geopolitica Tiberio Graziani. Il loro momento arriva in particolare al tempo dell’intervento di George W.Bush in Iraq, quando la loro campagna anti-Usa riesce a collegarsi a settori di estrema sinistra del cosiddetto Campo Antimperialista. Su questa ondata nel 2004 Mutti e Graziani fondano Eurasia. Rivista di studi geopolitici che apre il suo primo numero con un saggio di Dugin.
Varie intelligenze di questa area iniziano a penetrare anche nella Lega, specie dopo che nel 1999 Umberto Bossi in occasione della crisi del Kosovo ha preso posizioni filo-serbe. In particolare a lavorare per il collegamento tra eurasianismo, Lega e Dugin è il giornalista Gianluca Savoini. Nel 2001 il processo si arresta momentaneamente, quando la Lega di Bossi decide di tornare con Berlusconi in una alleanza occidentalista, e dopo gli attentati alle Torri Gemelle appoggia anche l’intervento Usa in Afghanistan. Ma Berlusconi attraverso il rapporti personale che stabilisce con Putin ha a sua volta poi una sterzata filo-russa, anche se più del tipo Russlandversteher.
L’animosità nel centro-destra italiano verso i tradizionali alleati occidentali cresce dopo che Angela Merkel e Nicolas Sarkozy sono indicati come mandanti di un golpe anti-berlusconiano, si accresce quando la Primavera Araba crea un contraccolpo di rifugiati che investe in pieno l’Italia, e tocca il parossismo con una crisi economica il cui peggioramento è imputato alle rigidità tedesche.
Su questa base il 15 dicembre 2013 a Torino Salvini è eletto segretario di una Lega lanciata verso una nuova proiezioni nazionale e sovranista, in un Congresso dove tra gli ospiti d’onore sono Viktor Zubarev e Alexei Komov: rispettivamente deputato del partito putiniano Russia Unita e fiduciario dell’oligarca Konstantin Malofeev. Il ruolo di Savoini e della sua Associazione Culturale Lombardia-Russia cresce, prima di andare a sbattere sulle intercettazioni dell’Hotel Metropol.
Nel frattempo, dopo la rivoluzione colorata in Georgia del 2003 e quella in Ucraina del 2004 Putin risponde richiamando in vita e anche modernizzano l’apparato sulle «misure attive» dell’epoca sovietica, anche appoggiandovi strumenti nuovi come il canale all-news Russia Today, l’agenzia Sputnik e una serie di fondazioni e istituti.
Pure nel 2004 il 28 novembre esce sul Corriere della Sera un articolo di Sergio Romano che si intitola «La spina di Putin», che chiede di tener conto degli interessi di Putin in Ucraina e che è considerato un po’ una prima uscita allo scoperto del mondo Russlandversteher italiano. Secondo Germani e Di Pasquale, anche la rivista di geopolitica italiana mainstream Limes a partire dal numero 3 del 2008 Progetto Russia inizia a diventare sempre più Russlandversteher, con vari articoli che arrivano addirittura a appoggiare la spartizione di Ucraina e Georgia, anche se nella rivista continuano a essere pubblicati articoli di differente orientamento.
Nel 2009 torna alla carica Sergio Romano, con la prefazione al libro di Edward Lucas sulla Nuova Guerra Fredda pubblicato da Bocconi University Press in cui gli dà del «russofobo». In particolare dopo la Rivolta di Maidan si vede che mentre su opposte sponde politiche il Giornale e il Manifesto si schierano compattamente contro la protesta ucraina, negli stessi Corriere della Sera e Repubblica il numero degli articoli filo-Putin cresce, pur venendo sempre bilanciato con «pezzi» di diverso orientamento.
E anche Massimo Cacciari inizia a fare interventi Russlandversteher. Secondo Oksana Pakhlyovska, docente di lingua e letteratura ucraina alla Sapienza, tra il 2014 e il 2015 ben 35 libri sull’Ucraina vengono pubblicati in Italia. Alcuni sono di autori sconosciuti, altri di accademici affermati, ma la gran parte sono anti-Maidan.
In questo clima anche l’Euroasianismo esce dalla marginalità per entrare nel dibattito mainstream, per almeno in alcune sue tematiche. Specie dopo che alle elezioni del 2018 in Italia primi due partiti diventano forze politiche che a questo humus hanno attinto, come il Movimento Cinque Stelle e la Lega.
Tra i personaggi indicati nel saggio come autori di libri e pubblicazioni ispirati a tali tematiche sono il marxista dei dibattiti CasaPound Diego Fusaro, l’ex-inviato nell’Urss e poi teorico del complotto dell’11 settembre Giulietto Chiesa, l’autore della “Educazione Siberiana” Nicolai Lilin, il leader di CasaPound Simone Di Stefano, l’ex-seguace di Toni Negri Giuseppe Zambon, l’ex-direttore di Rai 2 Carlo Freccero, il docente di storia del Caucaso a Ca’ Foscari Aldo Ferrari, il reporter di guerra di destra Fausto Biloslavo, lo storico cattolico e medioevista Franco Cardini, quel Sebastiano Caputo direttore del giornale on line L’intellettuale dissidente il cui programma Rai annunciato a inizio 2019 fu bloccato per le proteste della comunità ebraica riguardo alle sue posizioni pro-Iran e pro-Hezbollah, il noto complottista e collaboratore di Sputnik Maurizio Blondet, l’ex-vicedirettore di Famiglia Cristiana Fulvio Scaglione.
Ancora più importante, però, è una rete di connessione con think tank e università, che partono evidentemente dall’interesse anche legittimo a coltivare determinate relazioni: specie in un momento in cui trovare finanziamenti non è particolarmente facile.
La Fondazione Russkii Mir, strettamente collegata al Cremlino, ha ad esempio centri di cultura russa alle Università di Milano, Pisa e Orientale di Napoli. A sua volta l’Istituto di Stato di Mosca di Relazioni Internazionali ha una partnership con la Luiss che gestisce un doppio Master in collaborazione anche con Enel, e l’Istituto ha un simile rapporto con doppio Master anche con la Sapienza, ed un altro rapporto ancora con Urbino.
Germani e Di Pasquale osservano come vari docenti legati a questi rapporti alla Luiss e alla Sapienza hanno espresso punti di vista pesantemente anti-Kiev, fino a appoggiare una spartizione dell’Ucraina. La Sapienza inoltre ha una relazione di collaborazione con l’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie (IsAG) stabilito nel 2010 da Tiberio Graziani, che ha contati con varie entità russe ed è anche finanziato dal ministero degli Esteri italiano. L’IsAG ha organizzato vari eventii per spiegare che Putin è calunniato dai russofobi, e Graziani è spesso intervistato da Sputnik.
C’è poi il caso di Ca’ Foscari a Venezia, che nel 2014 ha nominato professore onorario Vladimir Medinskii: non solo ministro della Cultura russo, ma fautore della riabilitazione di Stalin. Perfino la Sioi, storica Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale tradizionale centro di formazione per aspiranti alla carriera diplomatica ora presieduta da Franco Frattini, il 24 settembre 2015 organizzò una conferenza sulla crisi ucraina in cui c’erano vari esperti italiani e russi, ma neanche un ucraino.
Estratto dell'articolo di Gianluca Modolo per “la Repubblica” il 2 marzo 2022.
«La situazione è cambiata rapidamente, la Cina deplora lo scoppio del conflitto tra Ucraina e Russia ed è estremamente preoccupata per i danni ai civili». Wang Yi non è certo tipo che rilascia dichiarazioni senza prima aver pesato attentamente le parole. Peccato che, nel giro di poche ore, quelle parole cambino altrettanto rapidamente.
Quel "deplora" nella traduzione della Cctv si trasforma in "lamenta" in quella della più austera agenzia di stampa Xinhua e infine, nel comunicato ufficiale del ministero degli Esteri, in un «è profondamente addolorata».
Sfumature verso il basso che sottolineano la difficile situazione in cui si trova Pechino in questa crisi, aggiustando e riaggiustando il proprio baricentro per non abbandonare Mosca né tagliare con l'Occidente.
Il potente e astuto capo della diplomazia cinese ha parlato, su richiesta di Kiev, con il suo omologo ucraino Dmytro Kuleba, il quale ha chiesto a Pechino di usare tutti i suoi buoni uffici con Mosca per mettere la parola fine a questa guerra.
La situazione sta cambiando per la Cina? C'è un riposizionamento? Esercizio molto complicato decifrare le dichiarazioni di politica estera di Pechino, soprattutto in questa crisi.
Di certo le parole di Wang rivelano che a Zhongnanhai - il cuore del potere politico - c'è molta insofferenza. Per la prima volta chiama per quello che è sotto gli occhi di tutti: un conflitto, una crisi, una guerra.
Sottolineatura non da poco visto che fino a qualche giorno fa i cinesi si rifiutavano persino di usare la parola "invasione". «In vista della continua espansione dei combattimenti, la massima priorità è alleviare il più possibile la situazione sul campo, per evitare che il conflitto si intensifichi o addirittura sfugga di mano», dice Wang.
Ucraina: Cina, mai chiesto alla Russia di ritardare l'attacco.
(ANSA il 3 marzo 2022) - La Cina nega di aver mai chiesto alla Russia di ritardare l'invasione dell'Ucraina fino a dopo le Olimpiadi invernali di Pechino 2022, definendo la ricostruzione fatta dal New York Times "una fake news".
Si tratta, ha commentato il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, di "una notizia completamente falsa. Sono commenti diversivi che spostano la colpa, sono assolutamente spregevoli". Wang, nel briefing quotidiano, ha esortato "i responsabili della crisi ad agire concretamente per alleviare la situazione".
All'inizio di febbraio, alti funzionari cinesi chiesero alla controparte russa di non invadere l'Ucraina prima della fine delle Olimpiadi invernali di Pechino, in base a quanto appreso dal quotidiano Usa da funzionari dell'amministrazione Biden e da un europeo che ha citato un rapporto dell'intelligence occidentale.
Il Nyt, dopo la ricostruzione dei giorni scorsi sull'aiuto senza successo chiesto da Washington a Pechino per fermare Mosca, ha scritto che la parte cinese aveva un certo livello di conoscenza dei piani o delle intenzioni della Russia sull'Ucraina prima che il presidente Vladimir Putin lanciasse l'operazione la scorsa settimana, il 24 febbraio.
Nelle settimane precedenti l'attacco, i media statali cinesi hanno ripetutamente respinto gli avvertimenti occidentali. Putin è stato il primo leader mondiale ad incontrare di persona Xi in circa due anni e l'ospite d'onore alla cerimonia di apertura dei Giochi invernali del 4 febbraio.
Gabriele Carrer per formiche.net il 3 marzo 2022.
Il governo cinese sapeva dei piani della Russia di invadere l’Ucraina. Ma la sua priorità non era scongiurare il conflitto in Europa. Bensì, era evitare che questo scoppiasse nel bel mezzo delle Olimpiadi invernali e rovinasse così la festa a Pechino e al Partito comunista cinese, deciso a sfruttare l’occasione di visibilità internazionale per rispondere al boicottaggio diplomatico deciso da diversi Paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti, per via delle violazioni dei diritti umani.
Difficile credere che il tema non sia stato affrontato dai presidenti Vladimir Putin e Xi Jinping durante il loro incontrato del 4 febbraio scorso a Pechino, prima della cerimonia di apertura dei Giochi. Anche perché nelle ore successive Mosca e Pechino hanno diffuso un lungo comunicato, di oltre 5.000 parole, dichiarando che la loro relazione “non ha limiti”, denunciando l’allargamento della Nato e promettendo di instituire un nuovo ordine globale con la vera “democrazia” – un concetto, quello della democrazia, che soprattutto l’autocrazia cinese sta cercando di scippare all’Occidente dal Summit per la democrazia organizzato dal presidente statunitense Joe Biden a inizio dicembre, e non senza “aiutanti” dallo stesso Occidente, come raccontato su Formiche.net.
Quell’incontro e quella dichiarazione hanno allarmato l’Occidente: per la prima volta la Cina si è esplicitamente schierata con la Russia su questioni riguardanti la Nato e la sicurezza europea.
Secondo quanto ricostruito dal New York Times sulla base di informazione americane ed europee, gli alti funzionari cinesi hanno chiesto agli omologhi russi, proprio all’inizio di febbraio, non invadere l’Ucraina prima della fine dei Giochi di Pechino.
Non è chiaro, spiega il giornale americano, se lo scambio sia avvenuto a livello di leader. Pechino, in ogni caso, ha definito queste come “speculazioni senza alcun fondamento”, “destinate a incolpare e diffamare la Cina”, ha dichiarato Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese a Washington, al New York Times.
Diamo un’occhiata agli avvenimenti. Il 20 febbraio si è tenuta la cerimonia di chiusura dei Giochi. Il 21 febbraio Putin ha deciso di riconoscere l’indipendenza di due repubbliche separatiste ucraine, Lugansk e Donetsk, ordinando poi al ministero della Difesa di dispiegare forze armate “per assicurare la pace”. Il 24 febbraio l’esercito russo ha iniziato l’invasione su larga scala dell’Ucraina. Funzionari americani ed europei hanno detto al New York Times che reputano difficile credere che sia una semplice coincidenza.
Quando nell’agosto 2008 la Russia ha invaso la Georgia durante le Olimpiadi estive di Pechino, la reazione cinese fu di profonda irritazione. Ma, come detto, la situazione è cambiata tra le due potenze.
Tanto che, guardando all’ambito cyber, a differenza delle passate edizioni dei Giochi, per quelli di Pechino non erano attesi – e non ci sono stati – grandi attacchi informatici da Paesi culle di hacker come Corea del Nord, Iran e soprattutto Russia per via dei loro legami geopolitici con la Cina, come avevano previsto gli esperti della società Recorded Future.
Si aggiunga un altro elemento. Sempre il New York Times ha rivelato la scorsa settimana che per tre mesi i funzionari dell’amministrazione Biden hanno avuto una mezza dozzina di incontri con alti funzionari cinesi presentando informazioni sulle truppe russe ammassate ai confini dell’Ucraina e “supplicando” un intervento per evitare l’invasione.
Ogni volta la controparte cinese – inclusi il ministro degli Esteri e l’ambasciatore a Washington – ha respinto gli appelli mostrando scetticismo, ha riportato il giornale statunitense. A dicembre, gli Stati Uniti avevano anche capito che Pechino aveva condiviso le informazioni con la Russia e le ha definite un tentativo statunitense di seminare discordia e che la Cina non avrebbe fermato i piani russi.
Dopo aver parlato con toni ambigui di “sovranità”, cavalcato la narrativa russa secondo cui sarebbe stata la Nato provocare, rifiutato di definire le azioni di Mosca come “invasione”, ora Pechino parla esplicitamente di “guerra” e auspica una soluzione politica. Sembra pronta a svolgere un ruolo di mediazione. Ecco cosa scrivevamo a tal proposito qualche giorno fa.
Proponendosi come mediatrice, la Cina potrebbe uscire dal difficile dilemma diplomatico in cui si trova, viste le ripercussioni che l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe avere su Taiwan e sulle spinte che Pechino definisce “secessioniste”.
Far incontrare le parti (a Minsk?) e trovare una soluzione alla guerra escludendo l’Occidente sarebbe un grande successo diplomatico per Pechino. Il tema a questo punto diventerebbe ancor più evidente, specie se la Russia decidesse di rifiutare ogni forma di mediazione occidentale: lo scontro tra modelli – democrazia contro autocrazia – che è l’elemento che più avvicina Mosca e Pechino.
Dopo queste rivelazioni, viene da chiedersi: davvero la Cina è la potenza mediatrice più credibile e affidabile per tutte le parti coinvolte nel conflitto in Ucraina?
Fabio Savelli per il “Corriere della Sera” il 2 marzo 2022.
Un gasdotto destinato a cambiare gli equilibri, almeno secondo le intenzioni russe. «La firma del contratto di progettazione è arrivata», ha detto ieri Alexey Miller, amministratore delegato di Gazprom, commentando il progetto alla base del metanodotto Power of Siberia 2 che collegherà Russia e Cina attraverso la Mongolia. Intanto «le esportazioni di gas verso la Cina stanno crescendo», ha spiegato in una nota il colosso russo di Stato. Sul lato europeo la decisione tedesca di congelare il progetto di gasdotto dalla Russia, Nord Stream 2, innesca una possibile «procedura di insolvenza» della società svizzera, controllata da Gazprom, incaricata di realizzare l'opera.
Russia, non solo la Cina: quel mondo che tifa per Putin (e odia l’America). Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022.
I Paesi che si sono astenuti al voto sulla risoluzione Onu sono 35: tra loro ci sono Cina, ma anche India, Eritrea e Pakistan. Ma chi sono, davvero, gli alleati della Russia di Putin? Pechino incassa un «regalo» strategico: stravolte le priorità Usa dall’Indo-Pacifico all’Europa.
Per avere un punto di vista diverso dal nostro sulla tragedia ucraina , si può leggere Ma Xue, ricercatore al China Institute of Contemporary International Relations, think tank legato all’intelligence di Pechino. «La Russia — scrive l’esperto cinese di geopolitica — si è adattata dal 2014 per sopravvivere a dure sanzioni finanziarie. L’America e i suoi alleati europei finiranno per subire i danni dal loro sostegno all’Ucraina. La Russia seminerà odio e sabotaggio della Nato. L’emergenza profughi metterà in crisi l’unità degli europei».
L’INCONTRO ALLE OLIMPIADI
Più Vladimir Putin ci appare in difficoltà in Ucraina, più si addensano gli interrogativi sui piani della Cina nei retroscena di questa aggressione. Quando i due leader s’incontrarono il 4 febbraio alle Olimpiadi di Pechino, Xi Jinping diede il suo via libera all’invasione? Se è così, bisogna capire qual è il tornaconto di Pechino. Quale ruolo si sceglierà nel nuovo mondo economico-finanziario disegnato dalle durissime sanzioni occidentali contro Mosca? È possibile che decida di prendere le distanze dall’aggressione, come spera il presidente Zelensky quando invoca una mediazione cinese nel conflitto? O invece siamo di fronte alla realtà di un vero e proprio Asse, con cui l’Occidente dovrà fare i conti a lungo?
XI JINPING
Solo la Cina ha forza economica e influenza politica tali da poter offrire una via d’uscita al leader russo. Che Xi abbia deciso di abbracciare la teoria dell’accerchiamento di Putin, è chiaro dal comunicato congiunto che i due firmarono ai Giochi invernali un mese fa. Spiccava la condanna dei «cinque consecutivi allargamenti della Nato», e l’insistenza sulle «legittime richieste per la sicurezza russa». Con un summit così visibile, seguito dall’aggressione all’Ucraina non appena la tregua olimpica si è chiusa, Xi si è legato all’immagine di Putin. Ha sbagliato i calcoli?
LA CINA
Nell’immediato la Cina incassa un danno economico. Ha interessi importanti in Ucraina, di cui era diventata il principale partner commerciale lungo quelle Vie della Seta che si espandono nei Balcani e puntano su Trieste. Il governo di Pechino ha dovuto evacuare 2.300 concittadini. Sulle sanzioni, nel breve termine la Repubblica Popolare è attenta a non diventare una vittima collaterale: ha sospeso per cautela gli acquisti di carbone russo, per evitare che le banche cinesi intermediarie possano finire nel mirino degli americani. Seconda economia mondiale, con un attivo della bilancia commerciale pari a 676 miliardi di dollari, la Cina non vuole guastare i proficui rapporti che ancora intrattiene con noi. Però approfitta di questa crisi per collaudare un ordine finanziario alternativo al nostro.
LE RISERVE DELLA BANCA CENTRALE RUSSA
Pechino ha già un sistema parallelo per i pagamenti interbancari (Cross Border Inter-Bank Payment System o Cips), che aggira ogni genere di sanzioni internazionali. È ancora piccolo, gestisce solo il 5% delle transazioni mondiali, ma sta crescendo. Nelle riserve della banca centrale russa il renminbi cinese ha quasi raggiunto il peso del dollaro. È vero quel che si osservava per le vie di Mosca nei giorni scorsi: nell’assalto ai bancomat la gente voleva dollari o euro, non renminbi. Ma un’economia sempre più autarchica come quella russa dovrà assuefarsi anche alle banconote con la faccia di Mao. Il gas russo ha già nuovi contratti di forniture a Oriente per compensare in futuro il blocco di Nord Stream 2.
I VANTAGGI PER LA CINA
Il vero vantaggio di lungo termine per Xi Jinping è strategico. Con l’invasione dell’Ucraina Putin ha creato un formidabile diversivo che risucchia l’America verso il Vecchio Continente, la costringe a dirottare risorse verso un teatro che la dottrina Biden considerava ormai secondario. Stravolgere le priorità americane, catturare l’attenzione del grande rivale in Europa anziché nell’Indo-Pacifico, è un beneficio inestimabile che Xi Jinping saprà capitalizzare, a Taiwan o altrove. Nel nuovo Asse il binomio Cina-Russia è meno isolato di quanto appaia in Occidente.
I PAESI ASTENUTI ALL’ONU
La mozione Onu di condanna dell’aggressione ha avuto sì 141 voti, ma anche cinque no e 35 astensioni. Nell’elenco degli astenuti oltre alla Cina figurano India e Pakistan: tutti insieme fanno tre miliardi di abitanti. Un indizio su cosa mai può unire due nemici giurati, India e Pakistan: l’acquisto di armi made in Russia. Colpisce pure l’astensione degli Emirati Arabi Uniti, forse il prossimo rifugio per i capitali degli oligarchi banditi da Londra e Zurigo.
L’OCCIDENTE NON È TUTTO
La Turchia, membro della Nato, non aderisce alle sanzioni economiche. L’Occidente è compatto ma l’Occidente non è tutto. Vista da Pechino o Delhi, da Karachi o dal Golfo Persico, è meno chiaro che questa crisi sia inequivocabilmente disastrosa per Mosca. E non è solo la realpolitik degli autocrati che crea zone di tolleranza verso Putin. I social media cinesi traboccano di risentimento anti-occidentale, e solidarietà verso Mosca.
Mauro Evangelisti per "Il Messaggero" l'1 marzo 2022.
Putin dal punto di vista comunicativo è in difficoltà. Pesano le immagini drammatiche dei civili ucraini bersaglio dei missili lanciati da uno degli eserciti più potenti al mondo. E la Russia in queste ore ha visto ridursi pesantemente la lista degli amici.
Può contare sul Venezuela, su Cuba, sulla Transnistria. Soprattutto, conta sulla Bielorussa, ormai stato satellite, che sta fornendo anche supporto.
Anche la Cina sta prendendo con abilità le distanze. Si è astenuta al Consiglio di sicurezza dell'Onu nel voto sulla risoluzione di condanna all'aggressione militare nei confronti dell'Ucraina. E i media statali cinesi ripetono che è diplomatica, non militare, la via da seguire per risolvere quella che definiscono ambiguamente «la crisi ucraina».
Non c'è la condanna aperta all'invasione e ai missili contro obiettivi civili, però, secondo fonti dell'amministrazione americana, la Cina non intende aggirare le sanzioni economiche e finanziare imposte alla Russia dai paesi occidentali: «Gli ultimi indizi indicano che la Cina non andrà in soccorso, sta restringendo la capacità di alcune sue banche a fornire credito agli acquisti di energia alla Russia, il che suggerisce che la Cina stia rispettando le sanzioni americane».
L'ambiguità cinese non è solo opportunista, va valutata pensando a Taiwan. Il colosso asiatico ritiene che l'isola sia parte integrante del suo territorio: se da una parte ne reclama la sovranità, dall'altra non può sostenere l'invasione di un territorio sovrano (l'Ucraina).
Spiega Paolo Magri, vice presidente esecutivo dell'Ispi e docente di Relazioni Internazionali all'Università Bocconi: «Sorprende la distanza della Cina dalla Russia, sorprende allo stesso modo la posizione che hanno avuto al Consiglio sicurezza, sulla risoluzione di condanna, l'India e gli Emirati Arabi, che si sono astenuti. Ma in sintesi possiamo dire che Putin è sempre più all'angolo».
Se si leggono le dichiarazioni ufficiali, un sostegno reale all'invasione arriva solo da un nocciolo duro di alleati. La Bielorussa, certo, è molto di più di un alleato di Putin. Ma l'amicizia di Venezuela (cinico Maduro: «Che cosa pretende il mondo? Che Putin rimanga a braccia conserte?») e Cuba è distante e ininfluente.
C'è l'Iran tra gli amici, certo. E l'altro giorno c'è stata una telefonata tra il ministro degli Esteri russo Lavrov e l'omologo iraniano Amirabdollahian. Ma anche il vicino Kazakistan si è rifiutato di riconoscere le repubbliche di Luhansk e Donetsk.
E soprattutto l'Ungheria di Orban non ha rotto il fronte dell'Unione europea anti Putin. Magri: «Anche la posizione ungherese può sorprendere perché Orban non ha mai nascosto la fascinazione per il modello russo. E l'Ungheria è tra i Paesi che hanno più da perdere dal punto di vista energetico e per l'impatto economico delle sanzioni.
È tra i più vulnerabili. Ma nella memoria storica della popolazione ci sono ancora i carri armati del '56. E questo ricordo così forte ha avuto probabilmente un effetto decisivo».
Russia isolata, Cina sempre più fredda. Ma servirà a fermare l'aggressione dell'Ucraina? Magri: «Questa è la vera domanda. La strada della mancata contrapposizione militare, scelta da Europa e Stati Uniti, porta a mettere in un angolo la Russia di Putin.
Certo, è la opzione più saggia perché la risposta militare porterebbe a scenari complessi. Ma non sappiamo, in un Paese opaco come la Russia e con un leader imprevedibile come Putin, quale possa essere la reazione. Questa incertezza peserà nei prossimi giorni sui destini delle popolazioni ucraine». E non solo.
Fausto Carioti per "Libero quotidiano" il 28 febbraio 2022.
Una delle incognite più grandi riguarda l'atteggiamento del presidente cinese Xi Jinping nei confronti di Vladimir Putin. La Cina non ha mai riconosciuto l'annessione della Crimea da parte della Russia e ha acquistato 42 milioni di ettari di terreni agricoli in Ucraina. Inoltre, l'idea che un gruppo etnico possa rivendicare la propria indipendenza è ritenuta pericolosissima dal regime.
Chi conosce bene ciò che sta avvenendo nell'impero del Dragone è Federico Rampini, oggi editorialista da New York del Corriere della Sera, nonché autore di due dei libri più sorprendenti degli ultimi anni. Uno è La notte della sinistra, in cui racconta, senza indulgenze, la separazione tra popolo ed élite progressista avvenuta in Italia, Stati Uniti e nel resto dell'Occidente. L'altro, più recente, s' intitola Fermare Pechino.
Rampini, tutto fa credere che Xi fosse favorevole al mantenimento dello status quo e non volesse l'invasione russa. Che però è avvenuta. Con quali occhi il presidente cinese guarda oggi al suo collega di Mosca?
«La Cina è il primo partner commerciale dell'Ucraina e l'invasione russa è un danno per i suoi interessi economici. Inoltre c'è la questione di principio: la Cina ha sempre criticato le invasioni militari... salvo quando le ha praticate. Ricordo Tibet, India e Vietnam, per restare ai casi recenti. L'appoggio di Xi Jinping a Putin guarda però ai vantaggi di lungo periodo. Una Russia che si allontana dall'Occidente è costretta a finire nelle braccia della Cina, che le farà pagare il suo aiuto politico, economico, finanziario, tecnologico».
Da quando è iniziata l'invasione russa hai notato un cambiamento nell'atteggiamento di Xi?
«Col passare dei giorni il sostegno cinese si è fatto più cauto, Pechino ha lanciato appelli al dialogo fra le parti. Xi Jinping vuole mantenere tutta la sua libertà di manovra con l'Occidente, non si lascia identificare con Putin. Lo aiuterà a sopravvivere con le sanzioni economiche occidentali, ma a caro prezzo, e senza tagliarsi i ponti con l'America».
La Cina ha sempre distinto la questione di Taiwan, che reputa parte del proprio territorio, da quella dell'Ucraina. Mentre noi parliamo, però, i caccia cinesi tengono sotto pressione le difese taiwanesi. Ritieni possibile l'invasione?
«Le violazioni dello spazio aereo di Taiwan da parte di squadriglie militari cinesi sono all'ordine del giorno da tempo. Sono senza dubbio minacciose, ma non mi pare che siano aumentate di recente. È corretto dire che per Pechino il principio di sovranità e di rispetto dell'integrità territoriale degli Stati non si applica a Taiwan, che è considerata una provincia ribelle, più simile a quel che la Catalogna è per la Spagna, se vogliamo usare un paragone europeo. È altrettanto vero, però, che l'impotenza dell'Occidente in Ucraina è considerata un test significativo per la Cina e le sue mire di annessione di Taiwan».
La Russia resta, per dirla con Churchill, un indovinello avvolto in un mistero all'interno di un enigma. L'invasione dell'Ucraina è una sentenza di morte per il gasdotto Nord Stream 2, che sarebbe dovuto entrare in funzione nei prossimi mesi, e rischia di segnare la fine delle esportazioni di gas in Europa. Perché la Russia dovrebbe rinunciare ai nostri soldi?
«La Russia rinuncia solo ai soldi virtuali del Nord Stream 2, che non è mai entrato in funzione e quindi rappresenta il reddito futuro da un investimento. Il resto delle esportazioni di gas russo verso l'Europa continuano e frutteranno un gettito aumentato, grazie al rincaro dei prezzi mondiali.
Come si è visto con la sanzione che esclude la Russia dal sistema di pagamenti internazionali Swift, gli europei hanno dovuto per forza inserire un'eccezione che consenta di pagare il gas. In vista di ulteriori peggioramenti nelle relazioni con l'Europa occidentali, Putin ha raggiunto accordi con la Cina per aumentare le forniture in quella direzione».
Stai dicendo che la guerra e le sanzioni non comporteranno perdite economiche per la Russia?
«No, non dico questo. Le perdite economiche per la Russia saranno sostanziali, ma Putin si prepara da anni a questo conflitto e ha fatto tutto quello che poteva per costruire un'economia più autarchica, meno esposta alle sanzioni, più rivolta a Oriente. Mentre modernizzava le sue forze armate, ha ridotto il debito pubblico e il debito estero, proprio per poter resistere a un assedio finanziario».
La Cina, con cui Gazprom si è già impegnata a vendere gas per i prossimi trent'anni, potrebbe essere in futuro l'unico mercato per il metano russo?
«La Cina ha bisogni energetici enormi, per cui potrà assorbire tutto il gas che eventualmente l'Europa smetterà di comprare, e ha già deciso la costruzione di nuove infrastrutture per trasportare più gas russo a Oriente. Sta però investendo molto anche nel nucleare, che considera a tutti gli effetti una fonte rinnovabile, nel solare, nell'eolico, nell'auto elettrica. Questo significa che come cliente di energie fossili dalla Russia avrà un appetito decrescente nel tempo, via via che Xi realizzerà i suoi piani di de-carbonizzazione».
Sinora la Cina si è limitata a condannare le sanzioni occidentali. Nell'Onu e negli altri organismi, che atteggiamento possiamo aspettarci da Pechino nei confronti di Mosca?
«Appoggio prudente e condizionato, per le ragioni di cui sopra. La diplomazia cinese si esibisce in un'acrobazia di cui è maestra: non dirà nulla che sconfessi Putin e appoggerà la sua narrazione sull'accerchiamento occidentale della Russia. Però, soprattutto se la guerra-lampo dovesse trasformarsi in un conflitto prolungato, mi aspetto che Pechino si smarchi e offra i suoi servizi di mediazione per una soluzione diplomatica. Non dimentico che la Repubblica Popolare non ha mai riconosciuto la Crimea, proprio perché non ama i separatismi».
A molti osservatori Joe Biden è apparso spiazzato dalla spregiudicatezza di Putin. Che giudizio dai del suo operato? Gli attribuisci errori, come quello di aver consentito l'avvicinamento tra Putin e Xi?
«L'avvicinamento tra Russia e Cina dura da quattro presidenti americani, i primi segnali erano chiari già sotto George W. Bush. In Europa molti si sono convinti che la ritirata caotica da Kabul nel 2021 abbia incoraggiato Putin, ma ci sono indizi che l'invasione dell'Ucraina sia stata preparata ben prima di Kabul. La debolezza verso Putin, comunque, è di tutto l'Occidente: in primo piano vedo la responsabilità europea nel lesinare investimenti per la difesa».
Ritieni un caso che Putin non abbia fatto nulla di simile nei quattro anni in cui il suo interlocutore era Donald Trump, impegnato ad aumentare il budget e gli armamenti della Nato?
«Putin aveva un rapporto strumentale con Trump. Era convinto di poterlo manipolare. Non si può escludere che con un "Trump 2" alla Casa Bianca avrebbe scelto altre vie per estendere la sua influenza in Ucraina. In cuor suo, forse, lo stesso Trump gli avrebbe dato via libera per la "finlandizzazione" dell'Ucraina.
Sui rapporti con la Russia, però, Trump è sempre stato condizionato dall'establishment della politica estera: Pentagono e Dipartimento di Stato ostacolavano le sue aperture a Putin, con l'appoggio dei repubblicani al Congresso».
Nel tuo ultimo libro ricordi di quando Putin replicò a Biden che «i diritti umani sono calpestati negli Stati Uniti, lo dice Black Lives Matter». Lo storico conservatore Victor Davis Hanson ha scritto che Putin ha aggredito l'Ucraina anche perché «gli Usa sono sconvolti da dissensi interni e disordini sociali». Quanto pesa il "fronte interno", quello della battaglia culturale, nella capacità di reazione degli Stati Uniti?
«Enormemente. L'America è piena di filo-russi, sia nella versione trumpiana che a sinistra. Nei programmi in inglese di Radio Sputnik, organo di propaganda di Mosca, molti talk show sono dati in appalto a militanti della sinistra radicale americana, professori universitari di idee marxiste, attivisti dell'anti-razzismo.
Da una parte Trump definisce Putin un genio e Biden un incapace; dall'altra l'ala sinistra del partito democratico descrive l'America come l'Impero del Male. A differenza di quel che mi sembra stia accadendo in Europa, qui le manifestazioni contro la guerra non riempiono certo le piazze».
La Corea del Nord scende "in campo": ecco cosa ha detto Kim. Samuele Finetti il 27 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Secondo Pyongyang "il regno degli Stati Uniti è finito". Kim Jong-un si schiera con Putin e ordina un altro test missilistico.
"Il regno degli Stati Uniti è finito". I toni sono di quelli forti, come si confà al personaggio. Nella guerra scatenata da Vladimir Putin in Ucraina entra anche Kim Jong-un, che si schiera al fianco dello Zar e contro l'Occidente.
A provocare l'offensiva russa, secondo il dittatore nordcoreano, sarebbe stata la "politica egemonica e arbitraria" adottata da Washington. L'amministrazione guidata da Joe Biden, si legge nella nota diffusa dal ministero degli Esteri di Pyongyang, avrebbe "ignorato le legittime richieste della Russia sulla sicurezza". La causa principale della crisi in Ucraina, prosegue il comunicato, "affonda le radici nell'ostinazione e nell'arbitrarietà degli Stati Uniti" rei di aver adottato sanzioni e pressioni unilaterali, perseguendo due soli obiettivi: "l'egemonia mondiale e la superiorità militare". I nordcoreani accusano poi gli Stati Uniti di ipocrisia, ovvero di "imbellire" le ingerenze negli affari interni degli altri Paesi come impegno "per la pace e la stabilità del mondo" mentre denunciano senza motivo "misure di autodifesa" adottate da altri Paesi per la propria sicurezza nazionale come "ingiustizie e provocazioni".
Ma l'epoca della potenza statunitense sarebbe giunta al termine: "I giorni in cui gli Stati Uniti regnavano sono finiti", conclude il comunicato. Da settimane la leadership nordcoreana si è schierata con Mosca, accusando Washington e gli alleati della Nato - un'alleanza che Kim Jong-un definisce "un prodotto della Guerra fredda" - di aver minacciato la sicurezza della Russia. Giusto questa notte, l'esercito nordocoreano ha testato un missile balistico lanciandolo verso il mar del Giappone. Si tratta del settimo test di questo genere da inizio anno. Il siluro, ha riferito il comando di Stato maggiore della Corea del Sud (dove il 9 marzo si terranno le elezioni presidenziali), ha volato per 300 chilometri e ha raggiunto un'altezza massima di 620 chilometri.
L'Anpi si ferma agli anni '50: "Basta interferenze di Biden". Paolo Bracalini il 27 Febbraio 2022 su Il Giornale.
L'associazione dei partigiani incolpa l'Occidente: "È la Nato che ha minacciato Mosca". Renzi: "Vergognoso".
L'Anpi si arruola nelle milizie putiniane e con una affermazione sconcertante dei suoi vertici secondo i quali l'invasione russa dell'Ucraina è «l'ultimo drammatico atto di una sequenza di eventi innescata dal continuo allargamento della Nato ad est vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia». Cioè esattamente la tesi del Cremlino per cui la Russia non sta attaccando uno Stato sovrano ma sta solo difendendo la propria sicurezza nazionale minacciata dall'Occidente, in particolare dagli Usa. Un rigurgito di antiamericanismo ideologico che sorprende fino a un certo punto in una associazione, l'Anpi, che i partigiani li porta solo nel nome ma che si è trasformata negli ultimi anni di fatto un soggetto politico (di estrema sinistra). Il comunicato dell'Anpi è pieno di ambiguità in cui, al di là della condanna dei «deliri bellicistici» e del riconoscimento dell'indipendenza del Donbass da parte di Mosca, si sostiene proprio il punto di vista dei falchi di Putin per cui il governo di Kiev sarebbe una pedina manovrata dagli americani. «Biden cessi immediatamente sia le clamorose ingerenze nella vita interna dell'Ucraina iniziate fin dai tempi di Maidan, quando nel governo ucraino entrò la statunitense Natalia Jaresco, sia le sue dichiarazioni belliciste e le sue ininterrotte minacce nei confronti della Russia» chiede l'Anpi. Che accusa anche l'Europa di sostenere una politica di «continua ostilità nei confronti della Russia». Anche il ruolo della Nato va «profondamente ridiscusso», perché «non può essere al servizio di una politica di potenza, e vanno avviate trattative per un sistema di reciproca sicurezza che garantisca sia l'Ue che la Federazione russa». L'unica richiesta a Putin è che «revochi il riconoscimento dell'indipendenza del Donbass, perché viola l'integrità territoriale di un Paese sovrano e scatena una serie di reazioni e controreazioni che possono portare in brevissimo tempo alla guerra». Quanto invece al governo ucraino l'Anpi chiede che «riconosca l'autonomia del Donbass prevista dagli accordi di Minsk, ma mai attuata dal governo di Kiev, rispetti la sua popolazione russofona, cessi i bombardamenti in Donbass e sciolga le milizie naziste», una frase che sembra uscita da un comunicato delle forze armate russe.
L'esternazione dell'Anpi (che ieri ha sfilato nel corteo «Milano contro la guerra» organizzato insieme a centri sociali, collettivi studenteschi, sindacati di base, Rifondazione comunista e Sinistra italiana) provoca la reazione di Matteo Renzi, leader di Italia Viva. «Tra i fan nostrani (di Putin, ndr) mi dispiace dover annoverare una delle associazioni a cui io tengo di più: le parole dell'Anpi sul conflitto ucraino sono vergognose. I partigiani di 70 anni fa avrebbero saputo da che parte stare tra invasori e invasi. Attaccare il filo imperialismo americano significa essere indietro con le lancette della storia» commenta Renzi nel suo intervento all'assemblea nazionale di Iv. «La posizione filoatlantica molto chiara di Enrico Letta spazza via ogni incertezza sulla posizione del Pd» aggiunge. Ma a sinistra la lettura in chiave anti-Nato del conflitto in Ucraina è abbastanza diffusa, anche se mascherata bene. Infatti, nella risposta del presidente nazionale dell'Anpi Gianfranco Pagliarulo, l'ambiguità resta tutta: «Noi siamo dalla parte del popolo ucraino senza se e senza ma», dice, aggiungendo subito un «ma». «Ma saremmo sciocchi se non vedessimo il contesto in cui tutto questo è avvenuto, quello che è successo negli ultimi decenni», e cioè che «Estonia e Lettonia hanno le basi Nato ai confini della Russia, sarebbe strano immaginare che Mosca non avrebbe reagito», e che «la Nato è più volte intervenuta in violazione della sua missione, che è l'esclusiva difesa dei confini dei Paesi aderenti». Insomma è chiaro, la guerra è colpa dell'Occidente.
I partigiani dell'Anpi abbracciano Vladimir Putin: legittime le bombe sull'Ucraina. Francesco Storace su Il Tempo il 27 febbraio 2022.
Alla fine è rimasta solo l'Anpi a difendere Vladimir Putin. I partigiani nostalgici di santa madre Unione Sovietica devono essere rimasti incantati dal discorso sulla Grande Russia pronunciato da Putin prima di sferrare l'attacco all'Ucraina e si sono commossi. Nemmeno Peppone nella sua eterna sfida con don Camillo. Il delirante comunicato con cui l'associazione partigiani se l'è presa con mezzo mondo anziché con Mosca sembrava destinato a passare in clandestinità. Ma qualcuno lo ha letto e lo ha giudicato «vergognoso». Non un'antica sciarpa littoria; non chissà quale bieco reazionario di destra; bensì un iscritto abbastanza noto dell'Anpi, Matteo Renzi, chela tessera partigiana la prese da neoeletto sindaco di Firenze. E se quel comunicato ha fatto ribrezzo a lui, pensiamo a quanti se lo sono trovato sotto gli occhi, increduli. In pratica Putin un santo, Biden - che pure ci avrà messo del suo - il diavolo. Con tutti i suoi alleati della Nato e persino l'Unione europea. Roba da levare all'Anpi contributo e tutte le bottiglie di vodka che sono ancora in cantina.
Nella sostanza, è come se avessero cambiato le note di Bella Ciao, indicando un nuovo invasore nella «politica di potenza della Nato» e intimando agli Usa di cessare le «clamorose ingerenze nella vita dell'Ucraina». Il che suona abbastanza clamoroso rispetto a quello che abbiamo visto e vissuto. A meno che i servizi segreti dell'Anpi sappiano la verità e non ce l'abbiano ancora voluta rivelare. «Il riconoscimento dell'indipendenza del Donbass da parte della Russia può portare il mondo a un passo dalla guerra ed è l'ultimo, drammatico atto di una sequenza di eventi innescata dal continuo allargamento della Nato ad est vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia»: e qui sta tutta la protervia filo-moscovita. È vero che da parte di Putin ci si è pappato un pezzo di territorio ucraino, ma mica è colpa di Vladimir, tengono a dire quelli dell'Anpi. È tutta colpa della Nato che si vuole allargare ad est, dicono, ed è persino legittimo che Mosca si arrabbi di fronte alla minaccia. A costoro sfugge che uno Stato sovrano possa liberamente scegliere di aderire a un'organizzazione internazionale. Macché, deve essere vietato da chissà quale articolo dello statuto partigiano, e questo legittima chi è contrario a indispettirsi e se le prende col confinante con le buone o con le cattive. Una nuova forma di egemonia nei tempi moderni.
Ovviamente, l'Anpi non rinuncia a indicare la sua piattaforma, che certo non può essere stata scritta in una cantina. Ne sono responsabili e l'hanno diffusa, a cominciare dagli ordini che impartiscono addirittura alle Nazioni unite. L'Onu deve pretendere che «l'Ucraina riconosca l'autonomia del Donbass prevista dagli accordi di Minsk, ma mai attuata dal governo di Kiev, rispetti la sua popolazione russofona, cessi i bombardamenti in Donbass confermati dalla fuga di decine di migliaia di civili di quella regione in Russia, e sciolga le milizie naziste, oggi in prima fila nell'attacco al Donbass». Come è noto, dispongono di fonti assolutamente terze. Che esista anche qualche missile da Mosca neppure un cenno. Però, a mani giunte, sollecitano Putin a revocare - bontà loro - «il riconoscimento dell'indipendenza del Donbass, perché viola l'integrità territoriale di un Paese sovrano e scatena una serie di reazioni e controreazioni che possono portare in brevissimo tempo alla guerra». Non è finita, perché ce ne è anche per l'Unione Europea, che deve avanzare «una proposta di composizione pacifica del conflitto al fine dell'attuazione integrale degli accordi di Minsk e avvii finalmente una politica di cooperazione e non di continua ostilità nei confronti della Russia. La vera forza dell'Europa unita è nella sua capacità di proporsi come messaggero di amicizia fra i popoli». Questa gliela spiega l'Anpi agli Stati membri della Ue che sono tutti inviperiti con Mosca? «Continua ostilità»? Poi, Joe Biden. Il presidente americano deve cessare «immediatamente sia le clamorose ingerenze (quanti ricordi in questa parola... ndr) nella vita interna dell'Ucraina iniziate fin dai tempi di Maidan, quando nel governo ucraino entrò la statunitense Natalia Jaresco, sia le sue dichiarazioni belliciste e le sue ininterrotte minacce nei confronti della Russia».
Infine, ancora la Nato, che «non può e non deve intervenire in caso di precipitazione bellica, perché ciò avverrebbe in violazione dei suoi compiti, che sono limitati alla difesa dei soli Paesi membri dell'Alleanza. In sostanza va profondamente ridiscusso il ruolo della Nato, che non può essere al servizio di una politica di potenza, e vanno avviate trattative per un sistema di reciproca sicurezza che garantisca sia l'Ue che la Federazione russa». Ora, siamo noi a cercare di capirci qualcosa. Qui, da queste parti, siamo tutti cercando di capire quel che succede in una guerra improvvisa. Ma una cosa la sappiamo: l'attacco è stato sferrato da Putin. E da che mondo e mondo la responsabilità di un'aggressione ad un altro paese, non si scarica su altri soggetti internazionale. Perché significa mischiare le carte, intorpidire le acque, rendere invisibile la verità. Tutto questo, come ha detto Matteo Renzi, «è vergognoso».
Da ilnapolista.it il 25 febbraio 2022.
Giustamente El Paìs ci va giù duro contro la prestazione offerta dal Napoli ieri sera di fronte al Barcellona: L’unica volta che entrambe le squadre sono state protagoniste è stato quando si sono inginocchiate contro il razzismo e hanno esposto lo striscione contro la guerra.
Solo un errore di Ter Stegen, che ha abbattuto Osimhen dopo un’uscita fuori tempo, ha rimesso temporaneamente il Napoli in partita. Insigne trasforma il rigore e calma l’ira dei tifosi del vecchio San Paolo.
La partita è stata ridotta a un duello di uno contro undici: Osimhen-Barça. Il nigeriano ha attaccato lo spazio come un bufalo mentre gli azulgrana hanno variato bene il gioco, si sono ripresi dopo il gol subito e hanno segnato di nuovo con una giocata su calcio d’angolo che si è conclusa con il sinistro di Piqué: 1-3.
Da sport.virgilio.it il 25 febbraio 2022.
La crisi Ucraina monopolizza inevitabilmente anche la serata europea di calcio, con numerose iniziative a stigmatizzare l’offensiva russa che ha scosso il mondo nelle ultime ore. Ha chiesto di fermare il conflitto il giocatore ucraino dell’Atalanta, Ruslan Malinovskyi, che dopo la prima rete personale nel 3-0 con cui la Dea ha superato l’Olympiacos in terra greca, ha mostrato una maglietta con la scritta “No war in Ukraine”.
Presa di posizione pro-Ucraina anche al Maradona, dove, prima del calcio di inizio, i giocatori di Napoli e Barcellona si sono uniti nel dire no alla guerra con lo striscione “No war”, scatenando gli applausi dagli spalti.
Napoli-Barcellona, lo striscione contro la guerra fuori dallo stadio
Sui social scoppia, però, la polemica per uno striscione non ammesso allo stadio. Prima del match, infatti, non sono state ammesse bandiere Ucraina e gli Ultras72 della Curva B si sono visti negare ai controlli la possibilità di introdurre lo striscione con la scritta “No alla guerra”.
Secondo le indiscrezioni, la motivazione sarebbe da ricercare dalle politica dell’UEFA in merito al passaggio di messaggi politici durante le sue manifestazioni, ma anche per non turbare la sensibilità di una squadra arbitrale interamente russa.
Striscione contro la guerra ritirato al Maradona: la reazione dei tifosi
Una presa di posizione che ricorda il no dell’UEFA durante Euro2020 al sindaco di Monaco di Baviera che aveva chiesto di illuminare con i colori arcobaleno l’esterno dell’Allianz Arena prima della gara tra Germania e Ungheria, come gesto di sostegno alle diversità. Anche in questo caso, sui social non mancano le proteste. C’è chi scrive: “All’interno degli stadi succede di tutto… però poi non succede questo… bha!” e ancora: “Ridicolo!”, “Negli stadi Italiani troviamo ogni domenica striscioni e bandiere con svastica. Oggi è vietato l’ingresso di striscioni contro la Guerra e bandiere Ucraina. Vergognoso“.
I commenti sono veramente tanti. Un altro tifoso prova a ricapitolare: “Assurdo a Napoli, lo striscione No alla guerra non può entrare allo stadio: l’arbitro è russo. Spero sia una fake” e ancora: “Ma davvero??? Dai non è vero”, “Che schifo!“, “Assurdo: le autorità hanno negato agli ultras del Napoli di portare quello striscione nel Maradona per la presenza degli arbitri russi. Come se “no alla guerra” fosse un messaggio politico… SEMPRE PIU SCHIFATO DA QUESTO MONDO!!!!!“
(ANSA il 25 febbraio 2022) - Il presidente cinese Xi Jinping ha avuto una telefonata nel pomeriggio con il suo omologo russo Vladimir Putin. Lo riferisce l'emittente statale Cctv.
(ANSA il 25 febbraio 2022) - La Cina "sostiene Russia e Ucraina per la soluzione dei problemi attraverso i negoziati": il presidente Xi Jinping, nel colloquio avuto con l'omologo Vladimir Putin, ha ribadito che "la posizione fondamentale della Cina è di rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale di tutti i Paesi e degli scopi e dei principi della Carta dell'Onu".
Pechino, ha aggiunto Xi nel resoconto del network statale Cctv, "è disposta a collaborare con la comunità internazionale per sostenere un concetto di sicurezza comune, globale, cooperativo e sostenibile e per salvaguardare il sistema internazionale con l'Onu al centro".
(ANSA il 25 febbraio 2022) - La Russia "è disposta a condurre negoziati ad alto livello con l'Ucraina": è quanto ha detto il presidente russo Vladimir Putin nella telefonata avuta nel pomeriggio con l'omologo cinese Xi Jinping parlando della situazione in Ucraina.
Putin "ha introdotto latitudine e longitudine storiche della questione e la situazione e la posizione delle operazioni militari speciali russe nella parte orientale del Paese". E ha affermato "che Usa e Nato hanno a lungo ignorato le ragionevoli preoccupazioni della Russia in materia di sicurezza, ripetutamente rinnegato i loro impegni e continuato a far avanzare il dispiegamento militare verso est".
(ANSA il 25 febbraio 2022) - Nella telefonata di oggi con Vladimir Putin, il presidente cinese Xi Jinping ha affermato di rispettare le "azioni della leadership russa" in Ucraina. Lo riferisce il Cremlino, citato dalla Tass, sottolineando che i due capi di Stato hanno assicurato di essere "pronti a una stretta cooperazione e un sostegno reciproco alle Nazioni Unite e negli altri fori" internazionali.
Nella conversazione telefonica di oggi con Vladimir Putin, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato "l'inammissibilità dell'uso di sanzioni illegittime per servire gli interessi egoistici di alcuni Paesi". Lo riferisce il Cremlino, citato dalla Tass, aggiungendo che il colloquio ha confermato "l'identità degli approcci di principio verso le questioni chiave a livello internazionale".
La Cina "si oppone a qualsiasi sanzione illegale che leda i diritti e gli interessi legittimi della Russia". Lo ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin, secondo cui "gli Stati Uniti hanno imposto più di 100 sanzioni alla Russia dal 2011", che sono risultati strumenti "non fondamentali ed efficaci per risolvere i problemi".
Nella conversazione telefonica di oggi con Vladimir Putin, il presidente cinese Xi Jinping ha sottolineato "l'inammissibilità dell'uso di sanzioni illegittime per servire gli interessi egoistici di alcuni Paesi". Lo riferisce il Cremlino, citato dalla Tass, aggiungendo che il colloquio ha confermato "l'identità degli approcci di principio verso le questioni chiave a livello internazionale".
Nella telefonata di oggi con Vladimir Putin, il presidente cinese Xi Jinping ha affermato di rispettare le "azioni della leadership russa" in Ucraina. Lo riferisce il Cremlino, citato dalla Tass, sottolineando che i due capi di Stato hanno assicurato di essere "pronti a una stretta cooperazione e un sostegno reciproco alle Nazioni Unite e negli altri fori" internazionali.
La Cina "sostiene Russia e Ucraina per la soluzione dei problemi attraverso i negoziati": il presidente Xi Jinping, nel colloquio avuto con l'omologo Vladimir Putin, ha ribadito che "la posizione fondamentale della Cina è di rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale di tutti i Paesi e degli scopi e dei principi della Carta dell'Onu".
Pechino, ha aggiunto Xi nel resoconto del network statale Cctv, "è disposta a collaborare con la comunità internazionale per sostenere un concetto di sicurezza comune, globale, cooperativo e sostenibile e per salvaguardare il sistema internazionale con l'Onu al centro".
La Cina crede ci siano ancora i margini per una via d'uscita diplomatica alla crisi tra Ucraina e Russia: "Nella situazione attuale la porta per una soluzione politica non è del tutto chiusa", ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin nel corso del briefing quotidiano, senza aggiungere dettagli.
Pechino "si sforzerà di spingere per una soluzione politica della questione Ucraina. C'è un chiaro contrasto tra l'approccio cinese e le mosse di altri Paesi di creare e cercare di trarre vantaggio", ha aggiunto Wang replicando alle sollecitazioni Usa secondo cui è tempo che la Cina scelga da che parte stare.
Giuseppe Gagliano per startmag.it il 25 febbraio 2022.
La Cina ha annunciato di essere pienamente aperta alle importazioni di grano della Russia, e ha fatto questo annuncio allo scopo di rafforzare i legami bilaterali con la Russia.
L’annuncio dell’Amministrazione generale delle dogane cinese è stato reso pubblico giovedì, ore dopo che le truppe russe hanno lanciato un attacco ad ampio raggio contro l’Ucraina.
Tuttavia, l’accordo faceva parte di un pacchetto di accordi siglati durante la visita del presidente russo Vladimir Putin a Pechino all’inizio di questo mese.
La Cina ha iniziato a consentire importazioni di grano su larga scala dalla regione dell’estremo oriente della Russia a ottobre, con la più grande azienda agroalimentare cinese, la statale Cofco, che ha acquistato il primo lotto di 667 tonnellate (1,47 milioni di sterline). Essendo il più grande esportatore mondiale di grano, la Russia ha inviato più di 30 milioni di tonnellate all’estero nei primi 11 mesi dello scorso anno.
È interessante sottolineare che l’ambasciatore cinese in Russia, Zhang Hanhui, ha detto mercoledì che la Cina era contenta di vedere che la sua valuta sia stata ampiamente utilizzata nel commercio russo, negli investimenti finanziari e nelle riserve estere. Questo naturalmente perché consentirà di ridimensionare la potenza economica del dollaro a livello globale.
I commenti di Zhang, fatti durante un’intervista con l’agenzia di stampa russa Interfax, sono arrivati mentre Mosca riconosceva ufficialmente l’indipendenza delle regioni ucraine di Donetsk e Lugansk e lanciava attacchi sul territorio ucraino da giovedì mattina.
Pechino manda aerei e missili in Serbia. Adesso il filorusso Vucic preoccupa Bruxelles. Redazione il 12 Aprile 2022 su Il Giornale.
La flotta di sei Y-20 è atterrata a Belgrado. La Cina: "Normale cooperazione".
La Cina ha confermato l'invio dei suoi sofisticati sistemi di difesa aerea HQ-22 SAM (surface-to-air missile) alla Serbia, secondo le anticipazioni dei media internazionali emerse nel fine settimana, nell'ambito di «progetti di cooperazione» bilaterale che «non hanno nulla a che vedere con la situazione attuale» in Ucraina. Lo ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri Zhao Lijian, assicurando che la flotta di sei Y-20 usata «ha consegnato regolari forniture militari» e aggiungendo, nel corso del briefing quotidiano, che «i progetti di cooperazione annuale Cina-Serbia non sono rivolti a terzi».
L'Esercito popolare di liberazione «ha di recente effettuato la consegna già programmata in precedenza». I sei Y-20 da trasporto, che sorvolano lo spazio aereo di due Paesi Nato (Turchia e Bulgaria), sono atterrati sabato all'aeroporto civile Nikola Tesla di Belgrado per consegnare i missili ordinati dalla Serbia, che ha strettissimi legami con la Russia, nel 2019 il cui acquisto era stato scoraggiato dagli Usa nel 2020, avvertendo che l'ingresso nell'Ue o in altre alleanze occidentali avrebbe comportato l'impiego di sistemi difensivi con standard più uniformi e occidentali. I missili made in China, forniti nel mezzo della instabilità dei Balcani, sono paragonati in prevalenza agli americani Patriot o ai russi S-300, pur disponendo di una gittata inferiore: 170 km per un'altitudine di 27 km. La Serbia è il primo Paese europeo a dotarsi di tali armamenti cinesi. Il governo del presidente Aleksandar Vucic, appena riconfermato per un nuovo mandato, ha votato a favore delle risoluzioni Onu di condanna per l'aggressione russa all'Ucraina, ma ha deciso di non sostenere le sanzioni internazionali contro Mosca.
La Serbia «bifronte» di Aleksandar Vucic, grande amico ed estimatore di Vladimir Putin, Xi Jinping e Viktor Orban, è sempre più un'anomalia in Europa, e insieme fonte di preoccupazione per l'Ue, con cui Belgrado è impegnata da anni nel negoziato di adesione, un obiettivo definito una delle priorità della sua politica estera. Ma l'arrivo di missili cinesi, in un'operazione definita «segreta» dai media e in una regione attraversata da tensioni e instabilità croniche come i Balcani, non può non suscitare attenzione e insieme preoccupazione nelle cancellerie occidentali. Pur avviata verso l'integrazione nell'Unione europea, la Serbia, principale alleato di Mosca nell'area, è l'unico Paese europeo a rifornirsi massicciamente di armamenti da Russia e Cina, con i due giganti interessati a incrementare i propri investimenti nell'economia serba e degli altri Paesi della regione. Nell'ambito del progetto Via della Seta e dei suoi piani di penetrazione nel tessuto economico dell'Europa, la Cina di Xi Jinping sta attuando in Serbia forti investimenti soprattutto nei settori industriale, minerario e metallurgico, e in quello delle infrastrutture, in particolare nel progetto di una linea ferroviaria veloce fra Belgrado e Budapest.
Lo strano caso della Serbia, in attesa di entrare nell’Ue ma troppo amica della Russia di Putin. Erika Antonelli su L'Espresso il 3 Marzo 2022.
Il presidente serbo leksandar Vucic con Vladimir Putin in una foto del 2019.
Nei giorni in cui l’offensiva si intensifica contro l’Ucraina, il Paese balcanico vota a favore della risoluzione Onu di condanna all’invasione ma non si allinea alle altre decisioni occidentali. Non sospende il traffico aereo da e verso Mosca, non si unisce alle sanzioni e i media filo-governativi sostengono “lo zar”.
In bilico, ostinatamente neutrale. È questa la posizione della Serbia, che preferisce l’immobilismo nel conflitto tra l’esercito del Cremlino e la resistenza dei civili ucraini capace di ricompattare l’Occidente. Anche se nella sfera occidentale la Serbia vuole entrare eccome. Lo dimostrano, era il 2014, i negoziati di adesione per diventare parte dell’Unione Europea. Ma i legami con l’alleato russo, fornitore di riserve di gas e allineato a Belgrado nel non riconoscere l’indipendenza del Kosovo, sono troppo importanti per appoggiare le sanzioni decise da Nato e Ue.
Emma Pietrarosa per diredonna.it il 4 marzo 2022.
L’Occidente alimenta il “caos sessuale” e promuove l’omosessualità, portando ad un esorabile decadimento dei costumi. È quanto ha dichiarato in un discorso, durato più di un’ora e diffuso dalla televisione nazionale, l’Ayatollah iraniano, Ali Khamenei, guida suprema del Paese. Khamenei è intervenuto il 1° marzo sul conflitto Russia-Ucraina, scaricando la colpa della guerra sugli Sati Uniti d’America e sull’Occidente tutto, dove vige forte ‘immoralità‘.
“In questi Paesi – ha dichiarato l’Ayatollah – vigono gravi vizi morali come l’omosessualità, e altri vizi ancora che sono troppo vergognosi perché se ne possa anche solo parlare. I regimi d’occidente promuovono l’immoralità in un modo più diffuso e organizzato perfino rispetto all’età dell’ignoranza pre-islamica”. Poi, parlando dell’Ucraina ha aggiunto: “In Ucraina siamo favorevoli a fermare la guerra, ma non dimentichiamo mai che è l’America che ha portato l’Ucraina a tutto questo, intromettendosi negli affari interni di quel Paese, innescando proteste contro i governi, rivoluzioni di velluto e cambi di governo. Siamo contro la guerra e la distruzione, ovunque nel mondo. Questa è la nostra ferma posizione. Non approviamo che le persone vengano uccise e che le infrastrutture dei Paesi siano distrutte”.
Ma, nonostante le parole di condanna della guerra, Khamenei ha aggiunto che se in Ucraina vi fosse stato un vero e proprio sostegno al governo tutto questo non sarebbe accaduto, aggiungendo che l’espansione della NATO è il vero problema nel conflitto. Parole a difesa della Russia di Putin. Del resto, l’Iran è stato uno dei primi Paesi a cercare un dialogo con il presidente russo e a schierarsi con la Federazione.
In Iran, inoltre, gli atti omosessuali sono illegali e punibili con pene che vanno da 31 frustate (per atti omosessuali diversi dal sesso anale) a 100 frustate, fino alla morte, e dal 1979 ad oggi sono stati uccisi tra i 4.000 e i 6.000 omosessuali.
Polveriera balcani. Report Rai PUNTATA DEL 25/04/2022 di Walter Molino
Collaborazione di Federico Marconi
A trent’anni dall’inizio dell’assedio di Sarajevo, il conflitto in Ucraina alimenta la tensione nell’area balcanica.
L’integrità statale della Bosnia Erzegovina è minacciata dalle mire secessioniste di Milorad Dodik, leader della Repubblica Srpska spalleggiato da Vladimir Putin. In Serbia il conservatore Aleksandar Vučić è stato appena rieletto Presidente della Repubblica con quasi il 60% delle preferenze e in Parlamento sono entrate nuove formazioni della destra radicale. Adesso è chiamato a sciogliere l’equivoco che ha attraversato la campagna elettorale e riguarda il futuro del Paese: da un lato gli interessi commerciali e la richiesta pendente di entrare nell’UE, dall’altro il tradizionale legame con la Russia e il revanscismo nazionalista. Nessuno però ha dimenticato i bombardamenti NATO del 1999 e la condanna unanime di un intero popolo che sente di avere ancora molti conti aperti con il passato.
POLVERIERA BALCANICA di Walter Molino collaborazione Federico Marconi immagini Alessandro Spinnato montaggio Giorgio Vallati - Riccardo Zoffoli
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, chi è che invece non le ha proprio contemplate queste sanzioni è la Repubblica serba, che è legata ai russi da un forte legame storico, dal ricordo dei bombardamenti di Belgrado, della Nato, del 1999. Ora, questo sentimento ha reso complicato l’adesione all’Unione Europea, è dal 2009 che pende una richiesta di adesione, diciamo che nella forma di resistenza ha anche pesato la dipendenza dal gas russo. Poche settimane fa ha vinto le elezioni il presidente Alexander Vucic, al governo dal 2014, ha messo su un governo muscolare, autoritario, ha consentito che in Parlamento entrassero anche le forze più nazionaliste, quelle dell’estrema destra. Ora, dopo l’intervento in Ucraina deve decidere, scegliere, se stare dalla parte dell’Europa o guardare a Est, a Russia e Cina. Il nostro Walter Molino.
WALTER MOLINO – FUORI CAMPO La Serbia ha deciso di non aderire alle sanzioni economiche contro il regime di Putin e di lasciare aperto lo spazio aereo con Mosca ma ha votato a favore dell’espulsione della Russia dal Consiglio dei diritti umani all’ONU. A Belgrado la chiamano la politica delle due sedie - un po’ con l’Europa e un po’ con la Russia. E l’attore protagonista è Alexander Vucic, rieletto Presidente della Repubblica lo scorso 4 aprile con oltre due milioni voti in una campagna elettorale senza storia.
ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI SERBIA Ma quando qualcuno dice mai dire mai, forse entreremo a far parte della NATO, la mia risposta è che non entreremo nella NATO! Proteggeremo da soli il nostro paese, il nostro cielo e la nostra libertà e ne siamo capaci, abbiamo costruito un esercito che è incomparabilmente più forte e che non minaccia nessuno ma funge da deterrente.
SOSTENITRICE DI VUCIC Noi amiamo Vucic. Finché vivremo lo voteremo, perché non abbiamo uno migliore. Anche Putin è un buon presidente del suo paese, la Russia ci ha aiutato mentre ci bombardavano.
WALTER MOLINO Siete stati pagati per venire qui?
SOSTENITORE DI VUCIC No, non, no… ma questo capisce tutto! Io spero che andrà tutto meglio.
SOSTENITRICE DI VUCIC È il migliore perché è il migliore. E anche perché è l’amico di Putin. Putin non ci fa paura, per noi lui è un grande amico.
WALTER MOLINO – FUORI CAMPO Le opposizioni, che alle precedenti elezioni non avevano partecipato al voto per protesta, si accontentano di tornare a sedere in Parlamento e in campagna elettorale si parla poco di Serbia e molto di politica internazionale.
UOMO La Serbia non può entrare nella Nato, perché la Nato ci ha bombardati, è stato il nostro grande nemico, io portavo i miei figli nei rifugi mentre cadevano le bombe.
WALTER MOLINO Vucic dice: il Kosovo è serbo e deve tornare alla Serbia.
UOMO È la nostra terra.
WALTER MOLINO Quindi su questo la pensate come Vucic.
UOMO Penso che il Kosovo è la nostra terra da secoli. Ma l’abbiamo persa. Le tensioni ci sono e ho paura che questi non lasceranno il potere tanto facilmente, anche se perdono le elezioni.
WALTER MOLINO Ma tanto non le possono perdere.
UOMO Possono, per quello che siamo qua.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dveri formazione di ispirazione religiosa, monarchica e nazionalista. La guida a Bosko Obradovic, tra i maggiori sostenitori della propaganda filorussa in Serbia.
BOSKO OBRADOVIC – LEADER DVERI Lo stato russo è stato fondato a Kiev e non a Mosca, la Crimea è il luogo del battesimo del popolo russo, sono territori russi da secoli. La Russia non è intervenuta in un altro paese, come facevano gli Stati Uniti in tutto il mondo.
WALTER MOLINO Lei ha usato le stesse parole di Putin.
BOSKO OBRADOVIC – LEADER DVERI Io uso le mie parole e penso solo con la testa serba, e guardo esclusivamente gli interessi del popolo serbo. La Russia sta vivendo ciò che abbiamo vissuto noi serbi negli anni '90, quando la macchina mediatica dell’occidente ci ha definito un popolo di criminali, la causa di tutte le guerre nella ex Jugoslavia. La Nato dovrebbe pagare i danni di guerra alla Serbia per tutto quello che è stato fatto nel 1999 durante i bombardamenti.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO I venti di guerra attraversano la campagna elettorale, il movimento pacifista prova a far sentire la sua voce ma è minoritario. Stasja Zajovic ha fondato trent’anni fa Le donne in nero, una ONG di Belgrado femminista e antimilitarista che si batte per i diritti civili nell’ex Jugoslavia. Subiscono da sempre aggressioni e minacce, l’ultima è questa: puttane in nero, simboli nazionalisti e il nome di Ratko Mladic, il generale serbo condannato all’ergastolo per il genocidio di Srebrenica.
WALTER MOLINO Cosa ha pensato quando è tornata qui quella mattina e ha trovato tutte quelle scritte dietro la porta?
STASJA ZAJOVIC – DONNE IN NERO BELGRADO Io devo prendermi cura sempre degli altri, come si sentono gli altri, dare loro una sicurezza, ma io sono di una famiglia che ha lottato molto nella seconda guerra mondiale, tutta la mia famiglia è stata nei partigiani. Il Presidente della Serbia è uno che ha fatto le chiamate pubbliche in Parlamento il 20 giugno 1995, venti giorni prima del genocidio di Srebrenica. Lui ha detto: per un serbo ucciso dai musulmani noi uccideremo cento musulmani. Questo dittatore fascista Vucic fa la guerra continuamente. Perché lui è un guerrafondaio. Lui ha i paramilitari, parapoliziesche. Questo gli serve per alimentare la propaganda di guerra e poi lui dire: sapete, io sono il vostro salvatore.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Leader di SNS partito progressista di nome, ma conservatore e nazionalista nei fatti, Alexander Vucic è al governo dal 2014. Ha costruito un sistema di potere autoritario e filorusso, riducendo al minimo lo spazio per il dissenso. Tuttavia rimane il punto di equilibrio più affidabile per l’occidente e la sua immagine appare rassicurante al popolo serbo. Nell’ultima campagna elettorale è entrato in casa delle persone passando dal frigorifero. Domenica 3 aprile è il giorno delle elezioni. L’opposizione denuncia brogli e aggressioni. Nel pomeriggio l’affluenza ai seggi è bassa, il partito di Vucic teme un brutto risultato a Belgrado e la tensione sale. Una fonte ci informa che il governo avrebbe pronti squadroni di ultras per creare disordini di cui incolpare le opposizioni ma tutto rimane apparentemente tranquillo. Ad urne appena chiuse, nella sede di SNS c’è già aria di festa. Un ricco buffet per la stampa in attesa di un risultato che appare scontato. I maggiorenti del partito sfilano uno dietro l’altro.
ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA DI SERBIA Io ho vinto con il 59,9% dei voti.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO È la prima comunicazione ufficiale dei risultati e non arriva da una commissione elettorale, ma dalla viva voce del presidente in carica. E a chi prova a chiedere spiegazioni, Vucic risponde così…
ALEXANDER VUCIC – PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA SERBIA Noi abbiamo osservatori in ogni seggio elettorale e possiamo informarvi sui risultati. Si rallegri, sorrida, una mano sicura la guida attraverso la storia.
ZAKLINA TATALOVIC – GIORNALISTA Il Presidente della Serbia non vuole rispondere alle domande non concordate e non vuole parlare con i giornalisti critici verso il potere. WALTER MOLINO È difficile oggi in Serbia essere un giornalista critico con il potere.
ZAKLINA TATALOVIC – GIORNALISTA Sì, molto. Ed è una cosa rara oggi in Serbia. Il Presidente Vucic è circondato dai giornalisti che gli pongono le domande che ordina lui stesso e così è da anni.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il controllo del potere sull’informazione arriva perfino dentro le librerie. Nel centro di Belgrado preferiscono non esporre libri come questo. Pòbuna in serbo significa Ribellione. Lo ha scritto Srdan Skoro, un giornalista dissidente che da anni denuncia la corruzione del sistema di potere di Vucic. Incontriamo Skoro in un luogo simbolo di Belgrado, davanti alla sede della televisione di Stato bombardata dalla NATO nella notte del 23 aprile 1999. Morirono 16 persone.
SRDAN SKORO – GIORNALISTA Questo è un luogo orribile e agghiacciante. Quelle vittime non erano colpevoli di nulla, nessuno è mai stato ritenuto responsabile. Soprattutto non la Nato che ha preso di mira la televisione e sapeva che c'erano le persone dentro.
WALTER MOLINO Vucic era ministro dell’informazione con Milosevic. Ci sono delle analogie tra i due?
SRDAN SKORO – GIORNALISTA Vucic è stato il peggior ministro nella storia dell'informazione serba e ha approvato la legge più brutale contro i media e contro la libertà di parola. Le redazioni e i giornalisti venivano puniti e le redazioni venivano chiuse solo perché scrivevano qualcosa che non gli piaceva. Vucic è stato più estremo di Milosevic. La differenza è che Milosevic non ha goduto dello stesso sostegno dell'Occidente mentre a Vucic tutto è permesso, almeno fino a quando non interferirà con gli interessi di Europa e Stati Uniti.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dopo la netta affermazione elettorale Vucic ha ricevuto i rallegramenti di Putin e pochi giorni dopo i cieli di Belgrado sono stati attraversati da sei aerei cargo militari cinesi che hanno consegnato alla Serbia una fornitura di missili antiaereo. Ma quando Vuk Cvjijc, un coraggioso giornalista del settimanale NIN, ha pubblicato la prima puntata della sua ultima inchiesta, Putin sarà stato poco allegro di sapere che migliaia di colpi di mortaio sparati contro i russi sono stati prodotti in Serbia e venduti all’Ucraina.
WALTER MOLINO Che tipo di armi sono?
VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Si tratta di colpi da 60 mm sparati da mortai prodotti nello stabilimento statale Krusik di Valjevo, in Serbia. Vucic ha ammesso di essere a conoscenza di una vecchia fornitura di 23 mila munizioni, ma i documenti che abbiamo trovato dimostrano che sono almeno il doppio.
WALTER MOLINO Come hai trovate le prove?
VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Oltre ai documenti sulle esportazioni c’è un video ufficiale dell’esercito ucraino sul fronte di Kiev ed esperti militari che abbiamo consultato hanno riconosciuto le marcature delle munizioni prodotte a Krusik nel 2018.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO È il 13 marzo scorso. Le forze speciali ucraine combattono alla periferia del villaggio di Mosku, nei pressi di Kiev. Le marcature gialle sui proiettili dei mortai indicano la provenienza dalla fabbrica serba di Krusik.
WALTER MOLINO Il Presidente Vucic ha negato, quindi ha mentito?
VUK CVJIJC – GIORNALISTA INVESTIGATIVO “NIN” Sì, ha mentito. Inoltre dai documenti risulta che un alto funzionario del suo partito è andato a Krusik e ha negoziato questa fornitura per l'Ucraina. Il secondo livello di questa storia è la corruzione, grazie alla mediazione di questo funzionario di partito il prezzo finale della vendita all’Ucraina è stato di quasi 2,5 milioni di dollari, mentre alla fabbrica di Krusik sono arrivati solo 1,2 milioni di dollari. Bisogna capire dove sono finiti tutti quei soldi.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A Belgrado la chiamano la politica delle due sedie: un po’ con l’Europa e un po’ con la Russia. Ora la scoperta del collega serbo rischia di avvelenare un contesto che è già complesso: cosa penserà, cosa pensa Putin del fatto che un esponente del partito del suo amico Vucic ha armato l’Ucraina in cambio, forse, di una stecca per il suo partito? Ma su questo dovrà indagare la magistratura. Ora il rischio è che si alimentino venti di guerra, anche perché ci sono ferite mai rimarginate e che colpevolmente l’Europa non ha mai cercato di curare con attenzione.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica, è una distesa di lapidi bianche. L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco ai comandi di Ratko Mladic, sterminò più di 8000 bosgnacchi di sesso maschile. Il più atroce genocidio della guerra nell’ex Jugoslavia, perpetrato di fronte al contingente olandese dei caschi blu dell’ONU che decisero di non intervenire.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora, il conflitto in Ucraina rischia di riaprire delle vecchie ferite che l’Europa ha colpevolmente lasciato incancrenire. Parliamo del conflitto nella ex Jugoslavia: sono passati trent’anni dall’assedio di Sarajevo, ha contato quel conflitto 140 mila morti. I trattati di pace non hanno contribuito a sanare questa vecchia questione. Ora, che cosa è successo? Che ci sono tante questioni ancora non risolte, a partire dalla Repubblica del Kosovo. Aveva chiesto l’indipendenza nel 2008 dalla Serbia, la Serbia non aveva gradito un’indipendenza che è stata accettata solo da 98 Paesi sui 193 membri dell’Onu e adesso, con il conflitto in Ucraina si sono riaccese quelle ambizioni nazionaliste della destra serba: in Bosnia Erzegovina si respira un’aria di secessione. Gli accordi di Dayton di 27 anni fa hanno lasciato uno stato ibrido: serbi, bosniaci e croati. Insomma, e adesso nella Federazione di Bosnia Erzegovina la Repubblica Srpska, la parte serba, vuole staccarsi con decisione da quella bosniaca. Chi è che sta soffiando e alimentando i venti di secessione, chi è che ha interesse ad alimentare la tensione nei Blacani che sono una polveriera?
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il Memoriale di Potocari, a pochi chilometri da Srebrenica, è una distesa di lapidi bianche. L’11 luglio 1995, l’esercito serbo-bosniaco ai comandi di Ratko Mladic, sterminò più di 8000 bosgnacchi di sesso maschile. Il più atroce genocidio della guerra nell’ex Jugoslavia, perpetrato di fronte al contingente olandese dei caschi blu dell’ONU, che decisero di non intervenire.
SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA La prima notte ho capito che si trattava di una specie di campo di concentramento. I militari olandesi ci buttavano qualche bottiglia d’acqua dalle finestre.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Shida Abdurahmanovic quel giorno era dentro la fabbrica abbandonata presidiata dai caschi blu dell’ONU, i bosgnacchi di Srebrenica e dei villaggi vicini pensavano di essere al sicuro.
SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA Guardavamo dalla finestra mentre portavano via tutti i maschi. Allora non sapevamo perché, solo dopo abbiamo saputo che erano stati uccisi. È stato come vivere un film dell’orrore.
WALTER MOLINO Adesso che c’è la guerra lei ha di nuovo paura?
SHIDA ABDURAHMANOVIC – MUSULMANA BOSNIACA SOPRAVVISSUTA A SREBRENICA Abbiamo paura. La situazione in Ucraina per me è identica alla nostra. Ieri sera ho visto le immagini delle fosse comuni. Se in Ucraina non finisce come vuole la Russia, in Bosnia potrebbe succedere di nuovo qualcosa.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Quella di Srebrenica è una pagina di storia scritta dalle sentenze del Tribunale internazionale dell’Aja. Nel 2015, il presidente serbo Alexander Vucic fu accolto così al Memoriale di Potocari in occasione del ventennale del massacro. Ma i serbi non hanno mai accettato la storia scritta dai vincitori. Anche perché a meno di 10 chilometri da Srebrenica c’è il villaggio di Kravica, teatro di un’altra terribile strage, opera questa delle milizie bosniache musulmane e rimasta impunita.
RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA L’attacco è iniziato alle 5 del mattino, erano 5-6 mila musulmani. Hanno ucciso civili, anziani, bambini.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Il giorno del Natale ortodosso del 1993, le milizie musulmane assaltarono il villaggio abitato dai serbi.
RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA Era la nostra festa di Natale, e ci stavamo preparando per andare in chiesa quando si sono presentati con granate e proiettili che sparavano alle finestre. Tutti quelli che hanno trovato li hanno massacrati. Con i coltelli, sgozzavano bambini e persino i gatti. Gli alberi della frutta sono stati bruciati, le case sono state rase al suolo.
DONNA ANZIANA Un bambino non aveva nemmeno quattro mesi quando è stato ucciso.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO 49 civili massacrati, stupri e torture, centinaia di case bruciate. Al comando dell’Armata bosniaca c’era Naser Oric. Assolto per questi e altri massacri dal Tribunale dell’Aja, il bosgnacco Oric è stato il più acerrimo nemico del serbo Ratko Mladic e alle sue unità militari i serbi attribuiscono gran parte delle oltre 3mila vittime nella regione.
WALTER MOLINO Lei adesso ha paura che tutto questo possa ricominciare?
RADMILA ZARKOVIC – SERBA SOPRAVVISSUTA ALLA STRAGE DI KRAVICA La paura c’è. Noi abbiamo vissuto sulla nostra pelle di tutto. E abbiamo paura. Questi crimini possono essere commessi solo dai musilmani.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Trent’anni fa l’assedio di Sarajevo, il più lungo di tutte le guerre del ventesimo secolo. 1425 giorni di terrore. Oggi Sarajevo è abitata in maggioranza da musulmani. La Bosnia è uno Stato federale con due entità politico-amministrative: la federazione bosniaca e la Repubblica Srpska. Ma dalla firma degli accordi di Dayton del 1995 la costituzione è ancora solo un trattato di pace scritto in lingua inglese. Milorad Dodik, membro serbo della Presidenza, ha avviato nei fatti la secessione e ha impegnato il Parlamento di Banja Luka, capitale della Repubblica Srpska, a costituire un esercito indipendente. Sonja Biserko, è un ex diplomatica jugoslava, fondatrice del “Comitato per i diritti umani” di Belgrado.
WALTER MOLINO Che interesse ha Putin a scatenare il caos nei Balcani?
SONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO La Russia ha riempito il vuoto strategico lasciato dall’Europa e dagli Stati Uniti, forte anche dei legami della Serbia e con la Chiesa ortodossa. La Russia ha contaminato lo spazio informativo, ha sostenuto la Serbia sulla questione del Kosovo, si è espressa contro l’intervento della NATO. I servizi segreti russi hanno infiltrato Montenegro, Macedonia, Croazia.
WALTER MOLINO In Bosnia la situazione è sempre più tesa e il presidente della Repubblica Srpska minaccia la secessione.
SONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO Il presidente della Repubblica Srpska Milorad Dodik, sin da quando nel 2008 il Kosovo si è proclamato indipendente, ha iniziato a radicalizzare la situazione in Bosnia con questo argomento: se il Kosovo ha diritto all’autodeterminazione, ce l’ha anche la Repubblica Srpska.
WALTER MOLINO Perché negare il genocidio di Srebrenica in Bosnia è un reato e in Repubblica Srpska no, eppure è un’unica federazione? S
ONJA BISERKO – COMITATO PER I DIRITTI UMANI DI BELGRADO La Serbia non ha riconosciuto il genocidio né l’aggressione alla Bosnia: ufficialmente è stata la guerra di liberazione dei serbi. Ma il genocidio è stato provato dal Tribunale dell’Aja. Gli accordi di Dayton avevano lo scopo di fermare la guerra, ma poi non c’è stata alcuna revisione. È impossibile che la Bosnia funzioni davvero come uno Stato.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO A vigilare sul rispetto degli accordi di Dayton è l’Ufficio dell’Alto Rappresentante per la Bosnia Erzegovina, con sede a Sarajevo. Sostenuto dall’Unione Europea e osteggiato dal Presidente Dodik. E anche il presidente russo Vladimir Putin ne ha chiesto l’abolizione.
WALTER MOLINO Putin vorrebbe che lei se ne andasse via da qui.
CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Il problema del signor Putin è che probabilmente alcune persone al Cremlino lo stanno seguendo, ma non la comunità internazionale. Io sono ben posizionato in accordo con la comunità internazionale e rimarrò qui.
WALTER MOLINO La Costituzione della Bosnia è un trattato di pace scritto in inglese. Come pensate che questi tre popoli possano sentirsi un unico stato se non hanno neppure una Costituzione scritta nella loro lingua?
CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Dayton è la base per una pace che dura da 27 anni, ma non è una risposta a tutte le sfide nella convivenza di tre popoli. Quindi ho davvero preferito avere una traduzione della costituzione che è accettata da tutti, altrimenti ognuno l’avrebbe modellata a modo suo.
WALTER MOLINO La spinta separatista imposta dal Presidente Dodik della Repubblica Srpska Dodik può aumentare ancora questa tensione?
CHRISTIAN SCHMIDT – ALTO RAPPRESENTANTE PER LA BOSNIA ERZEGOVINA Dodik non ha preso le distanze dalla guerra aggressiva in Ucraina e ha relazioni con la Federazione Russa, con Putin e Lavrov. Le persone sono preoccupate che ci sarà di nuovo una guerra.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO Dall’inizio del conflitto in Ucraina, la missione EUFOR ALTHEA, coordinata dall’Unione Europea, ha aumentato di fino a 1500 uomini il contingente multinazionale nell’ex base NATO di Butmir, nei pressi di Sarajevo.
GIOVANNI MONTELLI – COMANDANTE CONTINGENTE ITALIANO EUFOR ALTHEA C’è stato un incremento di circa 500 elementi che sono una forza intermediata di reazione, di risposta e questa forza semplicemente è stata attivata per motivi precauzionali. La fortuna di avere il contingente qua è proprio la garanzia che vedendoci la popolazione è già rassicurata.
WALTER MOLINO FUORI CAMPO A Belgrado e Banja Luka i nazionalisti serbi manifestano a favore della Russia. In queste foto pubblicate nel 2018 dal sito bosniaco Zurnal.info, due importanti esponenti di “Onore Serbo”, sono in prima fila nell’assemblea nazionale di Banja Luka. Il primo è il pregiudicato Igor Bilbija. Il secondo è Bojan Stojkovic, leader di “Onore Serbo”, qui a fianco del Presidente Dodik. Stojkovic si è addestrato nel campo della 63° Brigata dei Paracadusti a Nis, 250 km a sud di Belgrado, dove è attivo un centro di assistenza umanitaria serbo-russo. Secondo l’intelligence di Sarajevo ci sarebbe dietro il Cremlino con l’intento di formare milizie paramilitari pronte a scatenare il caos in Bosnia.
SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, se il Kosovo ha ottenuto la sua indipendenza, dicono quelli della Repubblica Srpska, lo stesso diritto deve essere riconosciuto anche a noi. Insomma, gli accordi di Dayton risalgono ormai al 1995 e la Costituzione della Bosnia Erzegovina non è nient’altro che un trattato di pace scritto in inglese. Il custode di questa Costituzione è l’Alto Rappresentante della comunità internazionale, Schmidt, che dice: ho preferito lasciare questo trattato di pace, questa Costituzione in inglese, per evitare che ciascuno la interpretasse a proprio piacimento. Ora però se tra bosniaci, croati e serbi non si è trovato un accordo di pace, una forma di convivenza, insomma, qualche problema ci deve essere e l’Europa deve essere pronto ad affrontarlo immediatamente perché tutto era cominciato nel 1991 con la guerra per la secessione della Slovenia, poi il conflitto per l’indipendenza della Croazia, poi ha continuato in Bosnia, poi in Kosovo, poi l’insurrezione nella Valle del Presevo e infine quella in Macedonia. Dieci anni di guerre perché c’era chi soffiava e alimentava il nazionalismo, c’erano problemi economici ma si alimentava quella differenza culturale, religiosa, e anche perché poi c’erano le ambizioni di leader, diciamolo, esaltati. Comunque erano tutti conflitti prevedibili ampiamente e l’Europa adesso non deve perdere tempo, è inutile rimuginare sui propri errori, bisogna invece preoccuparsi di evitare di commetterne altri anche perché, come abbiamo sentito l’intelligence bosniaca, parla di gruppi paramilitari addestrati dai russi pronti a scatenare l’inferno.
La neutralità dei Paesi del Golfo sul conflitto ucraino, spiegata. Andrea Massardo su Il Giornale il 6 marzo 2022.
A seguito dell’invasione del territorio ucraino messa in atto dalla Russia, la totalità dei Paesi occidentali si è espressa a favore della risoluzione di condanna dell’Onu contro il Cremlino. All’unisono, dunque, l’Occidente si è riscoperto quanto mai unito nei confronti di Mosca, dando vita ad una nuova contrapposizione ideologica che sembra aver portato il mondo (almeno europeo-americano) indietro di una trentina d’anni.
Tuttavia, mentre l’Europa e il Nord America hanno preso una posizione decisa ed ostile nei confronti della Russia, alcuni Paesi strettamente alleati con Washington hanno preferito rimanere invece alle porte, con la speranza di non intaccare i propri rapporti privilegiati con entrambe le fazioni. Tra questi, in modo particolare, compaiono gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita, storici alleati commerciali degli Stati Uniti d’America ma al tempo stesso nella necessità di non rompere le relazioni diplomatiche con i colossi petroliferi della Russia.
Voto a favore della risoluzione, ma attesa per le sanzioni
Mentre sia Riad sia la delegazione emiratina hanno votato a favore della risoluzione delle Nazioni Unite nei confronti della Russia di Vladimir Putin, fino a questo momento nessuna posizione ufficiale è stata ancora presa nei confronti delle sanzioni e di eventuali misure restrittive. Anzi, la sensazione sembra essere quella di un Golfo non schierato e maggiormente intenzionato a mantenere una certa distanza da quanto succede in Europa e questo per non avere ritorsioni né da parte americana né da parte russa. Per quanto riguarda il commercio del petrolio, infatti, i due Paesi hanno un alto interesse a non infastidire Mosca, nella speranza di non intaccare i elicati equilibri raggiunti con L’Opec+. Ed è in questo scenario, dunque, che si deve interpretare anche il rifiuto di Riad alle richieste di Washington di allinearsi già negli scorsi giorni alle sanzioni nei confronti di Mosca.
Mosca si è “scoperta” alleata del Golfo
Non sono però esclusivamente le questioni economiche ad aver spinto Abu Dhabi e Riad nello stallo sulla questione delle sanzioni nei confronti della Russia. Come riscontrato infatti negli scorsi giorni giorni e messo in evidenza da Le Monde, l’Arabia Saudita in particolare, ma anche gli Emirati Arabi Uniti, hanno trovato infatti nella Russia un alleato per quanto riguarda la condanna degli attacchi degli Houthi dello Yemen nei confronti dei territori sauditi ed emiratini. Tutto ciò, in uno scenario che negli scorsi mesi ha visto l’amministrazione democratica americana guidata da Joe Biden depennare invece dalla lista delle organizzazioni terroristiche gli Houthi, provocando la rabbia dei Paesi arabi alleati.
Se la “alleanza” moscovita dello scorso fine febbraio era forse già spinta dalla necessità di non inimicarsi l’Arabia Saudita, è anche vero che la mancanza di tatto da parte americana nei confronti della questione degli Houthi dello Yemen abbia messo Riad nella condizione di dover trattare con Washington. E le stesse sanzioni alla Russia, se mai arriveranno, altro non potranno essere che il frutto di una discussione diplomatica tra sauditi e americani che dovrà portare questi ultimi a rivedere la lista delle organizzazioni terroristiche internazionali. Anche se sulla scelta della Casa Bianca pesa il delicatissimo negoziato sul nucleare iraniano.
Riad e Abu Dhabi sceglieranno Mosca o Kiev?
Allo stato attuale, probabilmente il Golfo non ha nessun interesse a schierarsi dalla parte di nessuna delle due parti in causa, in quanto una presa di posizione decisa incrinerebbe i rapporti diplomatici difficilmente costruiti nel corso degli ultimi anni. Ma non solo: anche le loro economie, fortemente legate all’export di combustibili fossili, rischierebbero di danneggiarsi oltremodo da una eventuale guerra commerciale con Mosca, come d’altronde si è già potuto osservare in passato. In più non va dimenticato come dal 2016 lungo la direttrice Riad-Mosca sia cresciuto il flusso di armamenti russi che fanno gola alla petromonarchia.
Chiaro: ad un certo punto, Riad e Abu Dhabi dovranno decidere che parte prendere. Ma quando ciò avverrà, probabilmente, il quadro della situazione bellica sarà più preciso di quello attuale, permettendo ai due Paesi di prendere la parte del “vincitore”. E, soprattutto, tale condotta potrà permettere a sauditi ed emiratini di salire sul carro dei vincitori, senza però danneggiare i rapporti con le realtà che saranno uscite, in un modo o nell’altro, sconfitte dal conflitto.
Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 4 marzo 2022.
Armi e petrolio, affinità autoritarie e calcoli economici, vecchie alleanze e/o nuovi (comuni) interessi: c'è un ventaglio di ragioni per cui venti Paesi africani su 54 non hanno condannato la guerra russa in Ucraina. Venti, la maggioranza dei 35 che si sono astenuti all'Assemblea generale dell'Onu. Stesso voto, storie diverse. Proviamo a unire i puntini (scontato quello dell'Eritrea del dittatore Afewerki, tra i cinque che hanno votato contro). Cominciamo dal povero e isolato Madagascar. Mosca durante le elezioni del 2019 ha finanziato sei candidati. Tutti sconfitti.
Cosa ha fatto Putin? Ha sostenuto il vincitore, Andry Rajoelina, portandosi a casa un po' di concessioni minerarie. E adattandosi alla realtà della propaganda locale. Internet è poco diffuso? I russi hanno finanziato il maggiore quotidiano dell'isola, due milioni di copie al giorno. Quelli dove i russi combattono per il governo. In Mali i golpisti hanno snobbato la missione militare occidentale affidandosi ai mercenari del Wagner Group, amici del Cremlino.
Gli stessi che puntellano il governo nella Repubblica Centrafricana e combattono (con armi e consulenze) per i militari golpisti al potere in Sudan (dai quali Mosca vorrebbe in cambio una base navale sul Mar Rosso). E anche là dove Wagner ha gettato la spugna (in Mozambico, contro la guerriglia islamista) perché rovinare collaborazioni future? E poi i Paesi produttori di greggio di lunga data (Angola) o aspiranti tali (Uganda e Senegal), democratici o meno. Lukoil aiuta (e sfrutta) tutti, anche la Repubblica del Congo.
E ha trovato un nuovo partner nel Senegal, che l'anno prossimo inaugura giacimenti in collaborazione con il gigante petrolifero russo. A Dakar tocca la presidenza di turno dell'Unione Africana, che nei giorni scorsi ha espresso «grande preoccupazione per la pericolosa situazione creatasi in Ucraina». Ma la nazione di Mané, che ha appena vinto la Coppa d'Africa, preferisce lo 0-0. Astensione all'Onu. Nessuna vergogna. Se lo fanno Cina e India e Sudafrica...
Dagotraduzione dal Daily Mail il 4 marzo 2022.
La Cina sta valutando la possibilità di ritirare la copertura televisiva della Premier League per evitare di trasmettere manifestazioni a sostegno dell’Ucraina. La lega inglese ha infatti in progetto di dimostrare solidarietà al popolo ucraino con una serie di iniziative: i capitani di tutti i 20 club della Premier indosseranno speciali fasce al braccio con i colori dell’Ucraina e i fan saranno incoraggiati a unirsi a giocatori, dirigenti e ufficiali di gara per un momento di riflessione e solidarietà prima del calcio d’inizio.
I grandi schermi mostreranno la scritta “Football Stands Together” su uno sfondo giallo e blu, a ricordare i colori della bandiera ucraina. Le parole saranno proiettate anche sui tabelloni perimetrali a Led durante le gare, che inizieranno il sabato alle 12.30 e si concluderanno il lunedì sera.
Il messaggio di solidarietà sarà inoltre visibile a tutti i fan del mondo attraverso i canali digitali della Premier League. I loghi e i profili su quelle piattaforme cambieranno per rappresentare i colori dell’Ucraina.
Tutti messaggi che saranno trasmessi ovunque, ma non in Cina. La piattaforma iQiyi Sports, che solo l’anno scorso aveva stipulato un contratto con la Premier League come partner esclusivo per la Cina, probabilmente non trasmetterà le partite questo weekend.
(ANSA il 4 marzo 2022) - La spesa militare della Cina è destinata ad aumentare nel 2022 del 7,1%, a 1.450 miliardi di yuan (circa 230 miliardi di dollari), a un ritmo più rapido del 6,8% dello scorso anno, secondo i dati di bilancio statale diffusi oggi in vista della plenaria del Congresso nazionale del popolo. Il premier Li Keqiang ha affermato nel suo intervento che la Cina migliorerà il suo addestramento militare e la sua prontezza al combattimento, "si muoverà più velocemente per modernizzare i sistemi logistici e di gestione delle risorse dell'esercito e costruire un moderno sistema di gestione delle armi e delle attrezzature".
Ucraina e Russia, chi sono gli alleati nel conflitto? Cina, Usa ma anche Giappone, Brasile e Cuba: gli schieramenti. Il Messaggero Sabato 26 Febbraio 2022.
Il patto Mosca-Pechino che riscrive gli equilibri
Giochi di alleanze, di necessità (specialmente economiche), di relazioni e ovviamente di poteri. Lo scontro tra Russia e Ucraina riguarda in realtà tutto il pianeta: dagli Stati Uniti all'Europa fino alla Cina, nessuno escluso. Perché il conflitto può riscrivere l'ordine internazionale e il nuovo scacchiere politico. A Kiev è arrivato l'appoggio di Nato e di tutta l'Unione Europea, ma la Russia è tutt'altro che isolata. Il nuovo asse con la Cina, che ha mostrato un atteggiamento benevolo rispetto all'invasione in Ucraina, è frutto di nuovi equilibri: Putin e Xi Jinping si sono sentiti e il Cremlino è stato rassicurato non solo su un sostegno diplomatico ma anche economico. Specialmente per far fronte alle sanzioni in arrivo dall'Europa.
Ucraina, il patto Russia-Cina che riscrive gli equilibri
Gli alleati dell'Ucraina
A Kiev è arrivato forte il sostegno di tutta l'Unione Europea, così come della Nato. Il principale alleato nelle ultime ore è stata la Francia di Macron, che ha sentito personalmente Zelensky. Il presidente francese è tra i più attivi a livello diplomatico e il motivo è chiaro: le elezioni presidenziali di aprile, quando sfiderà Zemmour e Le Pen. E potrà presentarsi, al contrario dei suoi rivali, da leader anti-Putin. Dalla parte dell'Ucraina anche Polonia, Romania, Moldavia, Ungheria e Slovacchia. E poi ci sono Stati Uniti e altri membri della Nato tra cui Canada, Regno Unito e Lituania. Dall’Africa sostegno all’Ucraina: l’ambasciatore del Kenya all’Onu, Martin Kimani, ha attaccato Putin. Dalla parte di Kiev anche Ghana e Gabon, mentre il Sudafrica si è mantenuto neutrale. Australia, Giappone e Nuova Zelanda hanno seguito la linea degli Stati Uniti aprendo alle sanzioni alla Russia.
Gli alleati di Mosca
Pechino (a cui la Russia ha dato il sostegno anche sul tema Taiwan) almeno inizialmente ha cercato di non compromettere del tutto i rapporti con l'Occidente - inteso come Europa - dove ha allargato i propri mercati. Ma nelle scorse ore si è rifiutata di parlare di invasione russa, dando indirettamente il proprio appoggio a Putin.
Oltre alla Cina, però, Putin guardandosi intorno vede tutt'altro che il vuoto: Lukashenko, leader della Bielorussia, lo ha aiutato nell'invasione permettendo alle truppe di muoversi nel Paese per poi entrare in Ucraina. Tra gli alleati anche Armenia, Kazakistan, Azerbaijan e Kirghizistan. Lontani da Europa e Asia, sostegno a Putin è arrivato da Bolsonaro in Brasile, che non si è schierato apertamente ma è un caro amico del presidente russo. Su Twitter ha mandato un messaggio di solidarietà «ai brasiliani che vivono in Ucraina». L'ungherese Orbán e il presidente della Repubblica Ceca Milos Zeman hanno criticato l'invasione di Mosca. In Medio Oriente la Siria è vicina a Putin, così come l'India e gli Emirati Arabi Uniti (che si sono astenuti ieri nella bozza di risoluzione in Consiglio di Sicurezza Onu). Israele ha definito l'attacco «una seria violazione dell’ordine internazionale» e ieri Zelensky ha chiesto al premier Bennett di mediare nella crisi. «Crediamo che Israele sia l'unico Paese democratico che abbia buone relazioni sia con l'Ucraina, sia con la Russia». Cuba, Venezuela e Nicaragua hanno dato la colpa agli Stati Uniti di aver provato la crisi.
I negazionisti dell'invasione. Francesco Maria Del Vigo il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Per carità, non pretendiamo doti di preveggenza o sbalorditive capacità di divinazione. Ma per capire che Vladimir Putin, questa volta, stava facendo sul serio non era necessario avere conoscenze approfondite di aruspicina, l'antica arte di origine etrusca che tentava di prevedere il futuro studiando le viscere degli animali. Bastava guardare un tg. Invece c'è chi, fino alla fine, ha continuato a declassare le minacce del Cremlino a piccole bagatelle di uno zar annoiato, con una cocciutaggine che tracima nel negazionismo dell'evidenza e del buonsenso. La prima, lucidissima, centratissima e autorevolissima, analisi arriva da Alessandro Di Battista, il quale, forte di qualche viaggio in giro per il mondo e una manciata di improbabili reportage, ora si spaccia per raffinato analista di geopolitica. Il 22 febbraio, con la certezza granitica di chi frequenta i grandi del mondo, Dibba spara su Facebook la sua previsione: «La Russia non sta invadendo l'Ucraina. Poi, per carità, tutto può accadere ma credo che Putin (e non solo) tutto voglia fuorché una guerra». Esattamente l'opposto di quello che è successo. Ma il Che Guevara di Roma Nord è in buona compagnia. Il giorno dopo, il 23 febbraio, Marco Travaglio, principia il suo editoriale con un incipit fulminante: «L'altra sera, mentre tg e talk rilanciavano l'ennesima fake news americana dell'invasione russa dell'Ucraina (causa bel tempo) eravamo tutti col fiato sospeso in attesa del Verbo» (le parole di Draghi, ndr). Essì, tutti matti quelli dei tg e dei talk che si occupavano della crisi ucraina, meno male che c'è Travaglio che fa da debunker e scopre le balle che ci propalano gli americani. Chissà se ora va a dire agli ucraini che le bombe sono false? Per chiudere la rassegna minima di chi non si vuol rassegnare al fatto che la guerra c'è davvero, citiamo Piero Fassino. Celeberrimo per le sue profezie al rovescio. La più famosa risale al 2009, quando il Movimento 5 Stelle non esisteva ancora e Grillo concionava sguaiatamente di politica dai palchi di mezza Italia. Fassino, con il piglio di chi sta lanciando una sfida ed è certo della vittoria, disse: «Se Grillo vuol fare politica fondi un partito, si presenti alle elezioni e vediamo quanti voti prende». Sappiamo tutti come è andata a finire. Ecco, per amor di cronaca, registriamo che lo stesso Fassino, due sere fa a Otto e mezzo, aveva fatto il suo pronostico: «Non prevedo l'invasione, sarebbe azzardata». Se lo avessero ascoltato...
Figli di Putin. L’Italia si smarca a fatica dal putinismo imposto dai populisti (e dal gas). Mario Lavia su L'Inkiesta il 25 Febbraio 2022.
Matteo Salvini e Giuseppe Conte hanno condannato l’invasione del Cremlino, ma evitando di prendersela con il dittatore russo, come invece ha fatto Enrico Letta. Per fortuna Quirinale e Palazzo Chigi hanno indirizzato il nostro Paese nella parte giusta della storia, ma resta il grande problema energetico
Mentre sull’Europa cala una nuova cortina di ferro per volere della Russia di Vladimir Putin, l’Italia per una volta si ritrova senza grandi smagliature di qua dalla cortina, a fianco dell’Ucraina invasa e contro il Cremlino incendiario. Non era scontato.
Il primo partito in Parlamento, il Movimento 5 stelle, è da sempre solcato da simpatie putiniane in odio all’ordine mondiale fondato sui principi dell’atlantismo democratico e multipolare; il partito più forte della destra, la Lega, è (stata) una delle pedine sovraniste che Mosca ha sempre guardato con favore, per non dire sostenuto in vario modo e che infatti tradisce un qualche fastidio in tutta questa vicenda che vede Putin (definito da Matteo Salvini nel 2019 «il migliore uomo politico del mondo») sul banco degli imputati nel Tribunale della Storia.
Mentre è stata più netta Giorgia Meloni, che ha condannato Mosca senza giri di parole, ma la cosa non deve sorprendere: non risulta un particolare legame ideologico tra Fratelli d’Italia e il Cremlino – chissà, forse per una sorta di transfert anticomunista – che pure non vede certo male i vari pezzi sovranisti qua e là per il mondo.
È dunque soprattutto il cuore dei gialloverdi a non battere per Kiev. Il Fatto è come al solito l’organo di riferimento dell’antiamericanismo della destra e della sinistra estrema, nelle sue diverse forme. Il trucchetto usato da Salvini e da opposti ambienti di sinistra sta nell’assicurazione di essere contro la guerra ma senza fare nomi e cognomi di aggressori e aggrediti, e c’è chi rispolvera il vecchio pacifismo pilatesco, come Emergency che in un comunicato non cita Putin e la Russia.
In questo quadro il capo leghista, gran tessitore delle trame Cremlino-via Bellerio (ricorderete il caso Gianluca Savoini) avrebbe potuto trovare nell’aggressione russa all’Ucraina un momento di protagonismo, di eccitata partecipazione, di sottile godimento per l’inusitato attacco all’Europa. Ma sarebbe stato clamorosamente solo. E quindi i putiniani d’Italia stavolta hanno dovuto mettere la coda tra le gambe.
Quindi senza alcuna enfasi, Salvini e Giuseppe Conte hanno condannato l’aggressione, pur evitando di attaccare frontalmente l’autocrate di Mosca come invece ha fatto Enrico Letta, che ieri ha avuto la prontezza di chiamare la gente in piazza sotto l’ambasciata russa a Roma – un semplice sit in senza bandiere se non quelle della pace – invitando «all’unità del Paese e del mondo libero contro la follia di Putin».
Una linea dura che è poi quella di Mario Draghi e ovviamente di Sergio Mattarella. Il Capo dello Stato ha convocato ieri pomeriggio il Consiglio supremo di Difesa che ha emesso un comunicato in cui dopo la condanna della Russia si parla di «misure severe» da assumere nel contesto delle decisioni dell’Unione europea.
Il presidente della Repubblica e il capo del governo hanno schierato dunque l’Italia – e non c’era da dubitarne – dalla parte del mondo libero, e in questa scia soprattutto il Pd ha dato la linea alla politica italiana. Impedendo dunque sul nascere posizioni ambigue del M5s.
Resta il tema delle sanzioni più dure, volte al colpire il sistema di pagamenti internazionale swift, richieste da Joe Biden. L’Italia e la Germania sono dipendenti dal gas russo, che pagano con il sistema swift, per questo chiedono un approccio meno radicale, oppure di escludere dalle sanzioni i pagamenti per l’approvvigionamento energetico.
Ecco perché stamane Draghi riferirà in Parlamento in una situazione abbastanza ottimale, addirittura con tutte le forze politiche d’accordo nella condanna dell’invasione e nel sostegno all’Europa e ai suoi alleati in difesa dell’Ucraina – «Paese amico», ha sottolineato il Consiglio supremo di difesa. Naturalmente Pd, Italia viva, +Europa, LeU, Forza Italia (e Fratelli d’Italia!) lo faranno convintamente e sinceramente, mentre grillini e leghisti si accoderanno obtorto collo.
Meglio così, merito di Mattarella, Draghi e Letta. Sempre per la serie che è stata davvero una fortuna la conferma del primo al Quirinale (potevano esserci Frattini o la Casellati…) e di SuperMario a palazzo Chigi.
Derby nero. Il tormento della destra italiana, divisa tra i pro e i contro Putin. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 25 Febbraio 2022.
Forza Nuova ha compiuto un’imbarazzante evoluzione da una posizione pro-Kiev a una pro-Cremlino, mentre Casa Pound vive un’altra contraddizione: formalmente è antieuropea, ma appoggia il desiderio dell’Ucraina di entrare nell’Unione. Per non parlare dei post cancellati da Meloni per riposizionarsi politicamente e il linguaggio pilatesco di Salvini
«Denazificare l’Ucraina» è l’obiettivo con cui Putin giustifica il suo attacco, e nell’appello con cui ha invitato i soldati ucraini a deporre le armi e tornare a casa ha detto: «i vostri padri e i vostri nonni non hanno combattuto per poter aiutare poi i neo-nazisti». E un Battaglione Azov che combatte per l’Ucraina ed è accusato di simpatie nazistoidi salta subito regolarmente fuori nei commenti sui Social dei residui sostenitori di Putin in Occidente.
Ora, negare che ci furono componenti del nazionalismo ucraino che collaborarono col nazismo è impossibile: sarebbe come negare che Stalin abbia fatto con Hitler l’alleanza che scatenò l’aggressione alla Polonia. Il punto, però, è che oggi queste accuse di nazismo sono fatte a un Paese il cui presidente Volodymyr Zelens’kyj è lui stesso ebreo. Tant’è che lo scorso ottobre il vice-presidente del Consiglio di Sicurezza Russo Dmitry Medvedev usò contro di lui toni antisemiti, in una lettera al giornale Kommersant dove spiegava che proprio in quanto ebreo il presidente ucraino era per definizione estremista, corrotto e sotto il controllo straniero.
Quindi, ripetere «l’Ucraina è un Paese nazista» significa dire «un Paese con un presidente ebreo ha come ideologia lo sterminio di tutti gli ebrei». Evidentemente, un assurdo in termini. L’errore, però, è di dare al termine nazista il senso che ha nella maggior parte delle lingue. Il politologo ucraino Visiting Fellow all’austriaco Institute for Human Sciences, uno dei più importanti esperti europei nel campo delle relazioni tra Putin e i movimenti populisti e autore di un testo fondamentale sui rapporti tra Putin e destra radicale, Anton Shekhovtsov ha infatti spiegato che «nella retorica risalente ai tempi dell’Urss fascista significa semplicemente nemico della Russia. Se un fascista diventa amico, allora cessa di essere considerato fascista. Per definizione».
Ciò spiega appunto una certa retorica, e anche un macabro paradosso illustrato in Ucraina La guerra che non c’è: libro pubblicato nel 2015 dai due corrispondenti di guerra italiani Andrea Sceresini e Lorenzo Giroffi dopo aver passato 40 giorni tra la Kiev post-Maidan e il Donbass in rivolta. All’inizio del libro, infatti, i due si imbattono in un fascista italiano. Un 52enne piemontese di nome Francesco e detto Stan, che porta al collo una runa di metallo, e che combatte con i miliziani del Pravy Sektor nel citato Battaglione Azov. «Da ragazzo stava in Avanguardia Nazionale con Stefano Delle Chiaie», racconta senza la minima remora. «Partecipare a una guerra ideologica è sempre stata la sua ambizione. ’Ho-cinquanta-due-anni’, ha cadenzato con lentezza come se ogni sillaba valesse un pugno di lustri. ’Se non ne approfitto ora, quando cazzo mi ricapita’».
Il libro iniziato con un italiano fascista finisce pure con un italiano fascista. Solo che il 35enne Andrea, lucchese col corpo pieno di tatuaggi inneggianti a Mussolini che legato a Forza Nuova tra anni ’90 e 2000 ha fondato uno dei gruppi ultrà più violenti della scena toscana combatte invece con i separatisti del Donbass. Convertito alla chiesa ortodossa e all’antifascismo, ma un «antifascismo russo» che «fa rima con patria, con tradizione», racconta di come i separatisti hanno iniziato ad armarsi saccheggiando i musei della Seconda Guerra Mondiale; ammette senza problemi che Mosca li appoggia: e canta Fabrizio De André per spiegare che in guerra bisogna uccidere senza pietà, per non fare «la fine di Piero».
Non solo Sceresini e Giroffi testimoniato queste oscillazioni della estrema destra italiana. Giornale on line chiaramente orientato su una linea di sinistra radicale e a sua volta simpatizzante per i ribelli del Donbass, Popoff Quotidiano nel settembre del 2014 aveva ad esempio già registrato una sorta di «derby nero in Ucraina: Casapound con Kiev, Forza Nuova con Putin».
Piuttosto che il cinismo dello stesso Putin nel servirsi dei fascisti, la denuncia era su «quali capriole e equilibrismi siano capaci i fascisti quando cercano di ingraziarsi un nuovo padrone». Secondo l’analisi, sarebbe stata CasaPound sulla vicenda ucraina ad avere una linea «coerente»: «pro Kiev e quindi Pro-Ue fin dall’inizio della vicenda, tolto il piccolo problema che in Italia invece Casapound è anti-Ue». E riferiva appunto di stetti contatti con il Pravy Sektor, a combattere col quale sarebbero andati noti militanti: «da Zippo camerata famoso per aver pestato dei militanti del Pd, a Francesco Saverio Fontana, arruolatosi nella squadraccia nera che è il battaglione Azov (famoso per la brutalità con cui opera contro la popolazione civile del Donbass) e tornato di recente in Italia, già in giro a fare propaganda pro nazi col gagliardetto del battaglione in bella vista».
Su Forza Nuova osservava che invece c’era stata un’evoluzione da una posizione pro-Kiev a una pro-Putin. Un «salto della quaglia» il cui imbarazzo sarebbe dimostrato «dal fatto che dal sito di Forza Nuova sono spariti gli articoli di rivendicazione degli incontri con Svoboda (salvo che i camerati si son dimenticati di togliere i link: ad esempio oppure questa commovente lettera del segretario Roberto Fiore ai camerati di Svoboda».
Proprio Popoff permette di identificare il citato Andrea in un Palmeri scappato da un regime di sorveglianza speciale nel luglio del 2014, e ricomparso nel Donbass «a combattere l’imperialismo americano». Era «capo di un gruppo ultras fascista, i Bulldog, famosi per aver fatto piazza pulita allo stadio di ogni traccia di colore rosso a suon di sprangate e scazzottate».
A Popoff sono comunque convinti che i ribelli del Donbass siano i «buoni». Nella loro analisi, «ovviamente Palmeri e Forza Nuova sanno benissimo che è difficile, se non impossibile, andare in giro a suon di saluti romani, celtiche e svastiche in una zona dove l’antifascismo è viscerale, profondo, una pregiudiziale perché tutti hanno bene impressa nella memoria la fatica immensa che fu la Grande Guerra Patriottica e mostrano fieri il nastro di San Giorgio. Così è plausibile pensare che Palmeri all’esercito del Donbass non la stia raccontando tutta». Ci pensano dunque loro a denunciarlo, per prevenire chiunque possa usare «questa vicenda per diffamare ulteriormente la Resistenza del Donbass, togliendo valore al sangue versato da quel popolo per la propria libertà contro l’aggressione imperialista di USA, UE e NATO».
La rivolta di Maidan è però del febbraio del 2014. E già nel settembre del 2013 il Fronte Nazionale di Adriano Tilgher aveva riempito Roma di manifesti «Io sto con Putin» dal fortissimo tono omofobo. Come spiegò lo stesso Tilgher, «Putin ha assunto posizioni coraggiose, contro la potentissima lobby gay che, con un’azione capillare, punta quasi a colpevolizzare chi omosessuale non è, e contro le centrali finanziarie mondiali che vogliono la guerra in Siria. Noi stiamo con Putin, senza se e senza ma: un attacco in Siria aprirebbe le porte a un conflitto mondiale e la posizione russa rappresenta un argine contro l’irresponsabilità di Obama e di tutti i guerrafondai». Risale invece al 4 dicembre del 2013 un’intervista di Roberto Fiore alla Voce della Russia in cui il leader di Forza Nuova esprimeva sostegno a Putin in chiave anti-immigrazione. Ma il 5 giugno 2008 Russia Today aveva invece definito lo stesso Fiore «un terrorista fascista pericoloso».
In Tango Noir Shekhovtsov attesta che Fiore tra 2012 e 2014 avrebbe tenuto il piede su due staffe: cercando di fare affari in Russia, tanto da incontrare il vice premier russo Arkady Dvorkovich all’International Business Forum Italia Russia; e nel contempo mantenendo i già citati rapporti con l’estrema destra ucraina. Ma quando il 20 dicembre 2014 Forza Nuova convoca a Milano una riunione di gruppi di estrema destra da tutta Europa per costruire quella che viene esplicitamente definita «un’alleanza strategica pro Putin» il movimento di Fiore vanta invece di avere con Putin «rapporti decennali».
Ex terrorista di Terza posizione condannato per banda armata, latitante a Londra e poi presidente della lega dei movimenti nazionalisti europei, Fiore nel novembre del 2013 ha promosso con sponsorizzazione russa un incontro sulla limitazione della libertà di espressione in Europa in chiave omofoba; dal 29 agosto al primo settembre 2014 è stato a un evento in Crimea, presentando un appello contro le sanzioni europee alla Russia; il 12 e 13 settembre 2014 ha a partecipato a Mosca a una due giorni di convegni sponsorizzati da Cremlino e Duma in difesa della famiglia tradizionale. Il 17 maggio del 2015 tornerà a Mosca a dire che la stessa Mosca «è la terza Roma», secondo lo slogan del nazionalismo russo.
Nel marzo 2015 ancora Fiore è stato tra i leader di dieci movimenti europei di estrema destra invitati a San Pietroburgo a un «Forum internazionale conservatore russo» patrocinato dal Cremlino. Con lui Luca Bertoni, un fedelissimo di Salvini che rappresenta l’associazione leghista Lombardia-Russia; e Irina Osipova, un’italo-russa già candidata alle comunali a Roma con Fratelli d’Italia. Un’inchiesta dell’Espresso nell’ottobre del 2017 collega questo evento a un giro di arruolamento di mercenari di estrema destra italiani per il Donbass, in cui ricompare il nome del solito Palmeri. Il servizio riassume: «un plotone di fascisti e di neonazisti italiani che combattono in Ucraina, schierati in prima linea contro il governo di Kiev sostenuto dalla Nato.
Ideologi ’rossobruni’, stranieri e nostrani, che teorizzano e sostengono la guerra anti-europea dei miliziani filorussi. Un istruttore di arti marziali che arruola mercenari nelle nostre città, per spedirli al fronte. Ex poliziotti congedati e militari reduci da altre guerre sporche. Una misteriosa imprenditrice della sicurezza con base tra Londra e Milano. Anonimi finanziatori russi che pagano i movimenti europei di estrema destra. E due reclutatori di casa nostra con radici politiche opposte: un neofascista e un comunista. Tutti uniti nel nome di Putin». Secondo un’indagine dei Carabinieri, gli italiani combattenti con i russofoni del Donbass sarebbero almeno 6. Sono arrestati nel 2018, su richiesta della Procura di Firenze. Per il governo di Kiev, sono almeno 25. Oltre a Palmeri un altro nome che viene fatto è quello del 33enne nolano Antonio Cataldo, ex-militare che nel 2001 aveva già fatto il mercenario in Libia per i Gheddafisti.
Anche L’Espresso ritiene che «la nuova ideologia divide dall’interno anche l’estrema destra. I vertici di Casapound, ad esempio, si sono schierati con il governo di Kiev. Ma in visita nel Donbass spuntano anche esponenti romani del movimento, come Alberto Palladino, detto Zippo. Militante che nel 2008 balzò agli onori delle cronache per aver partecipato all’aggressione degli studenti di sinistra a piazza Navona. E ora si occupa di esteri nella redazione del Primato nazionale, giornale online di riferimento del movimento di estrema destra». Quello stesso Zippo che, abbiamo visto, secondo Popoff stava invece con gli ucraini! Però appena un mese dopo il leader di CasaPound Simone Di Stefano appare anche lui passato con il Cremlino. «Siamo fascisti ma ci piace anche Putin», confessa.
Si va da Putin o da Trump?, gli chiedono. «Mi sono simpatici entrambi», è la risposta. «A Trump chiederei la chiusura delle basi Usa in Italia». E il 22 giugno del 2018, proprio nel giorno anniversario dell’attacco di Hitler all’Urss, CasaPound organizza una conferenza su Putin cui partecipano sia l’ideologo rosso-bruno Aleksandr Dugin sia quel Giulietto Chiesa che da dirigente del Pci famoso per il suo filo-sovietismo e corrispondente da Mosca per Stampa e Unità è diventato uno dei più famigerati complottisti italiani, a partire dalle sue teorie sull’attacco alle Torri Gemelle fatto dalla Cia (e non solo).
Nel novembre del 2017 L’Espresso ha poi fatto un’inchiesta sui finanziamenti di CasaPound e Forza Nuova in cui si cita la nostra Intelligence per spiegare che «in cambio dell’appoggio alla causa russa in Europa i movimenti estremisti avrebbero ’ricevuto sostegno economico’». Affermazioni in realtà generica e non suffragata da prove. «Anche Forza Nuova? Impossibile saperlo», riconosce l servizio. «Le informazioni raccolte da L’Espresso permettono tuttavia di descrivere alcuni legami economici che uniscono Fiore alla Russia», aggiunge. In più, si aggiunge che Fiore «per oltre cinque anni è stato proprietario di una società basata a Cipro, isola europea prediletta dai russi, che grazie al segreto bancario è da anni uno dei posti più in voga per chi vuole tenere riservati i propri affari.
Nell’ottobre del 2010 Fiore ha infatti aperto sull’isola la Vis Ecologia Ltd, società che si occupa ufficialmente di ’riciclo di materiali’, ma che ha caratteristiche insolite per un’azienda operativa: nessun dipendente, niente sito internet, la sede registrata presso gli uffici di uno studio di commercialisti. Le visure camerali dicono che l’impresa è stata registrata a Cipro ’per scopi fiscali’, ma è impossibile sapere se sui conti siano girati soldi dato che l’impresa non ha mai depositato un bilancio. Contattato da L’Espresso, il segretario di Forza Nuova non ha risposto alle richieste di chiarimento sull’attività della sua società cipriota».
Adesso, Giorgia Meloni prende una posizione nettissima. «Inaccettabile attacco bellico su grande scala della Russia di Putin contro l’Ucraina. L’Europa ripiomba in un passato che speravamo di non rivivere più. È il tempo delle scelte di campo. L’Occidente e la comunità internazionale siano uniti nel mettere in campo ogni utile misura a sostegno di Kiev e del rispetto del diritto internazionale». Sta su Facebook, da cui invece appare scomparso l’altro post con cui nel 2018 aveva fatto i suoi complimenti a Putin per la quarta elezione.
Lo stesso esercizio con cui dopo la recente svolta contro l’obbligo vaccinale ha cancellato i suoi Tweet anti no vax del passato, ma se non altro questa volta l’evoluzione è positiva. Spicca rispetto a quelle che appaiono come esitazioni di Salvini, e che si riflette peraltro nella spaccatura che c’è tra i sovranisti al Parlamento Europeo: filo-Putin quello dove sta la Lega, assieme a Marine Le Pen; anti-Putin quello dove sta Fratelli d’Italia, assieme al partito polacco di governo.
CasaPound attraverso il Primato Nazionale sembra chiamarsi fuori, dal momento che i contendenti «si danno dei nazisti a vicenda». Non sono reperibili al momento prese di posizione di Forza Nuova, dopo gli arresti seguiti all’assalto della Cgil.
Il richiamo della foresta talvolta è troppo forte. Grillini contro grillini: ecco chi sta ancora con Putin. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'1 Marzo 2022.
Il richiamo della foresta talvolta è troppo forte. Nel M5S l’ordine di scuderia è di abbandonare Putin, è vero. Ma le abitudini, si sa, hanno spesso la meglio. Così alla prima prova, al voto al Senato sull’invio di armi agli ucraini che stanno resistendo all’occupante russo, ecco che i ‘se’ e i ‘ma’ in casa grillina vengono a galla. E il caso del giorno è rappresentato da Vito Petrocelli, presidente della Commissione esteri del Senato. Lui proprio non ce la può fare, a dare le spalle a Vladimir Putin. E così votato contro la proposta di risoluzione della maggioranza alla quale anche il suo partito, il Movimento 5 Stelle, appartiene.
Il senatore Pd Andrea Marcucci lo stigmatizza: «È una presa di posizione gravissima». E il vicepresidente del gruppo di Forza Italia al Senato, Massimo Mallegni, non è da meno: «Petrocelli non è un senatore qualunque, è alla guida di una commissione che in questa particolare circostanza storica assume un valore anche simbolico molto importante. Delle due, l’una. O il ministro degli Esteri, Di Maio, anch’egli esponente dei 5Stelle, condivide le posizioni di Petrocelli e quindi si pone fuori dal Governo. Oppure non le condivide come crediamo. In questo caso deve pretendere le dimissioni di Petrocelli che ha dimostrato di non poter ricoprire un incarico così importante, votando contro la maggioranza di cui fa parte». Anni e anni di lealtà allo Zar di Russia non consentono a tutti facili giravolte.
Non ce la può fare nemmeno Gianluca Ferrara, esponente del Movimento a Palazzo Madama. «L’Europa unita, nata sulle macerie della seconda guerra mondiale, si deve mobilitare ancor di più per raggiungere un immediato cessate il fuoco. L’uso delle armi come deterrente e resistenza da parte occidentale, ha senso se bilanciato da una dichiarazione di conclusione storica dell’espansionismo della Nato verso Est». Se oggi c’è la guerra è perché Putin ha perso la ragione, sostiene l’Europa. Ma Ferrara non è d’accordo: «Se oggi c’è la guerra è perché la politica ha fallito. Quando le pallottole prendono il posto delle parole è perché c’è stato un cortocircuito comunicativo. Questo è un momento decisivo per la storia europea, è un’occasione per dimostrare la forza, la civiltà, l’unità e la capacità di parlare con un’unica voce e con un’unica strategia. Questa voce però, a mio avviso, deve essere quella della pace. L’istinto spinge a reagire subito con aggressività, ma la ragione ora suggerisce prudenza e saggezza, come la Costituente ha previsto con il citato articolo 11».
Su La Notizia, quotidiano molto apprezzato nell’area pentastellata, la scelta di campo non si discosta dalle origini. “Guerra nata sul nulla. Ma il paese guidato da Zelensky non è nelle condizioni di entrare nella Ue e nella Nato”. E il fondatore, il garante? Da Genova, la guerra sembra lontana. Beppe Grillo tace. Ma sul Blog delle Stelle rimane, granitico, il post di Manlio Di Stefano datato 2016: «Fuori l’Italia dalla Nato», diceva. Una presa di posizione che varrà il premio di un biglietto per due, nel 2017, quando Di Stefano e Di Battista volano a Mosca su invito di Putin. Nel marzo 2017 fu invitato dal Cremlino per partecipare al congresso di Russia unita, il partito di Putin. Congresso che si concluse con le immancabili foto di rito con i bracci destri putiniani: Robert Shlegel e Sergey Zheleznyak. «Evidentemente in Russia hanno già capito che siamo prossimi al governo — sottolineò con soddisfazione — se ci danno tutto questo peso e hanno apprezzato un lavoro onesto e sincero in questi due anni contro le sanzioni imposte dalla Ue». Fuori dal Movimento c’è l’ex Gianluigi Paragone che può proseguire serenamente a dirsi putiniano: ha votato contro la risoluzione del Parlamento. Un “fermo sostegno” all’attacco russo contro l’Ucraina è stato espresso oggi dal presidente venezuelano Nicolas Maduro.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Andrea Parrella per fanpage.it il 2 marzo 2022.
Rischiano di far discutere le dichiarazioni del Ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, pronunciate nel corso della puntata di DiMartedì del 1 marzo. Il numero uno alla Farnesina è intervenuto nel corso della trasmissione di Giovanni Floris per gli ultimi aggiornamenti sulla guerra in Ucraina, che da una settimana ormai tiene gli occhi del mondo puntati sul cuore dell'Europa.
L'intervento di Di Maio a DiMartedì
A margine di un lungo intervento del Ministro, il conduttore chiede a Luigi Di Maio quale via d'uscita venga lasciata a Putin dopo la presa di posizione ferma dell'Unione Europea, che nelle scorse ore ha deciso per la prima volta nella sua storia di stanziare importanti somme in armamenti per aiutare l'Ucraina nel conflitto contro la Russia.
"In Italia un proverbio popolare dice che quando picchi il cane devi lasciarti la porta della stalla aperta, perché devi dargli la possibilità di scappare, quale possibilità viene offerta a Putin?". Di Maio si ferma alla metafora e risponde così: "Io sono animalista e penso che tra Putin e qualsiasi animale c'è un abisso, sicuramente quello atroce è lui".
La polemica tra Di Maio e il Ministro degli Esteri russo
Inconvenienti della diretta, si direbbe, se non fosse che le parole di Di Maio paiono essere in chiara continuità con la posizione più che ferma espressa dal Ministro degli Esteri, ormai una settimana fa, a poche ore dopo l'invasione russa in Ucraina, quando aveva affermato di non voler incontrare gli omologhi russi finché non si sarebbe registrata una retromarcia in Ucraina.
“Una strana idea di diplomazia”, avevano commentato dal dicastero di Mosca, con il ministero degli Esteri russo che aveva osservato come la diplomazia “è stata inventata solo per risolvere situazioni di conflitto e alleviare la tensione, e non per viaggi vuoti in giro per i Paesi ad assaggiare piatti esotici ai ricevimenti di gala”. “I partner occidentali devono imparare a usare la diplomazia come professione”, aveva aggiunto in quell'occasione il ministero degli Esteri russo.
MARIO AJELLO per il Messaggero il 2 marzo 2022.
Tutti uniti, ma non proprio tutti. Se Fratelli d'Italia si allinea al governo, all'insegna dell'«opposizione patriottica» (anche della patria degli ucraini) e il Senato e la Camera (con 244 voti favorevoli a Palazzo Madama, 13 contrari e 3 astenuti) approvano la risoluzione multipartisan in difesa del Paese invaso dai russi, c'è anche qualcuno che stecca nel concerto dell'unanimità. I dem sono inviperiti contro Salvini: «Riesce a parlare per oltre dieci minuti senza mai pronunciare due parole: Russia e Putin. A riprova che i vecchi amori non si scordano mai...».
Però il capo leghista arriva a concedere che «c'è un aggressore e un aggredito» e «noi abbiamo il dovere di stare con gli aggrediti». Dei leghisti solo Carlo Doria si astiene nel voto, ma tra i sette salvinisti assenti ci sono anche pezzi grossi come Armando Siri. Il Carroccio se la cava così, secondo la linea del leader: «Se si risponde alle bombe con le bombe non si sa mai dove va a finire». Ovvero, votano sì per non creare problemi ma sono poco convinti i leghisti di inviare armi agli ucraini. Ed è evidente la differenza con l'altra destra, quella di FdI. Adolfo Urso e Ignazio la Russa parlano di «azzardo di Putin».
Forza Italia è anti-putianina doc. Non solo nel voto in Italia, ma Berlusconi - che finora era stato zitto sull'amico Putin definito a suo tempo «un vero liberale», ieri ha votato da remoto, cioè da Arcore, al Parlamento di Bruxelles la risoluzione Ue che condanna la Russia per l'attacco all'Ucraina. E c'è chi lo ha sentito dire: «Non riconosco più il mio amico Vlad, che è sempre stato uomo di pace». Tutti insomma sulla linea di Draghi, anche se 16 senatori hanno votato in dissenso e 14 di loro sono pasdaran ex grillini di Alternativa più Paragone di Italexit. Alla Camera, spicca tra le 12 astensioni (2 stellati, Fassina e altri due di Leu e gli altri del Gruppo Misto) quella di Laura Boldrini, ex presidentessa di Montecitorio.
Ma il problema è nei 5 stelle. «Temevamo peggio», minimizzano gli uomini di Conte. La defezione di Vito Petrocelli è pesante, perché è il presidente della Commissione esteri del Senato. Ha votato no alla risoluzione unitaria, ed è subito partito il pressing da parte di un pezzo del Pd più Forza Italia e Italia Viva per farlo dimettere da questo ruolo cruciale. «Io l'avevo detto, mandare le armi è sbagliato e ho votato di conseguenza», è quanto dice Petrocelli, che viene dalla sinistra-sinistra. Vari suoi colleghi (Coltorti, Girotto, L'Abbate, Pesco, Quarto) erano assenti nel voto. C'è chi se la cava così: «Avevo chiesto il congedo per un impegno familiare. E questo mi ha evitato una decisione difficile», spiega L'Abbate.
MAL DI PANCIA La stessa capogruppo, Mariolina Castellone, non ha nascosto i suoi dubbi: «Votiamo sì, ma è una scelta compiuta con un grande dolore». Il caso Petrocelli è il più scottante. In una chat M5S, l'ex reggente Crimi si sarebbe stupito per le mancate sanzioni nei confronti del collega: «Ma come è possibile che si possa lasciare libertà di voto su una risoluzione così?». Difficilmente però ci saranno azioni disciplinari contro Petrocelli perché, come viene sottolineato dai vertici del gruppo M5S, «questo sull'Ucraina è stato un voto su una risoluzione, non un voto di fiducia al governo». Ma non è escluso che nelle riunioni dei prossimi giorni i critici verso Petrocelli - e nell'ala Di Maio ce ne sono assai - tornino alla carica per chiedere le dimissioni.
Poi a Montecitorio ha parlato la Meloni, ha aperto a Draghi ma ha voluto puntualizzare riguardo alla sinistra: «Noi guardiamo la politica estera dal punto di vista di un unico padrone, cioé l'Italia. Non abbiamo mai voluto vincere il premio di chi era il più atlantista, di chi era il più gradito alle cancellerie europee o piuttosto di chi era il miglior amico di Putin, come piace fare ad altri qua dentro». Unità. Ma durerà?
Conte tra Draghi e Putin. Dietro i distinguo e i dissensi grillini sull’Ucraina c’è il leader fortissimo di tutti i progressisti. Mario Lavia su L'Inkiesta l'1 marzo 2022.
Il leader dei Cinquestelle condanna con durezza l’attacco russo, ma dietro le quinte, secondo quello che raccontano i suoi detrattori, lavora per contrastare la decisione del governo di fornire un sostegno a Kiev
Dietro i distinguo e i dissensi che circolano nel M5s sulla questione dell’invio di armi all’Ucraina, e poi in generale sulla linea dura del governo Draghi, c’è lui, Giuseppe Conte, un recente passato denso di feeling con Vladimir Putin, la guida del governo gialloverde con dentro Matteo Salvini (estimatore massimo del dittatore russo), Elisabetta Trenta ministra della Difesa, e peccato che saltò Paolo Savona grazie a Sergio Mattarella. Il M5s era (anche) quello di Manlio Di Stefano, adesso convertito alle posizioni odierne di Luigi Di Maio, che con Alessandro Di Battista erano personaggi che andavano a Mosca in cerca di autore, cioè di sostegno politico.
L’avvocato in questi giorni non ha potuto che condannare Mosca (ieri ha incontrato il premier confermando appoggio al governo) ma c’è il forte sospetto che dietro le quinte abbia alimentato le distanze dalla linea di Draghi e Di Maio, guarda caso i due esponenti che più detesta, il primo lo ha sostituito a palazzo Chigi malgrado i tentativi di arruolare i vari Ciampolillo, il secondo lo ha contestato apertamente per la condotta ambigua tenuta dall’ex premier nella vicenda del Quirinale, quando in effetti brigava per Franco Frattini per tacere della vicenda ancora poco chiara della candidatura di Elisabetta Belloni. E a proposito del ministro degli Esteri è assai probabile che abbia indurito i toni («Il nemico non è la Russia, è Putin») anche per approfondire il solco con il decaduto presidente del M5s.
Ieri nelle varie chat grilline sono circolati messaggi strani. Anche in quelle destinate ai giornalisti. A quanto pare in uno di questi Rocco Casalino avrebbe inviato un segnale ostile al governo alla risoluzione che verrà votata oggi dal Parlamento, messaggio subito cancellato e sostituito con uno favorevole: forse ne aveva preparati due diversi. Un piccolo “giallo” che alimenta l’idea della confusione contiana. L’house organ di Conte diretto da Marco Travaglio è scatenato sulla linea “comprensiva” delle presunte ragioni di Putin, una delle sue firme “eccellenti”, Barbara Spinelli, figlia di uno dei massimi costruttori dell’europeismo, è stato positivamente ripreso dall’ambasciata russa a Roma, per dire.
E c’è malessere anche e soprattutto sul decreto varato nel pomeriggio con il voto favorevole dei ministri grillini che garantisce, previa autorizzazione delle Camere, «la cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari alle autorità governative dell’Ucraina». Si tratta di un provvedimento complesso i cui contenuti costituiranno l’ossatura del discorso che oggi Draghi terrà in Parlamento e la risoluzione che alla fine verrà approvata pressoché all’unanimità. È un decreto di importanza capitale: l’Italia è in campo, e dalla parte giusta.
Le armi che l’Italia dovrebbe mandare in Ucraina sarebbero sistemi anticarro e antiaereo, mitragliatrici leggere e pesanti e mortai. Strumenti, secondo gli esperti militari, utili in un contesto di conflitto urbano e di resistenza, dove è necessario avere a disposizione armi di facile trasporto e utilizzo. Come ad esempio i missili anticarro o degli Stinger antiaerei a infrarossi.
Ma da Conte-Casalino erano comunque partiti segnali arrivati non all’ultima ruota del carro ma al presidente della commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, che ha annunciato voto contrario al decreto quando arriverà in Aula. Ma è chiaro che si tratta di un messaggio – e questo è ancora più importante – ai grillini “pacifisti” che oggi dovranno votare la risoluzione parlamentare. Ovviamente si tratterebbe di un piccolissimo dissenso dinanzi a una enorme maggioranza, dato che il documento, che sintetizzerà il discorso del presidente del Consiglio, verrà votato da tutta la maggioranza e probabilmente anche da Giorgia Meloni.
C’è dunque come un doppio livello, se così si può dire: quello costruito da Draghi (e Enrico Letta), vale a dire la linea intransigente contro la Russia, che ufficialmente ha l’unanimità di tutti i partiti; e un secondo livello, visibile ma ufficialmente inespresso, che fa riferimento a Conte e Salvini, “padri” di una linea molto meno netta per non dire ambigua che si trincera dietro formulazioni evidentemente assurde (la contrarietà all’invio di “armi letali”, come se esistessero armi innocue) e una “prudenza” da finti statisti che in realtà maschera la volontà di tenere aperto un canale empatico con il Cremlino. Ma Draghi va avanti, e il Parlamento è con lui.
Sebastiano Messina per “la Repubblica” l'1 marzo 2022.
Grande agitazione nella Lega per un accordo firmato da Salvini nel 2017 con il partito di Putin che prevedeva uno scambio «confidenziale» di informazioni e il rinnovo automatico - tra pochi giorni - per altri cinque anni, come una polizza assicurativa. Non si riesce a trovare la disdetta, e ora si teme che i russi applichino il bonus malus.
Mattia Feltri per “La Stampa” l'1 marzo 2022.
Matteo Salvini (per il quale contro gli immigrati «i confini ci sono e vanno difesi anche con le armi», per il quale «l'Isis è equiparabile al nazismo e quindi lo si combatte con le armi, sennò che cosa facciamo: gli mandiamo la Boldrini a dialogare?», per il quale «in Siria e in Libia serve l'intervento militare e chi dice di no è un senza palle: con i tagliagole bisogna intervenire militarmente e massicciamente», per il quale «il modello è la Svizzera dove un cittadino su due è legittimamente armato e dove ogni cittadino ha la possibilità di difendersi», per il quale «servirebbero quattro mesi di servizio militare per insegnare ai nostri ragazzi l'uso delle armi», per il quale «se io vengo aggredito o minacciato nella mia azienda, nel mio negozio, nella mia casa ho il diritto di difendermi», anche con le armi perché «la difesa è sempre legittima», per il quale «se ti trovi una o più persone in casa alle tre di notte, mascherate, sono a casa tua e violano la proprietà privata, che cosa fai prima di sparare, gli chiedi se hanno una pistola?», per il quale se spari a un rapinatore «e se il rapinatore ci rimane, nella prossima vita farà un altro lavoro», per il quale «se si ha il porto d'armi è normale andare in giro armati e difendersi», per il quale «il Papa sbaglia a dialogare coi terroristi, questa è una vera guerra, è un'occupazione militare: rispondere con tolleranza e buonismo è un suicidio») dice che per aiutare l'Ucraina invasa dai carrarmati di Vladimir Putin non servono le armi ma la via del Santo Padre: confronto, dialogo e una preghiera rivolta al cuore immacolato di Maria.
DA SALVINI A GIUSEPPE CONTE. Gli ex filoputiniani pentiti che ora tacciono o si ricollocano sulla crisi Ucraina. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 23 febbraio 2022.
Anche in Italia in passato il presidente russo ha raccolto parecchie simpatie, soprattutto nel campo gialloverde.
A trovare ancora qualcuno nella politica italiana che oggi sia dalla parte di Vladimir Putin, dopo la sua decisione di riconoscere le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk si fa fatica. Certo, restano alcune sicurezze, come Mario Borghezio, eurodeputato della Lega, che ieri ha detto che Putin è soltanto «un sovranista che difende lo spazio vitale russo».
Anche Alessandro Di Battista, ex parlamentare del Movimento 5 stelle ridimensiona la portata dell’intervento russo. Perlomeno evita di parlare di «spazio vitale», ma spiega che «la Russia non sta invadendo l’Ucraina. Ieri la Russia in una fase di stallo dei negoziati, si è limitata a formalizzare l’esistenza (dunque riconoscere) di due repubbliche separatiste e russofone».
Spariti invece tanti altri di quelli che una volta erano grandi sostenitori del presidente russo, sparsi soprattutto nell’universo gialloverde. Una prova tangibile della simpatia di Cinque stelle e Lega era emersa già dal contratto di governo tra i due partiti, che prevedeva un impegno per la revisione delle sanzioni già in essere nei confronti della Russia nel 2018.
MATTEO SALVINI
Uno dei sostenitori più accesi di Putin era sicuramente il leader della Lega. Il suo profilo Facebook conserva ancora diversi omaggi al presidente russo della scorsa legislatura, quando Salvini scriveva cose come «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!» accanto a una foto che lo immortala con indosso una t-shirt con la fotografia del presidente sopra la camicia. Siamo nel 2015.
Risale invece all’anno precedente una fotografia in cui stringe la mano proprio a Putin e scrive: «Nel 2014 si dialoga, non si minacciano guerre e sanzioni».
Salvini rilancia la foto anche nel 2017, in cui chiede ai follower: «Secondo me Renzi non vale neanche un mignolo del presidente russo. Secondo voi?»
Oggi, Salvini è stato a lungo in silenzio, ma alla fine si è cautamente espresso sulle sanzioni alla Russia: «Se fossero necessari degli interventi per carità. La domanda è: quanto sono servite le passate sanzioni? Quanto hanno risolto? Quanto sono costate all’Italia e alle aziende italiane? Bisogna abbassare tutti i toni... Spero non ci sia nessuno che tifi per la guerra».
Salvini ha anche auspicato che continui il dialogo: «Spero che il presidente Draghi faccia di tutto per evitare il conflitto e vada sia a Kiev che a Mosca. La cosa curiosa è che se andassi io a Mosca partirebbero 18 inchieste».
LUIGI DI MAIO E GIUSEPPE CONTE
Il ministro degli Esteri nelle ultime ore ha espresso ampio impegno nella mediazione e ha subito attribuito alla Russia la responsabilità di un potenziale conflitto.
Marcello Sorgi per “la Stampa” il 2 marzo 2022.
No, non sarà certo la ribellione del presidente della commissione Esteri del Senato Petrocelli, un pentastellato che non rinnega la propria matrice "maoista", a inficiare la larghissima maggioranza con cui ieri a Palazzo Madama è stata approvata la risoluzione con cui si approva la linea del governo - sanzioni alla Russia e armi all'Ucraina - illustrata da Draghi alle Camere. La novità è semmai l'aperto sostegno alla risoluzione dato da Fratelli d'Italia, su impulso di Meloni, di ritorno dal suo viaggio in Usa.
Un altro colpo messo a segno dalla leader di FdI, che si distingue dalle incertezze e dalle ambiguità di Salvini, in dubbio fino all'ultimo sulla solidarietà a Zelenski e sull'abbandono della sponda per lui amica di Mosca. Meloni ha invece approfittato dell'occasione per ribadire la nuova collocazione sua e del suo partito: conservatori, sì, ma in una cornice europea e atlantista. Questo vuol dire che la leader di FdI, favorita dai sondaggi e che come si sa punta a Palazzo Chigi in caso di vittoria alle prossime elezioni, ritiene che la strada per arrivarci sia nell'ambito dell'attuale collocazione internazionale dell'Italia.
E che lo sconvolgimento globale portato dall'invasione russa dell'Ucraina non possa essere tale da determinarne un capovolgimento. Il discorso di Draghi è stato il più politico tra quelli svolti finora da quando siede a Palazzo Chigi. Ha inquadrato il momento con un drammatico paragone con il 1939 e presentato l'aggressione russa a Kiev come un attentato agli oltre settant' anni di pace vissuti dall'Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale.
E ha confermato il piano di progressivo affrancamento dalle forniture di gas di Mosca, che rappresentano tuttora il 45 per cento del fabbisogno italiano: liberarsi da una dipendenza come questa, ha spiegato, è una questione di libertà. Il voto al Senato, poi replicato alla Camera, è avvenuto nelle stesse ore in cui, quasi all'unanimità, l'Europarlamento diceva "sì" all'ingresso dell'Ucraina in Europa. Coincidenza positiva.
Russia, le giravolte del sottosegretario Di Stefano (M5S). Ieri: «Ucraina fantoccio Nato». Oggi: «Sì alle sanzioni a Putin». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2022.
L'esponente del governo Draghi si batteva contro le sanzioni Ue dopo l'invasione della Crimea. Nel 2017 volò a Mosca per rafforzare i rapporti con gli amici russi. Oggi rivendica le misure contro banche e oligarchi.
Manlio Di Stefano (M5S) con Alessandro Di Battista nel marzo 2017 con Robert Shlegel e Sergey Zheleznyak, i vertici di Russia unita, il partito di Putin
Il sottosegretario agli Esteri Manlio Di Stefano (M5S), nel 2016, definiva l’Ucraina «uno stato fantoccio della Nato». Ieri, davanti ai senatori del suo partito, ha invece annunciato: sì alle sanzioni alla Russia, in linea con tutto l’Occidente, e 110 milioni di aiuti alla popolazione ucraina. Nel marzo 2017 fu l’unico politico italiano, con Alessandro Di Battista, a volare verso il Cremlino per partecipare al congresso di Russia unita, il partito di Putin . Con tanto di foto assieme ai bracci destri putiniani: Robert Shlegel e Sergey Zheleznyak. «Evidentemente in Russia hanno già capito che siamo prossimi al governo — sottolineò con soddisfazione — se ci danno tutto questo peso e hanno apprezzato un lavoro onesto e sincero in questi due anni contro le sanzioni imposte dalla Ue».
Quando Putin invase la Crimea, il medesimo Di Stefano, per la cronaca sostenuto anche dall’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, si era detto totalmente contrario alle sanzioni dell’Occidente anti Cremlino. «Crediamo che sia importante ristabilire un contatto tra l’Italia e la Russia — dice va —. Noi andremo lì a ristabilire questi contatti, a fare quello che il nostro governo non è in grado di fare», affermò Di Stefano all’agenzia Sputnik. Ieri il sottosegretario, sempre davanti ai senatori grillini, ha rivendicato misure contro banche, imprese e depositi degli oligarchi nel mirino insieme al blocco degli export, in linea con tutto il mondo occidentale. Sono innumerevoli le giravolte del sottosegretario agli Esteri, che sui rapporti tra il Movimento Cinque stelle e la Russia, dopo aver lavorato per anni alla costruzione di un asse con il Cremlino, con l'inizio della guerra in Ucraina (facendo parte del governo Draghi) ha ribaltato le proprie posizioni.
Quanto al fatto che il M5s non sia andato a manifestare davanti all'ambasciata russa, nella galassia pentastellata viene riferito che questo «non è il momento delle sciabole» ma «di trovare un dialogo con tutti».
Per non dimenticare Putin ha invaso anche la politica italiana, vediamo di ricordarcelo alle prossime elezioni. L'Inkiesta il 24 Febbraio 2022.
La maggioranza degli eletti di questa legislatura ha chiesto e ottenuto voti per uscire dall’Euro, per demolire l’Europa e per attuare i piani geopolitici del Cremlino. I rapporti di Cinquestelle e Lega con Mosca, e con Trump, più la sfilata militare russa sulle autostrade italiane, le balle su Sputnik e Di Maio che firma le sanzioni sull’uomo che ha nominato Cavaliere.
Piccolo promemoria per ricordarci con chi abbiamo a che fare in un momento delicato come questo, qui in Italia, non in Russia.
La maggioranza degli eletti in questa legislatura, ripeto: in questa legislatura ancora in corso, ha chiesto e ottenuto i voti degli elettori per uscire dall’Euro, per destabilizzare le istituzioni europee e per un’alleanza strategica con Vladimir Putin, signore di tutte le Russie e anche di molti partiti italiani.
Alcuni di questi partiti, in particolare quello di maggioranza relativa fondato da un comico e da un teorico del superamento della democrazia parlamentare, si sono spinti fino a chiedere formalmente di uscire dalla Nato, oltre che dall’Europa, e a farsi dettare punto per punto la politica estera dal Cremlino, dopo ripetuti viaggi in Russia e annunci di visite apologetiche nella Crimea sotto assedio dei carri armati di Putin.
Nella notte precedente la nascita del governo Conte uno, il più grottesco della storia repubblicana, le parti più imbarazzanti del programma di politica estera sono improvvisamente scomparse dai server grillini, consentendo una più serena ascesa dei Cinquestelle al potere. Tanto che Luigi Di Maio è diventato vicepremier e poi due volte ministro degli Esteri, mentre il suo russofilo più fidato, Manlio Di Stefano da Palermo, ha occupato stabilmente la Farnesina come sottosegretario.
Di Stefano, oltre che per i viaggi a Mosca con Alessandro Di Battista per applaudire l’invasione russa della Crimea, va ricordato anche per una tragicomica visita in Kazakistan in stile Borat, per la passione con cui si è battuto a favore dello smantellamento delle sanzioni a Putin e l’indebolimento della Nato, ma anche per lo struggimento che prova ogni volta che si avvicina a un regime dittatoriale, dalla Siria di Assad al Kazakistan di Nazarbaev, tutti grandi amici di Putin, fino a una leggendaria celebrazione dei «profondi legami di solidarietà e amicizia» che legherebbero l’Italia alla Bielorussia (paese che deve aver scambiato per chissà quale altro, come del resto aveva confuso il Libano con la Libia e poi spiegato che l’Italia non ha mai avuto un passato coloniale né ha mai bombardato una nazione straniera, da vice ideale alla Farnesina di Luigi Di Maio, il ministro degli Esteri che incontrava fascisti in giro per l’Europa e sosteneva con particolare passione quelli in gilet giallo che assaltavano i ministeri di Macron, salvo poi chiedere scusa alla «millenaria democrazia francese»).
Insomma sono questi qui, utili idioti di Mosca, e senza necessariamente aprire il capitolo Di Battista per non essere costretti ad allargare l’infatuazione grillina per i dittatori anche ai regimi sudamericani.
Restiamo alla Russia e agli interessi geopolitici della banda criminale del Cremlino. L’altro partito centrale di questa legislatura è la Lega di Matteo Salvini, antesignana della politica anti italiana contro l’Europa e da sempre supinamente sdraiata sulla Piazza Rossa e sui divanetti dell’Hotel Metropol di Mosca, fino al punto da aver firmato solennemente un accordo politico con Russia Unita, il partito più unico che raro di Vladimir Putin.
Lasciamo perdere per un momento la produzione industriale russa di fake news e l’ingegnerizzazione della menzogna da parte degli apparati del Cremlino a favore dei due partiti populisti italiani, perché il punto centrale di questa storia è che la nascita del governo Cinquestelle-Lega è stata una specie di annessione pacifica dell’Italia al campo antioccidentale degli agenti del caos, sublimata nei grandi ricevimenti romani in onore di Putin.
Senza dimenticare che erano comunque rimasti fuori dal governo, certo non per contrarietà a questi temi, i neo, ex, post fascisti di Fratelli d’Italia. E, certo, anche i berlusconiani sodali di Putin, anche se va riconosciuto che a Pratica di Mare, ai suoi tempi, Berlusconi si era agitato per portare Putin alla Nato, non per portare la Nato a Putin.
Sventati i pieni poteri al Papeete (una tragedia epocale evitata per un soffio: immaginate l’effetto di un governo sovranista e anti europeo nel pieno di una crisi pandemica da cui ci ha tirato fuori l’Europa), il Conte due si è presentato al mondo consentendo al ministro della Giustizia di Donald Trump, altro sodale del Cremlino e dei Putin Boys italiani, di interrogare i vertici dei nostri apparati di sicurezza per cercare le prove di un fantomatico complotto ucraino per delegittimare l’allora presidente americano. Naturalmente era un’invenzione del Cremlino per buttare in caciara lo scandalo del Russiagate in America, ovvero le manovre russe per favorire l’elezione di Trump alla Casa Bianca, ma Conte e compagnia, compresi grotteschi giornali salviniani, si sono offerti e prestati con solerzia alla bisogna.
Nel 2020, durante il primo lockdown per il Covid, c’è stata una delle pagine più raccapriccianti della nostra diplomazia: per la prima volta nella storia, soldati e mezzi pesanti russi hanno scorrazzato sul suolo italiano e tra gli applausi del governo.
Grazie a Conte e Di Maio, un paese della Nato ha fatto atterrare dodici aerei militari e permesso lo sbarco dell’esercito russo, peraltro utilizzando strutture dell’Alleanza atlantica, con un centinaio tra generali, colonnelli, maggiori e tenenti maggiori impegnati in passato in teatri bellici e guidati da quel generale Sergei Kikot che altri non è se non l’uomo del Cremlino che in Siria è riuscito a scagionare il dittatore Bashar Assad sull’uso delle armi chimiche contro la sua popolazione.
Questi bravi ragazzi putiniani hanno fatto una parata militare sulle nostre autostrade vuote, in colonna da Roma fino a Bergamo, mentre gli italiani erano chiusi in casa, e nonostante l’ottanta per cento delle forniture russe fosse totalmente inutile, come raccontato allora da Jacopo Iacoboni sulla Stampa.
Il governo era quello giallorosso, ma attenzione perché a rivendicare l’operazione fu anche il leghista Paolo Grimoldi, il quale aveva chiesto l’aiuto ai russi per la situazione disperata in cui si trovava l’Italia, rivolgendosi via whatsapp ai nazi tedeschi di Afd, Alternativa per la Germania, per intercedere presso i russi. Poi c’è la questione incredibile del vaccino Sputnik, per il quale la Russia non ha mai chiesto l’autorizzazione alle agenzie del farmaco internazionali, ma su cui i leghisti e non solo loro hanno fatto campagna vendita come se fossero agenti marketing di Mosca, accompagnata dall’amplificazione di ogni tipo di dubbio sull’efficacia e dì fake news sulla pericolosità dei vaccini occidentali regolarmente approvati e somministrati.
Infine, sempre con Di Maio protagonista, c’è il capitolo più recente delle onorificenze di Stato, di Stato italiano, agli amichetti di Putin. A gennaio del 2021,«su proposta del ministro degli Affari Esteri» è stata conferita l’onorificenza dì Commendatore dell’Ordine della Stella d’Italia, con facoltà di fregiarsi delle insegne dell’ordine, a Evtukhov dott. Viktor Leonidovich e a Kostin dott. Andrey Leonidovich, rispettivamente il sottosegretario di Stato al ministero dell’Industria e Commercio Estero della Federazione russa e un banchiere e oligarca accusato di corruzione da Alexei Navalny. L’anno precedente, invece, sempre su proposta del capo della Farnesina, era stata conferita l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce al primo ministro russo Mikhail Mishustin e al ministro dell’Industria e Commercio Estero Denis Manturov.
Per chiudere in farsa, il caso del banchiere Kostin, Commendatore su proposta di Di Maio, è emblematica. Oggi Kostin è nella lista nera dei sanzionati dell’Unione europea, in seguito alle aggressioni russe, e naturalmente è stato Di Maio a controfirmare la decisione della Ue di inserire Kostin nella lista nera. Lo stesso Di Maio che lo ha proposto Commendatore e che guida, diciamo così, la nostra diplomazia.
Schierarsi con Nato e Ue è da sovranisti. Marco Gervasoni il 24 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Pare che non tutti si stiano rendendo conto di quanto sta avvenendo. Sta crollando il mondo post 1989 e l'ordine che da lì si era costituito.
Pare che non tutti si stiano rendendo conto di quanto sta avvenendo. Sta crollando il mondo post 1989 e l'ordine che da lì si era costituito. Chi pensava che, con la fine di Trump, sarebbe ritornato il multipolarismo, si è dovuto ricredere: Trump era un sintomo della fine, non la sua causa. Ora in questo nuovo mondo, in cui il principio della forza prevale, è chiaro che spadroneggiano i regimi autoritari come quello russo e paratotalitari come quello comunista cinese. La situazione è molto più grave rispetto alla già esecrabile guerra in Crimea: allora un blocco sino-russo non si era ancora consolidato e le mire imperiali russe non ancora così evidenti. Perciò oggi è importante per l'Italia restare al di là della nuova ideale cortina di ferro che si sta formando: con la Nato e con l'Unione europea che, nonostante la loro debolezza, sono destinate, di fronte alla minaccia della egemonia neo orientale, a diventare più solide. Tutto questo comporta mutamenti importanti nello scenario politico: da sempre, e soprattutto nell'età contemporanea, l'ordine esterno determina in maniera quasi draconiana quello interno. Così come durante la guerra fredda vi era uno spazio di legittimità politica, che escludeva i comunisti in quanto parte del campo nemico, oggi si sta creando una nuova area di legittimità, che ha nella adesione ferrea, senza ambiguità e condizioni, alla Nato e alla Ue, il suo primo credo. Chi è fuori da quest'area, rischia di non governare mai. Questo pone un grande dilemma ai sovranisti, critici verso la Ue e pure verso la Nato. Se già negli anni scorsi l'anti europeismo aveva reso problematica la loro presenza al governo, oggi è impossibile immaginarvi qualcuno che dimostri comprensione per Putin; quella che stanno manifestando, con la loro ambiguità, diversi esponenti della destra sovranista europea, a cominciare da Marine Le Pen. Insomma un conto è Berlusconi, peraltro intrattenente rapporti con un Putin allora più liberale, che possiede un pedigree democratico intangibile e membro autorevole del Ppe, altra cosa Salvini. Da cui ci aspettiamo una più netta e radicale condanna dell'espansionismo russo. Quanto a Giorgia Meloni, pure più decisa del leader leghista nel definire Putin, si accorgerà in questi giorni, ospite dai Repubblicani americani, come essi giudichino Biden non troppo interventista ma troppo poco, e come essi condividano con il presidente americano e con la Nato il senso della missione contro il neo espansionismo russo. Non si tratta solo di interesse nazionale: o meglio sì, nel senso che essere fedeli a Ue e Nato è oggi, ancor più di ieri, il modo migliore, o forse il solo, di difendere l'interesse della nazione. Marco Gervasoni
Estratto della biografia di Vladimir Putin, raccolti da Giorgio dell’Arti per “Oggi” il 3 marzo 2022.
Matteo Salvini (1973) Segretario della Lega. Ministro dell’interno nel primo governo Conte (2018-2019)
Saputo che Putin aveva aperto una linea di credito di 9 miliardi in favore di Marine Le Pen (novembre 2014) dichiarò che un po' di soldi russi avrebbero fatto comodo anche a lui.
La strategia di Putin nei finanziamenti ai partiti europei era chiara: aiutare le formazioni politiche anti-euro dovunque fossero, in modo da destabilizzare i nemici annidati a Strasburgo e Bruxelles. Putin li considera nemici perché hanno accolto nella Ue e nella Nato Lituana, Estonia e Lettonia, e hanno poi tentato di prendersi pure l'Ucraina. La Lega è contraria alle sanzioni, che, dice, costano più a noi che a loro, e appoggia in genere la linea putiniana in Ucraina, sì alla Crimea russa, sì alle legittime aspirazioni dei russi d'Oriente
La magistratura indaga sui soldi russi alla Lega e sul misterioso incontro all'Hotel Metropol di Mosca nel corso del quale - è l'ipotesi - una vendita di gasolio all'Italia avrebbe dovuto fruttare, a ricasco, un finanziamento alla Lega. Alla riunione (cinque persone in tutto) sarebbero stati presenti Gianluca Savoini, l'uomo che mantiene i rapporti con Mosca per conto di Salvini, e un agente dei servizi segreti russi.
Da “il Giornale” il 3 marzo 2022.
«In questo momento c'è qualcuno che invade e qualcuno che è invaso, c'è qualcuno che ha aggredito e qualcuno che è stato aggredito, noi siamo a fianco degli aggrediti, c'è Putin che ha aggredito e Zelensky che è aggredito». Così ieri Matteo Salvini, nel corso di una conferenza stampa alla Camera per presentare il sondaggio del professor Enzo Risso sul conflitto Russia-Ucraina. «È il caso di dirlo - ha precisato il leader della Lega - per dire basta alle polemiche stucchevoli».
All'ex ministro dell'Interno, infatti, erano state rivolte molte critiche, in particolare dal Pd, per non aver citato Vladimir Putin nell'intervento che aveva svolto martedì in Senato. Ma ieri il New York Times ha citato Salvini in un articolo di prima pagina titolato «L'aggressione di Putin lascia i fan sovranisti a contorcersi» nel quale si legge anche: «Il politico italiano si trova in buona compagnia fra i leader europei che ora faticano a conciliare il loro appoggio passato a Putin con la guerra che ha deliberatamente scatenato contro il loro continente». La replica: «Per il New York Times io sarei ricattato dalla Russia? Sciocchezze. Ho tanti difetti ma mi godo la mia libertà. Non ho mai preso rubli, dollari o franchi svizzeri: zero».
(ANSA il 25 febbraio 2022) - Oggi "sono deluso dall'essere umano che nel 2022 cerca di risolvere con la guerra problemi economici, politici. Se qualcuno attacca e qualcuno viene attaccato bisogna schierarsi da subito con chi è attaccato".
Lo ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini intervenuto a Radio Anch'io su Rai Radio uno. "Da ieri - ha aggiunto - lavoro a corridoi umanitari. Il ruolo del Vaticano sarà fondamentale come il ruolo della Chiesa in Ucraina e Russia. Io lavoro a 360 gradi, ma ora bisogna fermare le bombe. Poi ragioneremo di geopolitica, di sanzioni e di tutto il resto".
Ribadendo che ora "bisogna aiutare chi si sta difendendo", Salvini ha sottolineato però che "l'occidente si deve fare delle domande: ad ogni vuoto che lascia, corrisponde una reazione. Se fugge dall'Afghanistan, ci troviamo i talebani; se fugge dalla Libia - che è la porta di casa nostra - poi la troviamo spartita da Russia e Turchia, se ignoriamo la Cina... Se tu sei distratto o malaccorto raccogli i frutti del tuo non agire", ha concluso spiegando che "dobbiamo capire se ci interessa la pace o gli interessi economici".
Alberto Gentili per "il Messaggero" il 25 febbraio 2022.
La conversione di Matteo Salvini avviene di buon mattino, alla notizia dell'invasione russa dell'Ucraina. Giuseppe Conte segue a ruota, il tempo di prendere il caffè. E se Silvio Berlusconi - che ha trascorso giorni e settimane dal 2001 tra Villa Certosa e la dacia di Sochi assieme a Vladimir Putin - tace fragorosamente, Giorgia Meloni conferma una volta per tutte la sua scelta di campo atlantista, anche se meno di un anno fa metteva a verbale: «Putin difende i valori europei».
E' un risveglio ruvido, brusco e amaro quello dei filo-russi d'Italia. Vedere l'amico di Mosca stracciare il diritto internazionale e invadere l'Ucraina con carri armati, jet, truppe d'assalto, di colpo ribalta antiche certezze. Come quelle di Salvini che nel 2015, indossando una t-shirt con stampata la faccia del presidente russo, twittava: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin».
Oppure quelle di Conte che nel 2018, agli albori dell'era giallo-verde, nel contratto di governo mise nero su bianco assieme a Luigi Di Maio e a Salvini «l'impegno a rivedere le sanzioni contro la Russia». Per poi dichiarare: «Quelle misure rattristano l'Italia». Acqua passata. Un feeling sbriciolato (per il momento) dalle bombe russe sull'Ucraina. Il primo a svegliarsi, si diceva, è Salvini.
Ancora il giorno prima il leader leghista si era scagliato contro le sanzioni anti-Putin, ma ora corre a «condannare con fermezza ogni aggressione militare». Un po' poco. Quelli del Pd se ne accorgono. «Basta ambiguità», tuona Enrico Letta. Così Salvini ci riprova minacciando di emulare Jan Palach: «E' la Russia che sgancia i missili, sono loro a essere in torto. E la mia condanna è ferma, senza se e senza ma. Il Pd dice che devo fare di più? Mi dovrò dare fuoco sulla pubblica piazza».
E pur senza parlare di sanzioni, il leghista dichiara: «Bisogna tornare alla pace, costi quel che costi». Letta apprezza. Tanto più che il leghista si presenta, a sera, all'ambasciata ucraina con un mazzo di tulipani bianchi «in segno di solidarietà». Segue segno della croce e breve preghiera davanti alla targa in ottone della sede diplomatica, neanche fosse un'edicola della Madonna.
Poi arriva l'abiura di Conte. Il leader 5Stelle stigmatizza «con fermezza» l'attacco «ingiustificato» dell'Ucraina. E chiede «una risposta ferma, coesa, unitaria dell'Unione europea». Non poco per chi, quattro anni fa, si rattristava per le sanzioni anti-Putin. In più Conte chiama l'ambasciatore ucraino e tutti i leader di partito: «Le forze politiche devono unirsi contro l'aggressione».
Peccato che in una lunga nota dei parlamentari 5Stelle delle commissioni Esteri e Difesa si descriva il disastro provocato «dall'aggressione militare russa», le conseguenze «sull'Europa», ma non si faccia alcun accenno alle misure contro Mosca. Ancora più in imbarazzo l'ex grillino Alessandro Di Battista, che Conte ha ricominciato a frequentare. Il Che Guevara dei poveri, cultore a oltranza di posizioni terziste, cade dal pero: «Non mi aspettavo minimamente la guerra in Ucraina.
L'ho scritto: dubito fortemente che a Putin possa interessare una guerra. Evidentemente così non è stato». Già. Più facile (ma più costoso) per Matteo Renzi prendere le distanze da Mosca. Prima definisce «inaccettabile l'assurda guerra». Poi, e questa è la sostanza, si dimette dal board della società di car-sharing russa Delimobil. Come è facile per la Meloni, da oggi negli States per un convegno del partito repubblicano, mettere alle spalle ogni simpatia per Putin: «E' il tempo delle scelte di campo.
L'Occidente sia unito nel sostenere Kiev». Rumoroso, invece, il silenzio di Berlusconi. Tanto rumoroso da spingere il deputato forzista Elio Vito a invocare «parole nette di condanna» da parte del Cavaliere, in quanto «non ha mai nascosto la sua amicizia con Putin». Invito che Berlusconi, memore delle festose giornate in dacia con il presidente russo, non accoglie.
Si limita a far sapere ai suoi di condannare l'attacco e di mettere le sue «relazioni internazionali al servizio della pace». Ma non rilascia alcuna dichiarazione ufficiale. In più fa filtrare di essere «preoccupato» dei rischi che va incontro anche la Russia.
Alessandro Trocino per il "Corriere della Sera" il 25 febbraio 2022.
«Ma quale filo-putiniano, è una calunnia, è cambiato il contesto, sono successe un miliardo di cose, stavo all'opposizione. Non ho niente di cui pentirmi e non ho cambiato idea». Manlio Di Stefano, sottosegretario agli Esteri M5S, prova a tirarsi fuori, a spiegare che «siamo tutte persone con un cervello e una cosa è il ragionamento politico, sullo spostamento innegabile della Nato a est, una cosa l'attacco militare, che è ingiustificabile. Noi dobbiamo tutelare solo i nostri interessi.
Se Putin mi ha deluso? Ma io non l'ho mai ammirato, non sono mica Salvini che lo definiva un grande politico». Fino a ieri i putiniani d'Italia erano un piccolo esercito variegato e baldanzoso, che pescava a sinistra e a destra, passando per quella nebulosa inclassificabile che è diventato il Movimento.
Oggi, si fa fatica a trovarne uno. Prendiamo Matteo Salvini, che si sentiva più a casa all'ombra della cattedrale di San Basilio che sotto la Madonnina. Quel Salvini che le sanzioni contro Putin sono «da deficienti», che lui è «un gigante», che «cedo due Mattarella per mezzo Putin» e che per amor della Russia è diventato un pacifista gandhiano. Ieri ha cambiato giacchetta: fuori la felpa moscovita, dentro la grisaglia: «Condanno con fermezza ogni aggressione militare».
Poi ha annunciato che non rinnoverà l'accordo di cooperazione con Russia Unita, il partito di Putin. E neanche quello dei Giovani padani siglato nel 2018, quando inneggiavano a Putin, «punto di riferimento nella difesa dei valori tradizionali e della cristianità», lamentandosi parecchio dell'«isteria anti russa». Non ne era contagiato, all'hotel Metropol, Gianluca Savoini, già presidente dell'associazione Lombardia-Russia, e ufficiale di collegamento con il nazional-fascista russo Aleksandr Dugin.
La Lega è stata dominata da una fascinazione per l'uomo forte, quel Putin che affronta a petto nudo, e colpi molto proibiti, i dissidenti. Ma gli opposti sovranismi, a lungo termine, non vanno d'accordo. Il grillo-leghismo è stato un sovranismo un po' all'amatriciana e il versante 5 Stelle è stato più dominato da un antiamericanismo vecchio stile, un tempo appannaggio delle sinistre (vedi Vito Petrocelli). Alessandro Di Battista martedì spiegava, con invidiabili capacità profetiche: «La Russia non sta invadendo l'Ucraina. Per carità, tutto può accadere ma credo che Putin tutto voglia fuorché una guerra».
E infatti. Ieri ha condannato la guerra, aggiungendo: «Ho le mie idee e me le tengo». Padronissimo. E del resto le sue idee piacciono parecchio a Giuseppe Conte, che vagheggia - in chiave anti Di Maio - un ritorno nell'alveo populista e corteggia Di Battista e la Russia. Almeno da quando, in pieno Covid, fece sfilare l'esercito russo da Roma a Bergamo, con la benedizione del leghista Paolo Grimoldi.
Di Maio, con un presente di fulgido atlantista, ha il record di onorificenze a oligarchi putiniani, come avevamo scritto nella newsletter Rassegna del Corriere del 20 gennaio. Nel caso dell'avvelenamento di Alexei Navalny, leader dell'opposizione russa, la Lega si è schierata con Putin e i 5 Stelle si sono astenuti sulla risoluzione che chiedeva un'indagine internazionale. Dalle parti di Arcore, l'espressione «l'amico Putin» è diventata proverbiale, come i due colbacchi di Putin e di Berlusconi nella dacia del Mar Nero.
L'azzurro Franco Frattini, presidente del Consiglio di Stato, è stato persino escluso dalla corsa per il Quirinale in quanto troppo filo-russo. E a sinistra? Rifondazione è contro «gli etno-nazionalisti, collaborazionisti con il nazismo», mentre Matteo Renzi si è appena dimesso dal board della società russa Delimobil. Romano Prodi, non proprio filo putiniano ma adepto del pragmatismo, si interroga sui contratti del gas. Perché poi, alla fine, la domanda è una sola: quanto siamo disposti a esporci, a pagare, a «morire», di freddo e non solo, pur di contrastare il disegno egemonico, imperialista e antidemocratico di Putin?
Stefano Iannaccone per tag43.it il 25 febbraio 2022.
La disdetta del contratto non si trova. E così, come prevede lo stesso documento, è tacito il rinnovo per un altro quinquennio. L’intesa tra la Lega di Matteo Salvini e Russia Unita, il partito di Vladimir Putin, è tuttora in vigore, essendo stata sottoscritta il 6 marzo 2017 con una durata di cinque anni.
In questi anni non risulta alcun passo indietro ufficiale e l’accordo resta valido
Si dirà: ma è in scadenza, praticamente agli sgoccioli. Vero. Ma c’è un articolo, tra i 10 che compongono il testo, che recita: «L’accordo è automaticamente prorogato per successivi periodi di cinque anni, a meno che una delle parti notifichi all’altra parte, entro e non oltre sei mesi prima della scadenza dell’accordo, la sua intenzione alla cessazione dello stesso». Una sorta di diritto di recesso mai esercitato.
Agli atti non risulta alcun passo indietro ufficiale, nessuna cancellazione formale, insomma, né è rintracciabile qualche dichiarazione pubblica che lasci intendere la rottura del patto.
Anzi, da quanto viene riferito a Tag43, «non c’è stato alcun cambiamento della situazione», con la puntualizzazione, tesa a minimizzare, che «di fatto non è operativo».
Sarà. Ma il Salvini che oggi «condanna» le azioni di Putin in Ucraina (senza però citare né il presidente russo né Mosca) sarebbe lo stesso che ha un’intesa politica in vigore con il partito dello stesso Putin, stipulata quando aveva già messo piede nel Donbass attraverso gruppi paramilitari.
Il conflitto nella regione è infatti iniziato nel 2014. Il primo punto del contratto prevede che «le parti si consulteranno e si scambieranno informazioni su temi di attualità della situazione nella Federazione Russa e nella Repubblica Italiana, sulle relazioni bilaterali e internazionali, sullo scambio di esperienze nella sfera della struttura del partito, del lavoro organizzato, delle politiche per i giovani, dello sviluppo economico, così come in altri campi di interesse reciproco».
Magari «non è operativo», come viene sostenuto, ma sarebbe il caso di sgomberare il campo da dubbi, perché si parla di «scambio di informazioni». Non una questione secondaria.
L’incontro tra Matteo Salvini e Sergej Zheleznyak
Ma per capire la vicenda, bisogna andare con ordine. Nel marzo 2017, a circa un anno dalle Politiche (si era da poco insediato a Palazzo Chigi Paolo Gentiloni), Salvini volò a Mosca, da leader della Lega Nord (ancora con la vecchia denominazione, successivamente sostituita con Lega per Salvini Premier), per stipulare un contratto, ben prima di quello fatto con il Movimento 5 stelle per il governo gialloverde.
L’altro contraente era il partito Russia Unita, proprio quello guidato dal leader del Cremlino, rappresentato in quell’occasione da Sergej Zheleznyak, responsabile Esteri e uomo di fiducia del presidente russo. Il post su Facebook del segretario leghista parlava addirittura di «storico accordo», che voleva porre fine alle sanzioni inflitte alla Russia.
I punti dell’accordo tra Lega e Russia Unita
Il Paese che qualche anno prima aveva annesso la Crimea e avallato l’avanzata dei separatisti nel Donbass. Era la fase del sovranismo rampante di Salvini, della campagna tutta euroscettica che da Mosca veniva vista con grande favore.
La Lega appariva l’interlocutore ideale per minare alla base il progetto dell’Unione europea e portare avanti una campagna di delegittimazione dell’atlantismo. Così quel contratto includeva il regolare scambio di «delegazioni di partito a vari livelli, per organizzare riunioni di esperti, così come condurre altre attività bilaterali e la promozione attiva delle relazioni tra i partiti e i contatti a livello regionale».
E non solo. L’impegno era quello di arrivare all’interno delle Istituzioni. Come? Con «la creazione di relazioni tra i deputati della Duma di Stato dell’Assemblea federale della Federazione Russa e l’organo legislativo della Repubblica Italiana, eletti dal partito politico nazionale russo “Russia Unita” e il partito politico “Lega Nord” e anche organizzano lo scambio di esperienze in attività legislative».
E ancora erano inclusi: «lo sviluppo di una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e la collaborazione di organizzazioni giovanili, femminili, culturali, umanitarie, ecc. al fine di rafforzare l’amicizia, la formazione giovanile nello spirito di patriottismo e di operosità» e «la cooperazione nei settori dell’economia, del commercio e degli investimenti tra i due Paesi».
Un’intesa a tutto tondo che sanciva un legame di ferro. E che oggi, ancor più dopo l‘invasione russa dell’Ucraina, fa un certo effetto.
Maria Pia Mazza per open.online il 27 Febbraio 2022.
«Putin? Si è trovato di fronte ad un’Europa in fuga, come sull’Afghanistan. È chiaro che se l’Occidente scappa dalla Libia, alla Siria per fare qualche esempio, chi è abituato a usare la forza è incentivato a usare la forza».
Dice il segretario della Lega, Matteo Salvini, commentando l’offensiva russa nei confronti dell’Ucraina. E mentre a Bruxelles i ministri dell’Interno dell’Unione Europea sono stati chiamati a stabilire la road map per la redistribuzione dei profughi ucraini in fuga dal Paese dopo l’attacco russo, oltre a discutere sull’opportunità di stanziare ulteriori fondi per affrontare l’emergenza in Ucraina, il leader della Lega, ospite della trasmissione Mezz’ora in più, ha dichiarato che i profughi ucraini «saranno i benvenuti, c’è enorme spazio per le persone di buona volontà: tutti i sindaci della Lega si stanno muovendo (per accoglierli, ndr), ma non è questione di partiti».
Il segretario leghista ha poi dichiarato di aver «sempre combattuto per l’aiuto dei profughi e contro i barchini e i barconi e gli arrivi clandestini che subiamo dal Nord Africa, da persone che non sono profughi veri», aggiungendo che «li andrei personalmente a prendere a migliaia e migliaia, senza mettere limite numerico».
Parole che richiamano quelle già pronunciate da Salvini in Senato lo scorso 25 febbraio, dopo l’informativa del premier Draghi: «L’Italia ha il dovere di spalancare le porte a chi scappa dalla guerra vera, ai profughi veri, perché spesso si parla di profughi finti che scappano da guerre finte, ma questi (riferendosi al popolo ucraino, ndr) sono profughi veri in fuga da una guerra vera».
Salvini: «L’Ue non dia armi letali all’Ucraina»
Nel corso dell’intervista con Lucia Annunziata, Salvini si è detto contrario alla proposta dell’Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell, di rifornire l’Ucraina di «armi letali».
Il segretario leghista ha infatti osservato: «Sono un tifoso dell’introduzione del servizio militare, ma all’Europa non chiedo di distribuire armi ma di perseguire la via del Santo Padre: confronto, dialogo, diplomazia, sanzioni e non voglio che la risposta dell’Italia e dell’Europa, culla di civiltà, sia distribuire armi letali».
Salvini, inoltre, si trova d’accordo con la scelta del governo italiano di rafforzare la sua presenza nelle zone Nato: «Io mi tolgo il capello al cospetto dei 5.500 militari italiani che sono forza di pace in giro per il mondo». Quanto invece all’annuncio del cancelliere tedesco Scholz dell’aumento di cento miliardi di euro per per gli investimenti necessari e per i progetti di armamento della spesa militare della Difesa tedesca nel 2022, Salvini ha concluso: «Investire di più in difesa e delle forze armate va bene».
(ANSA il 27 Febbraio 2022) - "No alle armi letali". Cosa dobbiamo inviare secondo Salvini delle fionde? Dei fucili a coriandoli? Delle felpe?". Così il leader dei Azione, Carlo Calenda, replica alle parole di Matteo Salvini durante il suo intervento a In Mezz'ora in più.
"Già sono insopportabili i distinguo e le furbizie su Covid o politica economica", scrive poi Calenda in un altro tweet. "Ma su politica estera e di difesa in tempo di guerra sono inaccettabili. Se Salvini non riesce a staccarsi da Putin se ne vada all'opposizione. E si assuma per una volta le sue responsabilità".
La pace a chiacchiere. Salvini accarezza un antibellicismo cinico alla Alberto Sordi. Mario Lavia su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.
Draghi punta all’unanimità contro Putin. Ma sull’invio di armi a Kiev il supporto potrebbe incrinarsi per l’irenismo da anime belle della Lega (che guarda ai voti di chi preferisce farsi i fatti propri) e di una minoranza di sinistra (che sta già lucidando l’antiamericanismo)
Il Parlamento, martedì, potrebbe votare all’unanimità una risoluzione di appoggio al discorso che lì farà Mario Draghi e che conterrà l’insieme delle iniziative del nostro Paese contro l’invasione russa dell’Ucraina. Sarebbe un fatto politico di primaria grandezza che, oltre a confermare l’unità della maggioranza, salderebbe addirittura a quest’ultima anche Fratelli d’Italia e Sinistra Italiana: e non sarebbe un miracolo politicista ma il risultato di un posizionamento in prima fila dell’Italia nel consesso del mondo civile e democratico.
Le primissime timidezze sono state via via superate di pari passo con la barbara escalation dell’esercito di Putin e della crescente sintonia con gli alleati, giungendo all’uso di armi molto pesanti come l’esclusione della Russia dal sistema Swift, la chiusura dello spazio aereo italiano ai voli russi e la decisione di inviare mezzi militari. Ma quest’ultima questione rischia di far saltare tutto. C’è Matteo Salvini di traverso.
È evidente che finora si è morso la lingua. Il suo fariseismo malcela un grande fastidio per lo schierarsi dell’Italia contro il suo (ex?) faro del Cremlino dal quale peraltro ha ottenuto riconoscimenti e chissà che altro (andrebbe chiesto a quel Gianluca Savoini, sempre presente durante le visite ufficiali di Salvini a Mosca, che, secondo un’inchiesta dell’Espresso, aveva condotto la trattativa per il finanziamento russo alla Lega prima delle elezioni europee).
Salvini copre questo fastidio per la posizione antirussa del governo italiano con le solite amenità finto-buoniste («Ai missili non si risponde con altri missili»), la retorica sui «bimbi» vittime della guerra, la sfacciata strumentalizzazione delle parole di Papa Francesco il quale, com’è noto, parla da un pulpito morale che è cosa ben diversa dalla tragicità della politica e della storia.
La contrarietà all’invio di armi, naturale conseguenza dell’appoggio a Volodymyr Zelensky, non gli va giù («Non in mio nome», dice con slogan pacifista) perché è il segno plastico della guerra del mondo libero a Vladimir Putin, il contrario del generico e generoso volemose bene che alimenta i discorsi di ampi pezzi di società italiana. Salvini è un uomo pronto a utilizzare tutte le conseguenze negative dell’intransigenza italiana e occidentale per lucrare qualche voto e addebitare allo schierarsi contro il dittatore di Mosca l’aumento delle bollette, contando su un certo cinismo alla Alberto Sordi per cui sarebbe stato meglio farci i fatti nostri, senza ovviamente comprendere che la guerra di Putin è anche a noi, che sono “fatti nostri”, come ha spiegato lucidamente Giorgio Gori.
E d’altra parte, al riparo di un pacifismo da anime belle, vago e incolore, sta riemergendo il mai sopito antiamericanismo di una parte del pacifismo italiano annidato un po’ da tutte le parti, specie a sinistra, e per fortuna Enrico Letta ha reso immune il Pd dai tristi cincischiamenti insiti nei discorsi dell’Anpi (una gloriosa associazione che dovrebbe rinverdire la memoria della più fulgida pagina della storia del Novecento italiano, la Resistenza, ma ormai da tempo ridotta a una simil-formazione politica girotondina e estremista) nei quali si considerano «legittime» le preoccupazioni di Mosca per un’immaginario allargamento a est della Nato.
Per non parlare di una ex ministra della Difesa (!) che si chiama Elisabetta Trenta, all’epoca seguace grillina, o dello scoperto filoputinismo del Fatto, apprezzato dall’ambasciata russa a Roma. Massimo D’Alema, che è più intelligente di tutti questi, almeno fa riferimento alle condizioni del «popolo russo», che è comunque un tema, per criticare l’Occidente; mentre Maurizio Landini, chiede «di capire le ragioni profonde di quanto accade» che è un modo obliquo per dire che insomma le ragioni non stanno tutte da una parte, un latente cerchiobottismo che imbeve la posizione della Cgil di retorica pacifista, quella che non entra nel merito.
C’è da chiedersi quanto sia larga, nel Paese, questa voglia di pace a chiacchiere, senza sporcarsi le mani e pagare dei prezzi. La domanda è importante perché dalla sua risposta si potrebbe capire se effettivamente il popolo italiano stia con il governo Draghi che sceglie con coraggio da che parte stare o se domani potrebbe fargli pagare questa scelta. Salvini punta su questa possibile contraddizione ergendosi a punto di riferimento del “pacifismo” imbelle e delle pulsioni filorusse. Un gioco pericoloso. Molto più del Papeete. Ma differenziarsi in questo frangente non conviene nemmeno a uno svelto di mano come lui.
Da globalist.it il 4 agosto 2022.
Gerhard Schroeder è stato per mesi al centro delle polemiche per i suoi stretti rapporti con la Russia di Putin e con Gazprom. L’ex cancelliere tedesco, in un’intervista a Stern, ha parlato del suo ultimo incontro col presidente russo e ha rivelato alcuni dettagli sul possibile futuro prossimo del conflitto in Ucraina.
“La buona notizia è che il Cremlino vuole una soluzione negoziale. Un primo successo è stato l’accordo sul grano, forse questo può lentamente espandersi in un cessate il fuoco”, ha aggiunto l’ex leader socialdemocratico secondo il quale soluzioni a problemi cruciali come la Crimea potrebbero essere trovati in un secondo momento.
“Forse non in 99 anni, come Hong Kong, ma nella prossima generazione”, ha spiegato affermando che un’alternativa alla partecipazione dell’Ucraina alla Nato potrebbe essere una neutralità armata, come l’Austria.
Schroeder, criticato ed attaccato in questi mesi per la sua vicinanza a Putin, ha anche proposte per la regione del Donbass, riconoscendo che questa è una situazione più complicata.
“Si dovrà trovare una soluzione basata sul modello cantonale svizzero”, ha detto avvisando che bisogna vedere se Putin accetterà di ritornare alla “linea di contatto” precedente alla guerra in un eventuale accordo per il cessate il fuoco.
Antonio Di Noto per open.online il 4 agosto 2022.
L’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder sarebbe un «noto araldo dell’Impero e una voce della Corte dello zar russo». Lo ha dichiarato il consigliere presidenziale e capo negoziatore ucraino Mikhailo Podolyak.
Le parole del funzionario di Kiev arrivano in seguito a quelle dell’ex cancelliere che aveva fatto sapere in un’intervista al magazine Stern e alla Tv Rtl che «il Cremlino vuole una soluzione con negoziato» definendo l’intenzione una «buona notizia».
Queste dichiarazioni sono state rese dopo che Schroeder era tornato da Mosca, dove si presume che abbia avuto un incontro con il presidente russo Vladimir Putin la scorsa settimana. Podolyak ha poi incalzato la Russia: «Se Mosca vuole un dialogo, questo spetta a loro, prima di tutto con un cessate il fuoco e il ritiro delle truppe».
I rapporti di Schroeder con Putin e il lobbismo per il Nord Stream 2
Schroeder, cancelliere dal 1998 al 2005, di fatto lobbista per Gazprom, oltre che amico dello zar, spinge affinché la Germania autorizzi le forniture di gas russo attraverso il condotto Nord Stream 2, la cui struttura è pronta. Il gasdotto sarebbe dovuto entrare in funzione nella prima metà del 2022, ma è stato bloccato dalla Germania in seguito all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. «È pronto. Se le cose – ha dichiarato Schroeder – si fanno davvero difficili, c’è questa pipeline, e con entrambi i gasdotti Nord Stream non ci sarebbe alcun problema di approvvigionamento per l’industria tedesca e le famiglie tedesche».
La stessa ipotesi era stata menzionata da Putin, come spiegato dal suo portavoce Dmitry Peskov. Il leader del Cremlino aveva però avvisato che il condotto potrebbe essere attivato non oltre il 50 per cento della sua capacità totale, ovvero 27,5 miliardi di metri cubi all’anno, e che era stato Schroeder a chiedere delucidazioni e non lui ad avanzare l’idea. Peskov ha anche aggiunto che Schroeder non avrebbe espresso alcun desiderio di fare da mediatore sulla guerra in Ucraina o per i problemi dei rifornimenti di gas.
Il «bluff» problemi tecnici e la turbina riparata
La Germania è tra i Paesi europei che più stanno soffrendo le continue riduzioni del flusso di gas proveniente da Mosca. Tra tutte c’è quella degli approvvigionamenti tramite il Nord Stream 1, che lavorerà presto al 20 per cento della sua capacità a causa di quelli che Mosca definisce dei «problemi tecnici» ma che Berlino derubrica a «bluff».
Proprio oggi, 3 agosto, il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha tenuto un discorso da Muelheim an der Ruhr, dove si trova la turbina necessaria al ripristino del funzionamento del gasdotto, riparata dalla tedesca Siemens in Canada, e dal 18 luglio pronta per essere spedita in Russia. «Non c’è motivo perché la consegna non debba avvenire», ha dichiarato il cancelliere.
Manila Alfano per “il Giornale” il 9 agosto 2022.
Assolto. L'ingombrantissimo ex cancelliere Gerhard Schroeder- almeno per il momento- resta nell'Spd. Le sue relazioni con la Russia e soprattutto la stretta amicizia con Vladimir Putin, che da mesi imbarazzano il partito e la Germania intera, non sono sufficienti a sganciarlo dal partito.
A stabilirlo è stata la commissione arbitrale del Partito socialdemocratico tedesco chiamata a decidere possibili provvedimenti contro l'ex cancelliere, accusato di non aver preso sufficientemente le distanze dalla Russia di Putin dopo l'invasione dell'Ucraina.
Schroeder non ha violato le regole del partito attraverso i suoi incarichi nelle aziende statali russe, e non esiste pertanto una base solida su cui far poggiare una sua espulsione o una reprimenda. Ci saranno ora due settimane di tempo per ricorrere in appello contro la decisione. Un comitato arbitrale nella città settentrionale di Hannover ha esaminato la questione dopo 17 mozioni di espulsione interne al partito. Schroeder non si è presentato alle udienze e non ha inviato un suo avvocato.
L'ex cancelliere, in carica dal 1998 al 2005, è stato criticato per anni per i suoi incarichi in diverse società statali russe ed è considerato un amico personale di Putin. Le pressioni affinché prendesse le distanze dal presidente russo sono aumentate dopo l'invasione dell'Ucraina.
A maggio, Schroeder ha annunciato che avrebbe lasciato il consiglio di sorveglianza del colosso energetico russo Rosneft. Ha anche rifiutato la nomina ad un incarico nel consiglio di sorveglianza di Gazprom. Eppure la macchia resta e va ad aggiungersi a un momento infelice per l'Spd, caduto al 18% nel barometro delle tendenze elettorali.
E come se non bastasse un vecchio scandalo è tornato a perseguitare il Cancelliere Olaf Scholz. Una borsa con oltre 200mila euro in contanti è stata trovata in una cassetta di sicurezza intestata a un ex politico del suo partito, Johannes Kahrs, nell'ambito di indagini riguardanti la banca Warburg di Amburgo.
Lo scrive il tabloid tedesco Bild, dando notizia degli ultimi sviluppi della cosiddetta inchiesta Cum-ex/Warburg, uno scandalo che segue il cancelliere Olaf Scholz da anni, cioè dal 2016, quando era sindaco della stessa Amburgo.
Kahrs, secondo il Bild, non è riuscito a indicare l'origine del denaro. Ad Amburgo sul caso sta indagando una Commissione d'inchiesta che sta approfondendo la possibile influenza di politici di spicco del Spd nel contesto di una frode fiscale. Sul caso indaga anche la procura di Colonia, che ha ora mandato 140 pagine di documenti alla stessa Commissione amburghese. Scholz dovrà quindi fare i conti ancora una volta con il suo passato ad Amburgo. Potrebbe essere un agosto caldo per il capo del governo che si è però sempre detto estraneo a qualsiasi tipo di irregolarità ma entro il 19 agosto, dovrà comparire davanti alla Commissione d'inchiesta di Amburgo e all'opposizione sono già sul piede di guerra.
Se il Pd dà la caccia ai filorussi cominci dal «suo» Schroeder e la smetta con gli attacchi a Salvini. Hoara Borselli su Il Tempo il 28 febbraio 2022
In evidente imbarazzo per la plateale figuraccia del Partito Democratico al Parlamento Europeo, dove si è spaccato nel voto sui provvedimenti per difendere il Made in Italy, la compagine Dem cerca di distogliere l'attenzione attaccando la Lega e il suo «tiepido» dissociarsi dal Cremlino. Dicono così i Dem: tiepido. Chissà perché poi. Matteo Salvini ha appoggiato pienamente tutte le scelte di Mario Draghi. Dov'è la tiepidezza? Certo, la Lega non è mai stata guerrafondaia. È una colpa grave? Comunque il partito di Salvini ha risposto all'attacco del Pd, soprattutto sul piano europeo: «se proprio vogliono parlare di rapporti con il Cremlino, Benifei e il Pd ci parlino del loro alleato Gerhard Schroeder, ex cancelliere socialdemocratico tedesco, esponente di spicco della sinistra tuttora influente sulla scena politica e primo lobbista della Russia in Europa». Già. Il Pd che oggi, nonostante la sanguinosa guerra in corso, avverte la necessità di soffiare vento sulla sterile polemica politica contro il nemico leghista, è lo stesso che è alleato nel Parlamento europeo con i socialisti tedeschi che si tengono stretto Schroeder, da anni al soldo di Putin senza aver mai chiesto, a quanto ci risulta, una sua espulsione dalle fila della grande famiglia socialdemocratica. Così intransigenti con gli altri e così disattenti con sé stessi.
Chi è questo Schroeder cui gli stessi Dem non sembra abbiano alcuna intenzione di dissociarsi? Gerard Schroeder, non è un tizio qualsiasi. È un gigante della socialdemocrazia tedesca ed europea. È stato l'erede di Brandt e Schmidt. Cancelliere dal 1998 al 2005. Vincitore nel duello elettorale col mitico Helmut Kohl. In questo secolo, scomparsi Craxi e Mitterrand, è stato sicuramente il numero uno in Europa del socialismo post-caduta del muro. Capite bene che non si possono ignorare le sue mosse. Ebbene, proprio lui, in queste ore, ha messo in guardia l'Occidente, chiedendo di non esagerare con il muro contro muro verso i Russi. Ma come esagerare? Quelli hanno invaso l'Ucraina, assediano Kiev, hanno riportato, dopo decenni, la guerra nel cuore dell'Europa, bombardano gli ospedali dei bambini, e noi che dovremmo fargli: un sorriso? Il fatto è che, probabilmente, l'idea dolce di Schroeder sulla Russia non nasce da una analisi politica, ma da qualche altra cosa. Per esempio dal fatto che da una quindicina d'anni l'ex cancelliere ha assunto ruoli di vertice in alcune società del gruppo Gazprom, colosso del commercio del gas. Società tedesca? No, russa. Tutto chiaro.
Ma se questi sono gli statisti che produce l'Europa, che speranze ha l'Europa? E la Spd tedesca, cioè il partito di Schroeder, cosa fa? Lo espelle? No, se lo tiene. E lo tiene nel suo Pantheon. Che futuro ha una socialdemocrazia opportunista e priva di valori fino a questo punto? Del resto, forse, l'indulgenza del Pd verso Shroeder può avere una spiegazione semplice. Bisogna tornare al 2013. Nove anni fa. Furono siglati 28 accordi commerciali con società russe e sette intese intergovernative. Era la prova di una certa, evidente amicizia con la Russia. E chi era, nel 2013, il premier italiano? Enrico Letta. C'è da stupirsi se oggi il Pd è comprensivo con Schroeder? Mentre scrivo queste righe penso a Zelensky. Il premier ucraino, sereno e combattivo, va incontro alla morte. Gli dicono tutti: scappa, ti aiutiamo noi, ti diamo un aereo! Lui risponde: no, sto qui col mio popolo. Vedete, gli statisti ancora esistono. E hanno il cuor di leone. Poi esistono anche gli Schroeder.
Lega, Salvini: "Io, pronto ad andare in Ucraina come combattente per la pace". La Repubblica il 2 marzo 2022.
La proposta dopo gli equilibrismi dei giorni scorsi: "Marcia l'8 marzo. Una grande iniziativa, potrebbe essere il Papa a lanciarla". Su Putin: "Ha torto, è lui l'aggressore". E sull'inchiesta sui presunti fondi russi al Carroccio: "Per il New York Times io ricattato? Sciocchezze".
"Invadere" pacificamente l'Ucraina con una marcia per "celebrare" lì l'8 marzo e "chiedere un cessate il fuoco". Matteo Salvini rilancia l'idea stamani. Dice che si tratta di "un sogno", ma assicura anche che lui sta lavorando davvero all'iniziativa, "in contatto con l'ambasciata italiana a Leopoli".
Il segretario della Lega, in conferenza stampa alla Camera, spiega: "Ora stanno uscendo dall'Ucraina le vittime della guerra e delle bombe, ecco, se in entrata ci fossero non solo combattenti ma anche combattenti disarmati per la pace io sarei molto orgogliosamente fra di loro. Se qualcuno lanciasse una grande iniziativa continentale, un'invasione pacifica in senso contrario. Più siamo e meglio è", perché "se siamo in cento è un conto, se fossimo in centomila sarebbe un altro conto".
Ecco allora chi potrebbe coinvolgere le persone secondo Salvini: "Se magari fosse direttamente il Santo Padre a lanciare una grande iniziativa di pace a livello continentale, nessuno lo potrebbe accusare di avere secondi fini, di fare ragionamenti geopolitici o di essere amico di Putin".
Per l'ex ministro dell'Interno "sanzioni e armi non basteranno", ecco perché sogna oggi "un grande movimento per la pace a livello continentale che andasse a frapporsi in Ucraina fra il popolo e le bombe, fra il popolo e i missili". La chiama "una forte iniziativa di pace", non "un'iniziativa tanto per fare", messa in atto con la "presenza fisica di parlamentari, studenti, imprenditori, operai, camionisti, agricoltori sul posto a dire fermatevi".
Salvini vorrebbe quindi andare in Ucraina la prossima settimana, "anche perché ogni giorno che passa è un passo in più verso il baratro". Martedì prossimo potrebbe essere il giorno giusto: "L'8 marzo è la festa della donna: in Ucraina quest'anno non c'è, perché le donne, le mogli, le mamme scappano. Ricordarla a Roma ha un certo senso, ricordarla in territorio di guerra facendo un appello al cessate il fuoco avrebbe un altro senso".
Salvini afferma poi che "in questo momento c'è qualcuno che invade e qualcuno che è invaso, c'è qualcuno che ha aggredito e qualcuno che è stato aggredito: noi siamo a fianco degli aggrediti, c'è Putin che ha aggredito e Zelensky che è aggredito. È il caso di dirlo, per dire basta alle polemiche stucchevoli". Per Salvini "chi ha torto, chi ha scatenato l'attacco è chiaro, è la Russia".
Sull'inchiesta sui presunti fondi russi alla Lega, ha aggiunto: "Per il New York Times io sarei ricattato dalla Russia? Sciocchezze. A me dispiace che un giornale così importante abbia queste sciocchezze da scrivere. Ho tanti difetti ma mi godo la mia libertà. Non ho mai preso rubli, dollari o franchi svizzeri: zero. C'è una inchiesta da anni che non ha mai trovato niente: perché non c'è niente. L'ultima volta che andai a Mosca portai a casa 'Masha e orsò per mia figlia, pagandola ai magazzini Gum. Poi ho smesso di andarci perché ogni volta che andavo aprivano una inchiesta. Mentre tutti, da Prodi a Renzi e Letta, quando erano al governo hanno avuto contatti con la Russia e con Putin, giustamente". Nel reportage del Nyt, in realtà, non si fa esplicito riferimento all'arma del ricatto. Il quotidiano statunitense traccia una approfondita analisi dei politici di destra e ultradestra europei che, negli anni, sono stati tra i più strenui sostenitori di Vladimir Putin. Il quotidiano ricorda la posizione a favore dell'annessione della Crimea, le magliette con il volto del capo del Cremlino indossate da Salvini e come quest'ultimo schernisca chiunque lo abbia accusato di essere 'a libro paga' di Putin rispondendo: "Lo stimo gratuitamente, non per soldi".
Nella sua ricostruzione, il Nyt poi sottolinea come in questi giorni il segretario leghista abbia condannato la violenza russa cercando di accostare il nome di Putin "nella stessa frase". Il quotidiano cita poi i rapporti di Marine Le pen e dei tedeschi di Afd. E, infine, la storica amicizia di Silvio Berlusconi per Putin e il silenzio del Cavaliere in pubblico, riportando però le parole del sottosegretario forzista alla Difesa Giorgio Mulè che parla di un Berlusconi "molto preoccupato e abbastanza terrorizzato: non riesce a vedere in Vladimir Putin la persona che ha conosciuto".
Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 2 marzo 2022.
A qualcuno ricorda il Fonzie di Happy Days, che non riusciva a chiedere «scusa». Ad altri il Veltroni delle elezioni 2008, che, per non nominare Berlusconi, parlava del «principale esponente dello schieramento a noi avverso».
Per Matteo Salvini l'innominabile è Vladimir Putin. Ieri, in 11 minuti di intervento al Senato, è riuscito a non citarlo mai, tenendosi sul vago, come fa sui social: un «aggressore», «chi ha scatenato la guerra», «chi bombarda». Già, ma chi? Amnesia comprensibile. Ma, per ricordare, a Salvini basterebbe cercare nei cassetti le magliette che in passato si è fatto stampare con la faccia del presidente russo.
Nel 2015 una l'aveva indossata anche al Parlamento europeo e, all'epoca, non lesinava elogi allo "Zar". Uno memorabile: «Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin». E qui tornerebbe utile la parolina proibita di Fonzie.
Estratto dell’articolo di Emanuele Lauria per “la Repubblica” il 2 marzo 2022.
Pacifista, fautore dell'accoglienza, distante dalla Russia. Matteo Salvini, come Zelig, cambia volto e prova ancora a reinventarsi. La guerra, dopo la pandemia, lo costringe a una nuova trasformazione. Che si completa nell'aula di Palazzo Madama, intorno all'ora di pranzo.
I dieci minuti di intervento del leader della Lega (...) sono una veloce corsa sul filo dei distinguo, rappresentano una terza via fra l'interventismo e le vecchie posizioni filo-Putin. Accadde già nel periodo caldo del Covid, il capo del Carroccio non attaccava i No Vax ma votava con il governo a favore del Green pass.
Il copione si ripete: quando parla in aula, Salvini, sembra inseguito dal suo passato che urla ancora sui social, magliette e smodati elogi all'inquilino del Cremlino. Ma la colpa non è di chi lo ha interpretato, quel passato, piuttosto di chi glielo ricorda: «Le polemiche oggi non fanno onore alla classe politica e giornalistica», tuona subito il numero uno di via Bellerio. Non c'è un pentimento, ma certo la Lega si ricolloca, perché «chi tira le bombe non ha giustificazioni» e la guerra «mette un punto fermo fra quello che c'era prima e quello che c'è dopo ».
(…) L'importante, per il segretario leghista, è raccontare al meglio la nuova versione di sè. Sempre un passo indietro rispetto a Draghi: al premier pieno mandato, però dubbi sull'uso delle armi e un continuo richiamo al valore della diplomazia e della pace. (…) . Il tutto fra gli interrogativi di alcuni colonnelli che pensano che la terza via adottata possa essere vista come una conferma dell'ascendente putiniano non del tutto scomparso.
Mentre altri, nella Lega, ritengono giusto l'appello di Salvini a non mischiare i temi della guerra con la politica interna, però proprio per questa ragione restano perplessi rispetto all'uso di sondaggi e di una nuova campagna sull'immigrazione, che distingua fra profughi veri e finti. (…)
Da “la Repubblica” il 2 marzo 2022.
Non mi meraviglia che tra i 5stelle ci siano filorussi sia nascosti e sia spudorati come il tarantino Vito Petrocelli, presidente, nientemeno, della commissione Esteri del Senato. Dai tempi del vaffa e delle gogne sono convinta, proprio come lei caro Merlo, che i 5stelle siano (siano stati?) il peggio d'Italia. Ora si conferma che sono i veri compari di Salvini.
Mariella Clemente - Altamura (Bari)
Risposta di Francesco Merlo
Salvini però si vergogna di Putin: balbetta, si contraddice e persino si finge pacifista francescano. Dopo essere stato il riferimento del partito russo d'Italia, ha appoggiato la fermezza di Draghi pur non eliminando "le ambiguità di una posizione che cambia ogni ora" come ha spiegato ieri Stefano Folli.
Ma questa sua vergogna che, dal latino "verecondia", è "turbamento, imbarazzo, senso di fallimento e nascondiglio", va sì smascherata e derisa ma, trattandosi di una guerra d'aggressione da cui l'umanità uscirà abbrutita e depravata, forse va anche - lo dico a me stesso - incoraggiata. E vale la pena citare il vecchio Marx: "La vergogna è già una rivoluzione, una specie di collera che si rivolge contro se stessa, come un leone che prima di spiccare il salto si ritrae su se stesso"
LA CONVERSIONE DI SALVINI SU PUTIN BY ELLEKAPPA il 2 marzo 2022.
RACCOLTA DI ELOGI DI SALVINI A PUTIN
11 marzo 2015: “Io credo che la Russia sia sicuramente molto più democratica dell’Unione europea così come oggi è impostata. Farei a cambio: porterei Putin nella metà dei paesi europei.
25 marzo 2017: “Io ritengo che Putin sia una delle persone più lungimiranti attualmente al potere sulla faccia della terra. Invece qualcuno ha deciso che Putin è brutto e cattivo. Io tra Putin e la Merkel lascio la Merkel e mi tengo Putin per tutta la vita”.
29 marzo 2017: “Secondo il PD è un dittatore sanguinario. Hanno dei problemi”
18 ottobre 2016: “Qualcuno in questo studio o a casa ha paura di essere invaso dai russi stanotte?. (…) Io ridiscuterei anche la presenza dell’Italia nella NATO”
28 novembre 2017: “Avessimo un Putin anche in Italia staremmo molto meglio”
12 luglio 2019: “Lo dico gratis, che Putin è uno dei migliori uomini di governo che ci siano in questo momento sulla faccia della Terra”
Ucraina:Salvini, valuto possibilità di andarci
(ANSA il 2 marzo 2022) - "Sto valutando la possibilità tecnico-logistica di essere in presenza perchè al di là delle manifestazioni un conto è invocare la pace un conto è esserci in presenza. Mi piacerebbe che in entrata ci fosse un flusso di combattenti per la pace.
Sto ragionando con l'ambasciata italiana, la Caritas, Sant'Egidio. Ho inviato messaggi al premier polacco e ungherese per avviare dei corridoi di pace. Stiamo lavorando ad un grande movimento per pace che si frapponga alla guerra". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini nel corso di una conferenza stampa.
Ucraina: Salvini, Putin ha aggredito e Zelenskyj si difende
(ANSA il 2 marzo 2022) - "In questo momento assistiamo a qualcuno che invade a qualcuno che è invaso. Noi siamo a fianco degli aggrediti e degli invasi. Putin ha aggredito e Zelenskyj su sta difendendo. La nostra priorità e fermare le armi.
Stop agli scontri con la diplomazia è chiaro che ad un popolo sotto assedio gli devi dare strumenti per difendersi ma è chiaro che gli italiani odiano la guerra. Io mi metto a disposizione per arrivare al cessate fuoco, sto incontrando tutti però se devi chiedere il cessate il fuoco va chiesto ai russi, va chiesto ai cinesi, alla Santa Sede che è terreno neutrale. Chiedere la mediazione delle diplomazie ecclesiastiche è fondamentale". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini nel corso di una conferenza stampa alla Camera.
Ucraina:Salvini, mia presenza? Prima sentirò ambasciatore
(ANSA il 2 marzo 2022) - "Non si tratta di andare a fare una passeggiata, se ritenessi di poter dare il mio minuscolo contributo andando a sostenere le associazioni umanitarie ad esempio a Leopoli lo farei. Se potesse servire lo faremmo nelle prossime ore, prima però sentirò ambasciata". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini a proposito di un suo possibile viaggio in Ucraina.
Ucraina:Salvini,parlare con i russi? Io parlerò con tutti
(ANSA il 2 marzo 2022) - "Se devo chiedere di fermare gli attacchi lo chiedo ai russi non è che lo posso chiedere al mio parroco di Milano... il mio mestiere è parlare con tutti. Conto che lo faccia anche il ministro degli Esteri, che abbia canali aperti con tutti. Io sono solo il segretario di un partito". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini a chi gli chiede se ha intenzione di avviare colloqui anche con i russi.
Ucraina:Salvini,pronto a andare come combattente per la pace
(ANSA il 2 marzo 2022) - "Se ci fosse un' invasione pacifica in senso contrario e cioè se in entrata ci fossero non combattenti disarmati per la pace io sarei fra di loro, se siamo in 100 è un conto se fossimo 100mila un altro.Se fosse il santo padre a lanciare l' iniziativa di pace nessuno potrebbe accusarlo di secondi fini o di essere amico di Putin". Lo afferma il leader della Lega Matteo Salvini.
Matteo Salvini prova a dimenticare il suo passato di fan di Putin. Glielo ricordiamo noi. Carlo Tecce su La Repubblica il 24 Febbraio 2022.
Savoini, la trattiva del Metropol, la Lega contraria alle sanzioni in Europa, l’associazione Lombardia Russia… Sì, il leader leghista è stato il più putiniano tra i putiniani
Il ministro Giancarlo Giorgetti è il leghista più addentro al sistema di relazioni americane in Italia. Già tre anni fa, mentre il Carroccio era scivolato all’opposizione dopo il ribaltone del Papeete di Matteo Salvini, Giorgetti disse che tentò di «mettere in guardia» il suo segretario dagli amici russofili Gianluca Savoini & C.
Adesso che il mondo ha percepito con maggiore chiarezza il pericolo di Vladimir Putin, nonostante decenni di segnali inequivocabili sparsi tra Georgia, Crimea, Donbass, Salvini cerca goffamente di cancellare le prove dei suoi trascorsi putiniani.
La sua carriera politica è talmente impastata di ingredienti russofili che non ci riesce. Gianluca Savoini e Claudio D’Amico sono gli ex fondatori dell’associazione “Lombardia Russia”, dissolta dopo le inchieste dell’Espresso di Giovanni Tizian e Stefano Vergine che portarono alla scoperta della trattativa del Metropol. Ex portavoce del capo leghista, Savoini era al tavolo dell’albergo di Mosca a discutere di un finanziamento al partito per le elezioni Europee del 2019. D’Amico non c’era, non c’entra con quella vicenda, in quel periodo – tre anni fa – era consulente del vicepremier Salvini con un’esperienza formativa a Sebastopoli: osservatore internazionale per accertare la regolarità del referendum che sancì l’annessione a Mosca della Crimea scippata all’Ucraina.
Allora la Lega era già al potere nell’alleanza gialloverde con i Cinque Stelle con le continue sbandate in politica estera, ma la Lega di Salvini, risorta dopo gli scandali dei rimborsi pubblici e la fine dell’epoca di Umberto Bossi, s’ispirò al partito Russia Unita di Putin, si abbeverò alle teorie del filosofo Alexander Dugin e sì avvicinò all’oligarca putiniano Kostantin Malofeev.
Invece in Europa, da sempre, la Lega è il partito più attivo nel contestare le sanzioni economiche al regime moscovita. Per dirne una, esattamente sette anni fa, l’associazione “Lombardia Russia” organizzò un convegno a Milano con i vari Savoini e D’Amico e ospite d’onore un ministro della Repubblica di Crimea riconosciuta da paesi non proprio liberi come la Bielorussia e ovviamente le conclusioni furono affidate a Salvini.
Quando Matteo Salvini diceva: "Sono a Mosca gratis"
Il segretario del Carroccio celebrò Putin, «uno dei pochi leader che ha le idee chiare su una società positiva, ordinata, pulita e laboriosa per i prossimi cinquant’anni». Un elogio così coinvolgente e appassionante che terminò con la richiesta all’Europa di accettare l’indipendenza della Crimea. Salvini ha un solo modo per eliminare le tracce di ciò che ha fatto e detto su Putin. Cambiare identità.
Sebastiano Messina per la Repubblica il 24 febbraio 2022.
Dice Matteo Salvini che «le sanzioni sono l'ultima delle soluzioni». Ma non ci rivela quali sono le altre. Telefonare di notte al Cremlino e fare una pernacchia? Togliere il "mi piace" alla pagina Facebook di Putin? Mandargli tante cartoline con la scritta «Scusa ma secondo me forse dovresti ripensarci»? Ce lo dica: magari funzionano, e quello si ritira.
(ANSA il 24 febbraio 2022) - La Lega condanna con fermezza ogni aggressione militare, l'auspicio è l'immediato stop alle violenze. Sostegno a Draghi per una risposta comune degli alleati". Lo dice il leader della Lega Matteo Salvini.
Ucraina: Meloni, inaccettabile attacco bellico Russia
"Inaccettabile attacco bellico su grande scala della Russia di Putin contro l'Ucraina. L'Europa ripiomba in un passato che speravamo di non rivivere più. È il tempo delle scelte di campo. L'Occidente e la comunità internazionale siano uniti nel mettere in campo ogni utile misura a sostegno di Kiev e del rispetto del diritto internazionale». Lo scrive su Facebook il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni.
Mattia Feltri per "la Stampa" il 24 febbraio 2022.
Matteo Salvini (che negli anni ha detto: Berlusconi frequenta Vladimir Luxuria, io preferisco Vladimir Putin; fra Renzi e Putin scelgo Putin tutta la vita; io vorrei Putin come alleato; Putin è un leader mondiale; Putin ha le idee chiare per una società ordinata, pulita e armoniosa; io sto con Putin; preferisco Putin all'Unione europea; Putin fa, io sarei più sicuro con uno come lui; io voglio la pace, sto con Putin;
Putin è fra i migliori statisti in circolazione; apprezzo la visione dell'Europa di Putin; le sanzioni contro Putin sono da cretini/ deficienti/idioti; ammiro Putin per le idee chiare, la fermezza, il coraggio, la visione della società; Putin non ha difetti; Putin ha scelto la Lega come unico interlocutore; Putin garantisce la pace in Europa; farei carte false per avere Putin presidente del Consiglio;
Putin è libero, non è schiavo delle banche; mi basterebbe essere minimamente al livello di Putin; Putin è un modello; con Putin faremo la storia; Putin è un gigante; più Putin e meno Obama; Putin è fonte di speranza; in Italia ci vorrebbero dieci Putin; darei due Mattarella per mezzo Putin;
meno male che c'è Putin; se avessimo Putin in Italia staremmo molto meglio; mi piace Putin, lo stimo; Putin è uno degli uomini di governo più lucidi, lungimiranti e concreti; da Putin mi sento a casa mia; Putin è il miglior uomo di governo sulla faccia della terra insieme a Trump; Putin è un grande; Putin è un amico) non capisce proprio perché, se sostiene la necessità di dialogare con la Russia semplicemente per evitare la guerra, poi «finisco sui giornali come amico di Putin».
Da corriere.it il 24 febbraio 2022.
Condanne all’aggressione sono arrivate da tutte le forze politiche, ma tra Lega e Pd è stato scontro. Matteo Salvini, leader del Carroccio e in passato vicino alle posizioni della Russia di Putin e contrario alle sanzioni economiche contro Mosca, ha invitato al dialogo e ricordato di aver parlato già con gli ambasciatori dei due Paesi in conflitto, aggiungendo: «La Lega condanna con fermezza ogni aggressione militare, l’auspicio è l’immediato stop alle violenze.
Sostegno a Draghi per una risposta comune degli alleati». Emanuele Fiano del Pd gli ha però risposto: «Non è certo questo il momento di condanne generiche. Forse qualcuno non si rende bene conto della gravità di quanto sta accadendo in Ucraina. Bisogna condannare senza se e senza ma l’aggressione decisa da Putin. Una volta tanto anche Salvini dovrebbe essere chiaro e netto su questo senza tentennamenti». Mentre Mauro Berruto della segreteria dem, scrive su Twitter: «”La Lega condanna con fermezza ogni aggressione militare”? No, Matteo Salvini, condanna esplicitamente la #Russia e l’azione sconsiderata di colui che portavi sulla maglietta.
#UkraineRussiaConflict #UkraineRussie #NoWar». Agli attacchi Salvini ha poi risposto da Radio libertà: «Se qualcuno usa per polemica politica italiana, per beghe quella che è una tragedia dimostra di essere un piccolo uomo. C’è una guerra in corso, ci sono missili, ci sono attacchi, quindi bisogna unirsi per fermare questa tragedia il prima possibile. Se qualcuno la usa in chiave interna, per equilibri di maggioranza e cose del genere è veramente fuori dal mondo». Data la situazione di emergenza, il leader leghista ha poi convocato la segreteria del partito e la Lega è ritornata a partecipare ai lavori del Copasir, «con l’obiettivo di portare un contributo per favorire la pace».
Sul fronte Pd, il segretario Enrico Letta ha annunciato che «oggi pomeriggio proponiamo di ritrovarci alle 16 di fronte all’ambasciata russa a Roma per esprimere la nostra ferma condanna dell’invasione russa dell’Ucraina». Al Gr1 Rai aveva intanto detto : «Non bisogna essere arrendevoli e cedevoli, non c’è spazio per terzismi e ambiguità, c’è spazio per una reazione ferma perché sono in gioco i principi che sono alla base della nostra convivenza civile e della stessa vita dell’Europa».
Per Letta: «Putin cercherà di dividerci, ha già cercato di farlo e se trova unità e fermezza questa è la prima risposta. La necessaria reazione deve essere unita, nessun paese europeo deve andare per conto suo, fa bene il presidente del Consiglio oggi subito con gli alleati europei a trovare l’unità».
Quanto al fronte interno, per il segretario dem «c’è bisogno che il Parlamento italiano dica cose senza ambiguità, noi chiediamo che nelle prossime ore ci sia una riunione del Parlamento, che prenda una posizione chiara e tutti si esprimano senza nessuna forma di ambiguità. Le sanzioni sono la prima reazione, bisogna creare un cordone attorno alla Russia perché sia la stessa società russa a dire che non bisogna andare avanti su questa linea di follia rispetto alla quale Putin in modo ingiustificato sta portando l’Europa e il mondo».
Anche da Giuseppe Conte, leader del M5S, parole preoccupate: «Condanno con fermezza l’attacco russo che precipita la situazione e allontana ogni spiraglio di soluzione diplomatica. Confidiamo ancora in una risposta europea e nel contributo che l’Italia può dare in questo senso alla comunità internazionale. In questo momento, però, il mio pensiero va anche a alla popolazione civile, per la quale sono profondamente preoccupato». Il collega di partito Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, aggiunge via Twitter: «L’operazione militare russa è una gravissima e ingiustificata aggressione, non provocata, ai danni dell’Ucraina, che l’Italia condanna con fermezza. Una violazione del diritto internazionale. L’Italia è al fianco del popolo ucraino, insieme ai partner Ue e atlantici».
Apologia dello zar. Tutte le volte che Salvini ha elogiato Putin. L'Inkiesta il 4 Marzo 2022.
Il leader della Lega non ha mai nascosto la sua ammirazione per l’autocrate russo. Anzi, ha sempre avuto interesse a dimostrarlo a tutti sui suoi profili social.
Le acrobazie linguistiche che ha compiuto Matteo Salvini negli ultimi dieci giorni per non accusare Vladimir Putin dell’invasione dell’Ucraina, o per accusarlo solo indirettamente, meriterebbero uno studio filologico approfondito.
Intanto perché non lo nomina mai direttamente, o quasi, e poi perché fatica a distaccarsi del tutto da un passato che lo ha visto spesso dalla parte dell’autocrate russo.
Lo dimostra lo storico dei suoi post sui social, soprattutto su Twitter, dove con pochi caratteri riesce a esprimere tutto il suo apprezzamento per Putin e il suo modo di fare politica (ammesso che si possa definire politica).
Un docente universitario, Nicholas Whithorn, studioso di traduzione specializzato in linguaggio dell’antimafia italiana, ha raccolto ben 20 tweet pro-Putin di Salvini in un lungo thread che parte da ottobre 2014.
«Farei cambio tra Renzi e Putin domattina, altro che dittatore», twittava il leader della Lega il 18 ottobre 2014. Non c’è molto da interpretare qui. Però è da notare che Matteo Renzi, all’epoca presidente del Consiglio, è spesso usato come termine di paragone da Salvini.
«Europarlamento attacca Russia e Ungheria anziché pensare a problemi reali. Fra Renzi e Putin, scelgo PUTIN», con tanto di maiuscole. E poi, di nuovo a gennaio 2015, riprendeva ancora il confronto: «Fra Putin e Renzi scelgo Putin, senza dubbio. Non dobbiamo dipendere dalle scelte di Berlino e Bruxelles», twittava commentando una puntata di Che Tempo Che Fa.
Gli elementi visivi sono forse quelli di maggior impatto e scorrendo la home di Twitter le immagini si notano subito. Infatti il 9 maggio 2015 Salvini pubblicava due foto al fianco di Putin, con la didascalia più chiara possibile: «Io sto con lui». E si era capito.
Il calderone si allarga, e ci entrano anche altri malcapitati che non possono competere – nelle preferenze del leader del Carroccio – con il dittatore russo: «Sanzioni contro la Russia, follia dei cretini UE e di Renzi! Io sto con #PUTIN, via le sanzioni!»
Per Salvini, Putin è chiaramente il vincitore del testa a testa ideale con Renzi. Allora c’è bisogno di un nuovo confronto diretto, una rievocazione dello scontro tra grandi potenze: «Se devo scegliere tra Obama e Putin scelgo PUTIN tutta la vita: il terrorismo islamico va sradicato, con ogni mezzo necessario», twittava a settembre 2015.
L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha cambiato lo scenario, ha creato un polo di leader populisti e impresentabili: «Trump, Le Pen, Putin e altri leader potrebbero garantire la pace che non han garantito Obama e i suoi alleati».
In un tweet di gennaio 2017 Salvini posta un selfie direttamente da Mosca, con tanto di colbacco e occhiali da sole. «Se Parisi e Berlusconi scelgono Merkel dell’Euro dell’immigrazione, no problem! Io scelgo il coraggio di Putin, Trump e Le Pen. #Liberi».
La foto in cui Salvini stringe la mano a Putin ritorna spesso. A marzo 2018 la ripostava per augurarsi che «i russi rieleggano il presidente Putin, uno dei migliori uomini politici della nostra epoca, e che tutti rispettino il voto democratico dei cittadini».
L’ultimo tweet nel thread di Nicholas Whithorn è lo screenshot di un post di Salvini su Facebook, datato 25 novembre 2015, pochi giorni dopo gli attentati di Parigi: il leader della Lega si fa fotografare al Parlamento europeo di Strasburgo con una t-shirt con volto di Putin e didascalia: «Qui Strasburgo. È appena intervenuto Mattarella, che ha detto che chiudere e controllare le frontiere non serve. No, certo, facciamo entrare altri milioni di immigrati… Cedo due Mattarella in cambio di mezzo Putin!».
Profeti disarmanti. Il Salvini pacifista è solo l’ultimo atto della grande convergenza populista. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 7 Marzo 2022.
Antiatlantisti e antieuropeisti vecchi e nuovi ancora una volta uniti, oggi a difendere le ragioni di Putin contro la Nato come ieri nella lotta al green pass e alla «dittatura sanitaria»
L’ultima strepitosa interpretazione di Matteo Salvini nei panni del leader pacifista e non violento, lui che da ministro dell’Interno amava farsi fotografare col mitra in mano e promuoveva la diffusione delle armi al grido «la difesa è sempre legittima», non rappresenta solo l’ennesima giravolta di un uomo politico passato in pochi anni dal secessionismo al nazionalismo, dall’uscita dall’euro all’ingresso nel governo Draghi, e oggi in evidente imbarazzo a causa delle mille passate dichiarazioni di ammirazione per Vladimir Putin e per la sua politica.
Il Salvini pacifista di oggi è infatti solo l’ultimo passo di una progressiva convergenza che si è verificata in questi anni tra una parte della destra, scivolata su posizioni sempre più antieuropee, antiamericane, antiscientifiche e antimoderne (in una parola: populiste) e quella parte della sinistra, politica e intellettuale, che da simili posizioni non si è mai troppo allontanata.
Prima ancora della guerra e della convergenza tra le diverse anime dell’antiatlantismo e dell’antieuropeismo italiano, basterebbe ricordare il surreale dibattito sulla presunta dittatura sanitaria, animato nei mesi scorsi dal fior fiore della cosiddetta intellettualità progressista (e mai aggettivo fu usato più impropriamente), in cui autorevolissimi filosofi hanno rilanciato le peggiori teorie della cospirazione. Un dibattito in cui le fake news fabbricate in Russia a uso dell’estrema destra europea facevano un giro completo e rispuntavano all’estrema sinistra, compresi gli assurdi e offensivi paragoni tra green pass e leggi razziali, governi democratici e regime nazista.
Dopo tanti anni passati a celebrare retoricamente l’antifascismo, sembrerebbe che proprio nella sinistra radicale se ne sia del tutto smarrito il senso.
I casi più incresciosi si sono visti recentemente in televisione, con la filosofa Donatella Di Cesare che a “Piazza Pulita” ha avuto il coraggio di spiegare a una ragazza ucraina in lacrime che «non si conquista la libertà attraverso la guerra», perché «la pace viene prima», e alla sua sconsolata obiezione «lo dica al signor Putin» ha replicato senza scomporsi che «la pace vuol dire anche interrogarsi sulle ragioni dell’altro» e che «la demonizzazione di Putin non serve a nessuno».
Qualcosa del genere è capitato pure il giorno dopo, a “Otto e mezzo”, dove Massimo Cacciari e Lucio Caracciolo hanno svolto analoghi ragionamenti – appena un po’ più sfumati – sulla complessità del conflitto, il bene e il male che non stanno da una parte sola e analoghe circonlocuzioni, al tempo stesso ovvie e fuorvianti, per la disperazione del giornalista ucraino collegato da Kiev, sotto le bombe, che si è dovuto sorbire pure la lezione di Realpolitik. A parte lui, per inciso, l’unica a scandalizzarsi e a fare un discorso tecnicamente antifascista è stata Silvia Sciorilli Borrelli, corrispondente del Financial Times. A riprova che ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sognino tanti filosofi.
La guerra ha insomma impresso un’improvvisa accelerazione a un processo in corso da anni. L’accelerazione, come spesso accade, ha comportato però un salto di qualità.
Tra gli effetti collaterali di questo salto di qualità vi è lo spiazzamento di coloro che a sinistra hanno cercato di tenere aperto il dialogo con le componenti più radicali. Ad esempio quegli esponenti della sinistra del Pd, come Gianni Cuperlo e Peppe Provenzano, che sabato erano alla manifestazione per la pace di Cgil e Uil (la Cisl si è sfilata in protesta con la posizione di «neutralità attiva» scelta dai promotori). Dirigenti che, pur rivendicando la scelta di inviare armi all’Ucraina, hanno deciso di sfilare in una manifestazione che contestava esattamente quello, perché la strada per fermare la guerra, come ha detto Landini dal palco, «non è l’invio delle armi, ma il ricorso alla massima diplomazia».
Ed è niente in confronto ai contorsionismi di Pier Luigi Bersani, che mercoledì in un’intervista a Repubblica, pur avendo votato anche lui con la maggioranza sul sostegno all’Ucraina, ha detto che non gli sta bene «questa Unione europea solo con l’elmetto», arrivando perfino a riscoprire Metternich, perché «dopo aver sconfitto Napoleone pretese che anche la Francia sedesse al tavolo del congresso di Vienna, per decidere insieme i nuovi equilibri», mentre «dopo l’89 non è andata così».
Si potrebbe osservare che al congresso di Vienna, per la Francia, non sedevano rappresentanti di Napoleone, ma quelli dei Borbone. E che Putin sarebbe certo lietissimo di seguire la lezione di Metternich, Talleyrand o Bersani che dir si voglia, sedendosi al tavolo delle trattative con Yanukovich.
Che dire? Dalla rivoluzione alla restaurazione, dal campo largo alla santa alleanza, grande è la confusione sotto il cielo della sinistra. E speriamo che in nome della «lezione di Metternich» e del principio di legittimità domani non tocchi riprenderci pure i Savoia.
Gli altri "amici" di Putin che la sinistra ha rimosso. Stefano Zurlo il 7 Marzo 2022 su Il Giornale.
Ora si nascondono gli elogi di Letta e gli abbracci di Prodi che Vladimir considera vicino quanto il Cav.
L'incontro forse più sconcertante è quello del 26 novembre 2013. L'allora premier Enrico Letta incontra Vladimir Putin che si fa attendere un paio d'ore in quel di Trieste. Dettagli, quel che impressiona è il fiume di parole del capo del governo: «Noi abbiamo un drammatico bisogno di crescere, di creare posti di lavoro. C'è una ripresa da agganciare e in questo senso il rapporto con la Russia ci può dare posti di lavoro in settori per noi strategici».
Grandi aspettative, toni trionfalistici. Strette di mano e sorrisi in grande stile. Italia e Russia, dopo la conferenza stampa a braccetto, sono pronte al grande abbraccio. E invece, attenzione alle date, nemmeno tre mesi dopo, il 20 febbraio 2014, il Cremlino occupa la Crimea e mostra il suo volto aggressivo.
Altro che cooperazione e svolta europeista, semmai la zampata autocratica di chi non sa convivere con i ritmi della democrazia. Ma alla vigilia di quell'involuzione pericolosa e violenta, Letta è convinto che la Russia sia una sorta di terra promessa. «Abbiamo molti impegni da implementare, gli accordi devono diventare fatti concreti», gongola l'attuale segretario del Pd che dà i numeri di una giornata storica: 28 intese commerciali e 7 accordi intergovernativi in settori delicatissimi. La finanza, l'industria, l'energia.
Le antenne tricolori non captano quel che si sta preparando e che peraltro un po' tutti faranno finta di non vedere fino all'invasione dell'Ucraina, e Roma si lega sempre più stretta il cappio del gas russo intorno al collo.
Il 20 febbraio 2014 le truppe russe senza insegne entrano nei villaggi e nelle città della Crimea. Ma quasi nessuno prende seriamente le distanze dal Cremlino e taglia il cordone con Mosca. Non lo fa Berlusconi, amico di Putin, non lo fa Salvini che anzi si lancia in avventurosi e spericolati elogi del leader russo che oggi, nello specchietto retrovisore di questi otto anni, appaiono lunari.
Ma anche a sinistra i rapporti rimangono stretti. Forse non se ne può fare a meno, forse c'è l'illusione di poter correggere la rotta che diventa una deriva, forse si sottovaluta la realtà.
Il 18 dicembre 2014, qualche mese dopo la conquista della Crimea, portata via all'Ucraina con la forza anche se senza sparare un colpo, è il volonteroso Presidente della Fondazione per la cooperazione fra i popoli Romano Prodi ad essere ricevuto al Cremlino. Un colloquio lunghissimo con l'agenda satura di argomenti esplosivi: appunto l'Ucraina, appena violata nella sua integrità e a cui è stata amputata la penisola di Yalta e Sebastopoli, e poi il Medio Oriente e l'Africa.
Per carità, discutere e magari provare a far valere le ragioni della pace e del diritto internazionale non è una colpa, ci mancherebbe, certo il meeting fra i due non può essere catalogato alla voce routine. A novembre 2017, Prodi è di nuovo ospite dello zar a Sochi, sul Mar Nero, e in quell'occasione la Tass, l'agenzia che oggi capovolge la cronaca e trasforma i lupi in agnelli, fa notare che Prodi e Putin sono collegati da relazioni amichevoli di vecchia data. La visita del resto è privata e Putin in persona sottolinea quella relazione speciale: «Qualsiasi siano le posizioni che occupiamo, ovunque lavoriamo, siamo persone, prima di tutto». Giusto.
Una frase sibillina che può essere letta in molti modi, ma certo l'impressione che si ricava alla fine di quel meeting è in qualche modo l'accreditamento di Putin alle nostre latitudini. I politici, anche quelli più autorevoli come Prodi, lo frequentano e quei meeting sono inevitabilmente, al di là delle intenzioni, una cortina fumogena sulla sequenza di atrocità commessa da Mosca: la repressione del dissenso, il sangue versato dai giornalisti, l'orrore della Cecenia, la guerra in Georgia già nel 2008 e tutto il resto.
Anzi, alla fine di quell'incontro, Putin accosta Prodi a Silvio Berlusconi: «Come lui ha sempre guidato gli interessi dell'Italia e ha creduto che per mantenerli dovrebbero essere mantenute buone relazioni con la Russia. Per questo - conclude Putin - ho una relazione amichevole con entrambi i politici». Parole che oggi imbarazzano.
C'era una destra filo russa, ma c'era anche una sinistra ottimista e a tratti euforica, pure se con toni discreti e passi felpati. Nell'immaginario collettivo restano i fuochi d'artificio salviniani e i colbacchi della coppia Putin-Berlusconi. Ma l'album, alto così, è zeppo di foto di vecchi compagni, immortalati con lo zar: da Massimo D'Alema - alle prese nel 2006 con l'oscuro caso Livtinenko - ai giorni nostri. In una successione di speranze e abbagli.
Social netwar. Quello che più ci interessa (e ci stressa) della guerra è il nostro personale psicodramma.
Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022. Quelli che vanno in pizzeria da Briatore senza impavesarsi in una bandiera azzurra e gialla (e vengono filmati da un qualche telefono) sono cattivi. Mica come noi, che postiamo il nostro struggimento. E invece siamo uguali, noi e Salvini. Perché mettiamo sempre noi stessi al centro di tutto. E non siamo più invisibili, né lui né noi, mentre lo facciamo
Se un disturbo della psiche è collettivo, può ancora definirsi disturbo? Non è piuttosto una nuova norma, il modo in cui l’umanità si è evoluta, ciò che ormai siamo?
Abbiamo organizzato, negli ultimi giorni, le lavagne dei buoni e dei cattivi in modo assai curioso. I cattivi sono quelli che vanno a mangiar la pizza da Briatore e fanno «ué ué ué» quando il pizzaiolo la fa girare, invece di contrirsi e postare bandierine azzurre e gialle. I buoni sono quelli che vanno a incontrare gli amici al sole, avvolti in bandiere azzurre e gialle, e rilasciano dichiarazioni su quanto soffrono.
Solo che questa descrizione non coglie la colpa né il merito. Solo che questa descrizione manca il punto della questione.
La colpa di Matteo Salvini e di Silvio Berlusconi non è di mangiare brioche mentre il popolo soffre la guerra, così come il merito del ceto medio riflessivo non è di dirci che la notte non dorme per il peso emotivo del conflitto. La colpa di là e il merito di qua risiedono in ciò che hanno in comune i due gesti: essere compiuti davanti alle telecamere dei telefoni.
Più che con la globalizzazione, più che con la fine della guerra fredda, più che coi social, più che con la smaterializzazione dei consumi culturali; più di tutto, il mondo è cambiato quando, delle duecento cose impresentabili che facevamo ogni giorno, centonovanta hanno iniziato a essere in rischiosa vicinanza della telecamera d’un altrui telefono (nei casi più gravi: del nostro).
Non sapevamo quanto fossero beate le nostre vite finché a nessuno importava che ci grattassimo, che mangiassimo la pizza, che accogliessimo un orfano ucraino, che fossimo contro la guerra, che non mettessimo il parmigiano sulle vongole. Non sai quel che hai finché non lo perdi, e noi abbiamo perso la possibilità d’essere invisibili.
La vera oligarchia, il vero lusso, è che la tua pizza non finisca sui social e sui siti. Ma per potertela permettere, quell’oligarchia lì, devi essere almeno Beyoncé: devi avere fantastiliardi da investire in guardie del corpo e assistenti che sequestrino i cellulari dei presenti, quando vuoi fare il karaoke col pizzaiolo e fuori c’è la guerra. E distribuirli e incitare a usarli, invece, i telefoni, quando vuoi dirti contrita dalla guerra e puntualmente dolente.
Poiché nessuno è Beyoncé – quasi neanche Beyoncé – a noialtri mortali resta la consolazione che ci sarà sempre un cretino che la fa più grossa di noi, un’inadeguatezza salviniana sulla quale dirottare la potenziale pericolosissima attenzione per l’inadeguatezza nostra (che magari abbiamo rilanciato la raccolta fondi sbagliata, o tardato a postare una bandierina e un cuoricino infranto nel nostro profilo social).
È anche molto interessante la scuola critica secondo la quale è grave che, all’uscita dalla pizzeria, e a chi chiedeva «avete parlato dell’Ucraina?», Salvini abbia risposto di sì: mentiva, l’abbiamo visto ridere e applaudire per due minuti e quindi di certo non ha fatto altro per ore. Interessante non perché io pensi che Salvini invece non mentisse, e sia invero contrito quanto il ceto medio riflessivo che, come passatempo del sabato pomeriggio, accende candele e manifesta avvolto in bandiere fotogeniche: esattamente come voi, a stento so cosa provo io, figuriamoci se conosco le preoccupazioni altrui.
Interessante perché mi sembra un’ovvietà così ovvia da non servire uno studioso di psicologia per decodificarla che chi vive di consenso popolare sarà più preoccupato delle conseguenze pratiche d’una guerra per il suo elettorato di quanto lo sia chi vive d’altro.
Ma, soprattutto, interessante la stranezza d’un tempo in cui il problema non è che un giornalista vada fuori da una pizzeria a chiedere «avete parlato dell’Ucraina?» (versione politica estera del «cosa prova?» che i giornalisti di cronaca nera domandano ai parenti del morto); il problema è che un senatore risponda con una frase di circostanza. Cosa doveva dire per non scontentarci, «ma sa quanto me ne fotte a me»? Ne avremmo approvato il sestessismo e l’autenticità?
Il guaio è che, come nei campi di calcetto della nostra infanzia, le squadre erano fatte da prima. Salvini non va bene neanche quando va a depositare i fiori per gli ucraini, mica solo quando applaude il pizzaiolo. Mentre noialtri, la nostra dolenza è certamente vera e sentita e vibrante e empatica, e la nostra eventuale pizzeria sarebbe un tentativo di distrarci dai dolori del mondo che tanto ci pesano. Noialtri che mai mai mai diremmo che le ucraine in Italia sono perlopiù badanti, come quella stronza renudista della Annunziata, le reazioni isteriche alla cui frase (detta mentre non era inquadrata, e pure veritiera) hanno fatto sembrare l’attentato di Sarajevo una spaghettata tra amici.
L’incipit dell’editoriale scritto sul New York Times di ieri da Maureen Dowd fa così: «Quel che mi ha sorpreso di più della Storia della quale sono stata coeva è quanto spesso siamo stati trascinati in percorsi dementi e distruttivi da leader che hanno dato la precedenza ai loro personali psicodrammi rispetto al benessere pubblico». Non si può darle torto.
Tuttavia nel frattempo la National Public Radio, l’istituzione culturale più di sinistra degli Stati Uniti d’America, pubblicava consigli su come affrontare le notizie stressanti sulla guerra: prendetevi cura di voi, cucinate una torta, scrivete una lettera a un amico. E sempre, sempre, ricordatevi che al centro ci siete voi, le vostre emozioni, le vostre percezioni, le vostre indignazioni e dolenze. Il vostro personale psicodramma, cifra espressiva unica sulla quale poi per forza ai politici tocca sintonizzarsi.
Il camuffamento ideologico. La tragedia di una sinistra incapace di riconoscere i fascisti anche quando se li trova davanti. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 25 Febbraio 2022.
Il principale problema della politica di oggi è non riuscire a smascherare i nemici della democrazia. La colpa è dei propagandisti e disinformatori di professione che da anni affollano la nostra scena pubblica, ma anche degli intellettuali di una certa età, vittime della propria pigrizia intellettuale
Lo spettacolo increscioso che con poche eccezioni hanno offerto giornali e televisioni sulla crisi russo-ucraina nelle ultime settimane non va sottovalutato. È giusto oggi ricordare tutte le incredibili dichiarazioni di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio, le parole e gli atti di Giuseppe Conte ai tempi del governo gialloverde (e anche giallorosso), ma se ci fermiamo qui rischiamo di scambiare l’effetto per la causa, la manifestazione superficiale della malattia per la sua origine.
Il problema di fondo, che abbiamo davanti ormai da alcuni anni, è l’incapacità di tanti politici, giornalisti e intellettuali, specialmente a sinistra, di riconoscere il fascismo persino quando se lo trovano davanti. O anche accanto.
Intendiamoci. Non c’è nulla di strano nel fatto che fino a due giorni fa, cioè fino al giorno prima dell’invasione, con tutti i mezzi corazzati russi già schierati al confine, Marco Travaglio criticasse giornali e telegiornali colpevoli di rilanciare «l’ennesima fake news americana dell’invasione russa dell’Ucraina». Non c’è nulla di strano nel fatto che il giorno dopo il suo giornale titoli su «Draghi agli ordini di Biden», esaltando la posizione di Conte (uno squillante: «Negoziare») e ridicolizzando quella del segretario del Partito democratico in termini che nemmeno i troll del Cremlino («Letta: sanzioni a gogo»). Lo strano, a dir poco, è che da alcuni anni un pezzo consistente della sinistra democratica accrediti questi signori come compagni e alleati strategici.
L’empia ubriachezza del nostro dibattito pubblico sulla crisi di questi giorni è insomma il risultato di diversi guai che ci portiamo dietro da tempo. Ci sono infatti i propagandisti e i disinformatori di professione che da anni affollano la nostra scena pubblica, che si presentino come analisti di relazioni internazionali o come leader politici. E ci sono anche politici e intellettuali di una certa età che sono semplicemente vittime della propria pigrizia intellettuale e dei propri riflessi condizionati, e così ieri reagivano alle foto dei tank russi mostrate dagli americani come fossero le inesistenti armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, per la stessa ragione per cui l’anno scorso trattavano la crisi del governo Conte come fosse il colpo di stato in Cile. Tragicamente incapaci di capire, nel mondo di oggi, chi sia Allende e chi sia Pinochet, almeno finché l’entrata in scena di carri armati e bombardamenti non si è incaricata di ricordarlo a tutti noi. Come se non fosse sufficiente il fatto che a sostegno di Putin stanno tutte le principali formazioni di estrema destra del mondo, ad onta di tutte le sue citazioni di Lenin.
Questa incapacità di vedere dove sia il fascismo e da dove arrivi il pericolo, per la democrazia, per l’Europa e per l’occidente, è forse il principale problema della politica di oggi.
In Spagna, qualche giorno fa, el País si interrogava sul risultato di un sondaggio sulla formazione neofranchista Vox, secondo cui «gli elettori di questo partito non si collocano all’estrema destra, che è dove li colloca la maggioranza della popolazione».
L’ambiguità della collocazione è parte fondamentale, credo, della forza e della strategia dei nuovi populisti. Una galassia di formazioni che lo storico Steven Forti ha proposto di definire «estrema destra 2.0», caratterizzate da un intreccio di hate speech e fake news, temi classicamente di destra come l’identitarismo e l’islamofobia, ma anche rivendibili come «di sinistra», a cominciare dall’antiglobalismo.
Naturalmente, il tentativo di adattare a posizioni di estrema destra un lessico e una posa da sinistra rivoluzionaria in lotta contro il sistema non è in sé una novità. Lo stile dei post di Alessandro Di Battista (anche gli ultimi, incredibili, sulla Russia che non avrebbe avuto nessuna intenzione di invadere l’Ucraina) può apparire di sinistra solo a chi non abbia nessuna memoria dello stile e dei riferimenti di tanti neofascisti degli anni settanta (penso in particolare quelli che si riconoscevano in Pino Rauti), ma anche delle correnti “rivoluzionarie” o “di sinistra” che hanno sempre attraversato il fascismo, sin dal 1919.
C’è tuttavia qualcosa di più nel grande rimescolamento (e camuffamento) ideologico in corso, e nel suo insidioso intreccio con l’uso spregiudicato delle nuove tecnologie, come emerge anche dal libro di uno studioso argentino, Pablo Stefanoni: «La ribellione è diventata di destra?» (Siglo XXI). Sottotitolo: «Come l’anti-progressismo e il politicamente scorretto stanno costruendo un nuovo senso comune (e perché la sinistra dovrebbe prenderli sul serio)». Negli anni settanta si sarebbe parlato forse del tentativo di costruire una nuova egemonia. Solo che oggi l’egemonia non passa tanto dai discorsi sulle masse, la lotta di classe e gli studi gramsciani, quanto dalla capacità di muoversi agilmente tra Instagram e Netflix, fake news e gattini, gestapo e gazpacho. E se quest’ultima vi pare solo una battuta di cattivo gusto, evidentemente, è perché non avete sentito la parlamentare trumpiana Marjorie Taylor Greene inveire contro la «gazpacho police» di Nancy Pelosi, nel consueto tentativo di sovvertire ogni logica del discorso politico insieme con le istituzioni democratiche, confondendo la polizia politica di Hitler con la zuppa fredda della cucina spagnola (sono i repubblicani che il 6 gennaio 2021 hanno assaltato il parlamento, come tutti i fascisti di ogni tempo e luogo, non certo i democratici di Nancy Pelosi).
Nella Francia che si avvia alle presidenziali con ben due candidati ascrivibili a questa nuova destra radicale – Marine Le Pen e Eric Zemmour – un altro giovane studioso, Raphaël LLorca, ha appena pubblicato un libro dal titolo significativo: «Le nuove maschere dell’estrema destra» (éditions de l’aube – Fondation Jean-Jaurès).
È una chiave interessante. Llorca invita infatti a considerare la duplicità del concetto di maschera. Per afferrarlo, scrive, «non bisogna guardare solo a quel che nasconde, ma anche a quello che mostra».
Di fronte all’orrore della guerra e della violenza, le tante ambigue dichiarazioni di questi giorni dovrebbero rendere questo esercizio almeno un po’ più facile. E far capire a tutti che riarticolare un discorso democratico e progressista coerente, capace di smascherare tutti i nemici della democrazia, è ormai per l’Italia e per l’Europa, letteralmente, questione di vita o di morte.
Analfabetismo politico. Il problema dell’atteggiamento fascista di un certo antifascismo in Italia. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 26 Febbraio 2022.
Come dimostrano le piazze del vaffanculo riempite e sobillate da sovranisti e populisti, il nostro Paese ha ancora i germi del virus secolare da cui pretende di essersi liberata con l’antidoto di cinque cadaveri appesi in Piazzale Loreto.
Certa incapacità di vedere il fascismo dove questo c’è sostanzialmente (ne ha scritto ieri Francesco Cundari, e mi permetto di aggiungere che quel fascismo è tanto più evidente e temibile quanto più sopravvive sotto le forme che retoricamente lo rinnegano), non costituisce un’aberrazione episodica e marginale del corso repubblicano: ma il portato essenziale di una medesima storia, di una identica tradizione, e la perseveranza in purezza di una lunga affermazione identitaria di cui il fascismo è stato conato e la Repubblica antifascista la più duratura realizzazione sostanziale.
È una realtà difficilmente denunciabile presso il potere consuetudinario che trae vantaggio – di allocazione sociale, di carriera, di roba – da quella mistificazione, ma non è facile discuterne con speranza di ascolto nemmeno presso quelli che per pigro fraintendimento vi si subordinano in modo consolatorio, facendo le viste di potersi limitare al rilievo della fastidiosa stecca fascista nel complesso di un’orchestra dopotutto armonica.
Ma la realtà è che ogni giro illiberale e conformista, sopraffattorio, violento, della strada antifascista aveva e ha ancora, oggi, patente stampo fascista: o, ed è lo stesso, anzi è peggio, non era riconosciuto per tale dal potere antifascista.
Ciò a cui abbiamo assistito negli ultimi dieci anni e massimamente negli ultimi due, con l’antifascismo ora indifferente ora complice nell’esperimento baldanzoso, protervo, rivendicativo della più pura riaffermazione dell’essenza fascista italiana; e tutto ciò, et pour cause, mentre più generosa era la fioritura dei movimenti e dei libri e delle commissioni e delle giornate nazionali contro l’odio, e delle mobilitazioni parlamentari per le leggi di civiltà presidiate da tanta bella galera democratica, denuncia in modo definitivo che l’Italia è pregna del virus secolare da cui pretende di essersi liberata con l’antidoto di cinque cadaveri appesi in Piazzale Loreto.
Si è ancora accettabili, in questo Paese, se si dice che il fascismo non ha prodotto proprio niente di buono. Ma non si è accettabilmente antifascisti se si dice che tra le cose cattive prodotte dal fascismo c’è l’antifascismo che ha portato a lasciar riempire, e a volte ha riempito, le piazze del vaffanculo.
Prova di leadership. L’intransigente e inaspettato atlantismo di Enrico Letta. Mario Lavia su L'Inkiesta il 26 Febbraio 2022.
Il segretario del Partito democratico ha chiesto più di tutti sanzioni dure contro Putin. Una posizione chiara che aiuta il governo italiano a restare in sintonia con gli alleati, relegando ai margini gli orientamenti antiamericani di una parte della sinistra.
Di fronte all’enormità di quanto sta avvenendo nel cuore dell’Europa, il mite Enrico Letta non si mostra per nulla mite. In questa vicenda appare il politico italiano con le idee più forti e più nette. Senza giri di parole ha detto che Vladimir Putin è il Nemico, adombrando persino una non lucidità mentale del capo del Cremlino.
Tutti ieri in Parlamento si sono schierati contro il dittatore di Mosca (ma quanti interventi da scuola media) però nessuno è stato così duro come il segretario del Partito democratico al quale – lo si è capito – evidentemente non bastano le sanzioni adottate contro Mosca che per lui invece devono essere tali da poter «mettere in ginocchio la Russia», e non deve essere un caso se nel pomeriggio il governo ha fatto sapere che sulle sanzioni l’Italia ha la stessa posizione dell’Unione europea. E, a dimostrazione che il nostro Paese non è ambiguo, con il decreto del Consiglio dei ministri si è costruita la “mappa” dell’impegno dei nostri militari.
Poi il leader del Pd ha anche posto il tema dei corridoi umanitari e dell’accoglienza dei profughi e ha alluso a un «maggior sostegno» dei paesi democratici al governo ucraino. Un piano più articolato persino di quello esposto dal presidente del Consiglio Mario Draghi.
Ieri Letta, in questo in sintonia con Draghi, ha posto nei giusti termini l’attacco russo a Kiev: come un attacco ai valori dell’Occidente, alla democrazia, alla libertà. E, al di là delle evidenti differenze, è da intendersi in questo senso il paragone tra il 24 febbraio 2022 e l’11 settembre 2001.
Se dunque il Donbass è la Manhattan europea, siamo dinanzi a una gigantesca guerra valoriale nella quale nulla bisogna concedere al nemico («Putin non deve vincere la guerra») pur essendo scontato che l’Occidente non vincerà con gli scarponi sul terreno ma con armi più complesse e di lungo periodo – speriamo, almeno.
Ecco dunque che con i discorsi che sta facendo in queste ore il cattolico Letta si riconnette culturalmente e filosoficamente all’interventismo antifascista di Emmanuel Mounier e di Jacques Maritain che agli albori della Seconda guerra mondiale giustificavano e anzi evocavano l’intervento militare in difesa dei valori di umanità e di civilità e chiamavano alla presa di posizione ovviamente a favore della libertà, e lo facevano in un frangente nel quale forte era la propensione dei cattolici a collocarsi dentro l’onda reazionaria tra le due guerre.
Sta qui il retroterra dell’antifascismo attivo di Alcide De Gasperi e la successiva scelta atlantica del leader della Democrazia cristiana e del maestro di Letta Beniamino Andreatta, nel cui solco si colloca anche Sergio Mattarella, non a caso il ministro della Difesa apprezzato dagli americani all’epoca dell’intervento umanitario nella ex Jugoslavia. A differenza di Romano Prodi che per formazione e biografia è sensibile alle ragioni della realpolitik ed è ben poco filo-americano, alla stregua di Giuseppe Dossetti, suo faro morale e politico.
In mezzo a tanti sapientoni che pretendono di dare lezioni di politica – non mancano in questa pletora vari giornalisti politici sino a ieri esperti di virologia – il segretario del Pd sta dimostrando di non considerare l’aspetto valoriale e morale una variabile dipendente dalle circostanze, ma certe cose vengono prima della pur indispensabile intelligenza degli avvenimenti (come diceva Aldo Moro) in chiave politica. letta sta dicendo che quando si sceglie da che parte stare bisogna poi accettarne tutte le conseguenze e che non è (ancora) l’ora dei compromessi.
Figlio di una purtroppo breve stagione nella quale prevalse la grammatica delle istituzioni sovranazionali e del multilateralismo oltre la logica dei blocchi, uno come Letta non può accettare la violazione dei diritti di un Paese sovrano senza che il mondo libero provi a dare una risposta all’altezza. Anche se fino a poco tempo fa parlava di tre guerre ingiuste dell’Occidente: in Siria, dove l’Occidente non è intervenuto; in Iraq e incredibilmente in Afghanistan.
Eppure, adesso, l’intransigentismo atlantico del capo del Pd è una posizione adulta puntellata da uomini di governo come Lorenzo Guerini ed Enzo Amendola e aiuta molto l’esecutivo italiano a restare in sintonia con gli alleati e relega ai margini gli orientamenti antiamericani storicamente conficcati nella sinistra così come nel largo stagno del cinismo politico che alligna a destra, al centro e a sinistra (emblema ne sono i gialloverdi che fanno fatica a schierarsi con la stessa nettezza)
È una prova di leadership che in modo del tutto inatteso cade sulle spalle di un segretario che su altre questioni appare incerto e timoroso ma che sulla guerra sta dando una lezione di non poco conto, un esempio di coraggio e di visione.
Storie di guerra. Mi sono sorbita le influencer che si tormentano su Instagram per l’Ucraina. Guia Soncini su L'Inkiesta il 25 Febbraio 2022.
Le aspiranti metà Chiara Ferragni e metà Christiane Amanpour hanno acceso la loro telecamerina per raccontarci in un minuto la crisi geopolitica dell’anno.
Marta Fascina è una deputata. Forse non conoscete le sue proposte di legge, ma l’avete vista togliersi la mascherina, in tribuna allo stadio, col piglio con cui altre si levano le mutande, e piantare un limone in bocca a un ottantacinquenne. Poiché, quando torna a casa dell’ottantacinquenne, la trentaduenne Marta si ha ragione di credere dorma nel lettone di Putin, io ritengo che l’arma diplomatica più seria di cui l’Italia disponga sia una diretta dolente su Instagram: Vladimir, pensaci, te lo diciamo da questo talamo che ci donasti.
Chiara Ferragni è un’imprenditrice. Ieri, il suo Instagram era come sono gli Instagram di successo, corsie di supermercato in cui tra un tipo di prodotto e l’altro nessuno ti dice «ma ora cambiamo argomento» (Chiara Ferragni è l’Esselunga, mica il minimarket all’angolo: ci trovi tutto). Alternava una foto di bombardamenti con sopra disegnetti di cuore spezzato, una «è uscita la mia nuova bigiotteria», una «sono alla sfilata di Prada».
Federica Cacciola è un’attrice e un’autrice. Ha inventato il personaggio di Martina Dell’Ombra, entelechia di superficiale che – ben prima di Drusilla Foer presentata come donna che conduceva a Sanremo – ha messo alla prova la nostra capacità di distinguere tra autore e personaggio. L’altro giorno ha pubblicato un video in cui rispondeva alle prime incredibili accuse fatte alle influencer di non mettersi lì a recitarci voci Wikipedia sulla guerra, o a dolersene (invece di ringraziarle). Il video di Martina Dell’Ombra fa molto ridere se conoscete i codici del mezzo: ha usato una musichetta che, con specifica coreografia di mani a indicare le scritte, le influencer usano quando vogliono risultare perentorie. Le scritte che comparivano erano, tra le altre, «come cazzo si fa a spiegarlo in un minuto con un simpatico trend di TikTok, già è difficile battere le mani a tempo, eh lo so che non hai tempo e la sintesi ti piace tanto», alcuni inviti a studiare e approfondire (seh, vabbè), e un conclusivo: «sì, lo so, questa musichetta è ipnotica».
Il fatto è che su Instagram sono tutti aspiranti Ferragni e anche aspiranti Christiane Amanpour, com’è fisiologico accada con un mezzo così poco specifico e così capace di renderti smanioso di non venire escluso dalla conversazione del giorno. E quindi c’è il transessuale (non so cosa faccia di lavoro: essere transessuale è la sua principale rappresentazione instagrammatica e quindi la sua identità professionale sul mezzo) che ci spiega che «un po’ mi vergogno perché colgo appieno il mio privilegio solo ora che la guerra è dietro l’angolo». Il gay col fondotinta (di nuovo: modo in cui rappresenta sé stesso sul mezzo) che avvisa che lui non ha capito se i video che circolano siano veri «ma sappiate che alcuni sono davvero raccapriccianti», «sicuramente adesso si attiveranno in molti e potremo fare qualcosa in più» (prendere più cuoricini, si spera), e conclude «forza Ucraina» con bandierina.
Daniela Collu è – come tutti noi – un’aspirante Ferragni. Ieri ha acceso la telecamera del telefono e ci ha spiegato che la guerra è brutta anche se fa male. Perché sì, perché se non lo fai ti tirano le pietre, se lo fai ti tirano le pietre, ed è più conveniente fartele tirare per impegno goffo che per esibita noncuranza. Mentre Collu faceva le facce dolenti, sulla sua diretta Instagram comparivano commenti illuminanti, alcuni dei quali procedo a ricopiare.
«Stamattina ho guardato mio figlio di un anno e mezzo dicendogli in che cavolo di mondo è nato e chiedendomi quanto è giusto dare la vita in questi momenti della Storia»; «Mi viene in mente la poesia di Szymborska che si chiama Nella solitudine [intende: Nella moltitudine]»; «Ho appena guardato su Internet ed ho visto i militari russi, avranno appena 18 anni!!!!». Mica come i soldati abitualmente sessantenni.
Poi c’è il filone «ogni scusa è buona per battere la fiacca», che dalla pandemia si è lietamente spostato alla guerra: «Io mi sento in colpissima a studiare per un esame insulso mentre i miei coetanei si barricano sotto terra»; «Io a disperarmi per gli esami quando i problemi sono altri»; «Mi chiedo che senso abbia continuare la mia vita normale, studiare ecc».
Il filone «mi riguarda»: «Il cognato della badante ucraina di mio nonno è morto due o tre anni fa sul fronte».
Il filone «anche le celebrità soffrono»: «Ho letto di Anna Safroncick (l’attrice) che ha il papà lì [intende: Safroncik]».
Il filone «fino all’avvento di Instagram non ho mai letto un giornale»: «Ma perché bombardano i civili?».
Il filone «sento il dolore del mondo»: «Un’ora che piango ininterrottamente» (vi ricordate quando le frequentatrici dei social raccontavano di piangere la notte pensando ai barconi dei profughi? Sono anni che non dormono).
E poi c’è Roberta. Roberta, dalla data di nascita pubblicata sul suo account, ha ventisei anni: neanche le si è finito di formare il cervello. A Roberta, nell’ecosistema dell’internet, ieri tocca il turno della scema cui si dà la caccia. Giacché Roberta, nei commenti della diretta, scrive: «Povere aziende di moda surclassate [intende: spiazzate] da questa terribile notizia. Sapendo che i Russi [intende: russi] sono i massimi clienti… e che è tutto un bordello da 2 anni ora che stavamo un minimo respirando e aspirando alla spensieratezza». Roberta viene trattata come una demente dalla dolente Collu e dalle sue dolentissime commentatrici, che la invitano a vergognarsi di pensare a orrori quale il bilancio dell’azienda che immagino la stipendi permettendole di pagare le bollette (dell’energia russa) invece che ai civili bombardati. Roberta si scusa e poi cancella l’account. Roberta, capro espiatorio perfettissimo, prima caduta italiana della versione instagrammatica della guerra.
Intanto, a ieri sera, l’ultimo post sull’Instagram di Marta Fascina era vecchio di due settimane. Eppure sono certa che solo lei, col piglio con cui ha ammutolito Silvio – che sarà pure stato appassionato di mignotte ma mica ha mai limonato nessuna in pubblico: era un signore discreto, perdindirindina – potrebbe risolvere la situazione. Marta, pensaci: una diretta dal lettone, tutti che ti commentano proiettando dolenze, Vladimir che interviene e si pente. Finisce tutto a cuoricini e vino.
Chat geopolitiche. L’era delle mamme mitomani che piangono per la guerra e poi sponsorizzano cerini.
Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Febbraio 2022. Uno si sente meschino a interessarsi d’altro mentre l’Ucraina è invasa dalle truppe russe. Ma basta farsi un giro sui gruppi Facebook per assistere allo spettacolo delle madri che mettono le emoticon per le bombe e poi fanno bagarinaggio dei biglietti del concerto di Blanco a 350 euro
Quando scoppia la guerra si può parlare anche di altro? Uno poi si sente meschino, ma cosa volete che ne sappia io della guerra, dell’Ucraina, della Nato, del gas. A me la cosa che manda ai matti è che pure la guerra è diventata una figurina, tra una foto alla Milano Fashion Week, bambini ucraini che piangono e marchette varie.
Cosa volete che vi dica, se non che ci deve essere qualche congiunzione astrale disgraziata che fa sì che guerre e pandemie e me medesima e torture nascano sotto il segno dei Pesci.
Nei gruppi Facebook di mamme milanesi l’atmosfera è tesa, tra completa identificazione mitomane con le mamme ucraine e bagarinaggio dei biglietti del concerto di Blanco a 350 euro cadauno, che la bambina mica ci dovrà andare da sola, ecco qua 750 euro signor bagarino, il resto mancia. Pare che la badante ucraina abbia oggi sostituito il nonno partigiano.
Mi chiedo cosa pensino le fit mum di Instagram della situazione ucraina, quindi vado a controllare. La sequenza è: quiz su cosa sapete di me, foto confronto prima del parto e dopo il parto, screenshot di articolo che parla delle mamme ucraine che mettono l’adesivo con il gruppo sanguigno sulle giacche dei bambini più emoticon cuore spezzato, sponsorizzazione delle creme proteiche al pistacchio che vanno bene anche per lo svezzamento, non so bene in quale parallelo universo nutrizionale.
Mettere tutto sullo stesso piano ha come risultanza piangere per le bombe e un secondo dopo sponsorizzare cerini: quindi alla fine rimaniamo soli con la nostra mitomania.
Mi sembra che ci sia un disturbo dell’attenzione collettivo, uno spostamento cognitivo tra benaltrismo e mitomania. Il benaltrismo difficilmente esiste davvero, così come la sindrome dell’impostore, dal momento che nella realtà ci sono cose più gravi di altre, così come esiste la remota possibilità di essere scarsi; è pur vero che viviamo in un periodo storico dove non si capisce più se uno è bravo davvero o è solo amico della gente a cui vorremmo piacere.
Tra poco sarà il mio compleanno, e non ci dovrei pensare perché c’è la guerra, ma in pieno delirio critico decido di guardare un documentario su Marlon Brando, convinta che da qui a qualche anno sarò proprio come lui, ma non nel periodo Stanley Kowalski, e nemmeno nel periodo cappotto cammello, ma nel periodo colonnello Kurtz, tra l’altro con un grande sforzo di ottimismo da parte mia, perché spaventatissima del periodo Superman.
Già mi vedo in penombra, grassa, a parlare con mio figlio di braccia vaccinate tagliate e Milano Ristorazione: questi anni mi hanno sfiancato, mi addormento ogni sera pensando che il soffitto mi stia per crollare in faccia. A un certo punto in questo documentario c’è Francis Ford Coppola che dice: «Questo film non parla del Vietnam, questo film è il Vietnam» e penso a come Instagram stia proprio bene al posto dell’«orrore, orrore».
Penso di nuovo a quanto sono meschina a pensare al mio compleanno e al mio futuro mentre c’è la guerra, e la pandemia non è nemmeno finita, ma io proprio non riesco a pensare ad altro se non alla mia unica pizza annuale. Sono forse diventata magicamente magra mangiando la pizza una volta l’anno? Certo che no. Che superficiale che sono. Perché non ne approfitto e mi dico che se sta andando tutto male, e il soffitto mi cascherà in faccia, tanto vale mangiare.
Che persona orrenda, che poche qualità, e nemmeno la magrezza, magrezza che mi rendo conto essere stato da sempre il mio unico obiettivo nella vita, costantemente fallito. Forse sono magra ma siccome ho la sindrome dell’impostore mi vedo grassa? Chi può dirlo, forse uno psichiatra.
Bisognerebbe farsi furbi e non parlare in pubblico di guerre mondiali mentre si tirano su due lire sponsorizzando tute da ginnastica. La credibilità conta ancora qualcosa? Pare di no, e questa mi sembra la cosa più incredibile della modernità. Sarebbe anche tempo di bilanci, ma che bilancio si può fare quando ci si spaventa e ci si arrende, e si spera solo che non ti crolli il soffitto mentre dormi.