Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

UNDICESIMA PARTE

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

 Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

L’ACCOGLIENZA

UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

Le radici della pace. Gian Paolo Caprettini su L'Indipendente il 12 novembre 2022.

Nelle radici delle parole, nell’origine dei termini linguistici si nasconde una rappresentazione del mondo, una forma di pensiero e perfino un destino. Dalle etimologie si ricava una ricchezza di ragionamenti, un modo di andare prima e oltre i significati correnti, di approfondire i valori delle parole che sono diventati automatici, non più trasparenti.

Prendiamo ad esempio la pace. La sua sorgente remota è almeno in due differenti campi: nella attività diplomatica e nel mestiere del falegname, del costruttore. ‘Pace’ è, ad esempio nell’antico mondo romano (pax) la situazione derivante da un accordo, da un patto che sospende le azioni di guerra da parte del nemico. ‘Pace’ e ‘pagare’ hanno un significato in comune: ‘pacato’, nel senso di tranquillo e ‘pagato’ derivano dalla comune idea di soddisfare e calmare con una distribuzione di denaro. Proprio perché la pace è intesa come uno stato transitorio ottenuto con la soddisfazione delle parti che sospendono tra di loro azioni di guerra e che vanno oltre lo stato di belligeranza grazie a  una conveniente stipula di ordine economico.

Ma ‘pace’ ha anche a fare con il falegname, e più in generale con la concordia, con l’ordine universale, per cui i Greci avevano un altro termine, ‘eirene’, per indicare una pace duratura, uno stato di armonia e accordo illimitato.

Perché il falegname? Si tratta, nella pace, quasi come nella musica, di rendere concorde ciò che è discorde, di rendere compatibili due forze, due entità antagoniste. Allora, nel mondo antico e tradizionale, il falegname è visto come un ‘congiungitore’, colui che adatta delle parti e che, per esempio, può ottenere degli incastri tra diverse porzioni  del legname in lavorazione, che vanno a collimare, si connettono e si incastrano solidamente. 

Ora, in lingua latina, ‘pàngere’, da cui ‘pax’ , pace, significa fissare, piantare e, in senso figurato, stabilire, pattuire, secondo il principio della ‘concordia discors’: rendere concorde ciò che è discorde, senza cancellare le parti in gioco ma rendendole compatibili.

Possiamo dunque capire quanto possono essere varie, e ricche di implicazioni, le considerazioni che ne possono derivare. 

Anche andando oltre. Ad esempio, una guerra in qualche modo va finita. Anche questa è una forma di pace. Come riflette Ernest Hemingway, attraverso le parole del soldato Passini, in Addio alle armi, la guerra non si vince con la vittoria ma quando qualcuno smette di combattere. “Perfino i contadini sanno che non si deve credere in una guerra”.

[di Gian Paolo Caprettini – semiologo, critico televisivo, accademico]

Autocrazie pacifiste. L’ipocrita confraternita di regimi totalitari che predica la tolleranza e pratica la dittatura. Alessandro Balbo su L’Inkiesta il 26 Novembre 2022.

Il “Gruppo di amici in difesa della Carta delle Nazioni Unite”, nato nel 2021, comprende Paesi come Russia, Corea del Nord e Siria. Si è riunito a Teheran a inizio novembre, chiedendo il rispetto dei diritti umani, dell’integrità territoriale degli Stati e il ritiro delle sanzioni alla Repubblica Islamica

«Chiediamo di raddoppiare gli sforzi verso la democratizzazione delle relazioni internazionali e il rafforzamento del multilateralismo e di un sistema multipolare, basato, tra l’altro, sul rispetto reciproco della sovranità e dell’integrità territoriale di tutti gli Stati, nonché sul rispetto del principio della parità di diritti e dell’autodeterminazione dei popoli, lo stato di diritto, la diplomazia, il dialogo politico, la tolleranza, la convivenza pacifica, il rispetto per la diversità, l’inclusività, una cultura di pace e non violenza e la dovuta considerazione per le differenze esistenti, che sono essenziali per lavorare insieme in modo costruttivo ed efficace su questioni di comune interesse e preoccupazione».

No, non sono parole del Dalai Lama. E nemmeno di Martin Luther King, o di Mohandas Karamchand Gandhi detto Mahatma. A enunciare questi nobili principi, con cui sarebbe oggettivamente impossibile dichiararsi in disaccordo, sono stati i rappresentanti di diciannove nazioni fra cui spiccano, fra le altre, Russia, Corea del Nord, Siria e Iran. Si sono incontrati il 5 novembre proprio a Teheran – in queste settimane al centro del discorso pubblico globale a causa della violenta repressione del regime degli ayatollah nei confronti dei manifestanti per la democrazia – per ribadire la loro contrarietà alle sanzioni imposte al Paese dagli Stati Uniti.

Una convention di amici, quindi, e non è una battuta. Si definiscono proprio “Gruppo di amici in difesa della Carta delle Nazioni Unite”, in virtù dell’unione siglata nel marzo dello scorso anno con l’obiettivo di supportare il trattato fondativo dell’Onu, e che comprende anche Algeria, Angola, Bielorussia, Bolivia, Cambogia, Cina, Cuba, Guinea Equatoriale, Eritrea, Laos, Nicaragua, Palestina, Saint Vincent e Grenadine, Venezuela e Zimbawe.

La nota rilasciata nel 2021 sosteneva che il multilateralismo fosse «sotto un attacco senza precedenti» che minacciava «la pace e la sicurezza globali». «Il mondo sta assistendo a un crescente ricorso all’unilateralismo, segnato da azioni isolazioniste e arbitrarie, tra cui l’imposizione di misure coercitive unilaterali o il ritiro da accordi storici e istituzioni multilaterali, nonché da tentativi di minare gli sforzi critici per affrontare le sfide comuni e globali» recitava il comunicato.

«I cosiddetti amici», dichiarò anonimamente a Reuters un alto diplomatico europeo, «sono quelli che hanno fatto di più per violare la Carta. Forse dovrebbero iniziare a rispettare i diritti umani e le libertà fondamentali nei loro Paesi». Il gruppo, formalmente parte dell’Organizzazione delle Nazioni Unite, si era incontrato a livello ministeriale a margine della 77° sessione dell’Assemblea Generale dell’Onu, a New York, il 22 settembre. La riunione di Teheran, questa volta tenutasi a livello vice-ministeriale, ha voluto riaffermare la dichiarazione politica adottata in quella sede.

Nel documento di novembre si legge come gli Amici ribadiscano le loro «serie preoccupazioni sui continui tentativi volti a rimpiazzare i principi sanciti nella Carta delle Nazioni Unite […] con un cosiddetto “ordine basato su regole” che rimane non chiaro», non discusso o accettato dai membri Onu, che avrebbe il potenziale di «minare lo stato di diritto a livello internazionale». I doppi standard applicati da qualche Paese, assieme a interpretazioni di comodo della Carta «in disprezzo del bene comune o degli interessi collettivi», rappresentano «una delle maggiori minacce alla prevalenza e alla validità degli strumenti universalmente e legalmente vincolanti» che costituiscono «una conquista eccezionale per il genere umano».

Il cuore della dichiarazione si trova al punto 13, dove il gruppo esprime il proprio «incrollabile supporto a, e in solidarietà con, il popolo e il governo della Repubblica Islamica dell’Iran, soggetta a misure coercitive unilaterali, incluse sanzioni unilaterali imposte da certe nazioni, che violano la Carta delle Nazioni unite e le regole e i principi della legge internazionale, minacciando il pieno godimento dei loro diritti umani e la realizzazione del loro diritto allo sviluppo». Gli Amici chiedono il ritiro di tutte le «misure unilaterali» contro l’Iran, così come contro Cuba, verso cui il sostegno è evidenziato al punto 14. Cuba «ha resistito eroicamente all’impatto negativo del blocco economico, commerciale e finanziario imposto dagli Stati Uniti per oltre sessant’anni, che ha rappresentato il maggiore impedimento al suo pieno sviluppo economico e sociale».

Questo particolare consesso di dittature esprime inoltre «preoccupazione per il potenziale impatto delle tensioni geopolitiche in atto sulle attuali […] crisi globali, e, perciò, chiede il rispetto della sovranità e dell’indipendenza degli Stati, rifiutando ogni tentativo di trincerarsi in una mentalità da Guerra Fredda basata sul confronto, sull’allargamento delle divisioni e sull’impostazione di visioni e agende disparate, nel tentativo di dividere il nostro mondo in blocchi». Curioso che a dirlo sia, fra gli altri, la Federazione Russa, colpevole di un’invasione ai danni dell’Ucraina che ha causato decine di migliaia di morti, una catastrofe umanitaria che ha portato milioni di persone a fuggire dalle proprie case e dal Paese e una crisi energetica globale, in quella che è la guerra più importante dalla fine del secondo conflitto mondiale e che ha passato ormai i nove mesi di svolgimento.

Ancora più singolare che la Russia, una nazione nota per aver interferito nei processi elettorali delle democrazie di tutto il mondo anche attraverso interventi di comunicazione falsa e fuorviante nell’opinione pubblica, si dichiari preoccupata «per la continua proliferazione della disinformazione nelle piattaforme digitali, inclusi i social media, creata, disseminata e amplificata da attori sia statali sia non statali per motivazioni politiche, ideologiche o commerciali su una scala che cresce in maniera allarmante”. Tali azioni provocano “manifestazioni di linguaggio d’odio, razzismo, xenofobia, stigmatizzazione, incitando ogni forma di violenza, intolleranza, discriminazione e ostilità». Una finta conversione che ha dell’incredibile.

Il gruppo, di cui come detto fa parte anche la Palestina, tra le altre cose riafferma il proprio sforzo «volto a terminare l’occupazione israeliana, che costituisce un’occupazione coloniale illegale e un regime di apartheid, e a raggiungere l’indipendenza dello Stato della Palestina, con Gerusalemme Est come sua capitale».

Pace senza verità. La storia di Antonio Russo, picchiato dai pacifisti e ucciso dai russi 22 anni fa. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 15 Ottobre 2022.

L’inviato di Radio Radicale fu ucciso vicino a Tbilisi, in circostanze misteriose, nella notte tra il 15 e 16 ottobre del 2000, dopo aver trovato una testimonianza video delle torture delle truppe russe contro la popolazione civile cecena. Nessuna istituzione italiana ha mai chiesto conto a Mosca del suo omicidio

Il suo, chiamiamolo così, editore Marco Pannella diceva di lui che non era un giornalista radicale, ma un «radicale giornalista». In un’Italia in cui l’informazione militante è la comfort zone dei cultori della contraffazione, questo minuziosissimo abusivo della professione (non si iscrisse mai all’Ordine dei giornalisti) era invece un impareggiabile guastatore delle rappresentazioni di comodo. 

Antonio Russo fu ucciso nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2000 e il suo cadavere venne ritrovato vicino a Tbilisi, in Georgia. Le sue inchieste e le sue corrispondenze per Radio Radicale sulla guerra in Cecenia non passavano inosservate. Lo ammazzarono dopo che si seppe che era venuto in possesso di una videocassetta, con le prove delle violenze e torture delle truppe russe contro la popolazione civile cecena. Ne aveva parlato, due giorni prima della morte, al telefono con la madre, disperandosi per l’orrore che le immagini suscitavano.

La sua abitazione, dopo l’omicidio, fu ritrovata ripulita di tutto: computer, telefono, videocamera e qualunque tipo di materiale e documentazione.

Antonio Russo aveva raccontato molte guerre. In Algeria, in Ruanda, a Cipro, in Bosnia e in Kosovo, dove, un anno e mezzo prima di morire, disobbedì all’ordine dell’esercito serbo di abbandonare Pristina sotto assedio e fu l’unico giornalista occidentale presente a documentare le prove generali del massacro, poi scongiurato grazie all’intervento della Nato. 

Ricercato, riuscì a uscire dal paese nascosto in un convoglio di profughi, da cui peraltro era indistinguibile. Come giornalista, in Italia, non passava inosservato, con il codino, gli anelli, l’aria sgualcita e una trasandatezza troppo autentica per essere cool. In uno scenario di guerra, per la stessa ragione, diventava invisibile.

Sulla sua storia è uscito nel 2004 un bel film, Cecenia, che non è mai stato distribuito e che quindi hanno visto in pochissimi, in cui a interpretare Antonio Russo è Gianmarco Tognazzi. Anche in questo non è stato fortunato: per essere riconosciuto aveva dovuto morire – «La sua morte è la sua ultima notizia» disse Pannella al suo funerale, denunciando il coinvolgimento dei servizi russi, di cui nessuna istituzione italiana ha mai chiesto conto a Mosca – e per essere ricordato, a ventidue anni dalla sua morte, non può contare che sulla memoria collettiva del mondo radicale.

In questa ricorrenza, quindi, è a maggior ragione necessario ricordare come la sua figura e la sua attività abbiano avuto una forza profetica che, come è ovvio, non gli vogliono riconoscere da morto quegli stessi che non gli riconoscevano da vivo la pretesa di raccontare la guerra con la storia delle sue vittime e di non soggiacere all’idea, politicamente conformistica e giornalisticamente corriva, che la pace sia uno stato di fatto negativo e non una garanzia di diritto positiva, cioè sia semplicemente il non essere della guerra, l’assenza di un conflitto bellico tra forze armate contrapposte e non l’essere della libertà, della dignità umana, della protezione dalla violenza. 

Allo schema pace versus guerra, coerentemente con la sua impostazione radicale, Russo opponeva la dialettica tra nonviolenza e violenza e il legame inscindibile tra pace e verità, tra pace e giustizia. 

Proprio le guerre nella ex Jugoslavia, che aveva frequentato, raccontato e vissuto molto più profondamente dei corrispondenti e dei commentatori embedded nella cattiva coscienza pacifista, avevano dato drammatica evidenza politica a questa differenza. Srebrenica rimane la colonna infame del neutralismo anti-interventista: la mattanza di una comunità disarmata e affidata alla protezione di un contingente militare Onu, ridotto a fare il portinaio dei massacratori.

Nelle sue corrispondenze dal Kosovo, in cui raccontava la disperazione dei musulmani di etnia albanese condannati a fare la fine dei bosgnacchi e la speranza per un intervento militare della Nato che salvasse loro la vita, Russo era diventato una provocazione vivente nei confronti del movimento pacifista mobilitato contro la guerra, cioè contro il soccorso ai kosovari. E se sfuggì alle truppe di Belgrado, che non riuscirono mai a individuarlo e a catturarlo, non scampò invece all’ira pacifista. 

Era rientrato da una decina di giorni dal Kosovo e alla stazione di Mestre, mentre saliva su un treno per Roma, incontrò un gruppo di pacifisti reduci da una manifestazione alla base Nato di Aviano. Lo riconobbero subito e iniziarono a picchiarlo; fortunatamente intervenne la polizia a salvarlo dal pestaggio e a consigliargli sbrigativamente di prendere un altro treno: «Mica pretenderà che la scortiamo fino a Roma?».

Pensando a ciò che la vita gli avrebbe riservato un anno e mezzo dopo, questo episodio così esemplarmente grottesco da sembrare inventato – lo si può ascoltare raccontato dalla voce del protagonista – è un apologo davvero perfetto sulle miserie del pacifismo.

(ANSA il 23 novembre 2022) - "In Ucraina è il momento di alzare i toni della pace. La risoluzione che verrà messa ai voti oggi porta invece all'opposta direzione. La nostra solidarietà al popolo ucraino è totale e consideriamo la Russia come l'unica responsabile della guerra in corso sul suolo ucraino. Il suo esercito si è inoltre macchiato di crimini atroci, tuttavia dopo più di nove mesi di aperte ostilità che non hanno risparmiato le popolazioni civili bisogna mettere a tacere le armi e far prevalere le diplomazie". Lo sottolinea la delegazione M5S all'Eurocamera spiegando che "non sosterrà" la risoluzione che definisce la Russia uno Stato terrorista.

(ANSA il 23 novembre 2022) - Il Parlamento europeo approva la risoluzione per riconoscere la Russia come "stato sponsor del terrorismo". La risoluzione, adottata con 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astensioni, sottolinea che gli attacchi e le atrocità intenzionali delle forze russe, la distruzione delle infrastrutture civili, e altre gravi violazioni del diritto internazionale e umanitario sono atti di terrore e crimini di guerra. Il testo è passato a larga maggioranza dopo il sì ad alcuni emendamenti alla risoluzione.

Nel testo il Parlamento invita l'Ue a creare un quadro giuridico adeguato per riconoscere gli stati indicati come sponsor del terrorismo istituendo quindi misure nei confronti di Mosca che comportino serie restrizioni nelle relazioni dell'Ue con la Russia. I deputati invitano inoltre il Consiglio ad aggiungere anche l'organizzazione paramilitare "gruppo Wagner" ed il 141esimo Reggimento speciale motorizzato noto anche come "Kadyroviti" nell'elenco dei soggetti terroristici dell'Ue".

Data l'escalation di atti di terrore del Cremlino contro il popolo ucraino, i Paesi Ue sono esortati a ultimare rapidamente il lavoro del Consiglio sul nono pacchetto di sanzioni contro Mosca. Inoltre, i Paesi Ue dovrebbero prevenire, indagare e perseguire qualsiasi tentativo di aggirare le sanzioni in vigore e, insieme alla Commissione, prendere in considerazione eventuali misure contro i paesi che  cercano di aiutare la Russia ad eludere le misure.

(ANSA il 23 novembre 2022) - "Propongo di riconoscere il Parlamento europeo come sponsor dell'idiozia". Questa la prima reazione della portavoce del ministero degli Esteri russo, Maria Zakharova, alla risoluzione approvata dall'Europarlamento che riconosce la Russia come "sponsor del terrorismo". Lo si legge sul suo canale Telegram

Sono quattro gli italiani che, all'Eurocamera, hanno votato contro la risoluzione che definisce la Russia Stato sponsor del terrorismo. Tra questi tre militano nei Socialisti & Democratici. Nei tabulati risulta infatti che hanno votato contro l'indipendente Francesca Donato e i 3 di S&DPietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio. Astenuta l'intera delegazione del M5S. (ANSA) 

Russia "sponsor del terrorismo": come hanno votato i parlamentari italiani. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 24 Novembre 2022.

Nella giornata di mercoledì i deputati del Parlamento europeo hanno votato una risoluzione che dichiara la Russia "Stato sponsor del terrorismo". A motivare la decisione vi sono "le atrocità commesse dal regime di Vladimir Putin contro il popolo ucraino". La risoluzione si limita ad avere un mero valore simbolico, data l’assenza di un quadro giuridico adeguato, ma potrebbe avere potenzialmente un forte impatto nelle relazioni con la Russia. La mozione ha raccolto la quasi totalità dei consensi tra i deputati (con 494 voti a favore), tranne per quanto riguarda 58 astenuti e 44 deputati contrari. Tutto l’arco politico italiano ha votato compatto a favore della risoluzione, ad esclusione del Movimento 5 Stelle, che si è astenuto. Contrari solo 4 parlamentari italiani appartenenti al PD, che hanno votato contro le indicazioni del proprio partito.

La decisione presa dal Parlamento europeo poggia le proprie basi sulle "atrocità internazionali delle forze russe e dei loro delegati contro i cittadini, la distruzione delle infrastrutture civili, e altre gravi violazioni del diritto internazionale e umanitario", le quali costituiscono "atti di terrore e crimini di guerra". Vista l’assenza di un quadro giuridico di riferimento, che priva di fatto la mozione di valore legislativo, il Parlamento ha invitato "l’UE e i suoi Paesi a creare un quadro giuridico adeguato e considerare di aggiungere la Russia a tale lista". In questo modo, riferisce il Parlamento, scatterebbero nuove misure contro Mosca, insieme a maggiori restrizioni delle relazioni con l’Unione. Va specificato che le risoluzioni del Parlamento europeo hanno valenza di mera raccomandazione, non rappresentando un’imposizione per i governi nazionali né per la Commissione europea.

I deputati hanno anche invitato il Consiglio ad aggiungere il Gruppo Wagner e altri gruppi armati finanziati dalla Russia all’elenco dei soggetti terroristici UE, di isolare ulteriormente la Russia a livello internazionale rivedendone l’adesione ad organismi internazionali (quali il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite), di limitare i legami diplomatici con Mosca e bandire le istituzioni statali russe che nell’Unione "diffondono propaganda nel mondo". Sono stati poi esortati i Paesi europei a portare a termine i lavori per il nono pacchetto di sanzioni "data l’escalation di atti di terrore del Cremlino contro il popolo ucraino".

L’iniziativa ha riscosso un consenso quasi unanime tra i deputati presenti, venendo approvata con 494 voti favorevoli, 44 astenuti e 58 contrari. Tra gli astenuti si trova il M5S, per il quale "in Ucraina è il momento di alzare i toni della pace mentre la risoluzione messa ai voti porta nell’opposta direzione". Tra i 58 contrari, invece, figurano i nomi di 4 italiani: la deputata ex membro della Lega Francesca Donato (la quale ha dichiarato come con questa risoluzione «il Parlamento europeo ostacola formalmente il percorso di de-escalation pro negoziato voluto dagli USA») e tre deputati membri di Socialists & Democrats (S&D) eletti con il PD: Pietro Bartolo, vicepresidente della Commissione per le libertà civili, Andrea Cozzolino, presidente della delegazione per le relazioni con i Paesi del Maghreb, e Massimiliano Smeriglio, ex vicepresidente della Regione Lazio. Proprio Smeriglio ha dichiarato come questa risoluzione rappresenti «un punto di non ritorno, che allontana invece di avvicinare una soluzione politica: così facendo in campo rimane la sola opzione militare», la quale «colpisce in prima istanza la popolazione civile ucraina, che subisce l’occupazione e i bombardamenti russi». Smeriglio sottolinea di aver votato le risoluzioni a favore dell’Ucraina in precedenza, ma con questa, «voluta dal gruppo dei Conservatori europei, si è fatto un salto di qualità dal mio punto di vista drammatico». Senza dubbio, la posizione assunta dal Parlamento europeo non favorisce la strada del dialogo, trovandosi ben lungi dall’essere traducibile in un atto diplomatico.

Nel frattempo non è tardata la risposta da Mosca, dove la portavoce del ministro degli Esteri russo Maria Zakharova ha proposto di riconoscere il Parlamento europeo "sponsor dell’idiozia". [di Valeria Casolaro]

La Russia sponsor del Terrore, una boutade rifiutata dagli Usa. Piccole Note il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

L’Unione europea ha dichiarato la Russia uno Stato sponsor del terrorismo. Una boutade colossale se si tiene presente, solo per fare un esempio, che senza l’intervento russo in Siria, Damasco e probabilmente anche Bagdad sarebbero diventate un enorme Califfato dell’Isis, le cui fila erano formate per lo più dai combattenti per la libertà addestrati e armati dall’Occidente per attuare i regime-change in Libia e Siria.

Quando la Ue più rigida degli Stati Uniti

La decisione è stata presa nonostante il fatto che l’America avesse rifiutato tale sviluppo, con Biden che aveva rigettato le sollecitazioni in tal senso dei falchi Usa. In tal modo la Ue, in cui i falchi sono pochi – eccetto che in Italia – e hanno gli artigli spuntati, svela la sua condizione sub-coloniale.

Non una mera colonia, infatti, in grado di giovarsi delle controversie interne del dominus per perseguire, pur nelle restrizioni, i suoi interessi, ma una sub-colonia costretta a sottostare alle pulsioni più feroci del potere imperiale, alla stregua di una delle tante repubbliche delle banane dove i fili dei dittatori erano mossi dalle figure più retrive dell’Impero.

Tutto ciò denota anche l’ormai conclamato deficit cognitivo della Politica della Ue, con il potere affidato a persone del tutto incapaci di gestirlo. D’altronde, tale deficit è palesato in maniera incontrovertibile dalla ventilata nomina del signor Luigi di Maio a inviato speciale per il Golfo Persico, mettendo così una figura a dir poco inadeguata e senza alcun supporto politico reale che non il proprio condominio a tutelare gli interessi, economici e di sicurezza, del Vecchio Continente presso una delle ragioni più complesse e più a rischio del mondo.

Il fatto poi che a suggerire la nomina sia stato Draghi conferma non solo la scarsa considerazione che si attaglia al personaggio, ma anche che l’idea propagandistica che i tecnici siano al di sopra delle debolezze clientelari proprie dei politici è a dir poco non credibile (e ritenere che tale debolezza abbia guidato le scelte dei suoi ministri di governo è forse un peccato, ma magari ci si azzecca).

Quanto al personaggio in questione, il povero Di Maio non ha alcuna colpa se non quella di aver compreso prima di altri che la scarsa intelligenza è una dote molto apprezzata dal potere reale.

I prigionieri russi uccisi

Al di là, resta che la scelta di definire la Russia come sponsor del terrorismo ha avuto anche una tempistica sfortunata, cadendo tale decisione in costanza della pubblicizzazione dei filmati dell’eccidio a sangue freddo di una decina di prigionieri di guerra russi, circostanza che Kiev ha tentato invano di negare e rilanciata dal New York Times – sebbene con i dubbi d’obbligo per evitare di andare troppo in contrasto con la propaganda anti-russa (l’eccidio a sangue freddo è incontrovertibile, qui un altro video, ma solo per persone forti: è terribile).

Non vogliamo pensare che tale tempistica sia stata voluta proprio per coprire la notizia dell’eccidio, che stava dilagando sui media, ma certo resta infelice.

Quanto all’eccidio, fa il paio con un’altra analoga strage, documentata da un filmato circolato all’inizio di aprile che immortalava altri soldati ucraini che assassinavano alcuni prigionieri russi (New York Times). Insomma, la pratica sembra qualcosa di alquanto usuale presso alcuni battaglioni ucraini.

Anche allora dall’Occidente non si levò alcuna voce per condannare l’accaduto, che esula dagli usuali orrori della guerra dei quali ucraini e russi si accusano a vicenda. E ciò nonostante il fatto che siamo noi ad armare quelle mani assassine. Si avrebbe il dovere di ricordare a quanti ricevono tali armi i limiti del loro uso e, se tali limiti sono superati, di minacciare di non fornirne più.

Oggi, come allora, l’Ucraina ha aperto un’inchiesta per appurare quanto avvenuto. Un atto dovuto per placare le lamentele e che, come allora, non avrà alcun esito. Allora, i responsabili della strage furono catturati dai russi poco dopo, cosa che hanno promesso di fare anche in questo caso. l’Ucraina avrebbe fatto meglio a sbattere i rei in prigione, ma ovviamente rischia di aprire un vaso di pandora che vuole che resti chiuso.

Il Terrore di ritorno

Non solo, per ironia della sorte, alcuni giorni prima della designazione della Russia come sponsor del Terrore, la Digos di Napoli ha arrestato quattro componenti di una cellula terroristica di marca neonazista affiliata all’Ordine di Hagal, i quali avevano rapporti stretti con il Battaglione Azov. I quattro preparavano attentati.

Il rischio che stiamo armando i terroristi del domani è alto, come aveva allarmato, peraltro, agli inizi della guerra non una quisling qualsiasi, ma Rita Katz, direttrice del Site, sul Washington Post (ora non se può più parlare, si sarebbe accusati di fare il gioco della Russia).

Il pericolo, cioè, è quello di replicare quanto avvenuto per la guerra siriana, con i ribelli di fiducia dell’Occidente, armati e addestrati in funzione del regime-change contro Assad, che hanno iniziato a mietere vittime tra le file dei loro benefattori. Praticamente tutti gli attentati avvenuti in Europa nel decennio della guerra siriana (e dopo) sono stati portati a termine usando tale manovalanza (si potrebbero fare molti esempi).

Per ora il pericolo che il neonazismo di ritorno insanguini le piazze del Vecchio Continente è limitato, sia perché tale manovalanza per ora è usata in guerra sia perché l’intelligence vigila in maniera ferrea su tale possibilità, perché getterebbe un’ombra, forse decisiva, sul supporto occidentale a Kiev.

Ma verrà un tempo, non molto in là, nel quale il movimento neonazista internazionale, rafforzato dalla guerra ucraina, ben armato, addestrato, e soprattutto ormai aduso all’orrore, avendolo attraversato e perpetrato in terra ucraina, farà sentire la sua voce in Europa e altrove, come da allarme della Katz. E non sarà un bel sentire…

Prima dell’Ucraina, l’Afghanistan

È questo un altro motivo per chiudere in fretta il tragico show che si sta consumando in ucraina a spese di quel popolo e dei deboli del mondo.

Infine, va ricordato che la pratica di uccidere i prigionieri di guerra in maniera più o meno sistematica non ha molti precedenti recenti se non in un altro conflitto nel quale rimase impelagata la Russia, quello afghano, nel corso dell’invasione sovietica del Paese.

Anche allora i mujaheddin armati dall’Occidente non facevano prigionieri, assassinando i soldati di leva russi che rimanevano nelle loro mani. Il tutto con l’ovvio tacito placet americano.

Se lo ricordiamo non è tanto per ripercorrere una pagina di cronaca nera del passato, ma solo perché non ci stupisce affatto quanto sta avvenendo in Ucraina. Fa parte del playbook…

E perché, per tornare al tema terrorismo, va ricordato che quei mujaheddin divennero poi i terroristi contro i quali l’Occidente si ritrovò impelagato nella lunga guerra al Terrore… la storia, purtroppo, ha il vizio di ripetersi.

Non solo la Russia. L’Ue deve decidersi a definire terroristi anche i pasdaran iraniani. Carlo Panella su L'Inkiesta il 24 Novembre 2022

I commerci europei con le industrie iraniane impediscono di parlare con una sola voce e sanzionare il regime degli ayatollah, ma occorre un’azione decisa dal Consiglio e dalle Nazioni Unite per non lasciare i manifestanti soli di fronte alle pallottole

«Occidente, il tuo silenzio significa per noi la morte»: questo gridano i ragazzi iraniani nelle strade di Mahbad. E purtroppo hanno ragione. Ma cosa potrebbe fare il mondo libero per aiutare questa rivoluzione che riesce a sopportare una repressione feroce e non dà segno di fermarsi dopo due mesi di mobilitazione, quattrocento morti, sedicimila arresti e sei condanne a morte di manifestanti? Molto, ma non lo fa.

Certo, le sanzioni economiche sono già in atto e non è facile aggiungerne altre efficaci, inoltre l’Iran degli ayatollah le elude in buona parte grazie ai fiorenti commerci con la Russia, con la Cina, con Cuba, con il Venezuela e con la Corea del Nord. Un fronte di dittature non casuale. Il pieno appoggio militare di Teheran a Putin per la sua guerra in Ucraina con la fornitura di micidiali droni (che verranno ora costruiti in Russia grazie a un recente accordo con i Pasdaran che controllano e possiedono l’intera industria militare iraniana) rivela lo spessore politico pieno e anti occidentale della alleanza filo iraniana.

Spuntata la pressione economica già forte, resta però quella diplomatica, l’isolamento internazionale, e su questo l’Occidente incredibilmente non si muove, se non a parole. Nemmeno in sede Onu, che continua a non espellere l’Iran dalla Commissione sullo status delle donne! Una Onu imbelle e silente anche a fronte della ultima gravissima provocazione di Teheran che ha appena annunciato di avere raffinato uranio al sessanta per cento, a un passo dal livello utile per armare la bomba atomica.

Il punto politico è comunque chiaro: il potente e decisivo avversario della rivoluzione iraniana è la compattezza del regime. Non uno spiraglio di mediazione o di trattativa con le piazze in rivolta si è aperto. Anzi, ogni giorno che passa il blocco clericale che detiene il potere politico si subordina sempre più al blocco militare.

Sono i Pasdaran a dettare l’agenda politica a imporre una repressione feroce, nella chiara prospettiva di essere decisivi da qui a poco quando dovrà essere intronato il successore di Ali Khamenei, anziano e molto malato, quale Guida della Rivoluzione. Nessuno nel regime e nel clero osa alzare la voce o prendere le distanze dai Pasdaran, men che meno quei "riformisti" di facciata che sono scomparsi da anni dalla scena politica iraniana (se mai sono esistiti realmente e non a parole).

Dunque, questo è il nucleo di potere che va colpito e sanzionato. Annalena Baerbock, ministro degli Esteri della Germania, tenta da settimane di convincere l’Unione Europea a inserire i Pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche (come già hanno fatto gli Stati Uniti nel 2019 per decisione di Donald Trump, anche se nella primavera scorsa Joe Biden stava per fare marcia indietro in nome di uno sciagurato accordo sul nucleare nella illusione reiterata che col regime degli ayatollah si possa trattare).

Questa scelta è saggia ed urgente. Avrebbe un riflesso sui troppi commerci che ancora fa l’Europa con le industrie e le infrastrutture iraniane che sono sotto il controllo societario dei Pasdaran, sul modello delle SS hitleriane. Ma soprattutto darebbe un segnale politico forte ai manifestanti iraniani che vedrebbero l’Europa trattare da terroristi, quali sono, i Pasdaran che gli sparano contro.

Giorgia Meloni e Antonio Tajani faranno dunque bene a concordare con Annalena Baerbock e col governo tedesco e francese di inserire nel prossimo Consiglio Europeo i Pasdaran nella lista delle organizzazioni terroristiche superando una tradizionale morbidezza della nostra diplomazia nei confronti del regime degli ayatollah.

E non sarebbe assolutamente insignificante se ci fosse una forte mobilitazione parlamentare e di opinione pubblica per arrivare a questo obbiettivo.

Crimini di guerra. La Russia è uno Stato sponsor del terrorismo, dice il Parlamento Ue (ma non il M5S). Vincenzo Genovese su L’Inkiesta il 24 Novembre 2022.

La risoluzione che condanna i «mezzi terroristici» del regime di Vladimir Putin ottiene un appoggio trasversale. Si astengono i Cinquestelle filoputiniani, votano contro altri quattro deputati italiani. Il sito dell’Eurocamera vittima di un cyberattacco

Che la risoluzione sarebbe stata approvata c’erano pochi dubbi, ma un risultato così ampio forse non se lo aspettavano nemmeno i suoi promotori, i gruppi del Partito popolare europeo, dei Conservatori e riformisti europei e Renew Europe. Il Parlamento europeo ha definito la Russia uno «Stato sponsor del terrorismo» con 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astensioni. Praticamente tutti i gruppi politici dell’Eurocamera hanno sostenuto il testo, tranne Identità e democrazia, che si è diviso in parti quasi uguali tra favorevoli e contrari.

Adesioni e astensioni

Anche la quasi totalità degli europarlamentari italiani ha votato a favore, appoggiando la condanna dei «mezzi terroristici» utilizzati dalla Russia, i suoi «attacchi intenzionali contro i civili» e le altre «gravi violazioni del diritto internazionale e umanitario».

Tutti favorevoli i rappresentanti di Fratelli d’Italia (e la cosa non sorprende), ma anche quelli di Lega e Forza Italia, nonostante gli approcci più o meno morbidi dei rispettivi leader nei confronti di Vladimir Putin.

Si sono astenuti i cinque parlamentari del Movimento Cinque Stelle presenti alla votazione, una posizione spiegata prima del voto dalla loro capodelegazione, Tiziana Beghin. «Noi riconosciamo e condanniamo il ruolo della Russia, in ogni sede senza se e senza ma. Tuttavia in questa risoluzione non c’è alcun termine che faccia riferimento al negoziato di pace. Questa è una risoluzione per portare avanti il conflitto: per noi è inammissibile».

All’Eurocamera c’è pure chi ha votato contro. Oltre a Francesca Donato, che ha lasciato la delegazione della Lega nel settembre 2021 e ora appartiene al gruppo misto, tre eurodeputati eletti con il Partito Democratico: Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio.

Quest’ultimo così motiva la sua scelta a Linkiesta: «Ho convintamente votato tutte le risoluzioni a favore del popolo ucraino, contro la violenza e la morte disseminate dall’esercito russo. Con questa però si è fatto un salto di qualità, dal mio punto di vista, drammatico».

L’europarlamentare invita i suoi colleghi a una riflessione sul ruolo «autonomo e indipendente» che il Parlamento dovrebbe assumere nel contesto diplomatico, dato che lo stop alle ostilità deve rimanere l’obiettivo da perseguire.

«Indicare la Russia come Paese terrorista è un punto di non ritorno che allontana invece di avvicinare una soluzione politica. Così facendo in campo rimane la sola opzione militare, che colpisce in prima istanza la popolazione civile ucraina». Francesca Donato, invece, ha definito la risoluzione «assurda e controproducente».

Dalla conta finale, comunque, mancano più di cento deputati, assenti in aula al momento del voto. Tra loro diversi italiani: Fabio Massimo Castaldo del M5S, ex vicepresidente del Parlamento europeo, Fulvio Martusciello di Forza Italia e i tre ex pentastellati ora dentro il gruppo Verdi/Ale, Ignazio Corrao, Rosa D’Amato e Piernicola Pedicini.

Il giallo dell’attacco hacker

Il testo della risoluzione non risparmia critiche pesanti al comportamento della Federazione Russa, responsabile di varie atrocità nella guerra in Ucraina tra cui attacchi in aree residenziali e deportazione di cittadini ucraini.

La designazione di «Stato sponsor del terrorismo» è però piuttosto aleatoria, anche perché l’Unione Europea non ha al momento una cornice legale entro cui inserire questa dichiarazione.

Infatti, nella risoluzione si chiede proprio di «creare un quadro giuridico adeguato» e inserirvi la Russia. Le conseguenze concrete sarebbero ulteriori misure restrittive da imporre al Paese e una riduzione al minimo necessario delle relazioni diplomatiche. Ad esempio, andrebbero bandite tutte le organizzazioni, anche culturali e scientifiche, legate al governo russo e attive nei Paesi dell’Unione.

Come spiegano a Linkiesta fonti parlamentari, l’obiettivo della risoluzione è quello di avvicinare l’Ue al modello statunitense, in cui alcuni Stati (attualmente Cuba, Corea del Nord, Iran e Siria) sono inseriti in una lista di sponsor del terrorismo, e per questo oggetto di una serie specifica di sanzioni finanziarie, commerciali e militari.

Nella lista europea del terrorismo andrebbero inseriti anche l’organizzazione paramilitare Wagner, le unità militari cecene dette «kadyroviti» e altri gruppi armati o milizie finanziati dalla Russia.

Data l’escalation bellica del Cremlino contro il popolo ucraino, il Parlamento europeo vorrebbe pure un’accelerazione sul nono pacchetto di sanzioni alla Russia, che secondo fonti comunitarie sarebbe al momento in preparazione alla Commissione.

Poco dopo l’esito del voto, i sistemi informatici del Parlamento sono stati vittima di un «sofisticato cyberattacco», come ha scritto su Twitter la presidente dell’Eurocamera Roberta Metsola, con il sito internet fuori uso per ore. Si è trattato di un cosiddetto «Ddos», un’interruzione del servizio dovuta a un massiccio invio di richieste indirizzate all’indirizzo web del Parlamento.

A rivendicarlo è stato il gruppo pro-russo di hacking Killnet, che in passato aveva colpito con attacchi simili i siti di diversi governi dopo le loro condanne all’invasione dell’Ucraina.

Piccata, invece, la risposta su Telegram di Maria Zakharova, portavoce del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov. «Propongo di riconoscere l’Europarlamento come sponsor di idiozia». Tra Mosca e Strasburgo, c’è sempre meno spazio le cordialità.

Da liberoquotidiano.it il 23 novembre 2022. 

Il Movimento 5 stelle si sarà pure astenuto ma quattro europarlamentari italiani, di cui tre del Pd, hanno votato contro la risoluzione che definisce la Russia stato sponsor del terrorismo. Si tratta della ex leghista Francesca Donato e dei dem Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio.

Dunque il partito guidato da Enrico Letta si è spaccato al Parlamento europeo che tuttavia ha poi approvato con 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astenuti una risoluzione non legislativa che chiede di creare un elenco a livello europeo di Paesi che finanziano il terrorismo internazionale che includa la Russia. 

I deputati hanno sottolineato che gli atti atroci compiuti dalla Russia costituiscono crimini di guerra e sollecitano i Paesi membri a isolare Mosca dal punto di vista internazionale, anche nell’ambito di organizzazioni come il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il Parlamento invita gli stati a ridurre i contatti diplomatici dell’Ue con i rappresentanti russi e a completare celermente i lavori sul nono pacchetto di sanzioni verso la Russia.

Tra gli eurodeputati italiani vota all’unanimità a favore la delegazione di Fratelli d’Italia. Votano a favore anche Forza Italia e Lega (ma si registrano assenze e defezioni). Mentre nella delegazione del Pd, appunto, Smeriglio, Cozzolino e Bartolo hanno espresso in maniera esplicita il loro voto contrario. La delegazione pentastellata, in modo compatto, non ha votato. Contraria alla risoluzione anche Francesca Donato.

A Sinistra piace tanto Vladimir Putin. Il voto Ue che condanna la Russia è un caso. Christian Campigli su Il Tempo il 24 novembre 2022

Un'attrazione fatale. Che va oltre la logica, il buonsenso e persino la mera convenienza politica. Un amore, quello nei confronti di Vladimir Putin, comprensibile forse prima del conflitto ucraino, oggi difficile, se non impossibile, da giustificare Il Parlamento Europeo ha approvato ieri una risoluzione che riconosce la Russia come «Stato sponsor del terrorismo». Una presa di posizione chiara, netta, che è passata grazie a 494 voti favorevoli, 58 contrari e 44 astensioni. Il documento sottolinea che gli attacchi e le atrocità intenzionali, la distruzione delle infrastrutture civili, e altre gravi violazioni del diritto internazionale e umanitario sono «atti di terrore e crimini di guerra». Il Parlamento invita esplicitamente l'Unione Europea a strutturare un quadro giuridico adeguato «per riconoscere gli stati indicati come sponsor del terrorismo, istituendo quindi misure nei confronti di Mosca che comportino serie restrizioni nelle relazioni dell'Ue con la Russia».

Significativo anche il passaggio nel quale vengono indicate le organizzazioni paramilitare Wagner ed il 141esimo reggimento speciale motorizzato noto anche come Kadyroviti e classificate come soggetti terroristici. Infine, il documento contiene un'esortazione ad ultimare rapidamente il lavoro del Consiglio sul nono pacchetto di sanzioni contro Mosca. In questo scenario, fa scalpore la decisione di quattro italiani che hanno deciso di votare contro la risoluzione in questione. Si tratta, nello specifico, di tre rappresentanti che militano nel gruppo dei Socialisti & Democratici (quello nel quale siede il Partito Democratico) ed una indipendente. Quest'ultima è l'ex leghista Francesca Donato, alla quale si sommano i no dei dem Pietro Bartolo, Andrea Cozzolino e Massimiliano Smeriglio. Non va dimenticato neanche un secondo aspetto dal carattere squisitamente politico. L'intera delegazione del Movimento Cinque Stelle ha deciso di astenersi. Al contrario, gli eurodeputati di Fdi, Lega e Forza Italia hanno tutti votato a favore della risoluzione che dichiara la Russia Stato che sponsorizza il terrorismo.

«In Ucraina è il momento di alzare i toni della pace. Questa risoluzione porta invece all'opposta direzione - si legge in una dichiarazione resa dalla delegazione dei Cinque Stelle - La nostra solidarietà al popolo ucraino è totale e consideriamo la Russia come l'unica responsabile della guerra in corso sul suolo ucraino. Il suo esercito si è inoltre macchiato di crimini atroci, tuttavia dopo più di nove mesi di aperte ostilità che non hanno risparmiato le popolazioni civili bisogna mettere a tacere le armi e far prevalere le diplomazie. Non è più il momento del muro contro muro. Il grande assente del testo della risoluzione del Parlamento europeo è la parola pace e per questa ragione, pur condividendo i paragrafi di sostegno all'Ucraina, non possiamo sostenerla». Una presa di posizione coerente con la politica voluta da Giuseppe Conte, ma assai distante non solo dal centrodestra, ma anche dal Terzo Polo. Una scelta, quella dei pentastellati, bocciata senza appello dall'esponente di Italia Viva, Nicola Danti, che su Twitter non ha lesinato critiche al movimento creato da Beppe Grillo e GianRoberto Casaleggio. «Puntuale arriva la dichiarazione di astensione dei Cinque Stelle. È più forte di loro, ogni volta che c'è da condannare Putin si nascondono dietro mille scuse pur di non farlo. Senza vergogna».

Stasera Italia, "errore gravissimo sulla guerra in Ucraina". Emiliano infilza Italia e Ue. Il Tempo il 30 novembre 2022

Michele Emiliano, governatore della Regione Puglia, è tra gli ospiti in studio della puntata del 30 novembre di Stasera Italia, il programma televisivo pre-serale di Rete4 condotto da Barbara Palombelli, e teme per l’attuale gestione della guerra tra Russia ed Ucraina, soprattutto per l’atteggiamento sbagliato per arrivare alla pace tra Mosca e Kiev: "Giuseppe Conte ha ragione a dire che i tentativi di iniziare un serio negoziato di pace sono inesistenti, questa cosa di lasciare un fuoco accesso a 1200 chilometri dalla Puglia e a qualche chilometro in più da Roma è un errore gravissimo per l’Unione Europea e l’Italia".

Guerra in Ucraina. Giravolta del Pd, dall'elmetto al pacifismo. La sinistra abbandona la linea tenuta con Draghi e ora frena sulle armi. Fausto Biloslavo il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non vendiamo la pelle dell'orso russo prima di averlo accoppato. Un vecchio proverbio che riflette la situazione sul terreno in Ucraina. Le forze di Kiev hanno assestato formidabili smacchi agli invasori costretti prima alla fuga verso il Donbass sul fronte dell'Est e poi alla ritirata da Kherson sulla prima linea all'estremo opposto. Debacle umilianti, ma non sconfitte devastanti che possono ribaltare le sorti del conflitto portando a una vittoria finale senza se e senza ma. Per questo motivo non bisogna tanto traccheggiare nel rinnovo dell'invio delle armi a Kiev il prossimo anno. L'opposizione sembra spaccata in quattro con il Pd che, fino a poco fa con il governo Draghi, si era messo l'elmetto e adesso sembra diviso fra irriducibili e «pacifinti» interessati solo a recuperare consensi in continua erosione.

Il governo, però, deve essere consapevole che le armi non si possono dare a fondo perduto per una guerra senza fine, ma devono servire a raggiungere l'obiettivo di una pace giusta. L'opzione trattativa non ha speranza senza uno straccio di piano da proporre con forza e serietà cogliendo la finestra che sembrava aprirsi fino a febbraio.

I russi già usano abilmente l'arma dell'inverno riducendo al gelo e al buio la popolazione ucraina. Il doppio scopo è evidente: fiaccare il sostegno al presidente Zelensky e aumentare il peso sull'Europa in termini di aiuti extra. Per non parlare dell'arma ibrida dei profughi che potrebbero riversarsi nei paesi limitrofi e da noi per la sopravvivenza.

Sul campo di battaglia, nonostante gli umilianti passi indietro, gli invasori si concentrano soprattutto nel Donbass, nodo del contendere dal 2014. Ieri i filo russi, appoggiati dalle armi pesanti di Mosca, avrebbero conquistato Andrivka, cittadina strategica che segna l'avanzata nel 45% della regione di Donetsk ancora in mano agli ucraini. E la piccola Stalingrado di Bakhmut, tenuta con le unghie e con i denti dalle forze di Kiev, rischia l'accerchiamento dei tagliagole della Wagner. L'ambasciata russa a Roma usa l'arma della propaganda pubblicando la foto di un mezzo italiano ribaltato nel fango della prima linea dopo una cannonata. E pone una domanda provocatoria proprio adesso che il Parlamento dovrà decidere sulle nuove armi a Kiev con i riottosi grillini: Tutti i contribuenti italiani sono felici con la destinazione dei loro soldi?. Non si tratta di un Lince fornito dal governo, ma di un blindato simile che fa parte di un lotto comprato da una società abruzzese dall'ex presidente ucraino Poroshenko per il suo battaglione.

Se Bakhmut cadesse gli invasori avrebbero la strada spianata verso Kramatrosk e Sloviansk, la linea del Piave delle difese ucraine nel Donbass. Stiamo parlando di mesi di ulteriori e sanguinosi combattimenti, che hanno già falcidiato i due eserciti in lotta provocando 17mila morti e feriti fra i civili. Il nuovo zar Putin ha bisogno del trofeo del Donbass per dichiarare una parziale vittoria. Nonostante comincino a scarseggiare i missili di precisione e il munizionamento più preciso ed efficace, il generale «Armageddon», al secolo Sergei Surovikin, che comanda l'invasione sarebbe pronto ad assetare nuovi terribili colpi. I satelliti hanno individuato nella vicina base aerea di Engels su territorio russo preparativi per utilizzare bombardieri strategici Tupolev 95 e 160, che in teoria possono lanciare anche armi nucleari. Motivo in più per non abbandonare gli ucraini, ma puntare solo sullo sforzo bellico affossando qualsiasi spiraglio negoziale è un azzardo, se non un suicidio, per tutti.

Il cardinale Zuppi. La legittima difesa contro un aggressore che distrugge l’Ucraina, come ha fatto in Siria, è fondamentale. Linkiesta il 26 Novembre 2022.

Il presidente della Conferenza episcopale italiana Matteo Zuppi ha partecipato alla seconda giornata del Festival de Linkiesta, discutendo con il giornalista Francesco Lepore di pace, del ruolo della religione nella politica, dei diritti degli omosessuali e dei casi di abusi nella Chiesa

«Non c’è pace senza giustizia, e quindi libertà. Dire che si vuole la pace non significa confondere aggressore e aggredito». Il Cardinale Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, durante l’evento “Vatikana” al Festival de Linkiesta, si espone in maniera decisa su un tema fondamentale, il pacifismo. Argomento che lo tocca in prima persona, in quanto personalità fondamentale nella conclusione del conflitto in Mozambico dopo decenni di violenza. La pace continua a dividere il mondo sociale, ma anche quello giornalistico e politico, rispetto alla guerra di aggressione messa in atto da Putin il 24 febbraio, di cui ieri è ricorso il nono mese. La parola “pace”, fa notare il moderatore dell’evento Francesco Lepore, giornalista di Linkiesta, viene spesso ripetuta, ma si riduce quasi sempre a slogan.

«Questo è un mondo complesso che chiede delle scelte. Il rischio è che ci si invischi nella complessità. Qual è il rapporto tra pace, giustizia e libertà?» si chiede Zuppi. «Per l’Ucraina, se penso al primum vivere, ovvio che voglio la pace. Dall’altra parte, però, occorre domandarsi: la voglio a qualunque prezzo? Non c’è pace senza giustizia, e quindi libertà. Dire che si vuole la pace non significa confondere aggressore e aggredito. La legittima difesa è fondamentale, perché c’è un aggressore, che distrugge, che ha una tattica di guerra uguale a quella attuata Siria. Quando il Papa chiede al presidente della Russia, proprio per il bene del suo Paese, di dichiarare il cessate il fuoco, e al presidente ucraino di accettare delle giuste condizioni di dialogo, e la parola giuste è importante, io credo sia fondamentale».

Altro tema di grande attualità affrontato dal cardinale Zuppi è quello dei diritti afferenti alle persone Lgbt. Soprattutto a causa della recente esternazione del senatore di Fratelli d’Italia Lucio Malan, che, citando il levitico – uno dei testi biblici più difficili da interpretare – si è riferito ai rapporti tra due uomini come un abominio. «È molto pericoloso far derivare una proposta politica da una lettura di testi religiosi che finisce per essere priva della necessaria interpretazione, portando a una sorta di teocrazia, un neocristianesimo con dei tratti di fondamentalismo» afferma Zuppi, secondo cui le religioni «devono diventare sempre più la garanzia di dialogo, incontro, e quindi anche superare l’utilizzo per altri fini o per giustificare i nazionalismi, evitando di giustificare pregiudizi, odii usando la religione».

Il discorso si sposta inevitabilmente sul riconfermato ministro Matteo Salvini e sul suo massiccio utilizzo di simboli religiosi, che contrasta con tragedie come quelle avvenute nel Mediterraneo a causa delle politiche del nostro Paese. «Per un cristiano fare politica significa cercare il bene comune, termine abusato che spesso coincide con interessi personali. Bisogna mettere al centro la persona, dall’inizio alla fine della vita. C’è bisogno oggi di tanto amore politico, per citare l’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco, nella prospettiva di pensarsi insieme e di saper dialogare e discutere nella ricerca di qualcosa che ci deve unire».

La discussione verte poi su un argomento particolarmente delicato per la Chiesa, ovvero l’abuso di membri del clero su soggetti minori. Su questo, nel corso della sua attività, il cardinale Zuppi è intervenuto pubblicando un report che è stato oggetto di attacchi di alcune associazioni, che vedono in esso una mancanza di considerazione verso la vittima. «Siamo effettivamente arrivati tardi. La consapevolezza, la fermezza nella comprensione dei problemi, nell’individuazione delle responsabilità, è qualcosa che è maturato negli ultimi anni. Non è stata facile questa autocoscienza, ma ora c’è» dice il cardinale. «Dobbiamo crescere, ma mi sembra che la chiesa italiana abbia scelto con chiarezza dei regolamenti molto fermi, pubblicando i dati e rendendosi disponibile a delle analisi su di essi, qualcosa che per la Chiesa era impensabile. Prendere in esame i casi è il primo interesse della Chiesa. Il dolore è quello delle vittime, ed è quello che a maggior ragione spinge la Chiesa a una grande chiarezza e a un grande rigore. Ci va tempo, con l’intenzione di non nascondere niente e non scappare».

(ANSA il 28 novembre 2022) Il Cremlino "accoglie con favore" l'offerta di mediazione del Vaticano, ma è l'Ucraina che non è favorevole. Lo ha detto il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. "Sappiamo - ha detto Peskov, citato dall'agenzia Interfax, rispondendo a una domanda sull'offerta di mediazione del Vaticano - che un certo numero di statisti e Paesi stranieri si dichiarano pronti a fornire il loro aiuto e, naturalmente, accogliamo con favore tale volontà politica. Ma nella situazione che abbiamo ora de facto e de jure da parte dell'Ucraina, tali interventi non possono essere richiesti".

(ANSA il 28 novembre 2022) "La posizione della Santa Sede è cercare la pace e cercare una comprensione" tra le parti, "la diplomazia della Santa Sede si sta muovendo in questa direzione e, ovviamente, è sempre disposta a mediare". Lo dice il Papa in un'intervista alla rivista dei gesuiti America. "Ho anche pensato di fare un viaggio, ma ho preso la decisione: se viaggio, vado a Mosca e a Kiev, in entrambe, non solo in un posto". "Perché non nomino Putin? Perché non è necessario", "a volte le persone si attaccano a un dettaglio. Tutti conoscono la mia posizione", ha ribadito il Pontefice.

Da corriere.it il 28 novembre 2022.

Mosca si scaglia contro il Papa che parlando alla rivista dei gesuiti «America» ha denunciato che «forse i più crudeli» nell’esercito russo in Ucraina sono «i ceceni, i buriati e così via». «Non si tratta neppure più di russofobia, ma di perversione della verità di non so neppure quale livello», ha tuonato la portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova, come riporta l’agenzia Tass. 

«Quando parlo dell’Ucraina, parlo di un popolo martirizzato. Se hai un popolo martirizzato, hai qualcuno che lo martirizza. Quando parlo dell’Ucraina, parlo della crudeltà perché ho molte informazioni sulla crudeltà delle truppe che entrano», ha detto Papa Francesco. «In genere, i più crudeli sono forse quelli che sono della Russia ma non sono della tradizione russa, come i ceceni, i buriati e così via. Certamente, chi invade è lo stato russo. Questo è molto chiaro», ha sottolineato il Pontefice.

«Negli Anni ‘90 e primi 2000 ci è stato detto esattamente il contrario», ha ricordato Zakharova, «che erano i russi, gli slavi a torturare i popoli del Caucaso e ora ci dicono che è la gente del Caucaso a torturare gli slavi. Deve trattarsi di perversione della verità».

Il Papa: "Pace, ma russi crudeli". Mosca: "È una verità perversa". Storia di Matteo Basile su Il Giornale il 29 novembre 2022.

Ogni volta che si utilizza il termine «dialogo» per cercare di porre fine alla guerra in Ucraina, sistematicamente succede qualcosa che spinge nella direzione opposta. E quasi sempre a spingere è una parte sola. Perché quello che succede in Russia è paradossale. Dalle parti del Cremlino nel giro di pochissime ore riescono a dire una cosa, smentirla e accusare chiunque di essere responsabile del caos. Fare e disfare, praticamente tutto da soli. Prima aprono al dialogo, in un secondo tempo si dicono pronti ad accogliere l'appello del Vaticano, per poi arrivare a definire «perversione della verità» le parole del Papa che si è azzardato a evidenziare le responsabilità russe sulla guerra. Cattivoni tutti, il Papa, gli ucraini e l'Occidente. E l'ipotesi dialogo torna in soffitta. L'ennesimo controsenso nel contesto di un conflitto che di sensato continua ad avere poco.

Succede che dopo l'appello di Monsignor Paul Richard Gallagher, il «ministro degli esteri» del Vaticano, Papa Francesco ribadisca la sua posizione. «La diplomazia della Santa Sede è sempre disposta a mediare. Quando parlo dell'Ucraina parlo di un popolo martirizzato. Se hai un popolo martirizzato, hai qualcuno che lo martirizza», ha detto il Pontefice, citando anche «crudeltà» delle truppe di Mosca e specificando che «certamente, chi invade è lo stato russo. Questo è molto chiaro». E apriti cielo. Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov prima apre alla Santa Sede e afferma «Apprezziamo questa iniziativa», non senza attaccare Kiev che a suo dire non sarebbe disposta a trattare. Poi, dopo le parole del Papa, ecco l'attacco frontale e indiscriminato da parte della sempre amorevole portavoce del ministero degli Esteri di Mosca, Maria Zakharova. «Non si tratta neppure più di russofobia, ma di perversione della verità di non so neppure quale livello», ha attaccato la più fedele delle yes woman del Cremlino, una che difficilmente parla se non imbeccata da qualcuno sopra di lei. La dimostrazione più palese che il verbo proferito da Mosca vale poco o nulla e che quando si parla di pace e trattative per raggiungerla, le condizioni poste dall'invasore risultano inaccettabili anche per chi è dotato di una benevolenza cristiana non per tutti.

Eppure anche gli Stati Uniti puntano a rimettere insieme i cocci di un dialogo che stenta a decollare ad ogni livello. Elisabeth Rood, incaricata d'affari statunitense in Russia, è netta: «Il presidente Joe Biden è stato molto chiaro sul suo impegno a dialogare e rimaniamo impegnati a raggiungere questo obiettivo» pur ammettendo come sia «difficile immaginare la continuazione del dialogo strategico in questo momento». Per colpa di chi? Ancora una volta del ristretto circolo di fedelissimi di Putin. Un'ulteriore dimostrazione arriva dal rinvio della riunione della commissione russo-statunitense sul trattato New Start, a tema disarmo nucleare. Il vertice non si terrà perché la Russia, in maniera unilaterale, ha deciso che non si presenterà ai colloqui previsti da oggi al Cairo. «La parte russa ha informato gli Stati Uniti che ha rinviato unilateralmente il meeting e ha dichiarato che avrebbe proposto nuove date», fanno sapere dalla Casa Bianca aggiungendo che gli Stati Uniti «sono pronti a riprogrammare il prima possibile». In ballo c'è il limite al numero di armi nucleari a raggio intercontinentale in possesso sia degli Stati Uniti che della Russia. Non esattamente un aspetto secondario in questo momento così delicato. E così da Mosca, si attacca il Papa, si disertano vertici fondamentali mentre si continua a bombardare l'Ucraina, mettendo nel mirino sempre più obiettivi civili. Però loro vogliono il dialogo e gli altri sono tutti brutti e cattivi. Una farsa che non fa ridere nessuno.

Aggressori e aggrediti. L’invasore dell’Ucraina è lo Stato russo, dice il Papa. Linkiesta su L’Inkiesta il 29 Novembre 2022.

Intervistato dal giornale dei gesuiti statunitensi, America, il Pontefice ha spiegato che in questa guerra c’è chiaramente «un popolo martirizzato e qualcuno che li martirizza»

Papa Francesco non nomina direttamente Vladimir Putin, ma non nasconde una posizione chiara e netta a favore dell’Ucraina. «Chi invade è lo Stato russo, questo è molto chiaro», dice Bergoglio. «Quando parlo di Ucraina parlo di un popolo martirizzato, e se c’è un popolo martirizzato c’è qualcuno che li martirizza».

Il Pontefice è stato intervistato dal giornale dei gesuiti statunitensi, America, e ha detto che la Santa Sede è sempre disponibile a una mediazione. «Quando parlo di Ucraina parlo di crudeltà perché ho molte informazioni sulle crudeltà dei soldati che sono entrati. Ma i più crudeli sono forse coloro che sono russi ma non di tradizione russa, come i ceceni e i buriati. Di certo, colui che invade è lo Stato russo. A volte cerco di non specificare per non offendere e piuttosto di condannare in generale, sebbene è ben noto chi sto condannando: non c’è bisogno che metto nome e cognome».

Sabato scorso il presidente della Conferenza episcopale italiana, Matteo Zuppi, si era espresso sullo stesso argomento durante il Festival de Linkiesta, intervistato da Francesco Lepore: «Non c’è pace senza giustizia, e quindi libertà. Dire che si vuole la pace non significa confondere aggressore e aggredito», aveva detto il Cardinale. «La legittima difesa è fondamentale, perché c’è un aggressore, che distrugge, che ha una tattica di guerra uguale a quella attuata Siria».

C'è un motivo per far finire la guerra in Ucraina: costa troppo.  Sergio Barlocchetti su Panorama il 28 Novembre 2022.

I costi del conflitto sono ormai insostenibili, da una parte e dall'altra. E anche questo potrebbe essere un buon motivo per far sedere al tavolo delle trattative C'è un motivo per far finire la guerra in Ucraina: costa troppo

L'inchiesta del New York Times secondo la quale un giorno di guerra in Ucraina costerebbe come un mese di guerra in Afghanistan attrae l'attenzione e porta a pensare che una delle ragioni per le quali il conflitto finirà è che cominceranno a mancare armi, rifornimenti e soldi a Kiev ma anche a Mosca. La frase “un giorno di conflitto in Ucraina costa come trenta in Afghanistan” è di Camille Grand, assistente del Segretariato generale della Nato per gli investimenti della Difesa. Una considerazione plausibile, del resto mentre durante le guerre mondiali le industrie erano convertite alla produzione bellica, seppure oggi si tenti di incrementare la costruzione e la consegna di arsenali, in molti casi usando la guerra per rinnovare quelli esistenti e vetusti, come accade nei paesi dell'est Europa, già su questo giornale abbiamo scritto come il livello di consumo di talune munizioni rischi di intaccare le riserve della Nato e quelle della Russia, con Washington e Mosca a ricorrere alle forniture coreane di Seoul e Pyongyang. E se sciaguratamente decidessimo di costruire più armi e munizioni, per vederne gli effetti sul campo servirebbero almeno due anni. La storia insegna, soprattutto pensando agli Usa e agli effetti che ebbe la mobilitazione industriale ordinata da Franklin Delano Roosevelt dopo l'attacco di Pearl Harbor (soltanto di veicoli, dal '41 al '45 ne furono prodotti oltre tre milioni).

Per dare un'idea del consumo attuale di proiettili, in un giorno senza particolari offensive in atto, i russi ne sparano circa 10.000, mentre in caso di avanzate come quella di Luhansk si arriva al doppio. Quanto a distruzione, si calcola che oltre agli oltre centocinquantamila morti, ma è un numero che nella sua drammatica esattezza scopriremo soltanto tra anni, a oggi i danni alle infrastrutture e agli edifici delle principali città abbiano superato abbondantemente i 300 miliardi di dollari, con cittadine completamente rase al suolo come Mariupol, 160.000 edifici danneggiati al punto di non poter essere utilizzati (case, condomini, scuole, ospedali, depositi eccetera), circa 400 ponti fatti saltare in aria, 25.000 km di strade inutilizzabili perché distrutte o minate. Pensiamo poi alle presunte perdite dell'esercito russo. Il quotidiano bollettino fornito dall'Ucraina ha numeri impressionanti, ad esempio: 3.000 carri armati e 280 aerei da guerra. Solo per questi il valore delle perdite si aggira attorno ai 50 mld di dollari. Certo il paragone tra il territorio ucraino e quello afghano è improponibile, ma ad oggi è ancora improbabile che la Corea del Nord e la Cina chiudano del tutto i loro arsenali a Mosca, che la Difesa russa entri in crisi di rifornimenti al punto di accettare una resa, nonostante secondo gli analisti Usa il Cremlino stia già impegnando l'85% delle sue risorse, uomini inclusi. Il governo ucraino dopo sei mesi di conflitto aveva stimato di aver bisogno di 5 miliardi di dollari al mese per mantenere in funzione i servizi essenziali, e aveva calcolato che la cifra avrebbe potuto aumentare fino a rendere necessari 750 miliardi di dollari per poter ricostruire il Paese. Ci sono poi i costi indiretti che si ripercuotono su altre nazioni, legati alle forniture energetiche, nonché quelli sociali e inevitabili per prendersi cura di oltre sei milioni di sfollati e rifugiati. Il conto non è finito: l'Ucraina è il granaio d'Europa e prima di poter tornare a coltivare territori devastati, minati, contaminati dagli effetti delle battaglie, ci vorranno almeno dieci anni, tempi anche ottimistici per recuperare anche i circa 30 miliardi di dollari persi dall'agricoltura ucraina, che esportava grano per 5,2 miliardi ma che finito il conflitto dovrà ricostruire attrezzature, logistica, trasporti, effettuare bonifiche e rimettere in piedi le sue aziende. Così già alla fine di agosto (ovvero dopo otto mesi di guerra), l'Onu stimava che i danni all'economia globale fossero vicini ai 3 trilioni di dollari. Giorno dopo giorno si tende a dimenticare che questo è il più grande conflitto nel nostro continente dalla Seconda guerra mondiale, della quale 77 anni dopo rimangono comunque ancora visibili alcuni segni. Il capo economista dell'Ocse Álvaro Santos Pereira sostiene che la crescita globale dell'economia si ridurrà di una differenza paragonabile alla sparizione del valore generato da una nazione grande ed evoluta come la Francia. Il paragone con Parigi non è casuale, dal momento che i Paesi Nato fino a oggi hanno sborsato aiuti a Kiev per 40 miliardi di dollari, quanto il budget annuale della Difesa francese. Ma, allora, come fa la Russia, e soprattutto come farà, a continuare questo conflitto? Sappiamo che tra il 2018 e il 2021 Mosca aveva già aumentato le spese militari del 3% circa, portandole all'equivalente di 65,9 miliardi di dollari, equivalenti al 4,1% del suo Pil nazionale, ovvero oltre il doppio di quanto ogni Paese Nato dovrebbe spendere per far parte dell'Alleanza, condizione disattesa per anni anche dall'Italia. Dunque le riserve russe possono durare ancora per altrettanti mesi di guerra; i problemi invece nasceranno una volta finito il conflitto, quando Mosca potrebbe ritrovarsi a pagare un conto salato per i danni e i debiti di guerra che, secondo analisti inglesi (dell'istituto Rusi), potrebbero arrivare all'equivalente di 6.000 miliardi di dollari. Debiti dei quali le nazioni difficilmente si dimenticano, ricorderemo infatti i 1.300 miliardi di euro chiesti da Varsavia a Berlino oltre 80 anni dopo l'invasione di Hitler. Quanti sono? A oggi circa tre volte il Pil nazionale italiano. E certamente l'economia russa uscirà dalla guerra in condizioni pessime.Operazione oscena. Secondo i pacifisti putiniani, bisogna essere gente perbene per non essere massacrati. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 21 Novembre 2022.

Se l’esercito russo distrugge centrali elettriche, tortura civili e stupra donne e bambini, dopotutto bisogna considerare che Zelensky è un mezzo autocrate reazionario che limita la libertà di stampa e maltratta le opposizioni. Non fa una piega

Ne abbiamo scritto più volte, anche qui: ma occorre proprio un richiamino. Persiste infatti l’idea, chiamiamola così, che nel giudicare la guerra all’Ucraina – che il pacifista medio chiama guerra “in” Ucraina, una cosa sbocciata a mo’ di impreveduto malestro sulle strade di Kyjiv – occorra considerare il tenore democratico del Paese aggredito, la dotazione civile e politica di chi lo governa, la specchiatezza a tutto tondo di ciascuna delle decine di milioni persone che lo popolano.

È un’altra maniera, solo apparentemente più degna, per dire che l’operazione speciale, se proprio non è giustificata, comunque si rivolge oggettivamente contro una società di gente poco di buono comandata da una setta di omosessuali drogati.

E allora sarebbe bene intendersi. È verosimile che i leader Tutsi del Ruanda non fossero dal primo all’ultimo a favore del ddl Zan, non conoscessero proprio tutti ogni nota di Bella Ciao, non fossero unanimemente senza se e senza ma contro la privatizzazione della Rai: tuttavia, c’è caso che queste pur imperdonabili mancanze democratiche non giustificassero il massacro che hanno subito quelle tribù. O no?

Dice: ma in Ucraina ci sono gruppi di neonazisti. Anche in Francia, anche in Croazia, e dunque che cosa facciamo? Bombardiamo gli ospedali di Parigi e deportiamo i bambini di Zagabria?

Dice: ma Zelensky è un mezzo autocrate, un reazionario che limita la libertà di stampa e maltratta le opposizioni. Osservazioni impeccabili: quindi se l’esercito russo incenerisce gli asili, distrugge le centrali elettriche e le linee degli approvvigionamenti di cibo, per prendere per sete e per fame e per freddo la popolazione civile, e tortura, e stupra donne e bambini, dopotutto bisogna considerare che Zelensky è un mezzo autocrate reazionario che limita la libertà di stampa e maltratta le opposizioni. Non fa una piega.

Dice: ma c’è la mafia ucraina. Quindi qualcuno organizza un’operazione speciale a Palermo, e amen se l’esercito antimafia fa bottino di lavatrici dopo aver steso un po’ di gente col colpo alla nuca e le mani legate dietro alla schiena, pazienza qualche cratere nel parco giochi, e pace se le mamme raccomandano ai soldati di non violentare le siciliane senza usare il profilattico. Corretto?

Bisogna essere gente perbene, per non essere massacrati.

Supercazzola a marchio Zeta. I fenomeni che si indignano per il missile in Polonia e dimenticano i cento sull’Ucraina. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 17 Novembre 2022.

Come per il massacro di Bucha e il crollo del ponte tra la Crimea e la Russia, c’è sempre chi non vede l’ora di puntare il dito contro chi si difende anziché prendersela con le atrocità degli invasori

L’altra sera non è che si son dati a investigare la fabbricazione e la provenienza dei missili piovuti in Polonia per tenere bassa la tensione, per spegnere la possibile scintilla nel pagliaio della Nato, insomma per addomesticare il pericolo che si trattasse di un atto di guerra su quel suolo, con le gravi conseguenze che un fatto simile avrebbe potuto comportare. Macché.

Tutta la girandola sulle “schegge”, sul missile che era per forza ucraino e che se anche non era ucraino era in mano agli ucraini (stesso modulo adoperato per quello che devastava una stazione ferroviaria mesi fa), e sul conflitto che vedi come rischia di allargarsi, e sull’escalation che vedi come si aggrava per colpa dei guerristi, in una parola la solita giostra di supercazzole dell’informazione a marchio Zeta ha cominciato a far vento per spazzare via questo fastidioso dettaglio costituito dai cento missili comprensibilmente e per nulla guerrescamente ammollati sulla capa dei renitenti al dovere morale della resa.

Il meccanismo era esattamente quello di Bucha: a priori dovevano essere manichini, perché è vero che i russi sarebbero stati capaci di fare quella strage ma è altrettanto vero che gli ucraini sarebbero stati capaci di inscenarla: e a compromettere il percorso di pace stava l’ipotetica messinscena più che il documentato eccidio.

Così il ponte tra la Crimea e la Russia: è guerrista tirarne giù un pilone, non adoperarlo per portare armi e vettovaglie all’esercito che bombarda gli asili, gli ospedali, gli edifici dei civili, i giardinetti dei bambini.

E così le “schegge” di due giorni fa: la testimonianza che se si va avanti di questo passo (e cioè avanti con la contraerea, mica con i cento missili) si finisce con la guerra che dilaga in Europa. Mentre se è arginata a un metro prima del confine polacco, e sempre premesso che è colpa di chi non si arrende, resta un conflitto tra Joe Biden e la Russia e non c’è rischio che la Nato debba attivarsi per contrastare chi dopotutto voleva solo mettere qualche persona per bene al posto degli omosessuali drogati. E poi chissà quanto salgono ancora le bollette.

Prospettiva cattocomunista. La liberazione di Kherson e lo schiaffo morale degli ucraini ai pacifisti immorali. Mario Lavia su L’Inkiesta il 14 Novembre 2022.

La ritirata russa dalla città ucraina dovrebbe suggerire al mondo cattolico-progressista un’autocritica sul massimalismo etico che ha guidato sin qui le loro azioni e che ha subito un colpo dalla Storia. Non accadrà

La bandiera ucraina che sventola a Kherson è il simbolo di una durissima lezione ai pacifisti del 5 novembre – quelli in cattiva fede, precisiamo, che dietro la pace malcelano antiamericanismo, anticapitalismo e quant’altro – in particolare a un certo pacifismo cattolico e al complementare pacifismo della sinistra antioccidentale.

L’altro giorno alla presentazione del libro catto-comunista di Goffredo Bettini (che nella sua rete ideologica rodaniana ha tirato su l’improbabile anticapitalista Giuseppe Conte), il professor Andrea Riccardi, fondatore di Sant’Egidio, ha svolto un articolato discorso sulle ragioni della trattativa non lesinando una sapida critica alla «piazzetta di Milano», dove sempre il 5 novembre si era svolta una manifestazione in cui si poneva al centro la necessità di proseguire con gli aiuti militari alla Resistenza ucraina. 

Una battuta di dubbio gusto, e alla luce di quella bandiera sventolante su Kherson, piuttosto infelice. Perché oggi risulta evidentissimo che le armi sono servite, servono e serviranno fino a che i russi non si saranno ritirati rendendo possibile solo a quel punto i negoziati di pace secondo quanto affermato ancora ieri da Zelensky. 

La storia dunque, ancora una volta, ha sconfitto l’ideologia irenista e imbelle – l’avrebbe definita Emmanuel Mounier – che ha contrassegnato la piattaforma del 5 novembre egemonizzata dell’influenza del mondo cattolico dossettiano che sotto molti aspetti si incrocia e si ripara dietro il terzomondismo di Bergoglio.

C’è da chiedersi, a questo proposito, se e quanto l’azione del Vaticano sia stata e sia rilevante nel conflitto scatenato da Mosca: questione estremamente complessa che non può essere risolta con l’argomento che la Chiesa è sic et simpliciter per la pace, a meno di non voler dire che Giovanni Paolo II fosse un guerrafondaio schierandosi per il primo intervento nel Golfo; ed è comunque significativo che i pacifisti cattolici si dimentichino che il Papa ha comunque sempre parlato dell’integrità dell’Ucraina. 

Il punto è che il pacifismo di Sant’Egidio e delle associazioni pacifiste cattoliche in questa fase ha mostrato i limiti di un pensiero parziale, troppo condizionato da un’avversione culturale, politica e persino morale verso il modello occidentale incarnato dagli Stati Uniti e al protagonismo americani nel mondo (la retorica spesso evocata da Avvenire sull’elmetto o sul gendarme del mondo) e quindi di riflesso anche verso un’Europa che rinsalda il suo legame atlantico. 

Un antiamericanismo che ha condotto persino a non vedere l’essenza di questa guerra che è una guerra fra una democrazia e una dittatura. E che quindi per sua natura obbliga a schierarsi, allontanando come il diavolo anche solo l’impressione di un’equidistanza: ed è qui che il neo-dossettismo non regge. Perché in fondo siamo sempre a Giuseppe Dossetti contro Alcide De Gasperi. All’integralismo equidistante contro la politica che come tale sceglie da che parte stare. E una certa freddezza di questo pezzo di mondo cattolico verso il Partito democratico è dovuta alla linea del sostegno armato a Kyjiv coraggiosamente voluta da Enrico Letta. 

Tuttavia questa posizione, incrinata però dallo stesso Letta con la sua partecipazione alla marcia del 5 novembre, ha difficoltà a orientare le scelte del popolo della sinistra ancora in larga parte ammaliato dalle sirene antiamericane, terzomondiste e catastrofiste proprie dell’ultimo Berlinguer nonché dell’estremismo italiano: non è un caso se i (pochi) contestatori di Letta gli abbiano gridato allo stesso tempo di essere contro la pace e di aver distrutto il Partito (verosimilmente con la P maiuscola). 

La bandiera su Kherson dovrebbe in teoria far interrogare anche quel pezzo della sinistra ancora disposto a ragionare sui fatti e, sempre in teoria, rafforzare la posizione di Letta. Ma di tutto questo finora non v’è segno. Il problema qui non è Orsini. Né Conte. Il problema è di centinaia di migliaia di elettori di sinistra intrappolati nello schema della Guerra fredda, America contro i popoli. 

In conclusione, la ritirata di Putin da Kherson e la concomitante vittoria di Joe Biden alle elezioni di midterm dovrebbero quindi suggerire al professor Riccardi e al mondo catto-comunista una riflessione ulteriore, diremmo autocritica, sul massimalismo etico che ha guidato sin qui le loro azioni e che ha subito un colpo dalla Storia. Ma è improbabile che avverrà.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 6 novembre 2022.

Esiste una distanza, talvolta infinita benché infima, tra ciò che diciamo e ciò che vogliamo dire. Quella separazione la si può definire ambiguità, ipocrisia, bugia. Prendiamo la manifestazione di ieri per la pace a Roma. Manifestare per la pace è in sé lodevole, meravigliosa conferma che non ci rassegniamo alla terra spopolata, alle città vuote e messe a sacco, ai carri armati enormi e senza sportelli, ciechi come pesci degli abissi. Ma il dubbio nasce se la manifestazione si riduce appunto a una ecumenica, inutile manifestazione di ipocrisia: peccato da cui escluderei, ieri, per la sacrosanta innocenza dei fanciulli solo i boy scout.

Grazie a questa ipocrisia vi hanno partecipato tutti, preti e mangiapreti, comunisti e reazionari, liberali e liberisti, le schiere novelle che hanno ormai sostituito da alcuni mesi lo spirito santo con la Nato, filorussi cauti come carbonari e orfani inconsolabili di tutte le terze vie, i multilateralismi, le mondializzazioni salvifiche. 

Tutti presenti: dopo aver opportunamente verificato che la parola pace sarebbe stata scandita, sillabata e scritta all’italiana, ovvero dopo averla preventivamente svuotata di qualsiasi riferimento concreto, diplomatico, reale. Riconducendola cioè alla sua esclamazione metafisica, sacrale e quindi inutile: andate in pace… Invito di cui le vittime della guerra, in divisa e non, quelli per cui ogni speranza sembra spenta, davvero non sanno che farsene.

Che cosa significa la magica parola pace? Non sono riuscito a saperlo: etere, sogno, possibilità in attesa di una forma? Temo sia così che viene evocata in un Paese dove il libro più importante mai scritto è Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto a cui si abbeverarono le classi dirigenti dell’età barocca. Non a caso non viene insegnato a scuola: perché nei secoli è diventato una seconda natura. 

Allora che cosa è la pace in riferimento al problema per cui bruscamente è stata evocata, ovvero la guerra europea in Ucraina, l’unico frammento della terza guerra mondiale a puntate indicata da Papa Francesco che davvero ci interessi? Se intesa come il contrario della guerra, fratellanza, capacità di dimenticare i torti subiti, pentimento di quelli che li hanno commessi, chi mai potrebbe esser contro un così impalpabile sogno?

Ma se la si intende in senso pratico, come un processo diplomatico, l’atto politico e tecnico che pone fine alla guerra allora bisogna specificare, chiarire, aggiungere atti e fatti. Esattamente quello che nelle enunciazioni auto assolutorie, e nelle bugie dei politici che la guerra la vogliono, non si fa mai. 

Per fare la pace bisogna inevitabilmente sedersi al tavolo con l’aggressore, ovvero Putin, discutere con lui, accettarlo come interlocutore, fino ad arrivare, forse, alla definizione di un equilibrio che ponga fine, temporaneamente (la pace perpetua esiste solo nella splendida utopia kantiana) al dominio della morte. Sgradevole necessità, certo, quella di discutere con il colpevole. Ma la pace, ontologicamente, richiede due soggetti.

Altrimenti si chiama resa senza condizioni, vittoria assoluta. Una distinzione che gli Stati Uniti ben conoscono visto che hanno intavolato trattative di pace solo quando hanno perso la guerra, Corea, Vietnam, Afghanistan. Negli altri casi hanno accettato infatti la resa senza condizioni. Allarmante antecedente. 

La pace a cui si pensa ma senza dirlo, è quella che ribadisce Zelensky, costretto a dire la verità: il ritiro totale dei russi, il processo dei responsabili della guerra ovvero Putin e la sua camarilla, il pagamento delle riparazioni. Tutto questo è legittimo vista la evidenza dell’aggressione russa e la affermata certezza che un ordine internazionale è incompatibile con la sua presenza. Ma allora, per favore, sfiliamo non per la pace, ma per esigere la vittoria.

Gli utili idioti di Putin. La retorica dei falsi pacifisti che parlano come se noi non sapessimo. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022

Dicono che l’Ucraina deve arrendersi, che le stragi sono un caso, che non capiamo la complessità. Ma la realtà dei fatti dice tutt’altro, e abbiamo le prove (da raccontare ai superstiti ucraini)

Ogni orfano ucraino, se riuscirà a sopravvivere, saprà che un pacifista accusò il padre di non essersi arreso. Ogni vedova ucraina saprà che un pacifista accusò il marito di non volere la pace. Ogni donna violentata dall’invasore saprà che un pacifista la caricò sul conto delle brutture di guerra, tutte uguali, tutte senza buoni e cattivi, tutte i torti non stanno da una sola parte, tutte ci sono gli interessi economici, tutte ci sono le lobby delle armi, e c’è anche il ritiro dei ghiacciai.

Ogni bambino ucraino deportato, cresciuto secondo il criterio inclusivo del rapitore, obbligato a parlarne la lingua, punito se parla la sua, saprà che un pacifista accusò i suoi genitori di non capire che anche in dittatura si può essere felici. Ogni madre che ha salutato il figlio arruolato per difendere lei, la sua casa, la sua vita, per proteggerla dai bombardamenti, dai saccheggi, dalla tortura, saprà che un pacifista tenne quel difensore del suo Paese per renitente al dovere morale della resa. Ogni moglie in pena per il proprio uomo al fronte saprà che un pacifista definì criminale, irresponsabile, bellicista la fornitura di armi a quel soldato.

Altri invece non sapranno. Non sapranno i civili ucraini, i vecchi, le donne, i bambini uccisi dai macellai che puntano le armi dell’operazione speciale non sui militari ma su di loro, sui vecchi e sulle donne e sui bambini, non sapranno che un pacifista spiegò che «Putin sta puntando sui suoi obiettivi, e nel frattempo cerca di non spaventare la popolazione».

Non sapranno i cadaveri di Bucha e di Izium che un pacifista li passò per attori di una messinscena, perché non c’erano i bossoli, perché c’è tanta propaganda, perché i satelliti americani sono in mano alla Spectre. Non saprà quella madre gravida, uccisa nell’ospedale incenerito, e non saprà il bambino morto nel suo ventre, che nessun pacifista aprì bocca quando le immagini del loro massacro furono contraffatte dalla storia sul covo di nazisti camuffato e sulle modelle chiamate ai margini dei crateri a fingersi ferite con la faccia pitturata di rosso. Non saprà il bambino esausto di sangue su un marciapiede di Kyjiv che un pacifista definì la sua morte «un caso particolare e basta».

Ucraina: la riconquista della Crimea, un feticcio per prolungare la guerra. Piccole Note il 25 novembre 2022 su Il Giornale.

“Non c’è una soluzione alla guerra in Ucraina senza la liberazione della Crimea. Altre strade sarebbero una perdita di tempo”. Così Zelensky ieri. Tradotto: non si siederà ad alcun tavolo negoziale, se la Russia non accetta preventivamente di cedere la Crimea. Un altro modo per dire che non negozierà affatto con Mosca, dal momento che è dal 2014, anno dell’annessione, che Mosca afferma che l’appartenenza della Crimea alla Russia è fuori discussione.

Nessuna tregua, nessun negoziato, rifiutando così le aperture di Mosca sul tema. Tale la follia del guerrafondaio di Kiev, che peraltro sta cercando in tutti i modi di coinvolgere in maniera aperta la Nato nel conflitto, cioè di dare inizio alla Terza guerra mondiale, com’è stato palese nella vicenda del missile ucraino lanciato o finito per caso in Polonia (sul punto rimandiamo all’articolo dal titolo “Porre fine alle follie di Volodymyr Zelensky” di Philip Giraldi).

Al di là delle implicazioni più generali della decisione di rifiutare le trattative, per poi lamentarsi che i russi continuano a bombardare, aspetto inevitabile della guerra alla quale Zelensky e i suoi sponsor non vogliono porre fine, è molto istruttiva la storia recente della Crimea, raccontata da Nicolai Petro su Responsible Statecraft.

Le aspirazioni della Crimea a la repressione ucraina

“È noto – scrive Petro – che nel 1954 la regione fu trasferita dalla SFSR russa (Repubblica socialista federativa sovietica) alla SSR ucraina (Repubblica socialista sovietica) come ‘dono’ al popolo ucraino in onore del 300° anniversario del Pereyaslavl Rada che unì l’Ucraina alla Russia”.

“Meno noto, invece, è che nel gennaio 1991, mentre l’URSS si stava disintegrando, il governo regionale della Crimea decise di indire un referendum sul ripristino dell’autonomia della Crimea. Quasi l’84% degli elettori registrati partecipò alla votazione e il 93% di essi votò per la sovranità della Crimea“.

“Ciò ha aperto la porta alla potenziale separazione della Crimea sia dall’URSS che dalla SSR ucraina, consentendole così potenzialmente di aderire al nuovo Trattato di Unione, proposto allora da Mikhail Gorbaciov, come membro indipendente”.

“Il 12 febbraio 1991, il Soviet Supremo della SSR ucraina (il suo principale organo legislativo) riconobbe quei risultati. Il 4 settembre 1991, il Soviet Supremo dell’attuale Repubblica Autonoma di Crimea (ACR) proclamò la sovranità della regione, ma aggiunse che intendeva creare uno stato democratico sovrano ma all’interno dell’Ucraina”.

“È in questo contesto di sovranità regionale che il 54% della Crimea votò nel dicembre 1991 a favore dell’indipendenza ucraina [dall’Unione sovietica], con un’affluenza alle urne del 65%, la più bassa di qualsiasi altra regione dell’Ucraina”.

“Fin dall’inizio, però, le due parti avevano interpretazioni diametralmente opposte di ciò che significava ‘sovranità’ della Crimea”, intendendo Kiev dare una certa autonomia alla regione, ma non un effettivo status di indipendenza.

Date le premesse, si andò allo scontro: il 5 maggio 1992, il Soviet Supremo della Repubblica Autonoma di Crimea “dichiarò la totale indipendenza dall’Ucraina, annunciando un nuovo referendum che doveva tenersi nell’agosto 1992. Il parlamento ucraino dichiarò illegale l’indipendenza della Crimea, autorizzando il presidente Kravchuk a utilizzare qualsiasi mezzo necessario per impedirla“.

Lo scontro fu evitato: la Crimea revocò la decisione e trattò per uno status di autonomia all’interno dell’Ucraina.  Fu una soluzione solo “temporanea”, perché “non si era affrontata la questione centrale: il desiderio di gran parte della popolazione della Crimea di far parte della Russia piuttosto che dell’Ucraina”.

La questione riemerse “nel 1994, quando Yuri Meshkov e il suo partito ‘Russia Bloc’ vinse le elezioni per la presidenza della Crimea con una piattaforma che sosteneva la riunificazione con la Russia”.

“Ancora una volta, una crisi fu scongiurata tra il 16 e il 17 marzo 1995, quando il presidente ucraino Leonid Kuchma, dopo essersi consultato con il presidente russo Boris Eltsin e averne ricevuto il sostegno, inviò le forze speciali ucraine per arrestare i membri del governo della Crimea. Meshkov fu deportato in Russia e, quello stesso giorno, la Rada [il parlamento ucraino] abrogò la costituzione della Crimea e abolì la presidenza della Crimea”.

Ma le aspirazioni filo-russe furono solo sopite. “in una intervista del 2018, l’ultimo primo ministro della Crimea nominato dall’Ucraina, Anatoly Mogiloyv, dichiarò che la Crimea è sempre stata ‘una regione russa‘, aggiungendo di aver ripetutamente avvertito Kiev che, se si fosse rifiutata di concedere una maggiore autonomia alla penisola, essa si sarebbe precipitata tra le braccia della Russia”.

L’annessione alla Russia

Non meraviglia, dunque, che quando nel 2014 la Russia inviò il suo esercito in Crimea, non dovette sparare un solo colpo per prenderne il controllo. Nessuna vittima, l’invasione più facile e pacifica della storia dell’umanità (questo non lo ricorda Petro, ma val la pena rammentarlo).

Peraltro, l’invasione avvenne dopo il colpo di Stato di Maidan, quando Kiev, rifiutando di trattare con le regioni del Donbass che chiedevano autonomia, inviò contro di esse il proprio esercito, che venne incenerito dopo mesi di guerra (la Russia allora poteva prendere il controllo di tutta l’Ucraina, ormai disarmata, ma non lo fece).

Dopo l’arrivo dell’esercito russo in Crimea, fu indetto un referendum che sancì l’annessione. Tale referendum non venne ovviamente accettato né da Kiev né dall’Occidente, che li bollò come falsati.

Detto questo, però, Petro ricorda come successivamente, “una serie di sondaggi sponsorizzati dall’Occidente hanno evidenziato un alto livello di sostegno alla riunificazione con la Russia. Un sondaggio Pew dell’aprile 2014 ha rivelato che il 91% degli intervistati della Crimea riteneva che il referendum del 2014 fosse libero ed equo”.

“Un sondaggio del giugno 2014 realizzato da Gallup ha mostrato che quasi l’83% della popolazione della Crimea (94% tra quelli di etnia russa e il 68% tra quelli di etnia ucraina) pensava che il referendum del 2014 riflettesse le opinioni della popolazione. Un sondaggio della primavera 2017 condotto dal Centro per gli studi internazionali e dell’Europa orientale con sede in Germania ha rilevato che, se gli fosse stato chiesto di votare di nuovo, il 79% degli intervistati avrebbe espresso lo stesso voto”.

Peraltro, il duro braccio di ferro avviato da Kiev contro la regione reproba non ha giovato alla sua causa, in particolare la decisione di tagliare l’acqua potabile, con la Russia in seria difficoltà a supplire ai rifornimenti necessari.

Tornando a Petro, egli annota come “la storia della Crimea dal 1991 offre una vivida illustrazione di come il nazionalismo possa portare le élite nazionali all’autoillusione. Conoscendo perfettamente le aspirazioni di autonomia di lunga data della regione, i politici nazionalisti di Kiev hanno scelto di ignorarle o sopprimerle”.

Da cui la decisione non forzata di aderire alla Russia, che invece ha saputo gestire con pragmatismo le diverse anime della penisola, come annota Petro, in particolare l’etnia tatara, sulla quale l’Occidente aveva puntato per dar vita a una resistenza all’invasore (The Atlantic), sbagliando i calcoli.

Insomma, la popolazione della Crimea non sembra avere alcun desiderio di tornare sotto il controllo di Kiev, né tale reintegrazione è presa molto in considerazione dagli alleati dell’Ucraina, che sanno bene come al termine della guerra, quando ci si arriverà, il compromesso tra le parti non riporterà la penisola tra le braccia di Kiev. Così, più che un obiettivo da perseguire, la riconquista della Crimea appare un feticcio da brandire perché la macelleria prosegua.

E la Turchia sta per invadere la Siria con beneplacito della Nato. La fascia One Love, l’inchino della Fifa al Qatar che finanzia il terrorismo: ma il problema è solo Putin. Paolo Liguori su Il Riformista il 23 Novembre 2022

Ho messo la fascia d’ordinanza, “One Love”, quella proibita dal Qatar. Ma io non tengo conto delle proibizioni del Qatar, perché l’Italia vota per la “Russia Stato terrorista”, ma il Qatar è Stato terrorista da molti anni, finanzia terroristi in tutto il mondo. E adesso permettono che si facciano delle leggi su come devono presentarsi in campo i capitani delle squadre di tutto il mondo e se non rispettano gli ordini vengono squalificati.

E la Fifa? La Fifa si subordina, la Fifa acconsente. Ogni tanto viene fuori un americano che dice “noi però non siamo d’accordo nel privare le persone della libertà di opinione”. Tutto falso, tutto fasullo. Il Qatar è uno stato autoritario che ha finanziato i terroristi, ma tanto che gli importa, noi ce l’abbiamo solo con la Russia e non ci accorgiamo che la Turchia sta per invadere la Siria con la scusa dei curdi e con il beneplacito della Nato.

La Nato, sapete, è un’organizzazione di difesa, ma quando viene usata dalla Turchia è un’organizzazione militare aggressiva. Ci sono due pesi due misure: ma chi ci crede più a questo diritto internazionale? A questa patria dei valori mondiali, chi ci crede a questo campionato mondiale del Qatar, che è stato fatto a suon di dollari nel mondo imbrigliando l’intera rete dei campionati nazionali.

Abbiamo distrutto il calcio per un anno. Perché prima c’erano i finti infortuni, ora ci sarà una ripresa con i veri infortuni e con la ripresa di tutti i campionati dopo i mondiali. Ebbene, chi ci crede più che tutto funziona secondo le regole quando queste sono fatte da persone che non le rispettano in primis? Inutile sottolineare il fatto che il Qatar è uno dei più grandi giacimenti di gas del mondo e che gli americani hanno chiesto al Qatar di rinunciare a quello russo e di darne un po’ di più all’Europa.

Quindi c’è uno scambio, di energie, di gas, di petrolio e quindi si fanno le guerre. E qui si parla ancora di aggredito o aggressore! E ora in Siria con i curdi, chi è l’aggredito e chi l’aggressore? Forse Erdogan che continua a farsi i fatti suoi con l’ombrello Nato che lo protegge. Ma di questo non parla nessuno. L’unica cosa che voglio ricordare è One Love. Questo sì che è importante.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Il vero pericolo per il prossimo futuro. Zelensky come Saddam Hussein, con le armi arrivate dall’Occidente il dopoguerra resta una incognita. Paolo Liguori su Il Riformista il 18 Novembre 2022

Noi non sappiamo quando e come finirà questa guerra in Ucraina. Quello che è certo è che finché non finirà non si troverà un equilibrio in Europa e nel mondo, l’hanno capito perfino i cinesi. C’è però una situazione strana e che riguarda già il dopoguerra e che vi posso già raccontare. Il fatto che lo testimonia è che nessuno ha intenzione di dire a Zelensky “guarda che noi al G20, i 20 Paesi più importanti del mondo ci siamo messi d’accordo, di tornare al Minsk 2 ma bisogna finire questa terribile guerra”.

Nessuno ha avuto il coraggio di dirlo e lui si muove senza controllo. Allora mi è venuta in mente un altro personaggio, che fece esattamente la stessa cosa: penso a Saddam Hussein. Che faceva Saddam? Poco e nulla finché gli americani non l’hanno riempito di armi e gli hanno detto “fai la guerra all’Iran”, una guerra terribile con milioni di morti, iraniani e iracheni, una guerra dove si usavano i gas. Una guerra con milioni di morti. Con queste armi Saddam costruì un esercito potentissimo che diventò un pericolo vero per tutto il Medio Oriente.

Furono gli stessi Paesi Arabi a dire “questo lo avete costruito voi, ora ce lo dovete levate di torno”. Saddam fece un esercito, armato fino ai denti, la famosa Brigata repubblicana di Saddam, entrò nel Kuwait con l’intenzione di entrare anche negli altri Emirati. A questo punto i paesi arabi dissero agli Stati Uniti di fermarlo e depotenziarlo.

Ora, quello che voglio dire, Zelensky con tutte le armi che ha avuto – perché quello è il problema fin dall’inizio, ossia che abbiamo messo delle armi in un punto dell’Europa che può terrorizzare anche i vicini, anche i polacchi, gli ungheresi, si forma una truppa d’élite senza il controllo né della Nato né nostra, né degli americani (Biden è dovuto intervenire tre volte per ricordargli che vogliamo fare la pace).

Questo è il vero problema del dopoguerra, questa forza armata importante, micidiale, che ha Zelensky, è una forza che potrà essere riportata a casa al mondo civile anche dopo un accordo internazionale oppure no? Perché questo è il vero pericolo per il prossimo futuro.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

"Ora fermatevi". La vittoria sui russi non ci sarà mai, bisogna smettere con la guerra. Paolo Liguori su Il Riformista il 7 Novembre 2022

Il Papa ha riguadagnato le prime pagine di giornali italiani. E come ha fatto? Ha parlato di migranti. Ha detto che sì, dobbiamo accogliere i migranti, ma anche l’Europa deve dare una mano all’Italia, non si può pensare che il nostro Paese faccia da solo l’accoglienza ai migranti. Questa cosa piace agli editori dei giornali italiani, piace la forza del Papa che spiega ai paesi europei che bisogna essere più generosi.

Ma quando diceva che se continuiamo a dare armi all’Ucraina ci saranno milioni di morti lo tacitavano, lo mettevano in seconda pagina. Quando parlava di cose sgradite, fastidiose, allora il Papa diventava un personaggio secondario, anzi un po’ fastidioso. Questa cosa è tipica dell’Europa. L’Europa ha una guerra in corso. Noi stiamo parlando di ricucire gli strappi sull’economia. Ma quali strappi vogliamo ricucire se siamo a brandelli perché c’è una guerra? Il primo strappo da ricucire è fare la pace.

Come si può uscire dalla guerra? Ci sono solo due modi. C’è chi pensa che si possa uscire dalla guerra solo con la vittoria. Queste persone si devono curare. E noi come Europa le dovremmo curare. E’ una concezione arcaica che si possa uscire dalla guerra con la vittoria. Dalla seconda guerra mondiale in poi, le guerre non le vince più nessuno. Perdono tutti. Solo noi sui giornali diciamo “noi dobbiamo vincere contro Putin“. La guerra finisce solo interrompendo la guerra. Come si fa a far smettere l’aggressore? Senza buttare benzina sul fuoco della guerra (che non stiamo facendo noi).

Se tornassero i morti a casa italiani, piangeremo tutti i giorni. Siccome a casa tornano i profughi ucraini noi quei profughi lì li consideriamo un male necessario, mentre quelli che arrivano con le barche sono il male assoluto e vanno respinti, oppure devono prenderli gli altri paesi d’Europa. Questa è una farsa assoluta, un’idea sbagliatissima. Cosa stiamo insegnando? Che la guerra finisce quando si ottiene la vittoria sui russi? Ma la vittoria sui russi non ci sarà mai, come non ci sarò mai la vittoria sui cinesi o sugli Stati Uniti. Questi paesi non devono essere sconfitti ma devono smettere di combattere. E noi dovremmo dire fermatevi.

Invece adesso fanno le manifestazioni per la pace non per fermare la guerra, ma per candidare un’assessora di Milano che forse può diventare candidata del Terzo Polo alle prossime regionali. Queste sono soluzioni beffa, che prendono in giro chi crede davvero che la guerra debba finire con la pace, che ci si debba fermare. Già, ma fermare su quali confini? Ma sui confini più accettabili possibili, com’è sempre stato quando bisogna smetterla. E ora bisogna smetterla, anzi, è già troppo tardi. Paolo Liguori

Da open.online il 26 novembre 2022.

L’ex cancelliera tedesca Angela Merkel ha detto di aver cercato di convincere gli alleati europei della necessità di trovare un formato per dialogare con il presidente russo Vladimir Putin sull’Ucraina. Ma poi si è accorta di non avere la necessaria influenza. Merkel ha parlato in un’intervista pubblicata dal settimanale Der Spiegel. 

E ha spiegato che aver provato a convincere l’Europa perché pensava che il Protocollo di Minsk fosse diventato «obsoleto». Il riferimento è agli accordi firmati nel 2014 da Russia, Ucraina, Donetsk e Lugansk con la benedizione dell’Osce. «L’accordo di Minsk era stato lasciato vuoto. Nell’estate del 2021, dopo che i presidenti Biden e Putin si erano incontrati, cercai di creare un nuovo formato di dibattito europeo indipendente con Putin e con Emmanuel Macron nel Consiglio dell’Ue».

Ma alcuni «si opposero e non ebbi più la forza di impormi perché tutti sapevano che me ne sarei andata in autunno». L’ex cancelliera ha anche chiesto agli altri leader europei di intervenire ma senza esito: «Uno mi rispose: “È troppo grande per me”; un altro si limitò ad alzare le spalle: “questo è quello che devono fare i grandi’». Infine, Merkel ha rivelato l’atmosfera nel giorno dell’ultimo incontro con Putin al Cremlino: «La sensazione era molto chiara: “In termini di potere sei finita”. Per Putin conta solo il potere».

Le rivelazioni di Merkel: “Ho cercato di evitare la guerra, ma per Putin non contavo più”. Tonia Mastrobuoni su La Repubblica il 25 Novembre 2022.

Due interviste da copertina a distanza di pochi giorni, la prima sullo Stern con un curioso formato senza virgolettati, la seconda sullo Spiegel, con citazioni copiose sul conflitto in Ucraina e un ricco contorno di dettagli sulla sua vita attuale. Angela Merkel ha scelto i settimanali tedeschi più prestigiosi per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, e in un momento delicatissimo per la guerra d'aggressione russa.

Tonia Mastrobuoni per “la Repubblica” il 26 novembre 2022.

Due interviste da copertina a distanza di pochi giorni, la prima sullo Stern con un curioso formato senza virgolettati, la seconda sullo Spiegel, con citazioni copiose sul conflitto in Ucraina e un ricco contorno di dettagli sulla sua vita attuale. Angela Merkel ha scelto i settimanali tedeschi più prestigiosi per togliersi qualche sassolino dalla scarpa, e in un momento delicatissimo per la guerra d'aggressione russa. 

Ma qualche passaggio è destinato a suscitare nuove polemiche sui suoi rapporti con Vladimir Putin e l'eredità politica del suo lungo regno. «Avrei desiderato un tempo più pacifico dopo il mio addio», rivela la cancelliera allo Spiegel, ma la guerra «non è stata una sorpresa».

Per Merkel, architetta dell'intesa di Minsk del 2014, sottoscritta dopo l'annessione della Crimea per scongiurare un'ulteriore espansione russa, gli accordi «erano ormai diventati un guscio vuoto». Così, nell'estate del 2021, «cercai di ristabilire insieme a Emmanuel Macron un colloquio autonomo tra il Consiglio Ue e Putin». 

Alcuni, ammette, si opposero, e «io non avevo più la forza di impormi perché tutti sapevano: in autunno non ci sarà più». Peggio ancora: quando la cancelleria volò a Mosca per incontrare per Putin per l'ultima volta nella veste di cancelliera, «la mia sensazione fu chiarissima: "dal punto di vista della politica di potenza, non conti più". Per Putin conta solo il potere».

Nel 2021, azzoppata dall'imminente addio, Merkel non fu più in grado né di imporre un dialogo tra Ue e Mosca, né di contenere Putin. Sarebbe dovuta restare, forse, ricandidarsi anche nel 2021 per un quinto mandato, azzarda il giornalista? Merkel è convinta di no, e ammette che «c'era bisogno di un approccio nuovo». 

Sulla Transnistria e la Moldavia, sulla Georgia, sulla Siria e sulla Libia «non sono più riuscita ad avanzare neanche di un millimetro », ammette. Sullo Stern, nella strana intervista senza virgolettati, si capisce anche che l'altro clamoroso errore di Merkel, l'ostinazione a portare avanti Nord Stream 2, fu il risultato della sua convinzione che si potesse usare come una leva per contenere Putin.

A proposito di contenimento, è Spiegel invece a stanarla davvero sul suo ruolo nei rapporti europei con Putin. E l'interpretazione che la cancelliera dà indirettamente di sé stessa è imbarazzante. Merkel, da sempre lettrice avida, cita più volte la monumentale biografia di Sebastian Haffner su Churchill, la sua frase a Roosevelt sulla "guerra sbagliata" e ammette di aver apprezzato Jeremy Irons nel ruolo di Chamberlain nella serie Netflix "Monaco". 

Secondo l'intervistatore Alexander Osang, l'ex cancelliera avrebbe «apprezzato che il predecessore di Churchill» noto soprattutto per il suo appeasement verso Adolf Hitler, «sia stato mostrato in una luce diversa. Non come timoroso fiancheggiatore di Hitler ma come stratega che garantì al proprio Paese i margini per prepararsi all'aggressione tedesca ».

Insomma, «Monaco 1938 suona come Bucarest 2008», commenta Osang, la Conferenza in cui i Paesi occidentali dimostrarono di non aver capito la pericolosità e la "resistibile ascesa" di Hitler, come la bollò Bert Brecht, è paragonabile con il vertice Nato di Bucarest del 2008, quando Merkel si mise contro il presidente americano George W. Bush per impedire l'adesione di Ucraina e Georgia alla Nato? Agli storici l'ardua sentenza. Ma è auspicabile che rigettino quel paragone. Soprattutto per Merkel.

Gli inganni della pace con i russi. Mosca pone condizioni inaccettabili. Storia di Roberto Fabbri su Il Giornale il 27 novembre 2022.

Arriva il Generale Inverno, accompagnato a vantaggio dei russi da ampia falange di droni made in Iran sì, proprio il beato Paese dove la polizia ammazza le donne che non portano il velo come si deve: chi si somiglia si piglia e torna di attualità il tema del negoziato per porre fine alla guerra in Ucraina. Per un bel pezzo nessuno potrà vincerla, sostengono osservatori occidentali benintenzionati e anche un po' cinici, tanto vale che gli ucraini colgano l'occasione offerta dal gelo incombente per cercare di portare a casa con la diplomazia almeno i territori riconquistati.

Ora, è noto che il presidente ucraino non è disposto a rinunciare a un metro quadrato di territorio nazionale, Crimea compresa. Il che complica parecchio le prospettive, visto che si negozia in due. Ma quello che ci si dimentica anche più volentieri è che l'idea che in Russia hanno delle trattative non somiglia alla nostra. Sul tema, specialmente qui in Italia, coltiviamo nobilissime illusioni. Si discetta di surreali pressioni cinesi su Putin per «costringerlo» a fermare l'invasione; dell'urgenza che Biden e i leader europei «facciano ragionare» Zelensky, ovvero lo ricattino disarmandolo per «costringerlo» a trattare con Putin; ma soprattutto di quanto sarebbe «conveniente per entrambe le parti» venire finalmente a patti in nome della sospirata pace.

Peccato che le citate pressioni non porterebbero, semmai allontanerebbero, una pace che appare «conveniente» e «sospirata» forse a noi, stanchi come siamo di bollette in impennata e di inflazione al galoppo, ma certo non a chi sta combattendo a seconda dei casi per la libertà o per la riconquista di una colonia: entrambe le parti in confitto avrebbero solo da perdere se si fermassero per davvero adesso. Putin gradirebbe una tregua invernale per rappezzare le sue disastrate forze armate, ma una tregua non va confusa con la pace: il suo obiettivo è andare fino in fondo e prendersi tutta l'Ucraina, non solo qualche pezzetto gentilmente concessogli dal nemico. Chi scommette sulla diplomazia glissa su due punti essenziali: Mosca ripete che il negoziato deve aver luogo alle sue condizioni e che «gli obiettivi dell'operazione speciale militare saranno tutti conseguiti». I realisti à la Kissinger bollano come estremisti irrilevanti quei personaggi che in Russia (ultimo, due giorni fa, il deputato putiniano Piotr Tolstoi) minacciano di ridurre l'Ucraina in macerie e i suoi abitanti al gelo permanente, e ci assicurano che a Putin conviene trattare e a noi gettargli qualche osso (ucraino) per tenerlo buono. Poi però arriva (ieri) il ministro russo degli Esteri Sergei Lavrov e spazza via gli equivoci sui famosi obiettivi da conseguire: «Liberare l'Ucraina dai suoi attuali governanti neonazisti», cioè avanti con le cannonate.

Come la mettiamo? Ingannare noi stessi non è una buona politica. I russi con cui si crede di discutere non sono solo questi inventori di giustificazioni grottesche per fare la guerra, ma soprattutto sono coloro che pongono condizioni inaccettabili per farla finire: ciò che è nostro (e che legalmente tra l'altro non lo è) non si discute, ciò che è degli ucraini invece si discute con la nostra pistola alla tempia dei «neonazisti». È il metodo Hitler, cui nel 1938-39 l'Occidente concesse di tutto in cambio della pace ottenendo in cambio l'invasione della Polonia e la seconda guerra mondiale. Lavrov abbaia ai neonazisti ma parla come Ribbentrop e ci conviene prenderne atto.

Putin stay home. La tristezza inconsolabile degli influencer del pacifismo per i successi della resistenza ucraina. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 10 Novembre 2022

Gli esperti che prevedevano un trionfo russo rimangono basiti di fronte all’avanzata di Kyjiv. Invece di esultare mugugnano di possibili ritorsioni del Cremlino. Sarà mica maleducazione festeggiare chi lotta per la libertà?

Quando la resistenza ucraina riconquista città e territori strappandoli al giogo sanguinario dell’invasore, l’atteggiamento del pacifista è diciamo così variabile: a volte, infatti, chi invoca il dovere morale della resa si limita al disappunto, mannaggia io avevo detto che li sventravano in ventiquattr’ore e mortacci loro guarda che roba; altre volte, invece, quello stratega della pace via raduno sindacal-arcobaleno (ma così, en touriste, tra amici che disegnano Zelensky col naso adunco e accademici del fronte “Nato go home”, mica Putin), altre volte, stavamo a ddì, il pacifista che assiste a un avanzamento dei criminali nazisti drogati omosessuali ucraini che si difendono rimugina – e in profundo si augura, così l’analisi geopolitica da prime time trova conferma – che quegli altri, siccome han preso una botta, sicuramente faranno rappresaglia: che arriva, di solito, sui civili, sulle centrali elettriche, sui depositi di cibo, dettagli che però non impensieriscono il pacifista comunista sindacalista collaborazionista che anzi spiega che ecco, vedi?, guarda cosa succede, eppure io ti avevo avvisato che se tu ti opponi agli stupri di massa e alle torture quelli poi bombardano il parco giochi. 

E non sto disegnando una macchietta, purtroppo, perché è da nove mesi che l’andazzo è questo (testuale, e lascio in bianco l’autore della delizia): «Putin aveva avvertito: mandare uomini e armi Nato a Zelensky è un atto di aggressione. Il bombardamento di Yavoriv è la risposta. Vincerà l’Ucraina con un po’ più di lanciamissili?». Firmato, appunto, lasciamo perdere. Tipo che se lo sgherro ti chiede il pizzo e tu non lo paghi, e chiedi l’intervento della polizia, e allora quello ti fa saltare il negozio, vuol dire che te la sei andata a cercare.

Di fatto, c’è quest’altra curiosità nel ricasco in Italia delle notizie dal fronte: che non c’è uno (e non soltanto tra gli influencer del pacifismo di cui sopra, ma pure tra quelli che più o meno obtorto collo e dimolto a denti stretti riescono ancora a dire che l’Ucraina va sostenuta), ma proprio manco uno, a compiacersi pubblicamente se la resistenza sottrae un pezzo della propria terra alla grinfia dei denazificatori. 

A questo Enrico Letta, per esempio, il dimissionario a differimento semestrale, pagarlo oro se gli scappa un tweet non si dice sulla ripresa di Kherson, che è di ieri (d’altra parte c’è da scrivere sul carattere “divisivo” della norma anti-rave) ma niente, nisba, nada manco per sbaglio durante tutto il conflitto e nemmeno in un caso, tra i parecchi nel tempo, di obiettivo raggiunto dalla controffensiva ucraina. Divisiva anche questa, non si dubita.

E si ammetterà che c’è qualcosa che non fila per il verso giusto se il partito che fa mostra di non vergognarsi proprio del tutto delle scelte pregresse (un po’ sì, ma con giudizio, quel che basta) ritiene di non spendere una parola per salutare i successi della parte che afferma di sostenere. Sarà per via del Lodo Cuperlo, quello secondo cui a questo punto la strategia degli aiuti militari va ripensata perché c’è rischio che le armi servano a respingere gli invasori. O sarà che è maleducazione festeggiare?

PiaZZa pulita. Il pacifismo due punto zeta di Cuperlo che non distingue tra aggressori e aggrediti. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 12 Novembre 2022

Il deputato dem ha accusato Calenda di aver organizzato una manifestazione sbagliata pro-Ucraina. Intanto difendeva l’evento di Roma, quello contro la Nato, contro la resistenza, e con bandiere pro Hamas

Gianni Cuperlo che ventiquattrore prima di Kherson rumina la strategia del disarmo degli aggrediti e qualche giorno dopo, erubescente davanti a Carlo Calenda che gli ricorda le manifestazioni anti-imperialiste (ma verso Ovest) della Fgci, si esercita nella sbianchettatura della piazza romana, la distesa democratica fiorita di bandiere pro Hamas e affollata di partigiani della pace due punto zero consorziati a reclamare l’adempimento del dovere morale della resa, ecco, quella è l’immagine perfetta dell’attualità comunista dietro il biondo incanutito di questa presunta evoluzione progressista.

I due, Cuperlo e Calenda, erano l’altra sera a LaZ (la sigla esatta è La7, ma non la conosce nessuno), in quel circo postribolare che fa piazza pulita di ogni residua decenza italiana, a dire ciascuno la propria sulle due manifestazioni, quella di Milano a favore dell’Ucraina, e per l’esigenza di sostenerla anche militarmente, e quella della capitale contro la Nato, contro gli Stati Uniti, contro la resistenza ucraina, e per il trionfo della pace pacifista ottenuta riaffermando il diritto dell’aggressore di incenerire scuole e ospedali senza correre il rischio di incontrare fastidiose resistenze organizzate dagli omosessuali drogati di Kyjiv.

E mi pare che sia sfuggito anche al diretto interlocutore, Carlo Calenda, la svirgolata serpentina uscita di bocca al parlamentare mitteleuropeo quando l’altro evocava le somiglianze di certi più antichi girotondi comunisti (dove si manifestava per l’Afghanistan non dicendo che i russi dovevano andarsene, ma dicendo che l’Italia doveva andarsene dalla Nato) rispetto alla cosa pacifista dei Santoro e dei Vauro e di Mister Graduidamende: «Secondo me», ha detto Cuperlo, «sbagliavi corteo anche allora».

Calenda, appunto, non se ne è accorto, o non ha voluto o potuto rispondere, ed è stato un peccato perché sarebbe stato efficace rimpallare all’arrotatore di erre questa semplice domanda: «Corteo sbagliato? Scusa, Gianni, lasciamo perdere quelli della Fgci, dove tu, unico in tutto il sistema solare, sentivi slogan “Russi go home”: ma quella di Milano, che ho fatto io con gli ucraini, non con l’Anpi e il sindacato Rai, che cosa aveva di sbagliato?

Sarebbe stato impagabile assistere ai tentativi di replica di quel beneducato e inconsapevole fiancheggiatore del pacifismo che indugia sui difetti probatori della strage di Bucha, che si affretta a prendere e a spacciare la velina moscovita sui depositi di armi tra i cavolfiori e le zucchine dei centri commerciali bombardati, che si esercita nel giornalismo d’inchiesta sulle puerpere assoldate da Volodymyr Zelensky per mettere in scena l’ospedale raso al suolo (perché c’era questa roba nella piazza grillo-comunista che lui ha ritenuto di dover omaggiare).

Impagabile sarebbe stato vederlo costretto a esplicitare le ragioni di quel suo sibilo rivelatore, e cioè che la manifestazione di Milano a sostegno dell’Ucraina era «sbagliata» perché lì si reclamava il dovere di aiutare gli ucraini anche con le armi. E che quella «giusta» era l’altra, quella che solo con qualche penoso sforzo contraffattorio Gianni Cuperlo mondava dei suoi tratti maggioritari e caratteristici, la guerra per procura, né con le stuprate né con la Nato, l’apartheid in Israele e negli Stati Uniti c’è la diseguaglianza dei redditi.

Smascherati. Il Pd partecipa alla marcia a Roma per la pace in Ucraina ma al contempo sostiene l'invio delle armi a Kiev: è la sinistra dei finti pacifisti. Michel Dessì l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Questa settimana ci spostiamo. Dalle lussuose stanze del Palazzo (dove non è accaduto nulla degno di nota) fino alla piazza dove è andata in scena l’ipocrisia del Partito Democratico. A Roma, nel weekend appena trascorso, in migliaia hanno sfilato per la pace in Ucraina sotto lo slogan “no alle armi”. In marcia con i pacifisti anche i colonnelli del Pd. Gli stessi che hanno sostenuto con forza (e sostengono) l’invio di armi a Kiev. Che faccia, vero? Una cosa bisogna ammetterla: sono coraggiosi. Molto. Soprattutto chi nega l’evidenza come Stefano Bonaccini, il governatore in salsa rosé dell’Emilia Romagna. Lo abbiamo intercettato nel corteo. - ASCOLTA IL PODCAST CON L’INTERVISTA A STEFANO BONACCINI -

Sfuggente e, soprattutto, irritato quando gli facciamo notare la sua incoerenza. Come può un fermo sostenitore dell’invio di armi all’Ucraina scendere in piazza al fianco di chi dice no? Come si può sventolare la bandiera del pacifismo quando si sposa in pieno la linea dura dell’Europa che continua ad inviare armi pesanti. Cannoni, cingolati, lanciarazzi e chi più ne ha più ne metta. Non ha senso. Ma il governatore quando glielo facciamo notare va su tutte le furie. Paonazzo sbotta e ci manda quasi al quel paese. Proprio come hanno fatto alcuni manifestanti pacifisti con Enrico Letta. Il segretario Dem è riuscito a far perdere la pazienza anche ai pacifisti. Strano ma vero. “Guerrafondaio, buffone” - e ancora - “via, via da qui. Non è la vostra piazza.” Come dargli torto?

Avrebbero fatto bene Letta e Bonaccini ad andare a Milano a fare il coro stonato di Carlo Calenda che, sulle note di "Bella ciao” si è sfogato dalla piazza unità per sostenere (armi comprese) la battaglia degli ucraini, dell’Europa. Almeno il leader di ItaliaViva in Azione è coerente. Lui ha espressamente sostenuto l’invio di armi a Kiev. Ma si sa, se la sinistra non si divide non è la sinistra. E così il Pd rischia di spaccarsi tra chi è a favore e chi è contro agli aiuti militari. Peccato, però, che tutti (sottolineiamo) tutti abbiano votato a favore dell’invio di armi. Forse ora, con l’arrivo di Giorgia Meloni al governo le cose potrebbero cambiare. Pur di mettere il bastone tra le ruote del governo sono pronti a tutto. Anche a rinunciare alle proprie battaglie. Quelle di “giustizia e civiltà”, così le ha definite Enrico Letta.

Quando Conte (da premier) vendeva al Cairo armi e navi da guerra: sui casi Regeni e Zaki il silenzio del leader M5S. Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Il record dell’ex capo del governo, che incrementò al massimo i fondi per la Difesa e ora scende in piazza con i pacifisti. Mentre dal Pd criticano Meloni per l’incontro con Al Sisi, ma al governo appoggiarono le scelte di Conte

Il colloquio tra la premier italiana e il presidente egiziano è stato criticato da quasi tutte le forze di opposizione, che hanno contestato a Meloni una forma di appeasement con Al Sisi nonostante pesino nei rapporti tra i due Paesi l’omicidio Regeni e il caso Zaki. L’altro ieri il leader di Sinistra italiana Fratoianni e il portavoce di Europa Verde Bonelli hanno additato «l’indecente incontro» di Sharm el Sheik. E ieri il Pd ha attaccato con alcuni suoi dirigenti l’inquilina di Palazzo Chigi: la capogruppo del Senato Malpezzi, l’ex presidente della Camera Boldrini, il coordinatore dei sindaci Ricci e l’europarlamentare Moretti le hanno chiesto polemicamente «che fine ha fatto la dignità della nazione» e l’hanno accusata di aver «barattato i diritti umani con la ragion di Stato». La tesi comune è che, in nome degli approvvigionamenti energetici e delle commesse militari, sia stata archiviata la drammatica fine del giovane ricercatore italiano.

Il punto è che quella vicenda era stata di fatto messa tra parentesi già dai governi Conte. Il primo — alleato della Lega — aveva deciso di vendere armamenti per quattro miliardi di euro ad Al Sisi. Il secondo — alleato del Pd — aveva completato il passaggio all’Egitto di due delle sei fregate Fremm, che facevano parte di una commessa in cui erano compresi 20 pattugliatori, 24 caccia Eurofighter, 20 velivoli di addestramento e un satellite. Non è un caso quindi se nella girandola di dichiarazioni contro Meloni sia mancata la voce del leader grillino, che oggi veste i panni del pacifista e avvisa la premier di non «azzardarsi» a inviare altre armi a Kiev «senza passare dal Parlamento». Ma che due anni fa venne contestato dalle organizzazioni pacifiste per aver ceduto le navi da guerra all’Egitto «con una decisione che non è mai stata sottoposta all’esame del Parlamento».

Il Pd avrebbe dovuto rammentare la compartecipazione alla scelta, se è vero che in Consiglio dei ministri nessuno dei suoi rappresentanti mosse obiezione. Dunque è un po’ contraddittorio il ricordo di Malpezzi, secondo la quale «i nostri governi si erano battuti per ottenere trasparenza e chiarezza» sui casi Regeni e Zaki. E cadde nel vuoto l’appello attuale di Boldrini di «fermare il commercio di armi» con il Cairo. Forse perché a quei tempi — per usare le parole odierne di Moretti — «gli interessi commerciali» pesarono «più del rispetto dei diritti umani». E chissà se anche allora a Ricci fece «male vedere un esecutivo freddo» come quello retto da Meloni.

Prudentemente Conte e i dirigenti del Movimento non hanno preso parte alla polemica sul vertice di Sharm el Sheik. Hanno preferito sfilare alla marcia per la pace, magari anche per sbianchettare il passato dell’ex premier, che ai tempi del gabinetto giallorosso decise — dopo le sollecitazioni di Trump — il maggior incremento di investimenti della storia repubblicana nel settore della Difesa. Se così stanno le cose, non si capisce come mai il dem Bettini — che di Conte è un sostenitore — nell’intervista di ieri al Corriere abbia detto: «Bisogna ridefinire la nostra identità. Dobbiamo stare con l’elmetto della Nato?». Una stilettata, non si sa quanto involontaria, contro la linea di Letta (e Guerini) coerentemente filo-atlantica e a sostegno di Kiev.

Insomma della tragica sorte di Regeni e delle vicissitudini giudiziarie di Zaki non c’è finora traccia tra le dichiarazioni dei grillini. Eppure da presidente della Camera Fico aveva addirittura sospeso le relazioni diplomatiche con il Parlamento egiziano, in segno di protesta verso il regime del Cairo. Era il novembre 2018. «Su Regeni saremo inflessibili fino alla verità», commentò Conte. Che un anno e mezzo dopo annunciò in Consiglio dei ministri la vendita delle fregate Fremm ad Al Sisi. «La vendita non è stata ancora autorizzata», ribattè per tamponare le polemiche. Poi firmò però la fattura. In fondo, piazzare navi da guerra in giro per il mondo è una propensione che lo accomuna ad alcuni suoi amici di sinistra, diciamo.

Dalla Russia con disonore. Gli antipartigiani della pace e gli utili idioti di Putin. Christian Rocca su L’Inkiesta il 7 Novembre 2022.

L’internazionale bipopulista, da Conte a Salvini a Trump a Le Pen, si mobilita per disarmare l’Ucraina e consegnarla a Mosca. Ma c’è un’Italia che canta Bella Ciao ed è solidale con un popolo che una mattina si è svegliato e ha trovato l’invasor

Negli anni Cinquanta, Stalin creò i “Partigiani della Pace”, un movimento internazionale che in Europa occidentale protestava contro la Nato e contro l’America seguendo precise direttive del Cremlino (in Italia fatte eseguire dal capo comunista Pietro Secchia).

I Partigiani della Pace erano uno strumento della propaganda russa e dei partiti comunisti occidentali che nel mondo libero facevano da avamposto di Mosca. Erano un movimento di opinione teleguidato dal Cremlino, una versione in carne e ossa delle fabbriche dei troll di San Pietroburgo, ma pur sempre capace di coinvolgere milioni di “utili idioti” occidentali, utili al regime sovietico e idioti malgrado fossero in gran parte intellettuali.

I capi dei Partigiani della Pace non erano pacifisti, al contrario sostenevano attivamente le ragioni di uno dei due blocchi della Guerra Fredda, quello illiberale e totalitario che, dopo aver fatto alcune decine di milioni di morti, il mondo libero è riuscito finalmente ad archiviare nella spazzatura della storia.

In un’epoca in cui le ideologie erano una cosa seria e il principio di realtà, almeno in Occidente, era rispettato, i Partigiani della Pace avevano perlomeno un obiettivo coerente con il loro (finto) pacifismo, ovvero chiedevano la fine delle guerre coloniali allora in corso.

La grande differenza tra gli utili idioti di Stalin e gli utili idioti di Putin è che l’attuale movimento pacifista italiano guidato da Giuseppe Conte, un tizio che fece orgogliosamente sfilare sulle nostre strade l’esercito di Mosca inviato da Putin “dalla Russia con amore” (malimorté), non chiede la fine della guerra coloniale, o meglio: imperialista, di Putin all’Ucraina, ma chiede la fine degli aiuti al popolo aggredito e sottoposto ogni giorno a bombardamenti di obiettivi civili come le stazioni, i quartieri residenziali, i centri commerciali, i parchi giochi, le scuole, gli ospedali e le fermate degli autobus.

Cioè questo movimento pacifista italiano chiede la fine dell’eroica resistenza ucraina, la fine della solidarietà occidentale a un paese che si difende dal genocidio e il riconoscimento delle razzie russe il più presto possibile anche perché i russi stanno perdendo sul campo la guerra e più passa il tempo più le rivendicazioni illegali di Putin rischiano di indebolirsi. Una posizione oscena e miserabile che ha sfilato a Roma sabato scorso (con rare eccezioni come il gruppo Micromega e, in linea di principio, del Pd).

Va aggiunto che il partito guidato da Giuseppe Conte non è la prima volta che mostra una certa affinità con Mosca. In passato ha   partecipato allegramente ai congressi del partito più unico che raro di Vladimir Putin e si è presentato alle elezioni italiane del 2018 con un programma di politica estera – dal no alla Nato al no all’Europa – che sembrava una fedele traduzione della politica estera di Mosca.

I leaderini Cinquestelle di allora applaudivano l’invasione russa della Crimea e del Donbas e avevano un’idea di politica energetica di totale dipendenza dalla Russia, mentre Conte medesimo ha governato d’amore e d’accordo non solo con Putin ma anche con Donald Trump, aprendo agli sgherri di Mar-a-Lago le porte dei nostri apparati di sicurezza per rintracciare le improbabili prove di un fantomatico complotto ucraino contro Trump, e ordito da Biden e Renzi, che in realtà era una gigantesca bufala creata ad arte dal Cremlino per distogliere l’attenzione dall’ingerenza russa nel processo democratico americano.

Per non farsi mancare niente, il governo Conte ha anche siglato un memorandum con la Cina per consegnare le infrastrutture portuali italiane ai cinesi. Insomma, sotto la luminosa guida dell’avvocato populista, sovranista, progressista, e ora anche pacifista, l’Italia è stato il primo paese del G7 ad aderire alla Belt and Road Initiative (imperialismo cinese) e il primo paese occidentale a far sfilare nelle proprie strade l’Armata rossa (imperialismo russo).

Nonostante ciò, Conte pontifica. Nonostante ciò, fa il capopopolo pacifista. Nonostante ciò, il Partito democratico lo ha scelto anno fa come leader fortissimo di tutti i progressisti e continua a inseguirlo incurante delle continue umiliazioni subite, compresa quella nei confronti di Enrico Letta alla manifestazione di Roma.

I propagandisti italiani di Putin, a differenza di quelli di Stalin, quindi è più esatto definirli “antipartigiani della pace”, perché non chiedono più la fine della guerra coloniale come i loro predecessori, ma il disarmo dell’Ucraina che resiste alla guerra imperialista russa.

E quindi benissimo ha fatto Carlo Calenda, sabato sera, a chiudere la manifestazione antifascista di Milano a sostegno del popolo ucraino aggredito dai russi intonando “Bella Ciao”, il canto universale della resistenza popolare all’invasore imperialista.

A Milano con Calenda c’erano i sostenitori dei partigiani ucraini, a Roma con Conte c’erano gli antipartigiani della pace.

La cosa interessante è che sulla posizione di Conte – no agli aiuti militari all’Ucraina e no alle sanzioni alla Russia, sì al cessate il fuoco che consegni parte dell’Ucraina libera e indipendente ai guappi di Putin – oltre alle frange estreme di destra e di sinistra ci sono anche la Lega di Matteo Salvini e un certo Silvio Berlusconi. Mentre, in Europa, c’è Marine Le Pen. E in America Donald Trump.

L’Ucraina, l’Europa e il mondo libero si sono salvati finora grazie alla vittoria di Macron su Le Pen alle presidenziali francesi. Il giudizio sull’Italia è ancora sospeso con due partiti su tre, per fortuna quelli minori, apertamente pro Putin, mentre in America le elezioni di metà mandato ci diranno se la setta filo putiniana di Trump riuscirà a modificare, o anche solo attenuare, la politica pro Ucraina di Washington.

Questa cosa che la peggior destra della storia contemporanea, da Le Pen a Trump a Salvini a Orbán, sia unita intorno all’imperialismo russo e in Italia abbia come leader un avvocato appulo-venezuelano (copyright Iuri Maria Prado) sembra non scuotere la sinistra democratica che invece continua a tributargli onori e, di conseguenza, a meritarsi l’estinzione.

Come ha scritto la giornalista ucraina Olga Tokariuk, fellow del Reuters Institute a Oxford e il 26 novembre prossimo ospite di Linkiesta Festival, la manifestazione contiana di Roma sembra la continuazione dell’operazione mediatica russa per indebolire il sostegno italiano all’Ucraina, un’operazione di disinformazione cominciata con la presenza massiccia di propagandisti del Cremlino nei talk show italiani e con gli sproloqui di fantomatici esperti che prima hanno spiegato (di fronte alle evidenze contrarie) che la Russia non avrebbe mai invaso l’Ucraina, dopo hanno previsto con la medesima spocchia che Mosca sarebbe arrivata a Kyjiv in pochi giorni tra gli applausi degli stessi ucraini che in fondo sono filo russi, poi hanno negato i crimini di guerra russi e le fosse comuni a Bucha come è d’uso tra i colleghi negazionisti dell’Olocausto e, infine, hanno dato la colpa della guerra russa all’Ucraina agli americani e agli ucraini medesimi, oltraggiando la loro già nauseabonda reputazione con iniziative politiche e mediatiche volte a imporre la pace alle vittime dell’aggressione, non ai carnefici del Cremlino.

Quelli che cambiano bandiera e opinione a seconda del corteo: Pd, che miseria. Libero Quotidiano il  7 Novembre 2022.

Si può essere disinvolti quando di mezzo c'è l'ordinaria gestione della cosa pubblica: metti oggi il tributo che ieri dicevi ingiusto, e vabbè; dici no alla legge sulle rastrelliere per le biciclette, quella che l'altro giorno avevi proposto tu stesso, e amen; introduci la riforma sulla misura dei pollai, quella che fino a oggi avversavi, e pazienza.

Ma quando si tratta di civili massacrati, di stupri di massa, di fosse comuni, di bambini rapiti e deportati a centinaia di migliaia, allora no, allora hai almeno il dovere di dirla chiara e di non cambiarla, hai il dovere di stare da una parte e di restarci.

Stai dalla parte dell'obbligo morale della resa? Benissimo (si fa per dire): ma, stando da quella parte, non puoi far finta di non essere da quella di chi vuole imporre la resa, e cioè l'aggressore. Stai dalla parte di quelli secondo cui la pace è pregiudicata dalla resistenza? Benissimo (si fa sempre per dire): ma, se stai lì, non puoi raccontare e raccontarti che "c'è un aggressore e un aggredito", perché la tua chiacchiera ridonda in favore del primo. Se sfili in corteo con quelli che si fanno ripetitori della propaganda russa e poi, come fa Enrico Letta con un bel pezzo del suo partito, dici che da quella manifestazione non viene nulla di incompatibile con la tua militanza, allora ti rendi responsabile anche più gravemente dello stesso collaborazionismo, e bestemmi la causa che hai sostenuto non perché ci credevi, ma perché provvisoriamente, e solo facendo finta di crederci, ti conveniva. 

Se fai l'untuoso collezionista delle dichiarazioni del presidente della Repubblica, ma guarda caso ti dimentichi di quella che riafferma la necessità di aiutare anche con le armi il popolo aggredito, resti il modesto burocrate che veste di presentabilità e altezza democratica la tarantella per tenerti buoni i compagni in piega equidistante e i rapporti con lo statista apulo-venezuelano. Non sei disinvolto. Sei paraculo.

Manifestazioni per la pace, a Roma Conte si allarga a sinistra. E Letta (contestato) si allontana. Goffredo Buccini su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.

Fischi e «vattene» al segretario del Pd. Il leader del Movimento si prende la scena. Tra i partecipanti anche cori d’altri tempi: «Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia»

Uno ammonisce, pontifica e si concede ai selfie, che manco il Salvini degli anni ruggenti. L’altro resiste come può agli ululati, agli insulti, all’imbarazzo, finché non esce dal corteo e forse da un pezzo della propria storia. Ci sono momenti così, quando due destini s’incrociano: questo sabato romano è una porta girevole per Conte e Letta.

Fra vent’anni pochi forse s’interesseranno al fatto che la guerra di Putin, oltre a sconvolgere il mondo, ha mutato perfino le sorti della sinistra italiana, vera o sedicente che sia. Eppure, nelle noticine a piè di pagina ci sarà anche questa manifestazione per la pace a piazza San Giovanni, ottanta o centomila in corteo, 600 sigle, pochissime bandiere gialloblu dell’Ucraina, tanto rosso antico Cgil, spruzzate di Potere al Popolo, tanti vessilli di Sant’Egidio e Acli, tanti cartelli contro la Nato. E loro due. Conte e Letta, «Giuseppi» ed «Enrico-stai-sereno». Distanti ma avvinti in un cambio della guardia quasi plastico. L’autodafé del Pd atlantista con slittamento verso il canone classico del pacifismo cattocomunista (ora in salsa neo-grillina) si celebra tutto quanto in due scene.

All’una di pomeriggio il corteo non s’è ancora mosso, tira aria da remake, Berkeley anni Sessanta, Fragole e sangue per noi più grigi sulle note tambureggianti di Give Peace a Chance. Museo della contestazione, età media 55 anni. Eppure, sul lato di piazza della Repubblica c’è una specie di vortice modernista di telefonini, telecamere, microfoni. E un uomo solo in mezzo, forse al comando: l’avvocato di Volturara Appula senza più pochette, in girocollo nero esistenzialista, la Taverna e la Castellone come angeli custodi, uno striscione «Dalla parte della pace» davanti. «Bello come il sole», mormora una pantera pentastellata in ordinata fila per la photo-op. Sì, c’è il servizio d’ordine che tiene a bada il suo popolo, tante signore, «due metri indietro, per favore, non spingete». Un popolo che invece adesso spinge perché s’è allargato d’un bel po’: lo dicono i sondaggi, del quasi incredibile aggancio al Pd. Lo certifica il colpo d’occhio. Ci sono le partigiane, per dire. Gabriella Collaveri, Anpi di Livorno, sospira con mirabile sintesi politica alla domanda se Conte sia di sinistra o meno: «… ‘Un lo so! Ma è l’unico che dice qualcosa per quelli bassi come noi». E accidenti se dice: ha appena ammonito il ministro Crosetto di «non azzardarsi a mandare altre armi all’Ucraina senza passare per il Parlamento». Sicché da dietro, pressano al grido di «Con-te, Con-te!». Il dilettante che doveva celebrare le esequie Cinque Stelle s’è preso il cuore di questa gente con due mosse facili e populiste: prima il reddito, poi la pace.

Il resto è contorno per la seconda scena rivelatrice. Dopo essere stato fantasma per un paio d’ore («Verrà o no?»), Letta si materializza a metà corteo, dalle parti di via Merulana. Militanti del Pd e pentastellati stanno a distanza di circa un chilometro, col cuscinetto dei cattolici tra loro. Il segretario dovrebbe entrare tra i cordoni di Acli e Sant’Egidio. Finora è andato tutto liscio. Il popolo del corteo s’è digerito pure Fassino, che certo non è un appeaser. Una signora vestita in arcobaleno lo approccia: «La smettano di alimentare questa guerra». Lui, strenuo difensore dell’Ucraina libera e armata, non fa un plissé e risponde con un «va bene». Ci sono Bonaccini e la De Micheli (vagamente situazionista: «Ho troppo rispetto di queste persone per parlare di politica»). Ci sono Nardella e Provenzano e nessuno se n’adonta. Zingaretti, figurarsi, già ponte verso Giuseppi «fortissimo punto di riferimento dei progressisti», è quasi un ircocervo ormai.

Con Letta va diversamente e si sapeva. Partono i mugugni, le parole forti, gli danno del «guerrafondaio». Allora lui, mal consigliato, decide di tagliare per il marciapiede di via Merulana accelerando verso piazza San Giovanni. Lo vedono. Fotografi, telecamere e grillini lo inseguono. Fischi. Ululati. Un surreale corteo nel corteo. Lui accelera, mette la mascherina forse per rendersi meno riconoscibile. Poiché è un uomo cortese, col fiatone dice che non c’è «nessun disagio, sto benissimo». Dalla strada gli urlano «vattene», «cambia rotta». Lui: «Dove c’è la pace c’è il Pd». È una scena triste che si conclude solo davanti alle transenne della piazza che fu di Togliatti e di Berlinguer e adesso vede il segretario dem sgattaiolare al riparo mentre un ragazzo con una bandiera della Cgil in spalla gli grida «fascista».

Regna confusione nelle parole e nei pensieri, il sabato romano è una macedonia di buone intenzioni, speranze ingenue e falsità. Angelo Moretti del Mean coglie il punto onestamente: «Siamo tanti perché la manifestazione è ambigua, non si sono sciolti i nodi». Non a caso il primo striscione del corteo è per Assange, martire o demonio, punti di vista. Ci sono i ragazzini delle scuole (pochi in verità) che cantano le canzoni dei nonni (molto gettonata «Comunisti della Capitale»): convinti che l’unico modo per uscirne sia disarmare Zelensky, ignorando la storia di Monaco 1938. È l’umore prevalente, checché ne pensi ciò che resta del Pd lettiano.

Giorgio Cremaschi, sindacalista d’antan, ci va duro: «Se vedo Enrico gli dico: fai pace con te stesso, non puoi chiedere il cessate il fuoco e mandare le armi a Kiev». Mentre partono cori d’altri tempi («Fuori l’Italia dalla Nato, fuori la Nato dall’Italia») si capisce che la prossima spedizione di materiale bellico non sarà un pranzo di gala. Nel backstage soloni del pacifismo peloso invocano la tregua «adesso che c’è lo stallo tra russi e ucraini» omettendo che senza le nostre armi a Zelensky non ci sarebbe adesso e non ci sarà poi nessuno stallo ma solo sottomissione. Tra brani di De Gregori, eskimo e kefiah sparsi, camminare accanto a Mimmo De Masi, amabile sociologo ultraottantenne, è come marciare con il Che. Lo venerano. A San Giovanni, si stringono la mano Conte e Landini. Il segretario Cgil vuole «disarmare la guerra», il nuovo padrone della piazza gli dice «non molliamo». Letta è già via. Gli chiedono: non parli? Lui sorride solo increspando le labbra, scuote la testa. Di colpo s’è alzata tramontana.

La piazza della pace non difende l’aggredito dall’aggressore. NICOLETTA PIROZZI su Il Domani il 05 novembre 2022

Un “cessate il fuoco” immediato equivarrebbe a congelare l’attuale situazione sul terreno, lasciando in mano russa la Crimea, le repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lughansk e le regioni di Kherson e Zaporizhia, il cui status finale sarebbe poi demandato ad un negoziato successivo.

 Ma quante speranze ci sono di una soluzione su queste basi?

 Non molte. Con l’aggressione dell’Ucraina, Putin ha infatti perseguito l’obiettivo di ridurne la sovranità facendola rientrare nell’orbita russa.

NICOLETTA PIROZZI. Responsabile del programma “Ue, politica e istituzioni” e responsabile delle relazioni istituzionali dello IAI, Nicoletta Pirozzi si occupa principalmente di governance dell’Unione europea, aspetti politici e istituzionali della Pesc/Psdc, gestione civile delle crisi, rapporti tra Ue e Nazioni Unite e relazioni Ue-Africa. È la coordinatrice scientifica del progetto Horizon 2020 EU IDEA – Integration and Differentiation for Effectiveness and Accountability. È Associate dello European Governance and Politics Programme presso lo European University Institute (EUI) di Fiesole. Dal 2013 al 2019 è stata professore a contratto presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università degli studi Roma Tre. Nel 2018 è stata Marshall Memorial Fellow e Associate Analyst presso l’EU Institute for Security Studies (EU-ISS) di Parigi. 

La vicepremier ucraina Vereshchuk: «Nessuna soluzione politica perché Mosca non la vuole». Lorenzo Cremonesi su Il Corriere della Sera il 06 novembre 2022

«L’unico modo per raggiungere la pace in questa fase è continuare a combattere», dice la 42enne vicepremier e ministra per i Territori occupati Iryna Vereshchuk . L’abbiamo intervistata nel suo ufficio per quasi un’ora.

Le ultime notizie sulla guerra in Ucraina

Qual è il suo messaggio alle manifestazioni dei pacifisti italiani?

«La pace non c’è perché i russi non la vogliono. Se noi smettiamo di batterci spariremo come popolo e come nazione. Il nostro movimento di resistenza difende anche le democrazie europee. Mi auguro che i pacifisti non interrompano il sostegno all’Ucraina e non allentino le sanzioni contro Mosca. Se l’Europa dovesse tradire il suo sostegno al mio Paese, l’intero mondo Occidentale sarebbe a rischio».

Il nuovo governo italiano ha appena approvato il sesto invio di armi all’Ucraina dall’inizio della guerra. Cosa serve con urgenza?

«Ringraziamo per gli aiuti. Le armi sono vitali. Grazie anche per il sostegno ai nostri profughi. Dall’Italia abbiamo già ricevuto artiglieria pesante a lunga gittata, cannoni semoventi, cingolati M113, sistemi missilistici, proiettili di vario calibro. Adesso ci servono in particolare sistemi antiaerei per salvare le città dai bombardamenti terroristici russi che mettono in ginocchio le infrastrutture civili».

Il capo di Stato Maggiore italiano, ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, ha dichiarato al «Corriere» che per porre fine al conflitto non esiste una soluzione militare, anche perché i due eserciti sarebbero impantanati in una guerra d’attrito.

«Sono il ministro responsabile dei territori invasi dai russi e di quelli liberati, me ne occupo quotidianamente: stiamo avanzando. Nelle ultime ore abbiamo liberato almeno quattro villaggi nella regione del Kherson. A Dragone voglio dire che per ora è impossibile una soluzione politica, esiste solo il campo di battaglia. La forza delle armi rimpiazza la diplomazia per il fatto che è l’unico linguaggio che Putin e il Cremlino sono disposti a capire».

Quando inizierà la diplomazia?

«Il cambio di passo potrà avvenire soltanto quando la Russia abbandonerà le terre che ha invaso».

In alcuni settori politici occidentali cresce la pressione affinché l’Ucraina rinunci alle regioni occupate dai russi nel 2014 e Putin, in cambio, accetti di tornare alle frontiere del 23 febbraio 2022. Siete disposti a rinunciare alla Crimea in cambio di una vera pace?

«Gli ucraini sono chiari e unanimi su questo: non scambieremo la nostra gente e una parte delle nostre regioni, sia in Crimea che nel Donbass. Putin non mira solo alla terra, non illudetevi sia possibile un compromesso. Putin intende cancellarci come Stato. Per noi è questione di vita o di morte».

Non eravate più flessibili tra fine febbraio e metà maggio?

«Allora abbiamo scoperto gli orrori degli abusi russi, il loro terrorismo sistematico su città e villaggi. Zelensky aveva avvisato che se Putin avesse imposto il falso referendum nelle zone occupate non ci sarebbe stata più possibilità di dialogo: lo ha fatto egualmente, noi agiamo di conseguenza».

Quando prevede l’arrivo di Giorgia Meloni a Kiev?

«Dipende dalla sua agenda, l’attendiamo a braccia aperte. Vorremmo mostrarle cosa sta avvenendo nel Paese, che veda di persona i crimini russi».

Crede che Putin potrebbe davvero sparare l’atomica o una bomba sporca? Potrebbe tirarla su Kherson?

«Invito a riflettere: pensate che la Russia è membro del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, secondo il memorandum di Budapest firmato nel 1994 avrebbe dovuto garantire i nostri confini dopo che noi avevamo accettato di rinunciare alle bombe atomiche che stavano sul nostro territorio. Invece, Putin terrorizza e ricatta, minaccia la Terza guerra mondiale e persino l’olocausto nucleare. La verità è che il suo regime è allo stadio terminale della sua folle degenerazione, può fare qualunque cosa. L’unica salvezza viene dalla fermezza della comunità internazionale. Ho molto apprezzato le ultime dichiarazioni del G7 in Germania, dove si ribadisce che per la Russia sarebbe una catastrofe se ricorresse ad armi non convenzionali. Più il mondo reagirà unito e meno Putin potrà usare l’atomica. Non dimenticate che dittature nucleari come la Corea del Nord stanno a guardare, la risposta contro Putin determina ciò che avverrà nel futuro».

Quando prenderete Kherson?

«È uno scenario complesso. Con il freddo e la pioggia l’artiglieria affonda nel fango. Però i nostri soldati sono motivati, avanzano. Noi cerchiamo di risparmiare vite umane, a costo di procedere lentamente. Credo che riusciremo a liberare la regione a ovest del Dnepr entro fine anno. Per quanto riguarda i civili, abbiamo visto che i russi hanno chiuso l’unico passaggio di fuga verso Zaporizhzhia: nell’ultima settimana sono arrivate meno di 200 persone nelle aree controllate dal nostro esercito. E da due giorni hanno bloccato l’accesso sul fiume verso la riva orientale. Sulla riva occidentale restano circa 100.000 civili».

E se la vittoria dei Repubblicani alle elezioni di midterm portasse alla diminuzione degli aiuti Usa?

«Non crediamo che avverranno grandi cambiamenti. Il sostegno americano per l’Ucraina resterà immutato».

Pensa ancora che i profughi ucraini all’estero debbano restare sino a primavera?

«Sì, continuerò a chiedere a quelli che possono di restare dove sono, specie donne e bambini. I bombardamenti russi hanno danneggiato le infrastrutture civili, l’inverno senza elettricità al freddo sarà difficile. Chiediamo anche all’Italia di continuare ad ospitarli per l’inverno».

Francesca Mannocchi per “La Stampa” il 5 novembre 2022.

Quando si parla di pace nel contesto di questa sanguinosa e drammatica guerra istigata dalla Russia, alcune persone non vogliono riconoscere un semplice fatto: non esiste pace senza giustizia (dal discorso di accettazione del Peace Prize of the German Booktrade dello scrittore ucraino Serhiy Zhadan il 23 ottobre). Ho trascorso le ultime settimane in Ucraina, spinta lì dagli attacchi che il 10 ottobre hanno riportato il terrore nelle strade di Kyiv, che hanno colpito ancora Dnipro e Zaporizhzhia uccidendo venti persone e ferendone più di cento.

Il mondo ha guardato a quegli attacchi come a una fase nuova del conflitto, la strategia del terrore, si dice. Ed è vero, funziona così. Si colpisce la vita quotidiana, si condannano i civili a uno stato di tensione e privazione permanente sperando che, alla lunga, persino il più solido degli animi ceda e chieda a chi è chiamato a prendere decisioni, di fare un passo indietro, concedere qualcosa all’avversario, consegnare all’invasore ciò che chiede. 

La strategia del terrore, si è detto. Come fosse un dato inedito e invece, semplicemente, ci eravamo distratti, perché inchiodati alla cronaca del presente, abbiamo perso di vista i disegni imperiali del regime di Putin che seguivano un calendario dilatato.

«O la resa o la morte» è il metodo putiniano della guerra. L’aveva detto durante l’assedio dell’Azovstal, a marzo. «Che non entri e non esca nemmeno una mosca» è stata la regola che Putin ha imposto sull’ultima battaglia di Mariupol: l’arma era l’assedio, la conseguenza la fame, l’effetto la resa. La guerra allora era iniziata da otto settimane e già c’erano tutti gli elementi per capire che circondare e affamare le persone fossero i tasselli di una strategia precisa. 

Le truppe russe avevano già devastato terreni agricoli, distrutto attrezzature, minato i terreni fertili, danneggiato le rotte di rifornimento, bloccato i porti, tagliato l’elettricità e distrutto le centrali elettriche, interrotto le forniture di acqua e di gas, distrutto magazzini di cibo, e depositi alimentari. Colpito consapevolmente i mezzi dei corridoi umanitari e le code dove le persone aspettavano la distribuzione di pane e aiuti alimentari, ucciso volontari, massacrato civili.

Nelle settimane successive, era aprile, ero a Bucha. Ho visto i cadaveri in strada, ascoltato i racconti dei civili torturati, ho ascoltato le vedove di uomini giustiziati sulla porta di casa, visitato anziani colpiti alle gambe e lasciati marcire di dolore nelle cantine, anziani rimasti senza gambe, amputate perché non c'era più niente da fare. Li ascoltavo mentre qui, in Italia, alcuni di quelli che invocavano la pace, negavano le stragi di Bucha, negavano le evidenze della strage del teatro di Mariupol. 

Sono passati i mesi, a quei cadaveri in strada, che erano lì, lo so perché ci ho camminato in mezzo, ha reso giustizia l'indagine giornalistica, ha reso giustizia la Commissione d'inchiesta delle Nazioni Unite i cui esperti hanno concluso che in Ucraina siano stati «senza dubbio» commessi crimini di guerra. I tifosi della pace-come-resa dell'Ucraina che avevano negato la responsabilità russa su quegli eccidi, però, non si sono mai scusati. Oggi, probabilmente, saranno in piazza con la bandiera arcobaleno.

Ho osservato l’Ucraina per settimane nella maestosa luce che ha la città quando la bella stagione staffetta con l’autunno, ho cercato di cogliere negli sguardi dei passanti cosa sia abitudine al conflitto, come la consuetudine alla paura modifichi la ritualità del quotidiano e insieme i connotati dei volti, ho scoperto che la guerra fa al viso di un uomo quello che il mare e il vento fanno agli scogli, li consuma e insieme li definisce. 

Sono salita sui tetti degli edifici colpiti, incidentalmente si direbbe, così come si direbbe che i morti siano collaterali. Ho guardato le città dall'alto, e lì mi è stato chiaro cosa provochi un missile quando colpisce una centrale elettrica e un ponte, cosa produca quando danneggia una scuola, e quando i vetri di una finestra si frantumano sul corpo di un'anziana mentre cuce a maglia con gli aghi e i gomitoli, dritto rovescio, dritto rovescio e poi, improvvisamente, è colpita da una scheggia e muore.

Dopo aver incontrato gli occhi sfiniti dei sopravvissuti mi sono domandata quale fosse - se c'era - un modo rispettoso di chiedere agli ucraini cosa sia per loro la parola pace, oggi, mentre qui, in Italia, imbizzarrisce il dibattito tra pacifisti storici (e improvvisati) e i difensori del sostegno armato al popolo ucraino. 

La prima cosa che ho capito, tessendo le risposte che ho ricevuto da nord a sud, da est a ovest, da soldati e civili, da attivisti e bambini è che pace, lì, sia una parola imperfetta. 

Lo è per Stanislav, che è un soldato, e mentre sistemava le munizioni dell’obice di cui era responsabile mi ha detto che pace per lui è sposare la sua fidanzata, fare dei figli, comprare un barbecue e invitare i suoi amici a vedere la partita, in tv, la domenica. Ma che non c’è pace senza libertà.

Pace è una parola imperfetta anche per Liljia, che ha sessant’anni ed è tornata a vivere a Irpin. Di madre e padre russi, vive a Kyiv da sempre, suo padre è sepolto in Crimea e lei non può andare a piangerlo sulla tomba perché la Crimea è occupata da altri russi. Quando le ho chiesto cosa significasse per lei la parola «pace» mi ha detto che sta imparando a vivere dentro la guerra. Ha risposto così, dopo una pausa che è servita a disegnarle sul volto il sorriso di chi ha capito che non finirà presto, che niente sarà - comunque - più come prima, anche se le armi tacessero domani. 

È la saggezza dell’esperienza delle vittime che dovrebbe indicare la via e dare le parole d'ordine a chi scenderà in piazza, oggi. Le parole come quelle di Liljia, che qui consegno testuali: «Noi voltiamo le spalle ai russi perché loro hanno voltato le spalle a noi. Dobbiamo solo imparare a viverci dentro. I tempi in cui eravamo sangue dello stesso sangue sono passati e non torneranno mai più. Nessuno vuole tornare a quello che esisteva prima del 1991, pace per noi è andare da qualche parte nel futuro, ma i russi invasori che volevano un unico grande Paese hanno costruito un'unica grande prigione».

In questi otto mesi di invasione russa in Ucraina il valore delle parole dei testimoni è stato progressivamente indebolito, fino ad essere quasi del tutto ignorato, perché la portata delle evidenze di cui ci rendevano consapevoli non poteva che richiamare a una responsabilità collettiva, cioè solidarizzare con gli invasi, aiutare le vittime a difendersi, e cioè a liberarsi dall’invasore e chiedere giustizia. Per i giustiziati, i torturati, le donne stuprate, gli anziani lasciati morire di dolore, e risarcimenti per i ponti distrutti, le strade danneggiate, le scuole rase al suolo, le fosse comuni, le condotte idriche frantumate.

Perché, in una guerra di invasione, val la pena ricordarlo a chi scende in piazza, funziona così. Sono gli invasi che vivono nei bunker, scendono in metropolitana con i sacchi a pelo per paura di morire schiacciati dal tetto di casa, solo da un lato del confine si vive con le sirene antiaeree nelle orecchie dal 24 febbraio, è per questo che da un lato del confine non può esserci pace senza giustizia. 

La demarcazione tra pace e giustizia attraversa l’opinione pubblica da mesi, come se i due campi anziché essere necessari l’uno all'altro fossero di segno opposto. Il conflitto in Ucraina si sta trasformando in una lunga guerra di logoramento, e rischia di diventare anche la linea di demarcazione tra una idea di Europa che rischia di frantumarsi sotto il peso di questa spaccatura dell'opinione pubblica, Putin lo sa. È la condotta di ogni fanatismo, creare divisioni nel campo avversario e riempire il vuoto che si è creato seminando odio.

Ecco perché la strategia del terrore di Putin, riguarda anche chi scenderà in piazza oggi. La manifestazione di oggi chiama al negoziato, alla pace, sacrosanto. Attenzione però a non confondere la pace con la debolezza di aver ceduto al ricatto di un dittatore. 

Alcuni sostenitori dello stop all'invio di armi ritengono che sfilandosi dalla guerra diminuiranno i combattimenti e si morirà di meno. Anche questo è sacrosanto. Invito, però, i partecipanti - soprattutto i tanti che spinti da nobili intenzioni riempiranno strade e piazze - a chiedersi quanto siano diventati strumenti di una parola così pura ma usata, oggi, sul ring di leader perdenti e in crisi di identità politica che provano a raschiare un magro consenso, scendendo in piazza con le bandiere arcobaleno.

 Viene da pensare, con un realismo dettato dall'esperienza e non dal pregiudizio, che sfilandosi dalla guerra, oggi, diminuirebbero la spinta dei rifugiati sui nostri confini (leggasi sul nostro welfare) e poi, certamente, le bollette del gas. Diminuirebbe la paura dei cittadini del costo economico di questa guerra di liberazione. Ma verrebbero meno anche tutti i valori che fino ad oggi hanno sostenuto la nostra idea di democrazia, autodeterminazione e libertà. La nostra idea di mondo giusto, l’unico nel quale una vera pace è possibile.

Vogliono la pace ma si fanno la guerra: la sinistra è divisa pure sull'Ucraina. Dario Martini su Il Tempo il 06 novembre 2022

Il Terzo polo che scippa "Bella ciao" al Pd rende bene l'idea del caos che regna a sinistra. È Carlo Calenda a dare il via dal palco, al termine del suo intervento, alla canzone simbolo della resistenza partigiana. In questo caso la resistenza è quella dell'Ucraina contro l'invasione russa. Il leader di Azione gongola: «Adesso siamo noi titolati a cantarla». E tutta la piazza all'Arco della Pace a Milano lo segue intonando le parole tanto care ad Enrico Letta e compagni. Il senso della manifestazione è sicuramente quello di dimostrare vicinanza e sostegno al Paese guidato da Volodymyr Zelensky, ma è anche l'occasione per sottolineare quanto siano distanti dalle posizioni espresse dai 5 Stelle di Giuseppe Conte. Ma anche dal Partito democratico, che insegue i pentastellati cercando di non contraddirsi, dal momento che si è sempre dichiarato fortemente atlantista. A differenza del corteo di Roma, dove sfilano sia Conte che Letta, a Milano le uniche bandiere presenti sono quelle gialle e blu dell'Ucraina. Lo slogan dice tutto: «Slava Ukraina», saluto nazionale che significa «Gloria all'Ucraina», in genere accompagnato dalla risposta «Gloria agli eroi». Insomma, non c'è spazio a dubbi: bisogna continuare a sostenere l'esercito ucraino senza se e senza ma. Perché «se la Russia smette di combattere, non ci sarà più guerra, mentre se l'Ucraina smette di combattere, non ci sarà più l'Ucraina». Quindi, netto rifiuto ad interrompere le forniture di armi a Kiev come chiede la piazza di Roma capeggiata dal leader del M5S.

Ettore Rosato, presidente di Italia Viva lo attacca frontalmente: «A Conte che come sempre specula dico che siamo tutti contro la guerra, a nessuno piace mandare armi. Lo facciamo perché il popolo ucraino è vittima di un'aggressione ingiustificabile. Solo gli amici di Putin, i codardi e gli opportunisti si voltano dall'altra parte». Tra i politici in piazza si segnalano, oltre quelli del Terzo polo, anche l'ex assessore al Welfare della Regione Lombardia, Letizia Moratti, che il Terzo polo vuole candidare governatore, e Pierferdinando Casini. Ma anche il sindaco di Bergamo Giorgio Gori del Pd. Ad alimentare la polemica a distanza con il M5S è soprattutto Calenda: «Conte è stato con Salvini quando era putinista, è filo trumpiano, ha firmato la via della seta con i cinesi e poi ha deciso che è progressista. Adesso ha deciso che è pacifista, domani deciderà che è comunista e tra quattro giorni diventerà nazionalista. C'è una definizione per Giuseppe Conte: si chiama qualunquismo, e nella cultura italiana il qualunquismo è di destra, non c'entra niente con la sinistra». Poi un messaggio indirizzato a Letta, che ha preferito sfilare al corteo di Roma: «Qui a Milano sarebbe stato applaudito e nessuno lo avrebbe contestato, perché se c'è una cosa che va riconosciuta a Enrico Letta è la totale linearità sulla questione ucraina». Mentre Matteo Renzi preferisce smorzare i toni: «Credo che si debba sempre rispettare le idee di tutti, ma è stata una bella scelta quella di Calenda di convocarci qui, un dovere per tutti di combattere per una pace giusta. Non voglio polemizzare con le altre piazze, è assurdo farlo come ha fatto questa mattina Conte. Penso di dover dire che non c'è pace senza giustizia». 

In trentamila hanno partecipato alla manifestazione di Roma organizzata dalla piattaforma "Europe for peace". Ad indirla sono stati i sindacati Cgil, Cisl e Uil, l'Arci, l'Acli, l'Anp, la comunità di Sant'Egidio, l'associazione Libera, Emergency, Sbilanciamoci e l'Aoi. Lo slogan ufficiale era: «Cessate il fuoco subito, negoziato per la pace». Non poteva passare sottotraccia la presenza dei politici. Soprattutto quella del capo grillino Giuseppe Conte, che è riuscito ad intestarsi la "paternità" di una piazza che chiedeva a gran voce lo stop all'invio delle armi a Kiev. Saltava subito all'occhio, infatti, la quasi totale assenza di bandiere ucraine. Le uniche a sventolare erano quelle arcobaleno della pace. Il contemporaneo corteo organizzato dal Terzo polo a Milano ha fatto sì che risaltasse in tutta evidenza la netta contrapposizione tra le due manifestazioni. Una dichiaratamente contraria al riarmo ucraino, l'altra apertamente a favore. Non a caso ad andare in grande difficoltà è stato Enrico Letta, da sempre convinto sostenitore dell'appoggio militare a Zelensky. Il segretario del Pd ha provato a spiegare la sua linea: «Sono qui in silenzio, marciando, come credo sia giusto fare in questo momento. Per la pace, per l'Ucraina, perché finisca questa guerra, perché finisca l'invasione della Russia». I fischi e gli insulti sono arrivati lo stesso. Alcuni manifestanti gli hanno gridato «assassino», «guerrafondaio». E ancora: «Via il Partito democratico dal corteo». Il segretario dem ha cercato di ammorbidire la sua posizione per farsi accettare anche da chi non lo voleva: «Quando arriverà il decreto del governo in Parlamento sull'invio delle armi a Kiev vaglieremo la proposta e se ne parlerà. Abbiamo sempre detto che lavoreremo in continuità con quello che si è fatto e in linea con le alleanze europee e internazionali di cui facciamo parte». Una mezza giravolta, dal momento che mai con il governo Draghi il leader del Pd si è azzardato ad insinuare il minimo dubbio ogni volta che andava votato il «decreto armi». 

Molti di coloro che hanno sfilato da piazza della Repubblica a San Giovanni non erano affatto per la «continuità con le alleanze internazionali» ricordata da Letta. Tra i vari cartelli si potevano leggere slogan di questo tipo: «Né con Putin né con la Nato», «I fascisti sono atlantisti, ora e sempre servi della Nato», «Noi non vogliamo la guerra, no alle armi, no alle sanzioni, dove è finita la diplomazia». Non passava inosservato neanche il manifesto con il volto di Mattarella e la scritta: «Presidente l'Italia ripudia la guerra, cosa è che non capisce di queste parole?». Insomma, il luogo ideale per l'opposizione di Conte. «Nel caso di un nuovo invio di armi a Kiev il governo deve venire in parlamento e metterci la faccia - ha detto il leader del M5S - deve spiegare perché vuole perseguire una strategia che non ha vie d'uscita». Poi la stoccata a Calenda e agli altri che hanno manifestato a Milano: «Non ho capito se quella piazza è per la pace o per la guerra». Unico deputato renziano presente era Roberto Giachetti: «Non lascio la pace in mano a Conte e ai "pacifisti equidistanti". Due settimane fa sono andato a portare solidarietà all'ambasciata ucraina, poi sono andato alla manifestazione a favore di Kiev sotto l'ambasciata russa e per questo oggi sono qui, avendo così chiarito che per me c'è un invasore, la Russia, e delle vittime, gli ucraini. E che non c'è pace senza il ritiro dei russi».

La sinistra scende in piazza divisa e senza Pace. Federico Novella su Panorama il 5 Novembre 2022.

Tra Milano e Roma dal Pd al M5S per finire con Azione oggi è il giorno delle manifestazioni con diverse visioni e contraddizioni sulla pace 

Una, cento, mille piazze. Per una, cento, mille sinistre. Gli oppositori al governo ricadono in ordine sparso tra Milano e Roma, in un coro in cui le parole d’ordine si confondono, i distinguo sul nemico sfumano i contorni della protesta, e dove in buona sostanza la manifestazione di oggi per la Pace diviene l’ennesimo palcoscenico dei protagonismi, il teatro mediatico da cui lanciare messaggi politici che poco hanno a che vedere con il conflitto in Ucraina. In linea di massima ci sono due tipi di Pace proclamati oggi. Quella di Roma, e quella di Milano. Quella anti-armi, e quella pro-armi. La pace rivendicata nella capitale anche dal Partito Democratico è quella dal concetto più inafferrabile. Una definizione appositamente ritagliata dagli organizzatori in maniera vaga per consentire a tutti di starci dentro. “Cessate il fuoco subito” e “negoziamo per la pace” può voler dire tutto e nulla. E infatti sui sampietrini romani sfilano Enrico Letta e i sindacati, De Magistris e Potere al Popolo, antiamericani e comunistoidi, l’associazionismo cattolico e ovviamente Giuseppe Conte, cui il Pd non può consentire di prendersi da solo la scena. Così Enrico e Giuseppe sfilano senza bandiere da separati in casa, anzi separati in corteo, gareggiano per avere un rapporto privilegiato con i pacifisti. E si lanciano occhiate a distanza, sapendo che una parte dei rispettivi partiti non disdegnerebbe una liason politica nell’immediato futuro. L’altro pezzo di opposizione intende la Pace in maniera decisamente più filo Nato, e manifesta a Milano sotto le bandiere del Terzo Polo (con qualche aggiunta dem, come il sindaco di Bergamo Gori). In un sostegno senza riserve a Kiev che probabilmente da Roma suonerà come una posizione guerrafondaia (come se la guerra l’avesse scatenata la Nato e non Putin). Ma anche nella piazza milanese, dietro i proclami contro l’invasione russa, si muovono le pedine della politica: sul selciato con Calenda e Renzi scenderà anche Letizia Moratti, appena dimessa dalla vicepresidenza della Regione Lombardia e subito arruolata dai centristi come possibile candidato nella corsa alle regionali. Sotto le bandiere ucraine, che saranno sventolate a Milano senza remore, accorreranno le intellighenzie centriste, da Casini a Cottarelli, per immaginarsi insieme nei prossimi appuntamenti politici. In definitiva, la Pace sarà declinata oggi in modi molto diversi. Troppo diversi per partiti che pretenderebbero di stare uniti per costituire un’alternativa al centrodestra. Dietro l’appuntamento pacifista, però, si nasconde l’occasione per strizzare l’occhio al proprio elettorato (più o meno pacifista, più o meno atlantista). In questa commedia, vale la pena di notare come i due nuovi santini del centrosinistra che verranno in qualche modo portati in processione, i due volti “nuovi” , sono Conte e Moratti. L’uno ex avvocato del Popolo, fino a ieri accusato di aver fatto esplodere il governo Draghi. L’altra, ex ministra di centrodestra, fino a ieri inchiodata al suo passato berlusconiano. Ancora una volta, riemerge a sinistra la sindrome del Papa straniero. Osannato, sotto le bandiere della pace, in una coalizione sfiancata dalle guerre interne.  

Il grido di Conte: in questa piazza sfila la maggioranza silenziosa. Domenico Pecile su L'Identità il 5 Novembre 2022 

“Siamo la maggioranza silenziosa”. Così Giusepe Conte ammaina la bandiera ma si mette alla testa del corteo della pace. “Da tempo – dice – auspicavamo una grande mobilitazione di quella maggioranza silenziosa del Paese che non condivide la strategia e la postura bellicista che l’Italia ha assunto, prima con il Governo Draghi e ora con quello di Meloni, rispetto al conflitto”.

Guerra e pace. Ieri, due parole a significare uno dei capolavori di Lev Tolstoi. Oggi, in una contemporaneità paradossalmente più confusa, due termini fatti propri dalla politica. Due parole che dividono, dunque. Nella fattispecie, il comun denominatore è la guerra in Ucraina. L’approccio, invece, è antitetico. Due parole, appunto, per due piazze divise, due schieramenti, due modi di blandire l’elettorato, due modalità acchiappa-voti. Due maniere, anche, per conquistare la leadership di un Centrosinistra anche oggi diviso: da una parte Roma, con i pacifisti cattolici e no; dall’altra Milano, con quanti ritengono che la realpolitik in questo conflitto debba avere il sopravvento rispetto al buonismo. Un braccio di ferro a distanza che fa soltanto la gioia del Centrodestra. A Roma sfileranno associazioni cattoliche, ambientaliste, sindacali (Acli, Arci, Anpi, Agesci, Altromercato, Beati i costruttori di pace, Legambiente, Wwf, Greenpeace, Comunità di Sant’Egidio, tanto per citare le più conosciute) chiamate a raccolta da Europe For Peace e che contano sull’appoggio del Vaticano e sulla “sponsorizzazione” dello stesso Papa Francesco. Non a caso, nel corso della manifestazione che comincerà con il raduno alle 12, in piazza della Repubblica, è attesa la lettura della lettera del cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei. Ma, oltre al disco verde papale ci sarà pure la “benedizione” del leader dei 5Stelle, da sempre in prima linea per una soluzione pacifica del conflitto e contrario alla politica del governo Draghi perché ritenuta guerrafondaia. Ma, soprattutto, ci sarà anche il segretario del Pd, Enrico Letta, che inizialmente aveva osteggiato l’iniziativa visto che era il socio di maggioranza del governo e delle politiche di Draghi. E tra i partecipanti sono in molti a contestare la presenza del Pd ritenuta tardiva e strumentale. Letta replica che l’adesione è inevitabile perché il partito ha sempre aderito a tutte le manifestazioni per la pace ” e “questa ha parole compatibili con le nostre”. Ma il sospetto che i dem non vogliano lasciare la piazza a Conte è più che verosimile. Da parte sua, il leader 5S chiarisce: “ Leggiamo in questi giorni critiche e commenti scettici su questa manifestazione per la pace, ma nelle democrazie mature l’opinione pubblica partecipa al dibattito su un tema tanto importante ed esprime il proprio dissenso o anche soltanto i propri dubbi rispetto alla linea del Governo. Ci sarebbe piaciuto che questo dibattito fosse avvenuto prioritariamente in Parlamento. Purtroppo così non è stato”. Per Conte, che ha ribadito la ferma condanna dell’aggressione russa, cheide una partecipazione senza “nessun cappello politico”, auspicando la partecipazione “anche di quei cittadi ni che hanno votato le attuali forze di governo”. A Milano, invece, sfileranno i centristi ringalluzziti dall’uscita della Moratti dalla Giunta Fontana. L’ex ministra guarda con molto interesse a Calenda e Renzi, anche perché ritroverebbe “vecchie” amiche di viaggio come la Gelmini e la Garfagna. E oggi, appunto, l’ex assessore al Welfare della Regione Lombardia parteciperà alla manifestazione di Milano, che gli autori – precisano – hanno definito “Contro manifestazione” rispetto a quella di Roma. Immediata la replica stizzita della Lega che ha ritratto sui social il volto della Moratti con la falce e il martello in fronte. Con i centristi ci saranno anche associazioni di cittadini ucraini (Giovani per l’Ucraina, Comunità ucraina di Milano, Associazione cristiana degli ucraini in Italia, la Federazione italiana associazioni partigiane, Fiap, e i ragazzi del movimento “Rivoluzioniamo la Scuola”). Ma è data anche per molto probabile se non addirittura certa la presenza di diversi esponenti di Più Europa (che dunque sceglie la piazza dei centristi e non quella del Pd) e di esponenti della maggioranza di Centrodestra e di Fratelli d’Italia. E assieme alla Gelmini ci saranno anche Enrico Costa, Pierferdinando Casini e il senatore Carlo Cottarelli. La parola d’ordine del raduno è antitetico a quello della capitale. Per Calenda e Renzi, infatti, “la pace non può essere la resa perché non vi può essere pace senza libertà. E la pace va difesa senza arrendersi”, In altre parole: “Tutti in piazza per sostenere il popolo ucraino e la sua resistenza”. Previsto anche un collegamento video con il sindaco di Leopoli, Andrij Sadovyi e con i primini cittadini di altre città ucraine. Roma e Milano parleranno di guerra pace, ma soprattutto si contenderanno la capacità di attrazione di un elettorato alla ricerca di una bussola e di un condottiero.

La pace sia di tutti. Ma bravi 5S a evocarla La sinistra? È morta. Edoardo Sirignano su L'Identità il 5 Novembre 2022 

“La sinistra politica è morta da tempo. L’unico protagonista della piazza è il popolo, ma va dato il merito a Conte di aver anticipato gli altri sull’esigenza di una manifestazione per la pace”. A dirlo Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera dei Deputati e storico segretario di Rifondazione Comunista.

Una grande iniziativa per dire no alla guerra invade le strade della capitale. La politica, a suo parere, ha cercato di trovare una vera soluzione al conflitto?

Sia nell’esecutivo Draghi che in quello appena costituito, non solo non si è intrapresa una via di pace, ma c’è stato un arruolamento nelle culture di guerra. Le parole del pontefice, infatti, consentono di misurare il divario abissale tra il cattolicesimo e chi ha avuto e ha la guida del Paese. Questo modo di fare, purtroppo, è stato condiviso dall’intera Europa.

Come si sta comportando Bruxelles di fronte a tutto ciò?

L’Europa ha fatto una scelta drasticamente atlantica. Si è messa nella scia degli Stati Uniti, pur avendo interessi geopolitici e materiali assai diversi da quelli nordamericani. Questi ultimi sono stati alienati in nome di una pregiudiziale alleanza o peggio ancora di una subalternità verso la guida Usa. Non stiamo, comunque, parlando di una storia nuova. L’Europa reale, purtroppo, non ha mai costituito una politica autonoma, un modo proprio di stare nel mondo. Basti vedere la sua incapacità nel Mediterraneo, che dovrebbe essere il “mare nostrum” e invece non lo è.

Considerando le difficoltà che vivono tante famiglie italiane a causa del caro bollette, qualcuno già parla di autunno caldo…

No! L’autunno caldo è stato una combinazione straordinaria, un fenomeno mondiale. È stato il punto più alto del biennio rosso (1968-69), segnato da una rivolta di una generazione operaia e studentesca che ha investito tutto il pianeta. In Italia questa riscossa, che ha messo in discussione radicalmente i rapporti di potere, ha avuto genesi nel movimento operaio del Novecento. Quest’ultimo, però, è stato sconfitto. Bisognerebbe, quindi, ricostruirlo per battersi, come si faceva allora. Ritengo, invece, che quello attuale sia il tempo della rivolta, che è sempre possibile e che si può innescare, come abbiamo visto in diverse parti del continente, nell’America Latina, nel Nord Africa, su elementi imprevedibili.

Nella piazza di oggi è protagonista il Movimento 5 Stelle di Giuseppe Conte. I grillini sono la sinistra 2.0?

Il vero protagonista della piazza sarà il popolo che la riempirà. La pace non può nascere come prerogativa di una particolare forza politica. Va dato, però, merito a Conte di aver anticipato gli altri sull’esigenza di una manifestazione. Detto ciò, bisogna guardare ai movimenti, non alle istituzioni. È il momento della possibilità di costruzione di soggettività pacifiste nella società civile. Esempi sono quanto accaduto ad Assisi, il fenomeno del dialogo interreligioso, le manifestazioni di Napoli e del Colosseo. Questa rete, ancora incompiuta e informale, è quella a cui bisogna volgere lo sguardo.

La sinistra politica, intanto, dove è?

Non esiste. È morta. Con questo termine intendo la sua rappresentazione politica, la presenza nelle istituzioni, le varie forze in campo. La vera sinistra nascerà fuori da questi confini.

Quando era presidente della Camera dei Deputati, però, non c’erano i problemi attuali. Cosa è successo dopo?

Eravamo già in una fase di transizione. La sinistra sociale e politica è stata grande in Italia negli anni 70, quando ha conquistato quasi tutto, dallo statuto dei diritti dei lavoratori fino alle battaglie sull’aborto e sul divorzio. Quella era la stagione d’oro, tanto che si parlava in Europa di caso italiano per definire una trasformazione straordinaria su cui poi è piombata la rivincita delle classi possidenti.

Se il Cda di un’azienda commette un errore si dimette. Ciò non accade in politica. Perché quell’accozzaglia voluta da Enrico Letta, pur avendo perso le elezioni, ripropone sempre le stesse facce e chiude ai giovani?

Non riesco a partecipare a questa discussione perché si poggia su soggetti irriformabili. La rinascita della sinistra comincerà altrove, come è già successo fuori dall’Italia. Esempi sono Mélenchon, Podemos, il movimento femminista americano.

Tutte queste debolezze, intanto, hanno consentito a Giorgia Meloni di arrivare a Palazzo Chigi. Che idea ha del nuovo premier e del suo governo?

Stiamo parlando di un governo organicamente, strutturalmente e sistematicamente di destra. Bisognerà fare i conti con quest’esperienza. La destra in Italia, dal dopoguerra in poi, quando ha vinto si è sempre messa vestiti che non erano i suoi. Il berlusconismo le dà un connotato diverso. Questa, invece, è la destra contemporanea o meglio ancora a tre teste: la prima conservatrice in economia, con l’assunzione piena del liberismo, del primato del mercato, distante anni luce dalla storia populista originale; la seconda reazionaria, come dimostrano le repressioni delle manifestazioni e una terza corporativa.

Se la sinistra, manteneva l’abito originale, quindi, l’avrebbe spuntata?

La sinistra non può pensare di sorgere senza pensare a cosa ereditare, ovvero un’idea alta di società, di critica radicale al capitalismo. Serve, però, un qualcosa che sia realmente nuovo, che sia attuale nel ventunesimo secolo. Occorre dimenticare quel centrosinistra di governo, che ha portato alla fine di una storia. La bandiera della governabilità ha distrutto la sinistra italiana.

C'è la bandiera russa, non quella ucraina: la sinistra in piazza toglie la maschera. Cori contro la Nato, attacchi al governo Meloni e addirittura la richiesta di sospendere le sanzioni alla Russia: da Roma è tutto. E Letta viene contestato: "Guerrafondaio, vai a casa". Massimo Balsamo su Il Giornale il 05 novembre 2022

Qualche segnale era già arrivato, ora la maschera della sinistra è caduta. La manifestazione per la pace in corso a Roma conferma tutte le ipotesi delle ultime settimane: è pacifismo da salotto, senza proposte e senza idee, ma con tante contraddizioni. Giuseppe Conte presente e accolto da una star dai suoi ammiratori, tanti esponenti Pd e della sinistra più o meno estrema: le parole sono sempre le stesse, cessate il fuoco. Ma i colori gialloblu dell’Ucraina non si vedono granché, anzi, non sono mancati gli stendardi dedicati a Mosca.

Cori contro la Nato e bandiere russe

I pacifisti – o pacifinti – hanno sfoggiato bandiere, striscioni e cori di ogni tipo. Come già evidenziato in precedenza, non c’è traccia di bandiere ucraine. Gli stendardi russi invece non sono mancati. Così come non sono risultati assenti i soliti cori contro la Nato e dunque contro gli Stati Uniti. C’è chi ha colto l’occasione per attaccare il governo, a partire dal premier Meloni: “Non sono Fratelli d’Italia, sono servi della Nato! Cacciamo il governo Meloni”, uno dei cartelli esposti con tanto di falce e martello comunista. C’è anche chi è andato oltre, invocando lo stop alle sanzioni contro il Cremlino in nome della pace. Anche in questo caso, un compagno. Finita qui? Assolutamente no: la ciliegina sulla torta è una bella bandiera dell'Iran.

La sinistra getta la maschera

La sinistra propone la pace, ma non dà soluzioni. Una proposta che ricorda molto i desiderata delle vincitrici di Miss Italia, frasi di rito messe lì senza sforzarsi troppo. Una delle poche idee è quella del Movimento 5 Stelle, con Giuseppi tranchant: basta armi all’Ucraina. Kiev deve fare i conti da quasi nove mesi con gli assalti russi, ma è già armata abbastanza. Anche in questo caso, senza entrare troppo nel dettaglio. Al massimo gli ucraini possono ricorrere alle fionde o ai gessetti colorati.

Come dicevamo, in piazza è presente anche il Pd. Letta ha ribadito il suo unico pensiero: “Sono qui perché la pace è la cosa più importante di tutte. Siamo qui per dire la nostra, in silenzio, marciando, come credo sia giusto fare in questo momento per la pace, per l'Ucraina, perché finisca questa guerra e perché finisca l'invasione della Russia”. Da casa dem, comunque, almeno arrivano attestati di sostegno e vicinanza al Paese di Zelensky. Dito puntato contro la Russia, senza se e senza ma. Tra i tanti commenti, ecco quello di Laura Boldrini: “Hanno parlato le armi, troppo. Ha parlato la diplomazia, troppo poco. Oggi con una grande manifestazione a Roma parla il popolo della pace: no alla guerra in Ucraina. Mettiamo Putin con le spalle al muro. Grazie infinite alle associazioni per questa bella iniziativa". Resta il fatto che i vertici piddì hanno provato a mettere il cappello sull’iniziativa, finendo per condividere la piazza con politici/manifestanti dalle idee diametralmente opposte.

Come da tradizione, però, non mancano le frizioni all’interno della sinistra. Lo stesso Letta è finito nel mirino di Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista: “Noi siamo in piazza nonostante questa ipocrisia perché ora l'importante è far crescere il movimento per la pace e fermare l'isteria bellicista che ci sta portando sull'orlo della guerra nucleare. Il Letta a due piazze è un guerrafondaio infiltrato tra i pacifisti”. Il futuro ex segretario dem è stato inoltre contestato da alcuni partecipanti. “Guerrafondaio, filo americano, vai a casa”, le urla nei suoi confronti. Un bel clima, non ci sono dubbi.

Terzo polo all'attacco

In piazza a Milano per ribadire sostegno all’Ucraina senza troppi distinguo, il Terzo polo non lesina critiche alla sinistra. Carlo Calenda senza mezzi termini: "A Roma una manifestazione contro 'il bellicismo europeo’ e il diritto dell'Ucraina di difendersi; a Milano una piazza contro l'aggressione Russa, per il sostegno all'Ucraina e la libertà di chi resiste. Resistenza vs Resa. Difficile rimanere nel mezzo invocando il 'ma anche’”. Durissimo l’attacco a Conte firmato dal presidente di Iv Ettore Rosato: "A Conte, che come sempre specula, dico che siamo tutti contro la guerra, a nessuno piace mandare armi. Lo facciamo perché il popolo ucraino è vittima di un'aggressione ingiustificabile. Solo gli amici di Putin, i codardi e gli opportunisti si voltano dall'altra parte".

Conte tra "Bella ciao" e pacifismo: "No all'invio di armi all'Ucraina". Il monito di Giuseppi al governo Meloni: "Non si azzardi a procedere senza aver interpellato il Parlamento". Secondo l'autoproclamato avvocato del popolo, Kiev è "già armata di tutto punto". Massimo Balsamo su Il Giornale il 05 novembre 2022

Tra Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, sinistra in campo per mettere il cappello sulle sfilate pacifiste. Con le sue solite capriole, Giuseppe Conte ha preso una posizione netta sulla guerra in Ucraina: stop all’invio di armi, Kiev è già abbastanza attrezzata per resistere agli attacchi russi. Il leader pentastellato è sceso in campo in prima persona alla mobilitazione di Roma e non sono mancati gli attacchi al governo guidato da Giorgia Meloni.

Una manifestazione senza bandiere politiche secondo gli organizzatori, ma con una evidente impronta di parte. Tante la bandiere della pace – una lunga cinquanta metri è sorretta in piazza della Repubblica da centinaia di persone – ma non sono mancati cartelli e cori militanti. Tra vignette di Putin e appelli antifascisti, con diverse bandiere dell’Anpi, sono spuntati anche striscioni (poco in tema) per sensibilizzare sul cambiamento climatico. Insomma, c’è un po’ di tutto in piazza nella Capitale e non poteva mancare “Bella ciao”, intonata da decine di manifestanti. 

Conte avvisa il governo

“Ho sentito dire al ministro Crosetto che il governo si appresta a fare il sesto invio di armi all'Ucraina”, ha esordito Giuseppi ai microfoni dei cronisti presenti alla manifestazione di pace capitolina:“Il governo non si azzardi a procedere senza aver interpellato il Parlamento, tanto più trattandosi di un governo che non è più di unità nazionale”.

I cinque paletti al pacifismo militante per evitare che i cortei diventino un autogol

Stanco dell’escalation militare, Conte ha invocato un negoziato per la pace serio e concreto. “Kiev è armata di tutto punto”, la precisazione dell’autoproclamato avvocato del popolo, accolto calorosamente in piazza dai suoi ammiratori: “I cittadini sono arrivati oggi in piazza per far sentire la loro voce , stanchi di una strategia che sta portando a un'escalation militare”. Il capo politico grillino, inoltre, ha chiesto una svolta targata Ue, con“i Paesi belligeranti protagonisti ma in una cornice internazionale”.

“Ascoltiamo i cittadini”

Nel corso del suo intervento, Conte ha ribadito che i cittadini scesi in piazza devono essere ascoltati: “Ora devono parlare le opinioni pubbliche, visto che i governanti hanno elaborato una strategia che non ci porta ad una via d’uscita”. Le solite polemiche strumentali, la solita fuffa: nulla di nuovo all’orizzonte. 

Già venerdì, ospite dell’iniziativa "Pace e politica" al Tempio di Adriano a Roma, il presidente M5s aveva rilanciato la proposta piuttosto fumosa di una conferenza internazionale: “Il nostro obiettivo è un negoziato di pace, e poi nel medio e lungo termine una conferenza internazionale. Noi siamo per un approccio multilaterale, la Ue non deve restare all'interno di una strategia costrittiva, con il coinvolgimento della Santa Sede che può dare un ampio contributo”.

Ucraina, Crosetto smaschera Conte: da fornitore di armi a pacifista per i sondaggi. Il Tempo il 02 dicembre 2022

Il ministro della Difesa Guido Crosetto risponde agli attacchi di Giuseppe Conte che ha parlato di un "governo guerrafondaio che ingrassa la lobby delle armi". In una intervista al Corriere della sera l'esponente dell'esecutivo di Giorgia Meloni sottolinea come il leaderel Movimento 5 stelle fomenti l'odio e faccia attacchi strumentali con un occhio ai sindaggi. 

"Tutto quello che questo governo sta facendo nei confronti dell'Ucraina è implementare le decisioni dell'esecutivo Draghi, della cui coalizione Conte guidava il partito maggiore", ricorda Crosetto. Gli aiuti sono stati deliberati sulla base di cinque decreti quando il M5s era nella maggioranza. "Se inviare armi all'Ucraina significa essere guerrafondai, chi può fregiarsi di quel titolo" è Conte e il suo partito. Ma, sottolinea il ministro, "io non la penso così, l'aiuto a una nazione attaccata è cosa diversa dall'essere guerrafondai". L’Italia rispetta gli impegni: "Non siamo dei quaquaraqua", anche se la maggioranza dei cittadini non è d'accordo con le armi a Kiev, ma "I governi hanno la responsabilità e l'onere di prendere decisioni anche non popolari".

Su Conte, Crosetto è durissimo. "Manifesta totale incoerenza tra quello che diceva e faceva e quel che dice ora". Passa "da fornitore di armi a pacifista convinto". Tuttavia è "legittimo che guardi i sondaggi per decidere di cambiare idea. Ma non che usi epiteti violenti nei confronti di persone fisiche che hanno la sola colpa di rappresentare lo Stato. È come indicare a una parte di società violenta e antagonista nomi e cognomi di obiettivi da colpire". Il leader trillino fomenta l'idio, accusa Crosetto, ed è "molto grave il modo in cui lui personifica i suoi attacchi, rientra in una sfera inquietante. Conte è troppo intelligente per non capire che sta alimentando l'odio verso persone fisiche, che ha identificato per contrapposizione politica. Io sono un galantuomo e non merito che un mio avversario politico, che avrebbe il dovere di essere istituzionale, mi conduca in una sfera di violenza verbale, mistificando la realtà e identificandomi come guerrafondaio".

Crosetto inoltre respinge tensioni con i partiti di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. "Nessuno ha voglia di mandare armi, tutti vogliamo che la guerra finisca. Chi ha mandato armi in questi mesi lo ha fatto e lo farà per forzare chi dei due ha iniziato la guerra a sedersi a un tavolo. L'obiettivo della pace è di tutti, la strategia per raggiungerla differenzia il giudizio" afferma il ministro. 

"Lucra sul pacifismo". Crosetto inchioda Conte. Il leader grillino aveva invitato il ministro della Difesa a “non azzardarsi a un nuovo invio di armi all’Ucraina senza passare dal Parlamento”. La replica è perentoria. Massimo Balsamo su Il Giornale il 05 novembre 2022 

“Può stare sereno”: netto, categorico Guido Crosetto nei confronti di Giuseppe Conte. Tra i protagonisti della manifestazione pacifista di Roma, il leader del Movimento 5 Stelle aveva lanciato un messaggio al ministro della Difesa: “l governo non si azzardi a procedere senza aver interpellato il Parlamento, tanto più trattandosi di un governo che non è più di unità nazionale”. L’ennesima presa di posizione per tracciare un solco e tentare di racimolare qualche voto, ma l’esponente di Fratelli d’Italia non ha lasciato correre.

Conte tra "Bella ciao" e pacifismo: "No all'invio di armi all'Ucraina"

“Conte stia sereno”

Il titolare della Difesa ha spiegato che il suo ministero seguirà le leggi che ha sempre fatto dalla sua istituzione in età Repubblicana, ma non solo. “Per quanto riguarda l'invio di armi all'Ucraina, il ministero sta dando attuazione e darà attuazione a quanto previsto dai 5 decreti già approvati in base all'autorizzazione data dal Governo precedente, il governo Draghi, sostenuto da una maggioranza di cui Conte ed il suo partito, i 5Stelle, erano il principale gruppo e sostegno in Parlamento”, l’analisi di Crosetto, che non ha lesinato frecciatine nei confronti del capo politico pentastellato.

Crosetto smaschera Giuseppi

Crosetto ha ricordato che il M5s di Conte ha già detto sì a cinque invii di armi a Kiev, dettaglio spesso dimenticato dalla comunicazione grillina: “Evidentemente, i 5Stelle e Conte oggi hanno cambiato idea, ma solo a partire da oggi. Arriva giusto in tempo, questo cambio ‘radicale’, per strumentalizzare le ragioni e il corteo delle associazioni pacifiste che, come ho detto in una intervista rilasciata ieri ad Avvenire, rispetto e comprendo e con cui sono e sarò sempre disponibile a interloquire”. Discorso diverso per Conte, impegnato a “lucrare sul pacifismo e sugli ideali dei pacifisti”, dimenticando volutamente che “le armi di cui critica l'invio oggi sono state autorizzate dal suo partito e dal governo che sosteneva”.

Il dialogo è francamente complesso con politici come Conte, ha ammesso il braccio destro del premier Meloni. In chiusura, Crosetto ha posto l’accento sulla frase “minacciosa e intimidatoria” di Conte, quel “non si azzardi” di dubbio gusto: “Ha evidentemente come presupposto culturale un approccio alle istituzioni privatistico e autoritario: non mi azzardo a fare nulla, ma agisco in nome e per conto dello Stato, ottemperandone tutte le leggi. Ma forse chi ha vissuto la 'compressione democratica’ creatasi a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza e dell'utilizzo dei Dpcm, durante la pandemia, ha maturato un'idea sbagliata sulle istituzioni ed il loro potere”. Colpito e affondato.

La sinistra in piazza sfrutta la pace per fare la guerra a governo e Ucraina. Contestato Letta. Nella manifestazione di Roma, i 5S attaccano l’esecutivo della Meloni sulle armi a Zelensky. Urla contro il segretario del Pd: "Guerrafondaio". E spuntano pure bandiere della Russia. La solita Anpi: "Né con la Nato né con Putin". Francesco De Remigis su Il Giornale il 06 novembre 2022

Roma. Lo striscione con la parola pace in dieci lingue. Le bandiere di Emergency. I leader e le sigle sindacali. Nel corteo che vede Pd e Cinque Stelle sfilare a Roma senza vessilli di partito spuntano drappi della Russia e cori contro l'Alleanza Atlantica: «Basta armi a Kiev» «Fuo-ri-l'Ita-lia-dal-la-Na-to». Il presidio della coalizione associativa «Europe for Peace-Cessate il fuoco» diventa quindi il pretesto per dichiarare guerra al nuovo governo. Con richieste di riposizionamenti dell'Italia in campo internazionale. E inviti a cambiare linea, compresa quella espressa ieri dai dem: «Saremo coerenti con gli alleati europei, siamo a favore del fatto che la resistenza ucraina vada aiutata, siamo a nostro agio con una piazza che chiede pace, che per noi vuol dire la fine dell'invasione della Russia», annuncia Enrico Letta.

La piazza è però spaccata. E nel tragitto che porta a San Giovanni in Laterano la prima contestazione se la becca proprio il segretario dem: «Guerrafondaio! filoamericano! Basta armi, buuuu!», gli grida un gruppo, accusando la pattuglia Pd di essere «allo sbando». Alla spicciolata, europarlamentari dem, deputati e presidenti di regione: e c'è chi tenta di usare la manifestazione per oliare l'ingranaggio inceppato Pd-M5S (con sguardo al voto in Lazio). È Nicola Zingaretti, che chiede responsabilità ai 5S: «Le opposizioni devono dialogare, chi punta a dividere dovrà spiegarlo agli elettori». Il governatore ce l'ha con Giuseppe Conte, alle prese con un soliloquio acchiappaconsensi in favore di telecamere. Dopo aver già strappato la corona di primo partito di opposizione (nei sondaggi), Conte ruba infatti al Pd anche la scena arcobaleno, attaccando l'esecutivo Meloni sul sesto pacchetto di aiuti a Kiev: «Crosetto non si azzardi a un ulteriore invio di armi senza confrontarsi in Parlamento, Kiev è armata di tutto punto, ora serve il negoziato».

Sulle note di «Bella Ciao» sfilano pure Sinistra Italiana e Verdi. La galassia disobbediente si accoda. Ma sembra di assistere a due, tre, quattro diversi cortei. Maurizio Landini, segretario Cgil, dal palco dice che «bisogna eliminare le armi nucleari»; chiede uno stop «alla spesa militare» e usa la piazza per sfaldare ciò che il governo sta provando a costruire: una politica dei flussi diversa dai porti aperti a prescindere. «Inaccettabile che non si aiutino i migranti». Poi stringe la mano a Conte: «Sulla pace non molliamo». L'ex premier amplifica il messaggio. I dem sembrano dissociarsi dal disarmo tout-court. E nel tragitto che attraversa la capitale i leader fanno a cazzotti dalla distanza.

Letta, in ritirata, si fa via via più cauto sul sostegno militare: «Quando arriverà il decreto se ne parlerà, vaglieremo la proposta». «La Federazione Russa è responsabile del massacro», dice secco il presidente dell'Anpi, Gianfranco Pagliarulo. Intorno risuonano i cori «Né con Putin, né con la Nato». E gli slogan contro l'Alleanza Atlantica vengono applauditi. Sul palco né Letta né Conte. C'è invece il fondatore di Libera Don Luigi Ciotti, che riassume così i tormenti della sinistra: «Il nostro Paese non sa bene da che parte andare». Il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi denuncia «una diplomazia affetta da nanismo» parlando nettamente di Ucraina aggredita che «deve continuare a combattere per difendere l'integrità del suo territorio». Si marcia a singhiozzi, in una piazza in cui le diverse anime non si amalgamano, anzi battibeccano. Circa 500 sigle, tra bandiere arcobaleno e striscioni. C'è persino Roberto Giachetti, «perché non si può lasciare la pace in mano a Conte e ai pacifisti equidistanti», dice l'unico presente del gruppo Italia Viva/Azione (che ieri sfilava invece a Milano). La bandiera arcobaleno di 40 metri proveniente da Assisi, di una manifestazione che doveva essere apolitica, diventa un Luna Park per raccogliere i cocci di una sinistra allo sbando. Conte prova a riunirla attorno a se stesso cavalcando l'onda di Manu Chao: «Si leva forte questo grido dalla maggioranza silenziosa del Paese». Ma si attendevano oltre 100mila adesioni. Invece, per la questura, si contano poco più di trentamila persone. 

Marcia della pace, "codardi che voltano le spalle": caos a sinistra. Libero Quotidiano il 05 novembre 2022

"Solo gli amici di Putin, i codardi e gli opportunisti si voltano dall'altra parte": Ettore Rosato, presidente di Italia Viva, lancia una frecciatina a Giuseppe Conte. Le opposizioni oggi hanno partecipato a due manifestazioni diverse per la pace in Ucraina. Il M5s e il Pd hanno preso parte alla manifestazione di Roma, mentre il Terzo Polo di Renzi e Calenda ha organizzato un corteo a Milano. Prima dell'inizio dei due eventi, Rosato aveva anticipato su Twitter: "A Conte, che come sempre specula, dico che siamo tutti contro la guerra, a nessuno piace mandare armi. Lo facciamo perché il popolo ucraino è vittima di un'aggressione ingiustificabile".

Poi, arrivato in piazza, Rosato ha aggiunto: "A Roma qualcuno fa molta confusione. Come Giuseppe Conte che pensa che gli ucraini si debbano arrendere, mi sembra dica le stesse cose di Putin. Avremmo voluto tutti qui con noi compatti rispetto a un'aggressione ingiustificata. Ma il Pd deve correre sempre dove sta Conte".

Anche Renzi ha lanciato delle stoccate al leader del M5s: "Non voglio polemizzare con le altre piazze, è assurdo farlo come ha fatto questa mattina Giuseppe Conte. Ma penso di dover dire che non c'è pace senza giustizia". E ancora: "Credo che si debba sempre rispettare le idee di tutti, ma è stata una bella scelta quella di Calenda di convocarci qui, un dovere per tutti combattere per una pace giusta". 

Pd, marcia per la Pace? Ma... la foto che travolge la sinistra. Libero Quotidiano il 05 novembre 2022

Una grande marcia per la pace a Roma, una manifestazione con migliaia di persone e altrettanti pensieri diversi su come perseguirla, questa pace. C’è infatti chi ritiene che debba passare dalla fine dell’invasione russa e chi invece dalla resa degli ucraini: insomma, la piazza è spaccata più che mai, ed emergono anche dettagli che la dicono lunga su molti dei partecipanti. Si fa infatti fatica a scorgere una bandiera dell’Ucraina.

A notarlo sono stati soprattutto i militanti del Pd, che hanno commentato le foto postate sui social dai sindaci Matteo Ricci e Roberto Gualtieri. “In piazza per la pace a difesa del popolo ucraino”, ha twittato il primo cittadino di Pesaro. “Che schifo - la critica di un utente - nemmeno una bandiera dell’Ucraina”. Lo stesso è accaduto a Gualtieri: “In tantissimi a Roma - ha scritto - per manifestare al fianco del popolo ucraino, contro la guerra di Putin, per far prevalere la pace e il diritto”. “Giustissima manifestazione di pace - si legge tra le risposte - ma perché nessuna bandiera dell’Ucraina? Sarebbe stato logico e normale sventolare solo quelle”.

In compenso un bandierone della pace lungo 50 metri è stato sorretto in piazza della Repubblica da centinaia di persone. C’è anche chi giura di aver visto almeno una bandiera russa, ma non ci sono ancora conferme in tal senso. Di certo c’è che la manifestazione è alimentata da più anime: quella Pd, che è per la pace tramite la fine dell’invasione russa e il supporto totale alla resistenza ucraina, e quella del M5s, che invece parla di una pace “generica”, molto filo-putiniana anche nella richiesta di alcuni di rimuovere le sanzioni.

Il Cremlino è vicino. Il pacifismo orwelliano di Conte contro la «spinta bellicista» dell’Europa (mica di Putin). Francesco Cundari su L’Inkiesta il 5 Novembre 2022

Il leader dei Cinquestelle invita a manifestare per «dare un segnale» alla Nato e all’Unione. È ora che i democratici escano dal doppio gioco: non si può stare contemporaneamente con l’Ucraina e con chi vuole disarmarla

Giovedì sera, ospite di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio, Giuseppe Conte ha detto molto chiaramente a cosa serve e che senso ha – a suo giudizio – la manifestazione per la pace che si terrà oggi a Roma. A fermare chi ha scatenato la guerra, cioè Vladimir Putin? No. A fermare perlomeno entrambe le parti in conflitto, come spesso si dice con lingua biforcuta, equiparando aggressore ed aggredito? Neanche.

La mobilitazione, secondo Conte, serve a mandare un segnale alla Nato, al governo italiano e all’Unione europea. Serve a fermare la «spinta bellicista» non di chi ha invaso l’Ucraina, ma di chi aiuta gli ucraini a difendersi.

Queste le testuali parole del leader del Movimento 5 stelle, a proposito della manifestazione di oggi: «Io mi auguro che ci siano anche cittadini che hanno votato le forze di centrodestra, anche cittadini che hanno votato Fratelli d’Italia, che però non condividono questa spinta bellicista perché non hanno assunto nessun impegno con Washington, non hanno sottoscritto questa strategia della Nato, e allora quanti più cittadini, anche con diverse sensibilità politiche, ci saranno, significherà che noi daremo un segnale ai nostri governi, non solo in Italia, ma nell’Unione europea e a livello di Alleanza atlantica». Chiaro?

Se non fosse abbastanza chiaro, Conte ha anche approfondito il modo in cui secondo lui bisogna costruire la pace. Testualmente: «La pace non cade dal cielo, si costruisce. Come si costruisce? Innanzi tutto con manifestazioni come quella di sabato, dovrebbero esserci poi in tutte le capitali europee. Bisogna convincere i governanti dell’Alleanza atlantica, a partire dall’Unione europea, che questa strategia non è fruttuosa. Dobbiamo quindi lavorare tutti e convincerci che la via d’uscita è il negoziato di pace, quando ci saremo noi convinti potremo poi convincere altri attori internazionali».

Ricapitolando, il problema è la «spinta bellicista» dei governi occidentali, mica della Russia, e le manifestazioni, oggi a Roma e domani, auspicabilmente, in tutte le capitali europee, servono proprio a far cambiare linea a quei governi. Ecco qual è, secondo Conte, la strada per la pace.

Come si può qualificare un simile discorso, che accusa i governi europei di sostenere l’Ucraina per puro servilismo nei confronti di Washington? C’è qualcuno, anche tra i partecipanti alla manifestazione romana, cui per fortuna hanno aderito anche partiti, movimenti e intellettuali schierati su posizioni ben diverse, che possa in buona fede negare il carattere smaccatamente putiniano di una simile propaganda? Dire che per ottenere la pace occorre far cambiare strategia alla Nato, all’Unione europea e a tutti i governi impegnati nel sostegno all’Ucraina, invocare una mobilitazione popolare in tutte le capitali europee per spingere i governi a rivedere la propria posizione, che cos’è, come si chiama, come bisognerebbe definirlo se non come lo sforzo di boicottare il sostegno alla resistenza, a tutto vantaggio dell’invasore?

È ora che il Partito democratico e i tanti che continuano a lavorare per consegnare a Conte quel che resta del centrosinistra dicano una parola chiara su tutto questo. Il doppio gioco – con Draghi ma anche con Conte, con l’Ucraina ma anche con chi propone di disarmarla – è durato fin troppo.

I libri di storia non daranno conto solo delle atrocità di Bucha, delle deportazioni, delle stragi e delle torture compiute ogni giorno dagli occupanti. Daranno conto anche delle nostre parole e delle nostre scelte di oggi. Vale per i politici, vale per i giornalisti, vale per gli intellettuali. Può anche darsi che certe ambiguità paghino nell’immediato, nei sondaggi e negli indici di ascolto. Certo è che la storia sarà assai meno generosa.

La parola pace. I falsi pacifisti se la prendono con noi che cerchiamo di proteggerci dai russi. Serhiy Zhadan su L’Inkiesta il 5 Novembre 2022

In occasione della manifestazione per l’Ucraina di Milano, oggi alle ore 16, pubblichiamo un testo del più importante scrittore ucraino contemporaneo (la versione integrale si troverà sul prossimo numero di Linkiesta Magazine in edicola a fine novembre)

Prendiamo la parola “pace” (capisco quanto questo concetto possa essere effimero e astratto): che cosa intende il mondo parlando della pace? Sembrerebbe che si parli di far finire la guerra, di far finire il conflitto militare, di arrivare al punto in cui tace l’artiglieria e arriva il silenzio.

Sembrerebbe proprio che questo concetto debba metterci tutti d’accordo. Perché, alla fine, noi ucraini che cosa vogliamo più di tutto? Ovviamente vogliamo la fine della guerra. Ovviamente vogliamo la pace. Ovviamente vogliamo la fine dei bombardamenti.

Io, la persona che vive al diciottesimo piano nel centro di Kharkiv da dove posso vedere il lancio dei missili dalla vicina Belgorod, vorrei con tutto il mio ardore che finissero i bombardamenti, che finisse la guerra, che si tornasse alla normalità e al suo scorrere naturale. Quindi perché la parola “pace” pronunciata da certi leader europei spaventa gli ucraini? Non perché quelli che la pronunciano stiano negando la pace all’Ucraina, ma perché gli ucraini sentono che essi stanno chiedendo a loro, alle vittime di deporre le armi.

I cittadini pacifici di Bucha, Hostomel’ e Irpin’ non avevano armi, ma questo non li ha salvati da una morte terribile. Anche gli abitanti di Kharkiv che ogni giorno si trovano sotto le bombe russe non hanno le armi in mano. Quindi che cosa dovrebbero fare quelle persone secondo i simpatizzanti della pace veloce a qualsiasi costo? Dove, secondo loro, passa la linea tra sostenere la pace e non sostenere la resistenza ucraina? Secondo me, c’è qualcuno che, quando parla di pace nel contesto di questa guerra sanguinosa e drammatica iniziata dalla Russia, non vuole notare una cosa semplice: non c’è pace senza giustizia.

Ci sono varie forme di conflitto congelato, ci sono i territori temporaneamente occupati, ci sono le mine a rilascio di pressione camuffate da compromesso politico, ma la pace, una vera pace che dia un senso di sicurezza e di prospettiva non può esistere senza una giustizia.

Quella parte di europei (che non è la parte maggioritaria, ma è una parte che esiste) cerca di colpevolizzare gli ucraini per la loro voglia di non arrendersi e dà loro di guerrafondai e di radicali per rimanere nella propria comfort zone. Ma con una tale proposta oltrepassano qualsiasi limite etico. E questo non è un problema degli ucraini, questo è un problema del mondo intero e del suo dimostrarsi pronto (o non pronto) a ingoiare l’ennesimo male, totale e incontrollabile per soddisfare un falso e dubbio pacifismo.

Questo falso pacifismo che si appella a gente che cerca di proteggere le proprie vite e questo incolpare le vittime, questo cambiare gli accenti, questo manipolare servendosi dei vecchi e buoni slogan pacifisti per alcuni si sono rivelati dei modi molto convenienti di scaricare le proprie responsabilità. Invece tutto è molto più chiaro: noi stiamo aiutando il nostro esercito non perché vogliamo la guerra, ma proprio perché vogliamo tanto la pace. Quelli che invocano una pace immediata ci propongono, però, una maniera gentile, quasi non invadente, di capitolare. Però la capitolazione non è la strada per tornare alla nostra vita pacifica e per ricostruire le nostre città.

Probabilmente la capitolazione degli ucraini aiuterà gli europei a pagare un prezzo più basso nelle bollette. Ma come si sentiranno quegli europei quando capiranno (perché sarà impossibile non capirlo) che il caldo delle loro case è stato pagato dalle vite e dalle case distrutte di persone che come loro volevano vivere in pace nel proprio Paese?

Pacifisti in piazza per l’Ucraina: lo strano caso dei cortei di sabato. Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 2 Novembre 2022

Il 5 novembre si terranno, a Roma e a Milano, due manifestazioni per la pace nel Paese invaso dall’esercito russo mandato da Vladimir Putin. Si tratta di iniziative diverse tra loro, come racconta Monica Guerzoni analizzando le linee adottate dalle principali forze di opposizione, con i M5S interessati a occupare gli spazi lasciati vuoti dal Pd. Lo studioso Giovanni Cominelli, invece, spiega in che momento del movimento pacifista è arrivato il conflitto

Sabato 5 novembre, a Roma e a Milano, si terranno due manifestazioni per la pace in Ucraina. Due iniziative però molto diverse fra loro, come spiega Monica Guerzoni in questo episodio del podcast «Corriere Daily», descrivendo anche il sofferto percorso attraverso il quale il Partito democratico ha dato la sua adesione, dopo che il Movimento 5 Stelle lo ha sfidato su questo terreno (come altri su cui le forze d’opposizione si sono finora presentate divise). Le manifestazioni di sabato sono le prime a svolgersi in Italia dal 24 febbraio, giorno in cui è iniziata l’invasione voluta dal presidente russo Vladimir Putin: lo studioso Giovanni Cominelli ci spiegherà in che momento della storia del movimento pacifista è arrivato il conflitto ucraino.

A Roma la sinistra “pacifista” getta la maschera: striscioni filo russi al presidio antifascista. Giorgia Castelli su Il Secolo d’Italia il 29 Ottobre 2022

Eccoli i soliti sinistri, convocano manifestazioni e presìdi contro il fascismo e finiscono per praticare una democrazia a senso unico, dove solo loro possono parlare, e un pacifismo unilaterale, con striscioni filo Russia. A Roma in piazza Venezia il presidio antifascista getta la maschera. L’obiettivo non è solo il governo Meloni ma anche quello di Kiev, visto che gli slogan sono diretti anche a colpire i “nazisti” di Zelensky, con il sostegno al massacratore Putin, anche grazie a una simpatia ideologica comunista che i manifestanti evidentemente non rinnegano.

Presidio antifascista, esposti striscioni filo Russia

“Odessa 2 maggio 2014. I Nazisti con la bandiera dell’Ucraina in mano, cantando l’inno ucraino, massacravano gli abitanti di Odessa”. È quanto si legge su uno striscione esposto da alcune persone provenienti dal collettivo La Comune di Ravenna che stanno manifestando

«Russia la liberatrice dell’Ucraina»

Su un altro stendardo si legge “La Russia la liberatrice dell’Ucraina dal terrore ucro-nazista da 8 anni!”. Altri manifestanti sventolano bandiere del Donbass. Presenti alla manifestazione, tra gli altri, il sindacato Cobas compagni di Walter Rossi, l’associazione Cortocircuito, la Città Futura, la Rivista Internazionale Companis, Interstampa e Radio Onda Rossa.

Le solite lagne: «Al governo ci sono i nipotini del fascismo»

E sul palco va in scena la solita demagogia e le solite inconsistenti accuse strumentali. «Al governo ci sono i nipotini del fascismo». Lo sottolinea un attivista dal palco del presidio antifascista facendo riferimento a quanto avvenuto la settimana scorsa alla Sapienza. «Il 28 ottobre è una data che rivendichiamo come 100 anni di lotta antifascista», dicono i militanti dal microfono. Dal palco le voci degli attivisti si susseguono, ricordando i “martiri del fascismo”: «Siamo qui per ricordare le vittime del fascismo ma anche per condannare la logica della guerra permanente». E poi la solita ridicola accusa che non sta né in cielo né in terra. Per i militanti si tratta di una manifestazione importante e fondamentale a maggior ragione oggi che «si è insediato un governo di una esponente post fascista. La destra più reazionaria che guarda alla Polonia».

Presidio antifascista, sempre lo stesso cliché

A corto di idee e di contenuti tirano fuori sempre le stesse parole e lo stesso cliché. Eppure in questi giorni esperti, costituzionalisti, giuristi e storici hanno affermato che il pericolo fascista non esiste. Basta citare, uno per tutti,  il costituzionalista Sabino Cassese. All’indomani del discorso di Giorgia Meloni alla Camera per la fiducia, ha detto chiaramente che nelle parole del presidente del Consiglio ci sono state «non soltanto la distanza dal fascismo, ma anche le chiare indicazioni relative a libertà e democrazia». Quindi, ha concluso: «Sarebbe bene che l’opposizione si liberasse del punto di vista fascismo-antifascismo, giudicando il governo per quello che propone e per quello che fa».

Bandiere russe e cori contro Roma. Ecco il corteo pacifista di De Luca. Critiche contro la manifestazione, costata circa 300mila euro e simile a una "gita scolastica" utile solo al presidente campano. Massimo Malpica il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale.

I pacifisti sventolano la bandiera italiana, quella ucraina e per non fare torto a nessuno c'è, con rigore istituzionale, anche quella russa. Questa è la scelta degli adulti. I ragazzi invece cantano cori contro Roma e mentre marciano gridano: «Vi bruceremo tutti». È insomma grande la confusione sotto il cielo.

Una manifestazione ipocrita, sbagliata, fatta a tavolino, inutile, costosa e pagata con soldi pubblici. Sul day after della piazza per la Pace voluta da Vincenzo De Luca piovono più polemiche che complimenti per il governatore campano. A cui non è servito «accorpare» al focus pacifista quello della memoria contro la marcia su Roma e la solidarietà con chi manifesta sul serio e rischiando la pelle in Iran da settimane perché il pacchetto-piazza sembrasse più coerente, o almeno più conveniente. Ad aprire le danze, subito, erano stati proprio alcuni degli studenti delle scuole campane, cooptate dal diktat del Governatore che a spese dei contribuenti aveva stanziato 300mila euro per i pullman che hanno portato i ragazzi fino a Piazza Plebiscito. Tra loro, anche quelli dei collettivi scolastici, schierati contro la guerra con meno delicatezza verso l'Ucraina, ma da più tempo di De Luca e dei Dem. E infatti non hanno mancato di sottolineare la «postura particolarmente ipocrita» di De Luca e del Pd, che «da febbraio a oggi non hanno fatto altro che parlare di armi, bollando come putiniano chi poneva quella diplomatica come unica soluzione possibile del conflitto in corso», e che oggi invece «scalpitano parlando di pace».

E facendo storcere il naso a chi ha visto la manifestazione come una svolta ambigua rispetto alla posizione rispetto alle due nazioni belligeranti, come testimonia la vistosissima assenza del console ucraino a Napoli, ma anche quella della Cisl, che ha parlato di «strumentalizzazione». Ma il nostro è sicuro: «Nessun opportunismo», ha spiegato De Luca a margine della manifestazione per la quale ha dettato persino indicazioni su quali bandiere sventolare, rimanendo giù dal palco, off limit per i politici per sua volontà, ma negli immediati paraggi, per distribuire il proprio verbo ai cronisti. «La Russia è colpevole di aggressione, ma dopo 8 mesi dobbiamo chiederci qual è la via di uscita». Dal conflitto. Perché per uscire da scuola è bastato aderire alla manifestazione. Un punto sul quale il capogruppo del Carroccio in consiglio regionale, Severino Nappi, non ci è andato giù leggero. Ironizzando sulle «circolari di stampo sovietico» indirizzate da De Luca ai dirigenti scolastici, che sono riuscire nell'impresa di «svuotare le scuole della Campania». E in una regione con una dispersione scolastica tra le più alte del Paese, era proprio necessario far saltare un giorno di lezione per una parata? Insomma, più che una marcia per la pace, quella di Napoli insiste Nappi è diventata una «gita scolastica». Sulla questione-spese, poi, il coordinatore di Fi in Campania, Fulvio Martusciello, invoca l'intervento della Corte dei Conti. Insomma, «la sensazione - osserva l'ex Psi Giulio Di Donato parlando al Riformista - a prescindere dai fini che la manifestazione si prefigge, è che sia stata una prova di forza di De Luca in vista del Congresso del Pd». Che lo stesso Governatore non ha escluso, ricordando (alla Stampa) che non bisogna «mai mettere limiti alla provvidenza».

Con Kyjiv o contro Kyjiv. Il 5 novembre in piazza a Milano ci sarà l’Italia che non accetta l’aggressione putiniana. Alessandro Cappelli su L'Inkiesta il 29 Ottobre 2022.

Sabato prossimo, alle 16 all’Arco della Pace, si riuniranno tutte le forze democratiche (non solo Azione e Italia Viva) con la comunità ucraina, il terzo settore e il mondo della cultura

Sabato prossimo nelle piazze di Milano e Roma ci saranno due manifestazioni numerose e opposte. A Roma andrà in scena la baracconata pro-Putin, cui parteciperanno tante persone in buona fede, lanciata dal leader del Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte, per chiedere l’avvio di un negoziato che vuol dire la resa dell’Ucraina alle condizioni della Russia. A Milano invece ci sarà l’Italia che riconosce l’impossibilità di passare dal tavolo delle trattative con Vladimir Putin, e capisce che non c’è soluzione che passi dalla caduta di Kyjiv.

L’evento all’Arco della Pace (ore 16) è stato organizzato dal Terzo Polo (Azione e Italia Viva), ma «sarà una manifestazione senza bandiere di partito», come ha scritto Carlo Calenda sui suoi profili social, chiedendo «la partecipazione di tutte le forze democratiche del Paese».

Ci sarà ovviamente Carlo Calenda, mentre è ancora incerta la partecipazione di Matteo Renzi. E dalle segreterie dei due partiti confermano la presenza di quasi tutti i parlamentari eletti il 25 settembre scorso.«Sabato prossimo» – dice a Linkiesta il senatore Ivan Scalfarotto, di Italia Viva – «esprimeremo un sostegno senza tentennamenti a uno Stato democratico che da mesi viene attaccato da uno Stato autoritario e imperialista».

Le motivazioni che muovono gli esponenti del Terzo Polo sul dossier ucraino sono ormai chiare da tempo. Dopotutto, sono le stesse che avevano spinto il governo di Mario Draghi a condannare la Russia fin dal primo giorno di invasione, lo scorso 24 febbraio.

«Lasciare mano libera a Putin, non sostenendo l’Ucraina con tutti i mezzi possibili, significherebbe avvallare la possibilità da parte del più forte di violare ogni regola di convivenza fra i Paesi», dice Gianmaria Radice, coordinatore di Italia Viva sul territorio di Milano e provincia. «Se Putin ferma le armi si può aprire un negoziato, se Zelensky rimane senza armi sparisce l’Ucraina. Solo un forte sostegno politico, economico e anche militare può quindi aprire la strada a un negoziato serio».

È lo stesso Radice ad anticipare l’idea di organizzare, durante la manifestazione della settimana prossima, un collegamento video con il sindaco di Leopoli, Andrij Sadovyj, e con i primi cittadini di altre città ucraine. Non c’è ancora l’ufficialità, però l’idea è quella di creare un ponte con loro in diretta video.

La manifestazione è soprattutto un modo per ribadire che l’Italia non è quella che chiede la pace senza se e senza ma, che «tacciano le armi», come dice e ripeterà a Roma Giuseppe Conte. «L’approccio dei Cinquestelle non è una via percorribile», dice a Linkiesta Giulia Pastorella, vicepresidente di Azione e deputata alla Camera. «Mentre a Roma si manifesterà di fatto per chiedere il disarmo e la resa dell’Ucraina, noi scenderemo in piazza a Milano per ribadire il sostegno agli ucraini contro l’invasore russo».

Proprio per questo l’evento non avrà bandiere di partito, non è un appuntamento targato Azione e Italia Viva, ma è aperto a tutti. Giulia Pastorella conferma di aver già ricevuto l’adesione da parte della divisione di Milano e Provincia del Partito democratico. E ci sarà anche Più Europa.

«I gruppi milanesi e lombardi di Più Europa si stanno attrezzando per esserci», dice a Linkiesta Benedetto Della Vedova, segretario nazionale del partito. «Sulla questione ucraina – aggiunge –siamo schierati, su queste posizioni, dal 24 febbraio. Per questo per me non è una contromanifestazione, ma l’unica manifestazione possibile, quella giusta».

Anche dal Partito democratico sono arrivate conferme importanti. Subito dopo l’annuncio di Calenda era arrivata la risposta di Carlo Cottarelli, senatore dem, su Twitter; ci sarà anche il senatore Alessandro Alfieri, ex segretario regionale del Partito democratico.

In generale, è probabile che molti sceglieranno se aderire o meno solo nelle ultime 24 ore. Non è esclusa la partecipazione di alcuni esponenti della maggioranza di destra, forse da Fratelli d’Italia, che sta assumendo una postura atlantista e pro Ucraina.

La giunta comunale di Milano, invece, per il momento procede in ordine sparso. Il sindaco Beppe Sala ha parlato delle due manifestazioni dicendo «non vado né da una parte né dall’altra». Dovrebbe partecipare invece Alessia Cappello, assessora allo Sviluppo Economico e Politiche del Lavoro (Italia Viva), e l’assessore alla Casa e Piano Quartieri, Pierfrancesco Maran (Pd), che ha già motivato la sua partecipazione la settimana scorsa.

Ha risposto presente soprattutto la comunità ucraina. «Saremo almeno un centinaio, ma spero di arrivare a duecento», dice a Linkiesta Lesya Tsybak, attivista ucraina che vive a Milano. È stata contattata direttamente dagli uffici di Azione: «Ci piace quel che dice Calenda, la sua linea non è solo di sostegno a Kyjiv, ma è soprattutto aiuto militare: questo per noi è molto importante, se non possiamo difenderci, domani non esisteremo più come Stato».

Il post che Lesya Tsybak ha pubblicato su Facebook recita: «Cari ucraini! Ancora una volta, ci riuniamo a Milano per non dimenticare la guerra scatenata dallo Stato terrorista – la Russia – contro il nostro Paese. Sempre più politici e partiti italiani si uniscono alle nostre manifestazioni per condividere la nostra lotta e mostrare sostegno».

La manifestazione, come detto, non ha bandiere di partito, anzi è aperta anche a organizzazioni politiche, associazioni culturali e a chiunque si schieri dalla parte della democrazia e della libertà.

«La piattaforma di questa manifestazione – dice Sergio Scalpelli, presidente di Linkiesta Club – identifica un aggressore e un aggredito: l’aggressore si muove sul terreno dell’ideologia, ricerca la grandezza imperiale russa in continuità tra zarismo e comunismo. Ancora una volta in Italia c’è un movimento pacifista che professa una posizione di equidistanza, che vuol dire stare dalla stessa parte dell’aggressore».

Il terzo settore e il mondo della cultura saranno in piazza al fianco della politica, perché dopotutto dimostrare solidarietà alla comunità ucraina e allo Stato aggredito non è solo una decisione politica: è una scelta di tutti, come persone, come società, come cittadini europei.

«Partecipo a favore del popolo ucraino che si sta difendendo da un’aggressione vile, vigliacca e senza motivazione se non desiderio di imperialismo russo-zarista», dice a Linkiesta Costantino De Blasi, di LiberiOltre. «Invece a Roma si ripeterà una vecchia storia italiana, con casi di volontà di presunta equidistanza, che è un interesse ad avere la Russia come partner, è l’incapacità di capire la realtà».

È uno spirito antioccidentale che attraversa la nazione e che, secondo Andrea Cangini – ex senatore di Azione e Forza Italia, da pochi giorni segretario generale della Fondazione Einaudi – «impedisce di far chiarezza su una questione che richiede invece la massima trasparenza: Putin ha dichiarato guerra all’Occidente molto tempo fa, perché il discorso a Monaco è del 2007 e la politica europea avrebbe dovuto trattarlo diversamente già prima del 24 febbraio scorso».

Il puttino di mamma Italia. Era solo questione di tempo prima che ci mostrassimo come il paese canaglia che siamo. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 29 Ottobre 2022.

Abbiamo partorito chi difende la Russia, accusa l’Ucraina e criminalizza la Nato. Altrove non avrebbe visto la luce 

Mamma Italia ha partorito il puttino. È stata una gravidanza indisturbata, sviluppatasi e giunta senza interferenze all’esito inevitabile. Senza interferenze e soprattutto senza sorprese. Dopo nove mesi di gestazione, il frutto del ventre italico si è presentato paffuto e per la gioia di tutti alla vista del mondo, del peso e delle fattezze che andavano formandosi nel conforto di quella pancia nutriente. 

È fuoriuscito senza tradire il monitoraggio che ne seguiva lo sviluppo, gli abbozzi di personalità, le promesse, perché già quando non era più che grumo di futuro ripugnante dava pienamente segno di sé: i russi stavano puntando ai loro obiettivi, e nel frattempo cercavano di non spaventare la popolazione; gli ospedali bombardati erano covi di nazisti; i centri commerciali rasi al suolo dai missili erano depositi di armi dei servi della Nato; i bambini deportati erano vittime di un governo di omosessuali e drogati, ed erano portati a salvezza; Joe Biden era un maleducato che prendeva a male parole gli esecutori dell’operazione speciale; gli ucraini tutti, fantocci insubordinati al dovere morale della resa, guidati da un sanguinario che non accetta di abdicare in favore di gente perbene, erano padri e madri e figli incapaci di comprendere che in dittatura si può essere felici.

Ma questo complesso di ruminazioni pur prepotenti denunciava ancora un’acerbità prenatale: non la compiutezza del puttino, ora affidato alle cure del parentado di destra, di centro e di sinistra, figlio ed erede veramente di tutti, perché da tutti nutrito e atteso proprio così, figlio della Patria sovrana, figlio della Repubblica antifascista, figlio dei diritti acquisiti, figlio della pace, figlio della grandissima baldracca in cui maggioritariamente e trasversalmente ci si riconosce in questo Paese quando si tratta di scegliere da quale parte stare, se dalla parte della democrazia con i suoi errori o dalla parte delle autocrazie con le perfezioni di censura e violenza che esse garantiscono.

Altrove il puttino non avrebbe visto la luce. Altrove il puttino sarebbe rimasto in potenza nelle impotenze di genitori infertili. E se per un motivo qualunque, per un accidente concezionale, avesse tentato di impiantarsi nell’utero del Paese, allora questo se ne sarebbe liberato. Altrove il suo destino sarebbe stato l’aborto. E a nessuno, altrove, sarebbe venuto in mente di reclamarne la protezione in nome del diritto a una bolletta calmierata.

Gabriele Carrer per formiche.net il 27 Ottobre 2022.

L’unico modo efficace per raggiungere la pace è “fornire le armi e l’assistenza necessarie all’Ucraina e, infine, riconoscere la Russia come sponsor del terrorismo”. Lo scrive Yaroslav Melnyk, ambasciatore ucraino in Italia, in una lettera indirizzata a Giuseppe Conte, presidente del Movimento 5 Stelle, chiedendo di “tenere conto” anche delle posizioni ucraine in vista della manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma. 

“Ogni voce a sostegno della pace è importante, ma queste voci dovrebbero suonare responsabili ed equilibrate, evitare di confondere ‘l’aggressore’ con ‘l’aggredito’ ed evitare di scaricare la colpa dal criminale alla parte che lo combatte”.

Come raccontato anche su Formiche.net, il nuovo governo di Giorgia Meloni è pronto a mantenere le promesse fatte agli alleati e all’Ucraina dando il via libera al sesto pacchetto di aiuti militari a Kyiv. Conte, leader del Movimento 5 Stelle, ha detto che “non siamo favorevoli”. “L’Italia ha già dato, lo abbiamo fatto per 7 mesi”, ha speigato intervenendo al Salone della Giustizia. “Dobbiamo lavorare per la pace”, ha continuato. Non nuovo a equilibrismi e giravolte sull’assistenza militare all’Ucraina invasa dalla Russia di Vladimir Putin, Conte ha detto no a “scellerate corse al riarmo”. 

Nella lettera, l’ambasciatore Melnyk ringrazia l’ex presidente del Consiglio per le “parole di sostegno e solidarietà all’Ucraina sin dai primi giorni dell’invasione russa”. Riconosce poi che “le sfide di oggi sono complesse e le soluzioni sono difficili. E lo capiamo, non meno dei residenti dell’Ue. Ma gli europei si sentiranno più al caldo nelle loro case, sapendo che questo gas è stato pagato con il sangue ucraino?”, chiede a Conte.

La lettera a Conte si fa poi più dura: “È molto triste vedere come alcuni politici occidentali ‘regalano’ i territori ucraini e calpestano l’eroismo della resistenza ucraina per far piacere al tiranno nel Cremlino”, si legge. “Le manifestazioni esclusivamente all’insegna della ‘pace’ e con appelli impersonali a un cessate fuoco non riguardano la giustizia, ma sono una dimostrazione di viltà e ipocrisia. La riluttanza a chiamare la Russia un aggressore e a chiederle il ritiro delle sue truppe dal territorio dell’Ucraina non farà che stimolare l’appetito dello stato aggressore”. 

Tutto ciò “non significa che l’Ucraina non parlerà mai con la Russia” ma gli attacchi e i morti “non danno il diritto di rappresentare gli ucraini che non si arrendono come militaristi e radicali. Capiamo tutti che tutte le guerre finiscono con i negoziati, ma proprio per questo è necessario dare una risposta adeguata all’aggressore”.

Estratto dell'articolo di Mario Ajello per “il Messaggero” il 21 ottobre 2022.

Un CamaleConte sul Colle. Come si fa ad andare in piazza il 5 novembre in mezzo a tanti pacifisti, pacifinti e filo-putiniani in nome della pace (non in nome della totale contrapposizione a chi ha scatenato la guerra, cioè il Cremlino) e intanto attaccare il centrodestra accusandolo di putinismo? 

Come si fa ad aver votato i decreti per l'invio delle armi agli ucraini e ora non volere più mandare quelle armi di difesa ma i nemici degli ucraini sarebbero Berlusconi e Forza Italia e non Conte e M5S? 

Per fare tutto questo, Conte all'uscita dalla consultazione con Mattarella ha dato fondo a tutta la sua tecnica avvocatesca, mischiando le carte e lanciandosi in acrobazie logiche o illogiche a rischio confusione. Ma forse con un obiettivo chiaro: ergersi a leader non solo di M5S ma di tutta la sinistra (e del resto i sondaggi danno i grillini ormai ad un'incollatura dal Pd). (...) 

Praticamente, Conte è andato da Mattarella solo, o quasi, per dire che a loro non piace Berlusconi, anche se Berlusconi nelle sue tirate su russi e ucraini - questo Giuseppe a Mattarella lo ha omesso - non è poi così distante dalle posizioni stellate e del pacifismo di sinistra, neutralista e cerchiobottista, che sono la base della manifestazione arcobaleno lanciata da Conte per l'inizio del mese prossimo. Chi ha sentito il discorso contiano, lì sul Colle, ha pronunciato questa battuta: «È uscito dallo studio Alla Vetrata per arrampicarsi sugli specchi».

STILE ARCOBALENO È stata un po' questa l'impressione che ha dato Conte. Il quale, pur in tenuta istituzionale in blu con pochette, ha approfittato dell'occasione per tenere due comizi (anche qui, molto in stile vecchio Berlusconi) da piazza post-elettorale. 

Uno, appunto, sul pacifismo. E a chi gli fa notare che anche M5S aveva detto che Putin voleva la pace, lui ribatte: «Non è vero, io non l'ho mai detto. Abbiamo sempre condannato l'invasione dell'esercito russo». E ancora, evviva la pace ma senza dare armi agli ucraini: «Il governo uscente non ha neppure accettato un confronto parlamentare sull'invio di armi a Kiev. (...) 

Propaganda e realtà. Il negazionismo dei pacifisti putiniani che incolpano Zelensky della guerra di Putin. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 22 Ottobre 2022

Quanto durerà questa campagna per ignorare i crimini verso donne e bambini dell’operazione speciale del Cremlino in nome di una pace che non tiene conto degli aggrediti?

Ormai siamo al negazionismo due punto zero, il negazionismo di secondo grado, il negazionismo doppio, il negazionismo al cubo, rinforzato, sinergico, a slavina, alla rinfusa, random, meta-gaglioffo e ultra-paraculo.

Siamo cioè al punto che non solo il pacifista negazionista trascura – vale a dire, appunto, nega – i fatti criminali dell’operazione speciale, ma nega l’esistenza della propaganda – che egli stesso fa, o che lascia fare ai colleghi – che dal 24 febbraio viene opposta alle ragioni e all’azione di chi resiste all’aggressione.

Se è complicato, sciogliamola così: quello, il pacifista negazionista, sta su tutti i giornali salvo un paio, in ogni postribolo televisivo salvo nessuno, a scrivere, a dire, a ripetere, nell’ordine: che Zelensky è notoriamente un dittatore sanguinario; che non c’è la pace perché gli ucraini, irresponsabilmente, vogliono la guerra; che non c’è la pace perché gli ucraini, lo vedono tutti, preferiscono stare nei sotterranei; che non c’è la pace perché i genitori ucraini, pazzesco, non capiscono che i bambini sono felici anche in dittatura; che non c’è la pace perché, pensa un po’, i genitori di duecentomila bambini ucraini deportati non capiscono che in Russia si sta bene; che non c’è la pace perché, vuoi sostenere il contrario?, è una guerra della Nato fatta per ordine di Joe Biden che vuole venderci il suo gas; che i cadaveri di Bucha probabilmente erano manichini, e non vorrai mica trascurare l’ipotesi; che gli ucraini sono perlopiù nazisti, che c’è anche la foto del battaglione Azov; che il mercato incenerito da due missili era verosimilmente un deposito di armi, che l’ha detto anche la radio; che negli ospedali rasi al suolo c’erano 007 occidentali, che l’ha spiegato anche il reporter di guerra, collegato da Frascati; che far saltare il ponte tra la Crimea e la Russia era un crimine contro l’umanità, che l’ha spiegato il geopolitologo delle otto e mezza.

E tu gli dici: sei pacifista, va benissimo, ma una parolina su questa roba la spendi? Non la spende, e ti spiega che lui non ne ha mai sentito parlare, che sui giornali e in televisione c’è solo il fronte bellicista, che il pacifismo è ostracizzato, e che se fosse per lui e quelli come lui la guerra non ci sarebbe e trionferebbe la pace, perché la guerra la vogliono Zelensky e la Nato e Joe Biden e i bambini ucraini che resistono al dovere morale di farsi deportare.

Pacifismo passivo. L’Italia è agli ultimi posti nella classifica degli aiuti militari all’Ucraina. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 19 Ottobre 2022.

Come dimostrano i dati del Kiel Institute for World Economy sull'invio di armi a Kyjiv, Roma sta dando un contributo limitato: solo 700 milioni, di cui solo 150 sono di assistenza per la difesa

Secondo i “pacifisti” italiani, quelli per cui Russia e Ucraina dovrebbero scendere a patti (leggi acconsentire all’annessione di pezzi della seconda alla prima), il nostro Paese sarebbe entrato di fatto in guerra a causa dell’invio di armi a Zelensky e al suo esercito. Fosse vero, sarebbe una delle guerre più povere e meschine mai intraprese. A guardare i dati del Kiel Institute for World Economy, che dall’inizio del conflitto raccoglie statistiche sull’assistenza internazionale all’Ucraina, siamo inequivocabilmente tra gli ultimi quanto ad aiuti militari a Kyjiv. 

L’entità dell’impegno italiano appare essere abbastanza grande da fare gridare allo scandalo gli antimilitaristi e gli aedi del disarmo globale (che, per loro, dovrebbe cominciare sempre dall’Occidente, però) e allo stesso tempo, così limitato da far diminuire ulteriormente il nostro peso nello scacchiere globale. 

Non siamo soli in questa situazione. La classifica dell’assistenza globale all’Ucraina è molto eloquente. Anche considerando gli aiuti umanitari e finanziari la preponderanza americana è totale. 

Gli Stati Uniti, dall’inizio della guerra ai primi di ottobre, hanno dato 52 miliardi e 311 milioni, di cui più della metà, 27 miliardi e 645 milioni, sotto forma di invio di armi o di denaro per acquistarne. L’Ue, come istituzione a sé stante, solo 16 miliardi e 243 milioni, che salgono a poco più di 29 calcolando anche gli aiuti bilaterali dei singoli stati dell’Unione. Eppure nel complesso quest’ultima ha un Pil che è solo di un quarto inferiore a quello americano. 

A latitare è il contributo dei Paesi centrali della UE, il suo core, potremmo dire: dall’Italia, appunto, alla Francia, dalla Germania, alla Spagna. 

Berlino non è finora andata oltre ai 3,3 miliardi di aiuti, ma a dispetto del pubblico ludibrio verso Scholz di questi mesi, sono stati francesi e italiani a sfigurare più di tutti. I primi hanno stanziato solo 1,1 miliardi e i secondi 700 milioni, di cui solo 150 sono di assistenza per la difesa. 

Il dato più importante, quindi, al di là delle singole cifre, è la divisione che sta interessando non solo l’Occidente, ma il Vecchio Continente stesso. Infatti, quell’insieme di Paesi che i neo-conservatori americani chiamavano “Nuova Europa”, ovvero l’Est, con l’esclusione dell’Ungheria, assieme ai Paesi scandinavi fornisce quasi la stessa assistenza all’Ucraina della “Vecchia Europa”, quella occidentale, che ha più del doppio della popolazione e del Pil. 

Dalla prima viene il 7,4% degli aiuti totali, dalla seconda il 7,8%. E se consideriamo l’invio di armi vi è invece il sorpasso dell’Europa orientale: 9,8% contro 5,1% di quella occidentale. Quell’ampio schieramento che va dalla Slovenia alla Bulgaria, dalla Polonia alla Finlandia, supera, in questo caso, anche la UE come istituzione, che è responsabile del 6,1% dell’aiuto militare.

Naturalmente, però, a livello internazionale la parte del leone la fanno gli anglosassoni, con gli Usa in testa ma anche Regno Unito, Canada, Australia, Nuova Zelanda. Da essi viene il 78,9% degli armamenti per Kyjiv.

I numeri sono ancora più chiari se paragonati alle dimensioni delle rispettive economie. Lettonia, Estonia, Polonia, Lituania, Norvegia, Slovacchia, Repubblica Ceca hanno speso finora tra il 0,25% e l’1,01% del proprio Pil per aiutare gli ucraini a difendersi dall’aggressione di Putin, includendo, ove applicabile, anche il contributo all’assistenza UE, che per questi Paesi è minoritario rispetto all’impegno bilaterale. 

Hanno superato persino gli Usa e il Regno Unito, ma soprattutto spagnoli, tedeschi, francesi e italiani, che non sono andati oltre lo 0,15 – 0,17% del loro Pil. Mediamente la “Nuova Europa” ha sacrificato lo 0,37% del proprio reddito annuo contro lo 0,16% della “Vecchia”.

Questi dati rendono evidente un problema politico e culturale, che non è nuovo, ma sembra riacutizzarsi. Da un lato abbiamo popoli ed élite abituati a crogiolarsi nella sicurezza della propria comfort zone, fatta di livelli di benessere e di libertà date per scontate che non si sarebbe pronti a sacrificare né se si tratta di quella altrui, né, c’è da temere, se si trattasse un giorno della propria. 

Non è solo il classico egoismo del vecchio ricco che non vuole rinunciare a ciò che ha acquisito nel corso del tempo, si tratta anche di cecità. Parte di questa comfort zone, infatti, è pure l’armamentario ideologico che impedisce di vedere se stessi come la parte più avanzata del mondo, e l’Occidente come baluardo di quella libertà data per scontata.

Da decenni non solo la sinistra, ma anche la destra (ne sappiamo qualcosa in Italia) è abituata alla flagellazione del modello capitalista occidentale, a un anti-americanismo politico-economico che è diventato anti-occidentalismo. Al punto da non riuscire a percepire l’Occidente come parte di una famiglia comune, ovvero un faro di democrazia e libertà per tutti coloro che, lontano da Europa, Usa, Australia, ci guardano con occhi ben diversi da quelli con cui noi stessi ci guardiamo. Gli stessi occhi che a Kyjiv ci vedono come modello da raggiungere e come ancora di salvezza. 

Questa doppia cecità, dei governi e di gran parte della popolazione, è evidente anche dai dati della sola assistenza militare in proporzione alla spesa per la difesa. Da cui si nota come la tendenza europea a destinare una quota del proprio budget agli armamenti molto inferiore a quella degli Usa non contribuisce che in piccola parte allo squilibrio presente tra i Paesi riguardo l’assistenza militare all’Ucraina. 

Qui si nota in modo ulteriore come l’Italia risulti impegnarsi pochissimo, dando solo 5,5 euro ogni mille spesi per la difesa in un anno, non solo se il confronto è con la Lettonia, che ne dà 427,11, o con gli Usa, con 39,97, ma anche se è con la Germania, che a dispetto degli attacchi subiti sul tema dà più del quadruplo di noi, 25,38 ogni 1000 di budget. 

Quale sarà l’impatto di tutto ciò? Difficile non intravedere una perdita di importanza dell’Ue, in assenza di un maggior impegno nel teatro ucraino. 

L’Ucraina, nel caso uscisse vincitrice dal conflitto, vorrà entrare nell’Unione Europea, ma a quel punto, dopo la ritrosia di questi mesi a dare maggiori aiuti a Kyjiv, Bruxelles sarà ancora un un player globale paragonabile a Usa e Cina? Tutto ciò provocherà un aumento delle divisioni sul fronte interno? Il nazionalismo polacco avrà trovato una sponda oltre l’Atlantico in seguito a questa vicenda?

L’Ue è ancora in tempo per recuperare un proprio ruolo. Come la vicenda del price cap mostra, Bruxelles tende a essere un diesel più che un turbo. Ma i tempi della storia, soprattutto negli ultimi, mesi sembrano essere molto più veloci di quelli delle cancellerie della “Vecchia Europa”.

Punti di riferimento fortissimi. L’appello pacifista degli intellettuali rosso-bruni è la vera piattaforma dei Democratici per Conte. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

Avvenire pubblica il «piano di pace» di un gruppo di pensatori trasversale (da Cacciari a Cardini) che consiste in pratica nel dare a Putin tutto quello che vuole, dandogli pure ragione

Sulla questione della pace e della guerra in Ucraina è in corso da tempo il tentativo di imprimere una svolta alla linea seguita sin qui dal nostro paese, cercando nella chiesa e in papa Bergoglio un punto di riferimento più popolare di Henry Kissinger per giustificare il riposizionamento. Si tratta di una spinta che viene da più parti, con diverse motivazioni. A sinistra, la manovra si salda con il tentativo di ottenere un sostanziale ripudio delle scelte compiute con il governo Draghi, non solo sulla guerra, e un generale riallineamento al Movimento 5 stelle sotto l’egida di Giuseppe Conte.

Dopo l’appello firmato da Rosy Bindi, Tomaso Montanari e vari altri intellettuali e politici perlopiù di area catto-populista in favore di una riapertura del dialogo tra democratici e grillini, pubblicato sul Fatto quotidiano qualche settimana fa, ieri è stato Avvenire, organo della conferenza episcopale italiana, a pubblicare l’appello per un «negoziato credibile» firmato da un gruppo di intellettuali di destra e di sinistra, laici e cattolici, nella forma di una lettera al direttore. Significativamente, gli unici due quotidiani, a parte Avvenire, che ieri riportavano la notizia erano la Verità, con un ampio resoconto della genesi e del merito della proposta, e il Fatto, che ne pubblicava «ampi stralci» (corrispondenti più o meno al cento per cento del testo, escluse le parole «caro direttore»).

Non per niente, tra i firmatari più noti c’è Massimo Cacciari, che si è conquistato già da tempo i favori di entrambi i quotidiani con le imprese della «Commissione dubbio e precauzione» messa su assieme a Carlo Freccero e Ugo Mattei, dove i dubbi e le precauzioni erano ovviamente da intendersi come riferiti ai vaccini, al green pass e alle altre misure anti-Covid (quelle sì di precauzione), mica al virus. Una parabola simile, del resto, hanno seguito gran parte dei movimenti, gruppi e gruppetti no vax che hanno funestato in questi anni talk show e social network, trasformatisi tutti molto rapidamente in gruppi contro la guerra. Dove ovviamente la guerra da fermare, gratta gratta, si capisce che non è mai quella della Russia sul suolo ucraino, ma quella dell’Ucraina per respingere l’offensiva russa. Insomma, così come ieri non bisognava difendersi dal Covid, ma da vaccini e green pass, così oggi il pericolo è rappresentato dalla capacità di difendersi degli ucraini, che potrebbe spingere Vladimir Putin, si dice, a utilizzare la bomba atomica.

La lettera-appello pubblicata da Avvenire comincia infatti proprio così: «La minaccia di un’apocalisse nucleare non è una novità. L’atomica è già stata usata. Non è impossibile che si ripeta». Basta questo incipit – nel merito, nel tono e nelle allusioni ai precedenti storici – per capire subito da dove si parte e dove si vuole andare a parare. Secondo questa logica, qualunque tiranno in possesso dell’atomica decidesse di invadere un paese vicino – non importa quanti massacri, torture, deportazioni imponesse nel frattempo alle popolazioni civili – dovrebbe ottenere subito in premio un bel negoziato in cui discutere quanta parte del territorio da lui occupato resterebbe per sempre di sua legittima proprietà. Al di là della questione morale, strategica e politica, siamo proprio sicuri che un simile approccio renderebbe il mondo più sicuro, e il rischio di una «apocalisse nucleare» più basso?

Il piano in sei punti pubblicato ieri da Avvenire consiste fondamentalmente nel dare a Putin tutto quel che vuole, dandogli pure ragione (infatti ha già raccolto l’entusiastica adesione di Alessandro Di Battista). Merita una segnalazione in particolare il punto due, dove si parla di «concordato riconoscimento dello status de facto della Crimea, tradizionalmente russa e illegalmente “donata” da Krusciov alla Repubblica Sovietica Ucraina». Passaggio degno di nota perché condanna l’«illegale» donazione della Crimea all’Ucraina da parte di Krusciov nel 1954 e non fa parola, anzi, così dicendo chiaramente giustifica, l’annessione della Crimea manu militari da parte di Putin nel 2014. Seguono poi «autonomia delle regioni russofone di Lugansk e Donetsk entro l’Ucraina secondo i Trattati di Minsk, con reali garanzie europee o in alternativa referendum popolari sotto la supervisione Onu» e la «definizione dello status amministrativo degli altri territori contesi del Donbass per gestire il melting pot russo-ucraino che nella storia di quelle regioni si è dato ed eventualmente con la creazione di un ente paritario russo-ucraino che gestisca le ricchezze minerarie di quelle zone nel loro reciproco interesse».

E qui, arrivati al «melting pot», ai «territori contesi» e soprattutto al «loro reciproco interesse», diventa difficile separare il tragico dal grottesco, e anche continuare a leggere. Parliamo di zone dove ogni giorno la controffensiva ucraina, a mano a mano che libera città e villaggi, scopre nuove camere di tortura e nuove fosse comuni.

Due giorni fa, a Kherson, il direttore della Filarmonica Yuriy Kerpatenko è stato ucciso dai russi in casa sua perché si era rifiutato di dirigere un concerto in favore dell’invasore. Chi vuole la pace si augura che Kherson sia liberata al più presto da simili assassini o che i fratelli, i figli e i genitori delle vittime si siedano a discutere di quanta parte delle risorse naturali del paese dovrebbero cedere ai loro carnefici, in un bel comitato paritario formato per metà dagli scampati alle camere di tortura e per metà dai torturatori? La verità è che l’unico esercito che si vorrebbe concretamente fermare, oggi, è quello che sta liberando l’Ucraina da tali aguzzini.

Vedremo quanto i firmatari di destra dell’appello – tra i quali nomi come Pietrangelo Buttafuoco, Franco Cardini, Marcello Veneziani, certo non estranei alla tradizione da cui proviene Fratelli d’Italia – si dimostreranno isolati anticonformisti o magari invece avanguardia di un movimento più largo. Ma a sinistra è evidente che la partita per ridisegnare i confini e la natura dell’intero schieramento è già cominciata.

È sempre un bene che le posizioni politiche siano espresse chiaramente, affinché ciascuno possa valutarne in piena coscienza tutte le implicazioni strategiche e morali. Se questa idea di pace – e di collocazione internazionale dell’Italia – è il discrimine su cui si vuole costruire una nuova sinistra che vada dal Pd al M5s, è un’ottima cosa che sia esposta limpidamente nel dibattito pubblico, e che tutti i dirigenti impegnati in una simile prospettiva dicano esplicitamente come la pensano.

L’inaccettabile aggressione. Il vero pensiero del Papa sulla guerra (e i pacifisti che lo citano a sproposito). Francesco Lepore su L'Inkiesta il 17 Ottobre 2022

Tanti politici hanno chiamato in causa le parole del Pontefice per legittimare la capitolazione di Kyjiv. Ma Francesco ha sempre detto che gli ucraini sono vittime di una «aggressione inaccettabile, ripugnante, insensata, barbara, sacrilega»

Pace. È la parola d’ordine di questi giorni. I preparativi della grande manifestazione nazionale, fissata a Roma il 5 novembre, ne sono scanditi mentre più fervono. E di essa si sostanziano le crescenti dichiarazioni sull’immediato «cessate il fuoco» in Ucraina, che, a mezza via tra alate aspirazioni all’universale fratellanza ed egoistici moti di tutela del benessere personale/comunitario, sono talora accompagnate dalle consuete geremiadi su Nato e Ue, guerrafondaie quasi ontologicamente e, dunque, cause prime delle reazioni del Cremlino. 

I ben intenzionati e desiderosi di una rapida fine della guerra, come di ogni conflitto bellico, sono indubbiamente i più. Ma con loro sono sorprendenti banditori di pace anche esponenti di partiti estremisti di destra e sinistra, di movimenti pro family, di gruppi omofobi e antiabortisti, che a Mosca sono politicamente/economicamente legati o vedono ammirati in Vladimir Putin l’antemurale dei valori naturali e cristiani portati a dissoluzione da un Occidente irrimediabilmente corrotto. 

Poco importa che la mano del presidente della Federazione Russa semini dal 24 febbraio distruzione, morte, miseria in Ucraina, che grondi senza sosta di lacrime e sangue di migliaia di innocenti. Poco importa che l’operazione speciale da lui voluta sia in realtà null’altro che la sopraffattoria invasione di uno Stato sovrano. Perché la situazione è in ultima analisi complessa e otto mesi di guerra sono pur sempre conseguenza di politiche atlantiste che hanno esasperato il difensore del russkij mir (mondo russo, ndr) e il pio vindice del “popolo uno e trino” della Santa Rus’, includente Bielorussia, Russia, Ucraina. Non meraviglia pertanto che ancora negli ultimi giorni siano apparsi appelli anche da parte di ben noti intellettuali, per i quali un “negoziato credibile” di pronta risoluzione del conflitto si tradurrebbe, stringi stringi, nella resa incondizionata dell’Ucraina a Mosca. 

Di ben altro tenore, e di fatto passata pressoché sotto silenzio, la chiara e puntuale dichiarazione della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea (Comece). Approvato all’unanimità dal presidente, il gesuita e cardinale arcivescovo di Lussemburgo Jean-Claude Hollerich, e dai restanti 19 presuli partecipanti all’Assemblea plenaria d’autunno – compreso il delegato della Conferenza episcopale ungherese, il vescovo ausiliare di Esztergom-Budapest Gábor Mohos – il testo è stato diramato venerdì in inglese, tedesco, spagnolo, francese, italiano nella forma di «accorato appello alla pace in Ucraina e nell’Europa intera. “Dirigere i nostri passi sulla via della pace” (Lc. 1,79)». 

Si parte senza giri di parole dalla «profonda tristezza per le orribili sofferenze umane inflitte ai nostri fratelli e sorelle in Ucraina dalla brutale aggressione militare dell’autorità politica russa», per passare a esprimere piena vicinanza «ai milioni di rifugiati, per lo più donne e bambini, che sono stati costretti a lasciare le loro case, così come a tutti coloro che soffrono in Ucraina e nei Paesi vicini a causa della “follia della guerra”. Siamo profondamente preoccupati per le recenti azioni che accrescono il rischio di un’ulteriore espansione del conflitto in corso, con tutte le sue incontrollabili e disastrose conseguenze per l’umanità». Non manca poi la considerazione secondo la prospettiva di «cittadini dell’Unione Europea», la quale è valutata dai vescovi quale «realtà preziosa, secondo la sua ispirazione originaria. Siamo grati per gli instancabili sforzi dei decisori politici europei nel mostrare solidarietà all’Ucraina e nel mitigare le conseguenze della guerra per i cittadini europei, e incoraggiamo fortemente i leader a mantenere la loro unità e determinazione per il progetto europeo».

Segue poi, prima dell’invocazione finale a Maria Regina della Pace, il passaggio più importante nel quale i componenti della Comece, ribadita «la piena comunione con i numerosi appelli lanciati da Papa Francesco e dalla Santa Sede», rivolgono anche loro «un forte appello ai responsabili dell’aggressione, affinché sospendano immediatamente le ostilità, e a tutte le parti affinché si aprano a ‘serie proposte’ per una pace giusta in vista di una soluzione sostenibile del conflitto». Pace che, per essere giusta e, dunque, vero quanto fruttuoso superamento della guerra in atto, è realizzabile solo «nel pieno rispetto del diritto internazionale e dell’integrità territoriale dell’Ucraina». 

Ma cos’è questa pace di cui tanto si parla? Che tanto giustamente invoca Papa Francesco? Quel Papa Francesco, mai così citato dalle alte cariche dello Stato (si pensi ai recenti discorsi d’insediamento dei neopresidenti di Senato e Camera, Ignazio La Russa e Lorenzo Fontana) e, tanto a sinistra quanto a destra, da zelanti predicatori di un «cessate il fuoco» sinonimo di resa dell’invaso all’invasore. 

Per sintesi e completezza la migliore risposta la si ritrova nel numero 2304 del Catechismo della Chiesa cattolica, in cui è condensata la bimillenaria riflessione teologica e magisteriale sul tema tra Agostino e la costituzione del Vaticano II Gaudium et spes: «La pace non è la semplice assenza della guerra e non può ridursi ad assicurare l’equilibrio delle forze contrastanti. La pace non si può ottenere sulla terra senza la tutela dei beni delle persone, la libera comunicazione tra gli esseri umani, il rispetto della dignità delle persone e dei popoli, l’assidua pratica della fratellanza. È la “tranquillità dell’ordine”. È “frutto della giustizia” (Is 32,17) ed effetto della carità».

In tale prospettiva si può meglio comprendere il personale e ricchissimo approfondimento condotto da Bergoglio sulla pace a partire da un testo miliare del suo magistero quale la Fratelli tutti, che è pienamente in linea con quello dei predecessori e pur ne è anche completamento: dalla «terza guerra mondiale a pezzi» all’attuale insostenibilità della “guerra giusta”. Punto, questo, che sembrerebbe costituire un superamento della dottrina tradizionale della Chiesa, così com’è espressa nel numero 2309 del Catechismo. 

In realtà Francesco, che nel suo nuovo libro Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza, in uscita domani, è tornato a ripetere parole già espresse altrove col dire: «Non esiste occasione in cui una guerra si possa considerare giusta. Non c’è mai posto per la barbarie bellica», ha mostrato al riguardo una costante ondivaghezza. A ben pensarci, forse sarebbe meglio dire che ha attuato di fatto una distinzione tra illegittimo (più precisamente, inesistente) diritto alla guerra e legittimo diritto alla difesa, quest’ultimo, in ogni caso, pur sempre parte essenziale della tradizionale dottrina del bellum iustum. 

Ne ha parlato proprio lui il 15 settembre, conversando coi giornalisti durante il volo di ritorno dal Kazakhstan. Si tratta di affermazioni chiave anche in riferimento alla guerra d’invasione russa e alla liceità dell’invio d’armi a Kyjiv, sul quale il Papa così esordiva un mese fa: «Questa è una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità, che sono tante e poi possiamo parlarne. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere le armi o di scartare quelle armi che a me non servono più. La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria. Chi non si difende, chi non difende qualcosa, non la ama, invece chi difende, ama. Qui si tocca un’altra cosa che io ho detto in uno dei miei discorsi, e cioè che si dovrebbe riflettere più ancora sul concetto di guerra giusta». Di comune interesse la parte finale della risposta: «La guerra in sé stessa è un errore, è un errore! E noi in questo momento stiamo respirando quest’aria: se non c’è guerra sembra che non c’è vita. Un po’ disordinato ma ho detto tutto quello che volevo dire sulla guerra giusta. Ma il diritto alla difesa sì, quello sì, ma usarlo quando è necessario».

È quanto aveva già spiegato in agosto il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato, in un’intervista a Limes, nel corso della quale, ribadito che «il disarmo è l’unica risposta adeguata e risolutiva a tali problematiche, come sostiene il magistero della Chiesa» e invitato a rileggere la Pacem in terris di Giovanni XXIII, aveva aggiunto senza giri di parole: «Si tratta di un disarmo generale e sottoposto a controlli efficaci. In questo senso, non mi pare corretto chiedere all’aggredito di rinunciare alle armi e non chiederlo, prima ancora, a chi lo sta attaccando». 

In linea di continuità, dunque, con quanto affermato dallo stesso porporato il 13 maggio durante un convegno su Giovanni Paolo I alla Pontificia Università Gregoriana: «Sull’invio delle armi ripeto quello che ho detto dall’inizio: c’è un diritto alla difesa armata in caso di aggressione, questo lo afferma anche il Catechismo, a determinate condizioni. Soprattutto quella della proporzionalità, poi il fatto che la risposta non produca maggiori danni di quelli dell’aggressione. In questo contesto si parla di “guerra giusta”: il problema dell’invio di armi si colloca all’interno di questo quadro. Capisco che nel concreto sia più difficile determinarlo, però bisogna avere alcuni parametri chiari per affrontarlo nella maniera più giusta e moderata possibile».

Intrinsecamente veritiere, dunque, le parole dei vescovi della Commissione delle Conferenze episcopali dell’Unione europea nel riaffermare «la piena comunione con i numerosi appelli lanciati da Papa Francesco e dalla Santa Sede» e la conformità al pensiero pontificio su ogni sforzo per conseguire una pace giusta nel rispetto del diritto internazionale e della salvaguardia dell’unità territoriale dell’Ucraina. Possono dire lo stesso chi si riempie la bocca del nome di Bergoglio per legittimare richieste di pace intesa come mera assenza di guerra e capitolazione di un popolo, vittima di un’«aggressione inaccettabile, ripugnante, insensata, barbara, sacrilega»? Queste sì, per chi lo ignorasse, parole autentiche del Papa.

Ucraina, fate pure i pacifisti ma guardate i fatti: le menzogne di parte. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 14 ottobre 2022

Prima i fatti. Prima che cosa è stata e continua a essere, sempre più selvaggiamente, l'operazione speciale scatenata dal regime russo. Poi, a fatti riconosciuti e non contraffatti, va bene tutto il resto. Poi è legittima qualsiasi opinione, qualsiasi ipotesi di soluzione, qualsiasi iniziativa di intervento, di astensione, di perdono, di condanna. Anche l'intimazione, da qui, dal salotto, a che gli ucraini si uniformino al cosiddetto dovere morale della resa, quello invocato a destra e a manca sul presupposto che serva a risparmiare vite; anche reclamare la fine degli aiuti in armi, perché gli ucraini devono capire che i loro figli potrebbero essere felici anche in una dittatura; persino l'equiparazione dell'aggressore e dell'aggredito a pari livello di violenza e crudeltà e responsabilità.

Ma tutto questo è rispettabile a quel patto, e cioè che il pacifismo che ne tesse la trama non si imbastisca della menzogna, della censura, della propaganda che invece sono l'alfabeto di quella propalazione. Zelensky uguale a Putin? Va bene: ma solo se non si fa fatica a ricordare che uno, non l'altro, voleva rimuovere il governo di drogati e omosessuali. I morti sono tutti uguali? Va bene: ma non se davanti alle immagini dei cadaveri di Bucha ti affretti a ipotizzare che potrebbe trattarsi di una messinscena. C'è propaganda da tutte le parti? Va bene: ma non se a sostegno del tuo pacifismo usi quella dell'aggressore.

È una guerra voluta da Joe Biden per venderci il suo gas più caro? Va bene: ma non se trascuri di ricordare che per opporsi all'imperialismo Usai russi deportano duecentomila bambini. La guerra è sempre terribile? Va bene: ma non se accetti che il tuo collega pacifista definisca "passante" il ciclista abbattuto dal cecchino. Purtroppo sono sempre i civili a farne le spese? Va bene: ma non se senti dire, senza dir nulla, che l'ospedale incenerito poteva essere un covo di nazisti. Per essere rispettabile, il pacifista deve ripulire questo mare di letame. O ripulirsene.

Le tre piazze “pacifiste” e il settario manicomio della sinistra. Ognuno per sé, in ordine sparso: da una parte Letta e il Pd, al sit-in di giovedì davanti all'ambasciata russa, dall'altra Conte e Landini che chiedono il disarmo. E la terza piazza a Calenda, a sostegno della resistenza di Kiev. Daniele Zaccaria l'11 Ottobre 2022 su Il Dubbio.

Un tempo circolava la battuta che con quattro trotzkisti puoi ottenere cinque correnti politiche. Gli amabili resti della sinistra italiana però sono addirittura riusciti a fare di meglio, moltiplicando l’offerta: tre manifestazioni “per la pace” in tre diverse piazze.

Da Conte a Calenda, le tre piazze pacifiste

C’è il raduno della strana coppia Giuseppe Conte e Maurizio Landini che chiedono negoziati subito, c’è il sit-in di Enrico Letta e il Pd davanti l’ambasciata russa, c’è l’iniziativa di Carlo Calenda e Azione a sostegno della resistenza di Kiev. Che la guerra in Ucraina avrebbe spappolato il movimento pacifista e per metonimia la sinistra tutta, si era capito fin dallo scorso febbraio, dalle tiepide reazioni di molti politici, giornalisti e intellettuali oscillanti tra l’equidistanza e lo schietto disprezzo per Volodymir Zelensky “criminale quanto e più di Putin”, sciocca pedina nelle mani della minacciosa Nato, presidente di una nazione che pullula di “nazisti”.

La piazza di Conte e Landini

Una presa di posizione che introietta la propaganda del Cremlino, che rende ambiguo qualsiasi petizione di principio e trasforma ogni nobile appello alla pace nell’indegna richiesta di resa agli ucraini. Perché il nocciolo della manifestazione Conte-Landini è proprio questo: basta con armi occidentali, basta resistere, sedetevi intorno a un tavolo e accontentate lo zar.

Di fronte a una piattaforma così indigesta Letta e Calenda avrebbero fatto buona cosa scendendo in piazza uno a fianco all’altro per ribadire la solidarietà agli aggrediti e la condanna degli aggressori. Niente affatto: ognuno per sé, in ordine sparso, come gruppetti trotzkisti, ognuno preoccupato di innaffiare il proprio striminzito giardino.

Ucraina, guerra tra leader della sinistra per le marce della pace. Elisa Calessi su Libero Quotidiano il 13 ottobre 2022

Si moltiplicano le manifestazioni che chiedono la pace in Ucraina. Molte di queste, però, paradossalmente diventano motivo di divisione. Almeno tra i partiti che scelgono o meno di aderirvi. E così se giovedì, davanti all'ambasciata russa, il Pd e Più Europa parteciperanno al sit-in promosso da Marco Bentivogli e da un gruppo di associazioni, dal titolo «Non c'è vera pace senza verità. Non c'è verità senza libertà», Giuseppe Conte e il M5S, invece, non ci saranno. Si preparano, però, ad aderire alla manifestazione che per metà novembre (il 12 o il 19) Arci, Acli e altre associazioni puntano a organizzare. Intanto c'è la mobilitazione che dal 21 al 23 ottobre Rete italiana pace e disarmo, Arci, Acli e altri hanno promosso in varie piazze italiane. E ancora non si è capito quale partito aderirà. Poi c'è la Comunità Sant' Egidio, che ha promosso un evento dal titolo «Incontro di dialogo e preghiera per la pace tra le religioni mondiali» che si svolgerà a Roma dal 23 al 25 ottobre: parteciperanno il presidente Sergio Mattarella, Emmanuel Macron, Mohamed Bazoum, presidente del Niger e, in chiusura, Papa Francesco. Non è finita. Il 28 ottobre, la Regione Campania ha lanciato una iniziativa per la pace, a cui aderirà la Cgil. Un'altra, poi, si terrà il 5 novembre «per il lavoro e la pace», lanciata da Maurizio Landini, segretario della Cgil, dal palco di piazza del Popolo sabato scorso.

PUNTI DI VISTA DIVERSI

Un fiorire di eventi che dà voce a un sentimento diffuso, ma, ma manifesta accenti diversi nel guardare a quanto accade in Ucraina. Chi sottolinea di più l'aggressione da parte della Russia, chi la richiesta di pace da entrambe le parti. E così le piazze finiscono per dividere. In particolare, dividono Pd e M5S, sempre più concorrenti nel rappresentare la sinistra. E nel mettere un cappello alla galassia pacifista. La prima iniziativa, in ordine cronologico, si svolge giovedì. Si chiede il «cessate il fuoco immediato», lo «stop all'escalation nucleare», una «commissione internazionale» per accertare la verità sui crimini accaduti in Ucraina, «riconoscere la libertà di parola ai dissidenti russi» e il «ritiro delle truppe russe». Ci sarà il Pd. Ma non il M5S. «Mi sembra», spiega Matteo Orfini, «che da parte di alcuni ci sia la volontà di utilizzare la pace per una divisione strumentale a fini interni». Conte? «È un trasformista, non c'è nulla di sincero nelle sue posizioni». E così la pensa Bentivogli, promotore del sit-in: «C'è una distinzione fra aggressore e aggredito, non c'è equidistanza», mentre «il pacifismo ideologico che si fonda sugli equivoci nasconde obiettivi lontani dalla pace». Quanto a Conte «oggi veste i panni del pacifista», ma «sulle spese militari, mi sembra che abbia già cambiato idea almeno una volta». Il capo del M5S, in ogni caso, ha già fatto sapere che non ci sarà giovedì. Guarda, piuttosto, alla piazza che Arci e Acli stanno organizzando per metà novembre, il 12 o il 19. «Parteciperemo», ha detto ieri, «alla grande manifestazione nazionale per la pace in corso di preparazione. Vi prenderemo parte senza bandiere. Non vogliamo mettere nessun cappello politico rispetto a un'occasione, per tutti i cittadini, di manifestare la propria preoccupazione per questa escalation militare e per invocare una svolta in direzione di un negoziato di pace». Intanto Carlo Calenda lancia una sua manifestazione a Milano, contro quella di Conte che sarebbe «per la resa dell'Ucraina».

LA NOTA

Anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, prende le distanze da Conte: «Le manifestazioni per la pace sono sempre un fatto positivo, ma che chi ha responsabilità di governo deve sempre distinguere tra chi aggredisce e l'aggredito. Nel dibattito pubblico ci sono state delle ambiguità». Nel caos delle piazze, una nota del Pd prova a mettere chiarezza e a evitare divisioni: «La linea del Pd sulla guerra è netta, limpida, fin dal principio. Noi partecipiamo e sosteniamo ogni iniziativa che abbia come obiettivo la pace e che allo stesso tempo, chiaramente, non presenti ambiguità sulle responsabilità dell'aggressore, vale a dire la Russia di Vladimir Putin». E lo stesso Enrico Letta ha precisato che c'è pacifismo e pacifismo: «Noi partecipiamo a tutte le iniziative che vogliono ribadire la necessità della pace e ovviamente a tutte quelle in cui viene dato il segnale del fatto che c'è una responsabilità chiara da parte della Russia». 

La “guerra” per accaparrarsi le piazze della pace. Cinque manifestazioni diverse già annunciate, con i partiti che provano a metterci la propria bandiera. Tra distinguo, equilibrismi ed accuse reciproche. Gabriele Bartoloni il 13 Ottobre 2022 su L'Espresso.

Le piazze per la pace rendono plastica la divisione all’interno dei partiti di opposizione: uniti nel chiedere il cessate il fuoco, ma divisi sul come arrivarci. Il Pd e soprattutto il Terzo polo si mostrano scettici (eufemismo) verso le iniziative pacifiste annunciate dal Movimento 5 stelle. Un sentimento ricambiato dai pentastellati, sui quali pende la stessa accusa rivolta anche al pacifismo “movimentista”, ovvero quella di tenere un atteggiamento ambiguo nei confronti della condanna alla Russia e nel sostegno all’Ucraina. Dall’altra parte l’accusa lanciata è quella di favorire l’escalation militare attraverso l’invio di armi.

Distinguo e accuse reciproche. Le posizioni per arrivare alla pace, tra partiti e le realtà associative, sono tante quante gli appuntamenti annunciati. Negli ultimi giorni le iniziative pacifiste hanno cominciato a riempire il calendario delle piazze per il prossimo mese. Da qui fino a metà novembre verranno organizzate almeno 5 mobilitazioni. Alcune di loro coinvolgeranno contemporaneamente più città, come la tre giorni del 21, 22 e 23 ottobre. Prima tappa a Roma, davanti all'ambasciata russa. Il sit-in è stato organizzato dal Movimento Europeo Azione Nonviolenta (Mean) e rispecchia la visione pacifista portata avanti anche dal Pd. I dem non hanno esitato un secondo prima di dichiarare la loro partecipazione. Una mossa decisa da Enrico Letta e presa con il fine di allontanare l’immagine di un partito ingolfato dalle dinamiche interne. Fino al giorno prima, però, il pericolo era che la manifestazione finisse per accentuare ancor di più l’isolamento del Pd, anziché rilanciarne l’azione. Alla fine, dopo un primo rifiuto, anche Carlo Calenda ha annunciato la sua partecipazione. Del resto i toni sono quelli che piacciono all’ex ministro: condanna dell’invasione, solidarietà con l’Ucraina e ritiro delle truppe russe. E non è un caso che nella convocazione non ci sia nessuna richiesta riguardo lo stop all’invio di armi. Un dettaglio non da poco. Anzi, è il principale motivo che divide le piazze per la pace e i rispettivi supporter. Il M5s non ha mai nascosto la contrarietà all’invio di nuovi armamenti, così come una parte del fronte pacifista che scenderà in piazza nella tre giorni di ottobre. I promotori sono le associazioni che aderiscono alla Rete italiana pace e disarmo. Lo slogan della manifestazione è chiaro: “Tacciano le armi, negoziato subito”. E ancora: «Le armi non portano la pace, ma solo nuove sofferenze per la popolazione», si legge nel manifesto della convocazione.

Per Calenda lo stop alle forniture militari significa - parole sue - «chiedere la rese delle Ucraini». Da escludere, dunque, la partecipazione del leader di Azione. Altra questione vale per il Pd. Le piazze pacifiste, per i dem, rischiano di trasformarsi nell’ennesima occasione per dividersi. Alcuni esponenti di peso, come Laura Boldrini e Graziano Delrio, hanno annunciato che prenderanno parte a tutte le manifestazioni organizzate dalla società civile. I due esponenti dem sono ascrivibili alla “corrente” che ultimamente ha posto l’accento su una soluzione diplomatica e meno bellicista. Letta si muove come un funambolo, facendo sapere che il Pd parteciperà a tutte le manifestazioni per la pace, «purché - ha specificato - non ci sia equidistanza tra aggressore e aggredito». Una formulazione che non chiude del tutto la porta alle altre manifestazioni.

Il M5s, invece, ha già fatto sapere che al sit-in davanti all'ambasciata russa non intende partecipare. Giuseppe Conte la considera come nient'altro che un tentativo da parte del Pd di appropriarsi del pacifismo. La verità, però, è che da entrambe le parti, negli ultimi giorni, è partita la gara ad accaparrarsi le piazze contro la guerra. Una rivalità che rientra nello schema più ampio della competizione a sinistra. Del resto anche Conte ha annunciato la partecipazione del Movimento a una manifestazione pacifista. E lo ha fatto prima che lo facesse il Pd. Una data ancora non c’è. Quel che è certo è che il M5s si presenterà senza bandiere e in compagnia di altre realtà civiche e progressiste. Potrebbe aggregarsi alle altre due manifestazioni programmate per novembre. La prima, a Roma, è fissata per il 5 novembre. Organizzata da 500 realtà tra associazioni, sindacati, single antimafia e movimenti ambientalisti, l'obiettivo è duplice: chiedere la pace e rilanciare un’agenda sociale, la stessa su cui intendono puntare i pentastellati per accaparrarsi la sinistra scippandola al Pd. L’altro appuntamento buono per i 5 stelle potrebbe essere quello di metà novembre (il 12 o il 19), sempre nella Capitale, organizzato da Acli e Arci. 

La manifestazione di cui ha parlato Conte, oltre ad acuire la rivalità con il Pd, ha avuto l’effetto di crearne un’altra, l’ennesima. Calenda, sentito dell’iniziativa dell’avvocato, non ha esitato a promettere che, anche lui, organizzerà «una grande manifestazione a Milano se Conte porterà in piazza le persone che sono a favore della resa dell'Ucraina, non della pace». Insomma, una contro-manifestazione che punta a tracciare un’ulteriore linea di demarcazione nel pacifismo italiano. Da non dimenticare, inoltre, la manifestazione a Napoli indetta dal presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca, esponente dem. Il governatore che evocava i lanciafiamme ha abbandonato le vesti di sceriffo per indossare quelle di convinto pacifista. Per De Luca, ora, è necessario «cominciare a introdurre nel linguaggio della politica la parola "pace", che sembra ormai cancellata». Appuntamento fissato per il 29 ottobre.

Ucraina, Enrico Mentana impallina i finti pacifisti, post durissimo: con chi ce l'ha. Il Tempo il 11 ottobre 2022

Enrico Mentana torna a parlare sui social della guerra e dopo aver proposto una grande manifestazione senza colori o bandiere per l'Ucraina libera e il ritiro delle truppe russe ha scritto un post su Instagram contro i finti pacifisti.

"A coloro che hanno scambiato la speranza di pace con la pretesa di essere lasciati in pace, a coloro che ogni giorno vogliono spiegare a Zelensky e ai suoi soldati come si fa e come non si fa la resistenza contro un esercito invasore, a coloro che rivendicano via Rasella ma condannano il sabotaggio del ponte in Crimea, a coloro che mettono sullo stesso piano occupanti e vittime degli occupanti, a coloro che sostengono che Putin ha anche le sue ragioni; a tutti voi propongo di andare a spiegare le vostre ragioni alle donne, agli anziani e ai bambini costretti a scappare dall'Ucraina dopo l'attacco russo", premette il direttore del Tg La7 che dopo aver individuato gli interlocutori arriva al punto. 

"Ditelo voi a quei sei milioni di profughi riparati in terra straniera che è più importante la vostra pretesa di stare in pace che il diritto a riavere la loro terra, la loro casa, la loro libertà, la loro nazione", scrive il giornalista che ha scatenato una grande quantità di commenti, non tutti positivi. C'è chi attacca i "rivoluzionari da divano" capaci di "giudicare i profughi e i soldati dalla comodità del proprio salotto", ma anche chi fa notare a Mentana  "che proprio la pace ridarrebbe la dimora a quelle 6 milioni di persone". 

Ieri Mentana aveva lanciato l'idea della manifestazione pro-Ucraina, che qualcuno aveva letto come una stoccata a quella promossa dal leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte, il giorno precedente aveva scritto un altro durissimo post su Facebook: "Come si temeva, più la guerra va avanti e più si tende a dimenticare chi ha attaccato e chi si è difeso. E molti scambiano la pace con il loro desiderio di essere lasciati in pace". 

I volenterosi carnefici di Putin. Il genocidio degli ucraini e le responsabilità dei russi (di tutti i russi). Christian Rocca su L'Inkiesta l'11 Ottobre 2022.

Di fronte ai crimini di guerra in Ucraina, non si vede nessuna mobilitazione o protesta pacifista a Mosca, e nemmeno da parte dei russi che vivono all’estero e non rischiano niente. La storia ricorda che il Cremlino ha provato a cancellare Kyjiv con lo Zar, con l’Urss e ora con Putin

I russi invadono, stuprano e cancellano la cultura, la lingua e il popolo ucraino da più di un secolo, anche con la pianificazione della carestia dei contadini (1932-33), le Grandi Purghe (1936) e l’eliminazione fisica di un’intera generazione di intellettuali (1937-38).

Basta leggere un buon libro di storia per saperlo, consiglio quelli di Anne Applebaum e di Timothy Snyder. Basta anche parlare con un ucraino qualsiasi, il quale potrà testimoniare di bisnonni morti per la fame pianificata da Stalin, di nonni finiti sotto le purghe sovietiche, di parenti umiliati come nemici del popolo, di conoscenti incarcerati perché scrivevano in lingua ucraina e di amici esposti per settimane alle radiazioni di Chernobyl senza che Mosca gli dicesse che cosa era successo.

Non si contano i colpi di Stato russi in Ucraina, le dichiarazioni di indipendenza domate nel sangue, i presidenti fantoccio del Cremlino che hanno sparato sulla folla per obbedire agli ukase di Mosca e allontanare Kyjiv dall’Europa.

Questo genocidio ininterrotto del popolo ucraino è stato perpetrato dalla Russia guidata dallo Zar, dalla Russia guidata dai comunisti e dalla Russia guidata da Putin. Zar, Urss e Putin uniti nella lotta per cancellare l’Ucraina e gli ucraini.

Pensare che questa ultima fase del genocidio ucraino sia opera esclusiva dell’attuale capo del Cremlino vuol dire non conoscere la storia dell’imperialismo russo né la famigerata cultura coloniale dei russi in generale e in particolare rispetto agli ucraini.

Credere che in tutto questo non ci sia alcuna responsabilità del popolo russo, dei volenterosi carnefici di Putin come lo storico Daniel Goldhagen ha definito il popolo tedesco rispetto a Hitler, vuol dire non conoscere quanto sia radicato il suprematismo russo nei confronti degli ucraini e, di conseguenza, l’inossidabile volontà di resistenza degli ucraini.

Gli ucraini sanno chi sono i russi, sanno che cosa hanno sempre fatto, sanno che cosa faranno, sanno che se devono morire è meglio farlo difendendo la propria famiglia, la propria casa, la propria cultura. Purtroppo gli italiani non lo sanno, e non fanno nulla per nascondere la loro ignoranza sui social e sui giornali.

Meno di un mese dopo l’invasione del 24 febbraio, mentre le televisioni russe inondavano l’etere anche italiano di odio suprematista nei confronti degli ucraini, ho scritto che non si vedeva la rabbia dei russi per quello che stava succedendo. Where’s the outrage?, dov’era e dov’è la collera dei russi?

Non c’è stata nessuna mobilitazione, non ci sono state proteste significative, si sono viste solo adunate a favore del regime nella Piazza Rossa, si sono sentite solo le furie omicide dei conduttori televisivi di prima serata e le telefonate dei soldati russi incitati dai familiari a stuprare e a uccidere quanti più ucraini possibile. Ucraini colpevoli soltanto di essere ucraini.

Sette mesi dopo quell’articolo, otto mesi dopo l’invasione militare e le centinaia di stragi di civili, non si è ancora vista una mobilitazione, una manifestazione, niente di niente. Non si è vista nemmeno una protesta dei tanti russi che vivono all’estero e che non rischiano nulla.  Nessun presidio davanti alle ambasciate del loro paese. Zero, soltanto la fuga da casa per evitare di essere arruolati e mandati al fronte.

I russi che sono rimasti in patria stanno zitti, si voltano dall’altra parte, non criticano Putin se non di essere poco risoluto. Intanto schiacciano bottoni che lanciano missili sugli ospedali, sulle fermate degli autobus, sui parchi-giochi, sulle scuole, sui centri commerciali, assicurandosi di farlo durante l’ora di punta oppure di notte se l’obiettivo invece sono le abitazioni private.

Sono cittadini russi quelli che uccidono a sangue freddo nelle zone occupate, quelli che buttano i corpi nelle fosse comuni a Bucha e altrove, quelli che stuprano le ragazze e fanno razzia nelle case ucraine, mentre i loro connazionali a casa si lamentano di non poter più accedere a Netflix e per questo chiedono al boia del Cremlino di intensificare le stragi e di spaventare gli europei, riuscendoci.

I russi vogliono uccidere gli ucraini, cancellare la lingua ucraina, negare l’indipendenza ucraina.

Gli ucraini non vogliono uccidere i russi, non vogliono cancellare la lingua russa, non negano il diritto dei russi di avere un loro Stato.

Gli ucraini si sentono europei, occidentali e democratici. Non vogliono i russi in casa, perché sanno che cosa gli succede sotto occupazione. Gli ucraini vogliono essere indipendenti e resistono come possono, anche con il nostro aiuto, al secolare genocidio orchestrato dai russi.

Nessun russo si senta escluso da questa responsabilità.

La neolingua dei furbi che dà la colpa alla vittima. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 10 Ottobre 2022. 

Sia a destra sia a sinistra, uscito di scena Draghi riemergerà chi vuole ridurre le armi a Kiev e le sanzioni a Mosca. Antica scuola comunista, quel furbone del governatore campano Vincenzo De Luca ha preso tutti in contropiede. Appena ha sentito che Giuseppe Conte (reduce da un successo elettorale proprio nella sua regione) annunciava una manifestazione nel segno della colomba, ha preso per il braccio il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi e ha convocato una parata tutta sua. Il 28 ottobre, per giunta, nel centenario della marcia su Roma. Meno lesti di De Luca, tutti o quasi i dirigenti del Partito democratico, piccoli e grandi, si sono messi in sintonia con i tempi nuovi. Così, per gettarsi tra le braccia del Movimento Cinque Stelle, stanno cercando un modo non disdicevole di invertire la rotta e abbracciare la causa pacifista. I deputati Pd al Parlamento europeo, in otto, assieme a leghisti e pentastellati, hanno fatto proprio un emendamento di due deputati della sinistra irlandese anti Nato, Mick Wallace e Clare Daly. Altri europarlamentari Pd, compresa l’antifona, si sono trattenuti. Del loro capodelegazione, Brando Benifei, si è capito soltanto che nel caos ha votato prima sì e poi no (o viceversa). Chiaro che non si stavano dividendo tra chi era più o meno favorevole al negoziato. Bensì sul riavvicinamento al M5S.

Nelle settimane iniziali della guerra d’Ucraina, Enrico Letta era stato il più esplicito sostenitore delle ragioni degli aggrediti. Mentre altri leader politici italiani si perdevano in uno specioso dibattito sulle responsabilità remote del conflitto nonché sull’opportunità o meno di armare l’Ucraina e sanzionare la Russia, l’Italia ha avuto — anche grazie a Letta — una posizione coerentemente filoatlantica. Per merito soprattutto di Sergio Mattarella e di Mario Draghi. Così come dei terzopolisti. E persino, le va riconosciuto, di Giorgia Meloni, la quale, pur stando all’opposizione, in politica internazionale si è sempre schierata con il governo.

Uscito di scena Draghi, le cose saranno meno semplici. Giorgia Meloni avrà il suo daffare nel tenere a bada la voglia matta di Salvini e Berlusconi di riallacciare il dialogo con Putin. E a sinistra, pur restando Letta segretario pro forma per i prossimi sei mesi, già si annunciano festeggiamenti arcobaleno sulla scia di Conte e De Luca. In un labirinto di formule nelle quali sarà arduo individuare dov’è che si è imboccata la via che conduce ad un’unica meta: togliere (o ridurre) le armi a Kiev e togliere altresì (o ridurre) le sanzioni a Mosca.

Per quel che riguarda il tragitto sarà sufficiente dare un’aggiustatina alle parole. Basterà presentare come tappa dell’«escalation» ogni atto di guerra ucraino. Mai invece quelli russi siano anche missili su un campo giochi di Kiev. Quelle saranno sempre «reazioni». Il capo del governo di Kiev andrà poi definito «guitto», «fantoccio», un «irresponsabile», al quale lo stesso Blinken è costretto a inviare «pizzini perché si dia una calmata». La primavera scorsa le parti erano invertite. Biden e il segretario della Nato Stoltenberg avrebbero — secondo le stesse fonti — «bloccato tra marzo e aprile una bozza d’accordo Mosca-Kiev». Adesso invece il presidente statunitense, evidentemente, starebbe cercando un’intesa con Putin ed ecco che Zelensky, capo del «partito della guerra a tutti costi», prende iniziative inconsulte per far naufragare quelle trattative.

Il che legittimerebbe una lunga serie di stravaganti domande: fino a dove vuoi spingerti Zelensky? Vuoi destabilizzare Putin portandolo a compiere gesti inconsulti? Intendi forse trascinarci in una guerra mondiale? Dicci una buona volta a quali parti del tuo Paese sei disposto a rinunciare e lascia a noi il compito di trattare al posto tuo dal momento che tu non hai la serenità necessaria per dialoghi di questo genere. E fallo in fretta perché siamo stufi di pagare aumenti in bolletta per comprarti armi sempre più sofisticate. Nel frattempo, limitati a difendere le posizioni che hai già e non azzardarti a compiere azioni di guerra su terre che furono sì Ucraina ma che ora sono state incamerate dai tuoi aggressori.

Forse un giorno qualcuno di noi si stupirà di aver potuto far propri ragionamenti di questo genere. Capirà quel giorno l’implicito danno che — come ha scritto ieri su queste pagine Angelo Panebianco — si sta facendo all’idea stessa di Europa. C’è tuttavia un modo per salvare almeno in parte l’onore e la faccia. Facciamo sì che quelle «grandi manifestazioni per la pace senza bandiere di partito» partano ogni volta dai cancelli romani dell’ambasciata russa. E portiamo lì cartelli in cui sia ben identificabile il volto dell’uomo al quale è riconducibile l’attuale carneficina. Un luogo, villa Abamelek, tradizionalmente disertato dai cortei antimilitaristi dei decenni passati (eccezion fatta per quelli radicali di Marco Pannella). E anche dalle manifestazioni (non tutte, per fortuna) di questi giorni. Per i tristi motivi che ben si capivano allora. E che ben si capiscono anche oggi.

Non c’è vera pace senza verità. Non c’è verità senza libertà. Pace sì, ma a cominciare dal ritiro russo dall'Ucraina. È la piattaforma dell'appello lanciato da intellettuali come Luigi Manconi e Sandro Veronesi, e  politici come Marco Bentivogli. Il Dubbio il 10 ottobre 2022.

Pace sì, ma a cominciare dal ritiro russo dall’Ucraina. È la piattaforma dell’appello “Non c’è vera pace senza verità. Non c’è verità senza libertà”, lanciato da intellettuali come Luigi Manconi e Sandro Veronesi, e attivisti come Marco Bentivogli.

“Non c’è vera pace senza verità. Non c’è verità senza libertà”, recita l’appello.

«Come cittadini e associazioni chiediamo di mobilitarci su questa piattaforma:

Cessate il fuoco e ritiro immediato delle truppe russe dal territorio ucraino;

Fermiamo escalation nucleare e riprendiamo il percorso del disarmo dalle armi atomiche;

Riconoscere la piena indipendenza ed autonomia dello Stato Ucraino dalla Federazione Russa nei confini riconosciuti dalla comunità internazionale prima del 2014;

Riconoscere la libertà di parola e di obiezione di coscienza ai giovani russi;

Sostenere ed accogliere i cittadini russi che protestano contro l’aggressione e sfuggono alla coscrizione;

Agevolare l’insediamento di una Commissione internazionale di Verità e Riconciliazione sull’accertamento dei fatti avvenuti nel Donbass, in Crimea, in Ossezia del Sud, in Transnistria ed in Abkazia;

Cooperare al disarmo delle zone interessate dal conflitto odierno ed agevolare l’intervento dei Corpi Civili di Pace;

Cooperare per il funzionamento di negoziati che garantiscano una pace giusta e duratura.

Perché l’Europa, insieme ad altri, sia in prima linea nel costruire un nuovo quadro di pace e sicurezza per tutte e tutti, basato sul miglioramento delle democrazie, rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale di ogni paese. Non possiamo fermare la guerra con le nostre mani, ma insieme possiamo chiedere di far avanzare la pace! Siamo tutti Ucraini, Siamo tutti Europei».

Costruire mobilitazioni in ogni città a  partire da giovedì 13 ottobre a Roma, davanti all’ambasciata russa a Castro Pretorio.

Primi firmatari: Marco Bentivogli, Marianella Sclavi, Angelo Moretti, Riccardo Bonacina, Luigi Manconi, Sandro Veronesi, Costantino De Blasi, , Leonardo Becchetti, Luca Diotallevi, Angelo Rughetti, Angelo Moretti, Michele Boldrin, Mauro Magatti, Luca Jahier, Ernesto Preziosi, Flavio Felice, Roberto Rossini, Emanuela Girardi, Victor Magiar, Stefano Arduini, Giovanna Melandri, Mario Giro, Matteo Hallissey, Francesco Intraguglielmo, Piercamillo Falasca

Associazioni aderenti: Mean, Base Italia, LiberiOltre, Comitato Giovani per l’Ucraina, Rete dei Piccoli Comuni Welcome, Sale della terra, RLS, Casa del Giovane

La dottrina Marin. Appunti per i pacifisti: la guerra si ferma solo se la Russia lascia l’Ucraina. Christian Rocca su L'Inkiesta il 10 Ottobre 2022.

Il governo di Kyjiv sta vincendo ma editorialisti sedicenti democratici e putiniani di ogni ordine e grado gli chiedono di fermarsi, indignati per l’attacco al ponte di Crimea. Il loro cinismo è ripugnante, ma ora c’è il rischio che questo rossobrunismo faccia breccia anche nel Pd, che è stato fin qui un baluardo dei valori della democrazia liberale.

Nemmeno un editoriale, una manifestazione, una mobilitazione per provare a imporre o a suggerire la pace a Vladimir Putin, cioè a colui che se si fermasse finirebbe immediatamente la guerra in Ucraina.

Niente. Solo miserabili «Zelensky si fermi», rivolti a colui che se si fermasse finirebbe immediatamente l’Ucraina, non la guerra.

Solo «basta aiuti». Solo «basta armi», armi che nel caso dei sistemi antimissili che non abbiamo ancora fornito a sufficienza a Kyjiv salverebbero migliaia di vittime civili ucraine sotto il tiro dei criminali russi e che per il resto sono l’unica ragione per cui un intero popolo, un’intera nazione, un’intera cultura non è stata ancora cancellata dagli invasori.

Solo equidistanza tra aggressori e aggrediti, che equidistanza però non è. Semmai è una capitolazione all’imperialismo rossobruno, dettato dall’illusione che cedere all’aggressore magari ci risparmierà la sua ira, ci farà pagare meno le bollette e poi in fondo gli ucraini sono mezzi russi, scrivono in cirillico, che ce ne frega a noi.

Le manifestazioni pacifiste convocate dal Conte che da premier durante il lockdown ha umiliato l’Italia, l’Europa e la Nato facendo sfilare l’esercito russo per la prima volta in Occidente dalla seconda guerra mondiale, e poi le mobilitazioni sindacali “I Love Gazprom” e i suggerimenti via editoriale agli ucraini di non difendersi, di accettare lo status quo, di lasciar morire i propri connazionali sotto occupazione non sono una novità di metà ottobre.

Li abbiamo sentiti e letti e sopportati fin dal 24 febbraio, anzi da prima. Sono gli stessi mentecatti che prima negavano come fake news americane le notizie sulla mobilitazione russa ai confini dell’Ucraina, poi spiegavano che mai e poi mai Mosca avrebbe attaccato l’Ucraina, poi che Kyjiv sarebbe caduta in tre giorni, poi a mano a mano che l’invasore veniva allontanato dalla capitale che l’obiettivo russo non era mai stato Kyjiv, poi che la fornitura di armi occidentali avrebbe peggiorato la situazione degli ucraini e così via, di panzana in panzana. Erano bugie, analisi campate in aria e propaganda russa, in prima serata tv.

Ora che il favoloso popolo ucraino riconquista ogni giorno una città occupata illegalmente da Mosca, e che Mosca è costretta a mobilitare la popolazione civile per farne carne da macello in Ucraina, gli stessi sapientoni al servizio consapevole o no della propaganda del Cremlino chiedono senza pudore al governo di Kyjiv di fermarsi in nome della pace. Malimorté!

Sono gli “utili idioti” di Vladimir Putin. Sono tanti. Si trovano ai vertici dei giornali, dei partiti, dei sindacati. Sono gli stessi che nel 2018 avevano un programma elettorale ispirato alla peggiori panzane del Cremlino, gli stessi che sfoggiavano magliette di Putin e firmavano accordi politici col suo partito unico, gli stessi che invocano la resa ucraina dal primo giorno di guerra, gli stessi che tuonano ancora oggi contro la Nato e la globalizzazione con la posa caricaturale da reduci del comunismo.

Sono indifferentemente di destra e di sinistra, sono membri fondatori del bipopulismo perfetto italiano che avvelena il nostro dibattito pubblico.

Per fortuna, ci sono ancora i governi europei e occidentali e le istituzioni internazionali che, a differenza delle società (in)civili che animano il discorso pubblico sotto l’egemonia culturale dei troll russi, continuano invece a difendere l’Ucraina, la democrazia e tutti noi.

Quello che è successo nel weekend segna un punto di non ritorno nell’oscenità morale dei volenterosi complici di Putin. Gli ucraini hanno fatto saltare in aria un pezzo del ponte della Crimea, nello stretto di Kherc, costruito dai russi dopo l’invasione militare della penisola ucraina del 2014 e inaugurato con solennità da Vladimir Putin nel dicembre del 2019, quale simbolo monumentale dell’imperialismo aggressivo del Cremlino.

Un ponte costruito in territorio ucraino da Mosca per facilitare il flusso di mezzi militari russi in un’Ucraina occupata illegalmente secondo il diritto internazionale tranne che per i giuristi salviniani, per i Cinquestelle, per la feccia rossobruna e per gli opinionisti sedicenti democratici.

Un ponte costruito anche per traferire i russi in Crimea e deportare gli ucraini e i tatari dall’altra parte come ai tempi di Stalin, crimini sempre accompagnati dall’ipocrita retorica sovietica – cara anche al Comitato del Nobel che premia russi, bielorussi e ucraini – della fratellanza tra i due popoli che non sono fratelli manco per niente, visto che uno dei due stupra, violenta, affama e massacra impunemente l’altro da secoli.

I volenterosi complici italiani di Putin si sono dunque indignati per l’attacco al ponte che fino a qualche giorno abbiamo visto sui social che i russi hanno usato per trasferire in Ucraina una colonna di carri armati lunga qualche chilometro.

Eppure non hanno espresso alcuna riprovazione per i bombardamenti russi sugli ospedali e sulle scuole ucraine, per le stragi di civili alle fermate dell’autobus e nei centri commerciali, per il rapimento di migliaia di bambini, per le abitazioni private sventrate, per gli stupri, per le razzie. E nemmeno per le fosse comuni e per gli ultimi crimini di guerra commessi nel quartiere residenziale di Zaporizhzhia sabato notte e nel centro di Kyjv questa mattina.

E se gli attuali indignati del ponte hanno parlato o scritto dei crimini di guerra russi lo hanno fatto soltanto per sollevare dubbi sulla veridicità delle notizie, sospettate di essere sceneggiate hollywoodiane come suggeriva la propaganda del Cremlino.

Il fatto che proprio ora che l’Ucraina sta vincendo la guerra sul campo le venga chiesto di fermarsi è ripugnante, ancora più di quando le chiedevano di arrendersi perché tanto avrebbe perso lo stesso. Questi che sfilano in piazza e che postano sui social non sono pacifisti, parteggiano per la parte opposta, quella dei criminali russi.

Il virus della resa a Putin mentre Putin sta perdendo si sta diffondendo anche in ambienti che finora sembravano immuni, come nel Pd guidato da Enrico Letta che è stato il leader di partito piu seriamente solidale con gli ucraini. Ma adesso si è aperto un dibattito sulle ragioni della sconfitta elettorale del 25 settembre, e una di queste, secondo i leader del Pd, sarebbe proprio la scelta di schierarsi con l’Ucraina non apprezzata dagli elettori.

Ci sono già le prime avvisaglie di questa ulteriore capitolazione del Pd a furor di populismo: gli editoriali dei giornalisti d’area, i sette europarlamentari che hanno votato un emendamento dei rossobruni amici di Putin a Bruxelles (prima di rientrare nei ranghi e riprendere a votare insieme con gli altri), i soliti Orlando e Provenzano che inseguono il “leader fortissimo di tutti i partigiani per la pace”, per non parlare dell’alleato Fratoianni (preferito a Calenda) che marcia con Conte e vota contro gli aiuti militari all’Ucraina e contro l’adesione di Finlandia e Svezia alla Nato.

Ovviamente il Pd non è ancora perso. Oggi su Linkiesta ospitiamo l’opinione della vicepresidente del Parlamento Europeo Pina Picierno, la quale spiega che gli elettori non si recuperano certo abbandonando gli ucraini e i principi fondativi del Pd. La stessa cosa scrive quotidianamente su Twitter Filippo Sensi.

Vedremo come si evolverà la partita per la successione a Letta ma – come dice Sanna Marin, la leader di un Paese alleato, la Finlandia, che per ragioni storiche e geografiche è molto più preoccupato dell’imperialismo russo rispetto a noi – «il solo modo per finire la guerra è che la Russia se ne vada dall’Ucraina».

La “dottrina Sanna Marin” è l’unica ricetta possibile per la pace.

Ipocrisie atomiche. Nelle fosse comuni dell’Ucraina è sepolta anche la presunta superiorità morale della sinistra. Francesco Cundari su L'Inkiesta l'8 Ottobre 2022.

Nessuno pensa che si possa scherzare con il pericolo di una guerra nucleare. Ma chi lo agita per sostenere che dobbiamo scaricare Zelensky deve dirci cosa pensa che accadrà, durante e dopo l’ipotetico negoziato, nelle zone sotto occupazione russa

Qualunque cosa si pensi della cosiddetta egemonia della sinistra comunista e post-comunista – io penso sia stata assai sopravvalutata anche nei suoi anni d’oro, figuriamoci ora – è indiscutibile che si basava su due cardini: il fondamentale contributo dato dal Pci alla Resistenza e il collegamento, ovviamente carico di forzature propagandistiche, tra quell’esperienza e la tradizione risorgimentale. L’autorità del Pci di Palmiro Togliatti e dei suoi successori, anzitutto su un certo mondo della cultura, veniva da lì, da quell’operazione che aveva sin dall’inizio puntato a depotenziare il più possibile le spinte rivoluzionarie di una parte del movimento partigiano, che pure c’erano, per inserirlo piuttosto nel novero dei movimenti di liberazione e indipendenza nazionale, sotto l’effigie di Giuseppe Garibaldi.

L’operazione aveva una sua forza perché i comunisti a quella lotta di liberazione dal fascismo e dall’occupante tedesco avevano pagato il prezzo più alto di tutti. Le radici della cosiddetta superiorità morale della sinistra – comunque la si intenda e la si giudichi – affondano lì.

Ecco perché fa oggi particolare impressione sentire tanti presunti eredi di quella tradizione fare a gara con Giuseppe Conte nell’indebolire il sostegno italiano alla causa ucraina, formulando odiose circonlocuzioni per mettere in discussione gli aiuti, anche militari, alla resistenza del paese aggredito e alla sua lotta per la libertà, che è prima ancora, banalmente, lotta per la sopravvivenza della sua popolazione. Se ne è avuto più di un esempio anche dal dibattito nella direzione del Pd (dove comunque, grazie al cielo, simili posizioni appaiono ancora minoritarie, almeno ufficialmente).

Da quando è cominciata la controffensiva ucraina, praticamente ogni giorno, nelle zone via via liberate, emergono nuove fosse comuni e nuove camere di tortura, insieme con le infinite testimonianze sulle atrocità commesse dagli occupanti russi.

Nessuno pensa che si possa scherzare con il pericolo di un conflitto nucleare. Come si vede dalle ultime dichiarazioni di Biden, nemmeno gli Stati Uniti. Ma coloro che da tempo agitano questo spettro per sostenere che dobbiamo scaricare Zelensky, che dobbiamo pensare alla pelle nostra, che dobbiamo distinguerci dalla posizione di quei paesi che più si sono impegnati nell’appoggiare la controffensiva ucraina (definendoli addirittura «bellicisti», perché non avrebbero risposto alla richiesta d’aiuto degli aggrediti dicendo di mettere dei fiori nei loro cannoni), tutti costoro devono dirci cosa pensano che accadrà nei territori ancora occupati dai russi, durante e magari anche dopo l’ipotetico negoziato di pace da loro auspicato.

Tutti vogliamo la pace e speriamo che la guerra finisca al più presto. Io però mi sento di aggiungere che vorrei finissero anche i massacri, le torture, le deportazioni e tutte le atrocità di cui, da Bucha in avanti, abbiamo avuto una quantità di prove e testimonianze indipendenti che nessuna persona in buona fede può più mettere in dubbio.

Qualunque cosa accada, è inevitabile ormai che con l’andare del tempo quelle immagini e quelle testimonianze si accumulino e presentino il conto, oggi dalle pagine dei giornali e domani da quelle dei libri di storia. Da quelle stesse pagine i nostri figli e nipoti potranno sapere con precisione dove è sepolta la presunta superiorità morale della sinistra italiana. Là dove l’hanno portata i tanti politici, giornalisti e intellettuali che in questi mesi hanno ripetuto senza un fremito tutte le veline del Cremlino: nella più ignominiosa delle fosse comuni.

Pacifismo cieco. L’errore del Premio Nobel per la pace e la miopia degli intellettuali occidentali. Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta l'8 Ottobre 2022.

Il Comitato che assegna il riconoscimento ha messo sullo stesso piano gli oppositori di due regimi che hanno invaso un paese libero e indipendente e chi subisce i loro crimini di guerra

All’ottavo mese di guerra della Russia all’Ucraina, il Comitato che assegna il premio Nobel per la pace non riesce ancora a distinguere l’Ucraina dalla Russia e la Bielorussia dalla Russia.

L’Ucraina, che vuole uscire da questo cerchio di rapporti tra impero e colonia, con questi gesti ogni volta viene spinta dentro, viene rimandata nella sua storia, dove l’impero le ha tolto la voce e il volto e lo continua di fare. Sia in Bielorussia sia in Russia ci sono figure che combattono per la libertà, ma né in Bielorussia né in Russia muoiono civili e bambini, non si vive sotto la minaccia nucleare, non si vive sotto la minaccia di bombardamenti e di perdere in un tratto tutto nella vita e la vita stessa per scelta di qualcuno. Scelta che non proviene solo da una persona, ma da una catena di persone, da un patto sociale, studiato da Hobbes e Locke, firmato tra il potere e il popolo.

Si può parlare di soldati russi che scappano dalla mobilitazione, si può parlare di attivisti bielorussi incarcerati, ma non si deve mai dimenticare l’inizio di tutto questo: che può essere l’annessione della Crimea e l’aggressione dell’esercito russo nel Donbas (anche se dopo il 24 febbraio ci sono persone che hanno versioni diverse pensando che in Donbas c’è stata una guerra civile, ma anche qui bisogna guardare alla radice e scorrere anni indietro per scoprire da dove arriva il mito russo del Donbas) e il silenzio come risposta dell’Occidente, o essere posto cent’anni fa tra il 1917 e 1922, o possono essere le purghe staliniane del 1937-1938, o il 1918, o la tragedia dei Kruty. L’inizio al quale l’Ucraina cerca di porre una fine e non prolungare le sofferenze radicate nella storia per le future generazioni, semplicemente difendendosi e finalmente con l’aiuto di quasi tutto il mondo.

Bisogna guardare alla radice e alla radice c’è l’Ucraina aggredita dalla Russia, che ha usato il suolo della Bielorussia sia per entrare nell’Ucraina del Nord verso Kyjiv sia come base per bombardare l’Ucraina. In estate, quando il popolo della Bielorussia è sceso in piazza, tutti si sono girati dall’altra parte, nessuno ha preso sul serio la situazione che si stava sviluppando sulle piazze di Minsk, lasciando dirottare da Lukashenka l’aereo a bordo con i civili europei e un dissidente della Bielorussia.

Non ci si può parare dietro il Nobel per la Pace che sembra cieco come tanti altri pacifismi, incluso quello di Giuseppe Conte con le sue manifestazioni di fatto pro Putin, senza entrare nella questione. Qui non si tratta dei meriti dei tre premiati, le due associazioni Center for Civil Liberties, ucraina, e Memorial, russa, e l’avvocato bielorusso Ales Bialitski. Si stratta dell’ennesimo sguardo miope degli intellettuali occidentali che in questi giorni come non mai dovrebbero sentire la questione da vicino. Invece di chiamare le cose per loro nome, stiamo ricadendo in un altro giro di giostra dove si preferisce guardare dall’altra parte.

Auguri Putin. Il premio Nobel per la Pace va agli attivisti per i diritti umani di Ucraina, Russia e Bielorussia. Linkiesta il 7 Ottobre 2022.

Il Comitato Nobel ha premiato Ales Bialiatski dalla Bielorussia perché «ha dedicato la sua vita a promuovere la democrazia e lo sviluppo pacifico nel suo paese d’origine», assieme all’organizzazione russa per i diritti umani Memorial e al Centro ucraino per le libertà civili

Ales Bialiatski è il vincitore del premio Nobel per la Pace del 2022, insieme alle Ong Memorial e il Centro per le libertà civili: la prima russa, la seconda ucraina. Bialiatski «ha dedicato la sua vita a promuovere la democrazia e lo sviluppo pacifico nel suo paese d’origine», ha affermato il comitato del Premio Nobel per la pace. L’attivista bielorusso è noto soprattutto per essere il presidente della Ong per i diritti umani Viasna, che fondò nel 1996 in risposta alla brutale repressione delle proteste di piazza da parte del dittatore bielorusso Alexander Lukashenko.

Memorial è una storica Ong per i diritti umani fondata in Russia nel 1987 da Andrei Sacharov, che ha a sua volta vinto il premio Nobel per la Pace nel 1975, e da altri attivisti per i diritti umani, in concomitanza con la caduta dell’Unione Sovietica. L’intento di Memorial era quello di documentare e testimoniare i delitti e gli abusi dell’era sovietica, in particolare del periodo stalinista.

Negli anni successivi, Memorial divenne la più grande Ong della Russia, aggiungendo alla sua attività di testimonianza e documentazione anche la difesa dei diritti umani e dei prigionieri politici. La sede russa di Memorial è stata chiusa nell’aprile di quest’anno, dopo che il regime di Vladimir Putin ha ristretto la libertà di espressione e l’attività delle ONG e dei media a seguito dell’invasione russa dell’Ucraina.

Il Centro per le libertà civili è un’associazione ucraina, con sede a Kyjiv, che prima della guerra lavorava per rafforzare lo stato di diritto in Ucraina. Sin dalla sua fondazione, il CGS ha monitorato le persecuzioni politiche nella Crimea occupata, documentato crimini di guerra e crimini contro l’umanità durante la guerra nel Donbas e organizzato campagne internazionali per liberare i prigionieri politici del Cremlino.

Dopo l’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022, il Center for Civil Liberties si è impegnato a identificare e documentare i crimini di guerra russi contro la popolazione civile ucraina.

Ales Bialiatski, Nobel per la Pace, detenuto al buio in Bielorussia. La magistratura russa sequestra gli uffici della ong Memorial a Mosca.  Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022. La proponiamo online — senza firma a causa di una agitazione dei giornalisti del Corriere della Sera

Campioni perseguitati dei diritti umani: l’uomo arrestato 25 volte è dietro le sbarre nella semi-oscurità: con lui premiata l’organizzazione Memorial, dissolta dalle autorità russe, e il Centro ucraino per le libertà civili che documenta i crimini di guerra 

Difficile che questa volta arrivino le congratulazioni a denti stretti del Cremlino, come era successo l’anno scorso quando fu premiato il giornalista dissidente russo Dmitry Muratov. Anche quest’anno l’Accademia del Nobel punta i riflettori sul regime di Vladimir Putin, e su quello del dittatore satellite Alexandr Lukashenko. Ma il mondo è cambiato. Nessuna cortesia di facciata per i vincitori oppressi da parte degli oppressori. Visibili sullo sfondo, oltre la presidente del Comitato Berit Reiss-Andersen che annuncia i premi e oltre le porte di legno scuro dell’Istituto Norvegese del Nobel, ci sono la guerra in Ucraina e la repressione interna portata avanti meticolosamente dal governo di Mosca e da quello di Minsk.

Il sequestro degli uffici della ong

Tre premiati, un individuo e due gruppi. Un prigioniero, un’associazione fuorilegge, un’altra che cerca di documentare i crimini di una guerra in corso. Che cosa li accomuna? Secondo l’Accademia del Nobel, tutti promuovono «il diritto a criticare il potere». Denuncia dopo denuncia, caso su caso. Il costo è alto, e spesso vuole dire privazione della libertà. Il veterano della difesa dei diritti umani in Bielorussia, Ales Bialiatski, 60 anni, è attualmente in carcere; la storica organizzazione russa per i diritti umani Memorial, fondata nel 1987 nell’Urss, è stata sciolta dalle autorità di Mosca alla fine del 2021 con l’accusa di agire come «agente straniero»: per oltre 30 anni, Memorial ha raccolto e documentato le storie di milioni di persone fatte sparire dal sistema sovietico: un esercizio di memoria che non va a genio ai potenti di oggi, che fondano la loro retorica sul mito della fine dell’Urss come catastrofe. proprio in serata è arrivata la notizia che la magistratura russa ha ordinato il sequestro degli uffici a Mosca dell’ong Memorial. Memoria di ieri e di oggi: premiata con il Nobel anche l’organizzazione non governativa ucraina Center for Civil Liberties, fondata a Kiev nel 2007, che opera in un Paese vittima di una guerra di aggressione dove il rispetto della libertà e la ricerca della verità troppo spesso non sono stati una priorità.

L’uomo arrestato 25 volte

Ales Bialiatski è nato in Carelia, Russia, il 25 settembre 1962. Ha compiuto il suo sessantesimo compleanno in un carcere bielorusso. Non è la prima volta: Bialiatski ha fondato nel 1996 a Minsk il centro per i diritti umani Viasna, che significa primavera (spring96.org). Da allora è stato arrestato 25 volte. L’ultima nel 2020, quando in Bielorussia scoppiò la grande rivolta pacifica che sembrava sul punto di scalzare la dittatura di Lukashenko. Non è andata così, anche per via del sostegno fornito da Mosca al governo vassallo di Minsk. Oggi Bialiatski, laurea in storia e filologia, capelli incanutiti e barba sale e pele, è detenuto in una cella buia nel seminterrato di una prigione di massima sicurezza, secondo quanto denunciato da Viasna in un comunicato alla fine di settembre. Poca luce, quasi nessun accesso alla corrispondenza. Il suo non è un caso isolato. Soltanto nell’ultimo mese, fa sapere Viasna, 387 oppositori e manifestanti sono stati arrestati in Bielorussia. La notizia del Nobel, ammesso che lo abbia raggiunto nel seminterrato dietro le sbarre dove vive, sarà arrivata in differita. O con un supplemento di beffe e punizioni. La moglie, Natallia Pinchuk, ha ringraziato al suo posto: «Sono sommersa dall’emozione — ha detto all’agenzia France Press — Esprimo la mia profonda gratitudine al Comitato del Nobel e alla comunità internazionale per il riconoscimento al lavoro di Ales, dei suoi colleghi e della sua organizzazione». Una piccola grande luce, per un uomo arrestato 25 volte che vive prigioniero nell’oscurità.

Ales Bialiatski, chi è l'attivista bielorusso che ha sfidato il regime di Lukashenko. La Repubblica il 7 Ottobre 2022.

Fin dagli anni '80 è stato uno dei princiapli esponenti del movimento per i diritti e le libertà politiche contro il regime di Lukashenko, si è battuto per la liberazione dei prigionieri politici e l'abolizione della pena di morte. "Nonostante le enormi difficoltà personali e i ripetuti tentativi di metterlo a tacere, non ha ceduto di un centimetro nella sua lotta per la democrazia in Bielorussia", scrive il Comitato per il Nobel

Ales Bialiatski, premio Nobel per la Pace 2022, insieme ai russi di Memorial e agli ucraini del Centro per le libertà civili di Kiev, è uno storico attivista per i diritti umani in Bielorussia, in prigione dal 2020 quando ha preso parte, con migliaia di cittadini, alle manifestazioni contro le elezioni truccate dal governo autoritario di Lukashenko.

Bialitski, 60 anni, è il fondatore del Centro per i diritti umani Viasna ("Primavera"), che nacque nel 1996 in risposta alla brutale repressione delle proteste di piazza da parte di Lukashenko.

Premio Nobel 2022

Nobel per la medicina a Svante Paabo 

Nobel per la fisica ad Alain Aspect, John Clauser e Anton Zeilinger | Cosa è la meccanica quantistica

Nobel per la chimica 2022 a Carolyn Bertozzi, Morten Meldal e Barry Sharples

Nobel per la letteratura a Annie Ernaux

Nobel per la pace a Ales Bialiatski, ai russi di Memorial e agli ucraini del Centro per le libertà civili

"Ha dedicato la sua vita a promuovere la democrazia e lo sviluppo pacifico nel suo Paese. Nonostante le enormi difficoltà personali, Bialiatski non ha ceduto di un centimetro nella sua lotta per i diritti umani e la democrazia in Bielorussia", ha affermato il comitato del Premio Nobel.

Bialitski è stato arrestato e incarcerato per la prima volta nel 2011 con l'accusa di evasione fiscale, che ha sempre negato. È stato nuovamente arrestato nel 2020 a seguito di massicce proteste per quelle che secondo l'opposizione erano elezioni truccate in Bielorussia che hanno mantenuto Lukashenko al potere.

Detenuto senza processo

Dalla metà degli anni '80, Bialiatski è stato uno degli animatori del movimento per i diritti umani e politici in Bielorussia, ha condotto diverse campagne non violente e apartitiche per sostenere le libertà di una vivace società civile, da sempre impegnato contro la pena di morte e per la liberazione dei prigionieri politici.

In risposta, "le autorità governative hanno ripetutamente cercato di mettere a tacere", scrive il Comitato. "È stato incarcerato dal 2011 al 2014. A seguito di manifestazioni su larga scala contro il regime nel 2020, è stato nuovamente arrestato. È ancora detenuto senza processo". Il Comitato ha chiesto la sua immediata liberazione.

Nobel per la pace, la risposta di Mosca: sequestrata sede della Memorial ong. Un tribunale della Federazione Russa ha ordinato il sequestro degli uffici moscoviti della Memorial, l'organizzazione non governativa che - assieme all'attivista bielorusso Ales Bialiatski e all'ucraino Centro per le libertà civili - si è aggiudicata il Premio Nobel per la Pace. Orlando Sacchelli il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La risposta di Mosca al premio Nobel per la Pace conferito alla fondazione Memorial International assume il sapore della sfida. Il tribunale del distretto di Tverskoi ha decretato l'espropriazione a favore dello Stato della sede della Ong Memorial. Coincidenza? La decisione è arrivata a poche ore dalla decisione del Comitato norvegese, che ha conferito il premio per la Pace del 2022 all'attivista per i diritti umani bielorusso Ales Bialiatski, all'associazione per i diritti umani russa Memorial e all'organizzazione per i diritti umani ucraina il Centro per le libertà Civili.

Nobel per la pace all'attivista bielorusso e a due Ong (una russa e una ucraina)

Non è la prima volta, del resto, che la fondazione finisce nel mirino della Russia. Nel dicembre 2021 la Corte suprema russa aveva ordinato lo scioglimento della Memoria International, impegnata tra le altre attività nella conservazione e recupero delle storie delle vittime dei gulag sovietici.

La Russia con questa decisione rabbiosa cancella un pezzo importante della propria stessa storia. L'associazione Memorial è nata in Unione sovietica alla fine degli anni Ottanta per promuovere la ricerca storica e tutelare la memoria delle vittime dello stalinismo. In seguito ha aperto altre sedi, nel territorio russo e all'estero: in Ucraina, Repubblica Ceca, Francia, Germania, Italia e Polonia.

Dopo la notizia del prestigioso riconoscimento ricevuto Oleg Orlo, leader storico dell'ong russa, aveva commentato in questo modo: "È un onore ricevere il premio Nobel insieme all'ucraino Center for Civil Liberties. Noi siamo sotto pressione, loro sotto il fuoco del nostro esercito. E anche in queste condizioni continuano a lavorare. È un immenso onore essere al loro fianco". Questo Nobel, ha aggiunto il presidente di Memorial international Ian Rashinski, dà "la forza morale a tutti i militanti russi dei diritti umani" in "tempi deprimenti".

La reazione stizzita alle scelte per il Nobel. Ucraina furiosa, Kiev voleva il Nobel per la Pace: “Premio a Russia e Bielorussia che ci attaccano”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 7 Ottobre 2022. 

Una reazione stizzita da Kiev dopo l’annuncio del Comitato per il Nobel del Premio per la Pace andato, tra gli altri, al dissidente bielorusso Ales Bialiatski e all’associazione per i diritti umani russa Memorial. La scelta di Oslo di conferire il riconoscimento ad esponenti di due Paesi che, direttamente nel caso russo, o indirettamente nel caso di Minsk, hanno attaccato il Paese invaso dal febbraio scorso ha provocato reazioni scomposte da personaggi vicinissimi al presidente Volodymyr Zelensky.

L’attacco più duro e più sopra le righe arriva via Twitter da Mykhailo Podolyak, consigliere del capo dell’ufficio del presidente ucraino, che non usa mezzi termini: “Il Comitato per il Nobel ha una concezione interessante della parola ‘pace’ se rappresentanti di due Paesi che hanno attaccato un terzo ricevono il Premio Nobel insieme. Né organizzazioni russe né bielorusse sono state in grado di organizzare la resistenza alla guerra. Il Nobel di quest’anno è ‘fantastico‘”.

Parole che creano un caso politico e che si scontrano con una strana concezione della pace e della libertà a Kiev. Si guardi al caso di Ales Bialiatski, il dissidente bielorusso premiato col Nobel, che per le sue battaglie a favore dei diritti umani e contro la tirannia imposta al Paese dal presidente Alexander Lukashenko si trova in carcere dal 2020, ‘reo’ di aver partecipato a proteste di massa seguite alla vittoria alle elezioni di Lukashenko, il tutto senza aver subito ancora un processo.

Per il consigliere di Zelensky il 60enne Bialiatski, dal carcere, dovrebbe dunque “organizzare la resistenza alla guerra”. Ma lo stesso discorso vale anche per la Ong Memorial, fondata nel 1987 in Russia da Andrei Sacharov, già vincitore del premio Nobel per la Pace nel 1975: un attacco senza senso da parte di Kiev a chi da decenni si oppone al regime di Vladimir Putin e che proprio per questo nel 2014 fu aggiunta alla lista degli “agenti stranieri”, una formula che per la legge russa indica persone o organizzazioni che secondo il governo ricevono fondi dall’estero per svolgere attività antigovernativa.

Una reazione scomposta che nasconde forse il malcontento per la mancata assegnazione del Premio proprio al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che alla vigilia del conferimento del Nobel era nella lista dei grandi favoriti, potendo già godere dell’inserimento nella lista Time 100 del 2022 e del ‘traino’ da parte della totalità o quasi della stampa e governi del pianeta, come “eroe” della resistenza di Kiev di fronte all’invasore russo.

Ma da Kiev anche le reazioni al conferimento del Premio da parte del Comitato di Oslo sono state contrastanti. Andriy Yermak, capo di gabinetto della presidenza ucraina, ha sottolineato, in un messaggio su Telegram, che “il popolo ucraino oggi è il principale artefice della pace, nell’ambito della quale dobbiamo esistere senza aggressioni“.

Un ulteriore segnale della bontà della scelta di Oslo arriva poi da Minsk. Al Paese guidato dal dittatore Alexander Lukashenko di assegnare il Nobel per la Pace al dissidente Ales Bialiatski non è affatto piaciuta. “Negli ultimi anni diverse decisioni del comitato per il Nobel sono state così politicizzato che, scusate, ma Alfred Nobel si sta rivoltando nella tomba“, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri bielorusso, Anatoly Glaz.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Nobel per la Pace 2022, l’ennesimo atto di un premio usato a fini geopolitici. L'Indipendente il 7 ottobre 2022. 

Il comitato norvegese ha assegnato il premio Nobel per la pace all’attivista bielorusso Ales Bialiatski, all’organizzazione per i diritti umani russa Memorial e a quella ucraina Center for Civil Liberties. Sono quindi ben tre i destinatati del premio e hanno tutti un tratto in comune: l’opposizione al regime russo, dato che conferma come un’istituzione apparentemente super partes come quella del premio Nobel non sia in realtà scevra da connotazioni profondamente politiche e da caratteristiche che vanno lette in un contesto culturale preciso e delimitato, quello occidentale.

Ales Bialiatski è un attivista bielorusso noto per aver fondando nel 1996 l’organizzazione Viasna, per contrastare il crescente potere dittatoriale del presidente Lukashenko – oggi sostenitore di Putin – offrendosi di fornire sostegno ai manifestanti incarcerati e alle loro famiglie. Negli anni successivi, Viasna ha assunto le caratteristiche di un’importante organizzazione per i diritti umani che ha documentato su larga scala le violenze delle autorità contro i prigionieri politici. Le autorità governative hanno più volte cercato di frenare l’attività di Bialiatski, imprigionandolo tra il 2011 e il 2014 e poi nuovamente nel 2020: tutt’ora l’attivista è detenuto sera regolare processo.

Memorial è invece un’organizzazione per i diritti umani fondata nel 1987 da attivisti dell’ex Unione Sovietica i quali, riporta il sito del Premio Nobel, “volevano garantire che le vittime dell’oppressione del regime comunista non fossero mai dimenticate”. Tra i fondatori dell’organizzazione vi è anche il Nobel per la Pace 1975 Andrei Shakarov. In seguito al crollo dell’Unione Sovietica l’organizzazione è cresciuta sino a diventare la più grande a tutela dei diritti umani in Russia, creando anche un centro di documentazione sulle vittime dell’era staliniana e raccogliendo informazioni “sull’oppressione politica e sulle violazioni dei diritti umani in Russia”. Nel 2021 le autorità russe hanno disposto la liquidazione forzata dell’organizzazione e la chiusura definitiva del centro di documentazione.

Il terzo vincitore del premio, il Centro per le Libertà Civili, è stato fondato nel 2007 a Kiev allo scopo di promuovere diritti umani e democrazia in Ucraina. Dall’invasione russa del Paese, il Centro “si è impegnato per identificare e documentare i crimini di guerra russi contro la popolazione civile ucraina” e, collaborando con altri partner internazionali, “sta svolgendo un ruolo pionieristico al fine di ritenere le parti colpevoli responsabili dei loro crimini.

Il centro norvegese conclude affermando che, con l’assegnazione di questi tre premi, intende “onorare tre straordinari campioni dei diritti umani, della democrazia e della coesistenza pacifica nei Paesi vicini, Bielorussia, Russia e Ucraina“. La partita si gioca quindi ancora una volta tutta lì, sulla linea di divisione tra polo russo e polo occidentale, arginando la storia del mondo entro i margini delle esigenze di pochi. Lungi dal voler mettere in dubbio l’encomiabile lavoro dei tre vincitori, non si può tuttavia non notare come, anno dopo anno, l’assegnazione del Nobel per la Pace riproponga le posizioni congeniali solo ad una parte, e come non possa considerarsi esente da caratterizzazioni politiche funzionali alle esigenze di Europa e Stati Uniti.

Erano infatti ben 343 i candidati al Premio – dei quali 251 nomi individuali e 92 organizzazioni internazionali -, tutti con caratteristiche alquanto eterogenee. Tra i nominati vi erano, per esempio, Maria Elena Bottazzi e Peter Hotez, i quali hanno sviluppato un vaccino contro il Covid non coperto da brevetto e quindi accessibile a tutti i Paesi poveri. Nella lista dei candidati favoriti stilata dal Time figuravano personalità come l’attivista indiano Harsh Mander, che si batte contro la repressione delle minoranze religiose nel Paese e che nel 2017 ha fondato il movimento Karwan e Mohabbat, il quale presta sostegno alle famiglie delle vittime dell’intolleranza e dei linciaggi. Vi era poi Ilham Tohti, attivista uiguro che ha combattuto strenuamente contro l’oppressione del governo cinese nei confronti della comunità uigura musulmana, e il Governo di unità nazionale della Birmania, composto da funzionari – molti dei quali si trovano in esilio – che si oppongono al governo della giunta militare, la quale sta perpetrando un genocidio nel Paese contro i musulmani Rohingya e contro i manifestanti che chiedono una riforma democratica. Contesti di guerra, di lotta e di rivendicazione dei diritti, troppo lontani dall’ambito di interesse dei governi occidentali. [di Valeria Casolaro]

Da iltempo.it il 6 ottobre 2022.

Il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte vuole scendere in piazza per la pace, come annunciato in una intervista in cui esprime preoccupazione per l’escalation militare in Ucraina. L'uscita dell'ex premier suscita la reazione tanto forte quanto sorprendente nei modi e nei contenuti di Nona Mikhelidze, analista dell'Istituto Affari Internazionali.

Nel corso della punta di Coffee Break di giovedì 6ottobre, su La7, l'analista fa affermazioni pesantissime su Conte: "Non so perché, ma forse è una sensazione personale...  - premette Mikhelidze che poi attacca - Ogni volta che parla di Ucraina mi torna in mente la lettera pubblicata dalla stampa italiana nello scorso aprile, in cui l'ex console russo a Milano Alexei Paramonov in cui minacciò personalmente Conte e altri politici che se non smettevano di sanzionare la Russia avrebbe svelato i contenuti dei rapporti tra Conte e  Putin", è l'allusione pesantissima dell'analista.

Della notizia a suo tempo non c'è stato un vero e proprio seguito "ma questo avvertimento mi torna sempre in mente", dice ancora Mikhelidze che si toglie un altro macigno dalla scarpa: "Immagino che questa marcia" per la pace del capo politico del Movimento 5 Stelle "finirà sotto l'ambasciata russa" è la stoccata finale,: "Perché l'unico attore che può fermare la guerra  la Russia".

Francesco Peloso per editorialedomani.it il 6 ottobre 2022.

Pace e guerra irrompono nel dibattito politico italiano in questa lunga fase post elettorale, mentre ancora il centrodestra sta cercando, non senza fatica, di trovare un accordo sulla composizione del nuovo governo. 

Nel frattempo, il conflitto in Ucraina è entrato, se possibile, in una fase ancor più critica rispetto ai mesi precedenti. L’avanzata dell’esercito di Kiev e la precipitosa ritirata russa hanno infatti aperto un nuovo scenario. Il Cremlino, più o meno esplicitamente, ha fatto sapere di essere pronto all’estrema ratio dell’uso di ordigni nucleari tattici per fermare le truppe ucraine. 

Da Washington informano che i timori per una mossa disperata di Putin in tal senso non sono così infondati e che, nel caso, gli Stati Uniti non resterebbero a guardare. In un contesto tanto complicato e carico di tensioni, di minacce vere o presunte, l’esigenza di aprire un negoziato per raggiungere almeno un cessate il fuoco è sempre più avvertita dall’opinione pubblica. 

In Italia, tradizionalmente, la voce più ascoltata in frangenti bellici internazionali, è quella della chiesa e del mondo cattolico in generale, tanto più se a sollevare l’urgenza di avviare negoziati per fermare le armi e i massacri è quella del papa. Del resto, la Santa sede è sempre stata un riferimento in epoca moderna nell’impegno per la pace, il disarmo, la distensione, e il momento attuale non fa eccezione: Francesco fin dal principio dell’invasione russa ha cercato una strada per ricomporre il quadro di difficile convivenza che era andato in frantumi a oriente.

Lungo questo crinale si muove il leader del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, che sta cercando di capitalizzare la tendenza ampiamente diffusa nel nostro paese, e registrata ormai da numerosi sondaggi, a restare piuttosto equidistanti rispetto al conflitto in corso (rilevamenti Ipsos), mentre il timore maggiore non riguarda tanto il rischio di un allargamento ad altri paesi della guerra quanto le sue conseguenze economiche. 

Dubbi consistenti sussistono pure sull’efficacia delle sanzioni. Così, l’intervista rilasciata ieri da  Conte ad Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale, non poteva passare inosservata. «Pace non può essere una parola associata alla debolezza. E le parole di papa Francesco non indeboliscono certo la comunità internazionale. Desta perplessità poi la decisione ultima di Zelensky di bandire la pace con decreto», ha detto l’ex presidente del Consiglio in merito all’ipotesi id una manifestazione per la pace indetta dalla società civile e alle sue implicazioni politiche.

«L’anelito di pace non può in nessun modo minare la statura del nostro paese. Al contrario, ritengo che questa iniziativa rafforzerebbe il ruolo dell’Italia. Una iniziativa con la società civile consentirebbe all’Italia di ritrovare un protagonismo diplomatico, ovviamente coinvolgendo gli altri partner Ue». 

«Finora – ha aggiunto Conte – l’Europa risulta non pervenuta: purtroppo appare totalmente appiattita su questa strategia angloamericana, e questo mi preoccupa per gli scenari geopolitici futuri. Stiamo parlando di una guerra su suolo europeo e allo stato anche un eventuale negoziato di pace si svolgerebbe sopra la testa dei nostri paesi. Si prospetta un tracollo di credibilità per l’intera Unione europea». Se questa mobilitazione si concretizzerà, «il Movimento ci sarà, anche senza bandiere».

Insomma, Conte ha deciso di giocare d’anticipo rispetto alle altre forze politiche e ha fatto sponda con la chiesa su un tema cruciale come quello della pace. 

L’intervista ad Avvenire conferma che la strategia messa in atto ha trovato interlocutori attenti nel mondo cattolico. Del resto, solo il giorno prima, in occasione della festa di San Francesco ad Assisi, il presidente dei vescovi italiani, l’arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, aveva toccato l’argomento in modo non equivocabile: «Il nostro Patrono, uomo universale, aiuti l’Europa a essere all’altezza della tradizione che l’ha creata e il mondo intero a non rassegnarsi di fronte alla guerra. Lui, amico di tutti, ci aiuti a sconfiggere ogni logica speculativa, piccola o grande, anonima e disumana, forma di sciacallaggio che aumenta le ingiustizie e crea tanta povertà». 

E ancora: «Con San Francesco crediamo che il lupo terribile della guerra sia addomesticato e facciamo nostro l’accorato appello di papa Francesco indirizzato certo ai due presidenti coinvolti direttamente (Putin e Zelensky, ndr) ma anche a quanti possono aiutare a trovare la via del dialogo e le garanzie di una pace giusta». 

Da sottolineare che sempre ad Assisi per le celebrazioni di San Francesco è intervenuto anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Il capo dello stato nei mesi scorsi ha sostenuto una posizione dell’Italia fortemente in linea con quella ufficiale dell’Ue e della Nato, cioè di pieno sostegno alle ragioni dell’Ucraina anche attraverso la fornitura di armamenti.

Questa volta, però, ha usato accenti diversi rispetto alla crisi in corso, e non solo perché si trovava nella città di San Francesco: «Non ci arrendiamo alla logica di guerra che consuma la ragione e la vita delle persone e spinge a intollerabili crescendo di morti e devastazioni. Che sta rendendo il mondo più povero e rischia di avviarlo verso la distruzione. E allora la richiesta di abbandonare la prepotenza che ha scatenato la guerra. E allora il dialogo. Per interrompere questa spirale». 

Non è tanto un cambiamento rispetto alla scelta di campo compiuta, quanto piuttosto il segno di una sensibilità che sta mutando rispetto alla fase nella quale il conflitto è entrato. Né può essere ignorato che il Quirinale ascolta con attenzione i messaggi che arrivano da Oltretevere. Si sta coagulando allora, a partire da tante realtà associative di base, cattoliche e laiche, un inedito asse pacifista pronto a scendere in piazza col favore de Vaticano e con la sponda politica dei Cinque stelle?

Una sorta di replica, riveduta e corretta, di quanto avvenne con la guerra in Iraq del 2003 guidata dagli Stati Uniti? È presto per dirlo, ma lo scenario è tutt’altro che improbabile.

Restano tuttavia dei limiti e dei problemi anche all’interno di un ipotetico schieramento per la pace. Intanto in merito alle questioni attinenti al diritto internazionale; il papa, fra le altre cose, ha parlato del rispetto dell’integrità territoriale come di una delle basi per avviare negoziati di pace. 

Il che, tradotto, vuol dire non riconoscere le annessioni unilaterali di alcune regioni compiute da Mosca. Si tratta di un tema centrale, forse il cuore di ogni possibile negoziato, senza affrontare questo nodo qualsiasi proposta di trattativa rischia di restare nel limbo generico delle buone intenzioni.

Poi sorge la questione dei crimini di guerra commessi nei territori occupati da parte dei russi, si tratta di una questione estremamente delicata sulla quale, con ogni evidenza, Kiev non vorrà sorvolare. Il tema della gravità delle atrocità commesse contro la popolazione civile, è stato più volte sollevato dalla Santa sede. 

Lo stesso Francesco nell’angelus dedicato alla guerra di domenica scorsa ha affermato: «È angosciante che il mondo stia imparando la geografia dell’Ucraina attraverso nomi come Bucha, Irpin, Mariupol, Izium, Zaporizhzhia e altre località, che sono diventate luoghi di sofferenze e paure indescrivibili».

Infine, l’argomento più urgente, quello dell’escalation nucleare; il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, declinava nel seguente modo il tema nel corso della 77esima assemblea delle Nazioni unite: «La guerra in Ucraina non solo mina il regime di non proliferazione nucleare, ma ci pone anche di fronte al pericolo di devastazione nucleare, sia per escalation che per incidente». 

«Qualsiasi minaccia di uso di armi nucleari è ripugnante e merita una condanna inequivocabile», ha aggiunto Parolin. Problemi e approcci differenti che sono sul tavolo e che inevitabilmente interrogheranno tutti i protagonisti di una possibile mobilitazione per la pace. D’altro canto, anche la nuova maggioranza di governo dovrà misurarsi alla svelta con la crisi in atto e indicare la propria strategia rispetto ad alleanze, scenari internazionali e proposte di negoziati.

Giravolte populiste. Giuseppe Conte chiama a raccolta in piazza i pacifisti di destra e sinistra. L'Inkiesta il 7 Ottobre 2022.

L’Avvocato del Popolo sulle armi a Kiev dice che «l’Ucraina ormai ha gli armamenti per combattere, è ben equipaggiata. Dobbiamo puntare su un negoziato di pace. Piuttosto, mi chiedo se e quali cautele siano state prese rispetto a un attacco nucleare, anche in Italia. C’è un piano al riguardo?»

«Auspico una manifestazione senza sigle e senza bandiere, aperta a tutti i cittadini che nutrono forte preoccupazione per il crinale che il conflitto in Ucraina sta prendendo, esponendoci al rischio nucleare. Mentre il tema di un negoziato di pace sembra relegato sullo sfondo».

Il leader del Movimento Cinque Stelle Giuseppe Conte consegna in un’intervista al Fatto Quotidiano la sua proposta da nuovo capopopolo dei pacifisti italiani. Dopo aver lanciato l’iniziativa su Avvenire, Conte dice che vorrebbe in piazza anche «gli elettori di centrodestra. La pace non ha colori. Dobbiamo concentrarci su ciò che unisce rispetto a quelle che possono essere le varie sensibilità. Serve una svolta condivisa, una forte spinta verso il negoziato, che rappresenta l’unica via di uscita da questa guerra».

L’Avvocato del Popolo sostiene che il negoziato «non può essere affidato solo alle parti belligeranti, ma deve essere un percorso per vincere le resistenze innanzitutto di Putin. L’importante è che sia abbracciato con piena convinzione: se non si è convinti che questa è la soluzione è difficile persuadere altri. La strategia che stiamo perseguendo ci sta portando a un’escalation militare, e non contempla sforzi convinti e costanti per una trattativa. Detto questo, ritengo necessaria una conferenza internazionale di pace, sotto l’egida dell’Onu, e con il pieno coinvolgimento della Santa Sede».

E sulle armi a Kiev dice che «l’Ucraina ormai ha gli armamenti per combattere, è ben equipaggiata. Dobbiamo puntare su un negoziato di pace. Piuttosto, mi chiedo se e quali cautele siano state prese rispetto a un attacco nucleare, anche in Italia. C’è un piano al riguardo?», si chiede.

Secondo Conte, «siamo arrivati all’escalation militare. Chi ha costruito la strategia che ci ha portato a questo ci dovrebbe dire quali garanzie offre sul fatto che non si farà ricorso ad armi non convenzionali».

La proposta di una manifestazione. In piazza per la pace nonostante Giuseppe Conte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 6 Ottobre 2022 

Giuseppe Conte, dalle colonne del giornale dei Vescovi, Avvenire, ha lanciato l’idea di una manifestazione pacifista. Il Riformista, sui temi della guerra in Ucraina, ospita dall’inizio tutte le posizioni. Quelle di Paolo Guzzanti, quelle dei radicali e dei Dem, quelle del Vaticano e del papa. Opinioni diverse e spesso opposte. Naturalmente anche le mie, che – su questi temi – sono un seguace ateo del papa.

Personalmente sono convinto che nella vicenda della guerra ci sia un grande assente: il movimento pacifista. Non si è sentito, o è stato molto debole. Sono passati 20 anni dalla gigantesca manifestazione pacifista che riunì milioni di persone in piazza contro la guerra in Iraq e in Afghanistan (l’invasione americana). E sono passati 30 anni, quasi, dai cortei dei pacifisti contro l’invasione della Jugoslavia. Il movimento pacifista, dopo quei grandi successi, fu sconfitto. E forse non si è mai ripreso.

Ora la proposta di scendere in piazza viene dal capo dei 5 Stelle. Ho sempre considerato il Movimento 5 stelle una organizzazione qualunquista, giustizialista e e sostanzialmente reazionaria. La più lontana possibile dalla sinistra.

Ma il pacifismo non è una cosa di proprietà della sinistra. È di tutti. Più è largo più è forte. Se l’idea di Conte avrà un seguito, se la manifestazione ci sarà, spero che moltissime persone aderiranno.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

L'escalation del conflitto in Ucraina. Perché Putin manda le bombe atomiche al confine con l’Ucraina: la minaccia dello zar. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 5 Ottobre 2022 

Gli altoparlanti fissati sui pali nella neve ripetevano all’infinito, scandendo le sillabe la stessa sequenza: “Ein, Zwei, Drei: Stalingrad, Massengrab”. E di nuovo: “Ein Zwei, Drei, Stalingrad-Massengrab”. I soldati tedeschi che avevano invaso la Russia e combattevano forsennatamente per entrare a Stalingrado sapevano il significato di quella sequenza di parole pronunciate da una voce metallica: ogni tre secondi un soldato invasore crepa nella fossa comune di Stalingrado, non uno di voi uscirà vivo dal vostro inferno.

Per decenni i documentari hanno riprodotto quel rap che dava il ritmo della caduta dei cadaveri tedeschi nella fossa comune. Il gruppo dei “Panzerfaust” ne fece uno spettacolo esaltante che si concludeva con queste parole “The god of war had gone to the other side”, il dio della guerra ha cambiato campo e sta per chi combatte per la sua terra invasa, prima di inseguire l’invasore sulla sua terra e uccidere il loro mandante. È sembrato ovvio per quasi ottant’anni che non ci fossero dubbi chi fossero i buoni e chi i cattivi, a Stalingrado, dove si gridava all’invasore: vattene, se non vuoi essere ucciso. Italo Calvino scriverà “Avvoltoio vola via, via dalla terra mia”.

Leggo con costernazione che il Direttore di questo giornale, Piero Sansonetti, non è più d’accordo perché sostiene, in analogia, che se Vladimir Putin avesse pronunciato una frase come questa: “Ucraini, ribellatevi a Zelensky oppure vi uccideremo ad uno ad uno” ci sarebbe stato uno scandalo di proporzioni mondiali e sarebbe stato chiesto subito un processo internazionale per crimini contro l’umanità per Putin, perché “non è forse un crimine contro l’umanità minacciare uno sterminio?”. Confesso di essermi confuso e di non riuscire più a dipanare la matassa: dunque se l’invaso, come l’Urss del 1941, minaccia di uccidere gli invasori ad uno ad uno è un criminale di guerra? Se mi impancassi in una polemica a colpi di specchi incrociati e rovesci della medaglia non ne usciremmo più e non è davvero tempo di perder tempo. In questo momento, mentre voi leggete, un gigantesco convoglio militare di dimensioni straordinarie ma ben noto a tutti gli Stati Maggiori del mondo, sta attraversando la Russia per portare i suoi apparati di detonatori atomici in direzione del fronte ucraino.

Come va interpretato? Un carro allegorico o una minaccia di sterminio? Sono d’accordo anch’io: minacciare uno sterminio, dovrebbe essere un crimine contro l’umanità. Ma non si deve drammatizzare, anzi: proviamo a sorridere come si fa al Cremlino dove Putin e Medveev in questi ultimi due giorni hanno ripetuto, l’uno con l’animo irato della digestione acida, e l’altro, quello vero, con l’abituale compostezza, che l’uso della bomba atomica è una questione militare e non morale, perché se la bomba serve, serve. Ma adesso è il popolo ucraino che si scrolla di dosso un’armata di ferraglia cingolata priva di uomini capaci di combattere per una causa. L’esercito russo è fatto di soldati bambini che scappano e abbandonano i tank per chiedere alle mamme ucraine di prestargli il cellulare con cui chiamare casa, come l’alieno Et.

Ma dilaga la moda di guardare dall’altra parte, quella del muro bianco nella nebbia, simulando che esista un enorme spazio per i diplomatici e per politici non meglio identificati, i quali come i Sette Nani dovrebbero fermare la strage, trovare la quadra e in definitiva imporre agli ucraini di perdere le loro terre rubate a mano armata e abitate da gente che anche se parla russo – come lo stesso Zelensky, vuole essere e restare Ucraina, non vuole tornare sotto Mosca e non avrete visto un solo fi ore, un solo abbraccio per i soldati russi invasori dai loro pretesi connazionali, impegnati a sparagli con tutte le armi che avevano in casa. Putin del resto ha confessato di non avere la più pallida idea di quali siano i confini delle terre appena conquistate e annesse, ma che stanno già tornando giorno dopo giorno nelle mani ucraine con grandi festeggiamenti e pianti e abbracci e ringraziamenti e gli spettri che tornano alla luce dalle cantine in cui hanno vissuto sussurrando in russo, per sfuggire ai russi.

Per la prima volta Putin e il suo corpo d’armata sono stati presi in giro dalla televisione russa perché considerati ridicoli e nemici dell’onore russo. Le ultime dal fronte dicono che esiste una corrente di pensiero militare russo che suggerisce di compiere su territorio russo, ma ai confini dell’Ucraina una “esercitazione atomica” per far capire dall’altra parte della frontiera l’effetto che fa. Altri favoleggiano di bombe tattiche piccolissime che non esistono perché una bomba tattica è come quella di Hiroshima E qui vorrei toccare, in tollerato dissenso col direttore Sansonetti, la questione dell’invio delle armi e del loro valore morale. Lo dico a chi ha più di cinquanta anni, perché la guerra del Vietnam finì nel 1974 ed è proprio di quella guerra che voglio parlare, per arrivare alla connessione con questa guerra furba, truccata, retorica, cui viene negato l’ethos, cui viene negato il valore umano, il valore delle donne che fuggono per salvare il futuro dell’Ucraina mentre padri, fratelli e mariti sono al fronte.

Ricordiamo ancora una volta la guerra del Vietnam, un piccolo Paese asiatico comunista e oggi alleato degli americani contro la Cina, che dopo la cacciata dei giapponesi si batté vittoriosamente contro due potenze occidentali, la Francia prima e poi gli Stati Uniti, vincendo entrambe le volte sul campo. E noi? Dove eravamo noi, in quegli anni? In strada. A urlare e sventolare bandiere vietnamite. Mia fi glia piccolissima, era il 1966, mi chiedeva: “Andiamo a gridare giù le mani dal Vietnam?” Ci spellavamo le mani per applaudire Ho Chi- Minh e il generale Giap e sono sicuro che nella folla c’eravamo tutti, sia io che Sansonetti e tutti quelli della nostra generazione inneggiando ai valorosi partigiani. Vietcong e al magnifico esercito nordvietnamita che travolse sul campo di battaglia prima i francesi a Diem Bien-fu nel 1954 e poi la superpotenza mondiale americana.

Vinsero, i vietnamiti, perché avevano il più forte esercito del mondo grazie ai milioni di tonnellate di armi, munizioni, vettovagliamenti, bombe, cannoni, che per dodici anni l’Unione Sovietica e la Cina popolare consegnavano ogni giorno al governo di Hanoi, il quale le smistava ai combattenti quell’esercito regolare e ai partigiani del Sud. Gli americani credevano di combattere contro dei guerriglieri con la cerbottana e invece avevano di fronte divisioni, reggimenti, plotoni, capitali, sergenti e colonnelli. Penso che sia a causa dell’età, ma ci credete? Non ricordo uno, uno solo di noi o del fronte opposto che dicesse: “Ma che cosa fanno Russia e Cina? Ma non vedono che fornendo le armi al Vietnam prolungano una guerra sanguinosissima (dodici anni e tre milioni di morti)? Ma quando mai”.

Gli americani ebbero la tentazione di colpire “i santuari” di cui russi e cinesi si servivano per rifornire i vietnamiti, come la Cambogia e il Laos, ma nessuno ebbe mai il fegato di sostenere che quella guerra si prolungava atrocemente soltanto perché due grandi potenze rovesciavano armi per miliardi di dollari con cui armare e resuscitare continuamente il piccolo esercito vietnamita. Ed è lì che la confusione mi voglie di nuovo. Non ho capito: è cosa buona che Urss e Cina sostenessero militarmente il loro alleato Vietnam aggredito da una potenza straniera come gli Stati Uniti, mentre invece oggi è male, malissimo, satanico, immorale che l’Ucraina sia sostenuta da chi ha paura della Russia comunque essa si chiami? Qualcuno mormora le due abusate parole: Guerra Fredda.

Abusate perché sottendono la finzione morale dello scontro ideologico fra capitalismo e comunismo, mentre ci fu, c’era e c’è uno e un unico scontro totalmente armato, militare, fra una Russia che cerca di papparsi l’Europa (come aveva programmato Stalin nel 1939 alleandosi con Hitler) e cacciare gli americani come risulta esplicitamente da tutti i verbali delle esercitazioni del Patto di Varsavia (la Nato dell’Est), che sono pubblici e pubblicati. Io non ricordo di aver visto nessuno protestare per l’invio delle armi al Vietnam. E neanche a Cuba, all’Eritrea, ovunque ci fossero focolai di guerre locali e no, Ero dunque cieco? Ero anche sordo? Piero Sansonetti a quell’epoca ci ammoniva o non ancora del male che con quelle armi si faceva all’umanità tutta? E i papi? Dove erano e che facevano i papi, oltre che morire e succedersi in lapidi con i numeri romani. 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Putin minaccia l'atomica, Rampini umilia i pacifisti italiani: dove sono finiti? Il Tempo il 29 settembre 2022

I segnali sono ormai evidenti, la Russia e il suo presidente Vladimir Putin devono affrontare un dissenso crescente per la guerra in Ucraina, si per le conseguenze economiche, sia per la mobilitazione militare con centinaia di migliaia - se non milioni - di russi che saranno spediti al fronte. Anche tra i soldati il morale è sotto gli stivali. Il New York Times oggi ha pubblicato alcune conversazioni tra i militari in guerra e i loro familiari in cui i primi criticano la guerra e danno a Putin del pazzo. Nella puntata di giovedì 29 settembre di Stasera Italia, su Rete 4, l'editorialista del Corriere della sera Federico Rampini spiega che si accumulano "i segnali di difficoltà interna di Putin". 

Il giornalista si sofferma su un punto, un "argomento usato dai putiniani che non osano dirlo", ossia "l'invincibilità" di Putin, dovuta a un popolo "ultranazionalista e disposto a sofferenze illimitate". Ebbene, questo popolo ora "si accalca alle frontiere per scappare. Chi è in età di leva vuole fuggire dalla Russia. Aggiorniamo la nostra narrazione perché ci siamo costruiti dei miti su Putin e sulla Russia". 

Rampini, inoltre, vuole togliersi un sassolino dalla scarpa. Una "puntata di cattiveria verso i cosiddetti, sedicenti pacifisti Italiani", annuncia aa Barbara Palombelli, "quelli sempre pronti a scendere in piazza solo e soltanto contro Gli Usa o la Nato. Dove sono quando Putin minaccia l'uso dell'arma nucleare? Perché le piazze sono vuote?", è l'attacco di Rampini a i pacifisti che protestano solo se l'Europa invia armi all'Ucraina. 

Nascita e sviluppo del pacifismo internazionale. Il professor Renato Moro a «Passato e Presente» sulla Rai. La storia dei movimenti pacifisti viene ripercorsa dal professor Renato Moro e da Paolo Mieli a «Passato e Presente». Redazione spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Settembre 2022

Il tema della pace ha attraversato l’intera storia dell’umanità, ma soltanto negli ultimi secoli la sospensione definitiva dei conflitti è stata percepita come un obiettivo politico da raggiungere e non più soltanto come un’aspirazione irrealizzabile. L’ideale della pace raggiunge il suo sviluppo nel Novecento, quando, dopo gli orrori delle guerre mondiali, l’idea dell’abolizione della guerra si trasforma in un progetto concreto, promosso dalle associazioni pacifiste e condotto dalle nuove organizzazioni internazionali.

La storia dei movimenti pacifisti viene ripercorsa dal professor Renato Moro e da Paolo Mieli a «Passato e Presente», in onda oggi alle 13.15 su Rai 3 e alle 20.30 su Rai Storia.

Nell’opinione pubblica la cultura della pace si diffonde con la paura dell’atomica e della guerra definitiva. È del 1958 la prima marcia contro il nucleare, da Londra ad Aldermaston. Scienziati intellettuali, religiosi, pacifisti chiedono il disarmo. Manifestazioni si susseguono in tutto l’Occidente e il movimento pacifista cresce negli anni della corsa agli armamenti, fondendosi con i nuovi movimenti giovanili e non si ferma alla fine della guerra fredda, perché tanti sono ancora i conflitti che continuano a insanguinare il globo. Il 15 febbraio 2003, per protestare contro l’imminente attacco americano all’Iraq, a Roma sfilano in tre milioni. Nello stesso giorno, attraverso le nuove reti di coordinamento, centodieci milioni di persone manifestano in ottocento città del mondo.

L'Italia non è né carne né pesce. Zelensky vuole uccidere tutti i russi e c’è chi lo candida al Nobel per la Pace: l’appello del Papa non è a senso unico. Paolo Liguori su Il Riformista il 3 Ottobre 2022.

Siamo in uno stato di guerra, e non abbiamo la vocazione alla guerra, e non siamo nemmeno pronti ad essere in un’economia di guerra. Quindi rischia di abbattersi su di noi una serie enorme di conseguenze che solo in parte prevediamo. Ma a parte la questione economica o l’impegno bellico italiano questa situazione è un disastro perché le uniche parole serie, severe e razionali sono state dette dal Papa. E ancora una volta si tende a dimenticare che sono state dette e a farle passare sotto silenzio.

Le parole del Santo Padre sono state chiare: la guerra è un errore e un orrore e deve finire. Certo, i giornali di propaganda italiana titolano “Il Papa ha detto: Putin si deve fermare”, è ovvio lo Zar è l’aggressore e questa è stata la sua prima frase. Però ha pure detto che Zelensky deve ragionevolmente avviare un percorso di trattativa, perché non è possibile che il leader ucraino dica ai russi: “Vi uccideremo uomo per uomo”, e c’è pure chi lo candida al Premio Nobel per la Pace. Queste frasi non fanno parte dei nostri valori e della nostra cultura che è diversa da questi intenti bellici, militaristi e sanguinari di Zelensky.

Noi, l’Italia, non siamo né carne né pesce, anche se teniamo la difesa ucraina. Le parole del Papa tengono conto di queste differenze e dicono qualcosa all’umanità, non si può tollerare la prosecuzione della guerra. C’è chi guadagna sul conflitto come alcuni nostri alleati: gli Stati Uniti, la Norvegia, l’Olanda e altri stati hanno già deciso che sui costi dell’energia faranno per conto proprio a cominciare dalla Germania. Noi siamo presi in una trappola e dobbiamo capire che al di là degli interessi italiani, le parole del Papa vanno ben oltre, sono interessi del Mondo, dell’Umanità. L’ipotesi dell’uso di armi atomiche è terrificante per tutti.

Poi ci sarà una fine della guerra, certo, ma può essere la fine della guerra la distruzione dell’Ucraina? No. Può essere la distruzione della Russia? No. Possiamo pensare a un’Europa del futuro senza la Russia? No. È assurdo, perché in quei Paesi vivono migliaia di cristiani, e il Papa guarda a quello, e proprio guardando a quello capisce che non può esserci una cancellazione né dell’Ucraina né della Russia. Chi è insensibile? Chi guarda da oltreoceano, ma noi le parole del Papa le dovremmo valorizzare non tacere come si sta facendo nei giornali di propaganda italiani. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

La crisi e le responsabilità di chi tace. Zelensky è un sanguinario, il ruggito del coniglio degli imprenditori italiani: chiedono bonus e non la fine della guerra. Paolo Liguori su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Ad Assisi il presidente Mattarella ha parlato della necessità della pace e delle responsabilità di tutte le religioni nel difenderla. Un discorso importante ma anche ovvio. Il Papa aveva parlato qualche giorno fa con parole molto incisive ma la stampa è riuscita – diciamo – a silenziarlo. Dicono ce l’avesse con Putin, non è vero, ha fatto un appello anche a Zelenski.

Poi c’è un modo molto ‘annacquato’ di dire “siamo tutti per la pace”, e poi, come i laici, c’è chi dice che bisogna parlare d’altro. Vediamo che cos’è questo altro. E’ viltà. Oggi gli imprenditori italiani dicono “non ci possiamo permettere in questa situazione economica di parlare di pensioni, di tasse, non abbiamo le risorse economiche per parlarne”. Io dico che questo è il ruggito del coniglio perché non abbiamo mai sentito in questi mesi dire da loro “noi non possiamo permetterci di continuare una guerra come questa perché le aziende chiuderanno”. E’ inutile parlare delle conseguenze se non arriviamo alla causa. E la causa è la guerra.

Gli imprenditori americani, olandesi, norvegesi, ci guadagnano. Il resto dell’Europa ci sta rimettendo ed anche tanto. Gli imprenditori dovrebbero dire che l’unico modo per mettere un freno a tutto questo è fermare la guerra. Ma per fermare la guerra è necessario che non si vendano più le armi. E non è che noi siamo la stessa cosa di Zelenski. Lo vorrei ripetere perché qui si dice che la Russia è un Paese invasore e totalitario (e io sottoscrivo). Però dire che l’Ucraina ci rappresenta non è vero.

Quando un presidente dice ‘uccideremo tutti’ è un sanguinario e non mi rappresenta e soprattutto non rappresenta gli interessi del popolo europeo. Noi siamo stati zitti sul fatto che tutti i maschi sopra i 18 anni in Ucraina sono stati costretti a prendere le armi, coscritti obbligatoriamente. E c’è la legge marziale. Zelenski non ha gli stessi valori di un Occidente liberale. Non stiamo dalla sua parte perché abbiamo gli stessi valori, ma solo perché ce lo impongono gli Stati Uniti. Con gli Usa è diverso perché lori sì, hanno i nostri stessi valori. Però gli imprenditori tacciono, ma se tacciono gli imprenditori e poi chiudono le imprese, noi possiamo continuare a dire che ci vogliono i bonus, i ristori? Abbiamo il coraggio di dire che c’è bisogno che finisca la guerra. Tranne il Papa nessuno ha il coraggio di dirlo. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Luca Bottura per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.

Elon Musk, il miliardario sudafricano che ha fatto fortuna con le auto elettriche ma ha la sensibilità ecologica di un portapenne in alabastro, l'uomo che acquistò Twitter ma lo restituì perché è pieno di profili falsi, non prima di aver promesso che avrebbe fatto rientrare Donald Trump, che è falso anche visto di fronte, l'imprenditore che sta alla geopolitica come qualunque sindaco di Roma a un cassonetto immacolato, ha pubblicato ieri proprio su Twitter un sondaggio col quale proponeva un suo piano di pace a Putin e alle sue vittime:

1) Rifare i referendum in Donbass sotto la supervisione dell'Onu;

2) Cedere la Crimea ai russi "per sanare l'errore di Krusciov";

3) Neutralità dell'Ucraina in cambio delle forniture d'acqua. 

Nel concerto di pernacchie social che ne ha ricavato - molte delle quali incentrate sul fatto che un referendum vero c'è già stato, e lo vinse chi non voleva stare coi russi persino dalle parti di Sebastopoli - va rilevato l'ambasciatore ucraino in Germania, Andry Melnyk, che ha così postato: "La mia risposta molto diplomatica a Elon Musk: fottiti". Analizzata la vicenda, il turpiloquio gratuito, il fatto che la proposta di Musk abbia comunque ottenuto il 37 per cento dei consensi e cioè oltre 400.000 voti, spieghi il lettore con chi sta dei due contendenti e perché proprio Melnyk.

L'insolenza di Musk che ignora la storia. Roberto Fabbri il 5 Ottobre 2022 su Il Giornale

Come tutti gli uomini di genio, il concretissimo Elon Musk certe volte stupisce per astrattezza. Il numero uno di Tesla, finora molto apprezzato a Kiev per averle messo a disposizione il suo sistema satellitare Starlink, si è messo in testa di fare il mediatore con Mosca. Ma la brillantezza con cui ha permesso all'Ucraina di aggirare i tentativi di hackeraggio dei russi non è la stessa che ha dispiegato nella sua bizzarra proposta, che ha indignato Zelensky ma è piaciuta subito al Cremlino, con tanto di complimenti al miliardario americano da parte del superfalco Dmitry Medvedev.

Secondo Musk che in passato ha ammesso di prendere decisioni sotto l'effetto di droghe e che per buona misura ha sottoposto i quattro punti del suo «geniale» piano ai suoi 107 milioni di follower su Twitter come un Beppe Grillo qualsiasi la pace si raggiungerebbe se Zelensky si decidesse una buona volta a riconoscere formalmente la sovranità russa sulla Crimea che Mosca ha strappato a Kiev nel 2014 e se venissero nuovamente tenuti sotto supervisione Onu dei referendum popolari nelle province ucraine occupate che Putin ha appena annesso alla Russia in base a consultazioni truccate. Kiev, inoltre, dovrebbe scordarsi Ue e Nato, impegnarsi alla neutralità e a garantire l'approvvigionamento idrico alla Crimea (russa).

Musk ricorda agli ucraini che fu «una erronea decisione presa nel 1955 dall'allora leader dell'Urss Nikita Krusciov» (che era un ucraino) a trasferire la Crimea dalla Russia all'Ucraina, all'epoca entrambe Repubbliche sovietiche. Il fatto che Putin se la sia ripresa usando la forza, esattamente come ha fatto nel Donbass e nelle altre due regioni ucraine appena annesse, non pare importante all'improvvisato mediatore.

Il quale forse ignora oltre ai principii del diritto internazionale - che se oggi l'Alaska è uno dei 50 Stati degli Usa lo si deve a una decisione presa nel 1867 dall'allora Zar Alessandro, che svendette agli americani quello che all'epoca sembrava un inutile e remoto possedimento coperto di ghiacci per una cifra ridicola pari a 140 milioni di dollari di oggi. Chissà cosa proporrebbe il signor Musk se Putin lo invadesse e se lo annettesse richiamando l'antica sovranità russa e una «decisione erronea» presa nel XIX secolo.

Federico Capurso per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.

Questa mattina il ministro della Difesa Lorenzo Guerini si recherà in audizione al Copasir per illustrare - secondo quanto filtra da fonti di governo - i dettagli dell'ultimo decreto per l'invio di nuovi aiuti militari in Ucraina. Decreto che, con ogni probabilità, verrà firmato entro la fine di questa settimana da palazzo Chigi. 

Caso vuole, però, che l'audizione di Guerini cada proprio nel giorno di san Francesco, scelto tredici anni fa da Beppe Grillo per festeggiare la fondazione del Movimento 5 Stelle. La coincidenza mette in fibrillazione Giuseppe Conte, che riunisce i suoi fedelissimi a Campo Marzio, sede del partito, per preparare la controffensiva nel giorno dell'anniversario pentastellato. 

Il leader è deciso a sollevare una nuova polemica contro il quinto decreto armi del governo Draghi (il primo ottenne il via libera nel marzo scorso). Vuole contrapporre «l'esempio pacifista» del santo di Assisi a quello di un governo che, a suo dire, non si sarebbe speso a sufficienza per riaprire la via del dialogo e della diplomazia, «l'unica in grado di condurre a una soluzione pacifica del conflitto», come ripete da settimane.

Conte oggi tornerà dunque ad alzare la sua voce contraria all'invio di armi a Kiev. Il leader M5S è convinto che il contributo italiano, a differenza di quello americano e inglese, non sia decisivo per i progressi fatti dall'esercito ucraino, che continua a riconquistare territori occupati illegittimamente dalle forze di invasione russe. Per questo, l'ex premier spinge perché sulla necessità di inviare ulteriori aiuti militari il governo torni a confrontarsi con il Parlamento e si sottoponga a un voto dell'Aula.

Il governo è però stato autorizzato proprio da Camera e Senato, nella scorsa primavera, a inviare armi in Ucraina senza dover necessariamente passare da un voto per ogni nuovo decreto, almeno fino alla fine di quest' anno. La posizione di contrarietà del Movimento 5 stelle, poi, era minoritaria prima delle elezioni e rischia di esserlo ancor di più nel nuovo Parlamento che si insedierà il prossimo 13 ottobre.

Lorenzo De Cicco per “la Repubblica” il 5 ottobre 2022.

Era un vecchio pallino di Giuseppe Conte, l'idea di una manifestazione «per la pace». Ne parlava quando il M5S ancora teneva un piede dentro e uno fuori dal governo. Prima della crisi, prima delle elezioni. Nel giorno del compleanno del M5S (13 candeline) l'ex premier cita San Francesco e rilancia l'idea. E fa breccia nell'ex campo largo: da Nicola Fratoianni a frange della sinistra Pd e dei cattolici dem. 

Tanti concordano, con diverse sfumature. Il leader stellato ripropone l'idea della piazza pacifista dalle colonne del quotidiano dei vescovi, Avvenire.

Il timing non è casuale: lo fa nel giorno in cui il ministro della Difesa uscente, Lorenzo Guerini, illustra al Copasir il quinto decreto sulle armi all'Ucraina. L'ex presidente del Consiglio pizzica le stesse corde della scorsa estate. «L'ossessione di una ipotetica vittoria militare sulla Russia - dice - non vale il rischio di un'escalation con ricorso all'utilizzo di armi nucleari e di affrontare una severa depressione economica da cui sarà difficile uscire». 

Dunque secondo il presidente del Movimento urge «una manifestazione, senza bandiere». Critica il decreto con cui Zelensky sospende i negoziati con la Russia. E si mette in scia alle richieste che giungono da più parti, dai territori, dal mondo cattolico. «La manifestazione - è convinto - rafforzerebbe il protagonismo dell'Italia sulla strada della diplomazia, coinvolgendo gli altri partner Ue e uscendo da questa situazione in cui l'Europa risulta non pervenuta».

Una data non c'è. Nemmeno una location, anche se probabilmente sarebbe Roma. Eppure la proposta trova consensi. Il primo endorsement, via tweet, arriva da Luigi de Magistris, capofila di Unione popolare. Si accoda Rifondazione comunista. Ma le aperture non arrivano solo dal fronte extraparlamentare, a sinistra del M5S. Al partito di Nicola Fratoianni l'idea piace. «Quando ci sono manifestazioni per la pace ci siamo sempre, purché non siano iniziative di parte», mette a verbale Elisabetta Piccolotti, della segreteria di Sinistra Italiana. «Per noi va sempre bene andare in piazza per la pace», commenta Arturo Scotto, coordinatore di Articolo 1, il partito di Pierluigi Bersani e Roberto Speranza. 

Anche nel Pd si aprono spiragli.

Dice Laura Boldrini: «Ci sarò». Per l'ex presidente della Camera, «si sente la mancanza di una mobilitazione per la pace. Va rilanciata l'azione diplomatica ad alto livello, anche se Putin è un guerrafondaio. E il Pd deve esserci, non va lasciato un vuoto». Soprattutto se poi c'è il M5S a riempirlo. Per Gianni Cuperlo «qualsiasi manifestazione per la pace è auspicabile, anche se va confermato il nostro sostegno all'Ucraina. Ma il Papa non può essere lasciato da solo». 

L'ex ministro Graziano Delrio, esponente di punta dei cattolici dem, non ha dubbi: in piazza ci andrebbe di sicuro. «Sostegno alla pace e al negoziato sempre. Per questo abbiamo appoggiato gli sforzi di Draghi e Macron. E abbiamo sostenuto come gruppo Pd la manifestazione a Kiev del Movimento europeo azione nonviolenta». Altri, al Nazareno e dintorni, sono decisamente più freddi. Inquadrano la mossa come l'ennesima Opa a sinistra dei 5 Stelle. Non solo la corrente Base riformista di Guerini, che appoggia Stefano Bonaccini. «Ovviamente siamo tutti per la pace ragiona Matteo Orfini - E le manifestazioni per la pace sono sempre una cosa buona e giusta. Quanto a Conte, abbiamo avuto idee molto diverse su come la si costruisce. Consideravo le sue posizioni sul tema ambigue e discutibili. E non ho cambiato idea».

La marcia per la Pace al suo esordio umbro. Nel 1961 si svolse la prima manifestazione. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Settembre 2022.

«Una marcia della pace promossa da un comitato presieduto dal prof. Aldo Capitini si è svolta ieri con partenza da Perugia, arrivo ad Assisi e manifestazione conclusiva nel piazzale della Rocca maggiore». Si legge su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 25 settembre 1961. Il filosofo e pedagogista Aldo Capitini, nato a Perugia nel 1899, fu un precursore del pacifismo e delle lotte per i diritti civili già a partire dalla metà degli anni Trenta. Sostenitore di ideali umanitari, durante il regime aderì al movimento clandestino liberalsocialista, declinando il suo antifascismo in una forma di opposizione non violenta.

L’idea di una manifestazione per la pace fu concepita nel corso degli anni ‘50, mentre il mondo era diviso in due blocchi contrapposti e la Guerra fredda in corso costringeva le nazioni ad una sfrenata corsa al riarmo. Incombeva, soprattutto, la minaccia di una guerra nucleare. Capitini immagina che il percorso debba avere come meta finale la città di Francesco, il santo italiano della non violenza. «Circa 1500 persone si sono mosse stamane da Perugia alle ore 8 ed hanno raggiunto a piedi Assisi camminando lungo il lato sinistro della strada e recando bandiere e grandi cartelli inneggianti alla pace, al disarmo e con scritte contro ogni forma di colonialismo e razzismo» racconta il cronista della «Gazzetta».

«Alla partenza da Perugia era stato reso noto il contenuto di una mozione nella quale si chiede che tutte le nazioni siano rappresentate all’Onu, che si addivenga al disarmo totale e si proceda alla distruzione di tutte le armi nucleari, utilizzando gli esperimenti atomici solo ed esclusivamente per motivi di pace. Ad Assisi, ai partecipanti alla marcia della pace si sono aggiunti numerosi torpedoni da varie regioni d’Italia. Fra i presenti l’ex presidente del Consiglio sen. Ferruccio Parri, delegazioni di vari comuni, tra cui una ufficiale di Marzabotto, personalità della cultura e alcuni giovani stranieri».

Intellettuali, professori, politici partecipano attivamente alla manifestazione: tra di loro il giurista Arturo Carlo Jemolo, lo scrittore e giornalista Guido Piovene, il pittore Renato Guttuso ed Ernesto Rossi, il padre del federalismo europeo. Con un coro unanime tutti gli aderenti all’iniziativa hanno espresso la speranza del disarmo mondiale.

Inizia così, sessantuno anni fa, una tradizione quasi mai interrotta: ancora oggi la marcia per la pace si svolge tra la fine di settembre e l’inizio di ottobre e si snoda per un percorso di circa 24 chilometri.

Papa Francesco, "fine del mondo": Vaticano, indiscrezioni inquietanti. Renato Farina su Libero Quotidiano il 03 ottobre 2022

Avviso ai naviganti, comandanti ed equipaggio dell'unica grande barca su cui l'umanità affronta la faticosa traversata della vita. È papa Francesco a diffondere un allarme che somiglia alle trombe del giudizio. Dice: se non si sarà un immediato «cessate il fuoco...», c'è il rischio di «un'escalation nucleare, fino a far temere conseguenze incontrollabili e catastrofiche a livello mondiale». Che cosa sa Francesco? Ispirazione dello Spirito Santo? Questo lo lasciamo ai credenti. Più prosaicamente il Vaticano è il terminale di una diplomazia che va ben oltre le rappresentanze ufficiali, ed ha sensori nei Palazzi dei potenti e nelle periferie dei miserabili.

Benedetto XV durante la Grande Guerra, Pio XII prima e durante la Seconda guerra mondiale. Fermatevi, o sarà «inutile strage», poiché «Nulla è perduto con la pace. Tutto può esserlo con la guerra». Vado avanti: Giovanni XXIII (1962) quando pareva inevitabile lo scontro delle superpotenze a Cuba; Giovanni Paolo II e la segreteria di Stato evocando un infinito Vietnam in Iraq e Medio Oriente in caso di invasione americana (1991 e 2003). Poi Francesco prima per la Siria nel 2013, e poi... Poi, siamo a ieri, e forse oggi e domani con inedita drammaticità, sul fratricidio slavo scatenato dalla Russia ma con responsabilità - secondo Bergoglio - in capo alla Nato. Per questo ha «innanzitutto supplicato» Putin di smetterla, «almeno per amore del suo popolo», condannando le stragi e l'annessione illegale di quattro province ucraine, ma appellandosi «con fiducia» anche a Zelensky perché «si apra a proposte di pace serie». Inoltre rivolgendosi agli altri protagonisti (senza citarli: America, Nato, Ue, Italia, Cina, Turchia, tutti!) che si spartiscono il potere sulle nazioni sottraendoselo reciprocamente, ha chiesto di cercare il dialogo e una pace stabile, «utilizzando tutti gli strumenti diplomatici, anche quelli finora non utilizzati».

Pretesa impossibile! Chiedere in nome di Dio di rinunciare a schiacciare la testa della vipera e a una probabile vittoria richiede coraggio, umanità. Ma il Papa è anche molto pratico: lo impone il realismo, si rischia di morire tutti, vincitori e vinti, tutti sconfitti. Cronaca. Il Papa si è affacciato a mezzogiorno dalla finestra della terza loggia su piazza San Pietro e sul mondo intero per l'Angelus domenicale. Di regola commenta il Vangelo della messa, e solo dopo preghiera mariana che si conclude con la benedizione in latino pronuncia qualche parola sulla pace e sulla guerra. Così è stato anche per tutte le occasioni liturgiche dopo il 24 febbraio, data dell'aggressione russa all'Ucraina. Ieri ha cambiato il copione. Prima il giudizio sul rotolare spaventoso della vicenda umana, una «grande preoccupazione», dice, che lo fa passare senza soluzione di continuità (guardate le immagini su vatican.va) dal discorso al segno della croce e alle formule dell'incarnazione di Dio nel ventre di Maria.

Una svolta che non è una semplice variazione del cerimoniale drammatica al punto da imporre una domanda a chi lo ha ascoltato in diretta o ne ha letto l'intervento immediatamente rilanciato a libello globale. Niente Vangelo, ma quel che dal Vangelo deriva: pace, pace subito, o è la fine. Cosa sa Francesco più degli esperti di geopolitica e dei responsabili delle nazioni? Perché chi impugna lo scettro spirituale di massima autorità religiosa e morale del mondo mette a rischio questa reputazione? Pensiamoci prima di archiviare il monito come una predica esagerata. Qualcosa che egli sa di «grave, disastroso e minaccioso» glielo impone, gli fa rovesciare i banchi dei mercanti, scavalcare le buone maniere, calcare le sue scarpe ortopediche sul terreno della cruda analisi diplomatico-militare, e adopera l'arma di una retorica altissima.

«In nome di Dio e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate il fuoco. Tacciano le armi». Gioca forse a spaventarci per bucare la nostra proverbiale indifferenza su fatti che implicano la morte degli altri? O per riguadagnare, presso i media occidentali, la popolarità offuscata dalla mancata crociata contro la Russia, non avendo inviato neppure un'alabarda o un elmo michelangiolesco delle guardie svizzere a Kiev? Scusate il sarcasmo, ma questa era ed è ancora la pretesa di molti cattolici. Capitò così durante la seconda guerra mondiale, quando Pio XI si rifiutò di schierare «le sue divisioni» (copyright ironico di Stalin) dalla parte giusta della storia. Ieri in diretta mondiale ha implorato, senza aggiungere una parola al testo scritto, con un volto pietrificato, stringendo a pugno le dita e poi portandosele al cuore: pace! 

Armi all'Ucraina: le parole del Papa e la loro manipolazione. Piccole Note il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

mondo

“Papa Francesco afferma che armare l’Ucraina può essere ‘moralmente accettabile'”. Questo il titolo di un articolo del New York Times che riporta quanto dichiarato dal Papa in una conferenza stampa di ritorno dalla visita apostolica in Kazakistan.

Le parole di Papa Francesco

Abbiamo scelto un titolo a caso di un autorevole giornale dell’Impero in considerazione del fatto che i giornali mainstream locali quando si tratta di temi sensibili, come appunto la guerra ucraina, si limitano a riportare pedissequamente la narrazione d’Oltreoceano.

Anzi, normalmente, nello zelo di dimostrarsi soldatini obbedienti, vanno addirittura ultra petitutum, come nel caso in specie, dove quel “può essere” del Nyt è stato rafforzato in un placet incondizionato all’invio delle armi a Kiev. Così, ad esempio, la nostra (loro) Ansa titolava: “Papa Francesco: ‘Armi all’Ucraina? Difendersi è lecito'”.

In realtà, il Papa non ha fatto altro che ripetere quanto ha sempre sostenuto la Chiesa riguardo la legittima difesa di una nazione aggredita, ma sull’inviare armi all’Ucraina, questo il tema della domanda posta, ha fatto una specifica molto significativa, che i media mainstream hanno pensato bene di dilavare.

Così Francesco: “Questa è una decisione politica, che può essere morale, moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità, che sono tante e poi possiamo parlarne. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere le armi o di scartare quelle armi che a me non servono più. La motivazione è quella che in gran parte qualifica la moralità di questo atto. Difendersi è lecito, ma anche una espressione di amore alla Patria” etc (Vatican.news).

Insomma, alla domanda ha risposto che occorre appunto vedere se dare le armi serve a difendersi o ha il solo scopo di allungare la guerra per lucrare sugli armamenti, che è appunto quel che tanti – i cosiddetti filo-putiniani, secondo la nouvelle vague maccartista – sostengono che sta avvenendo in questa guerra per procura contro la Russia che la Nato sta sostenendo fino all’ultimo ucraino. E probabilmente non è un caso che le perplessità di Francesco siano le stesso di quelle esposte dai critici di tale decisione.

Solo dopo, Francesco ha puntualizzato che la difesa della patria è, ovviamente, atto dovuto, anzi atto d’amore, secondo la sua valutazione. Così nelle parole del Papa non c’è alcun placet incondizionato a quanto sta facendo l’America e la Ue in questo conflitto.

Riflessione e dialogo?

Allo stesso tempo, non vogliamo arruolare il Papa tra i cosiddetti asseriti filo-putiniani, solo puntualizzare che, se pure le sue dichiarazioni non sono una  sconfessione recisa della “decisione politica” della Nato, suonano comunque come un invito alla riflessione.

Invito che fa il paio con quanto ha affermato di seguito, cioè che con la Russia occorre comunque cercare un dialogo per trovare vie di uscita dal conflitto, iniziativa che sembra fuori dall’orizzonte della Politica d’Occidente.

Peraltro, un cenno del tutto obliterato del suo discorso è quello riguardo al conflitto tra Azerbaigian e Armenia, che “si è fermato un po’ perché la Russia è uscita come garante”.

In questo tempo di fondamentalismi, nel quale la Russia deve essere dipinta come il male assoluto, questo cenno positivo suona in netta controtendenza (anche se poi Francesco ha dovuto pur aggiungere “garante di pace qui e fa la guerra lì”).

Informazione e manipolazione

Non abbiamo steso questa nota per tirare Francesco “per la manica”, nel caso specifico per la talare, e schiacciarlo su una posizione, cosa che peraltro non aggiungerebbe nulla alle possibilità di pace dal momento che il Papa non ha alcun potere in merito,  potendo solo pregare e suggerire ai fedeli di pregare il Signore perché ponga fine Lui a questa immane tragedia.

Si vuole solo evidenziare quanto sia manipolata, e in maniera anche volgare, la narrazione relativa alla guerra ucraina. Se non viene rispettata neanche una dichiarazione pubblica e facilmente verificabile del Papa – non un quisling qualsiasi – si può immaginare come sono trattati altri temi meno facilmente verificabili o non verificabili affatto su fonti sicure, essendo la verità ormai coincidente con la narrazione ufficiale.

Va da sé che tale manipolazione mediatica, alla quale sono consegnati o costretti i giornalisti mainstream, non è conseguenza della propaganda di guerra. La guerra infinita, di cui quella ucraina è solo l’ultima manifestazione, sono strutturate sulla menzogna organizzata, come ha dimostrato il suo momento epifanico, cioè la guerra in Iraq, con le immaginifiche armi di distruzione di massa di Saddam.

Sul punto riportiamo l’inizio di un articolo di Philip Giraldi pubblicato sul sito del Ron Pual Institute: “È stupefacente quanti osservatori della guerra ucraina, che avrebbero dovuto averne una maggiore comprensione, siano inclini a prendere alla lettera le affermazioni delle ‘fonti’ che provengono in maniera esplicita dai diversi governi coinvolti nel conflitto”.

“Quei leader ingaggiati nell’inesorabile marcia degli Stati Uniti e dei loro alleati per trasformare la crisi dell’Ucraina nella terza guerra mondiale hanno di certo imparato la lezione che gestire la narrazione di ciò che sta accadendo è l’arma più potente che i falchi della guerra abbiano nel loro arsenale.

“Si ricorda come dopo l’11 settembre e prima della guerra in Iraq, la Casa Bianca di George W. Bush e i neocon del Pentagono abbiano mentito su quasi tutto per convincere l’opinione pubblica che Saddam Hussein era un megalomane terrorista armato di armi di distruzione di massa, descrivendolo come una figura paragonabile ad Adolf Hitler”.

“L’Iraq in un certo senso è stata un’esperienza formativa per quanti al governo e nei media hanno fatto il lavoro pesante, propalando l’inganno a un’opinione pubblica per lo più ignara dei fatti. Ciò che stiamo vedendo ora in relazione all’Ucraina e alla Russia, tuttavia, fa sembrare l’esperienza dell’Iraq un gioco da ragazzi come audacia riguardo le presunte informazioni che fanno o non fanno notizia”.

“Noto, in particolare, che il recente attentato terroristico con un’autobomba alla giornalista attivista russa Darya Dugina da parte di un assassino ucraino ha fatto notizia per circa quarantotto ore prima di scomparire, ma non prima che la menzogna secondo cui il presidente Vladimir Putin ne fosse responsabile fosse fermamente radicata in un certo numero di articoli dei media mainstream”.

Papa don’t preach. La logica bislacca dei pacifisti che incolpano gli ucraini di non essersi arresi. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 21 Settembre 2022

Si può discutere degli errori e degli (eventuali) orrori di cui possono essersi resi responsabili alcuni ucraini, ma non si può sposare la retorica del Cremlino col risultato di formulare un’accusa ribaltata, finendo per accusare chi resiste a un’invasione

Ammettiamo pure che chi lo fa sia in buona fede, ma adoperare le parole del Papa opponendole alle pratiche peccaminose di un “partito della guerra” stanziato indifferentemente a Est e a Ovest di Kyjiv, significa svilire al rango di un dettaglio un dato di fatto che invece è eminente: e cioè che a durare ormai da molti mesi non è la guerra “in Ucraina”, come spesso la si chiama, ma la guerra “all’Ucraina”, come spesso si evita di chiamarla.

Il riconoscimento che la guerra sia stata cominciata da uno contro l’altro è il pegno che l’equidistanza pacifista si costringe, e nemmeno sempre, a concedere («Premesso che sono stati i russi ad aggredire…»), salvo trasformare quel riconoscimento in una specie di modo di dire, al quale non si annette nessun significato e nessuna necessità conseguente e anzi col risultato di pervertirlo in un’accusa ribaltata: premesso che han cominciato quelli là, la colpa è di questi qua e di chi li aiuta. Di questi qua: perché non si arrendono, perché resistono. E di chi li aiuta: perché li istigano alla guerra anziché alla pace.

E ammettiamo che sia in buona fede chi indugia sugli errori, ed eventualmente gli orrori, di cui possono essersi resi responsabili alcuni tra gli aggrediti, gli ucraini.

Discuterne si può (anzi si deve), ma a un patto, mi pare: vale a dire a condizione che discuterne non diventi il criterio in base al quale giudicare la guerra “all’Ucraina”, appunto trasfigurandola nella guerra “in Ucraina”.

Da quando è cominciata, c’è stata la corsa a investigare il tenore democratico e persino la dotazione morale degli aggrediti, una specie di scrutinio della presentabilità ucraina che, se non aveva l’intenzione, sicuramente aveva l’effetto di lasciare intendere che quella gente magari non se l’era cercata ma insomma non è che i russi bombardassero un popolo angelico. E questo è un fraintendimento, credo, capitale, che giudica la violenza di chi la fa in base al profilo di chi la subisce.

Coloro i quali, pur in buona fede, si appellano all’impostazione papale e si specializzano nell’investigazione delle colpe degli aggrediti, non possono non sapere che soltanto nel ripristino della verità è possibile distribuire le colpe.

Non possono non sapere da dove è venuta la metodica opera di contraffazione negazionista che sulla notizia dello stupro invitava alla cautela, perché c’è tanta propaganda, sulla notizia dell’ospedale bombardato raccomandava indagini, perché forse era un covo nazista, sulla notizia del centro commerciale incenerito reclamava accertamenti, perché tra le barbabietole e i cetrioli magari erano nascoste le armi dei servi della Nato.

Non possono non sapere che sulla notizia degli eccidi e delle torture che via via si vanno scoprendo nelle città e nei villaggi abbandonati dagli aggressori in ritirata, viene oggi il fiato mefitico di una teoria anche peggiore del silenzio: e cioè che anche questi sono i costi della guerra, una cosa da addebitare non alla responsabilità di quelli che l’hanno cominciata ma a quella di coloro che la subiscono, perché non si sono arresi. E a quella di coloro che li hanno aiutati a difendersi, i quali avrebbero dovuto lasciare che i massacri avvenissero nel trionfo della pace pacifista.

Senza riconoscere tutto questo, è difficile occuparsi con la doverosa attenzione delle parole del Papa e delle eventuali responsabilità singolari degli aggrediti.

Francesco contro i populismi. Il Papa dice che è moralmente accettabile inviare armi agli ucraini per aiutarli a difendersi. L'inkiesta il 16 Settembre 2022

«È una decisione politica, che può essere moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere armi. La motivazione qualifica la moralità. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla patria», spiega ai giornalisti sul volo di rientro dal Kazakistan. Poi parla delle prossime elezioni: «Dobbiamo aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica»

Di ritorno dal Kazakistan, il Papa ha risposto alle domande dei giornalisti sull’aereo che lo ha riportato a Roma. Le guerre e la ricerca della pace sono stati al centro del congresso interreligioso a cui ha preso parte. E ovviamente si è parlato della guerra russa in Ucraina. E sugli armamenti inviati agli ucraini, il Pontefice – come riporta il Corriere – dice: «È una decisione politica, che può essere moralmente accettata, se si fa secondo le condizioni di moralità. Ma può essere immorale se si fa con l’intenzione di provocare più guerra o di vendere armi. La motivazione qualifica la moralità. Difendersi è non solo lecito, ma anche una espressione di amore alla patria. La guerra è un errore, da settant’anni l’Onu parla di pace, ma ora quante guerre ci sono? Siamo in guerra mondiale… Mia madre pianse di gioia nel 1945. Non so se oggi abbiamo il cuore educato a piangere per la pace».

Francesco però aggiunge anche non bisogna abbandonare la via del dialogo. «È difficile, ma non dobbiamo scartarlo ma dare l’opportunità a tutti, tutti. Perché c’è sempre la possibilità che si possano cambiare le cose. Io non escludo il dialogo con qualsiasi potenza che sia l’aggressore. Delle volte il dialogo si deve fare così. Puzza, ma si deve fare. Perché al contrario chiudiamo l’unica porta ragionevole per la pace. A volte non accettano, peccato, ma il dialogo va fatto sempre, almeno offerto».

Poi il discorso sul volo da Nur Sultan si sposta sulle imminenti elezioni politiche in Italia. «Ho conosciuto due presidenti italiani, di altissimo livello: Napolitano e Mattarella. Grandi», dice il Papa. «Poi gli altri politici non li conosco. In questo secolo l’Italia ha avuto venti governi. Non condanno né critico, ma non so spiegarlo. La politica italiana non la capisco, è un po’ strano, ma ognuno ha il proprio modo di ballare il tango. Oggi essere un grande politico, che si mette in gioco per i valori della patria e non per interessi, la poltrona, è difficile. Dobbiamo lottare per aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica, non la politica di basso livello che non aiuta e anzi tira giù lo Stato, impoverisce… Oggi la politica in Europa dovrebbe affrontare ad esempio l’inverno demografico, lo sviluppo industriale e naturale, i migranti».

È nel Mediterraneo, secondo il Papa, che si consuma l’ingiustizia sociale. «È Occidente e oggi è il cimitero più grande, non dell’Europa: dell’umanità», dice. «Cosa ha perso l’Occidente per dimenticarsi di accogliere, quando ha bisogno di gente? E poi c’è il pericolo dei populismi. In una situazione sociopolitica del genere nascono i messia dei populismi, quando c’è un’età come dopo Weimar nel ‘33 e uno promette il messia».

Su questo tema, Repubblica sottolinea alcune prese di posizione del Pontefice. Tra cui: «Paolo VI diceva che la politica è una delle forme più alte della carità. Dobbiamo aiutare i nostri politici a mantenere il livello dell’alta politica, non la politica di basso livello che non aiuta niente, e anzi tira giù lo Stato, impoverisce».

L'Europa unica sconfitta del conflitto. I territori abbandonati dai russi e la propaganda di Zelensky: l’agenda Draghi ci ha subordinati a questa guerra. Paolo Liguori su Il Riformista il 12 Settembre 2022 

Si è aperto un nuovo capitolo della guerra in Ucraina. In questo nuovo atto, il tema centrale è arrivare ad un negoziato, passaggio necessario, che decreta la fine di ogni conflitto.  I russi hanno fatto presto, hanno invaso un bel po’ di Ucraina e adesso arretrano su quei confini che, fin dall’inizio volevano occupare, che coincidono perfettamente con le popolazioni che il 4 novembre andranno a votare per scegliere di stare con la Russia o con l‘Ucraina e voteranno – come hanno fatto in Crimea – per rimanere con la Russia. Si tratta di persone di origine russa, si sentono una minoranza in Ucraina, per otto anni sono stati attaccati, massacrati, si parla 14.000 morti, vittime di una guerra che noi non abbiamo mai voluto citare. Poi c’è stata l’invasione dell’armata di Putin. Putin aveva una forte opposizione interna, abbiamo conosciuto quel Dugin che da otto anni gli diceva, “Tu devi difendere il nostro popolo al di là dei confini”. E Putin prendeva tempo e alla fine i russi hanno invaso quel tratto di Donbass, ma hanno pure presidiato la Crimea e hanno invaso una parte del Sud.

Quelli sono i confini che loro vorranno sicuramente mettere nel trattato come i nuovi limiti tra i due Paesi. Tutto il resto del territorio lo stanno abbandonando. Perché così, dall’altra parte, Zelensky può dire – complice la formidabile propaganda occidentale -di aver sconfitto i russi. Scenario che permetterebbe a Zelensky di poter trattare da parziale vincitore. Poi si arriverà a una trattativa. Tutto questo, però, poteva essere fatto molto tempo fa, evitando il prezzo, altissimo, delle vite umane. Ma non è solo questo problema, quello dei morti, che ci cambierà la vita. Perché il vero sconfitto di questa guerra sarà l’Europa. Alla fine, quando faranno il trattato, scopriremo che sul terreno di scambio è rimasta l’economia europea. In particolare, tra mesi – io spero tanti e non pochi, ma purtroppo sarà già tra due mesi – capiremo in quale avventura incredibile, disumana, siamo entrati dicendo “solidarietà all’Ucraina”. Ma non era quello il tema, il tema era stringere e rafforzare i rapporti con la NATO, stringere e rafforzare i rapporti con alcuni Paesi che hanno guadagnato cifre enormi in questa guerra, vendendo le armi agli ucraini e per i quali hanno stanziato soldi. Ma le armi sono ‘in prestito’. Quel debito andrà ripagato, costringendo noi a tagliare i ponti con alcune fonti di energia e a rivolgerci altrove per trovare l’energia che oggi non c’è e per qualche anno non saremo autosufficienti. Quindi dovremmo dipendere da chi ci vende il gas e il petrolio, che in questo caso sano o direttamente, gli Stati Uniti o alcuni Paesi a loro alleati.

Nel frattempo l’Europa studia il risparmio energetico. Perché? Perché le belle parole sulle energie pulite, sulle energie a basso intensità di inquinamento, sono belle parole, ma ci vogliono 10-15 anni, partendo da adesso, per arrivare a sostituire l’energia del gas del petrolio; seppure ci si riuscirà, per adesso, dovremmo fare un po’ col carbone, con altra energia che compriamo all’estero. E poi l’Europa sta studiando una cosa micidiale per cui, superati i due kilowatt e mezzo, il contatore delle nostre case potrebbe bloccarsi. Non è ancora una legge, però una direttiva era già emersa su alcuni giornali. Pensate, il frigorifero dovrà stare per forza acceso nelle case perché altrimenti si butta la roba che viene conservata dentro. Dopo il frigorifero potremmo usare solo un altro elettrodomestico. Cosa significa? Che bisogna lavare il bucato a mano, che bisogna lavare i piatti a mano? Si può fare, ma per che cosa? Se a un certo punto, come io spero, ci sarà un trattato di pace per la guerra in Ucraina, per che cosa? Per comprare energia all’estero, nei paesi in cui ci indicano gli alleati della NATO? Che poi pure questa è una barzelletta, quella di dire sei con la NATO o sei anti atlantista. Deve finire questa storia perché Erdogan è della NATO ma si sta facendo beatamente i fatti suoi, gli interessi del suo paese e quindi questa storia deve finire come propaganda che entra nel cervello delle persone. Tu dici, ma io non sono d’accordo, ma tu sei contro l’atlantismo, ma tu sei contro gli Stati Uniti? No, lei a favore di un bacino del Mediterraneo e di un bacino europeo che si autodetermina, che si autogestisce. Questo non può essere considerato materia di scomunica. Scomunica dovrebbe essere la guerra bestiale, brutale, che è stata alimentata con le armi e qualche responsabilità la attribuiremo in futuro a chi ci ha portato in maniera così forte a testa bassa in questa alleanza. Io non vorrei che qualcuno riscrivesse l’agenda Draghi, perché l’agenda Draghi ha avuto un bel capitolo importante nell’essere totalmente subordinati alla logica di questa guerra. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

La ritirata strategica di quelli che dicevano: «Niente armi a Kiev, Putin ha già vinto…». Le vittorie di

Kiev gettano nel panico i sostenitori italici della “pax russa”. Putiniani, “pacifisti”, equidistanti ora si trincerano in un grande silenzio. Daniele Zaccaria Il Dubbio il 12 settembre 2022.

È una ritirata improvvisa, disordinata, in ordine sparso. Non quella delle truppe russe che per loro stessa ammissione arrancano in Donbass davanti l’offensiva dell’esercito di Kiev.

Stiamo parlando delle loro quinte colonne italiche, degli opinionisti, dei professori, degli intellettuali, dei putiniani convinti e di quelli scettici, dei “pacifisti”, degli strateghi da talk show e dei pedanti furbastri di destra e di sinistra. Accomunati dall’odio verso gli yankee e dal compiaciuto disprezzo degli ucraini, liquidati come meri proxy di Washington e della Nato. Una specie di braccio armato dell’imperialismo atlantico che si serve del loro nazionalismo nazistoide, dei battaglioni Azov, del revanchismo “banderiano”, della marionetta Zelensky perringhiare ai i poveri pucciosi russi a pochi chilometri dalle loro frontiere.

Fino a qualche giorno fa ci spiegavano che l’Ucraina era una causa perduta, che le truppe di Mosca stavano stravincendo la guerra, anzi, che avevano già vinto, che l’economia russa non teme le sanzioni e al contrario viaggia a gonfie vele, che la capitolazione di Kiev è inevitabile e che tutti noi avremmo dovuto prima o poi accettare la pax dello zar Vladimir Putin. Meglio prima che poi, per «evitare altre vittime inutili» come fin dall’inizio dell’invasione ci spiega l’ufficio propaganda del Cremlino, con il farisaico coro dei loro ammiratori europei a fare da contrappunto. Il discorso peraltro ha funzionato alla grande, facendo leva sulla pancia del Paese, sulle pulsioni egoiste ma comprensibili delle persone, con la minaccia dei rincari energetici, con lo spettro del razionamento del gas, dell’impennata delle bollette. Vi pare che possiamo ridurre di due gradi il riscaldamento delle nostre case e fare docce più brevi per quegli straccioni degli ucraini?

La riconquista dell’oblast di Kharkiv e la ricacciata delle forze russe verso il loro confine, grazie soprattutto al massiccio utilizzo delle armi spedite dagli alleati occidentali, deve essere stata una notizia ferale per costoro. Anche perché in pochi giorni i generali del Cremlino hanno visto vanificati mesi di offensive militari nel Donetsk dove ora i rapporti di forza sono radicalmente mutati. Così l’ipocrita retorica del “non diamo le armi a Kiev perché è del tutto inutile” viene polverizzata dai fatti.

Di certo c’è che da diverse ore gli “equidistanti” sono spariti dai radar dei media e dei social, immersi in un profondo silenzio come il mitico professor Alessandro Orsini che domenica ha chiuso il suo seguitissimo account Twitter, così, di botto, senza senso. Viene il sospetto che lo abbia fatto per non commentare le vittorie militari di Kiev. Ma forse sono grette maldicenze e da buon analista la sua è solo una ritirata strategica. O la filosofa Donatella Di Cesare, che dallo scorso fine settimana non interviene più sulla guerra concentrandosi su ciò che le riesce meglio: lo studio della filosofia, nella fattispecie del pensiero di Hannah Arendt. Oppure ancora Il Fatto Quotidiano che dal qualche giorno fa scivolare verso basso nella sua edizione online le notizie sul conflitto in Ucraina, coperte con neutri “pastoni” di agenzia e senza neanche un illuminato commento da parte delle sue polemiche firme. E ancora: dove sono finiti i vari Santoro, Moni Ovadia, Toni Capuozzo, Tommaso Montanari?

Però finora nessun parla di “media distorti”, di “pensiero unico”, di fake news, nessuno ha provato a mettere in discussione la disfatta dei battaglioni russi in Donbass. Lo avevano fatto invece per i morti di Bucha, per le fosse comuni, per le esecuzioni e le torture, mettendo in dubbio le testimonianze dei sopravvissuti raccolte dalle decine di giornalisti andati sul campo a verificare le notizie, in alcuni casi spingendosi fino a negare le stragi dei civili ucraini, parlando di «attori e figuranti» in un disgustoso crescendo di negazionismo. È probabile che, superato lo choc iniziale e riordinate le idee, i tristi figuri ritornino a farsi vivi un poco alla volta per ricordarci quanto sciagurato sia l’Occidente che si è schierato contro gli invasori russi e dalla parte degli aggrediti. Per farlo potrebbero ad esempio aggrapparsi alle parole dell’86enne Papa Bergoglio per il quale siamo già entrati nella Terza guerra mondiale: «Non dimentico la martoriata Ucraina, ma bisogna fermare il conflitto».

Peccato che il pontefice non abbia raccolto l’invito del presidente Zelensky che lo avrebbe voluto a Kiev in segno di vicinanza con un popolo che vive sotto le bombe da oltre sei mesi e che non certo scelto di imbracciare le armi dal giorno all’indomani. Avrebbe spazzato via le insinuazioni di chi pensa che il Vaticano sotto sotto si auguri una rapida vittoria della Russia. Insomma anche in questo caso l’orizzonte è la pax putiniana.

L’imbarazzo embedded. Il malcelato disappunto del pacifista collaborazionista italiano di fronte alla riconquista ucraina. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 12 Settembre 2022.

Se gli orrori dell’attacco russo venivano minimizzati, negati, contestati, ridimensionati, ora le notizie dei territori ripresi dalle forze di Kyjiv mettono in difficoltà i neutralisti de noantri, che vedono svanire il loro ideale di pax putiniana

Il pacifista comunista leghista sindacalista collaborazionista commenta le notizie sugli ospedali bombardati, sulle scuole distrutte, sui mercati inceneriti, sulle donne stuprate, sui bambini deportati: le commenta per contestarne la verosimiglianza, per ridimensionarle o, quando non ci riesce, per attribuire la responsabilità di quei crimini a tutti e a tutto – allo yankee guerrafondaio, agli Stati Uniti, alla Nato, all’Europa che ne è serva, alle vanità degli ucraini, al cinismo di chi li capeggia – tranne che a chi li ha programmati e perpetrati e ne rivendica la legittimità, quando a sua volta non riesce a seppellirli con la propaganda di cui qui da noi si fa ripetitore il pacifista comunista leghista sindacalista collaborazionista.

Le notizie sulla resistenza ucraina, e sulle riconquiste che essa riesce a completare, sono più difficili da maneggiare. Imbarazzano. Turbano l’equilibrio della sloganistica corrente, “Né con le stuprate né con la Nato”, “Né coi bambini deportati né con l’Europa delle armi”, “Né con i covi nazisti camuffati da ospedali né con gli omosessuali di Kiev”.

E se dunque una città è restituita al controllo ucraino, allora il pacifista comunista leghista sindacalista collaborazionista non riesce, non ancora, a dire “purtroppo”; se le linee degli aggressori arretrano, il “malauguratamente” che rimugina non riesce, almeno per adesso, a venir fuori come vorrebbe. Ma quel cambio di scenario attenta alla pace pacifista, quella che non è revocata dai cecchini che impiombano i ciclisti e dai cadaveri di Bucha, verosimili manichini, ma dalle armi inviate dall’Occidente libero a chi reclama di farne parte e combatte per farne parte.

Arretra con gli aggressori, la pace pacifista: la pace embedded in operazione speciale.

Ucraina: la guerra per procura, ovvero della macelleria. Piccole Note il 9 Settembre 2022 su Il Giornale.

“Non si può escludere del tutto la possibilità di un coinvolgimento diretto delle maggiori potenze mondiali in un conflitto nucleare ‘limitato’, avvicinando la prospettiva della terza guerra mondiale”. Così il generale Valeriy Zaluzhnyi, comandante in capo delle forze armate dell’Ucraina in un articolo pubblicato su Ukrinform.

Rifornimenti  fino alla vittoria (dell’Ucraina)

Un articolo che va letto tutto per capire quel che pensano gli iper-atlantisti, dal momento che ovviamente l’ha scritto con la supervisione dei press agent Nato. In sostanza, la nota descrive una situazione militare drammatica per l’Ucraina, dal momento che non c’è modo di confrontarsi con lo strapotere dell’esercito russo.

E ciò mentre si stanno snodando due controffensive ucraine, che quindi, è il sottinteso, sono votate alla sconfitta nonostante possibili guadagni territoriali non importanti ai fini del conflitto.

Tale situazione, vi si legge, durerà tempo, non c’è modo di ribaltare la situazione. L’unico modo, scrive il generale, è quello di dotare l’Ucraina di armi più sofisticate e potenti e che, soprattutto, siano in grado di colpire in profondità al modo delle armi russe.

Ciò perché occorre colpire la Crimea al fine di riconquistarla, dal momento che è solo prendendo la penisola che si potrà impedire all’esercito russo di conseguire la vittoria, giacché essa è l’hub nevralgico della macchina bellica russa.

La guerra, aggiunge, continuerà per tutto l’anno prossimo, nessuno si faccia illusioni in proposito, e sarà vinta dall’Ucraina solo se arriveranno tali armi e l’esercito ucraino sarà in grado di rafforzare le sue fila così da poter lanciare “diversi contrattacchi consecutivi e idealmente simultanei per tutto il 2023”.

In sostanza, il generale chiede ai partner, come li definisce, di continuare a far arrivare a Kiev armi sempre più potenti, nonostante i costi che graveranno sulle economie occidentali, già progressivamente impoverite dalle sanzioni anti-russe.

Fantaccini ucraini sacrificati per procura

Ma, nonostante questo, sarà anche necessario mandare l’esercito ucraino a un assalto continuo, senza soluzioni di continuità. Nessuna dottrina militare ha mai proposto una tattica così votata alla macelleria, dal momento che tali attacchi reiterati  vedranno i militari ucraini cadere come mosche, come si intuisce da quelli attuali, che, come ha documentato il Washington Post di ieri, stanno costando “enormi perdite” agli ucraini.

Così riportiamo quanto ha scritto a maggio Hal Brands dell’American Enterprise Institute: “Le guerre per procura sono strumenti usati da tempo nell’ambito dei contrasti tra grandi potenze, perché consentono a una parte di far sanguinare l’altra senza uno scontro diretto. La chiave della strategia è trovare un partner locale impegnato – un procuratore disposto a uccidere e morire – e poi caricarlo di armi, denaro e intelligence necessari per infliggere colpi devastanti a un rivale vulnerabile”.

L’osservazione delirante di Brands è riportata in una nota di Connor Echols su Responsible Statecraft che spiega quanto e come gli Stati Uniti siano impegnati in questa guerra per procura, evitando solo di dispiegare soldati e di far sventolare la bandiera americana per evitare l’ingaggio diretto con Mosca (che, però, prima o poi, potrebbe reagire, aggiunte Brands, dato il livello di impegno Usa).

Trovato il Paese da usare in questa guerra per procura, e l’Ucraina, confinando con la Russia, è il Paese ideale, lo si sta usando allo scopo, mandando al macello il suo popolo.

Nessuno si perita di chiedere agli ucraini se siano d’accordo con tale prospettiva (a parte qualche sondaggio di parte) che li vede condannati alla decimazione, com’è accaduto in tante guerre per procura americane.

Dalle guerre parallele all’opzione atomica

Come ad esempio quella segreta che si svolse in Laos, in parallelo a quella del Vietnam, dal 1964 al 1973. Guerra non dichiarata che però vide gli Stati Uniti sganciare sul Paese più di 2 milioni di tonnellate di bombe, “più di tutte le bombe sganciate durante la seconda guerra mondiale messe insieme”.

“Nel 1975, un decimo della popolazione del Laos, ovvero 200.000 tra civili e militari, era morto” mentre i feriti erano settecentocinquantamila (History.com). Se ricordiamo questa ormai vecchia, quanto oscura, guerra americana è solo per far intravedere il destino che incombe sull’Ucraina, destino non messo a tema dalla Politica e dai media che contano.

Per quanto riguarda poi la possibilità di una guerra nucleare, che il generale, bontà sua, non esclude, non sarà certo innescata dall’uso di bombe siffatte da parte dei russi, come spiega, perché certo eviteranno di sganciarle su se stessi (l’Ucraina è a ridosso della Russia…). Ma il particolare sembra insignificante al generale e ai suoi sponsor.

Serve, però, brandire la possibilità di una guerra atomica (come ha fatto per esempio la nuova premier britannica) ancorché “limitata”; un sogno, quest’ultimo, coltivato da tempo dai neocon, che potrebbero così esultare per aver conservato il loro potere sul mondo avendo incenerito i loro antagonisti e rimanendo al sicuro nella fortezza atlantica.

Il loro sogno delirante, però, non è destinato a realizzarsi, dal momento che più volte Putin ha fatto notare che, nel caso, di limitato ci sarà ben poco, tentando di far capire ai moderni Stranamore che un’eventuale guerra nucleare non potrà che essere globale.

A giocare col fuoco ci si brucia. Il problema è che questi incendiari rischiano di bruciare il mondo intero.

La bomba in testa. L’argomento dell’atomica come ultima spiaggia dei pacifisti filorussi alla Conte. Fausto Raciti su L'Inkiesta il 9 Settembre 2022.

Sostenere che la Russia non possa essere contrastata in quanto potenza nucleare implica una deformazione della realtà che confonde (come sempre del resto) aggressore e aggredito e dimentica che a rischio ci sono i valori democratici europei, per i quali Kyjiv sta combattendo

I tentennamenti del mondo cattolico, i prezzi del gas infiammati dalla speculazione e la stanchezza di un’opinione pubblica già spossata dalle restrizioni legate al Covid, hanno raffreddato l’iniziale sostegno assicurato dagli italiani alla causa dell’indipendenza dell’Ucraina e del suo ingresso nell’Ue. L’interpretazione dell’aggressione russa come episodio di una guerra per procura e la resa morale di fronte all’arroganza della minaccia nucleare rischiano di fare il resto, mettendo fine al sogno dell’espansione pacifica dell’Europa in un mondo regolato dal diritto internazionale.

La campagna italiana contro l’Ucraina si è infatti arricchita di un nuovo e apparentemente sofisticato argomento elettorale, secondo cui la Russia non si potrebbe sconfiggere perché è una potenza nucleare. Naturale corollario è che si debba cercare la pace alle condizioni della Russia. Ultimo, solo ultimo, portavoce di questa teoria è stato uno sconcertante Giuseppe Conte, già pronto a garantire che Putin sia pronto a cercare la pace.

Come nella teoria della guerra per procura, si tratta di un argomento che deforma la realtà nel momento stesso in cui viene formulato, avvelenando la discussione e ogni possibilità di un’analisi razionale della situazione: è la Russia che sta cercando – senza peraltro avere alcuna possibilità di riuscirci – di sconfiggere l’Ucraina. Gli ucraini stanno semmai provando a respingere la Russia fuori dai propri confini, cioè si stanno difendendo, ma non mi pare stiano marciando su Mosca o elaborando piani di spartizione della Federazione Russa.

Si tratta di un argomento particolarmente abietto perché non solo deforma la sostanza della questione, ma anche perché porta a ritenere che è inutile contrapporsi ai desideri di qualsivoglia potenza nucleare nel nome di un approccio che si vorrebbe realista ma che è solo suicida, in particolare per la nostra Europa.

Se l’Italia sedesse nel ristretto club dei paesi dotati dell’atomica si potrebbe almeno comprendere il vantaggio opportunistico di tale argomento. Ma, considerato che non siamo nemmeno in grado di garantire l’approdo ad una nave-rigassificatore, l’ingresso nel club nucleare non può dirsi vicino.

Siamo pronti a sostenere che le pretese del Pakistan o della Corea del Nord, entrambi paesi dotati della bomba atomica, vanno accolte e discusse perché non è possibile sconfiggerli? E, soprattutto, dopo la resistenza eroica degli ucraini, siamo pronti a sacrificare la realtà ad un sofisma tanto approssimativo?

È la prima volta che l’Europa è chiamata ad una prova di forza contro un gigante che la sta sfidando apertamente e che punta a decretarne il tramonto, per lasciare spazio alle pretese del suo impero. È una sfida militare e politica tra un impero oscurantista e l’Europa liberale: l’Ucraina viene punita perché ha scelto noi. Sostenere che la Russia non si possa sconfiggere significa coltivare la nostra indifferenza e preparare la nostra sconfitta.

L’intendimento marziale. Tutti i guerrafondai cattivi che intralciano Putin e i suoi sogni di pace. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 9 Settembre 2022.

Il mondo surreale di chi pensa che la guerra sia colpa di Joe Biden, delle modelle con pance finte che inscenano bombardamenti degli ospedali e di fantomatici attori reclutati dalla Cia per mantenere vivo il conflitto e impedire al povero presidente russo di vivere tranquillo

L’altro giorno, intervistato da non so più quale tra i molti telegiornali a contrassegno Z, un mio amico comunista è stato presentato così: «Caro… (seguiva il nome, che qui non importa)… lei che è contro la guerra, ci dica un po’: che cosa pensa di…» (seguiva domanda non so più se sulle sanzioni, sulle masse popolari esposte al diradamento delle docce, sullo Stato imperialista delle multinazionali o su che altro).

Ora, visto il tenore della domanda, e fermo restando che il mio amico comunista è indiscutibilmente contro la guerra, si tratta di capire chi sarebbe invece a favore. Azzardo un’ipotesi di elenco. A parte Joe Biden, Volodymyr Zelens’kyj e Mario Draghi, che van dati tutti per scontati, a favore della guerra ci sono verosimilmente i nazisti travestiti da ospedalieri e le modelle col pancione posticcio e la faccia pitturata di rosso sul set delle finte pediatrie; poi gli eserciti di attori assoldati dalla CIA per la messinscena di Bucha, evidentissima visto che mancavano i bossoli e i finti morti non riuscivano nemmeno a stare fermi; poi i titolari dei banconi di frutta e verdura nei supermercati adibiti a depositi di armi, che richiamavano – mancava pure che no! – l’inevitabile pioggia dei missili denazificatori; poi duecentocinquantamila nani, anche loro nazisti che però si spacciavano per bambini, provvidenzialmente deportati perché avrebbero ingrossato i ranghi dei renitenti al dovere morale della resa; poi i drogati e gli omosessuali su velocipede fortunatamente resi innocui dai cecchini che ristabilivano l’ordine dei valori tradizionali; poi le “passanti” inesorabilmente beccate in flagrante mentre pretendevano di farsi passare per madri di figli sbudellati; poi quelle di malaffare, in realtà guerrafondaie anche loro, che sporcavano l’immagine dell’operazione speciale inventandosi la storia degli stupri, che però qui da noi abbiamo saputo trattare come si deve perché c’è tanta propaganda e poi siamo garantisti, c’è la presunzione di innocenza.

Tutti, appunto, a favore della guerra. Tutti uniformati nell’intendimento marziale che intralcia il processo di pace avviato il 24 febbraio scorso.

Pacifisti suonati. La storia del più grande artista d’Ucraina che non può esibirsi a Milano. L'Inkiesta l'1 Settembre 2022.

Il concerto degli “Zhadan and the dogs”, guidati dal principale scrittore ucraino Serhiy Zhadan, è saltato. Il locale di Paderno Dugnano ha cancellato la data perché, dicono, verrebbero raccolti fondi per l’esercito di Kyjiv e la guerra. «Alcuni europei continuano a giocare al pacifismo e ai doppi standard», è stato il commento

Il concerto era previsto per il 2 settembre allo Slaughter Club di Paderno Dugnano, a nord di Milano. Ma l’esibizione della band punk rock ucraina “Zhadan and the dogs”, con base a Kharkiv, è saltata. Il motivo della cancellazione, secondo le comunicazioni del locale del 21 agosto, è che con quella serata si sarebbero raccolti fondi per l’esercito ucraino. Quindi niente live. Tutto in nome della pace.

A riferirlo è il frontman della band, Serhiy Zhadan, il principale scrittore ucraino contemporaneo, poeta, musicista, vincitore di vari premi internazionali, tradotto anche in Italia e candidato al Nobel. Zhadan ha, appunto, anche una band di punk rock molto famosa in Ucraina con cui gira l’Europa per raccogliere fondi per l’esercito di Kyjiv. «Mi spiace ma nel nostro Paese è illegale fare un concerto per raccogliere soldi per una guerra», hanno risposto dall’account Instagram del locale milanese. E quando Zhadan gli ha fatto notare che si trattava di un tour di beneficenza e che con i soldi raccolti non avrebbero comprato armi ma solo auto, dal locale di Paderno non hanno fatto passi indietro. «Non avete scritto questo su Facebook. Non possiamo rischiare. Lo Slaughter Club è una struttura apolitica che promuove la musica e la cultura e non si schiera né a favore né contro nessuno», è stata la replica. «È estraneo al vostro conflitto e intende restarne tale».

Il 31 agosto Zhadan ha pubblicato un post su Facebook per spiegare ai fan che il concerto era stato annullato. «Alcuni europei», ha scritto, «continuano a giocare al pacifismo e ai doppi standard e credono sinceramente che, mentre proteggono le loro vite e il loro paese, gli ucraini stiano violando alcune delle loro idee di pace e armonia. E che quelli che cercano di sostenere i loro connazionali nella lotta contro stupratori e saccheggiatori siano fascisti ed estremisti. Sinceramente vergognoso e disgustato. Mentre gli ucraini mantengono il quadro di un’Europa libera, gli europei si mostrano pigri, cercando di non entrare in politica. Sembra che il Novecento non abbia insegnato a tutti la responsabilità».

Afghanistan, Iraq, Medio Oriente, adesso l'Ucraina. Attentato in Russia, quando la guerra è in stallo nasce il terrorismo: la colpa è dell’Occidente fornitore di armi. Paolo Liguori su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

È notizia di cronaca, una notizia terribile: è stata trovata l’attentatrice della figlia di Dugin in Russia, Natalia Vovk. Ora noi abbiamo saputo da fonti russe, grazie ai servizi segreti russi, che questa attentatrice era entrata dal 23 luglio a Mosca, e si era mossa dentro Mosca con una Mini Cooper insieme ad un’altra donna più giovane, che era presentata come sua figlia.

Avevano preso una casa vicino a quella di Dugin e poi hanno realizzato questo attentato con esplosivo che ha agito a distanza, sbagliando anche perché sulla macchina non c’era Dugin, ma la figlia. Sappiamo anche dai documenti che sono stati diffusi sempre dai servizi segreti russi che hanno svolto le indagini, che si trattava di un militare, di un ufficiale del battaglione Azov, quindi un ufficiale dei servizi ucraini. Molti di questi ufficiali si dice che siano stati addestrati dai servizi segreti inglesi, dall’ex SAS. Di tutto questo noi sappiamo poco, vi diamo le notizie che ci sono. Sappiamo una cosa, però, in tutto il mondo sempre il terrorismo è nato in questo stesso modo.

Quando c’è una guerra, quando si riempie una delle due parti di armi, quando il potente Occidente fornitore di armi, parteggia e riempie di armi qualcuno – e questo soggetto non riesce a vincere la sua guerra – si crea una situazione di stallo e nasce il terrorismo. È successo in Afghanistan, è successo in Iraq. L’Isis nasce da una costola degli iracheni che tifavano per Saddam e si sono visti invasi non solo dagli occidentali, ma anche dagli sciiti legati all’Iran. Succede così in tutto il Medio Oriente da anni. È successo così in Cecenia, quando i partigiani ceceni si sono sentiti schiacciati, sono passati al terrorismo e l’hanno portato a Mosca.

In tutto il mondo le frustrazioni violente delle rivoluzioni fallite finiscono nel terrorismo. È successo così anche in Italia. Un movimento che chiedeva alla classe operaia di rovesciare il sistema e non lo poteva e non lo voleva fare. La classe operaia presto è passata alla lotta armata e sono nate le Brigate Rosse. Dunque il pericolo di parteggiare, fornendo armi ad una parte, è la certezza assoluta di innescare il terrorismo. Il terrorismo ceceno dopo anni esiste ancora, quello ucraino, ingrassato dalle armi dell’Occidente, quanto durerà se l’Ucraina non troverà nessuna soluzione, nessuna trattativa? Questa domanda ha una risposta agghiacciante. E però è mio dovere un po’ riferire di una mia esperienza. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Stiamo ricostruendo la Cortina di ferro. La morte di Gorbaciov, la guerra in Ucraina e il nuovo muro che vuole alzare l’Occidente. Paolo Liguori su Il Riformista l'1 Settembre 2022

Nel 1989, quasi dieci anni prima della fine del secolo, tre grandi uomini portarono a compimento una politica che cambiò la faccia del mondo, la faccia geopolitica del mondo. O perlomeno speravamo che la cambiasse per sempre. Sono morti tutti e tre, Ronald Reagan, Papa Wojtyla e adesso Gorbaciov. Cosa successe in quel momento? Beh, ci fu il cambio. Il cambio del secolo, il secolo della guerra mondiale, il secolo delle guerre, il secolo del Fascismo e del Comunismo che ha sono continuati anche dopo, ma in altra forma, il secolo della morte era il secolo alle spalle, crollò il muro di Berlino, il muro di Berlino era un pezzo di pietra, di mattoni, ma era un simbolo, era il muro che segnava la Cortina di ferro, la divisione del mondo. Noi di qua. Voi di là.

Molti avevano provato prima a mettere in discussione questo, questo sentimento della divisione del mondo, ma questi tre uomini ci riuscirono, riuscirono a segnare un’epoca e tutti noi che eravamo lì, dicemmo, non sarà più tutto come era prima. Cambierà tutto. Lo disse il Papa, lo disse Reagan e lo disse Gorbaciov. Oggi Gorbaciov sta morendo quasi nel dimenticatoio. Putin non andrà al funerale di Gorbaciov, l’ha annunciato, e anche in Occidente se ne parla in questo momento come di un uomo tra i tanti che hanno fatto cose importanti, di Reagan se ne parla ancora meno. Allora la questione è semplice. Questo succede perché noi stiamo capovolgendo quella storia e stiamo ricostruendo la Cortina di ferro, la guerra in Ucraina non è una semplice guerra locale, regionale, per quanto importante o per quanto europea.

L’avrete sentito in questi giorni, dire spesso “noi siamo da una parte, loro sono dall’altra, noi siamo democratici, loro sono autoritari e non democratici”. E spesso è una balla, perché nel nostro schieramento c’è anche Erdogan, e non è che lo definiremo un sincero democratico; però è nella NATO, fa parte di un sistema di alleanze, fa parte di un sistema di armamenti e dall’altra parte non ci sono solo quelli che sono entrati con i carri armati in Ucraina, d’altra parte erano entrati anche con i carri armati in Cecoslovacchia, anche in Ungheria, e questo non ha impedito a quegli stessi uomini che vi ho nominato di andare a scongelare quella Cortina di ferro, di andare a rompere quel muro di Berlino. Ci voleva la volontà di farlo. Ebbene, oggi la volontà, per esempio dello schieramento occidentale, soprattutto dei capi dello schieramento occidentale che sono a Washington – schieramento di cui io e voi facciamo parte – è di ricostruirla questa barriera: da questa parte si sta in un modo, dall’altra parte di questa Cortina si starà in un altro, si torna indietro, si torna indietro al secolo scorso e tutto questo sta avvenendo in maniera assolutamente anonima.

Il Papa ha parlato, ha tuonato contro la guerra, ma viene censurato. Quando Wojtyla parlava, nell’89, e veniva esaltato, o quando Reagan mise un sistema di scudo per costringere i russi a cambiare politica, veniva sostenuto, e quando Gorbaciov, correndo molti rischi personali, lanciò la Perestroika e disse basta con questa divisione del mondo, divenne per pochi anni anche un eroe dell’Occidente. Oggi, però, c’è perfino chi ha brindato alla morte di Gorbaciov, proprio qui, perché, ha detto, ma no, questo è quello che ha distrutto il Comunismo, perché c’è nostalgia dei tempi precedenti. C’è nostalgia del secolo delle guerre, c’è nostalgia di quella divisione? Io non ho nessuna nostalgia di quei tempi. Quando cadde il muro pensai, ora siamo tutti più liberi. Adesso che si sta ricostruendo il muro in Ucraina c’è un clima di oppressione, soprattutto quando provi a dire che questa guerra è ingiusta, deve finire. E anche Zelensky deve rendersi conto che ha diritto a costruire il suo futuro, il futuro del suo Paese, ma non gli abbiamo mai dato il diritto di costruire il futuro del nostro mondo, dell’Occidente e dell’Europa, non gliel’abbiamo mai concesso.

Ma quando dici queste cose, ti guardano e dicono, va bene, allora tu sei amico di Putin. Mai stato né amico di Putin, né della Russia pre Gorbaciov. Ma amico di quei tre uomini che fecero crollare il muro e scongelano la Cortina di ferro, lo ero, lo sono stato, e ho quasi nostalgia adesso. Come peraltro anche Henry Kissinger, che fece parte di quel mondo lì, ha detto più volte anche lui le stesse cose sulla guerra, come papà Francesco, che è inascoltato e quasi trattato come un povero vecchio. Qual è la sua di Kissinger? Che ha 99 anni? Meglio 99 anni spesi bene, con un’intelligenza ancora viva, che cinquant’anni spesi male, oppure pochi meno di Kissinger ma spesi male come li sta spendendo il Presidente degli Stati Uniti. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Reporter de guera. Il pacifista militante è in ferie, ma tornerà presto a giustificare la carneficina di Putin. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 24 Agosto 2022.

Si è temporaneamente fermato il tentativo di giustificare le nefandezze del Cremlino. Ma davanti alle nuove turpitudini che l’esercito russo perpetrerà, vista la piega terrorista della resistenza, il solito filoputiniano allargherà le braccia spiegando che questo è quel che succede quando ci si sottrae al dovere morale della resa

Evidentemente il pacifista comunista sindacalista collaborazionista è in ferie. Era quello che indagava sulla verosimile messinscena di Bucha, perché al reporter de guera non gliela racconti, perché ne ha viste tante e fino a prova contraria quei cadaveri potevano anche essere manichini, o ucraini desiderosi di essere denazificati e perciò uccisi dai nazisti ucraini, e poi perché mancavano i bossoli, perché le foto satellitari vai a sapere che non fossero confezionate in Photoshop, perché è vero che i russi avrebbero potuto fare quel massacro, ma è vero anche che gli ucraini sarebbero stati capaci di inventarselo.

Quindi pari e patta. Vero sì, vero no, amen, c’è la pubblicità e poi si passa alle stuprate, che però chissà, andiamoci cauti che c’è tanta propaganda, e pure sui deportati c’è da discutere perché a ben guardare, e se la si smette una buona volta di dar credito alle veline di Kiev, potrebbero benissimo risultare gente stufa marcia di essere governata da drogati e omosessuali. 

Per non parlare dei covi nazisti camuffati da ospedali, delle donne incinte e dei bambini usati come scudi umani dagli sgherri del presidente con villa in Versilia, dell’acciaieria dove tramavano gli 007 di Boris Johnson e poi tutta quella tv del dolore che intervista la madre del bambino fatto a pezzi o indugia sul ciclista abbattuto dal cecchino, che come insegnava il grecista apulo-staliniano erano tutt’al più dei “passanti”, vittime semmai della guerra di Biden e dei suoi sudditi di Bruxelles.

Ebbene, deve essere appunto l’interludio vacanziero a inibire analoga solerzia investigativa se una bomba fa esplodere un’attivista russa e in quattro e quattr’otto è pronto il profilo ucraino dell’attentatrice. Ma tornerà in servizio, il pacifista comunista sindacalista collaborazionista: e davanti alle nuove turpitudini che l’operazione speciale perpetrerà dopotutto comprensibilmente, vista la piega terrorista della resistenza, allargherà le braccia spiegando che questo è quel che succede quando ci si sottrae al dovere morale della resa.

I negazionisti. Gli ucraini devono sapere che ci sono quelli che vogliono aiutarli, e poi i pacifisti. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 19 Luglio 2022.

Finché i militanti della pace, della pace del Cremlino, non commenteranno i massacri russo (anziché sorvolare) la loro opinione va disprezzata come merita.

Quando il pacifista discuterà delle responsabilità occidentali commentando anziché sorvolando la notizia dell’ennesimo massacro, allora la sua opinione potrà essere ascoltata anziché disprezzata come merita.

Quando avrà il coraggio di spiegare agli ucraini in che cosa sarebbe consistito il loro dovere morale della resa, e cioè nell’accettare la propria denazificazione tramite gli eccidi, le stragi di civili, il bombardamento delle scuole, degli asili, delle università, degli ospedali, dei mercati, dei depositi di cibo, allora il pacifista potrà reclamare rispetto.

Quando la pace pacifista sarà opposta agli stupri e alle deportazioni, non alle cospirazioni atlantiche e alle vanità di Zelensky, allora la soluzione pacifica di cui vagheggia il pacifista potrà essere giudicata come qualcosa di diverso rispetto a ciò che continua a essere, una ignobile e confortevole bugia contro una verità tanto spiacevole da non poter essere nominata.

Quando il pacifista avrà messo in rassegna, e ripudiato una per una, senza infingimenti, smettendola una buona volta di ciurlare nel manico, le veline affastellate nella propria vergognosa enciclopedia negazionista, allora potrà rivendicare ciò che dopotutto va riconosciuto a chiunque, il diritto all’oblio.

Ma sino ad allora la militanza pacifista deve rimanere esposta al proprio discredito. Sino ad allora le vittime della pace pacifista devono essere difese, almeno nel loro diritto di non essere dimenticate.

Sino ad allora dovrà essere chiaro che la pace pacifista è la continuazione della guerra senza resistenza, la continuazione della guerra senza armi per chi la subisce, la continuazione della guerra senza umiliazioni per chi la fa, la continuazione della guerra senza notizie sulla guerra.

Sino ad allora gli ucraini devono sapere che c’erano quelli che volevano aiutarli, e poi c’erano i pacifisti.

I bieloitaliani. I finti pacifisti fanno scomparire i crimini russi per non turbarsi l’animo. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.

Per auto assolversi di fronte alla cruda realtà dei morti in Ucraina, i putiniani d’Italia parlano del conflitto come qualcosa di lontano, come fosse una categoria politico-letteraria, tralasciando i missili che distruggono le università o le bombe che colpiscono i centri commerciali.

Il curriculum morale del pacifista si arricchisce, di conserva con la lista di stragi che va perfezionandosi nel procedere della campagna di denazificazione. Si trattava perlopiù, dall’inizio dell’operazione speciale, dell’inesausta attività di negazionismo contraffattorio con cui la scia di cadaveri col colpo alla nuca era trasfigurata nell’adunata di manichini; la gravida sventrata, nell’influencer al soldo della Nato; la corsia d’ospedale incenerita, in probabilissimo bunker nazista; l’acciaieria che dava rifugio ai resistenti, nella cripta dove tramavano gli agenti segreti dell’Occidente guerrafondaio; il centro commerciale raso al suolo, in verosimilissimo deposito di armi; e via così.

Ma non bastava. Non poteva bastare.

Per reggere, per durare, per assolversi in faccia a una realtà che altrimenti l’avrebbe inchiodato alla propria ignominia, e per assicurare effettività alla propria militanza collaborazionista, quel pacifismo non poteva limitarsi alla disinvoltura manipolatoria per cui la verità dell’asilo bombardato era equiparabile, se non recessiva, rispetto a quella del comprensibile effetto collaterale, o al doveroso rigore giornalistico che impone di  presidiare la notizia degli stupri con l’avvertenza che c’è molta propaganda, e quindi vai a sapere.

Ma per gestire i fatti più riluttanti al magheggio magliaro quell’armamento era insufficiente, e serviva altro alla bisogna. 

E così quel che succede laggiù rimane una categoria mentale, una figura politico-letteraria, “la guerra”: ma scompare o quasi il fatto concreto dei missili che un sottomarino fa piovere sui civili di una città lontanissima dai fronti di battaglia. 

Rimane “la guerra”, la brutta cosa prodotta dall’Occidente e dalla finanza apolide e alimentata dalle armi inviate agli ucraini per difendere le loro province ammuffite: ma scompare o quasi il fatto spiacevole degli altri missili che distruggono le università. E non scompaiono, questi fatti, per l’assuefazione allo scempio dopo quattro mesi di atrocità. 

Scompaiono perché sono capi d’accusa contro l’equanimità pacifista. Scompaiono perché sono la verità che condanna la menzogna pacifista. Scompaiono perché, non scomparendo, lorderebbero l’immagine del pacifista, il cui curriculum morale è ora maculato di parti bianche, fragrante di pagine vuote, accanto a quelle dell’arzigogolo mistificatorio.

Il reportage dell'Ucraina. Pacifisti italiani in viaggio a Kiev: tra bunker, missili e pace? “C’è speranza tra le bombe”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

La pace in Ucraina. E dove, sennò? “Ma è complicato, impossibile”, avevano fatto presente ai sessanta manifestanti per la pace e il disarmo partiti da Roma, da Milano, da Trento per andare a mettere i loro corpi in piazza, a Kiev. «Inutile, rischioso, scivoloso, ci dicevano. Non abbiamo sentito ragioni», dicono gli attivisti del Mean.

Tra loro anime diverse che nella maggior parte dei casi non si conoscevano fino a pochi giorni fa: il Movimento Europeo di Azione Nonviolenta ha costruito da Kiev, compiendo un piccolo gesto rivoluzionario, l’inizio del suo percorso.

«Una strada lungo la quale daremo vita a iniziative nonviolente, a manifestazioni, a marce e a ogni tipo di impegno per affermare la necessità di dire no alle armi e sì a una Europa unita sotto il segno della solidarietà e della pace», ha detto ieri dalla sala del consiglio comunale di Kiev il fondatore e portavoce del Mean, Angelo Moretti. I riferimenti sono chiari: Gandhi e il suo satyagraha, Aldo Capitini, Altiero Spinelli. L’Europa è la patria di questi utopisti del terzo millennio, la rete e la piazza le due sedi in cui trovarli. Credenti e non credenti singolarmente uniti da un obiettivo alto e coraggioso: sfidare la guerra sotto le bombe, convincere i belligeranti a smetterla, suggerire agli Ucraini in armi che qualche alternativa in fondo c’è, oltre a uccidere e a morire. Eccoli coordinarsi su Zoom, conoscersi sulla chat di Whatsapp. Decidersi a partire costituendo una squadra unica, da percorsi diversi. C’è Base Italia, con la presidente Emanuela Girardi e il segretario, già leader Fim Cisl, Marco Bentivogli. E intorno a loro i sostenitori della necessità dell’Ucraina di difendersi, anche con l’esercito armato dall’Europa, ma con l’obiettivo ben chiaro di un tavolo di pace. Posizioni su cui è anche l’eurodeputato Pd Pierfrancesco Majorino che dal Parlamento europeo segue l’iter di adesione di Kiev.

Cosa è successo, nei fatti? I convogli dei pacifisti si sono incontrati a Roma, Milano e Trento e ciascuno ha raggiunto Cracovia, in Polonia, con propri mezzi. Sessanta persone di tutte le età, le sigle, le esperienze si sono date un coordinamento, hanno fatto cassa comune e firmato un accordo di reciprocità. Da lì è stato superato a piedi – tra sabato e domenica – il confine con l’Ucraina, a Medyka. Quando gli agenti della frontiera ucraina hanno interrogato la comitiva, la risposta è stata unanime: “Andiamo a fare un training camp sull’evacuazione in caso di bombardamento”. L’ong che ha reso possibile il viaggio e l’accoglienza in territorio ucraino, Act4Ukraine, in effetti si occupa di quello. Il primo a passare la frontiera è stato un frate francescano del Sacro Convento di Assisi. Poi una professoressa che insegna progettazione all’università di Milano. Un taglialegna della provincia di Trento. La giornalista antimafia Marilù Mastrogiovanni. Un insegnante di Grosseto. L’attivista per la cooperazione Elizabeth Rijo, e tanti altri.

Il calderone unico. Lo zelo del pacifista e la falsa equivalenza della violenza (che serve a giustificare quella russa). Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 12 Luglio 2022.

Perché l’impegno usato per investigare i crimini di Bucha non si ritrova, invece, nel commento dei delitti commessi da parte ucraina? È sempre lo stesso atteggiamento anti-occidentale che equipara il diritto alla difesa all’aggressione armata e l’invio di armi alla minaccia atomica

Il pacifista comunista sindacalista collaborazionista si è esercitato parecchio e con solerzia nell’investigazione della credibilità mortuaria dei fantocci di Bucha, nel reportage sulle agenzie di modelle assoldate per inscenare lo strazio farlocco a margine dei bombardamenti dei covi nazisti camuffati da ospedali, nell’inchiesta sui satelliti yankee schermati per nascondere la realtà delle stazioni ferroviarie incenerite dagli ucraini stessi per lordare l’immagine dell’operazione speciale.

Altrettanto attivismo non si registra nella copertura delle notizie sui morti che si addebitano alla reazione ucraina: notizie che il pacifista comunista sindacalista collaborazionista riporta, sino a mandare in tendenza la dicitura ZalenskyWarCriminal, con fedeltà incondizionata e nell’assenza di qualsiasi dubbio su ipotesi manipolatorie e contraffattive. E si spiega, ovviamente. Perché qui si tratta di rimettere finalmente in sesto il panorama sfigurato dalla narrativa atlantico-capitalista: e cioè far trionfare, sulla menzogna disseminata dagli insubordinati al dovere morale della resa, la verità degli eccidi di cui essi pure si rendono responsabili. E così la bimba dilaniata dal fuoco ucraino, e la disperazione della mamma che ne lambisce le membra inerti, sono opposte alle vittime dell’operazione speciale per finire, le une e le altre, nel calderone unico di una innominata violenza.

Se è possibile, questo sviluppo della rappresentazione aggrava ulteriormente l’immoralità di fondo della propaganda che si duole della proscrizione. Perché prende l’eventuale eccesso, e magari anche il documentato delitto, di cui si rende colpevole una parte, e lo eleva a simbolo di un identico sistema criminale. Che è esattamente lo stesso procedimento con cui l’adesione di un Paese libero a un sistema di difesa è equiparato all’invasione in armi di uno Stato sovrano. Che è esattamente lo stesso procedimento con cui si commenta il bombardamento di una città osservando che è una conseguenza dell’invio delle armi, visto che gli altri avevano “avvisato”: tipo il delinquente che ti “avvisa” di non chiamare la polizia, e se tu invece la chiami e quello ti scanna te la sei andata a cercare, no?

Che è, infine, il procedimento per cui non puoi lamentarti se poi arriva la bomba atomica, quando quello ti aveva avvisato che se intralciavi il corso della denazificazione erano cavoli tuoi. E visto che anche gli ucraini uccidono i bambini, c’è pure caso che avesse le sue buone ragioni.

Domenico Quirico per “La Stampa” il 7 Luglio 2022.

Anche l'estate del 1914 sarebbe rimasta indimenticabile se non fosse risuonato il deprecabile sparo di Sarajevo. Come quest' anno non se n'era mai vista una più smagliante e rigogliosa di voglia di divertirsi e dimenticare i guai. 

Ecco: a voler scovare una differenza i giornali dell'epoca descrivevano insieme al cielo serico e azzurro per giorni e giorni l'aria come morbida ma non afosa. I luoghi di villeggiatura dell'epoca oggi stupirebbero, si chiamavano Deauville nel Calvados, Baden, Le Coq, una stazione balneare vicino a Ostenda.

Regnava ovunque in quell'inizio di luglio la spensieratezza, i bagnanti stavano in spiaggia sotto tende variopinte, i bimbi inseguivano in aria gli aquiloni, davanti ai caffè suonavano le orchestrine e i ragazzi ballavano. Mescolata allegramente c'era tutta la buona borghesia europea, la classe al potere. 

Solo i giornali esibivano titoli allarmanti e minacciosi: «La Germania prepara la mobilitazione generale»; «L'Austria vuole consegnare l'ultimatum alla Serbia». Ma la gente leggeva gli articoli e poi li metteva via con un'alata di spalle: in fondo già molte volte negli anni precedenti si erano susseguite crisi diplomatiche definite «gravissime». Ogni volta risuonava la parola guerra, le coalizioni minacciavano pronte a tutto e poi tutto si dissolveva. Quello che veniva definito «il concerto europeo», il salotto buono della diplomazia, trovava un compromesso. Anche stavolta sarebbe accaduto e si tornava a nuotare, alzare gli aquiloni e discutere dell'ultima moda parigina.

Anche i Grandi, qualche decina di persone tra re e ministri da cui dipendevano le sorti dell'Europa, erano in vacanza. Il kaiser, il disinvolto guerrafondaio, solcava con il suo yacht le acque del mare del nord. Il primo agosto quando con la mobilitazione tedesca avviò il conto alla rovescia che nessuno riuscì più ad arrestare, a Londra era un weekend di festa e la maggior parte delle famiglie era al mare. 

Le classi popolari si accontentavano di affollare il museo di Madame Tussaud dove per i turisti era in mostra la nuova collezione di statue in cera con i protagonisti della crisi europea, «Diorami militari e navali. Musica squisita. Spuntini e bibite a prezzi popolari».

In questo luglio afosissimo del 2022 la guerra c'è già, si combatte con furore attorno e dentro le rovine del Donbass. La Nato mobilita. Convogli di armi micidiali solcano le autostrade d'Europa verso le retrovie del fronte nel centro Europa. 

Nelle pagine di cronaca si legge: autostrade paralizzate, spiagge prese d'assalto, l'industria del turismo in sollucchero dopo le quaresime pandemiche, effimeri scambi di popolazione nonostante il subbuglio dei voli. Non c'è dubbio, è vacanza. Si attende, inevitabile, l'incombente, innaturale silenzio urbano e la purtroppo fugace stagione dei parcheggi gratuiti. Sì, nonostante tutto è vacanza. 

Errato e soprattutto ingiusto abbandonarsi al commentino colpevolizzante: ma come! Nel centro d'Europa migliaia di persone muoiono, scuole e centri commerciali vengono sbriciolati dalla criminale artiglieria putiniana e nel solito Occidente svagato e immorale ci si abbronza!

Più utile capire perché non esiste una percezione collettiva drammatica dei pericoli di questa guerra locale che ha scalato rapidamente, per volontà dei protagonisti, lo scenario iniziale coinvolgendo ormai larghi spazi di mondo. 

La spiegazione è nel modo in cui i governi occidentali, gli alleati della Nato visto che ormai la Alleanza militare è diventata il punto di riferimento ideologico, hanno imbastito il discorso pubblico sulla guerra, le conseguenze e i pericoli di coinvolgimento per noi. 

Il meccanismo della angoscia collettiva avrebbe funzionato se non fosse stato contrastato da una operazione politico pedagogica di evidente successo, al di là della finalità operativa immediata che era impedire che l'Ucraina venisse spazzata via dall'attacco russo.

A coinvolgerci psicologicamente ha provato giustamente l'Ucraina con una sacralizzazione della sua guerra di resistenza, in cui alla gloria di difensori di tutto l'Occidente si aggiungeva il martirio delle vittime civili della ferocia russa. Una ipertrofica produzione iconografica e verbale sulla ferocia della guerra è stata messa al servizio di una giusta causa con la legittima superiorità psichica della vittima. 

Kiev ha aggiunto il pantheon presidiato da Zelensky a riassumere in lui il coraggio e la determinazione di un popolo intero. Operazione non priva di successo di immagine. La maglietta militare del presidente ucraino svolgerà, prima o poi, la stessa funzione di marketing più o meno sacrale del basco di Che Guevara. Lo scopo era di costruire un ponte verso l'azione, la nostra, spinti così a prender parte direttamente alla causa della difesa d'Europa, a presidiare le Termopili ucraine. Condizione necessaria per la vittoria.

Biden e i governanti europei hanno accettato il meccanismo del progressivo coinvolgimento operativo, con armi e denaro, in attesa di passare ad altro, ovvero scambiare qualche colpo di cannone con la Russia. Politici, parolai della guerra e camarilla del business militar affaristico cercano per benino di trasformare questo conflitto in una istituzione europea. 

In fondo l'imperialismo sciovinistico di Putin serve perfettamente ai loro scopi di controllo di sistemi di alleanza e di ordine geopolitico. Ma sanno che altrettanto necessario è impedire che dei rischi collettivi che si corrono si accorgano le opinioni pubbliche, che vibri forte la volontà di vivere perché si tratta della esistenza, della sopravvivenza.

Di qui una narrazione della guerra, quella che c'è già si combatte ogni giorno da più di quattro mesi, in cui si ribadisce il comandamento rassicurante che l'unico ruolo che noi come Occidente accettiamo di svolgere è quello di impedire che vengano superati dall'aggressore certi limiti. 

Bisogna far vedere la guerra, mostrarne l'orrore ma contemporaneamente cancellarne le tracce. Di qui la goffa, strumentale sottovalutazione irridente della forza distruttiva dell'esercito russo, e la fiducia fideistica al di la della evidenza delle possibilità fulminanti delle sanzioni economiche.

L'opinione pubblica deve accontentarsi della constatazione che «siamo dalla parte giusta», non avere timori sugli «sviluppi». Insomma come nel 1914: restate pure in vacanza, alla guerra ci pensiamo noi. 

Domenico Quirico per “La Stampa” l'1 luglio 2022. 

Proviamo a immaginare un punto di vista diverso per decifrare la scarsa attenzione che l'opinione pubblica occidentale e italiana, in particolare i giovani, presta al quotidiano aggravarsi e allargarsi del fronte della guerra ucraina. 

Ormai sotto vesti Nato ascesa a scenari globali. Dopo cinque mesi continua a esser percepita come un conflitto barbaro ma circoscritto ai due protagonisti, che prima o poi basterà una spintarella per far abbiosciare il colpevole, Putin, e reintegrare l'Ucraina nei suoi sacrosanti diritti di paese invaso e parzialmente smembrato. Anche se non basta avere ragione in guerra e in politica, bisogna avere vittoria. 

È sorprendente: la guerra in sé non spaventa, eppure è una mischia feroce, selvaggia. Semmai turbano un po' le sue conseguenze indirette, aumento dei costi economici, penurie, nuove migrazioni. Non parlo del giudizio sulla giustizia della causa ucraina e il torto russo, invasore che fa di tutto per rendersi odioso, condiviso da una larga maggioranza perché evidente.

Parlo della paura: fisica, personale, elementare, che ti impregna la giornata, la paura di essere anche tu sotto le bombe e nelle trincee come i soldati del Donbass. Riusciamo a vivere nella guerra lontano dalla guerra come se intorno a noi si fosse avvolto una specie di bozzolo. La malattia del secolo, la preoccupazione, qui non si avverte. Invece pacifisti e cassandre scomparse, Papa zittito, si aspettano fiduciosi le vacanze. Sono dunque efficaci le rassicurazioni dei governanti che più agiscono per prolungare la guerra ed alzarne il livello più usano i diminutivi, garantiscono che noi non la stiamo combattendo. Direttamente: ecco l'avverbio chiave, direttamente.

A dar loro una mano nel controllare umori e tremori dell'opinione pubblica contribuisce il fatto che questa è la prima guerra non geograficamente periferica che le giovani generazioni italiane vedono in televisione e sui media vecchi e nuovi senza che per loro contenga la possibilità, o meglio l'incubo, di essere coinvolte in prima persona a causa della leva obbligatoria.

Immaginiamo che la leva non sia stata sospesa dal 1990 e poi abolita dal 2005 e sostituita da un esercito di professionisti, ponendo fine (ma davvero in modo definitivo?) a un dibattito avviato con la leva in massa dei rivoluzionari del 1789. Immaginiamo che ogni sera migliaia di famiglie guardino al telegiornale le scene del tritacarne russo con la sua brutalità meccanica e ascoltino le contromisure che la Nato riunita a Madrid e i governi occidentali adottano per sconfiggere quello che è stato ormai definito come "il nemico'' (e non è questa una esplicita dichiarazione di guerra''?).

Cosa accadrebbe, intendo politicamente, se dovessero riflettere sulla possibilità che arrivi la "cartolina'' che accompagnerebbe obbligatoriamente i figli mariti e i nipoti verso caserme e reggimenti, appena abbandonate dopo i dieci mesi con salutare esultanza? Se la scelta non fosse dunque per noi molto accademica, tra pace e condizionatore. Ma non ci fosse come un tempo nessuna scelta: ovvero la guerra e basta. La garbata attenzione all'Ucraina cambierebbe senso, come può cambiare la direzione del vento.

Ma l'attenzione, il rifiuto della guerra dovrebbe essere istintivo, indipendente dal coinvolgimento diretto. Nessuna nostalgia, per carità, per la "naja''. Per sintetizzare in una parola breve ed efficace il servizio militare nel secondo dopoguerra basta una sola paroletta: uffa! quella sopravvivenza militaresca, quella specie di morta gora dopo tutto quello che la seconda guerra mondiale aveva distrutto apparteneva al massimo alla meditazione sulla stupefacente forza di sopravvivenza delle istituzioni umane.

Ma quei mesi inutili passati in caserma da cui la maggioranza non vedeva l'ora di evadere per riprendere la via più spedita verso la vita normale, collegavano migliaia di giovani alla idea della guerra, alla possibilità un giorno che quei fucili, quei cannoni dovessero impugnarli e puntarli verso altri uomini, sconosciuti, il Nemico. 

Che stava a oriente come ai tempi di Cecco Beppe. La guerra insomma per loro esisteva. Dopo la fine della leva è scomparsa. Divenuta impossibile. Remota. Riguardava coloro che l'avevano scelta come mestiere e accettavano l'ipotesi di morire. Se esistesse ancora questa paura privata, la massa dei dubbiosi dei contrari sarebbe molto alta. Ci sarebbero i cortei e i sit-in contro la guerra. Non a favore della Russia, che i putiniani se li sono inventati i trinceristi dell'atlantismo: perché senza reprobi come si fa a dire di avere ragione? Un tempo si dubitò se valesse la pena morire per Danzica.

Credo, purtroppo, che sorgerebbero dubbi anche se valga la pena morire per il Donbass. L'assenza del rischio personale incide sulla percezione della guerra. Nel senso che essere come è giusto a fianco degli ucraini appare come faccenda teorica, senza conseguenze. La istituzione della leva che fu il primo atto del nuovo Stato unitario, ha cambiato l'Italia, mescolando genti che appartenevano a Stati diversi, ha insegnato una lingua comune a masse di analfabeti che la scuola non poteva ancora raggiungere.

Ha davvero fatto gli italiani. Dopo la guerra era un non senso, la sicurezza ormai la garantivano le atomiche americane. Eppure è stata proprio la guerra fredda che ha ridato ossigeno alla coscrizione in età repubblicana per quasi mezzo secolo.

Negli anni cinquanta c'erano in vigile servizio 1600 generali per 185 mila uomini, avevamo vinto la prima guerra mondiale con 500 per comandare due milioni di soldati. E già allora c'era chi li trovava troppi. Tra il 1951 e il 1957 sparivano in distretti, caserme e magazzini tra l'undici e il diciassette per cento della spesa pubblica di un Paese dove migliaia di ragazzi salivano sui treni per le miniere di Belgio Francia e Germania e la navi dei migranti per le Americhe erano zeppe come ai tempi di Crispi e di Giolitti.

L'esercito di leva è stato il massiccio centrale dell'apparato amministrativo, una immensa macchina che viveva per autoriprodursi, una versione casareccia dell'apparato militar industriale americano. La coscrizione era oggetto di una antipatia manifesta che non è mai diventata però ammutinamento, la Sinistra vedeva in ogni ipotesi di professionismo militare allarmi sudamericani.

L'abolizione di tutto questo ha altrettanto drasticamente fatto progredire il paese. Ha reso chiaro che prepararsi alla guerra non era più una parte quotidiana della vita, ha insegnato che si poteva vivere pensando solo alla pace. A causa della leva gli Stati Uniti hanno perso in Vietnam, una guerra decapitata politicamente dalle marce degli studenti che non volevano morire per fermare in qualche risaia il perfido dominio comunista. I politici americani hanno capito la lezione.

Da allora nessun esercito di coscritti, ma volontari che certo non mancavano tra le classi più povere, che avevano bisogno di denaro per finire gli studi o pagare il mutuo di casa. E con questi uomini hanno condotto le guerre in Iraq e in Afghanistan. Anche Putin lo sa. La leva è pericolosa per il consenso, fa spuntare i comitati delle madri, ingigantisce i renitenti.

Per questo sfida la evidenza continuando a parlare di «operazione militare speciale» invece che di guerra. Ma lo fa perché così può usare mercenari e volontari e non deve ricorrere ai ragazzi di leva. Scatenerebbe nel paese davvero una opposizione di massa alla dissennata avventura ucraina.

Vi spiego perché il pacifismo di sinistra è un errore fatale. La sfida del filosofo sloveno Slavoj Žižek, che mette sotto accusa il "neutralismo" della sinistra. Il Dubbio il 24 giugno 2022.

Per me Imagine di John Lennon è sempre stata una canzone popolare per le ragioni sbagliate. Immaginare che “il mondo sarà un’unica cosa” è il modo migliore per finire all’inferno. Chi si aggrappa al pacifismo di fronte all’attacco russo all’Ucraina rimane intrappolato in questo modo di “immaginare”.

Immaginate un mondo in cui le tensioni non si risolvono più attraverso i conflitti armati… L’Europa ha persistito a “immaginarla” così, ignorando la brutale realtà al di fuori dei suoi confini. Ora è il momento di svegliarsi. Non c’è più bisogno di leggere tra le righe quando Putin si paragona a Pietro il Grande: «A prima vista era in guerra con la Svezia per portarle via qualcosa… Non portava via niente, tornava… Stava tornando per rafforzarsi, questo è quello che stava facendo… Chiaramente, è toccato a noi tornare e rafforzare anche noi».

Più che concentrarsi su questioni particolari ( la Russia sta davvero solo “tornando” e verso qualcosa?) dovremmo leggere attentamente il modo in cui Putin giustifica la sua affermazione: «Per rivendicare una sorta di leadership globale qualsiasi gruppo etnico dovrebbe garantire la propria sovranità. Perché non esiste uno stato intermedio, né intermedio: o un paese è sovrano, o è una colonia, e non importa come vengono chiamate le colonie».

L’implicazione di queste righe, come ha affermato un commentatore, è chiara: ci sono due categorie di stat nella visione imperiale di Putin: “Il sovrano e lo sconfitto”. L’Ucraina deve rientrare in quest’ultima categoria. Ed è chiaro che anche Bosnia ed Erzegovina, Kosovo, Finlandia, Stati baltici… e in definitiva la stessa Europa dovono appartenere a questa categoria. Noi sappiamo benissimo cosa vuol dire permettere a Putin di “salvare la faccia”, non si tratta di piccole concessioni territoriali in Donbass ma di accettare le sue ambizioni imperialiste.

Il motivo per cui queste ambizioni dovrebbero essere respinte è che nel mondo globale di oggi in cui siamo tutti perseguitati dalle stesse catastrofi siamo tutti “nel mezzo”, in uno stadio intermedio, né sovrani né conquistati: insistere sulla piena sovranità di fronte al riscaldamento globale è pura follia poiché la nostra stessa sopravvivenza dipende da una stretta cooperazione globale. Ma la Russia non ignora semplicemente il riscaldamento globale: perché era così arrabbiata con i paesi scandinavi quando hanno espresso la loro intenzione di aderire alla Nato? Con il riscaldamento globale, la posta in gioco è il controllo del passaggio artico. (Ecco perché Trump voleva acquistare la Groenlandia dalla Danimarca.)

A causa dello sviluppo esplosivo di Cina, Giappone e Corea del Sud, la principale via di trasporto correrà a nord della Russia e della Scandinavia. Il piano strategico della Russia è trarre profitto dal riscaldamento globale: controllare la principale via di trasporto mondiale, oltre a sviluppare la Siberia e controllare l’Ucraina. In questo modo, la Russia dominerà la produzione alimentare da poter ricattare il mondo intero. Questa è la realtà economica sottostante al sogno imperiale di Putin.

Chi sostiene di far pressione sull’Ucraina per costringerla a negoziare e ad accettare dolorose rinunce territoriali, ama ripetere che Kiev semplicemente non può vincere la guerra contro la Russia. Vero, ma vedo proprio in questo la grandezza della resistenza ucraina: hanno rischiato l’impossibile, sfidando calcoli pragmatici, e il minimo che gli dobbiamo è il pieno sostegno, e per fare questo abbiamo bisogno di una Nato più forte, ma non come un prolungamento della politica statunitense.

La strategia di Washington per contrastare l’Europa è tutt’altro che scontata: non solo l’Ucraina, l’Ue stessa sta diventando il terreno della guerra per procura tra Stati Uniti e Russia, che potrebbe sfociare in un compromesso tra i due a spese dell’Europa. Ci sono solo due modi per l’Europa di uscire da questo terreno: giocare al gioco della neutralità – una scorciatoia per la catastrofe – o diventare un agente autonomo. ( Pensa a come potrebbe cambiare la situazione se Trump rivincesse le elezioni americane.)

Mentre alcuni esponenti di sinistra affermano che la guerra in corso è nell’interesse del complesso industriale- militare della Nato, che sfrutta la necessità di nuove armi per evitare crisi e ottenere nuovi profitti, il loro vero messaggio all’Ucraina è: «OK, siete vittime di una brutale aggressione, ma non affidatevi alle nostre armi perché così si aiuta l complesso industriale- militare… Lo smarrimento causato dalla guerra sta producendo strani compagni di letto come Henry Kissinger e Noam Chomsky che vengono da estremi opposti dello spettro politico – Kissinger in segretario di stato sotto i presidenti repubblicani e Chomsky uno dei principali intellettuali di sinistra negli Usa – che si sono scontrati spesso. Ma di fronte all’ invasione russa sostengono che Kiev debba abbandonare le pretese sui suoi territori «per raggiungere la pace».

L’idea più folle che circola in questi giorni è che, per contrastare la nuova polarità tra Stati Uniti e Cina ( che rappresentano gli eccessi del liberalismo occidentale e dell’autoritarismo orientale), Europa e Russia dovrebbero riunire le forze e formare un terzo blocco ‘eurasiatico’ basato su l’eredità cristiana purificata dal suo eccesso liberale. L’idea stessa di una terza via ‘ eurasiatica’ è un’odierna forma di fascismo.

Ciò che è assolutamente inaccettabile per una vera sinistra oggi non è solo sostenere la Russia, ma anche esibire una più modesta neutralità che sia divisa tra “pacifisti” e sostenitori dell’Ucraina, e che si debba trattare questa divisione come un fatto minore. Se la sinistra fallisce qui, il gioco è finito. Questo significa che dovrebbe schierarsi dalla parte dell’occidente, inclusi i fondamentalisti di destra che sostengono l’Ucraina?

L’Ucraina afferma di combattere per l’Europa e la Russia afferma di combattere per il resto del mondo contro l’egemonia unipolare occidentale. Entrambe le affermazioni dovrebbero essere respinte, e qui entra in scena la differenza tra destra e sinistra.

Dal punto di vista di destra, l’Ucraina combatte per i valori europei contro gli autoritari non europei; dal punto di vista di sinistra, l’Ucraina combatte per la libertà globale, inclusa la libertà degli stessi russi. Ecco perché il cuore di ogni vero patriota russo dovrebbe battere per l’Ucraina.

Daniele Dell'Orco per “Libero quotidiano” il 17 giugno 2022.

L'opinione pubblica italiana si è stancata della guerra in Ucraina, è un fatto ormai acclarato. Ma forse anche sulla scia di questa disaffezione che produce un fenomeno cosiddetto di "shadow-war"" (che spinge i dibattiti mediatici sul tema ad essere sempre meno seguiti), sta prendendo piede anche un altro sentimento: l'insofferenza. I cittadini italiani, ed europei in generale, hanno paura delle conseguenze che il conflitto sta provocando e vorrebbero una fine immediata delle ostilità. A qualsiasi costo. Anche se ciò dovesse significare concessioni territoriali alla Russia da parte di Kiev. In questo senso il nostro Paese è quello che ha empatizzato meno con le posizioni ucraine. 

SCHIERATI È quanto emerge dai risultati di un ampio sondaggio realizzato da Datapraxis e YouGov tra il 28 aprile e l'11 maggio in 10 Paesi europei e diffuso dal think-tank "European council on foreign relations", un'organizzazione privata impegnata in studi e ricerche di politica internazionale. L'indagine è stata condotta su un campione totale di circa 8mila persone sparse tra Finlandia, Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia, Polonia, Portogallo, Romania, Spagna e Svezia. 

I risultati del report mostrano che gli europei concordano in modo schiacciante (in media) sulla responsabilità del conflitto in Ucraina: il 73% ritiene infatti che la responsabilità sia della Russia. Ma se in Finlandia questa percentuale è del 90%, in Gran Bretagna dell'83 e in Germania scende al 66, in Italia è pari al 56%, il dato più basso tra i Paesi presi in esame. Di contro da noi è ben più alta la percentuale di chi pensa che la crisi sia responsabilità dell'Ucraina, dell'Unione Europea o degli Stati Uniti (27%). 

Altro dato significativo: in Italia solo il 39% degli intervistati pensa che la Russia sia l'ostacolo principale al raggiungimento di eventuali accordi di pace, di poco inferiore al 35% che ritiene Ucraina, Ue o Stati Uniti come i primi responsabili. Tra i Paesi presi in considerazione, insomma, l'Italia sarebbe il più "filorusso" o, se vogliamo, "antiamericano".

Anche se considerando il retaggio storico, culturale e politico delle varie realtà della rosa le conclusioni sorprendono fino ad un certo punto (Svezia, Finlandia, Polonia e Regno Unito, ad esempio, sono notoriamente tra i Paesi più ostili al Cremlino in tutto il mondo). Ci sono poi differenze importanti tra le sensibilità dei singoli cittadini che motivano le risposte. Gli intervistati in Germania, Italia e Francia, per dire, sono principalmente preoccupati per l'impatto della guerra sul costo della vita e sull'aumento dei prezzi dell'energia, mentre svedesi, britannici, polacchi e rumeni temono invece di più il rischio di una guerra nucleare.

PACE A TUTTI I COSTI Potrebbe essere anche questa una spiegazione della straordinaria voglia di pace a tutti i costi invocata dagli italiani. Il timore, cioè, che in un Paese già di per sé non proprio in salute, e che ha subito più di altri l'impatto della pandemia, l'istinto di autoconservazione possa essere basato sulla sensazione che altre pesanti conseguenze economiche potrebbero essere davvero fatali ai nostri conti. Ed è proprio su questo aspetto che, secondo i due autori del report, Mark Leonard e Ivan Krastev, si baseranno gli equilibri politici. La "resilienza delle democrazie europee dipenderà in gran parte dalla capacità dei governi di assecondare il sostegno dei cittadini a politiche potenzialmente dannose». Ecco, il messaggio che viene dall'Italia è chiaro: questo sostegno, da noi, non ci sarà.

L’Ucraina ci fa capire tante cose del nostro Pci. Che cosa significa essere ex-comunista. Claudia Mancina su Il Riformista il 7 Giugno 2022. 

Che cosa significa essere ex-comunista? In questi tempi di guerra è difficile sottrarsi all’interrogativo. Manconi, per esempio, ha lavorato parecchio sul tema della sinistra, delle sue involuzioni o, come si è efficacemente espresso, della sua “catastrofe culturale”. Ma io sento una specifica responsabilità dell’essere ex-comunista, di essere stata per quasi vent’anni iscritta al Pci e poi di avere partecipato e attivamente contribuito alla fine di quel partito e di quella tradizione. Gli ex-comunisti, certamente, sono solo una parte del Pd. Quando il partito fu fondato, mettendo insieme i Ds (ultima incarnazione dell’eredità comunista) e la Margherita (ultima incarnazione dell’eredità della sinistra democristiana) sembrò evidente la prevalenza degli ex-Pci. Prevalenza numerica, ma non solo: di tradizione politica e di elaborazione intellettuale.

Fu un errore di valutazione. Con gli anni, superate certe diffidenze, gli esponenti di provenienza cattolico-democratica o cattolico-liberale hanno guadagnato una incontestata egemonia culturale e politica. Basta spuntare l’elenco delle maggiori cariche di partito e non solo: il segretario Letta, il presidente Mattarella, il commissario europeo Gentiloni, i ministri Guerini e Franceschini. Anche Draghi, sebbene non dal partito, viene comunque dalla filiera cattolica. Mi fermo qui. Quale può essere la ragione di questa egemonia? In prima battuta, si potrebbe dire che i cattolici democratici si sono trovati, con la caduta dei regimi comunisti, dalla parte giusta della storia. Non avevano abiure da fare. Sarebbe però una spiegazione, anche se non sbagliata, insufficiente. Nei giorni scorsi Recalcati ha parlato di mancata elaborazione del lutto da parte dei già comunisti. Questa è la chiave giusta, tradotta in termini politici. Noi comunisti ci siamo trovati, indubbiamente, dalla parte sbagliata. Eppure da quella parte c’eravamo stati in modo un po’ speciale, con tutta l’originalità del comunismo italiano: dall’adesione di Togliatti alla democrazia, al progressivo distacco di Berlinguer dall’Unione sovietica. In quel campo, tuttavia, sia pure con un piede solo, noi ci stavamo.

Eravamo comunisti. Non credevamo più che l’Unione sovietica fosse la patria del socialismo, ma avevamo ancora il mito della rivoluzione russa. Qualcuno distingueva tra Lenin e Stalin per salvare il primo. Pensavamo che la democrazia fosse la strada giusta, ma per arrivare a una sorta di nuovo e inedito socialismo. Il mercato ci sembrava comunque una bestia diabolica da domare con l’espansione più ampia possibile dello stato. Eravamo per l’Europa, sì, ma per un’Europa diversa, non troppo americana, non troppo capitalista. Soprattutto, ci sentivamo diversi dai socialdemocratici che erano bravi (quelli degli altri paesi), ma in fondo accettavano il capitalismo limitandosi ad addomesticarlo un po’. Su questa nostra tiepida coscienza scaldata dal senso di superiorità si è abbattuto l’89 e poi Tangentopoli. Allora il partito ebbe la forza di tirarsi su per il colletto, tipo barone di Münchausen, e di cercare una nuova identità. Non siamo stati però capaci di elaborare, per l’appunto.

Quella sinistra che definisce filo-Putin tutti i pacifisti

L’eccezionalità del partito italiano avrebbe dovuto essere il punto di partenza per fare veramente i conti con il comunismo, con la sua storia grande e tragica. Avrebbe dovuto portarci a capire che la deviazione non iniziò con Stalin, che il destino fu scritto tra il febbraio e l’ottobre del 1917, quando fu affossata la rivoluzione democratica, sciolta l’Assemblea costituente, messe le fondamenta dello stato totalitario. Fu invece usata come schermo per non farli, i necessari ma scomodi conti. I luoghi comuni, le pigrizie intellettuali, le vecchie amicizie e inimicizie non furono sottoposte a severo scrutinio, ma conservate, se mai un po’ impolverate, e pronte a essere tirate fuori all’occasione. E l’occasione, cari ex-compagni, è arrivata con l’invasione dell’Ucraina. Credevamo di essere oramai definitivamente entrati nella Nato, dopo la presa di posizione di Berlinguer che risale, pensate, al 1976. E invece siamo ancora lì, al mito dell’Unione sovietica in absentia. Cioè, l’Unione sovietica non c’è più, ma il riflesso di solidarietà, di vicinanza, direi quasi di affinità è ancora vivo.

Travestito da pacifismo, o da realismo, o dal nichilismo del né-né, è un riflesso che fa sentire comunque più vicina la Russia, anche se criticata, degli Stati Uniti. La patria del capitalismo suscita più diffidenza di quella che fu la patria del socialismo. Certo, nessuno lo dice proprio così esplicitamente. Si dice piuttosto che la colpa è della Nato, che si è allargata a Est: ma se ci chiedessimo perché i paesi già appartenenti alla sfera di influenza sovietica hanno voluto entrare nella Nato? Forse avevano paura della Russia, forse volevano avvicinarsi, anche culturalmente, all’Europa occidentale? Oppure si dice che non c’è differenza tra l’imperialismo russo e quello americano: le bombe sull’Ucraina sono considerate equivalenti a quelle sull’Iraq o sulla Serbia. Ma, anche se per assurdo una simile equivalenza si potesse sostenere, come potremmo concluderne che non ci sia differenza tra una democrazia, con tutti i suoi difetti, e una autocrazia sanguinaria, dove non esiste libertà di opinione, non esiste informazione indipendente, e i dissidenti vengono ammazzati o messi in prigione?

Per un ex-comunista, questa tragica involuzione della Russia post-sovietica, che dopo una breve speranza di democrazia sembra essersi ricollegata, con un bel salto temporale, all’autocrazia zarista, per di più condita con la ferocia stalinista, è una sentenza terribile. Se settant’anni di comunismo hanno prodotto questo, che altro c’è da dire sul comunismo? Molto ci sarebbe stato da dire, se avessimo riflettuto su noi stessi, sulle scelte del Pci, mai portate sino in fondo, certamente, e tuttavia capaci di farne un partito costitutivo, a modo suo, della democrazia italiana e quindi, anche se non vi piace, occidentale. Ormai è tardi per farlo. Di quella grande e spesso eroica vicenda storica, che dovremmo considerare chiusa per sempre, restano questi incongrui riflessi: contro gli americani, contro la Nato, contro le spese militari, contro il dovere, morale prima ancora che politico, di aiutare un popolo invaso che, anziché arrendersi, combatte strenuamente contro l’aggressore. Claudia Mancina

E allora, la Cecenia? Anna Politkovskaja e i luoghi comuni del pacifismo antiamericano. Riccardo Chiaberge su L'Inkiesta il 28 maggio 2022.  

Già nei primi anni 2000 la giornalista russa uccisa dal Cremlino denunciava l’esistenza di un doppio standard sul piano dei diritti umani: «Di fatto l’Europa si è rassegnata all’esistenza di un territorio in cui si può fare ciò che si vuole impunemente». Ora sappiamo che quelle erano le prove generali del massacro di stampo nazista che oggi Putin tenta di ripetere in Ucraina.

Cosa ci faceva Anna Politkovskaja, il 16 agosto del 2001, in un fiordo norvegese, anzi per la precisione nel cimitero di un fiordo? La risposta è incisa sulla lapide davanti alla quale si ferma in raccoglimento, insieme a una vecchia del luogo: «Dod Tsjetsjenia. 17.12.1996». «Morta in Cecenia». «Ingeborg Foss, infermiera norvegese di quarantadue anni residente a Molde e che da Molde – placida cittadina sull’Atlantico – era partita il 4 dicembre del 1996, è morta a Starye Atagi, Cecenia, il 17 dello stesso mese, nell’ospedale che aveva messo in piedi con altri cinque fra dottori e infermiere. Dopo dieci giorni di missione con la Croce Rossa».

Ingeborg, racconta la madre Sigrid, ottantaduenne, era già stata in Nicaragua e in Pakistan. Quando le hanno chiesto di andare in Bosnia ha rifiutato, «Non posso. Mia madre è anziana». Per la Cecenia invece ha detto sì, perché quelli della Croce Rossa le assicuravano che non c’era pericolo. Il corpo di sua figlia, Sigrid se lo è visto restituire su una barella, portata da un collega medico. Nel 1997 l’allora presidente ceceno Maschadov le ha conferito la massima onorificenza del paese caucasico. Ma nessuna inchiesta, in Russia o altrove, ha mai fatto chiarezza sulle circostanze della sua morte. 

Nell’accomiatarsi da Sigrid, Anna riflette: «Continuate a credere che il mondo è grande? E che se da qualche parte si combatte, da un’altra non se ne sentano le conseguenze?… La disgrazia dei nostri giorni è che questa verità banalissima e vecchia come il mondo va ancora dimostrata come se fosse cosa di ieri. L’Europa non ha fatto una piega né per la modesta tomba di Molde, né per le migliaia di tombe in territorio ceceno. L’Europa continua a dormire, come se non fosse in terra d’Europa che si combatte da ventitré mesi, ormai… Eppure la Cecenia è parte integrante – e a pieno diritto – del Vecchio Continente». 

Se questo è vero nell’agosto del 2001, lo sarà ancor di più un mese dopo, quando tutta l’angoscia del pianeta si coagulerà intorno alle Twin Towers di New York, incenerite dalla furia del terrorismo islamista. E anche se gli attentatori non vengono del Caucaso settentrionale, diventerà sempre più difficile distinguere tra musulmani buoni e cattivi. Tanto che Vladimir Putin, da due anni insediato al Cremlino, avrà buon gioco a presentare la sua macelleria di massa come una benemerita operazione di bonifica in nome e per conto del mondo civilizzato.

Soprattutto dopo la strage nella scuola di Beslan, nell’Ossezia del Nord, il 1 settembre del 2004, non ci saranno più patrioti ceceni da combattere, soltanto terroristi da annientare. La guerra si concluderà cinque anni dopo, con la fulgida vittoria dell’armata rossa. Bilancio finale tra i cento e i centocinquantamila civili morti, per un paese che oggi conta un milione e mezzo di abitanti, trentamila bambini mutilati, un numero imprecisato di profughi. E di Grozny, la capitale, non resta in piedi neanche un mattone. 

Quanto all’Europa, rimane voltata dall’altra parte. Politkovskaja denuncia l’esistenza di un doppio standard sul piano dei diritti umani. Per cosa è morta Ingeborg Foss? Per i valori in cui era stata educata nella libera Norvegia, e che dovrebbero rappresentare i fondamenti della Ue. Purtroppo, scrive Anna, «di fatto l’Europa si è rassegnata all’esistenza di un territorio in cui si può fare ciò che si vuole impunemente…Niente proteste, niente boicottaggi nei confronti dei leader russi e – inconcepibile riguardo al resto d’Europa – tolleranza per omicidi, linciaggi, persecuzioni e, soprattutto, per la sanzione della responsabilità collettiva di un gruppo etnico rispetto a quanto compiuto da alcuni suoi membri». E se non è nazismo questo, l’essenza stessa del nazismo (criminalizzazione di un altro popolo, e divinizzazione del proprio), cos’altro è il nazismo? Qualche svastica tatuata sul collo o sventolata allo stadio? Il saluto a braccio teso di qualche bullo ignorante? In Cecenia, il giovane Putin (era stato nominato primo ministro della Federazione russa nel 1999, a soli 47 anni), ha fatto lucidamente, scientificamente, le prove generali della “denazificazione” di stampo nazista che oggi tenta di ripetere in Ucraina. 

E Politkovskaja, in qualche modo, lo aveva previsto (le pagine dell’eroica giornalista, assassinata nel 2006, sono tratte dal libro postumo Per questo, edito in Italia da Adelphi, che raccoglie i suoi articoli apparsi sulla Novaja Gazeta insieme a testi ancora inediti, appunti personali e testimonianze). Si poteva fermare il dittatore prima che lo diventasse, e prima che la sua ingordigia espansionistica minacciasse altri stati sovrani? Colpisce l’insistenza di Anna sullo strabismo degli europei, perché ribalta i luoghi comuni della retorica pacifista e neutralista antiamericana: dove eravate, nel gennaio del 1991, quando Bush Senior bombardava Baghdad? E nel 1999, nei giorni dei raid della Nato su Belgrado? Perché non avete mosso un dito, nel 2003, davanti all’invasione e alla distruzione dell’Iraq da parte di Bush Jr? 

Beh, a essere onesti qualche ditino si è mosso. Tanto per fare un esempio, il 15 febbraio 2003 furono centodieci milioni, in seicento città del mondo, a scendere in piazza contro la guerra “imperialista” americana. Tre milioni solo a Roma, con Piazza San Giovanni che esplodeva, la più grande manifestazione pacifista della storia secondo il Guinness dei primati (al secondo posto Madrid con un milione e mezzo di persone). Notare che nel 2003 Facebook e Twitter dovevano ancora nascere, la mobilitazione avveniva in modo artigianale, con il tam tam delle radio popolari, dei sindacati, dei giornali di sinistra come il Manifesto, o attraverso i cellulari dei militanti. Nella sfilata ai Fori Imperiali, in mezzo a una marea di striscioni arcobaleno, si distingueva un compagno di Rifondazione con il faccione di Lenin stampato sulla T-shirt e il colbacco in testa. 

Non ricordo mobilitazioni simili per la guerra in Cecenia: forse i miei neuroni con l’età si stanno un po’ ossidando, ma ho paura di non sbagliare. Ha ragione Anna Politkovskaja: l’Europa si è dimenticata di un frammento d’Europa, sbriciolato dalle bombe termobariche di un ex agente del Kgb con ambizioni imperialistiche. Ha deciso che per il quieto vivere fosse meglio abbandonarlo al suo destino. Tanto, come diceva allora un corrispondente della tv di stato norvegese «la Russia fa storia a sé», lì «i criminali di guerra non sono tanto criminali» e noi non ci possiamo fare niente. Mica pretenderete di cambiare l’anima russa…

Nel libro c’è un articolo che Anna stava scrivendo prima di venire uccisa, il 7 ottobre 2006. Riguarda le torture in Cecenia: l’Abu Ghraib, la Guantanamo dei russi. Leggere queste righe mette i brividi: «Ho davanti ogni giorno decine di cartelle. Sono le copie dei materiali giudiziari di coloro che sono finiti in prigione con accuse di “terrorismo” o sono ancora sotto inchiesta. Perché metto la parola terrorismo tra virgolette? Perché per la stragrande maggioranza si tratta di “terroristi per nomina”. Una pratica che fino a tutto il 2006 ha soppiantato la lotta al terrorismo vero e ha sfornato terroristi potenziali su cui vendicarsi. Quando procura e tribunali non servono la legge e non mirano a punire i colpevoli, ma lavorano su mandato politico e per una contabilità antiterroristica che aggrada al Cremlino, i processi spuntano come funghi».

Questi processi, conclude Politkovskaja, «sono l’arena in cui si scontrano due approcci ideologici a ciò che accade nella zona di “operazioni antiterrorismo del Caucaso del Nord”: è la legge contro l’illegalità o piuttosto la “nostra” illegalità contro la “loro”?». Questi erano i metodi del signor Putin quindici, vent’anni fa, ai primi gradini della sua carriera di uomo di stato e di grande liberale. Ma mi raccomando, voi guerrafondai dell’Occidente, non umiliatelo troppo. 

La destra, la guerra e la Nato: un dibattito che dura dagli anni ’50 e che ha riportato in pista persino Fini. Adele Sirocchi mercoledì 25 Maggio 2022 su Il Secolo d'Italia.

La guerra in Ucraina, con il rinnovato protagonismo degli Stati Uniti e il conseguente rafforzamento della Nato (con l’ingresso di Finlandia e Svezia) ha fatto precipitare la destra in un dibattito che sembrava rimasto in sospeso da decenni ma che già lacerava il Msi negli anni Cinquanta: essere atlantisti o no. Essere pro-Nato o anti-Nato. E ancora: criticare l’America oppure riconoscerle il ruolo di baluardo dell’Occidente minacciato.

La questione, come detto, teneva banco nei primi congressi del Msi – in particolare quello dell’Aquila del 1954 e quello di Milano del 1956 – e vide sempre la corrente di sinistra, capeggiata da Ernesto Massi e Concetto Pettinato, opporsi alla linea atlantista che poi il partito avrebbe intrapreso.

Oggi, come detto, certi sentimenti – mai del tutto sopiti e trasformatisi decenni dopo nelle mozioni critiche verso l’americanismo di Beppe Niccolai e di Pino Rauti – riaffiorano e si intrecciano al dibattito su Putin, Biden, il destino dell’Europa, l’Occidente.

Cinque giorni fa al Senato Ignazio La Russa sottolineava che non ci sono dubbi sulla posizione di FdI: “Noi siamo sempre stati ancorati ai valori occidentali. Ed è dal 1949 che la destra politica italiana, il Msi, poi An e poi il Pdl fino oggi a FdI, si è sempre coerentemente schierata da questa parte del mondo anche a sostegno dello strumento difensivo occidentale che è la Nato. Perché abbiamo sempre ritenuto che il pericolo alla nostra libertà venisse da Est”. E ha poi detto. “Se vogliamo essere alla pari degli Usa e non delegare agli Stati Uniti la nostra difesa non possiamo poi dire no alla politica per rafforzare il nostro esercito”. Una posizione netta, che peraltro Giorgia Meloni aveva chiarito già alla conferenza di Milano di FdI.

Eppure si discute. E’ accaduto alla presentazione del libro di Enzo Raisi a Roma, “La casta siete voi“, dove erano presenti Gianni Alemanno e Claudio Barbaro, entrambi di FdI. E dove ha preso la parola Gianfranco Fini per il suo primo intervento pubblico dopo molti anni. Lo scambio di vedute ha riguardato la guerra, la destra e l’Occidente.

“Non riesco a capire come in alcuni casi da destra si continua a dire che l’Italia e l’Europa sono una colonia americana in ragione di quello che è accaduto nel ’45 – ha detto Gianfranco Fini – oggi la questione riguarda il confronto in atto tra un Occidente in fase regressiva e altre realtà economico-finanziarie culturali che sono in fase espansiva. Le realtà in espansione, le cosiddette autocrazie o le cosiddette dittature, quali Cina e Russia, sono i due modelli alternativi ai modelli occidentali che vanno rivisti certo, riformati, non è tutto oro quello che luccica, a cominciare dalla cancel culture che vuole abbattere le statue di Colombo…”.

A sua volta Gianni Alemanno, reduce da una missione umanitaria della Fondazione An che ha portato aiuti alle popolazioni ucraine colpite dalla guerra,  non fa mistero della sua posizione critica verso la narrazione unica sul conflitto. “Anche gli Usa – ha detto di recente in un’intervista a Repubblica– hanno fatto le loro guerre illegali e sul Donbass non è stata mai avanzata una proposta per risolvere il problema dal 2014…”. E tra due giorni lo stesso Alemanno sarà presente al dibattito “Fermare la guerra” a Roma, a Palazzo Wedekind. Ci saranno Franco Cardini, Toni Capuozzo e Francesco Borgonovo, tutti noti per le loro posizioni anti-Nato e comprensive verso le ragioni della Russia. E a moderare ci sarà Massimo Magliaro, già capo ufficio stampa dell’atlantista Almirante. E il dibattito continua…

Kiev: "La Nato non fa niente". Sos Slovacchia: "Noi i prossimi". Redazione il 26 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, intervenendo al Forum economico di Davos in Svizzera, ha accusato la Nato di "non fare letteralmente nulla" per far fronte all'aggressione russa.

Il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba, intervenendo al Forum economico di Davos in Svizzera, ha accusato la Nato di «non fare letteralmente nulla» per far fronte all'aggressione russa. Se l'Ucraina dovesse perdere la guerra contro la Russia, il prossimo obiettivo ad essere attaccato da Mosca sarebbe Bratislava. A dirsene certo è stato il premier slovacco, Eduard Heger, sottolineando la necessità che l'Ucraina esca vincitrice dal conflitto. «L'Occidente deve assicurare tutto l'aiuto possibile», ha affermato ancora intervenendo al foro di Davos. «L'Ucraina deve vincere, quindi forniremo tutta l'assistenza militare e umanitaria necessaria. Gli ucraini stanno proteggendo e perdendo la vita per i nostri valori», ha affermato. Ha anche ricordato che la Slovacchia ha ricevuto aiuti in passato da altri paesi, facendo notare come, per questo motivo, «ora è importante aiutare l'Ucraina e altri Stati ad entrare nell'Unione Europea». «L'Ucraina vuole raggiungere questo obiettivo, ma ha bisogno del nostro sostegno. Vogliamo aiutarli, quindi non trasciniamoci per decenni», ha esortato, prima di ricordare che la Repubblica Ceca, la Polonia e l'Ungheria si sono unite al blocco con «il grande aiuto del Commissione europea. D'altra parte, ha criticato gli Stati membri dell'Ue per essere troppo dipendenti dall'energia russa» e ha invitato i leader europei a «smetterla di arrivare a compromettere i propri principi». «In effetti, abbiamo scambiato le nostre politiche per gas e petrolio a buon mercato per troppo tempo. I compromessi con Putin hanno provocato la guerra in Ucraina, una guerra aggressiva che sta causando morti», ha detto.

Durante l'incontro coi giornalisti a margine del Forum economico mondiale a Davos, il filantropo campione della democrazia liberale e della «società aperta» George Soros ha sostenuto che, con l'inizio dell'invasione russa in Ucraina, «il corso della storia è cambiato radicalmente» e che l'azione militare di Mosca «ha scosso l'Europa in profondità». Per Soros, la cosiddetta «operazione speciale potrebbe aver segnato l'inizio della terza Guerra Mondiale e la nostra civiltà potrebbe non sopravvivere».

Spunta l'accordo della Nato: "Non diamo queste armi a Kiev". Federico Giuliani il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

I paesi membri della Nato si sarebbero accordati informalmente per non fornire alcuni tipi di armamento all'Ucraina in modo da evitare il rischio di uno scontro fra la Russia e l'Alleanza Atlantica.

Un accordo informale tra i Paesi membri della Nato per non fornire alcuni tipi di armamenti all'Ucraina, in modo tale da scongiurare il rischio di uno scontro tra la Russia e la stessa Alleanza Atlantica. È questa l'indiscrezione lanciata dall'agenzia stampa tedesca Dpa e confermata da fonti diplomatiche Nato.

L'intesa della Nato

A detta di queste fonti anonime, l'intesa formale sarebbe stata rispettata anche per il timore che, in caso di rappresaglia russa, non vi sarebbe stato il pieno sostegno da parte dei membri dell'Alleanza. È per questo motivo, ad esempio, che lo scorso marzo la Polonia non ha fornito a Kiev i Mig 29 che sembravano davvero ad un passo dal varcare i confini di Varsavia, diretti come erano verso l'Ucraina.

Non è un caso, dunque, che i membri della Nato non abbiano fin qui fornito al governo guidato da Volodymyr Zelensky né aerei caccia né tank di tipo occidentale. A ben vedere, ha sottolineato Dpa, i Paesi membri situati in est Europa hanno spedito a Kiev armi ed equipaggiamento risalente all'era sovietica. Niente, insomma, che potesse scatenare una pericolosissima reazione di Mosca.

La posizione dell'Alleanza Atlantica

Un portavoce della Nato, interrogato dall'agenzia stampa tedesca, ha preferito non commentare l'indiscrezione, spiegando però che ogni decisione sulla fornitura di armi viene presa dai singoli Stati membri. In ogni caso, le notizie del presunto accordo informale sono arrivate in un momento particolare, ossia mentre il governo tedesco del socialdemocratico Olaf Scholz è finito nell'occhio del ciclone e criticato per lo scarso invio di armi all'Ucraina.

Non solo: da giorni il ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, sta ripetendo che il suo Paese intende acquisire veicoli da combattimento della fanteria tedesca Marder e idealmente anche i principali carri armati Leopard. "Ma non ci siamo nemmeno vicini, non ci siamo", ha detto in una conferenza stampa a margine del World Economic Forum di Davos. "Capiamo che è più difficile per la Germania che per gli altri, quindi abbiamo deciso di seguire questo sviluppo con pazienza strategica", ha quindi chiarito Kuleba, aggiungendo di non riuscire a capire perché per Berlino sia così complicato vendere quel tipo di armi. "Se non avremo tutte le armi pesanti di cui necessitiamo saremo uccisi dai russi", ha quindi concluso il ministro ucraino.

Nel frattempo vale la pena ricordare che, la scorsa domenica, il sottosegretario tedesco alla Difesa, Siemtje Moeller, aveva detto all'emittente Zdf che in seno alla Nato era stato convenuto di non inviare a Kiev veicoli di fanteria o tank occidentali. Il capogruppo Spd al Bundestag, Wolfgang Hellmich, ha invece commentato la notizia della Dpa dicendo che la commissione Difesa ne era stata informata a metà maggio. A riguardo, ha spiegato, la Nato non ha preso decisioni formali perché sono gli Stati membri, non l'Alleanza a fornire armi. Tutti hanno rispettato l'accordo e "chi dice diversamente o non ha ascoltato bene o consapevolmente non dice la verità". Già ai primi di maggio, Hellmich aveva riferito che la Nato aveva deciso "di non fornire tank pesanti da battaglia, nessun Leclerc o Leopard".

Non c’è vero pacifismo senza lotta agli aggressori, risponde Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.

Caro direttore,

vorrei esprimere qualche considerazione sui numerosi pacifisti nostrani. Il pacifismo è un’apprezzabile dottrina, da me condivisa, finalizzata ad evitare le guerre prima che deflagrino; ma se una guerra è già in atto, il pacifista dovrebbe coerentemente sostenere l’aggredito e criticare inequivocabilmente l’aggressore che l’ha provocata. Non dovrebbe auspicare la resa dell’aggredito, peraltro mai presa in considerazione da quest’ultimo, per ottenere la fine della guerra; tale atteggiamento rappresenta un implicito sostegno a favore del bellicismo, cioè un incitamento a risolvere eventuali controversie internazionali con la forza militare, soprattutto se la controparte appare più debole. Alberto Tettamanzi

Caro signor Tettamanzi,

Tutte le generazioni di europei che hanno vissuto la lunghissima stagione di pace dopo la Seconda guerra mondiale forse hanno considerato questa situazione come scontata. Quasi fosse un elemento naturale come l’aria che respiriamo. Purtroppo non è così, l’abbiamo visto dai tanti terribili conflitti esplosi in altre parti del nostro mondo. La pace va perseguita e costruita ogni giorno, deve essere l’obiettivo costante di individui, Stati e governi. Ogni pacifista vero (e non quelli che si dichiarano così per interessi politici o personali inconfessabili) sa che respingere un’invasione, combattere una devastante aggressione armata, come quella di Putin in Ucraina, è la condizione necessaria perché questo non accada un’altra volta. Perché non si lasci il mondo alla mercé del dittatore armato di turno. È politicamente, strategicamente e moralmente giusto costringere Putin a fermarsi e mettersi al tavolo della trattativa. Tutta la comunità internazionale deve lavorare per questo obiettivo, con la diplomazia e con l’aiuto militare agli ucraini fino a quando sarà necessario. È quello che In Italia purtroppo non capiscono quei politici molto comprensivi verso Putin e pronti soltanto a consigliare a Zelensky di arrendersi.

Bucha, Alessandro Sallusti: "Da Putin una foto ricordo per voi". Lo scatto che spazza via pacifisti e traditori dell'Occidente. Libero Quotidiano il 04 aprile 2022.

Mosca smentisce, del resto nega pure di stare combattendo una guerra. Eppure le fotografie che arrivano dalle città ucraine distrutte, saccheggiate e poi abbandonate dai soldati russi parlano chiaro. Di fronte a corpi di civili inermi giustiziati per strada o nei ripari di fortuna - per esempio un tombino - qualcuno può ancora sostenere che Putin ha le sue buone ragioni per fare quello che ha fatto e che sta facendo? Ci sono fotografie che hanno cambiato il corso di una guerra, a volte la storia stessa.

Nel giugno del 1972 in un paesino vietnamita vicino al confine con la Cambogia aerei dell'aviazione sudvietnamita armata dagli Usa sganciarono bombe incendiarie al napalm. Kim Phúc, una bambina di 9 anni che si riparava da tre giorni in un tempio, rimase colpita: il suo braccio sinistro prese immediatamente fuoco, il suo vestito si distrusse in pochi secondi. Scappò dal tempio e cominciò a correre - gridando «Scotta! scotta!» - e un fotografo dell'Associated Press scattò una foto di lei nuda che fuggiva verso una improbabile salvezza (che in effetti miracolosamente trovò). In molti hanno sostenuto che quella foto contribuì ad accelerare la fine della guerra del Vietnam tanto fu l'emozione e lo sdegno nell'opinione pubblica americana e mondiale di fronte a tanto orrore. 

Tra la foto della piccola Kim e quelle che stanno arrivando in queste ore dall'Ucraina la differenza più importante è che la prima è stata sbattuta in faccia dalla stampa libera anche ai cittadini del paese considerato allora aggressore, gli Stati Uniti, mentre il popolo russo prigioniero della censura e della propaganda putiniana mai vedrà i massacri gratuiti commessi dai suoi soldati, mai potrà vergognarsi del proprio leader e quindi mai sentirà il bisogno di ribellarsi. Noi però quelle foto le possiamo vedere, l'Occidente certo non è un paradiso terrestre e avrà anche le sue colpe ma ha un'arma micidiale sconosciuta al nemico: la libertà dei suoi cittadini. E nessun uomo libero, di destra o di sinistra che sia, di fronte a queste immagini può girarsi dall'altra parte, fare finta di niente o collocarsi nella zona neutra del né con Putin né con gli ucraini. Fermare la ferocia russa è l'unica via per arrivare alla pace, quei corpi di civili a terra inutilmente crivellati ci dicono che gli ucraini mai potranno arrendersi, e noi con loro.

Da repubblica.it il 20 maggio 2022.

Emergono nuove prove delle atrocità commesse dai soldati russi a Bucha, cittadina a nord-ovest di Kiev. Le fornisce un'inchiesta del New York Times che ha diffuso dei video che mostrano come i russi abbiano giustiziato almeno 8 uomini ucraini nel sobborgo della capitale. 

I video ottenuti dal New York Times risalgono al 4 marzo. Nelle immagini si vedono le forze paracadutiste russe che catturano un gruppo di uomini ucraini che vengono condotti in fila verso un cortile dove poco dopo verranno giustiziati: gli uomini, se ne contano 9, camminano ricurvi, con un braccio sulla testa e l'altro a tenere la cintura del compagno davanti.

I video, spiega il quotidiano, sono stati girati da una telecamera di sicurezza e da un testimone in una casa vicina. 

Il video in cui si vedono gli uomini catturati termina, ma quello che è accaduto successivamente viene raccontato da alcuni testimoni, spiega il Nyt: i soldati hanno portato gli uomini dietro un vicino edificio che era stato occupato dai russi e lì ci sono stati degli spari: gli uomini catturati non sono tornati indietro.

Un video filmato da un drone il 5 marzo "fornisce la prima prova visiva che conferma il racconto dei testimoni: mostra i corpi morti a terra sul lato dello stesso edificio - spiega il quotidiano - mentre due soldati russi sono lì vicino di guardia". 

E nell’impegno della comunità internazionale per fare luce sui crimini di guerra commessi dai russi, arriva l’importante presa di posizione dei responsabili della giustizia di cinque paesi occidentali, che formano la cosiddetta alleanza "Five Eyes", e hanno annunciato di appoggiare l'azione legale dell'Ucraina. 

I ministri della Giustizia o procuratori generali di Stati Uniti, Regno Unito, Australia, Canada e Nuova Zelanda hanno affermato in una dichiarazione di "sostenere" l'azione del procuratore generale dell'Ucraina Iryna Venediktova volta a ritenere responsabili i responsabili di "crimini di guerra commessi durante l'invasione russa".

L'Ucraina ha aperto migliaia di casi di crimini di guerra presumibilmente commessi da soldati russi dal 24 febbraio - e questa settimana è stato aperto un primo processo. "Sosteniamo la ricerca di giustizia dell'Ucraina e attraverso altre indagini internazionali, inclusa la Corte penale internazionale" e altri organi, hanno affermato nella loro dichiarazione congiunta.

“Condanniamo insieme le azioni del governo russo e lo invitiamo a cessare tutte le violazioni del diritto internazionale, a fermare la sua invasione illegale e a cooperare”. Il loro discorso arriva all'indomani del primo giorno del processo a un soldato russo, il primo ad essere processato in Ucraina per un crimine di guerra dall'inizio del conflitto. Vadim Shishimarin è accusato di aver ucciso lo scorso 28 febbraio nel nord-est del Paese Oleksandr Shelipov, un uomo di 62 anni. Ha ammesso i fatti e giovedì l'accusa ha chiesto l'ergastolo.

Se questa è Bucha. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 20 maggio 2022.  

Sono sicuro che nelle prossime ore, ma forse già nei prossimi minuti, coloro che hanno messo in dubbio le responsabilità russe nei massacri di Bucha ammetteranno di essersi sbagliati. Non si pretende una retromarcia dal governo di Putin, che, essendo in guerra, è costretto a negare ogni verità che danneggi la sua propaganda. Ce la si aspetta da quanti in guerra non sono, se non sui giornali e nei talk, e hanno messo in dubbio la veridicità delle stragi, in qualche caso spingendosi a parlare di messinscena, ma più spesso sospendendo prudentemente (o pilatescamente?) il giudizio in attesa di prove inconfutabili. assomiglia molto a quel genere di prove. Documenta una delle esecuzioni compiute a Bucha dai russi in ritirata e mostra una fila di nove ucraini in abiti civili che camminano ricurvi verso la morte, tenendo un braccio sopra la testa e l’altro appoggiato alla cintura del compagno di sventura che li precede. Una testimonianza che dovrebbe azzerare i dubbi e le ricostruzioni spericolate, consentendo all’estenuante dibattito pubblico di fissare finalmente un punto condiviso. Si sono create fazioni contrapposte che tendono a esaltare le prove a favore della propria tesi e a minimizzare quelle che la mettono in cattiva luce. Riconoscere il marchio russo sugli orrori di Bucha sarebbe un gesto di onestà intellettuale e un segno di pace. Le ore e i minuti passano, ma attendiamo fiduciosi. 

Se questi sono uomini. di Paolo Di Paolo su La Repubblica il 20 maggio 2022.  

Le forze paracadutiste russe catturano un gruppo di uomini ucraini che vengono condotti in fila verso un cortile dove poco dopo verranno giustiziati: gli uomini - dice la didascalia - camminano ricurvi, con un braccio sulla testa e l'altro a tenere la cintura del compagno davanti.

Nessuna violenza somiglia a un’altra, nessun orrore è parente di un altro; la Storia si ripete ma non identica a sé stessa, e piuttosto occorre dire che, nel bene e nel male, si ripete l’umano. I paragoni e i paralleli non hanno senso. E chiedersi, davanti a immagini così, se questi siano uomini, presuppone - prima che la domanda tormentosa di Levi - la risposta implicita è inevitabile: sì, lo sono. Sono uomini.

C’è semmai - per stare alla riflessione che Levi porta all’estremo in quel libro ultimo e straordinario che è "I sommersi e i salvati" - da evocare la parola vergogna.

E c’è un’altra vergogna più vasta, la vergogna del mondo. È stato detto memorabilmente da John Donne, e citato innumerevoli volte, a proposito e non, che nessun uomo è un’isola, e che ogni campana di morte suona per ognuno. Eppure c’è chi davanti alla colpa altrui, o alla propria, volge le spalle, così da non vederla e non sentirsene toccato.

(ANSA il 20 maggio 2022. ) - I russi hanno completato la rimozione delle macerie del teatro di Mariupol bombardato a marzo, portando via i corpi di centinaia di civili. Lo ha affermato il consigliere del sindaco di Mariupol, Petro Andryushchenko, citato da Unian.

"Ora non sapremo mai quanti civili di Mariupol siano stati effettivamente uccisi dal bombardamento russo al Teatro d'arte drammatico. I morti sono stati sepolti in una fossa comune a Mangush", ha detto Andryushchenko, affermando che "è difficile immaginare un crimine di guerra e contro l'umanità più grande".

"Le 50 Bucha nascoste". Nino Materi il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr: "Eccidi in decine di villaggi. Un orrore che stiamo scoprendo man mano che i centri che erano in mano russa vengono liberati".

L'orrore di Bucha d'inizio aprile - com'era evidente senza paraocchi ideologici e complottistici - non era il semplice punto di arrivo di una guerra in cerca di pace, ma il ben più complesso punto di partenza di un conflitto proiettato su sempre nuove escalations di violenza. Nulla di casuale, tutto cinicamente calcolato a tavolino da chi (in testa Russia, Cina e Stati Uniti, con l'Europa in un ruolo ancillare) ha interesse che le bombe non vengano disinnescate dalla diplomazia. L'ennesima conferma - se mai ce ne fosse bisogno - viene dalla dichiarazioni di ieri rilasciate all'Ansa dal direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr, padre Vitalyi Uminskyi: «Ci sono una cinquantina di villaggi in Polyssia, regione nell'Ucraina del Nord ai confini con la Bielorussia, che hanno vissuto orrori come a Bucha». Parole che - a rischio di apparire cinici - potremmo dire che non sorprendono più di tanto: la realtà degli enormi interessi economici in campo e lo scenario geopolitico è infatti evidente e non appare tale solo a chi, strumentalmente, ha scelto di prestarsi al gioco incrociato delle propagande.

Poi ci sono le vittime vere (i soldati e, ancor peggio, i civili) maciullati dai razzi mentre i potenti si sfidano a Risiko. Una partita in cui sta cercando di inserirsi anche la Chiesa, con il Papa però molto incerto sul da farsi e i cui problemi di deambulazione sembrano essere la migliore metafora dell'incertezza su quale strada intraprendere. E allora ecco che la testimonianza di padre Vitalyi Uminskyi assume quasi il valore di un monito. Nell'ambito dell'incontro con la fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre, il direttore di Caritas Kiev-Zhytomyr ha denunciato «torture, uccisione di civili, distruzioni e saccheggi in almeno altri 50 villaggi in Polyssia. La stessa devastazione di Bucha, moltiplicata per cinquanta.

«Nel villaggio di Maryanivka - ha raccontato il religioso ucraino - sono morti cinque bambini che erano usciti dal rifugio della scuola che in quel momento è stata attaccata. I villaggi sono stati occupati dai russi per 47 giorni, ora liberati, ma solo in questi giorni sono stati raggiunti da Caritas, con grande difficoltà, perché quasi tutte le strade intorno sono minate». In questi giorni i volontari della Caritas stanno raggiungendo piccoli centri come Zirka, Lugovyky e Ragivka, portando per la prima volta aiuti resi possibili dalla protezione del militari di Zelensky che hanno liberato la zona. Fino a pochi giorni fa, l'intera area risultava infatti, irraggiungibile per strade interrotte e campi minati. Padre Uminskyi cita testimonianze dirette che parlano di «giovani soldati russi, spesso ubriachi, che hanno distrutto con l'ausilio di carri armati le case di civili saccheggiandole. Su alcune abitazioni i russi hanno scritto fascisti. Secondo gli abitanti della zona i russi sapevano chi cercare, soprattutto reduci della guerra del 2014 in Donbass che qui si sono trasferiti dopo il conflitto. I soldati avevano liste con i nomi di persone da colpire». «Tre di questi reduci - aggiunge il religioso a capo della Caritas locale - sono stati torturati con bruciature e uccisi». Una strage che si sarebbe consumata nel villaggio di Marianyvka: «Qui cinque bambini sono stati uccisi da un bombardamento russo nella scuola locale. I piccoli, al termine di un primo attacco, sono usciti dal loro rifugio rimanendo uccisi da un altro missile lanciato che ha colpito anche la struttura scolastica. I corpi dei bimbi sono stati sepolti nel cortile della scuola perché i russi non hanno dato il permesso di rimuovere i cadaveri». Altri testimoni citati da padre Uminsky aggiungono morte a morte: «Due giovani catturati, torturati e uccisi dai russi. I loro corpi sono stati ritrovati in questi giorni in una fossa scavata nei boschi». Immagini che fanno tornare alla memoria lo scempio di Bucha, che qualcuno ha perfino avuto il coraggio di definire «una messinscena». Invece quelle decine di corpi abbandonati lungo le strade o gettati nelle fosse comuni erano paurosamente «veri». Ma oggi come allora Mosca respinge le accuse di aver ucciso civili a Bucha, come ribadisce il ministero degli Esteri russo, Sergej Lavrov, bollando le foto ed i video sui morti di Bucha come «fake prodotti da Kiev e dai media occidentali». Qualcuno, forse, un giorno glielo rinfaccerà. Magari nel corso di un'intervista. Vera, possibilmente.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 6 maggio 2022.

Torture, mutilazioni, stupri, esecuzioni di civili inermi. Migliaia di crimini di guerra, ma anche l'ipotesi di genocidio. Ancora ieri mattina, mentre i 45 colleghi dei Paesi membri del Consiglio d'Europa si riunivano a Palermo, non era chiaro se e come Iryna Venediktova, procuratrice generale dell'Ucraina, sarebbe riuscita a collegarsi.

Ma quando la sua voce per dodici minuti è risuonata da Kiev nella sala d'Ercole di Palazzo dei Normanni, non si è trattato solo di un «very special intervention», ma di un atto d'accusa contro la Russia in un consesso internazionale.

La massima autorità giudiziaria ucraina ha ricostruito la tattica delle forze armate russe come emerge dalle prime indagini: prima le cose, poi le persone. «Fin dai primi giorni hanno preso di mira 5.137 edifici civili con bombardamenti indiscriminati» che hanno già distrutto 1.584 istituzioni educative e 340 strutture mediche.

«Ma quando è diventato evidente che non potevano prendere il controllo della capitale e decapitare il governo, hanno iniziato a colpire massicciamente i civili come forma di punizione, seminando paura e terrore con atrocità di portata crescente». 

Oltre a Kiev, Bucha, Irpin, Borodianka, Hostomel, «abbiamo situazioni simili in altre aree, e solide prove che i civili siano intenzionalmente presi di mira in modo diffuso e sistematico», anche se i russi si stanno attivando «per coprire le tracce e depistare le indagini».

Il catalogo delle brutalità comprende «corpi che giacciono allineati nelle strade, con mani legate e chiari segni di torture e mutilazioni; alcuni ancora con le biciclette o i cani, altri colpiti mentre cucinavano su fuochi di fortuna. Corpi di donne e bambini violentati e parzialmente bruciati sull'asfalto. Una camera di tortura a Bucha, per civili disarmati prima seviziati e poi fucilati. E violenze sessuali documentate con prove crescenti nelle regioni di Donetsk, Zaporizhia, Kiev, Lugansk, Kharkiv e Kherson».

Tra le 25 vittime di stupri, una è un minore. Altre otto indagini riguardano la deportazione in Russia e Bielorussia di 2.420 bambini. Nelle zone prese d'assedio «le forze russe stanno deliberatamente bloccando i corridoi umanitari per la consegna di cibo e medicine, nonché l'evacuazione di donne, bambini e anziani».

Caso limite è Mariupol, «una volta bella» e ora distrutta per il 90%, «con centinaia di civili e 500 soldati feriti ancora intrappolati nell'acciaieria Azovstal». La magistratura ucraina indaga su quasi 10 mila segnalazioni di crimini di guerra «e il numero cresce ogni giorno».

Quindici russi sono formalmente incriminati. Una separata inchiesta ipotizza il reato più grave del diritto umanitario: il genocidio. Ma da soli non ce la facciamo, avverte la procuratrice.

Difficile individuare colpevoli e testimoni (molti fuggiti all'estero), nonché trovare attrezzature di medicina legale e tecnologie informatiche per gestire la massa di denunce.

La cooperazione internazionale è necessaria «per farla finita con l'impunità dei colpevoli a tre livelli: soldati, capi militari, leader politici». Corte penale internazionale ed Eurojust collaborano; Polonia e Lituania hanno avviato indagini congiunte. Altri 16 Stati hanno aperto inchieste autonome. 

«Mi appello a voi, non perdete l'attimo, contiamo sul vostro aiuto», conclude Venediktova. «Vi aiuteremo in questo compito difficile», chiosa il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi. Parole e applausi tutt'altro che di circostanza. 

Per i nuovi pacifisti che stanno ribaltando la storia la colpa della guerra è di chi reagisce all’aggressore. Da Hitler al Vietnam, le “quinte colonne” di Putin in Italia stanno ispirando un grande processo di revisionismo storico. GIULIANO CAZZOLA su Il Quotidiano del Sud il 20 maggio 2022.

Non ce ne siamo accorti, ma le “quinte colonne” di Putin in Italia stanno ispirando un grande processo di revisionismo storico, a fronte del quale l’opera di Renzo De Felice impallidisce e scompare.

Applicando i loro canoni agli eventi e alle cause che hanno determinato i conflitti del XX secolo si ottiene una radicale smentita di quanto ci hanno fatto credere o che abbiamo direttamente vissuto senza renderci conto della realtà.

LA STORIA RIBALTATA

Quali sono i criteri di valutazione di Alessandro Orsini, Donatella Di Cesare, Michele Santoro e tanti altri, nati o rinati a nuova vita in occasione della guerra in Ucraina?

1) Se l’aggressore è più forte dell’aggredito, quest’ultimo deve arrendersi il più presto possibile per non costringere il primo a compiere una “inutile strage’’.

2) Come conseguenza, se l’aggressore vanta delle rivendicazioni territoriali in base al suo libero arbitrio, l’aggredito deve essere pronto a concedergliele.

3) In queste circostanze l’esercizio di un elementare diritto di difesa trasforma l’aggredito in aggressore e in nemico della pace; pertanto la comunità internazionale non deve prestargli in alcun modo assistenza.

4) In ogni caso, l’aggressore NON deve mai essere umiliato, per non obbligarlo a compiere azioni sconsiderate, ma giustificate, per non perdere la faccia.

In base a questi nuovi criteri di giudizio si potrebbe riscrivere tutta la storia del secolo breve. Tutto iniziò dalla fine della Grande Guerra e dalle condizioni imposte dagli Alleati dell’Intesa (vincitori del conflitto grazie all’intervento Usa alle potenze sconfitte, tra cui la Germania. Si inserisce a questo punto il tema dell’umiliazione che giustificò (secondo le nuove dottrine) la reazione del nazionalismo tedesco il quale, in fondo, si accontentava di rivendicare quanto gli era stato sottratto a Versailles e a difendere i milioni di tedeschi sottratti all’autorità del Reich dalla nuova carta geografica europea.

HITLER “INNOCENTE”

Del resto che Hitler non volesse scatenare la Seconda guerra mondiale lo ha riconosciuto anche Alessandro Orsini. I veri responsabili furono i governi che rifiutarono non solo di arrendersi, ma anche di trattare con Hitler nonostante le evidenti condizioni di inferiorità che rendevano disperato ogni tentativo di resistenza nei confronti delle armate tedesche.

Il primo responsabile fu Winston Churchill che deluse il Fuhrer il quale aveva in mente di chiudere con una resa sostanziale la partita con l’Impero britannico per dedicarsi all’aggressione dell’Unione sovietica.

Lo stesso fece Stalin quando nel giugno 1941 l’Urss fu invasa dai nazisti su di un fronte di 3.000 km e con una penetrazione di 1.000 km nel territorio.

Il terzo responsabile fu il presidente americano Franklin Delano Roosevelt che – con la legge “affitti e prestiti’’ (la stessa ripescata da Joe Biden) – fornì una cospicua assistenza militare ai Paesi aggrediti, Urss inclusa, prima di portare in guerra l’esercito Usa anche in Europa.

Finito il secondo conflitto mondiale, la stessa guerra di Corea portava le stimmate dell’imperialismo americano, tanto che furono costretti a intervenire anche i cinesi in difesa degli ascendenti dell’attuale regime. Ma quel guerrafondaio di Harry Truman arrivò persino a destituire dal comando un eroe popolare come Douglas Mac Arthur, per divergenze sulla conduzione della guerra, che secondo il presidente Usa avrebbero potuto portare a un conflitto mondiale.

Poi dobbiamo mettere in conto la lunga guerra di liberazione del Vietnam, iniziata con la sconfitta dei colonialisti francesi a Dien Ben Phu da parte delle truppe Vietminh comandate dal leggendario generale Giap. L’Indocina francese venne divisa in due e gli Usa si fecero garanti del Vietnam del Sud di indirizzo nazionalista, in funzione della strategia di contenimento dell’espansione del comunismo.

DAL VIETNAM A KABUL

Gli Usa impiegarono negli anni la loro potenza militare, ma dovettero subire l’umiliazione della sconfitta sul campo e della fuga precipitosa con scene come quelle che si sono ripetute durante l’evacuazione disonorevole di Kabul. È vero che i Vietcong e l’esercito del Nord erano armati fino ai denti dall’Urss (che gli Usa non definirono mai cobelligeranti) ma la sproporzione di forze era evidente e, secondo i nostri revisionisti, i vietnamiti avrebbero dovuto arrendersi per evitare la distruzione del loro Paese.

Poi come si erano permessi quei piccoli uomini e donne gialli di sfidare un Paese dotato di un armamento nucleare? Si credevano forse di essere ucraini? O sono gli ucraini a sentirsi vietnamiti? La tragedia del Vietnam fu una discriminate etica per un’intera generazione, dagli Usa all’Europa.

Quella guerra condizionò la politica americana per decenni entrando di peso nelle campagne elettorali di una nazione divisa. Basti pensare che il giovane Bill Clinton, futuro presidente degli Usa per due mandati, andò a vivere in Canada per sottrarsi alla chiamata alle armi, mentre John Mc Caine, senatore repubblicano candidato alla presidenza contro Barack Obama (in seguito deciso avversario di Trump) si coprì di onore e di medaglie in quella guerra, anche per le torture subite durante la prigionia.

La sinistra europea si spacca sulla guerra in Ucraina. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 21 Maggio 2022.  

Interventismo contro pacifismo: dal 24 febbraio, giornata che è già passata alla storia come l’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, la sinistra europea si è spaccata in mille rivoli e posizioni contrapposte, forse in maniera ancora più marcata di quanto si è registrato a destra, dove la figura di Vladimir Putin suscitava una certa simpatia, soprattutto nelle fila delle formazioni cosiddette “sovraniste” e più nazionaliste. Il dubbio è lo stesso per tutte le formazioni di sinistra: assistere gli ucraini con le armi contro un’invasione ingiustificabile oppure rimanere fedeli ai propri principi di pacifismo e anti-interventismo e cercare altresì una via diplomatica alla risoluzione del conflitto? Il risultato è, da un lato, una sinistra liberale che ha da tempo sposato l’atlantismo: dall’altra una sinistra radicale che presenta al suo interno una connotazione anti-americana o comunque scettica verso la leadership di Washington e che, in alcuni casi, vorrebbe un’Europa più dialogante con Mosca.

In Italia, il Partito democratico si è dichiarato favorevole all’invio di armi all’esercito ucraino: il segretario Enrico Letta ha tuttavia specificato che non deve però essere concepito come uno “strumento di offesa e di aggressione in territorio russo”. Posizione rimarcata anche dal deputato del Pd Graziano Delrio, il quale ha sottolineato che il governo italiano sta dando “agli ucraini strumenti per difendersi e non per offendere. E questa resistenza ha impedito che la prepotenza e la forza trionfassero sul diritto”.

Diversa la posizione di Sinistra Italiana. Nel suo intervento alla Camera dei deputati, il Segretario nazionale Nicola Fratoianni ha rimarcato la sua contrarietà all’invio di armi a Kiev: “Quasi tre mesi fa, nel mio intervento alla Camera, dicevo che l’invio delle armi nel conflitto in Ucraina avrebbe portato più dolore e sofferenza, allungando il conflitto e allontanando una prospettiva di risoluzione diplomatica.  Oggi si parla apertamente di guerra di attrito e la diplomazia è più lontana che mai. Per questo ho votato, di nuovo, contro l’invio delle armi. Non è questa la strada per costruire una Pace futura, stabile e duratura”.

Sempre a sinistra, il leader del Movimento cinque stelle Giuseppe Conte ha espresso più a riprese i suoi dubbi sulla strategia del governo italiano e sull’assistenza militare. Ma le divisioni non riguardano solo le forze politiche. Il dibattito sulle armi a Kiev ha infatti diviso anche la sinistra radicale e le associazioni – vedi l’Anpi e il relativo dibattito interno – oltre a intellettuali e noti giornalisti, come Michele Santoro e Federico Rampini, ad esempio, schierati su posizioni contrapposte. Quella italiana, tuttavia, è tutto fuorché un’anomalia, almeno in Europa. Nulla a che vedere, infatti, con gli Stati Uniti, dove i democratici – sia alla Camera, sia al Senato – hanno votato compatti a favore del pacchetto da 40 miliardi di dollari all’Ucraina proposto dall’amministrazione Biden (inizialmente di 33 miliardi di dollari e arrivato a 40 miliardi su spinta del Congresso).

In Germania, la Linke ha assunto una posizione marcatamente anti-intervista, protestando contro la decisione del cancelliere Scholz di costituire un fondo speciale per modernizzare e rafforzare l’esercito tedesco: “Rifiutiamo la guerra come mezzo della politica. Da molto tempo ormai, la popolazione locale è stata trasformata in giocattoli nelle sfere di influenza della Nato e della Russia” afferma la formazione della sinistra tedesca. E ancora: “Più armi non fanno pace. Nell’era delle armi nucleari – sottolinea il partito – le armi convenzionali giocano un ruolo scarso nella deterrenza. E un equilibrio di terrore crea solo terrore”.

In Francia, il leader della sinistra, Jean-Luc Mélenchon – che è riuscito a riunire quattro partiti di sinistra in vista delle imminenti elezioni legislative – pur condannando l’invasione della Russia come una dimostrazione di “pura violenza”, ha invitato il presidente Emmanuel Macron a mantenere Parigi in una posizione di “non allineamento” nella “guerra per procura fra Nato e Russia”, sostenendo i tentativi di dialogo con Mosca del presidente francese, rieletto alla fine di aprile. Senza contare che alcuni elementi della sua coalizione vorrebbero che la Francia uscisse dall’Alleanza Atlantica: proposta rispetto alla quale Mélenchon ha preso tempo, ribadendo che – nell’eventualità – sarà il Parlamento francese a decidere. In Spagna, la sinistra di governo è divisa: all’inizio di marzo, infatti, la decisione del premier spagnolo Sanchez di inviare armi all’Ucraina ha creato non pochi mal di pancia nella coalizione di governo, composta da socialisti, Unidas Podemos (Podemos + Izquierda Unida) e indipendentisti di sinistra.

Roma, Atac sciopera e si rischia la paralisi. Motivi? “Cessate il fuoco in Ucraina e contro le spese militari”. Il Tempo il 19 maggio 2022

Atac ha annunciato che per la giornata del 20 maggio, Cub Trasporti, Cobas e Usb Lavoro privato hanno proclamato uno sciopero di 24 ore nell'ambito dello sciopero nazionale indetto da Cub e Sgb Durante lo sciopero, quindi, il servizio sarà garantito esclusivamente durante le fasce di legge (da inizio del servizio diurno alle ore 8.30 e dalle ore 17.00 alle ore 20.00). Nel territorio di Roma Capitale, lo sciopero riguarda l'intera rete Atac e l'intera rete RomaTpl. Sulla rete Atac lo sciopero riguarda anche i collegamenti eseguiti da altri operatori in regime di subaffidamento.

Nella nota dell’azienda di mobilità capitolina si leggono anche le motivazioni dell’agitazione:

-cessate il fuoco, congelamento prezzi, beni e servizi del settore primario:

-sblocco contratti e aumenti salariali; nuovo piano di edilizia residenziale;

-contro le politiche di privatizzazione in atto;

-contro le spese militari;

-per la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. 

Tra le motivazioni c’è anche la guerra in Ucraina dopo l’invasione della Russia e la decisione del governo Draghi sulle spese militari e sull’aumento di quest’ultime come richiesto dalla Nato.

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2022.

Ci sono amicizie infrangibili, più infrangibili delle ideologie. Prendete l'amicizia -intrecciata a un romantico senso del dovere - tra Alberto Menichelli, Lauro Righi, Dante Franceschini, Pietro Alessandrelli, Torquato «Otto» Grassi, Alberto Marani e Roberto Bertuzzi: ossia il drappello di uomini che, all'ombra dell'allora teatro maestoso di Botteghe oscure, simboleggiarono la parabola di una parte d'Italia, dopo essere stati assegnati alla protezione dello storico segretario del Pci. Sono, costoro, i protagonisti de La scorta di Enrico - Berlinguer e i suoi uomini: una storia di popolo (Solferino, pp.418, euro 22) il libro-omaggio che Luca Telese dà alle stampe alla vigilia dei cent' anni della nascita del segretario comunista. 

Il nucleo del libro è Berlinguer, figura da sempre nel cuore Telese che ne sposò una figlia. E Telese, qui, affresca con passo di racconto per nulla agiografico, la vicenda stessa del Paese in cui si riflettono atti opere e omissioni della politica, del politico e della sua scorta, appunto.

«Era un gruppo fatto di uomini e di caratteri diversi», i migliori scelti dal partito, scrive Telese. «Franceschini il gigante buono, loquace. Lauro il taciturno con il cuore d'oro. Bertuzzi il ribelle orfano, che diventa il figlio adottivo del partito. Alessandrelli un militante umanissimo, capace di intuizioni sorprendenti. 

Marani e Grassi, i due giovani operai che arrivano dal far west comunista modenese. In questo gruppo Alberto Menichelli, il romano di Roma, il figlio burbero dell'apparato che governa tutti con la sua ironia sottile, crea il gruppo e lo guida: è un primus inter pares, ma anche un osservatore attento e curioso di ogni dettaglio».

E di ognuno dei guardiaspalle viene svelata, dalla fine della guerra agli anni '80, la vita madida di sangue, sacrifici, sudore e polvere da sparo. Al capitolo su Lauro Righi detto "Fila" il racconto si snoda in terza persona: «Nell'estate del 1944, in un paesaggio che ormai è diventato un fronte di battaglia e di guerriglia contro l'esercito tedesco e i loro alleati della Rsi, Lauro compie - ad appena sedici anni - la sua «scelta di campo». Comincia con qualche missione come staffetta. 

Poi va a piedi, camminando per oltre settanta chilometri, dalla sua casa fino alla mitica Repubblica partigiana di Montefiorino. Quando parte non sa esattamente dove andrà, e non sa nemmeno cosa troverà: ma sa a cosa si oppone, il fascismo. È la grande decisione della sua vita». Nella scheda compilata sudi lui dal partito si legge «Compagno retto e parsimonioso, che non si è mai trovato in difficoltà finanziarie pur inviando mensilmente una notevole parte del suo stipendio ai genitori, che versano in condizioni disagiate» (unico problema è la lingua: Righi parla soltanto il dialetto).

Alla voce "Dante Franceschini" l'uomo che riuscì a toccare la gobba di Andreotti durante i pedinamenti, spicca un aneddoto raccontato in prima persona durante la naja: «Un giorno, a me e a un altro ragazzo del mio corso arrivarono due pacchi dal distretto militare. Il mio amico aprì quello con il suo nome e tirò fuori un cappotto di panno grigio. Io estrassi dal mio una giacca color cachi. L'istinto del senzavestiti cronico che ero fu quello di avvicinarla subito al corpo, per farmi un'idea della misura. Perfetta. Una volta tanto era la mia. Non feci in tempo a concedermi un sorriso che dalla sua branda un romano, uno dei veterani, mi gridò: "A Franceschì, manna un telegramma a casa, finché puoi, che mo so cazzi tua!". E io: "Perché?". E lui: "Si t' hanno mandato la sahariana vor di' che domattina te ne parti pe' l'Africa"». 

Su Piero Alessandrelli, si ricostruisce il valore dell'antifascismo: «Il padre di mia moglie era un operaio specializzato anche lui, lavorava in una segheria di marmo. Si chiamava Abele, ma tutti lo conoscevano come Pioppo, perché era molto alto. Era anche lui un antifascista, e quando andavamo a trovarlo ad Alviano mi faceva trovare dentro casa una copia dell'Unità.

Per dare un'idea di quanto l'antifascismo fosse un sentimento radicato, dato che il padre della moglie di uno dei suoi figli era stato in una squadraccia (e aveva un'amante), lui gli aveva detto davanti a tutta la famiglia: "Io non ho mai dato l'olio di ricino ai paesani e non ho mai tradito mia moglie e tu, in casa mia, non ci potrai entrare mai"». 

Nello scorrere delle pagine, le vite della scorta si sovrappongono ai mille abbagli e alle mille scelte della storia d'Italia. Alcune indelebili. La volontà di Enrico di mettersi sotto il cappello della Nato (decisione che oggi appare oracolare) e di non schierarsi a favore dell'invasione d'Ungheria; il fallito Golpe Borghese e piazza Fontana; il terrorismo e il rapimento Moro; e prima l'attentato a Togliatti. Eppoi, il clima rovente del '68. 

E quello del '77, in pieno brigatismo. Eppoi, la marcia dei quarantamila della Fiat. A proposito della marcia. Interessante è la rilettura, attraverso la testimonianza di "Otto" Grassi, del "Discorso dei cancelli" di Mirafiori fatto da Berlinguer nell'80, dopo 35 giorni di sciopero che portarono all'autunno caldo finito con la Cig per 24mila dipendenti, e con la marcia dei 40mila quadri Fiat. Quella, allora, venne considerata una sconfitta del Pci.

Scrive, invece, con onestà, Telese: «Ecco perché anche il discorso ai cancelli non va giudicato con il metro degli anni Ottanta. Ma con quello degli anni Duemila. Con gli occhi di oggi, non con quelli di ieri: va pesato nel tempo in cui gli operai hanno abbandonato la sinistra, avvertendola come un corpo estraneo, e votano a maggioranza per la Lega, per il M5S, e adesso persino per il partito di Giorgia Meloni. Chiedo a Otto cosa avrebbe voluto dire a Enrico, quando in auto era rimasto in silenzio: "Che mi ero emozionato a vedere, lì ad ascoltarlo, gli operai dell'Emilia-Romagna, i miei compagni di Modena. Che aveva fatto una cosa giusta". In fondo la lezione dei cancelli, quarant' anni dopo, è semplice: un leader deve stare con il suo popolo. E ci sono momenti in cui ci deve restare anche quando non c'è la certezza di vincere».

Nella sottovalutazione - direi giusta - di Togliatti, Telese, per rendere fiammeggiante Berlinguer, evoca il Gramsci «tentato dall'interventismo nel 1914, insofferente all'immobilismo dei socialisti riformisti negli anni Venti, appassionato nel suo più celebre e romantico grido di battaglia, quello consegnato a un immortale editoriale della Città futura del febbraio 1917: "Odio gli indifferenti"». Ecco, a Luca l'operazione fiammeggiante è riuscita. Perché, comunque la si possa pensare, se c'è uno a cui questo paese - e questa sinistra- non potrà mai rimanere indifferente, be', quello è proprio Enrico Berlinguer. 

Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 16 maggio 2022.  

Lui che è sempre stato sulla posizione verso la quale - «con colpevole ritardo» - oggi alcuni leader europei si stanno convertendo, è così avvezzo al dibattito italico che è difficile domandargli qualcosa che lo irriti. 

Anche se nei giorni scorsi lo hanno fatto arrabbiare in tv, quando hanno accostato Putin a Hitler «senza alcun fondamento scientifico e storico». In questa intervista il professor Massimo Cacciari ci spiegherà, anche, il perché. Difficile farlo parlare di politica interna - «lasciamo perdere che è meglio» -. E guai a dargli del pacifista.

C'è aria di riposizionamento?

«Al di là della ovvia, doverosa denuncia della violazione del diritto internazionale perpetrata dalla Russia nei confronti di uno Stato sovrano, c'erano fin dal principio i margini di trattativa. 

Una strada che hanno tentato in prima battuta i tedeschi, che sono però stati subito silenziati. Ora riprende, faticosamente, con Emmanuel Macron». 

Difficile intravedere una via d'uscita se Mosca evoca la guerra nucleare, un confronto aperto con la Nato e pure il «ricatto» alla Finlandia appena si dice pronta per entrare nell'alleanza.

«E invece è proprio indagando le cause della crisi, che la si può intravedere». 

In sintesi quali sono?

«Uno: la Russia di Putin non se l'è ancora messa via sul fatto che il suo ruolo nella geopolitica internazionale non può essere quello dell'Urss. Tuttavia, derubricarla a paesello qualsiasi è altrettanto irrealistico».

Due?

«Era certo utopistico pensare che la Nato sarebbe finita dopo la guerra fredda, come chiedevano tanti ex comunisti, ora atlantisti a oltranza. Ma nessuno, alla caduta del Muro, neppure nel governo americano di allora, aveva dichiarato che dovesse addirittura rafforzarsi». 

E «abbaiare alle porte della Russia», facilitandone l'ira, come ha detto il Papa?

«Sì, beh, la Chiesa oggi fa il suo mestiere: la messa fuori legge della guerra, per usare lo slogan di Gino Strada. Io però penso che sia proprio sbagliato aggiungere un "ismo" alla parola pace.

Finché ci saranno uomini, ci saranno anche nemici. È inevitabile che nei rapporti tra potenze si possa giungere a un punto in cui i margini di trattativa si esauriscono. L'extrema ratio della politica è la guerra. E servono le armi per farla». 

E qui veniamo al punto numero tre?

«Alle nazionalità russofone presenti in Ucraina. E una di queste è stata assalita dall'esercito ucraino qualche anno fa con l'Europa che ha fatto finta di non accorgersene».

Quindi che si può dire a Putin?

«Quel che gli sta provando a dire la Francia. Non c'è più l'Urss, la guerra fredda è finita da un pezzo e le ragioni di Yalta non sussistono oggi, quindi i Paesi dell'ex Patto di Varsavia fanno quello che vogliono e tu, caro Putin, non puoi deciderne la politica estera». 

Sembra facile a dirsi ma…

«Non lo è. Tuttavia è l'unica strada possibile, con un referendum controllato rigorosamente dalle Nazioni unite nei territori del Donbass, il cui risultato va rispettato. Il principio di autodeterminazione è sancito in questi casi dal diritto internazionale come la condanna dell'aggressione. Punto. E l'Ucraina, come qualsiasi Stato sovrano, deciderà poi come e con chi allearsi». 

Missili puntati verso Mosca compresi?

«Nato, Usa e Ucraina vorranno giocare a questo gioco con la Russia. Padroni. E il resto del mondo giudicherà. La Russia purtroppo o per fortuna non può farci nulla. E poi, scusi, farebbero diversamente gli Usa?».

Mi prende in giro?

(La voce si fa sarcastica, ndr) «Scherza? Mettiamo ci fosse in Messico una rivoluzione castrista e i messicani volessero posizionare missili atomici a due passi da Houston, cosa farebbero gli Usa? Naturalmente ne rispetterebbero le decisioni, non le pare? Come a Cuba negli anni Cinquanta, o come in Vietnam, o come in Iraq... Una potenza democratica che esporta democrazia nel mondo non potrebbe comportarsi diversamente». 

Veniamo a noi. Salvini dice basta alle armi in Ucraina. Conte chiede il voto perché lo scenario è cambiato, Letta si riposiziona.

«Non stiamo neanche a parlare di politica interna, guardi. La sinistra poi è proprio meglio che la lasciamo perdere: la débâcle culturale procede inarrestabile da un trentennio». 

Sulla politica internazionale ha però un'occasione?

«Ma quale? Quell'indigeribile composto che i giornali insistono a chiamare "centro-sinistra" non ha un piano sulle politiche fiscali, sociali, economiche, finanziarie. E ha anche perduto memoria storica. 

Non parlo di ex comunisti, che ormai sono quasi tutti morti, ma ex socialisti che dimenticano Craxi e Sigonella, ex Dc che dimenticano i rapporti dei Moro e anche degli Andreotti con i palestinesi».

E gli altri partiti come si comportano?

«Tutti costretti a obbedire. Alcuni convinti, altri obtorto collo. Ma tutti obbedienti. C'è poco da fare: la guerra ha mostrato in tutta evidenza una dissimmetria radicale nei rapporti di forza tra gli Stati dell'Occidente. Finché si esprimeva sul piano economico, potevi pure nasconderne la radicalità. Quando si spara, però, allora emerge nuda e cruda. In guerra, come nelle navi in tempesta, deve esserci un comandante unico».

Si è letto però che Draghi da Biden ha detto che occorre uno sforzo per parlare con la Russia.

«Ma pensa te quale saggezza. Si è scoperto che se devo trattare una persona non comincio dicendogli che è un macellaio? Pensi lei se l'avessi insultata a inizio intervista, forse mi avrebbe messo giù il telefono, non crede? Spero che Draghi glielo abbia spiegato, questo, a Mr. Biden». 

Pare gli abbia anche detto che le posizioni di Usa e Ue non divergono, ma stanno cambiando.

«Meglio sarebbe stato accorgersene prima. Sono 14 anni che si susseguono colpi di Stato e guerre civili da quelle parti e l'Europa assiste silenziosa, così come accadde con l'ex Jugoslavia. Questa è anche una guerra per interposta persona: i poveri ucraini. Ma è stato dal principio evidentissimo che è nella sostanza un conflitto Usa-Russia».

Dirlo le settimane scorse voleva dire essere tacciati di putinismo.

«Mai sono tanto imperversati gli idioti come in questa tragica occasione». 

Il premier nel suo viaggio a Washington ha anche fatto notare che ora la Russia non è più Golia.

«Perché, è mai stata forse invincibile? E di grazia, il Davide chi era? Questo è frutto della disinformazione totale». 

Pare che gli americani siano stati «freddi» di fronte a questo discorso di Draghi.

«Tutta la strategia degli americani a partire dalla guerra del Golfo si basa su questo calcolo, sia chiaro: del tutto legittimo per una potenza imperiale: allarghiamo la Nato e rafforziamola, la Russia dovrà abbozzare perché sa di non poter sostenere una dura competizione con noi su nessun piano, neppure su quello militare. 

La guerra atomica che pone fine al pianeta, alla natura, alla galassia non è che una leggenda da anime belle. Anche con l'atomica ci sarebbe un vincitore e un vinto. E quest' ultimo sarebbe la Russia». 

Può davvero scatenarsi una guerra nucleare?

«Se continuano a non ragionare, certamente sì. La prima guerra mondiale non la voleva nessuno, eh... La seconda invece è stata progettata e programmata, per un disegno di dominio costruito su una base ideologica».

Da un uomo che però lei si rifiuta di paragonare a Putin.

«Sono battute propagandistiche senza il minimo fondamento storico. Gli Usa, ribadisco, sanno che la Russia vive con un'angoscia che la porta, come per l'Ucraina, a scelte sciagurate, problemi di sicurezza, ben cosciente della propria debolezza nei confronti sia degli Stati Uniti sia della Cina». 

Che farà Putin?

«Vediamo. Deve dimostrare un realismo finora non dimostrato. Ma nessun Paese si può suicidare. Se però la Nato afferma, ad esempio, che "non si tratta sulla Crimea", non c'è altra soluzione che la continuazione della guerra. Esattamente come se la Russia dicesse che vuole fare dell'Ucraina una propria colonia». 

Due anni di pandemia e poi questo conflitto. E lei, Cacciari, sempre molto critico sul ruolo della politica.

«Una nuova Costituente andava aperta in Italia già trent' anni fa. Ma non abbiamo fatto altro che peggiorare la nostra Costituzione e abortire ogni disegno serio. L'indebolimento delle assemblee rappresentative è drammatico e forse ormai irrimediabile».

Così grave?

«Se guardiamo alla classe politica, direi proprio di sì: gente che dice di stare bene quando è invece un malato grave. Stavano così bene che sono stati costretti a rieleggere Sergio Mattarella e poi dicono pure: "Guarda come siamo bravi, ha vinto la politica". Cecità o malafede?». 

Chi comanda davvero?

«I poteri finanziari, i colossi della comunicazione sono diventati i veri parlamenti. Tranquilli, non ci sarà più un fascismo in Occidente, non c'è più bisogno di un Mussolini che chiude le "aule sorde e grigie". Si stanno arrangiando per conto loro».

Perché c'è la democrazia?

«Si sta definitivamente estinguendo quel che chiamavamo partecipazione. I corpi intermedi, sindacati e organizzazioni di categoria, languono come "clienti" del potere. I partiti vanno e vengono come le mode. I sistemi di controllo sociale sono diventati raffinati e indolori. 

È chiaro che il mondo economico e finanziario globalizzato - e non lo puoi più rinchiudere né nei vecchi istituti e a stento nei vecchi Stati - determina i nostri destini insieme con il potere tecnico-scientifico. È tempo di ripensare la democrazia, sulla base di una diagnosi amara, ma realistica». 

Svejateve. Quei dottor Stranamore che scambiano Putin per Che Guevara e la democrazia liberale per il Pli di Malagodi. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 16 maggio 2022.

Molti cadono nell’equivoco sul concetto di “denazificazione”, scambiando il grido di battaglia del nazionalismo russo per l’appello di un nuovo fronte antifascista, e il generoso finanziatore di fascisti e sovranisti di mezzo mondo per la reincarnazione di Lenin.

Il dibattito sulla guerra in Ucraina è viziato da alcuni equivoci di fondo. Un esempio, recentemente illustrato da Giorgio Comai in un articolo per l’Osservatorio Balcani-Caucaso, riguarda il concetto di “denazificazione”. Cioè, alla radice, cosa intendiamo, noi e i russi, quando parlano di nazismo.

Per noi, infatti, il nazismo è anzitutto la forma più tremenda di antisemitismo; per la propaganda di Mosca nazismo è fondamentalmente un sinonimo di anti-russo. Quella che per noi è la Seconda guerra mondiale, non per niente, per loro è la Grande guerra patriottica. Per noi la svastica significa Auschwitz, per loro è prima di ogni altra cosa la bandiera di un esercito invasore. Ecco perché nell’opera di “denazificazione” può essere serenamente impiegato quel gruppo Wagner che pure, quanto a richiami all’ideologia nazista, nulla ha da invidiare al famigerato battaglione Azov.

Incapaci di distinguere il dito dalla luna, molti dottor Stranamore del post-comunismo italiano – e non solo – cadono purtroppo nell’equivoco, scambiando il grido di battaglia del nazionalismo russo per l’appello di un nuovo fronte antifascista, e Vladimir Putin, politico ultra-conservatore, punto di riferimento e generoso finanziatore di fascisti e sovranisti di mezzo mondo, per la reincarnazione di Lenin.

Ancora più significativo è l’equivoco attorno all’aggettivo “liberale”, con fior di intellettuali che sembrano scambiare la dichiarazione di guerra alla democrazia liberale da parte del regime di Putin per una battaglia di sinistra contro l’egemonia del pensiero neoliberista, e conseguentemente gli appelli a un fronte comune dei liberaldemocratici per dichiarazioni di voto a favore del Pli di Giovanni Malagodi.

È una forma estrema di dissonanza cognitiva, in cui gli Stati Uniti sono sempre quelli del Vietnam e del colpo di Stato in Cile, e in cui la Nato e l’Occidente in generale sono invariabilmente sinonimi di imperialismo e colonialismo, contro i quali la sinistra ha dunque il dovere di schierarsi, in difesa della libertà, della democrazia e del diritto all’autodeterminazione dei popoli oppressi.

Il fatto che a tentare di rovesciare la democrazia ucraina, a invaderne il territorio, a commettere ogni sorta di atrocità sui civili non siano soldati americani, ma russi, ha prodotto in molte persone, come reazione istintiva, prima la negazione della realtà e poi la fuga in una realtà alternativa.

Il nemico numero uno della democrazia liberale in Europa, nonché principale alleato di Putin, oggi è Viktor Orbán, che in Ungheria sta costruendo un sistema sempre più autoritario, tra l’altro, attraverso la criminalizzazione degli immigrati e delle ong. È questo il futuro che sognano per l’Italia i comprensivi difensori delle ragioni di Putin?

Occorre grande pazienza e grande attenzione, anche nel linguaggio, per tentare di disinnescare certi automatismi, su cui fanno leva politici spregiudicati. Occorre spiegare a tante brave persone – ce ne sono, in mezzo a tante altre persone meno brave e meno disinteressate – che il fascismo è dall’altra parte; che difendere la democrazia liberale non significa combattere contro la progressività fiscale o l’aumento dei salari, ma in difesa della libertà e dei diritti fondamentali di ogni cittadino; che Alexander Dugin, ideologo di Putin e di quel fronte rossobruno capace di attirare populisti europei e americani di ogni estrazione, non è Senghor e tanto meno Che Guevara, e non pensa affatto che quella in corso sia una guerra di liberazione, ma semmai «una guerra spirituale contro i gay».

Fate presto. Putin ha dichiarato guerra alla democrazia liberale, e i nostri liberaldemocratici mangiano il gelato. Christian Rocca su L'Inkiesta il 15 Maggio 2022.

I partiti costituzionali e repubblicani non si rendono conto della posta in gioco e continuano a preoccuparsi di strappare uno zerovirgola al vicino di banco, mentre i volenterosi complici del Cremlino fanno politica. A difendere la società aperta c’è l’eroica resistenza ucraina e, adesso, anche Svezia e Finlandia che si sentono più protetti sotto l’ombrello della Nato (come disse Enrico Berlinguer nel 1976, in un’intervista che oggi farebbe piangere l’opinionista di Bianca Berlinguer). 

Le forze politiche costituzionali e repubblicane dell’Italia 2022 probabilmente non hanno ben capito la portata delle cose che stanno succedendo e si comportano come se la guerra al confine europeo, la resistenza commovente del popolo ucraino, la richiesta di ingresso nella Nato di due paesi tradizionalmente neutrali come la Finlandia e la Svezia consapevoli però di cosa voglia dire vivere sotto la minaccia d’invasione di un regime autoritario, fossero eventi ordinari e non, invece, la fase finale della grande battaglia civile e purtroppo anche militare in difesa della democrazia liberale, della società aperta e della libera circolazione delle idee, delle persone e delle merci. 

Le forze politiche costituzionali e repubblicane dell’Italia 2022, quelle che vanno dal Partito democratico a Forza Italia, passando per il mondo radicale, liberal democratico e liberal socialista che va Calenda a Bonino a Renzi, si comportano come se il nemico fosse il vicino di banco che alle elezioni del 2023 potrebbe rosicchiare qualche punto percentuale e non capiscono che in gioco non ci sono zerovirgola in più o in meno ma la fine della democrazia italiana ed europea. 

Non capiscono e quindi non fanno nulla di rilevante per organizzare la difesa della società aperta, non prendono nessuna iniziativa politica, non organizzano nessuna mobilitazione nazionale. Niente di niente. 

Enrico Letta si barcamena tra un solido e limpido atlantismo personale e la resa politica di una parte della sua classe dirigente cui ogni tanto deve dare un contentino via Twitter.

Carlo Calenda come sempre è il più attivo, ma l’invasione russa gli ha rovinato il progetto di consolidamento di Azione: presenta ottimi dossier da centro studi su vari temi, a cominciare da quello energetico, ha appena scritto un libro sui limiti del liberalismo che è condivisibile in linea teorica ma un po’ meno se consideriamo che gli avversari al momento non sono pericolosi libertini ma i sodali, se non gli agenti, dei nemici della società aperta. Ma, in generale, sulla guerra di Putin al mondo liberal democratico, Calenda si è tenuto lontano dall’assumere in Italia la leadership churchilliana a lui molto cara.

Anche Matteo Renzi ha un libro in uscita con cui denuncia il processo di mostrificazione che ha subìto dai bipopulisti politici, togati e giornalistici, ma non si vedono iniziative politiche di Italia viva come quelle con cui in questa legislatura ha salvato il paese per ben due volte, la prima da Salvini e la seconda da Conte. Anzi si nota un’inusuale timidezza ad affrontare la questione più importante della nostra epoca.

Forza Italia è ostaggio dei sovranisti di destra che promettono di garantire una manciata di seggi al circolo ristretto berlusconiano e quindi va nella direzione sbagliata, basta guardare al grottesco palinsesto informativo Mediaset. E non fa squadra con Mara Carfagna e le buone iniziative di governo del Ministro come quella sul mezzogiorno organizzata in questi giorni. 

Al contrario, invece, i bipopulisti italiani hanno bene in mente quale sia la posta in gioco e di conseguenza fanno politica sapendo che questa è la loro grande occasione. Trump è temporaneamente fuorigioco, Putin è diventato impresentabile ovunque tranne che nei talk show nostrani, Marine Le Pen ha perso. La partita va giocata senza sponde, al momento. Così Giorgia Meloni sta provando a costruirsi un profilo nazionale e atlantico, anche per differenziarsi da Salvini, ma resta la leader dei neo, ex post fascisti italiani, alleata dell’alleato del Cremlino Viktor Orbán e il suo atlantismo è quello dei paragolpisti del giro Trump e della Conservative Political Action Conference, un’iniziativa di picchiatelli, reazionari ed eversivi.

Matteo Salvini è notoriamente il politico più incapace del panorama italiano, forse anche europeo, è costretto a rincorrere Meloni e quindi prova ad annettersi Forza Italia per aspirare al primo posto alle elezioni e rilascia grottesche interviste da statista al Corriere della Sera in apertura della sua conferenza programmatica di Roma, salvo poi dire no all’ingresso di Finlandia e Svezia nella Nato, rimettendosi di fatto la maglietta di Putin. A Roma ha invitato come ospite d’onore il più screditato dei tentatogolpisti trumpiani, Rudy Giuliani, cui hanno sospeso la licenza ad esercitare la professione d’avvocato. Resta un mistero come possa essere venuto in mente a Salvini di invitare una macchietta come Giuliani, vent’anni fa l’eroe post 11 settembre e ora un personaggio caricaturale peraltro protagonista delle fetide manovre trumpiane anti Biden proprio in Ucraina. 

A proposito di aiutini ai trumpiani sulla bufala ucraina orchestrata dal Cremlino per screditare Biden, non si può non parlare di Giuseppe Conte, il cui governo mise a disposizione del ministro della Giustizia di Trump gli apparati di intelligence italiani per trovare le prove inesistenti del complotto. Con perentori penultimatum, che regolarmente rientrano, Conte sabota quotidianamente le attività del governo che, defenestrandolo da Palazzo Chigi, ha salvato l’Italia dalla catastrofe del Covid. E sull’aggressione imperialista di Putin è il primo ostacolo italiano agli aiuti militari all’Ucraina, grazie ai quali Kiev si difende, Mosca si ritira e la pace si avvicina.

Mentre le forze nemiche della società aperta si attrezzano a vincere le elezioni, si disperano fino a un certo punto per la sconfitta di Le Pen in Francia e aspettano la vittoria militare di Putin e il ritorno di Trump, i partiti costituzionali si fanno dispettucci da adolescenti senza nemmeno provare a costruire non dico una resistenza d’acciaio come quella ucraina, ma nemmeno un comitato di liberazione nazionale dal bipopulismo. La difesa della società aperta italiana non può che passare dall’adozione della legge elettorale proporzionale per risparmiarci la macabra roulette russa del maggioritario al tempo del populismo – “o vince la libertà oppure ci arrendiamo a Putin, che bello la sera stessa del voto lo sapremo!” – e quindi scongiurare la pallottola fatale alla tempia che i francesi hanno schivato per miracolo un paio di domeniche fa.

Non è che bisognasse aspettare il 24 febbraio, giorno dell’invasione militare dell’Ucraina, per avere conferma delle mire imperialiste di Vladimir Putin, intanto perché la Russia aveva già invaso l’Ucraina, annettendo la Crimea e parti del Donbas, dopo peraltro aver invaso anche la Georgia e la Transnistria. 

Ma soprattutto perché da parecchio tempo ormai Putin ha dichiarato guerra all’Occidente che ha sconfitto il totalitarismo sovietico, nell’indifferenza dei volenterosi complici del Cremlino che prima prendevano in giro chi denunciava le manipolazioni dei processi democratici europei e americani, le fabbriche dei troll per eliminare i nemici, l’ingegnerizzazione delle fake news per corrompere il discorso pubblico e gli accordi politici (e non solo) con i partiti eversivi dell’ordine costituito occidentale. Una strategia grazia alla quale Putin ha conquistato la Casa Bianca con Trump, Palazzo Chigi con i bipopulisti ed è andato due volte vicino a conquistare l’Eliseo. 

La riscossa democratica avviata da Joe Biden e da Mario Draghi, in Italia grazie alla lungimiranza di Renzi e alla saggezza di Sergio Mattarella, ha convinto Putin ad accelerare il processo di scardinamento dell’ordine internazionale cominciato con la strategia della diffusione del caos in Occidente (Brexit, referendum italiano, fake news, Trump), nella fallace convinzione che il declino americano e la debolezza dell’Occidente non potessero competere con la gloriosa avanzata dell’armata rossa in territorio ucraino. 

Putin si era dimenticato degli ucraini, però. Credeva, come gli esperti Alessandro Orsini e Lucio Caracciolo, che fossero solo pedine ininfluenti manovrate per procura da qualcun altro. Inoltre non aveva previsto la solida reazione americana né la compattezza dell’Europa e della Nato.

Per il momento ci stanno pensando gli ucraini a fermare, anche per noi, l’avanzata delle tenebre nel cuore dell’Europa e a dare slancio all’alleanza atlantica che Trump aveva sfiancato e di cui Macron aveva annunciato la «morte cerebrale». 

Slava Ukraini!, dunque, e Gloria anche alla Finlandia e alla Svezia che di fronte all’aggressione russa si sentono più protetti sotto l’ombrello della Nato, come già Enrico Berlinguer nel 1976, quando prese una posizione che oggi farebbe piangere il piccolo opinionista di Bianca Berlinguer. 

Il biputinismo italiano fa il suo mestiere di apologeta del Cremlino a reti unificate, in attesa di raccogliere i frutti della propaganda illiberale, antioccidentale e antiamericana alle elezioni del prossimo anno. E noi qui con la società aperta che sta morendo, e i partiti costituzionali che mangiano il gelato.   

Hanno tutti ragione. Nulla è vero, tutto è complotto. La realtà parallela dei rossobruni d'Italia. Stefano Cappellini su La Repubblica il 13 Maggio 2022.

La guerra russa in Ucraina ha prodotto una specifica ondata di rossobrunismo, inteso come la convergenza di opposti estremismi su temi e azioni comuni. Convergenza anche stavolta non simmetrica: storicamente è quasi sempre il bruno che annette il rosso. Perché sia il bruno a mangiare il rosso è evidente. Un antimperialismo rancido e strabico, il "rosso", è totalmente messo al servizio della narrazione bruna: le democrazie liberali sono in fondo peggio delle dittature, la propaganda Nato più pervasiva di quella russa, in quanto occulta. E ancora: i dittatori, pur dittatori, combattono anche in nome della libertà dal Grande Capitale e dal Grande Reset e, in realtà, comprimendo i diritti civili del loro popolo lo accudiscono e lo preservano dalla schiavitù occidentale. Una visione squisitamente fascista. 

Ha destato scalpore che la serata santoriana Pace proibita sia finita anche su Byoblu, network specializzato in complottismo e negazionismo diretto dall'ex 5S Claudio Messora, famigerato ai tempi per aver rassicurato Boldrini sulla sua non stuprabilità. Michele Santoro si è giustificato spiegando che il segnale era libero (vero), ma nessuno dei "pacifisti" si è interrogato sul punto, e cioè perché una realtà come Byoblu si sentisse così in sintonia con la serata da prenderne la diretta. 

Come i 5S, Byoblu è un laboratorio rossobruno. Sulle sue pagine ha trovato spazio l'umbro Moreno Pasquinelli, già leader dell'ambiguo e screditato Campo antimperialista ai tempi dell'invasione americana dell'Iraq. Anche Pasquinelli è passato attraverso la fase No Vax. Ha fondato il Fronte del dissenso (Fronte è parola connotata a destra). Sulle pagine di propaganda No Vax, si trovano i suoi dialoghi in video con l'ineffabile "filosofo" pseudomarxista Diego Fusaro, uno degli influencer rossobruni più presenti e seguiti, sempre impegnato a rivestire di nastrini bolscevichi contenuti chiaramente reazionari. Pasquinelli, ovviamente, in sé rappresenta poca cosa. Ma le teorie che vogliono il popolo ingannato da poteri occulti e sovranazionali, e che fondono anticapitalismo di matrice comunista e antimondialismo di stampo sovranista, non sono più confinate in nicchie estremiste. Anzi la principale caratteristica del rossobrunismo contemporaneo è proprio l'uscita dai vecchi ghetti ideologici e sperimentali e la produzione di un "senso comune" che, se si volesse scimmiottare il lessico indigeno, si potrebbe definire "mainstream". 

Il rossobrunismo di matrice complottista ha origini in Italia nei tardi 70, quando una frangia del neofascismo teorizzò l'unione di rossi e neri contro il Sistema, maiuscolo ovviamente, entità indefinita che riassume il potere economico, finanziario e mediatico. Ne nacque anche un gruppo terroristico, Costruiamo l'azione, peraltro largamente infiltrato dai Servizi. Secondo Costruiamo l'azione il Sistema era felice che i giovani di opposta fazione si sparassero tra di loro, mentre la soluzione era cominciare tutti a sparare sul Sistema, annullando tutte le differenze in nome del comune nemico (uno dei leader di Cla, Sergio Calore, praticò il rossobrunismo anche in chiave matrimoniale: sposò infatti un ex brigatista rossa prima di essere misteriosamente assassinato a Tivoli nel 2010 con un colpo di piccone, circostanze mai chiarite). L'annullamento delle differenze di campo giustificato dal disvelamento del complotto che tutti ci opprime è un passaggio chiave del rossobrunismo attuale, la cui influenza sull'opinione pubblica contemporanea è facilmente misurabile. 

La destra vincente a livello mondiale non è più quella legge e ordine, di tipo reaganiano. È quella che nega ogni vincolo sociale, anarco-individualista, che relativizza ogni fenomeno, che pratica l'antiscientismo e rimuove i problemi reali ascrivendoli a complotti, intrighi, mistificazioni eterodirette dell'alto. Si è è visto chiaramente con la pandemia e la guerra. Il risultato finale effettivo è che non esiste ragione reale di essere Sì o No Vax, pro Putin o pro Ucraina, sono considerate tutte contrapposizioni artificiose provocate dall'alto, distinzioni fasulle. Dunque: tutto quello che pensi è falso e siamo vittime, come direbbe Orsini, di "quello che non ci dicono". Chiaro che, su queste basi, non ha più senso nemmeno la divisione destra-sinistra, teoria che infatti è il cavallo di battaglia dell'esperimento rossobruno di maggior successo, quello del Movimento 5 Stelle.

Stop alle frottole. L’inganno retorico del “no alla guerra” con cui i finti pacifisti confondono le acque. Antonio Preiti su L'Inkiesta il 13 Maggio 2022.

Il racconto di quello che accade dipende dai frame (le cornici di senso) entro cui viene inquadrato. L’opinionismo pseudo-complesso è riuscito, a forza di slogan e accostamenti fuorvianti, a ribaltare i fatti evidenti dell’invasione e creare un mondo alla rovescia.

Ricordiamo le ore del 24 febbraio, incollati a Skytg24, a internet e a tutto il resto, per vedere le immagini degli inviati a Kyiv, per capire la situazione: quella è proprio la piazza principale della capitale e nessuno è per strada; l’altra è Odessa, ancora intatta, e già imparavamo a conoscere Mariupol, la città di Maria, che già nel nome evocava, a suo modo, qualcosa del martirio successivo. Cosa sta succedendo? Davvero è un’invasione? Davvero Putin sta bombardando città, civili e incenerendo tutto quello che trova per la sua strada?

Non avevamo bisogno di opinioni, ma di fatti, di sapere le cose. E sui sentimenti non c’era molto da dire: orrore, pietà per morti innocenti, simpatia totale per un popolo che, in fondo, vuole essere come noi, far parte del nostro mondo, vivere come viviamo noi. Le parole usate al tempo erano le parole della verità: bombe, invasione, morti civili, orrori, massacri. Non erano ancora arrivate la “geopolitica” e il dominio ambiguo dell’opinionismo.

In quei giorni già lontani, ma non tanto da non potersi ricordare con precisione, il bailamme opinionistico non era ancora avviato perché in quelle ore sarebbe stato inaccettabile. C’era solo da dire dell’orrore, del resto nulla.

La parola comune in quei giorni era “invasione”, in consonanza con tutto il mondo occidentale che diceva: “Stop invasion”, “Stop war”. Non si sa come, il linguaggio da noi è però presto scivolato nell’ambiguità: lo “Stop war” è diventato “No alla guerra”. Una volta passati dallo “Stop alla guerra”, con l’implicita intuizione che c’è qualcuno che deve fermarsi, al “No alla guerra”, dove le due parti sono equivalenti, si stabilisce lo scarto del significato e la cristallina separazione tra aggressore e aggredito. Mentre nello “Stop all’invasione” vi è l’identificazione, l’immedesimazione e il comune sentire con qualcuno che una mattina si sveglia e si trova invaso; nel “No alla guerra” c’è una distanza emotiva, un guardare le cose da lontano e dove prima c’era orrore, e ci si sentiva coinvolti, adesso c’è sempre l’orrore, ma da guardare da remoto, senza compassione. E questo è il primo passo.

Il secondo è l’ingresso sulla scena mediatica della “geopolitica”. Questa disciplina (che non è una scienza, e neppure una quasi-scienza, basata com’è su una speciale considerazione di alcuni elementi delle vicende degli stati, elementi ritagliati e assurti a valore assoluto) per definizione non è “morale”, non ha aspetti valoriali; insomma è (vorrebbe essere) come una legge della fisica, per cui esisterebbero dei fattori oggettivi che spingono gli Stati a comportarsi come si comportano. È una sorta di determinismo, neutro e lontano. Allora diventa “naturale” che se uno stato si sente “minacciato”, allora ricorra all’aggressione, anzi alla guerra, visto che il termine aggressione è presto scomparso.

Nella geopolitica non c’è posto per le decisioni soggettive, e per la responsabilità di chi le prende, e meno che mai per un giudizio morale: aggressore e aggredito sono sullo stesso piano nella logica geopolitica: uno vuole conquistare e l’altro non vuole farsi conquistare. Così messa la questione, diventano pari. Noi che c’entriamo? Il fatto che un popolo che vive in democrazia e non vuole perderla; che si sente europeo e per questo è disposto a combattere; che vuole difendere i propri confini e la propria indipendenza, non valgono più nulla.

Una volta che dal giudizio di merito, in cui c’è uno stato che, in spregio al diritto internazionale, ne invade un altro, il frame della vicenda, cioè la sua cornice semantica, non è più l’invasione ma diventa “la guerra”. Stabilire il frame dominante nella contesa politica è cruciale: se il focus è sull’immigrazione, allora vincerà il partito che su quel frame conquista la posizione dominante; se il frame non è l’invasione (atto unilaterale violento), ma “la guerra” (stato delle cose senza espressione di responsabilità), allora vinceranno gli annessi e connessi della “guerra”, come, ad esempio: “Non è l’unica guerra, ma ci sono altre guerre che non consideriamo”, “Anche la Nato ha fatto guerre”, “Le guerre sono tutte negative e non importa chi comincia”, “Bisogna muoversi per la pace” e così via, sommergendo l’“hic et nunc” (il qui e ora specifico: un Paese illegittimamente invaso da un altro) sotto una pletora di opinioni sempre più astratte, sempre più “liberate” dai fatti, sempre più ambigue.

Per altro, un’invasione può finire in generale in due modi: o l’aggressore ritorna sulle sue posizioni di partenza (visto che l’Ucraina non ha mire di occupare la Russia) o gli aggrediti si arrendono e finiscono di essere nazione. C’è anche un terzo modo, naturalmente: che i contendenti (visto com’è scomparso l’aggressore?) s’accordino su una qualunque soluzione. Curiosamente tutto il parterre dei “pacifisti” oscilla tra il secondo e il terzo modo di far finire la guerra, ma non sul primo che sarebbe il più ovvio. Il frame del “No alla guerra” ha spostato completamente la semantica del discorso. Adesso si discute delle ragioni dell’uno e dell’altro e, soprattutto, sentendo la propria impotenza rispetto alla soluzione-principe per far finire la guerra (il ritiro di Putin), chiedono la resa degli ucraini (a loro dispetto, perché hanno dimostrato in tutti i modi possibili e immaginabili che non vogliono farsi conquistare dai Russi) e per ottenere la resa degli ucraini chiedono che l’Occidente non invii loro armi. Risultato? Per avere la pace sono pronti, sempre sulla testa degli Ucraini, a dare la vittoria a Putin.

Ultimo passaggio, ma non di minore importanza, dello spostamento semantico di queste settimane è l’auto-attribuzione della bandiera morale dei “pacifisti” contro chi è favorevole agli aiuti militari agli Ucraini.

Loro sono per la pace, ne consegue, ovviamente, che tutti gli altri sono per la guerra (per la continuazione della guerra, per essere esatti). Così il capolavoro semantico è compiuto: chi vuole la pace si erge a paladino del bene e lascia agli altri ciò che rimane dopo aver tolto il bene. Così, quanti dicono che sia giusto aiutare l’Ucraina a difendersi si devono giustificare, spiegare perché lo dicono, e così diventano loro sotto attacco.

Ma la regola della conquista del frame in politica è ferrea: chi si deve difendere ha già perso. Ovviamente finché accetta la postura da accusato. Ed è così che la situazione si ribalta: chi ha solidarizzato immediatamente con l’aggredito, e della cui evidenza di aggredito prima nessuno aveva dubbi, si trova oggi nella posizione dell’aggressore, perché aiuta… gli aggrediti. Basta spostare il frame, occupare il campo semantico del dibattito, e abbiamo così un mondo sottosopra.

Le bombe, le vittime, i crimini scompaiono dalla mente e rimane una Babilonia di parole che cancella ogni sentimento umano. Quei sentimenti che il 24 febbraio erano nitidi, coinvolgenti e veri. L’ambiguità del linguaggio crea l’ambiguità dei sentimenti e l’ambiguità della politica.

Di fronte alla guerra in Ucraina e all’escalation, rivendico il diritto di tutti ad avere paura. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 03 maggio 2022.

Per la prima volta nella mia vita, da cittadina e giornalista, trovo difficile e mortificante inserirmi in un dibattito- quello sulla guerra- poiché ho la sensazione di trovarmi su un brutto crinale, sia come cittadina che come giornalista.

Non esiste il diritto alla paura. Che, attenzione, in quanto spogliata del diritto di esistere è completamente rimossa dal dibattito.

Col Covid abbiamo passato due anni a discutere di paura -  paura del contagio, della morte, del fallimento economico, dei disturbi psichiatrici negli adolescenti, delle conseguenze sui mercati - e ora, con la prospettiva più che plausibile di una Terza guerra mondiale, l’essere contrari all’invio di armi viene immediatamente derubricato a vigliaccheria.

Per la prima volta nella mia vita, da cittadina e giornalista, trovo difficile e mortificante inserirmi in un dibattito - quello sulla guerra - poiché ho la sensazione di trovarmi su un brutto crinale, sia come cittadina che come giornalista.

In entrambi i casi mi sento in pericolo. Il brutto crinale è l’assenza di un elemento dal dibattito, un elemento a lungo discusso durante il Covid, ai tempi (cioè fino a ieri) protagonista delle nostre vite e polemiche: la paura.

In questa spaventosa fase della storia si parla solo di coraggio, quello eroico degli ucraini che diventa persino un brand sui palazzi e viene celebrato giornalmente con una inesorabile e pericolosa spettacolarizzazione della guerra, quello della grande madre Russia, quello che dovremmo avere noi tutti nel decidere di essere pronti alla terza guerra mondiale perché non possiamo lasciare sola l’Ucraina. Che gente saremmo.

IL CORAGGIO È UN DOVERE

A Piazza Pulita, tempo fa, un giornalista sbraitava che il dibattito sull’inviare o no le armi in Ucraina è «stucchevole» (giuro, ha usato questo aggettivo), perché inviarle è una decisione giusta e basta ma, ha aggiunto, purtroppo c’è quella fetta di italiani cinici che non vogliono.

Il coraggio, insomma, è una sorta di dovere che non meriterebbe neppure un parere e chi non lo possiede è cinico o vigliacco perché vuole lasciare l’Ucraina al suo destino.

Non esiste il diritto alla paura. Che, attenzione, in quanto spogliata del diritto di esistere è completamente rimossa dal dibattito. Ed è paradossale perché col Covid abbiamo passato due anni a discutere di paura -  paura del contagio, della morte, del fallimento economico, dei disturbi psichiatrici negli adolescenti, delle conseguenze sui mercati - e ora, con la prospettiva più che plausibile di una Terza guerra mondiale, l’essere contrari all’invio di armi viene immediatamente derubricato a vigliaccheria. A egoismo. O, peggio, a una simpatia per Vladimir  Putin. Perfino per chi aveva paura dei vaccini c’era più comprensione. Perfino per il terrapiattista che chi si rifiutava di credere alla scienza.

IL TERRENO DEL CONFRONTO

«Bisogna rispettare la paura del corpo violato, dell’irrazionalità, bisogna prendere per mano queste persone, non essere aggressivi», si diceva.

Allora mi torna alla mente l’ammonimento lugubre, perentorio di Mario Draghi di fronte alla paura di vaccinarsi: «L’appello a non vaccinarsi è l’appello a morire!», disse. E poi quello lanciato di fronte allo scetticismo degli italiani sulle conseguenze di questa guerra: «Preferite la pace o il condizionatore acceso?».

Insomma, se non ti vaccini muori, se vai in guerra al massimo un po’ di sudarella a Ferragosto. Ecco. Una comunicazione funzionale alla rimozione della paura. In particolare, non si parla mai di conseguenze.

Eppure tra il condizionatore spento e le simulazioni di lanci di testate nucleari sulle tv russe, dovrebbe esistere un terreno onesto su cui confrontarsi. Un terreno che preveda ascolto e comprensione per quella larga percentuale di italiani che dalla politica e dalla stampa viene dipinta come Busacca e Jacovacci, i due soldati codardi della Grande guerra (senza il riscatto finale).

E allora parliamone di questa presunta vigliaccheria, perché la sensazione è che mentre nelle redazioni infuria lo slancio bellico (soprattutto tra quelli che ai tempi hanno evitato la leva obbligatoria per una virulentissima dermatite seborroica al mignolo), fuori, tra la gente, esista ancora quel senso di realtà che impone una domanda: cosa rischiamo?

E sia chiaro: il coraggio senza valutazione del rischio (che poi si può decidere di correre comunque) è da fessi, non da eroi.

Ebbene, scusate se lo ricordo così come evidentemente se lo ricordano parecchi italiani, ma stiamo parlando di conseguenze che possono essere un’agonia di anni, la povertà nostra e di paesi per cui povertà è già oggi fame e carestia, l’assenza di risorse energetiche, l’addio alla mia casa, alla mia città, al mio paese, la perdita del lavoro, la fine di ogni progettualità, l’assenza di futuro per i figli, la mia morte, la morte di chi amo, la distruzione di una nazione, di un continente, del mondo, l’olocausto nucleare, l’estinzione della specie.

Ecco, perché tutto questo deve essere chiaro ed esplicitato, altrimenti ci si convince di perdere al massimo qualche carro armato al Risiko.

O due gradi di aria condizionata. Invece la grande propaganda bellica, nel nostro paese, consiste proprio in questo: nella rimozione del rischio e quindi della paura. Nella minimizzazione. E, passaggio ancora più grave, nel ridicolizzare chi quel rischio se lo sente appiccicato addosso perché sa che escalation non vuol dire “mi ha attaccato, domani gli rispondo sul mio giornale”.

LA PAURA OLTRE LA GEOPOLITICA

Poi certo, ci sono le cronache dal fronte con i morti sull’asfalto e c’è questo immenso esercizio di analisi geopolitica, ma i morti dopo due mesi si somigliano tutti e la geopolitica resta un terreno elitario. Alla fine, per tanti, resta solo la paura. Che è uno stigma.

Ci si sente perfino disertori della solidarietà, nell’averne. Nonostante quello che è in gioco, e cioè tutto.

Si finisce perfino accostati ai no-vax, perché la strada della ridicolizzazione degli italiani che hanno paura della guerra passa anche attraverso la semplificazione bambinesca: pacifista=pro Putin=no vax. 

Non dovrebbe passare giorno in cui non ci si ponga il problema del futuro dell’Ucraina e senza che ci si dica a chiare lettere cosa siamo disposti a perdere, per il futuro dell’Ucraina. Senza bluffare, però.

Visto che mi occupo molto, e anche con occhio critico, della comunicazione di Zelensky, molti ritengono che io simpatizzi per Putin o chissà, che abbia un conto in rubli aperto presso la banca di Sondrio per non dare nell’occhio.

La verità è che me ne occupo perché quella comunicazione contribuisce alla pericolosa, sinistra rimozione del concetto di paura. E trovo che lo faccia in maniera ben più ambigua di quanto non lo faccia la propaganda russa per due ragioni: la propaganda russa funziona molto internamente, meno fuori dai confini. Ed è spesso ai nostri occhi grottesca. In seconda battuta la loro eroicizzazione del sacrificio per la patria è ampollosa, rituale, militaresca.

E’ parate, medaglie, soldati in file perfette, giornalisti inespressivi, tavolini troppo lunghi. La loro narrazione della guerra è respingente, distante. Non genera paura ma repulsione. Quella di Zelensky, invece, arruola emotivamente.

Trasforma la guerra in un videogioco, il coraggio in un comando del joystick. I filmati in stile Netflix, i discorsi enfatici, le foto della guerra col filtro “struttura”, l’esaltazione del coraggio fino alla morte, gli spot, i manifesti, i soldati con i gattini, il presidente con la divisa del soldato.

LA RIMOZIONE

Il numero dei soldati ucraini morti che non esiste. Esiste solo quello dei civili, perché la guerra che si vive al fronte è solo onore, vittorie e medaglie. Non esistono i disertori, che pure esistono e si nascondono nei bagagliai delle auto o sotto strati di trucco per sembrare donne (ebbene sì).

Esistono, perfino, le mogli dei neo nazisti del battaglione Azov, pur di portare il coraggio ucraino in tour. Il coraggio della guerra. Che non è brutta e sporca, è l’eterno, eroico sacrificio. La negazione della paura, appunto.

Quella negazione che tanto piace alla stampa italiana, altrettanto alla politica, meno ai cittadini. I cittadini che oggi cercano qualcuno che li rappresenti nel loro desiderio di solidarietà all’Ucraina e nel rispetto della loro paura.

Che non li mortifichi, che non faccia i sorrisini irridenti alla Alan Friedman quando si ipotizza un olocausto nucleare, che non dimentichi cosa significhi un orizzonte di morte, che abbia bene in mente che anche solo in caso di crisi economica, chi ha poco non avrà niente. Dai nostri vicini di casa, ai paesi del terzo mondo. 

Mio padre, che la guerra l’ha vissuta, per cui la guerra non è un concetto astratto ma sirene e bombe sulla testa, ha paura. E non è che non pensi all’Ucraina o si aggrappi egoisticamente al suo futuro. Ha quasi 88 anni.

Semplicemente, conosce la guerra per quello che è. Lui che scappando da Genova si è ritrovato sulla linea Gustav con la famiglia, conserva intatto il suo diritto alla paura.

Sa quanto ingannevoli e strumentali siano i parallelismi con altri momenti storici e altri eroi. Sa che non c’è niente di sporco e mortificante nell’avere paura. Sa che chi invoca la necessità della guerra a tutti i costi e non ha pietà per chi non la vuole, guarda rapito il dito sul grilletto e non la luna.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Pierluigi Panza per milano.corriere.it il 6 maggio 2022.

A cinquant’anni dalla celebre foto simbolo della Guerra del Vietnam, quella scattata da Nick Ut che ritrae una bambina nuda, di nome Kim Phuc, che scappa dalle bombe al napalm piangendo, la «Napalm girl» e il fotografo sono a Milano per inaugurare venerdì sera la mostra «From Hell to Hollywood». L’esposizione fotografica, a cura di La Thi Than Thao e Sergio Mandelli a Palazzo Lombardia sino al 31 maggio, ripercorre l’intera carriera del fotoreporter di Nick Ut a cinquant’anni dallo scatto che gli valse il Premio Pulitzer nel 1973. La foto fu scattata il mattino dell’8 giugno del 1972. 

Si aveva avuto notizia che ci sarebbe stato un bombardamento sul villaggio di Trang Bang, nel Vietnam del Sud, occupato dai Nord vietnamiti. Quel mattino c’erano sul luogo diversi foto operatori e si fecero molti scatti.

A sganciare le bombe furono alcuni Douglas Skyraider in uso alla forza aerea del Vietnam del sud. In alcune foto si vede anche la nonna di Kim Phuc con in braccio un nipotino ormai morto. Kim Phuc ha subito 17 operazioni e ha vissuto prima a Cuba poi in Vietnam e in Canada. Ut vive a Los Angeles, ha lavorato per Hollywood e continua nella professione. Dalla foto, nel 2004 lo street artist Banksy ha realizzato un celebre ironico murales.

Kim Phuc: «Io testimone anti-guerra»

«Era il 8 giugno del 1972 ed ero una bambina di nove anni. Stavo giocando e sono venuti i soldati del Vietnam del Sud a dirci di andare via perché bombardavano». Inizia così il ricordo di Kim Phuc. «Siamo scappati in strada correndo e subito dopo sono scoppiate le bombe: io sono solo una dei milioni di bambini che hanno sofferto per la guerra». 

Chi sono gli altri bambini della foto?

«Sono parenti: i due ragazzi alla sinistra sono i miei fratelli e gli altri due bambini sono i miei cugini. Mio fratello è morto nel 2004; gli altri sono tutti vivi». 

E poi che è successo?

«Nick Ut mi portò in ospedale. Ho passato 14 mesi in ospedale e subito 17 operazioni, l’ultima nel 1984 in Germania. Ho visto per la prima volta la foto dopo i 14 mesi in ospedale e me la ha mostrata mio padre ritagliata da un giornale. Non la volevo vedere. Fino al 1975 c’è stata la guerra e siamo rimasti senza niente. Noi del Sud pensavo che dopo la guerra saremmo stati felici. Ma poi sono arrivati i Khmer e la vita fu terribile». 

Che cosa ha fatto dopo?

«L’anno dopo lascia il Vietnam per Cuba. Durante il tempo passato in ospedale, i dottori mi hanno ispirato moltissimo e ho pensato di voler essere come loro. Nel 1982 sono stata ammessa al corso di medicina, ma proprio allora il governo vietnamita si accorse di me. Decisero che io dovessi diventare il simbolo della guerra del Vietnam proprio per via di questa foto così famosa. E così mi hanno tolta dalla scuola. Mi sentii vittima una seconda volta: divenni testimonial». 

Andiamo avanti.

«Poi ho incontrato la fede nel cristianesimo e mi aiuta. Penso che sia stato grazie a Dio se siamo ancora vivi. Il dolore fisico e i segni li porto ancora sulla pelle ma il dolore emotivo e spirituale è stato ancora più difficile da affrontare». 

Ha avuto figli?

«Sono miei figli i bambini di tutto il mondo», risponde. «Comunque, ho vissuto prima a Cuba, poi mi sono sposata, trasferita in Canada e ho avuto due figli. Ora sono cittadina canadese e rappresentante Unesco». 

Cosa pensa della guerra in Ucraina?

«È terribile, si stanno ripetendo le stesse cose. La guerra spegne i sogni dei bambini. Vorrei condividere la mia storia per servire come lezione». 

Un desiderio?

«Consegnare una copia di questa mia foto a Papa Francesco, spero avvenga al più presto». 

Nick Ut: «Ho mollato le macchine fotografiche per aiutarla»

«Ero un reporter vietnamita della Associated press che seguivo la guerra, con altri. Avevamo avuto una soffiata che ci sarebbe stata un bombardamento su Trang Bang, nel Vietnam del Sud, un paesino occupato dai Nord vietnamiti. Quel mattino c’erano una dozzina di foto operatori e si fecero molti scatti. Avevo iniziato a lavorare nella fotografia a sedici anni sostituendo mio fratello, che era stato ucciso». 

Veniamo alla foto.

«Sono stato lì circa tre ore a documentare. A un certo punto ho visto che un soldato vietnamita sganciava una granata e poi ho visto gli elicotteri sopra la pagoda che hanno sganciato due bombe e, un tre minuti dopo, le bombe al napalm. Poi ho visto che dal fumo nero uscivano persone correndo. Una di queste persone era la nonna di Kim che portava il corpo di suo cugino di tre anni. Ho scattato una foto del bambino che tre minuti dopo era morto. Poi ho visto Kim che è apparsa e correva e mi sono avvicinato per fare la foto. Quando ho scattato pensavo che sarebbero tutti morti». 

Invece?

«Quando mi è passata oltre ho visto braccio e schiena ferita. Non gliene ho scattate altre perché credevo sarebbe morta. Avevo quattro macchine fotografiche, le ho lasciate lì e sono corso con una bottiglia d’acqua per spandergliela sul suo corpo; lei urlava: brucia, bricia. Ma lei voleva bere. Sono rimasto con uno della BBC ad aiutarla. Avevo un piccolo furgoncino, l’ho aperto e ho fatto salire i bambini. Ho preso in braccio Kim e messa sul furgoncino. Stavano urlando e tutti dicevano che stavano morendo e lei chiedeva del fratello».

Poi?

«Arrivammo a un piccolo ospedale in 30 minuti. Chiesi ai medici di aiutarla, ma non avevano abbastanza medicine. Loro mi hanno aiutato a portarla a Saigon». 

La foto?

«Lì sono andato alla Associated Press di Saigon e dieci minuti dopo era sviluppata. La mattina dopo siamo tornati al villaggio e ho visto una donna e il marito che cercavano la figlia. Gli ho fatto vedere la foto e ho detto loro che la avevo portata in ospedale». 

L’anno successivo le valse il Pulitzer, e poi?

«Tornai al villaggio il giorno in cui Kim uscì dall’ospedale e le regalai un libro». 

Lei, poi, si è trasferito a Los Angeles, ha lavorato anche per Hollywood ma ha sempre sostenuto le battaglie per i diritti umani. Cosa potrebbe fare una foto per la guerra in Ucraina?

«Anche una foto potrebbe servire. Ho parlato a lungo con i rifugiati ucraini a Los Angeles, che mi hanno chiesto di andare. Vorrebbero che io vedessi anche questa guerra e scattassi ancora».

(LaPresse il 5 maggio 2022) -  In un programma in onda sulla televisione di Stato Russia 1 Shakhnazarov, regista e produttore vicino al presidente russo Vladimir Putin, ha dichiarato che "gli oppositori della lettera Z devono capire che non saranno risparmiati. Qui è tutto serio, gravissimo: campi di concentramento, rieducazione, sterilizzazione”.

(Adnkronos il 6 maggio 2022) - "L'Unione europea deve farsi sentire, non può identificarsi nell'Alleanza euro-atlantica. Questo non significa mettere in discussione l'Alleanza, ma l'Europa non può non esprimere, soprattutto in un contesto come quello attuale, una sua propria vocazione per una soluzione di questo conflitto". Lo ha detto il leader M5S Giuseppe Conte, intervenendo alla prima lezione della scuola di formazione 5 Stelle, presso il Tempio di Adriano.

L'invasione dell’Ucraina. Ci sono due tipi di pacifisti.

Quelli comunisti ed eternamente antiamericani, astiosi del fatto di essergli sempre riconoscenti per la libertà conquistata dal nazifascismo e perchè ha impedito la vittoria e l’egemonia del comunismo con l’espansione dell’Unione Sovietica ad Ovest.

Quelli che…”che me ne fotte a me!” Interessati esclusivamente al loro benessere e tornaconto personale. Fa niente se il loro stato è dovuto al martirio di tanti soldati stranieri che hanno combattuto in Italia. Quelli che quando vedono una vittima di violenza o sopraffazione, non degnano attenzione e proseguono oltre.

The Putin Show. Il finto pacifista si sveglia ogni mattina rassicurato dai media della Bieloitalia. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.

Ora che sono passati tre mesi dall’inizio dell’invasione russa in Ucraina, il militante anti Usa non ha bisogno di urlare quanto Zelensky sia nazista, perché i talk show ci tengono a mostrare sempre le ragioni del Cremlino. Anche quando bombarda un centro commerciale pieno di civili

Riprendiamo il diario pacifista a quasi tre mesi da quella sera in cui il nostro eroe chiudeva la propria giornata di impegno militante spiegando alla figlia che i bambini ucraini sono dei fondamentalisti, perché non capiscono che in dittatura si può vivere felici. Il protocollo orario della lotta non è cambiato, ma l’esperienza acquisita durante lo sviluppo delle operazioni speciali ha apportato alla resistenza pacifista armamenti di maggiorata efficacia. Vediamolo.

Ore 7,00: il Pacifista si sveglia ben riposato. Non ha dovuto, come invece gli toccava agli esordi della campagna di denazificazione, star su fino a tardi per sorvegliare il regime dell’informazione che concedeva al pacifista comunista sindacalista collaborazionista solo il settanta per cento dei talk show, solo l’ottanta per centro delle interviste senza contraddittorio e solo il novantacinque per cento degli approfondimenti scientifici per decidere se i presunti cadaveri di Bucha erano manichini o invece comparse dell’Actors Studio, se nell’acciaieria c’era il nipote di James Bond e/o la figlia naturale dell’estetista di Joe Biden e se i ciclisti abbattuti dai cecchini erano solo omosessuali drogati o anche evasori fiscali. È tutta roba acquisita, finalmente, perché adesso il Pacifista può assistere orgoglioso a come ha ben fruttato il proprio cimento e a come Raiuno, Raidue, Raitre, Retequattro, Canale5, Italia1 e LaZ aka Telecinquestelle vadano in autonomia e non abbiano più bisogno del suo aiuto per spiegare che i russi fanno anche qualcosa di buono.

Ore 7,30: il Pacifista si lava i denti. L’animo suo, rasserenato al risveglio da quel tranquillizzante panorama dell’informazione come si deve, si rabbuia ora nella meditazione sulle sofferenze delle masse proletarie impoverite dagli egoismi ucraini. Rumina il tweet: «Prima gli italiani!». Senonché, mortacci sua, non ti arriva la moglie a rovinar tutto de prima matina? L’innocente, porella, anzi innocentessa, perché non si è pacifisti comunisti sindacalisti collaborazionisti senza essere in primo luogo arcobaleno, dice che sì, però… e ti snocciola l’esito del suo scrutinio, fastidioso come un resistente ucraino: «Amò, ma non l’aveva già detto quell’altro, come se chiama?, quello co’ la felpa, cor rosario… quello che je manna la ruspa a le zingaracce, dai!, quello che se voleva pijà li pieni poteri… Sarvini! Ecco, Sarvini! L’aveva detto puro lui che prima vengono l’itajani». E che palle. Ripiega dunque su «Ucraina Stato canaglia», che favorevolmente («Bravo amò!») passa il filtro censorio della puntigliosa consorte.

Ore 8,00: il Pacifista non legge più i giornali. Ha capito da mo’ che anche lì il lavoro è stato fatto. D’accordo, la stampa nazista, dal Corriere della Sera a Linkiesta, non è stata debellata completamente, ma ‘sti cazzi, tanto il Pacifista lo sa che la verità è venuta a galla e al compagno Massimo Giannini nessun complotto, nessuna cospirazione, nessun colpo di mano impedirà mai di far scrivere che Zelensky ricatta l’Europa.

Ore 8,30: il Pacifista esce per andare a faticà.

Ore 8,31: il Pacifista rientra (la militanza può cambiare sui dettagli, ma non sui principi).

Ore 12: al Pacifista je tocca da cucinà, perché la moglie è al sit in contro la guerra del Vietnam e per il boicottaggio dei prodotti israeliani. Il monitoraggio del soffritto non lo distrae dalla radio, che propina il frutto quotidiano della disinformazione di matrice Nato: missili su un supermercato (puah!), tredici morti (pfui!), decine di feriti (se vabbè…). Mangiare veloce perché la causa chiama.

Ore 14: Il Pacifista va al pc. Incazzato come un puma perché la notizia è coperta male, malissimo, porca puttana. Non uno che obietti l’ovvio, e cioè che innanzitutto il centro commerciale incenerito non aveva la licenza. E poi non uno che spieghi quel che capirebbe perfino Bianca Berlinguer, e cioè che prima di trarre conclusioni ci vuole un’indagine indipendente per accertare se c’erano gli idranti. Poi arriva la dichiarazione del plenipotenziario russo, che dice che era un deposito di armi, e il Pacifista si placa.

Ore 18: il Pacifista deve riempire il tempo da lì a quando arrivano i programmi seri, quelli delle inchieste che spiegano che «Putin sta puntando sui suoi obiettivi, e intanto cerca di non spaventare la popolazione». Che fare, nel frattempo? Un bel like sul post contro le multinazionali (irrecuperabile, mannaggia, perché non c’è la moglie ad avvisarlo che era della Meloni).

Ore 20: il Pacifista cena soletto, perché la moglie è passata dal sit in alla veglia di solidarietà alla stampa russa censurata, e la bimba è purtroppo dai nonni, che non si sa se saranno altrettanto impegnati a spiegarle che il bene e il male non stanno da una sola parte e che negli scantinati di Kyjiv ci sono tutti i comfort.

Ore 21: il Pacifista crolla. C’era un reportage cecoslovacco con sottotitoli in tedesco che diceva che i profughi ucraini in realtà sono passanti e che le deportazioni rendono liberi gli uomini: ma quando uno è stanco, è stanco. E poi l’aveva già sentito, in buon italiano, dalla viva voce dell’opinionismo che ogni giorno sfida la propaganda bellicista.

E domani? Domani magari il sollievo alla notizia di un’altra città ucraina caduta.

Balordaggini. L’ipocrisia italiana di pretendere che l’Ucraina sia anche campione di moralità. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 23 Giugno 2022.

Una parte del giornalismo di casa nostra è convinta che Kiev deve dimostrare di meritare il nostro aiuto. L’invasione di Putin non basta come motivazione, serve il tagliando concesso dai talk show populisti.

Abbiamo già discusso, proprio qui, del pregiudizio balordo secondo cui gli aiuti dovrebbero essere misurati sul merito del popolo che, aggredito, li richiede e li riceve.

È dal primo giorno dell’operazione speciale, dalla prima strage di civili, dal primo stupro, dal primo rastrellamento, dalla prima deportazione, e cioè da subito, perché l’iniziativa di denazificazione si è sviluppata immediatamente lungo quel corso di delizie, per quanto qui da noi qualche buontempone si esercitasse a spiegare che «Putin sta puntando sui propri obiettivi, e nel frattempo cerca di non spaventare la popolazione».

È insomma dall’inizio che quella balordaggine pretende di accreditarsi, e suona pressappoco così: ma vogliono mettersi in testa sì o no, questi ucraini, che noi, siccome gli diamo le armi, abbiamo il diritto di fargli l’audit morale a La7 e Raitre?

Dice: ok, vi mandiamo i fucili, visto che purtroppo non c’è Giuseppe Conte a impedire lo scempio e disgraziatamente l’Italia è in mano al vile affarista, ma voi dimostrate di aver capito che le carte tutte in regola mica ce le avete, a cominciare dalla villa del vostro presidente e dall’intollerabile negazionismo con cui tentate di coprire le verità sotto gli occhi di tutti, vale a dire che a Mariupol c’erano tante case abusive e a Bucha il traffico era insopportabile.

E poi, siccome queste sanzioni ci pregiudicano, e qui c’è finalmente concordia tra il pacifista comunista sindacalista collaborazionista, da una parte, e Capitan Nutella, dall’altra, sul fatto che prima vengono gli italiani, voi ucraini ce lo volete dire quando avete intenzione di far finire questa guerra?

Perché facciamo a capirci: a noi questa guera ce sta a rovinà, e a questo punto ci vuole un segno da parte vostra, dovete venirci in aiuto, voi a noi, belli nostri, perché altrimenti vuol dire che voi e i russi pari siete e anzi almeno quelli ci davano il gas economico invece che quello usuraio che vogliono rifilarci i vostri amici americani.

Insomma, come dice la meglio rappresentanza del nostro giornalismo democratico, «abbiamo il diritto di sapere che cosa gli ucraini pensano di questo conflitto», e in primo luogo se pensano che la guerra è colpa della Nato, che la guerra è colpa di Joe Biden, che la guerra è colpa di Boris Johnson, che la guerra è colpa di Mario Draghi, che il loro presidente è ebreo come Hitler e che nelle televisioni ucraine non si dà voce all’Anpi e all’Associazione nazionale magistrati. Vogliono il nostro aiuto? Devono esserne degni.

Maurizio Belpietro per “la Verità” il 9 maggio 2022.

Qualche sera fa, durante la puntata di Dritto e rovescio, mi è capitato di confrontarmi con Edward Luttwak, un americano a Roma che da anni si spaccia da esperto non so bene di che cosa. I giornalisti lo interpellano come un oracolo per sentire le sue analisi di geopolitica, e su Rete 4 era stato chiamato a commentare la guerra in Ucraina. 

Ho ascoltato le sue tesi poi, arrivato il mio turno, ho detto ciò che pensavo, precisando che la pace sarebbe arrivata solo quando fossero stati costretti a sedersi al tavolo delle trattative sia Russia che Stati Uniti, perché questo è un conflitto tra Putin e Biden, che ha per coprotagonisti e, purtroppo, vittime gli ucraini. Non lo avessi mai detto: Luttawak ha cominciato ad agitarsi quasi avessi pronunciato una bestialità.

Ora si dà il caso che in quelle stesse ore il New York Times, non la gazzetta di Mosca, avesse appena rivelato come l'intelligence americana avesse guidato la mano delle truppe ucraine che hanno fatto fuori 12 generali russi, a dimostrazione che gli Stati Uniti sono direttamente coinvolti nel conflitto. Infatti le rivelazioni hanno fatto sussultare la Casa Bianca, che ha definito irresponsabili gli autori dello scoop giornalistico. In effetti, rivelare che è il Pentagono a guidare i razzi significa sollevare il sottile velo di ipocrisia che copre le parti impegnate nel conflitto, dimostrando che gli Usa sono direttamente coinvolti nella guerra, anche se mandano a morire gli ucraini. 

Mentre Luttwak si agitava, da Washington arrivava un'ulteriore conferma. Il missile che ha affondato l'incrociatore Moska, ossia l'ammiraglia russa, è stato indirizzato dagli americani, i quali hanno fornito le coordinate per colpirlo. Sempre gli Stati Uniti hanno aiutato gli ucraini a individuare mezzi corazzati e obiettivi strategici, e anche questo è stato rivelato dalla stampa internazionale.

Del resto in quella stessa puntata di Dritto e rovescio, Angelo Macchiavello, inviato a Kiev del programma, confermava che nel suo albergo c'erano americani e inglesi e non parlava certo di colleghi della stampa o della tv. E Jeffrey Sachs, economista della Columbia University che conosce i Paesi dell'Est per avervi lavorato ai tempi della sua collaborazione con il World Economic Forum, la scorsa settimana, in un'intervista, aveva rivelato che prima dell'invasione russa il ministero della Difesa ucraino «pullulava» di americani e non si trattava ovviamente di turisti in vacanza, ma di militari assegnati a operazioni di addestramento.

Insomma, i segnali di un diretto coinvolgimento degli Stati Uniti in questa guerra non sono una mia opinione, ma un dato di fatto e si moltiplicano ogni giorno. Papa Francesco, nella sua intervista al Corriere, pur criticando la brutalità di Putin ha detto che forse «l'abbaiare della Nato alla porta della Russia» ha indotto il capo del Cremlino a reagire male. «Un'ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì».

E se ci fosse bisogno di conferma, l'altro ieri, mentre Volodymyr Zelensky si diceva disponibile al dialogo e anche a rinunciare alla restituzione della Crimea occupata dai russi nel 2014, Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato, cioè un politico di terza fila che gli americani hanno messo a guida dell'Alleanza atlantica per comandarlo a bacchetta, spegneva gli entusiasmi, precisando che «i membri della Nato non accetteranno mai l'annessione illegale della Crimea». Tradotto: gli ucraini devono continuare a combattere - e a morire - per conto nostro, per questo gli forniamo le armi.

Per Enrico Letta parlare di guerra per procura è ignominioso. Ma la vera ignominia è quella di un partito che dopo averci bombardato per anni con la pace, oggi di fronte alle stragi di civili si scopre guerrafondaio ma con la pelle degli altri. Siamo circondati da una classe politica e giornalistica di artiglieri da salotto, di eroi ma per interposta persona, pronti ad assecondare una guerra per compiacere i propri referenti internazionali. Mi dispiace per Luttwak e per i comitati per cui lavora, ma questo è un confronto armato a distanza fra Russia e Stati Uniti e tutti gli altri, Europa e ucraini compresi, sono vittime e coprotagonisti. Ovvero pagano il conto, in termini di vite umane e bilanci.

Dunque, se si vuole fermare la guerra non resta che una soluzione: rinunciare all'invio dei cannoni per costringere le due superpotenze a trattare. Domani Mario Draghi sarà a Washington e questo dovrebbe dire. Purtroppo temo che non dirà nulla di tutto ciò, adeguandosi alle direttive di Sergio Mattarella, colui che 23 anni fa impose il silenzio sugli aerei italiani inviati a bombardare Belgrado e che anche ora, invece di invitare il Parlamento a discutere della Costituzione violata, approva il bavaglio.

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 10 maggio 2022.

«Il 9 maggio Putin dichiarerà la guerra totale. La mossa consentirebbe a Mosca di attivare la legge marziale, coinvolgere gli alleati e proclamare la mobilitazione di massa» (Avvenire.it, sabato 30 aprile); 

«Putin pronto alla guerra totale. Il 9 maggio lo zar potrebbe dichiarare chiusa l'operazione speciale e allargare il conflitto in Ucraina» (La Stampa, prima pagina del 1° maggio);

«La guerra totale di Putin. Il piano di Mosca:  avere il supporto degli alleati». (Il Messaggero, prima pagina del 1° maggio); «Londra: Putin pronto a dichiarare la guerra totale. Un quotidiano inglese riferisce, citando non meglio precisate fonti di intelligence, dell'ipotetica possibilità di un passaggio dalla fase dell'Operazione militare speciale a uno stato di guerra da dichiararsi il prossimo 9 maggio in occasione della Festa della vittoria». (Marco Imarisio, Corriere della Sera del 1° maggio); 

«L'offensiva russa rallenta ma il Cremlino prepara l'opzione guerra totale. Il quotidiano britannico Independent arriva a ipotizzare che il 9 maggio sulla piazza Rossa, davanti alle truppe schierate per la vittoria sul Terzo Reich, venga dichiarata la guerra totale in Ucraina, mettendo fine all'ordine ipocrita che impone di parlare di operazione militare speciale». (Gianluca Di Feo, Repubblica del 1° maggio);

«Il 9 maggio, hanno ipotizzato varie fonti, Vladimir Putin potrebbe annunciare la mobilitazione generale, accompagnata dalla dichiarazione di guerra formale. Questa ipotesi è stata esclusa ieri dallo stesso Cremlino e da diversi esperti, secondo i quali il presidente russo non ha bisogno di una grande mobilitazione per dichiarare la vittoria (). 

La smentita del Cremlino vale però fino a un certo punto. Mosca aveva ripetutamente escluso persino di voler invadere l'Ucraina. Chi non si fida guarda con timore all'esercitazione su larga scala cominciata ieri mattina in Bielorussia» (Andrea Marinelli e Guido Olimpio, Corriere della Sera del 5 maggio);

«Conclusa l'ultima prova generale della parata militare che il 9 maggio commemorerà la vittoria sul nazismo tra bandiere rosse e simboli sovietici, dilaga l'inquietudine per quello che Putin potrebbe dire domani in piazza Rossa» (Rosalba Castelletti, Repubblica dell'8 maggio). 

Ieri, dopo la parata che ricordava il 77° anniversario della vittoria sui nazisti, i siti online degli stessi giornali quasi si lamentavano di essere stati contraddetti dai fatti, perché Vladimir Putin non ha dichiarato nessuna guerra totale, né ha parlato di armi nucleari o di un'escalation della guerra. Nelle cronache degli inviati si nota lo stupore per il tono dimesso dello zar.

«La sorpresa è stata nei contenuti mancanti e nel tono», scrive Imarisio, lo stesso giornalista che sul Corriere riferiva che secondo fonti inglesi Putin stava per alzare i toni. «Non c'è stata alcuna dichiarazione di guerra, nessuna mobilitazione generale. Solo un riepilogo delle ragioni russe, e la sottolineatura delle cose che il Cremlino sostiene di aver chiesto più volte alla Nato e agli Usa, senza mai ottenerle».

Dopo tanta attesa, il discorso ha lasciato il collega con l'amaro in bocca, come un film di cui si è tanto parlato, ma che alla prima visione si rivela al di sotto delle aspettative: «Non sono volati neppure gli aerei in formazione Z, bloccati dalle avverse condizioni atmosferiche», si lamenta, e «anche il suo presidente, tutto sommato, ha volato basso. Forse la vera novità è questa: quello di Putin è un discorso in tono minore, quasi sulla difensiva».

Insomma, lo spettacolo che aveva attirato l'attenzione di giornali e telegiornali per giorni e giorni ha deluso, perché non c'è stato nulla di speciale, neppure la minaccia di una piccola atomica da sganciarsi in qualche angolo sperduto dell'Ucraina. 

Manco una minaccia diretta all'Europa, solo un po' di fuffa contro gli Stati Uniti, roba che si è già sentita e risentita. Alla fine, ai grandi scornati speciali non è rimasto che riciclare qualche articolo sulle condizioni precarie di salute di Putin e, udite udite, sulla cravatta a pois annodata intorno al collo, una Marinella, forse regalo di Silvio Berlusconi in tempo di pace.

«Si tratta di un modello classico, elegante, che di solito si mette nelle occasioni speciali», ha commentato alla radio il titolare del negozio napoletano di cravatte sartoriali. Eh, già, messe da parte le cronache belliche, per cercare di raccontare l'evento non restano che quelle di moda. È la stampa bellezza, che sa dimostrarsi ridicola anche davanti a una tragedia. 

Stasera Italia, Vittorio Feltri e il suicidio delle sanzioni: "Siamo imbecilli e ridicoli", Italia verso il baratro. Federica Pascale su Il Tempo il 09 maggio 2022.

“Chiaro che fintanto che Putin non smette di sparare diventa molto difficile fare una trattativa, però bisognerebbe che smettesse di sparare anche Zelensky”, il presidente dell’Ucraina. Così Vittorio Feltri durante la puntata di lunedì 9 maggio di Stasera Italia, il talk show politico condotto da Barbara Palombelli su Rete4, nel commentare il conflitto scoppiato a seguito dell’invasione dell’Ucraina da parte delle truppe russe di Vladimir Putin.

“Non si capisce come mai Biden abbia tutto questo interesse per le vicende dell'Ucraina e della Russia – sottolinea il direttore editoriale di Libero -. Gli Stati Uniti sono a 7000 km da qui, e non riesco a capire perché se ne preoccupino tanto”. Secondo Feltri, gli americani, e nello specifico il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, non dovrebbero avere ruolo nelle trattative in corso per mettere fine alla guerra in Ucraina. Il conflitto è in corso a casa nostra, in Europa, e gli interessi in campo sono in primis quelli europei e quelli russi. “Trovo che gli Stati Uniti si stiano comportando malissimo – afferma il direttore -. È una mia opinione, intendiamoci. E d’altra parte l'Europa e la Nato, non è che siano stati molto chiari in questa vicenda.” “Non si riesce a capire come si possa smettere questa guerra se non si trova un’unità di intenti che possono sfociare in una soluzione”. 

Senza contare che le sanzioni che abbiamo inflitto alla Russia "si ritorcono contro di noi, ci danneggiano. Siamo un po' imbecilli e ridicoli" visto che ci mettiamo in difficoltà da soli, argomenta Feltri. Ne vedremo delle belle, "sia d'estate che d'inverno, per l'energia che non avremo" conclude il direttore. 

Presunto atlantismo. Quando l’odio per l’America è più forte dell’amore per la libertà degli ucraini. Iuri Maria Prado su l'Inkiesta l'11 maggio 2022.

Una buona parte della nostra opinione pubblica cova un risentimento a prescindere verso gli Stati Uniti. Questi rossobruni preferiscono fare le pulci a chi muore sotto le bombe piuttosto che biasimare chi ha invaso uno Stato democratico.  

Magari è venuto il tempo di dirla tutta sui movimenti di opinione, o piuttosto di pancia, davanti alla scena delle operazioni speciali in Ucraina. Sarebbe salutare riconoscere che un larghissimo consorzio sociale, ottimamente rappresentato a destra e a manca, è a dir poco recalcitrante all’idea di tenere appeso in camera il ritratto dell’imperialista di Washington e se dovesse dar sfogo senza obbligate prudenze ai propri impulsi metterebbe in bella mostra il bel viso rassicurante del patriota denazificatore.

Il profluvio di sondaggi sul gradimento italiano a proposito delle iniziative di sostegno della resistenza ucraina è la spia lucente di quella verità: odiamo più l’America rispetto a quanto amiamo il diritto degli ucraini di difendersi. E il nostro presunto atlantismo, nella poca misura in cui esiste e trova riscontro, è una specie di finzione, l’effetto di un’operazione di innesto: ma non è sentimentale, non è genetizzato tra le cose che formano la genuina fibra civile del Paese.

Il sodalizio editoriale tra il vecchio stalinista e il virgulto del giornalismo Dio-Patria-Famiglia, l’uno e l’altro mobilitati a ricognizione della colpa anglosassone e della servile subordinazione continentale, e a riaffermazione dell’interesse popolare cui quelle attenterebbero, non è il bizzarro coniugio degli opposti che si ritrovano su un campo episodicamente comune: è il riassunto esemplare di tradizioni convergenti ed è, soltanto messa in bella copia, la chiacchiera nazionale maggioritaria.

Quella della “guerra per procura” che il segretario del Partito democratico, meritoriamente, giudica ignominiosa ma non capendo, o facendo le mostre di non capire, che l’ignominia, purtroppo, non sta nella chiacchiera ma nel fatto che essa è assai ben accreditata presso una fascia tutt’altro che minoritaria non solo dei ranghi politici ma della cosiddetta opinione pubblica.

Riconoscere che, pur senza arrivare a dar credito alle oscenità sugli attori e sulle modelle assoldati per recitare la parte dei bombardati, una buona quota di connazionali è proclive a far le pulci a chi sta sotto alle bombe, e a far spallucce davanti al dettaglio che non sarebbe stato necessario mandargli armi se gli altri non avessero cominciato la loro campagna di massacro, di stupri di massa, di deportazioni, ecco, riconoscere questo serve a non nascondersi il pericolo: e cioè che l’Italia si dimostri come vuole essere anziché come dovrebbe.

La pochade grillina. I Cinquestelle divisi tra il battaglione Conte e il reggimento Di Maio. Mario Lavia su L'Inkiesta il 10 Maggio 2022.

Ormai è chiaro che le anime del movimento populista siano due, una di opposizione e l’altra legata alle scelte di governo. Se l’avvocato sa di non poter rompere davvero con Draghi è anche merito del ministro, che dalla sua vanta una metamorfosi unica.

I due Movimenti 5 stelle – quello di Giuseppe Conte e quello di Luigi Di Maio – si stanno scontrando al Senato per la poltrona di presidente della commissione Esteri, quella che il putiniano Vito Petrocelli non si sa come e non si sa quando prima o poi sarà costretto a lasciare: da una parte c’è il contiano Gianluca Ferrara e dall’altra la dimaiana Simona Nocerino. È la rappresentazione plastica, come dicevamo, che i M5s sono ormai due. Contiani e dimaiani separati in casa.

Luigi Di Maio non attacca l’avvocato per una sola ragione, per il timore che una rottura esplicita e plateale possa comportare pericolose conseguenze sulla vita del governo Draghi di cui egli, com’è noto, è fervido sostenitore essendo ministro degli Esteri. Ma non solo per questo. Il fatto politico importante è che Di Maio, ancorché tra i parlamentari sia meno forte dell’ex premier, pure tiene quest’ultimo in pugno: in altre parole, al ministro degli Esteri basta fare due conti (che pertanto sono perfettamente a conoscenza di Mario Draghi) per concludere che, se volesse rompere, Giuseppi non avrebbe grandi truppe al seguito.

La “divisione Di Maio” può contare su un’ottantina di parlamentari irrobustita però alla bisogna da un’area piuttosto varia di “non allineati” che hanno solo un obiettivo in testa, arrivare fino alla fine della legislatura, e che dunque non seguirebbero a cuor leggero un Conte-kamikaze che volesse far saltare governo e Parlamento.

Per questo la linea dura dell’avvocato sta facendo storcere il naso non solo a molti peones grillini, che non capiscono perché debbano rinunciare agli ultimi stipendi dato che non rientreranno mai più in Parlamento, ma anche a personaggi di peso, da Roberto Fico a Paola Taverna ai vari membri del governo.

Per ciò che concerne Di Maio non si deve credere che egli sia disattento alle questioni politiche nazionali e persino territoriali (la sua Napoli): sabato scorso è andato a Portici per appoggiare il candidato sindaco del Pd contro i grillini locali. Episodio minore ma che qualcosa dice. Già, il radicale cambiamento del rapporto tra il ministro degli Esteri e il Pd è una delle circostanze più impreviste di una legislatura che pure ne ha viste tante. Di fatto il Pd lo considera «uno dei nostri» e ormai ha dimenticato i giorni nei quali “Giggino il bibitaro”, come veniva sardonicamente chiamato, si scatenava contro “il partito di Bibbiano”, una delle strumentalizzazioni più volgari della storia politica recente, giorni che sono sepolti sotto le macerie del vecchio grillismo di cui il ragazzo di Pomigliano fu uno dei cantori più rabbiosi.

E d’altra parte è vero che oggi Letta e Di Maio fanno la stessa analisi sulla guerra di Putin, sposano la causa atlantista con la medesima convinzione, detestano lo zar del Cremlino allo stesso modo: e se quest’ultima cosa non è sorprendente per il leader del Pd lo è invece – e molto – per il ministro, al quale sfuggì in tv che Putin è «peggio di un animale», e che non in un’altra era ma solo pochi anni fa (era il 2016) mandava il fido Manlio Di Stefano al congresso di Russia Unita, il partito del dittatore di Mosca.

L’enigma di un giovane uomo che all’inizio del 2019 va a incontrare i leader più estremisti del gilet gialli e tre anni dopo collabora fattivamente con il ministro degli Esteri di Emmanuel Macron, Jean-Yves Le Drian, è effettivamente intrigante e forse non basta solo la politica per spiegarlo: una metamorfosi degna di Ovidio. Tanto era imprevedibile questa traiettoria che adesso è lecito chiedersi cosa farà Di Maio alle prossime elezioni politiche nel caso in cui nel frattempo non sia riuscito a cacciare Conte (cosa che medita di fare dopo il prevedibilmente disastroso risultato alle amministrative di giugno): tutto è possibile, anche una scissione, o meglio una presa d’atto formale che i Movimenti Cinque stelle sono diventati due.

(A proposito dell’articolo a mia firma comparso ieri – “Finalmente anche la Rai ha capito che Conte non è rilevante” – mi corre l’obbligo di rettificare che l’ospitata di Luca Sommi non è avvenuta ad Agorà condotta da Luisella Costamagna ma in Agorà weekend).

Quelle giravolte degli ex comunisti diventati atlantisti. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 09 maggio 2022.

Le Metamorfosi di Ovidio? Nulla rispetto alle metamorfosi dei comunisti italici, comprese le più recenti con le quali sono diventati "pasdaran" dell'ortodossia atlantica, severi censori del pacifismo e predicatori umanitari. E questo senza mai riconoscere l'errore di essere stati comunisti al tempo dell'Urss di Breznev e Andropov. Anzi ritengono di avere tutti i titoli per dare lezioni oggi di atlantismo e umanitarismo. Prendiamo l'editoriale (sul Corriere della sera di venerdi) di Walter Veltro ni, il quale è una persona gentile, intelligente e piacevole, ma in quel pezzo ha cucinato un confuso minestrone in cui riesce a cantare le lodi del Nord Vietnam comunista che combatteva contro «l'invasione straniera» degli Usa e - al tempo stesso - le lodi dei soldati Usa che sbarcarono in Italia e in Normandia per combattere contro il nazifascismo (non furono due "invasioni" per la libertà?). Un inno combattente in cui Veltroni rinfaccia (senza nominarli) a Santoro e compagni il passato, ma dimenticando il suo. E il suo non è il passato di uno qualsiasi: Veltroni - iscrittosi alla Fgci nel 1970 è stato poi uno dei dirigenti nazionali del Partito Comunista Italiano quando ancora c'era l'Urss e il blocco comunista (la vicenda degli euromissili e di Comiso è degli anni '80 e Veltroni c'era). Il Pci era un "partito fratello" di quel Pcus da cui vengono Putin e la classe dirigente russa di oggi. Quel Pcus a cui obbediva il Pci togliattiano, a lungo finanziato da Mosca (per capire quando finirono i finanziamenti bisogna leggere "Oro da Mosca" di Valerio Riva e non solo "L'oro di Mosca" di Gianni Cervetti). Da chi è stato parte della storia comunista ci si aspetta una riflessione vera sulla classe dirigente post-comunista che oggi governa a Mosca e sulle macerie lasciate dal comunismo. Prima di tuonare per tutto un editoriale contro la presunta «indifferenza» che Veltroni imputa a chi non condivide le sue attuali idee «atlantiste» sull'Ucraina, dovrebbe spiegarci quanto fu «indifferente» il suo Pci nei confronti degli orrori dell'Urss e regimi compagni.

«LA SOLUZIONE MIGLIORE»

Negli anni Settanta, quando lui era un militante comunista, già sapevamo tutto, già era uscito "Arcipelago Gulag" e sull'Unità e poi su Rinascita, nel febbraio '74, Giorgio Napolitano, a nome del Pci, scriveva che l'espulsione del dissidente Solzenicyn era «la soluzione migliore» perché lo scrittore aveva «finito per assumere un atteggiamento di "sfida" allo Stato sovietico e alle sue leggi» e «non c'è dubbio che questo atteggiamento - al di là delle stesse tesi ideologiche e dei già aberranti giudizi politici di Solzenicyn - avesse suscitato larghissima riprovazione nell'Urss». Napolitano, che allora si scagliava contro «l'antisovietismo», è il simbolo autorevole del passaggio dal Pci filosovietico (lui fu dirigente del Pci al tempo di Togliatti) all'atlantismo più zelante. Ma senza mai fare autocritiche. Nella sua "autobiografia politica" del 2005 intitolata "Dal Pci al socialismo europeo" neanche cita mai Solzenicyn. Carlo Ripa di Meana, nel 2008, alla morte dello scrittore russo, su "Critica sociale", in un articolo intitolato "Solzenicyn e il silenzio del Quirinale", scriveva: «Avevo sommessamente suggerito, qualche mese fa, al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel 1974, allora responsabile della cultura del Pci, su l'Unità, aveva rumorosamente applaudito all'esilio comminato a Solzenicyn che, va ricordato, aveva già passato otto anni nel Gulag nell'immediato dopoguerra, che in una prossima occasione, o in forma privata o nel corso di una visita di Stato, chiedesse un incontro a Solzenicyn, ormai molto in là con gli anni e malato, per chiudere una pagina nera. Così non è stato. In questi ultimi giorni, mentre in tutto il mondo si sono ascoltate voci di statisti, di rimpianto e di riconoscenza per la grandezza di quest' uomo e della sua vita, da Roma-Quirinale è venuto un silenzio arido, privo di umanità». Veltroni nel 2008 era il segretario del Pd: si espresse mai sulla vicenda? È sicuro che la storia dei post-comunisti - di cui è parte - oggi legittimi i suoi moniti umanitari sulla presunta «indifferenza» altrui? Oltretutto è un'accusa inaccettabile perché chi si oppone all'invio di armi, come i cattolici, lo fa perché vuole la pace per gli ucraini e lo fa dando loro ogni possibile aiuto umanitario (del resto bisogna anche non essere indifferenti ai costi pesantissimi che i bellicisti vorrebbero imporre agli italiani).

Quando si ha un tale passato comunista certamente si può evolvere e cambiare, ma bisognerebbe almeno evitare di andare a fare prediche agli altri sull'indifferenza, l'Occidente e la libertà.

GLI EX DELL'UNITÀ

Il Corriere della Sera, che oggi è guidato da giornalisti che vengono dall'Unità, a cominciare dal direttore, si distingue per fanatismo occidentalista. Talleyrand - che di cambi di casacca era esperto - consigliava: «Surtout pas trop de zèle». Anche perché si rischia il cortocircuito. Un intellettuale progressista francese, Robert Redeker, di recente ha osservato: «La simpatia degli europei è legittimamente attratta dall'Ucraina e dalla sua resistenza all'invasione, mentre questa resistenza esprime tutto ciò che gli europei hanno rifiutato negli ultimi decenni, quella cultura alla moda ridicolizzata e che l'istruzione scolastica ha cercato di distruggere: il sentimento della nazione, l'amore per la patria, della terra, il senso del sacrificio militare, la difesa dei confini, la sovranità e la libertà». È questa anche la contraddizione dei post-comunisti italici. Sono passati dall'apologia del cosmopolitismo apolide all'esaltazione del nazionalismo ucraino. Ma il nazionalismo non è lo spirito nazionale, come la polmonite non è il polmone. Il nazionalista impone la sua patria sulle altre. Il patriota ama tutte le patrie. È legittimo e nobile che gli ucraini si difendano dall'invasore. Ma non si può esaltare quel nazionalismo ucraino che dal 2014 ha combattuto le regioni russofone. Somiglia al nazionalismo russo che oggi nega l'Ucraina. Patrie, non nazionalismi. Da antoniosocci.com

Da agi.it il 7 maggio 2022.

Qual è la linea di demarcazione che separa la coscienza critica dal complottismo? Non esistendo uno strumento per determinarlo, è una di quelle decisioni che resteranno in eterno nell’arbitrio ora dei media mainstream, ora delle nicchie di controinformazione, ognuna delle quali si attribuirà la prevalenza e se la vedrà attribuita dai propri sostenitori. 

Partendo quindi dalla vetusta idea che nessuno è profeta in patria, tutto quello che si può fare è rileggere col senno di poi libri che quando furono dati alle stampe qualcuno aveva etichettato, per l’appunto, come ‘complottisti’. 

Uno di questi è ‘Putinfobia’, di Giulietto Chiesa, pubblicato nel 2016 all’indomani dell’annessione della Crimea alla Russia e dopo lo scoppio ostilità nel Donbass. Piemme lo riporta in libreria (192 pagine, 10,90 euro), sei anni dopo la prima edizione, con una prefazione di Fiammetta Cucurnia, corrispondente da Mosca per Repubblica e per 40 anni compagna di Chiesa, che denuncia il clima di ostilità in cui venivano accolti i suoi scritti e le accuse, di volta in volta, di essere “complottista”, “agente del Kgb” o “putiniano”. 

Nella sua introduzione Cucurnia parla di “esattezza” e “precisione” delle tesi di Chiesa, “fino a prevedere anche l’espulsione della Russia dal sistema SWIFT”.  Per chi ci crede, anticipazioni di un visionario, per gli scettici solo la casuale prevedibilità degli eventi. Ma che Giulietto Chiesa fosse allarmato dalla crescente tensione tra Occidente e Russia lo dimostra anche il riferimento alla “sensazione che si stiano preparando avvenimenti radicali, cruciali, di quelli che possono lasciare il segno per generazioni e generazioni. Forse addirittura per sempre”.

Salvo poi cadere in una ingenuità, dicendo che la Russia è per “i vertici dell’Occidente l’unico Paese – l’unico Stato, l’unico popolo – che può (…) fargli paura, visto che dispone di un apparato militare equivalente, in grado di distruggerlo”, dimenticando che – come si è visto negli ultimi anni – strumenti come le supply chain possono essere armi altrettanto letali e che la Cina ha dimostrato di saperli usare. 

A proposito dell’Ucraina, Chiesa la definisce un “oggetto” utile per tutti coloro che hanno visto la Russia come un ostacolo alle loro mire espansive. Bersaglio perfetto, perché ha sempre costituito una “linea di faglia tra civiltà occidentale e civiltà ortodossa” che “attraversa il cuore della Russia”. Le frizioni tra cattolicesimo e ortodossia e il confronto a distanza tra il Vaticano e il Patriarcato di Mosca sembrerebbero dargli ragione.

Carlo De Benedetti: «L’Europa non ha interesse a fare la guerra a Putin. Non deve seguire Biden». Aldo Cazzullo su Corriere della Sera il 7 maggio 2022.  

«No: vedo solo ciò che sta accadendo. Una guerra che si sovrappone a una recessione molto severa, come quella cui stiamo andando incontro, è assurda, senza senso. Le conseguenze sarebbero catastrofiche».

Vale a dire? «Carestia e fame in Nord Africa e in larga parte dell’Africa australe. Costretti a scegliere tra morire di fame e rischiare di morire in mare, gli africani rischieranno di morire in mare. Altro che 500 al giorno; arriveranno a decine, a centinaia di migliaia. La nostra priorità assoluta dev’essere fermare la guerra».

La guerra . «Io parto da due pietre miliari. La prima: non giustifico Putin; lo detesto. Putin è un criminale e un ladro, che con altri trenta ladri ha rubato la Russia ai russi. La seconda: sono e sarò eternamente grato agli angloamericani per averci liberati dal nazifascismo. Ma oggi noi europei non abbiamo alcun interesse a fare la guerra a Putin».

Ripeto: è stato Putin a cominciare la guerra. «Certo, la colpa è sua. Ma gli interessi degli Stati Uniti d’America e del Regno Unito da una parte, e dell’Europa e in particolare dell’Italia dall’altra, divergono assolutamente. Se Biden vuol fare la guerra alla Russia tramite l’Ucraina, è affar suo. Noi non possiamo e non dobbiamo seguirlo».

È contrario all’invio delle ? «Sì. Biden ha fatto approvare al Congresso un pacchetto di aiuti da 33 miliardi di dollari, di cui 20 in armi: una cifra enorme, per un Paese come l’Ucraina. Questo significa che gli Stati Uniti si preparano a una guerra lunga, anche di un anno. Per noi sarebbe un disastro».

I russi stanno commettendo contro la popolazione civile. «E lei crede che le armi servano a fermare queste atrocità? No: l’unico modo per fermare le atrocità è trovare una soluzione negoziale».

Ce l’ha anche lei con la ? «La Nato è sorta in un contesto completamente diverso: non esisteva l’Unione Europea; non era sulla scena la Cina. Dobbiamo essere grati alla Nato per il ruolo svolto durante la Guerra fredda; ma ora non ha più senso. La Corea del Sud chiede di entrare nella Nato: ma cosa c’entra con l’Alleanza atlantica?».

Quale soluzione propone allora? «Serve un esercito europeo. E siccome per avere una forza di difesa occorrono dieci anni, bisogna prendere quella che già c’è. A questo punto, tanto vale che gli Stati Uniti escano dalla Nato, e che gli europei assumano la responsabilità della propria sicurezza».

Lei sa bene che la Nato senza l’America non esisterebbe. Si scrive Nato, si legge Usa.«È proprio questo che dobbiamo superare. Oggi l’Europa va in ordine sparso: la Francia investe 80 miliardi di euro sui superbombardieri Rafale, la Germania annuncia il riarmo da cento miliardi. Ma l’Europa ha un interesse comune: fermare la guerra, anziché alimentarla. Se gli Usa vogliono usare l’Ucraina per far cadere Putin, che lo facciano. Se i russi vogliono Putin, che se lo tengano. Cosa c’entriamo noi?».

Ma i russi non sono liberi di scegliere. «Nella sua millenaria storia, la Russia non è mai stata una democrazia. Non siamo più al tempo delle crociate. Noi non siamo qui per combattere il Male, ammesso che si tratti del Male e il nostro sia il Bene. L’interesse dell’Europa è trovare la propria collocazione nel mondo come il continente della più grande ricchezza, dei più grandi consumi, delle più grandi tradizioni di pensiero, di arte, di cultura: perché la cultura occidentale è tutto quello di cui il mondo si nutre».

Della nostra cultura fanno parte anche la democrazia e la difesa dei diritti umani. E l’Ucraina è un Paese democratico aggredito da una dittatura. «Ma davvero pensiamo ancora di poter esportare la democrazia con le armi? Gli americani ci hanno già provato. Si sono inventati le armi di distruzione di massa per giustificare la guerra in Iraq. Ebbene: non funziona. La democrazia si esporta con il successo sociale ed economico delle società organizzate democraticamente. Non con le armi».

Come finirà la guerra, secondo lei? «Questa guerra non la può vincere nessuno. Non la può vincere Zelensky. Ma non la può vincere neppure Putin, perché gli Usa vogliono a tutti i costi che perda. L’unica soluzione è un compromesso».

Quale? «L’Ucraina perderebbe i territori russofoni e russofili, e avrebbe in cambio la garanzia americana e britannica di pace e prosperità».

Ma si creerebbe un precedente. Putin sarebbe incoraggiato a nuove conquiste. «E cosa può fare Putin? Lei crede veramente che possa ricostituire l’impero sovietico? La Russia ha 140 milioni di abitanti e un Pil — tolte le risorse energetiche — inferiore a quello della Spagna. Pensavamo avesse almeno l’esercito; che ha dato prova di un’inefficienza spaventosa. Un amico che lavora al Pentagono mi ha raccontato che Putin, dopo aver perso 600 carri armati in due giorni, ha cominciato a dare ordini direttamente ai comandanti sul terreno: è saltata la catena di comando. Disorganizzazione assoluta. La Russia è ridotta a sparare missili; ma le guerre non si vincono con i missili, si vincono con la fanteria. Tutti sappiamo bene che non è la Russia il vero pericolo».

Qual è allora? «Per gli americani, la Cina. È come quando Atene capì che, con l’ascesa di Sparta, la guerra era inevitabile. Allo stesso modo, il confronto tra gli Stati Uniti e la Cina è inevitabile».

La Cina attaccherà Taiwan? «Dipende anche da come finirà in Ucraina».

Vede allora che anche opporsi a Putin è inevitabile. «Se l’America vuol fare la guerra a Putin, la faccia; ma non è l’interesse dell’Europa. Non è una mia opinione personale; è quello che pensano in Germania».

Non la impressiona l’eroismo della resistenza ucraina? «È un nazionalismo ammirevole dal punto di vista patriottico; ma alla fine è un danno per il mondo. Non ci guadagna nessuno tranne gli Usa, che fanno soldi a palate vendendo le armi e il gas, senza subire conseguenze. Vede, la politica non ha nulla a che vedere con la morale. Noi, ad esempio, non abbiamo gli stessi interessi dei Paesi baltici: loro temono i russi; noi la fame e l’immigrazione».

La politica serve interessi, e nulla più? «La politica serve a fermare la guerra. E io sono una delle ormai poche persone che la Seconda guerra mondiale l’ha vista. Mi ricordo i bombardamenti di Torino del novembre 1942, quando sfollammo a Revello, in provincia di Cuneo, dalle suore. Mi ricordo la rocambolesca fuga in Svizzera, e due anni di vita da rifugiato. Mi ricordo le prime immagini dei lager nazisti, che mio padre mi costrinse a ritagliare e incollare su un quaderno, e quando gli chiesi perché mi rispose: perché un giorno qualcuno dirà che tutto questo non è successo. Ebbene, tutto questo io non lo voglio più. Basta guerra».

Antonio Socci per “Libero quotidiano” il 9 maggio 2022.

Ieri Carlo De Benedetti - che si definì «la tessera numero 1 del Pd» - con un'intervista al "Corriere della sera" ha annichilito il Pd: la "linea Letta" sulla guerra in Ucraina è stata demolita, polverizzata. 

La voce di De Benedetti non è importante solo per ciò che rappresenta come imprenditore. Anni fa Walter Veltroni (allora segretario del Pd) spiegava la battuta sulla "tessera n. 1" con il fatto che «i giornali di De Benedetti hanno avuto un ruolo molto importante nell'evoluzione della sinistra italiana. Ricordo quando, ai tempi del crollo del Muro e della trasformazione del Pci, coltivavamo con Scalfari il sogno di un partito che un giorno potesse unire i riformismi italiani. Quella spinta verso l'innovazione è stata la bussola della storia di De Benedetti editore».

Dunque per la sua storia la voce dell'Ingegnere pesa molto e oggi abbatte la narrazione dominante del Pd. Già a fine marzo, a "Otto e mezzo", aveva rifiutato la retorica bellicista esprimendosi contro l'aumento delle spese militari (deciso pressoché all'unanimità da governo e parlamento) e affermando che «questa guerra avrà conseguenze inenarrabili: anzitutto un enorme problema di fame nel mondo, uno shock energetico simile allo shock petrolifero del 1973 (che generò una recessione di anni), quindi recessione e crollo delle Borse».

Un quadro apocalittico che già confutava gli "esportatori di democrazia" atlantisti pronti ad abbracciare l'idea di Biden di una guerra infinita che serve a logorare e abbattere Putin. Nell'intervista di ieri De Benedetti fa un'autentica lezione di politica al "partito della guerra".

Anzitutto annuncia l'arrivo di masse enormi di affamati ora che la prospettiva della carestia planetaria, per il collasso del granaio del mondo e il blocco delle navi cariche di grano, si sta realizzando nei fatti. Quindi afferma: «La nostra priorità assoluta dev' essere fermare la guerra».

Pur dando un giudizio durissimo su Putin, ribadisce che quella è la priorità: «Se Biden vuol fare la guerra alla Russia tramite l'Ucraina è affar suo. Noi non possiamo e non dobbiamo seguirlo». In questa guerra, spiega, «non ci guadagna nessuno tranne gli Usa, che fanno soldi a palate vendendo le armi e il gas senza subire conseguenze». 

Non le armi, ma solo «una soluzione negoziale» può fermare le atrocità russe: «L'Europa ha un interesse comune: fermare la guerra anziché alimentarla». Ripete: «Se gli Usa vogliono usare l'Ucraina per far cadere Putin, che lo facciano. Se i russi vogliono Putin, che se lo tengano. Cosa c'entriamo noi?».

Poi De Benedetti affonda la narrazione pseudo-idealista dei bellicisti: «Noi non siamo qui per combattere il Male, ammesso che si tratti del Male e il nostro sia il Bene... Ma davvero pensiamo ancora di poter esportare la democrazia con le armi?... Ebbene: non funziona. La democrazia si esporta con il successo sociale ed economico delle società organizzate democraticamente. Non con le armi». Dunque in Ucraina «l'unica soluzione è un compromesso».

L'Ingegnere afferma pure che la Nato «ora non ha più senso», invita a puntare sull'Europa (anche dal punto di vista militare) e ribadisce di nuovo: «Se l'America vuol fare la guerra a Putin la faccia, ma non è l'interesse dell'Europa. Non è una mia opinione personale: è quello che pensano in Germania».

Parole che sono un campanello di allarme per Mario Draghi a poche ore dalla sua partenza per Washington. De Benedetti, sostenendo di esprimere «quello che pensano in Germania», dà un chiaro altolà (pur non citandolo) al premier italiano che ambisce a presentarsi a Washington come il governante europeo più allineato ai desideri di Biden. 

In effetti finora tutti i giornali filogovernativi hanno sostenuto che Draghi viene ricevuto da Biden per la sua "fedeltà" acritica. Ma - come dice De Benedetti- in Germania (e nel resto d'Europa) si sta appunto consolidando la convinzione che sull'Ucraina l'interesse dell'Europa è opposto all'interesse Usa, quindi «non si deve seguire Biden». 

Del resto che credibilità può avere un Capo di governo che prende impegni a nome dell'Italia senza avere avuto alcun mandato parlamentare specifico sulle gravi materie che va a trattare (quantomeno essendosi rifiutato di andare alle Camere prima della visita a Washington)? 

Che legittimità politica ha un premier tecnico la cui posizione sull'invio di armi in Ucraina è bocciata dalla maggioranza degli italiani e che - nei suoi possibili sviluppi relativi agli armamenti pesanti - è sconfessata dai maggiori partiti che sostengono l'esecutivo? L'intervista di De Benedetti mostra che perfino nell'opinione pubblica di area Pd la linea bellicista di Letta e Draghi sta franando. Il vento è cambiato.

Biputinismo perfetto. La catastrofe civile e morale del dibattito pubblico italiano sull’Ucraina. Christian Rocca su L'Inkiesta il 9 Maggio 2022.

In attesa che oggi i talk show organizzino una maratona in diretta dalla Piazza Rossa di Mosca per commentare la sfilata militare del Cremlino, ecco un piccolo campionario di enormità ispirate dalla macchina di propaganda russa e realizzate dai suoi volenterosi complici nostrani.

Ogni tanto su Twitter si leggono piccole grandi verità: Antonio Polito ha scritto che gli amici di Putin a Cinquestelle (sintesi mia) sono contrari all’inceneritore a Roma ma favorevoli a incenerire Mariupol, mentre l’analista svedese residente a Kiev, Anders Östlund, ha segnalato che i combattenti di Azov, spesso accusati (dalla propaganda putiniana) di essere estremisti di destra, a Mariupol sacrificano la propria vita per difendere la democrazia mentre i sedicenti intellettuali pacifisti scrivono e intervengono senza sosta e sempre a tutto vantaggio del fascismo russo. 

Ma le cose più esemplari della tragedia culturale che stiamo vivendo, e della fuga dalla realtà degli intellettuali contemporanei, si continuano a leggere sui mezzi di comunicazione tradizionali. Lasciamo stare, per decenza, i talk show lasettisti e retequattristi dei quali mi stupirebbe se oggi non organizzassero maratone in diretta da Mosca per commentare col solito birignao da retroscena romano la gloriosa parata militare di Putin per celebrare la vittoria nella grande guerra patriottica, antipasto dell’annessione di tutta l’Ucraina. 

Restiamo sulla carta stampata, quindi, cominciando dal libro sulla guerra in Europa scritto dall’intellettuale comunista Luciano Canfora insieme con il rappresentante dell’alt right italiana Francesco Borgonovo della Verità, pubblicato da una casa editrice neo, ex, post fascista che rilancia testi militari di Mao e negazionismi nazi in piena armonia rossobruna, nel paese che più di altri ha letto Limonov di Emmanuel Carrere scambiandolo per un’agiografia dello stravagante personaggio e non per la biografica tragedia del totalitarismo europeo mai sopito in Russia. 

Poi c’è Carlo De Benedetti, ex patron della Repubblica finalmente liberata da Maurizio Molinari dall’antioccidentalismo salottiero degli anni debenedettiani, che testuale dice al Corriere – oltre a una serie di banalità antiamericane che avrebbe potuto pubblicare Limes di Lucio Caracciolo – che la resistenza ucraina di fronte all’aggressione fascista di Putin «alla fine è un danno per il mondo».

Insomma i russi uccidono gli ucraini e prendono per fame le città assediate allo scopo di attuare un altro Holodomor nel XXI secolo, ma gli ucraini si mostrano incomprensibilmente irrispettosi degli interessi superiori del mondo e di De Benedetti, al punto da avere la sfacciataggine di difendersi e addirittura di chiedere aiuto all’America e ai paesi europei della Nato, a questo punto corresponsabili della guerra più di chi l’ha cominciata peraltro mentre gli utili idioti di Putin spiegavano che mai e poi mai la Russia avrebbe aggredito l’Ucraina e che si trattava solo di propaganda bellicosa dell’America di Joe Biden.

Così come l’incredibile storia, di cui scrive più ampiamente Carmelo Palma, delle dichiarazioni del presidente ucraino Volodymyr Zelenski e del segretario della Nato Jens Stoltenberg sulla Crimea manipolate solo dai media italiani per poter ribadire, al netto della cronica sciatteria, la barzelletta della guerra americana per procura, al solito liquidando il popolo ucraino sotto le bombe da due mesi e mezzo come se fosse una pedina irrilevante, un very fungibile token, sacrificabile e privo di una sua propria dignità o diritto di sopravvivenza. 

A dare un minimo di speranza per la ricostruzione di un dibattito pubblico degno di questo nome c’è invece l’intervista di Repubblica all’ex vice presidente di Gazprombank Igor Volobuev, il quale ha svelato come funziona da anni la grande macchina di propaganda russa sull’Ucraina, avendo contribuito a crearla (la sintesi è: tutte le notizie ufficiali russe sono bugie). Chissà se qualcuno capirà. Intanto Volobuev è fuggito da Mosca e ora sta a Kiev, ma la fabbrica di fake news del Cremlino è sempre attiva e adesso può contare sui volenterosi complici che animano il biputinismo perfetto italiano.

Brothers in arms. Lo strano pacifismo di chi vuole continuare ad armare solo l’aggressore. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 7 Maggio 2022.

In tante discussioni sulle armi si dimentica che l’esercito di Putin noi lo finanziamo ogni giorno, da anni, attraverso l’acquisto di gas e petrolio. La domanda giusta non è dunque se vogliamo continuare ad armare l’Ucraina. Ma se vogliamo continuare ad aiutare solo la Russia.  

Dopo Giuseppe Conte e Matteo Salvini, ieri anche Pier Luigi Bersani ha dichiarato alle agenzie che Mario Draghi dovrebbe riferire in Parlamento sull’invio di armi all’Ucraina, vale a dire sulla questione già discussa e votata quasi all’unanimità all’inizio della guerra. Cosa c’è dunque di nuovo? Secondo Bersani «è ora di chiarire che aiutiamo l’Ucraina perché possa negoziare da Paese indipendente, e non per vedere sul campo vincitori e vinti».

A quanto pare, la lunga campagna di un pezzo della stampa e di gran parte dei talk show comincia a produrre i suoi effetti. Evidentemente, poco cambia il fatto che in questi stessi giorni si moltiplichino le testimonianze su cosa accade nei territori occupati dall’esercito russo – cioè dove l’esercito ucraino e le armi occidentali non sono riusciti a fermarne l’avanzata – da ultimo da parte del direttore della Caritas di Kiev, che ha parlato di cinquanta villaggi in Polyssia, ai confini con la Bielorussia, dove i civili «hanno vissuto orrori come a Bucha».

Mario Draghi dunque dovrebbe chiarire in Parlamento che manda le armi, ma non per vincere. Come quelle partite di calcetto tra amici in cui si dice: «Non ci facciamo male». Cari ucraini, vi mandiamo le armi, ma evitate i contrasti troppo duri, e niente interventi in scivolata. Se non fosse una tragedia, ci sarebbe da ridere.

In altre parole, dovremmo dire a mariti, padri, sorelle, madri, figli delle persone torturate e trucidate nelle città occupate che non devono esagerare; che possono usare le nostre armi, ma con misura. E soprattutto, intendiamoci, che a nessuno di loro saltasse in testa di vincere. Almeno un pezzo del loro paese – quanto vogliamo fare? – diciamo quattro o cinque città, una più una meno, ai russi devono lasciarle, non venisse loro in mente di andarle a liberare. È la linea efficacemente sintetizzata da Conte nello slogan: «Legittimità nel difendersi, non nel contrattaccare».

Dai cinquestelle alla Lega, è evidente il tentativo di strizzare l’occhio a quella parte di opinione pubblica contraria all’invio di armi, pur non avendo il coraggio di mettersi esplicitamente di traverso, almeno per ora. Di qui i giochi di parole sulla resistenza che non deve resistere troppo e le armi che non devono essere troppo letali (non è una battuta, «siamo contrari all’invio di armi sempre più letali» è affermazione pronunciata testualmente da Conte, più volte).

In tante discussioni sulle armi si dimentica però che l’esercito di Putin noi lo finanziamo ogni giorno, da anni, persino dopo l’annessione manu militari della Crimea, attraverso l’acquisto di gas e petrolio (e vedremo se e quando, con le sanzioni, smetteremo di farlo sul serio).

La domanda giusta non dovrebbe essere dunque se vogliamo o no continuare ad armare l’Ucraina, cioè l’aggredito. La domanda giusta è se vogliamo continuare ad armare esclusivamente l’aggressore.

Quei pacifisti ciechi e il problema della guerra giusta. Giovanni Sartori su Il Corriere della Sera il 7 Maggio 2022.

«Dopo gli spaventosi bagni di sangue delle ultime guerre mondiali, in Europa il conflitto non lo vuole più nessuno. Ma non sempre è evitabile» 

Il testo di questa pagina è stato preparato dal professor Marco Valbruzzi (Università Federico II di Napoli) che da tempo si occupa dell’archivio di Giovanni Sartori (1924-2017) e ha elaborato gli estratti di due articoli del politologo usciti sul Corriere della Sera («Il mondo irreale dei “ciecopacisti”», 18 ottobre 2002, e «Il presidente guerriero», 29 gennaio 2010).

Chi vuole la guerra è un demente che vuole una cosa orribile. E dopo gli spaventosi bagni di sangue delle ultime guerre mondiali, in Europa la guerra non la vuole più nessuno. L’Occidente (salvo eccezioni balcaniche) lo ha capito e ne è profondamente convinto. Ma non è sempre evitabile.

Per questa ragione, chi oggi distingue tra pacifisti e guerrafondai disegna una distinzione fuorviante. La distinzione che ci divide è tra pacifisti incoscienti — che dirò «ciecopacisti» — e pacifisti pensanti. Il ciecopacista non sente ragioni, è tutto cuore e niente cervello. Gino Strada, che è stato il guru dei pacifisti laici, scriveva così: «Può darsi che il movimento per la pace non sia in grado di far cadere un dittatore, ma una cosa è assolutamente certa, che... non ne ha mai creati né aiutati a imporsi». Purtroppo no. Purtroppo Strada era assolutamente certo di cose assolutamente false. I pacifisti degli anni ’30 hanno aiutato Hitler a imporsi, così come i pacifisti della guerra fredda — gridando better red than dead, meglio rossi che morti — invitavano l’Unione Sovietica a invadere una Europa che non si sarebbe difesa. Il Paternostro recita: «Non indurci in tentazione». Lo recitano ancora, il Paternostro, i nostri pacifisti chiesastici? E se lo recitano, perché non si chiedono se il loro pacifismo assoluto — che è in sostanza un pacifismo di resa — non induca in tentazione i malintenzionati non ancora convertiti in agnelli? Quanto ai nostri ciecopacisti laici, a loro ricordo il detto che è l’occasione che fa l’uomo ladro. Non ci credono? Provino a lasciare spalancate le porte delle loro case. Saranno svaligiate anche e proprio da ladri creati dall’occasione.

Ciò premesso, qual è il senso, oggi, della classica distinzione tra guerra giusta e guerra ingiusta? Mi dispiace per i ciecopacisti — accecati dalla loro ossessione — ma un Paese che si difende dall’attacco di un altro Paese combatte una guerra giusta. Però la nozione di guerra giusta non include soltanto la guerra difensiva. Per esempio una guerra che si propone di abbattere un tiranno e di instaurare la democrazia è una guerra giusta? Questa è sempre stata l’ideologia missionaria degli Stati Uniti invocata da ultimo dal presidente Bush jr per giustificare, in mancanza di meglio, l’assalto all’Iraq. Ma è una dottrina che non ci possiamo più permettere; senza contare che in moltissimi casi è destinata a fallire. Nel caso dell’Iraq il successo è stato di abbattere un tiranno sanguinario e pericoloso per tutti; ma il «successo democratico» di quella guerra è molto dubbio.

E in Afghanistan? Anche lì guerra giusta per imporre democrazia? Per carità, scordiamocene. Lì si trattava di pura e semplice guerra necessaria resa obbligatoria ai fini della salvezza di tutto l’Occidente. Per decenni abbiamo temuto l’annientamento nucleare. Ma il pericolo delle armi atomiche è fronteggiabile. E comunque il pericolo maggiore è diventato quello delle armi chimiche e batteriologiche «tascabili». Qui la cattiva notizia è che mezzo chilo di tossina botulinica potrebbe uccidere un miliardo di persone. E l’Afghanistan conquistato (riconquistato) dai talebani, e al servizio di Al Qaeda, pone questo problema. Pertanto scappare non è stata una buona soluzione. Ma è anche vero che la guerra com’è stata combattuta in Afghanistan, la guerra di occupazione e controllo del territorio contro un nemico invisibile, non può essere vinta.

Fortuna vuole che ai pacifisti incoscienti si contrappongano i pacifisti pensanti che rifiutano la guerra offensiva ma approvano la guerra difensiva, che distinguono tra guerra ingiusta e guerra giusta e che fanno sapere che si difenderanno se attaccati. Il mondo libero deve la sua libertà a questo pacifista con la testa sul collo. Ma anche lui si trova a disagio al cospetto della nuova idea della guerra preventiva.

Mi si dirà che la guerra preventiva è sempre esistita. Sì; ma no. No nel senso che oggi la dottrina della guerra preventiva si fonda su una nuova ragion d’essere che si inserisce in un nuovo contesto: il contesto di quella guerra che Umberto Eco ha battezzato «guerra diffusa». Nelle guerre del passato esistevano due (o più) nemici ben riconoscibili i cui eserciti si fronteggiavano lungo una frontiera che era il limite da superare. Queste guerre erano dunque caratterizzate da una frontalità territoriale. Nella nuova guerra l’attaccante è un terrorismo globale ispirato da un fanatismo religioso – e quindi senza precisa patria – che non si lascia localizzare, che è dappertutto, e che opera nascondendosi. In questa guerra diffusa, latente, ma per ciò stesso sempre pronta a colpire, l’attaccato non sa più chi contrattaccare. O meglio: può solo attaccare le infrastrutture dove vengono prodotte le armi dei terroristi e gli Stati che li «supportano».

L’altro aspetto del problema è che la guerra terroristica dispone di nuove armi chimiche e batteriologiche. Qui la novità è tecnologica. E il fatto è che oggi disponiamo di una tecnologia facilmente nascondibile il cui potenziale distruttivo è terrificante. Prima c’era il cannone e c’era la corazza. Oggi la corazza non c’è quasi più, e il cannone è diventato gigantesco. Una sola persona può avvelenare l’acqua potabile di un milione di persone. Il ciecopacista non lo vede, ma il problema è questo.

Qui interessa capire quale sia la ragion d’essere di una guerra preventiva. Se questo nuovo diritto di guerra si applichi o no (e con quali procedure) ai vari casi concreti, è una questione a parte. Una cosa per volta. E questa volta il punto è che, a fronte della altissima vulnerabilità e facile «uccidibilità» delle società industriali avanzate, il pacifista di oggi è ancor più cieco e malconsigliante di quello del passato.

Da Pardi a Cecilia Strada, la sinistra che sta con Kiev: “Si difende da un despota”. Matteo Pucciarelli su Il Corriere della Sera il 6 Maggio 2022.

Anche nell'area più radicale della sinistra il conflitto in corso in Ucraina fa discutere e provoca polemiche. Tuta bianca nelle giornate di Genova contro il G8 nel 2001, Luca Casarini — oggi tra gli animatori e attivisti di Mediterranea Saving Humans — non ha perso l’approccio (e la pratica) radicale alle questioni: "Lenin diceva: 'Stai da una parte della barricata o dall’altra, oppure sei la barricata'". Per cui "con la massima umiltà e senza voler insegnare nulla a nessuno, ma dico ciò che penso anche se sono cose contrarie all’ortodossia, anzi forse a maggior ragione.

L’eterna debolezza della sinistra. Lirio Abbate su L'Espresso il 6 Maggio 2022.  

Il campo progressista si divide sull’invio di armi all’Ucraina. Mentre mai come oggi sarebbe necessaria l’unità. Anche all’Europa per non finire schiacciata tra Russia e Stati Uniti.

La sinistra è comunque sempre divisa, una volta era divisa tra massimalisti e riformisti, rivoluzionari e riformisti, adesso quella cosa lì è finita perché la rivoluzione non c’è più, e trova un altro modo di dividersi, sull’invio delle armi all’Ucraina e pure sui salari. E così una nuova faglia si crea in un mondo progressista che invece dovrebbe restare unito e compatto.

Peter Schneider: «Per la sinistra negare le armi all’Ucraina è una bancarotta etica e politica». Lo scrittore tedesco si scaglia contro gli intellettuali che non vogliono schierarsi. «Negare a chi è aggredito la possibilità di difendersi è scandaloso. Quello di Putin è un fascismo che tenta di sottomettere un Paese e distruggerne il popolo». Stefano Vastano su L'Espresso il 6 Maggio 2022.

Un titubante, pragmatico o un politico cauto e razionale il cancelliere Olaf Scholz? Da quando Putin ha sferrato la sua brutale guerra, a Berlino il Kanzler della Spd tergiversa sulla consegna di armi all’Ucraina, e se chiudere o no sul Baltico le condotte del gas russo.

«La Spd è in tilt e la sinistra tedesca ed europea non sa come risolvere il tradizionale rapporto storico con la Russia», inizia a dirci lo scrittore e intellettuale berlinese Peter Schneider.

Lo Stato toglie I’Iva per le armi ma non per cibo e aiuti che vanno ai rifugiati. Il governo approva una direttiva di Bruxelles sull’esenzione dell’Imposta per le forniture militari ai paesi dell’Ue. Nel frattempo le onlus per comprare beni di prima necessità a disagiati e vittime di guerra continuano a pagarla. Anzi per loro è in arrivo una riforma fiscale peggiorativa. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 6 Maggio 2022.

Uno Stato può fare uno sconto ai Paesi alleati che comprano armi e non farlo alle onlus che acquistano invece il pane per gli sfollati dalle guerre, donne, anziani e bambini su tutti? La risposta sembra molto semplice: no, non può accadere una cosa del genere. E invece questo paradosso diventerà a breve realtà. Perché da luglio l’Italia venderà armi ad altri Paesi europei con il taglio totale dell’Iva e allo stesso tempo però Caritas e altre onlus che già da mesi stanno accogliendo ad esempio i rifugiati ucraini vittime della guerra per dar loro viveri di prima necessità, come pane, acqua o latte, continueranno ad acquistare prodotti alimentari pagando l’Iva almeno al 4 per cento.

Il dibattito sulla guerra in Ucraina. “Voltare le spalle a Kiev non sarebbe stato di sinistra”, parla Deobora Serrachiani. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 6 Maggio 2022. 

La sinistra e la guerra in Ucraina, il ruolo dell’Europa, i rapporti con gli Stati Uniti e l’ammonimento del Papa. Il Riformista ne discute con Debora Serracchiani, capogruppo del Partito Democratico alla Camera dei Deputati.

Si dice: sostenere l’aggredito, il popolo ucraino, anche fornendo armi, è condizione per arrivare a una trattativa per una pace giusta. Ma è questo il vero obiettivo, o come esplicitano le reiterate dichiarazioni dei vertici dell’Amministrazione Usa, a partire dal presidente Biden, e il primo ministro del Regno Unito, Boris Johnson, è abbattere il regime russo o comunque indebolirlo fortemente?

Noi vogliamo la pace. Noi vogliamo che la guerra cessi, che tacciano le armi, che le bombe non cadano più sugli ospedali, sugli asili, sui condomini, sui rifugi, sui teatri, sulle persone che sono in fila per un pezzo di pane. Che terminino i massacri dei civili, la “coventrizzazione” di un’intera nazione, la distruzione scientifica del suo apparato industriale, della sua rete infrastrutturale e perfino della sua capacità di produrre grano e cereali che – come denunciano gli organismi internazionali – sta determinando una catastrofe alimentare soprattutto nei Paesi più poveri. Questo è l’obiettivo e sappiamo che la strada è il negoziato. Tutto ciò che stiamo facendo, accanto al popolo ucraino, a quel popolo che – come dice il suo presidente Zelensky – si è dovuto fare esercito per difendersi dall’aggressione russa, ha questa unica finalità.

L’Europa ha una sua strategia politica non solo sull’Ucraina ma sulla sicurezza del vecchio Continente o siamo sempre più a rimorchio di Washington e di una Nato a trazione americana?

Non vedo un’Europa a rimorchio degli Stati Uniti. Osservo piuttosto che proprio l’Europa, la sua risposta immediata unitaria e decisa alla guerra di Putin ha assestato un colpo risolutivo al disegno del presidente russo e al suo obiettivo di dividere l’Unione come tassello per risuscitare una sorta di nuova “cortina di ferro”. Voleva dividere l’Europa e all’opposto ha costruito le condizioni perché quel sentimento di casa comune che è fatto non solo di istituzioni e procedure ma di valori solidi e condivisi e di rocciosa volontà di tutelare il patrimonio di democrazia, libertà, tolleranza, difesa dei diritti individuali ne emergesse più forte e più determinato. Nascono da qui i “lavori in corso” per giungere a una politica di sicurezza e di difesa comuni, all’autonomia energetica e, come noi Democratici speriamo, agli Stati Uniti d’Europa.

Può fare di più l’Europa?

L’agenda dell’Europa in questa fase è davvero ricca e decisiva. Prima di tutto deve preservare l’unità che ha contraddistinto la sua reazione fin dalle prime ore. La coesione dei popoli europei ha anche un valore simbolico, sta a dimostrare la consapevolezza che l’attacco di Putin è diretto anche al sistema di valori che l’Europa libera, democratica, multilaterale, tollerante esprime e rappresenta. Poi deve agire con forza per evitare una possibile escalation e camminare verso un obiettivo che forse si può riassumere in un “Helsinky 2”, di cui ha parlato di recente anche il capo dello Stato, per riscrivere tutti insieme, quindi anche con la Russia, un sistema di regole a garanzia della sicurezza e quindi della pace in Europa perché fondato sull’intangibilità delle frontiere, della integrità territoriale e della sovranità di ogni Stato. A Helsinky, nel 1975, venne scritta una pagina che avrebbe condotto alla fine della guerra fredda. E non da ultimo deve dare risposta al desiderio degli Ucraini di entrare a far parte della casa comune e, su questo punto, mi pare assai importante l’idea lanciata da Letta di una Confederazione, a cui aderirebbero anche altri Stati che hanno espresso l’intenzione di far parte dell’Unione, per bilanciare i tempi lunghi di ingresso.

Nutre fiducia nei negoziati?

La via negoziale è l’unica e devo avere fiducia anche perché vedo impegnati leaders e nazioni. Certo non posso non osservare con amarezza l’umiliazione che Mosca ha voluto infliggere all’Onu bombardando Kiev proprio nelle ore in cui il segretario generale Guterres incontrava il presidente Zelensky dopo essere stato da Putin oppure il rifiuto di un cessate il fuoco almeno in occasione della Pasqua ortodossa.

Se la pace si fa col nemico che senso ha definire il capo dei nemici un “macellaio” per giunta genocida?

Espressioni che non avrei usato ma che, ricordo, sono state pronunciate davanti ai corpi di donne, anziani, giovani torturati e giustiziati a Bucha o alle immagini di centinaia e centinaia di fosse comuni scoperte nelle città e nei villaggi occupati dai militari di Putin.

La sinistra e la guerra. Ha scritto su questo giornale Donatella Di Cesare: “Non era mai avvenuto che il popolo della sinistra si sentisse così tradito nei propri ideali da coloro che hanno promosso una politica militarista. Prima hanno deciso l’invio delle armi, poi hanno votato l’aumento delle spese militari, ora sponsorizzano un’economia di guerra”. Lei che è presidente del gruppo del Pd alla Camera si sente chiamata in causa?

Guardi, premetto che nessuno di noi ha preso le decisioni che ha preso a cuor leggero e dubito ci sia chi ha solo certezze o non si sente interrogato dalla propria coscienza. Ma, premesso che nel votare l’invio di armi all’Ucraina ci siamo mossi nel pieno rispetto della nostra Costituzione, dell’articolo 51 della Carta Onu e in sintonia con la risoluzione votata dal Parlamento europeo il 1° marzo, mi chiedo se sarebbe stata di sinistra la scelta di voltare la testa altrove rispetto alla richiesta degli ucraini di essere aiutati nella resistenza all’esercito invasore e di suggerire loro, dai nostri comodi salotti, di arrendersi.

Biden dà conto all’opinione pubblica interna ed internazionale del tipo di armamenti fornito all’Ucraina. Così Scholz. Così Johnson e pure Macron. Perché in Italia si “secreta” l’argomento? E il Parlamento?

Si tratta di una questione di cui è stata valutata un’esigenza di tutela della sicurezza nazionale, da qui il vincolo di segretezza. Il Parlamento è informato nella sede competente, il Copasir che tra l’altro è presieduto da un esponente dell’opposizione.

“Per la pace non c’è abbastanza volontà. La guerra è terribile e dobbiamo gridarlo”. Così papa Francesco nell’intervista al Corriere della Sera. Il Papa ha anche tentato di ragionare sulle radici che hanno indotto Putin a una guerra così brutale: forse il terremoto è stato scatenato dall’”abbaiare della Nato alla porta della Russia”. “Un’ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì”, si è interrogato Bergoglio. Lei che ne pensa?

La guerra deve cessare. Dobbiamo essere grati al Papa per questo suo incessante richiamo alle coscienze di tutti noi. Penso davvero che vada compiuto ogni sforzo per arrivare al cessate il fuoco e alla pace e, ancora una volta, occorre essere grati al Pontefice per la disponibilità a recarsi da Putin. Mi piace rammentare anche quanto detto dal presidente Mattarella nel bellissimo discorso di qualche giorno fa all’assemblea del Consiglio d’Europa quando, citando Schuman, ha ricordato che “la pace non potrà essere salvaguardata se non con sforzi creativi, proporzionali al pericolo che la minacciano”. Dobbiamo muoverci proprio su questa strada con coraggio, superando anche eventuali errori e leggerezze del passato ma sempre avendo ben chiaro che esiste un aggredito e un aggressore, un invasore e un popolo che vede i suoi cari uccisi, le sue case distrutte, i suoi figli in fuga e dispersi nel resto dell’Europa.

Il sistema delle sanzioni sta dando frutti? Non crede che costeranno molto anche a noi?

L’economia russa si avvia verso una grave crisi e non sono i media occidentali a dirlo bensì la governatrice della Banca centrale di Mosca e le stime sul crollo del Pil che raggiungerà quest’anno le due cifre. Le sanzioni sono l’unico strumento per contrastare l’azione di Putin. Non c’è altro mezzo se non le armi, rispondere alla guerra con la guerra. L’Unione europea ha introdotto diversi livelli di sanzioni e, a giorni, concorderà anche l’embargo del petrolio proveniente dalla Russia come già accaduto con il carbone. Per il gas occorrerà più tempo per trovare un’intesa perché, come è noto, la dipendenza dell’Europa arriva al 40% delle proprie importazioni e non possiamo chiudere i rubinetti dall’oggi al domani: ci stiamo attrezzando per spezzare questa dipendenza che, si è visto del resto proprio in questi giorni, Putin usa come arma bloccando le forniture a Polonia e Bulgaria. Più che gli effetti delle sanzioni è la guerra che sta provocando scosse al sistema economico e produttivo internazionale e quindi anche a casa nostra. Proprio per sostenere le famiglie e le imprese in una situazione di crisi determinata anche dal caro bollette, dall’aumento del prezzo delle materie prime e dall’inflazione abbiamo insistito con il governo perché adottasse misure forti con l’obiettivo di tutelare salari e potere d’acquisto. Con il decreto approvato lunedì 2 maggio il governo è andato in questa direzione. Tassando gli extraprofitti di pochi si è intervenuti su 28 milioni di persone. Un intervento di redistribuzione fiscale che avevamo sollecitato: redistribuzione, aiuto alle fasce più deboli, intervento su affitti e trasporto pubblico locale. È la strada giusta.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” il 6 maggio 2022.

«Il capo della Chiesa greco-cattolica ucraina, l'arcivescovo Sviatoslav Shevchuk, in un collegamento web raccontava di quando è stato a pregare sulle fosse comuni, a Bucha, e ha visto i corpi lividi di poveri civili innocenti, le mani legate, i segni evidenti dell'ingiustizia, della crudeltà e della violenza. Era lì, piangeva insieme a ortodossi, ebrei, musulmani, e si è detto: potevo esserci anch' io, non posso fare finta di niente. Devo stare accanto al più debole e rifiutare la logica violenta dell'aggressore». 

L'arcivescovo Bruno Forte partecipa alla plenaria del pontificio Consiglio per l'unità dei cristiani. Sospira: «È questo che spinge l'Ucraina alla resistenza». 

Come vede la situazione?

«Siamo di fronte ad una tragedia umanitaria che ha provocato innumerevoli vittime e profughi, provocata dall'invasione della Russia di Putin a un Paese che ha diritto alla sua democrazia e libertà. Certo la reazione dell'Ucraina è stata sorprendente, per lo stesso Putin. Ma il giudizio morale è chiarissimo e si esprime nella condanna ferma di questa aggressione cui si sono unite gran parte delle nazioni del mondo e le chiese cristiane, comprese molte ortodosse. Si pensava non potesse più accadere in Europa. Invece ci troviamo davanti un'aggressione simile a quella di Hitler alla Polonia».

Che si può fare?

«Si pone un grande problema, duplice. Da un punto di vista morale, come dice Papa Francesco, la corsa agli armamenti è follia e la guerra un male assoluto. Dall'altra gli ucraini rivendicano il diritto alla legittima difesa, riconosciuto dalla morale cattolica. Puntare solo sulle armi non può essere la soluzione. Però non si può negare agli ucraini il diritto di difendersi». 

Qual è il limite?

«La difesa è legittima se proporzionata e punta a non provocare danni maggiori di quelli che si avrebbero non resistendo» 

E il rischio di escalation?

«Non c'è dubbio che ci sia, è un pericolo drammatico. Ma dire che per questo gli ucraini avrebbero dovuto cedere di fronte all'invasore non mi sembra accettabile. Stanno vivendo una situazione analoga a chi ha difeso nella storia il proprio diritto alla libertà e all'indipendenza. Non dimentichiamo la resistenza al nazifascismo, della quale hanno fatto parte anche cattolici di primo piano».

E quindi?

«Bisogna cercare la pace, la via diplomatica va sempre perseguita. Però sposare un pacifismo ingenuo ha ricadute drammatiche. Francesco ha ragione quando condanna la produzione e il commercio armi. Ma è chiaro nel distinguere aggressore e aggredito, ha baciato la bandiera ucraina come segno di vicinanza a un popolo sofferente. E ha detto a Kirill parole che non saranno piaciute ma sono vere e arrivano dal cuore di un uomo che sta soffrendo e prega».

Mattia Feltri per “la Stampa” il 6 maggio 2022. 

Il mio vecchio amico Andrea Tornielli anni fa ricordò su questo giornale una frase di Angelo Sodano, segretario di Stato vaticano, evidentemente (l'avverbio è di Andrea) concordata con Papa Karol Wojtyla: «Gli stati europei e le Nazioni unite hanno il dovere e il diritto di ingerenza per disarmare chi vuole uccidere». Era il 1992, c'era la guerra nell'ex Jugoslavia e Sarajevo era sotto assedio. Pochi mesi dopo, Wojtyla la fece sua: laddove la diplomazia non ottenga nulla e «intere popolazioni sono sul punto di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore», allora è «dovere disarmare questo aggressore».

Non intendo arruolare San Giovanni Paolo II fra noi guerrafondai da salotto né contrapporlo a Bergoglio. Altre volte Wojtyla espresse opinioni diverse, come in occasione del bombardamento di Belgrado, in cui vide inutile violenza in risposta a inutile violenza. Per lui l'intervento armato è concepibile se contiene i danni anziché moltiplicarli e se è una decisione presa non dalla Nato ma dall'Onu, che esortava a elevarsi a centro morale delle nazioni.

Prima altri papi non maledissero le armi, per esempio Pio XII che diffidò dal «lasciare abbandonato un popolo aggredito» in nome di un «atteggiamento di impassibile neutralità». Intendo soltanto pensare a questa guerra, se armare gli ucraini abbia contenuto i danni, e credo di sì, e se continuerà a contenerli, e davvero non lo so, è difficile saperlo. E intendo pensare al pacifismo che se è senza se e senza ma, e senza armi, sempre e comunque, per rifugiarsi in un'impassibile neutralità, rischia di diventare un pacifismo senza testa e senza cuore.

Don Ciotti: «Per la pace non servono coscienze addormentate». Paolo Foschini su Corriere della Sera il 5 maggio 2022.

«La pace si costruisce nel pensiero, nel linguaggio, nelle azioni»: comincia così don Luigi Ciotti, e dice che alla pace bisogna prima di tutto crederci. «Ma ci vogliono anche conflitti, e ve ne auguro uno su tutti: il conflitto nella nostra coscienza. Perché già prima dell’Ucraina di guerre nel mondo ce n’erano 59», anzi c’era già «la terza guerra mondiale a pezzi», aggiunge citando il Papa: «E dove eravamo noi?». 

Comincia con questo grido la Civil Week 2022 che è partita all’Adi Design Museum di Milano, con il fondatore del Gruppo Abele e presidente di Libera intervistato dal direttore del , Luciano Fontana, sul palco con Elisabetta Soglio per declinare il tema del «Tocca a me» - filo conduttore di questa settimana dedicata alla cittadinanza attiva – rispetto al dramma più attuale che ci circonda: «Tocca a me promuovere la pace».

Civil Week, da don Ciotti a Jovanotti e Ševčenko

E proprio perché «tocca a me» don Ciotti risponde in primo luogo con una provocazione rivolta a ciascuno di noi: no alla «coscienza addormentata», no alla «inerzia omicida», no alla «aggressività dei linguaggi». Dopodiché richiama il Concilio Vaticano II per riaffermare il «diritto alla difesa» di chi è aggredito. Aggiungendo che però questo stesso diritto contempla anche l’obiezione di coscienza rispetto alla violenza: «Si può difendere il debole anche con le azioni di solidarietà non violente che tanti stanno mettendo in pratica».

Insiste: «La pace si costruisce intervenendo non solo sugli effetti ma sulle cause delle guerre, sui diritti calpestati». E su questo davvero tutti possono fare la loro parte. «Non è che possono, devono!», grida don Ciotti: «Nessuno dovrebbe essere considerato cittadino se non è anche volontario, abbiamo bisogno di cittadini responsabili, non di cittadini a intermittenza che si svegliano sull’onda di una emotività poi tornano a dormire».

Proprio sul tema della cittadinanza attiva è intervenuto il sindaco di Milano Beppe Sala accanto al campione ucraino Andriy Shevchenko, in collegamento da Londra, per presentare l’iniziativa costruita in collaborazione da entrambi a sostegno dei tanti migranti, soprattutto donne e bambini, in fuga dalla guerra: un call center in lingua, apposta per loro, a cui potersi rivolgere per affrontare i problemi più vari. Il campione ha citato i suoi quattro figli, ha ripetuto che «la pace è tutto: ma dobbiamo prepararci al fatto che la guerra potrebbe durare tanti, e che soprattutto i bambini avranno bisogno di tutto. Give peace a chance», conclude Sheva citando John Lennon. La pace si costruisce «lavorando tanto e giorno per giorno», ha detto Sala.

A questo si sono aggiunte le testimonianze concrete del «cosa si sta facendo» con Maria Laura Conte di Fondazione Avsi in sala e Aniello D’Ambrosio in collegamento diretto da Leopoli. Chiusura scoppiettante con i Rulli Frulli, la band inclusiva di Finale Emilia ormai affezionata da anni alle iniziative di Buone Notizie, con l’annuncio della inaugurazione della loro nuova sede il 21 maggio: e a tagliare il nastro sarà il presidente Sergio Mattarella.

Diana Romersi per corriere.it il 5 maggio 2022.

La Z come simbolo dell’esercito russo e come Zagarolo. Scoppia la polemica per la «festa della vittoria dell’Unione sovietica contro il nazifascismo» organizzata nel piccolo comune alle porte di Roma dal Partico comunista Italiano. L’appuntamento, promosso dalla sezione del Pci Monti-Prenestini-Casilina «Aldo Bernardini», prevede per domenica 8 maggio prima una visita al cimitero di Palestrina, davanti al sacrario dei partigiani sovietici, poi un dibattito sul tema: «La Grande Guerra Patriottica dell’Unione Sovietica che ha portato alla Liberazione d’Europa dalla bestia fascista».

«Siamo per un’Ucraina neutrale e antifascista, che funga da ponte tra Asia e Europa, per una collaborazione con la Russia, per la pace e la prosperità del continente europeo che deve liberarsi dal giogo degli Stati Uniti d’America», è quanto si legge nell’annuncio sui social pubblicato dalla sezione del Pci locale. 

Gli organizzatori si lamentano inoltre di «una narrazione unica, nella quale vengono riabilitati opportunisticamente simboli e gesta dei Nazifascisti, con una NATO e una UE che armano il Battaglione Azov Nazista e Banderista e che vede l’Italia in prima fila contro la Resistenza del Donbass e nell’invio di armi contro i loro alleati russi». In quest’ultima frase il Pci fa riferimento alla resistenza dei russi in Donbass negli ultimi otto anni.

Immediati i commenti contrari. Il comune di Zagarolo si è immediatamente dissociato dall’iniziativa. «Che vergogna quella zeta...», ha scritto un utente della rete. A suscitare scalpore, infatti, sono state non solo le posizioni filo-russe della festa, ma anche la locandina con l’ultima lettera dell’alfabeto enfatizzata con un carattere più grande e colorata di arancio e nero. Una scelta grafica che in molti hanno ricondotto alla Z utilizzata dall’esercito russo e diventata simbolo dell’invasione dell’Ucraina.

La sezione del Pci si difende: «E’ il Nastro di San Giorgio per il quale sono morti 27 milioni di donne e uomini dell’Urss, che ti hanno fornito anche la libertà di criticarli. Senza di loro oggi parleremmo tutti tedesco, sotto la frusta del nazismo». Ma un secondo utente fa notare: «E’ anche un simbolo della Russia imperiale».

L’amministrazione di Zagarolo (guidata da una lista civica vicina al centrosinistra) in una nota ufficiale ribatte: «Sin da subito il comune si è adoperato per l’accoglienza di famiglie in fuga dalla guerra e ha manifestato per la pace in una fiaccolata che ha visto la presenza di centinaia di cittadini. In quell’occasione le Istituzioni e l’intera Città hanno ribadito con forza che il dialogo e la diplomazia sono le uniche strade per evitare guerre e conflitti». 

Da “La Zanzara - Radio24” il 5 maggio 2022.

Altro che Ucraina e il battaglione Azov. In Italia ci sono i nazisti eletti in consiglio comunale. Anche nel 2022. Succede a Cellarengo, comune di circa 700 anime in Provincia di Asti dove alle ultime elezioni di tre anni fa sono stati eletti in consiglio Carlo Gariglio (58 anni), Roberta Fusco (56 anni) e Franco Trogolo (78 anni) per la una lista dal nome “Lista Civica Censurati”; i tre appartengono in realtà a un gruppo chiamato Movimento Fascismo e Libertà - Partito Fascista Nazionale, di cui Gariglio è anche segretario.

La “Lista Civica Censurati” non fa parte della maggioranza guidata dal Sindaco in carica Adriana Bucco. 

Sul sito di Fascismo e Libertà campeggiano foto e testi di tutti i principali leader politici del Terzo Reich, si tratta di un partito dichiaratamente fascista con evidenti simpatie neonaziste.

Gariglio e Fusco hanno i loro profili social su Vk, una piattaforma alternativa di proprietà russa. Su questi profili ci sono foto di Adolf Hitler ed elogi ad alcuni esponenti del fascismo e del Terzo Reich. Ma almeno due dei tre consiglieri, Gariglio e la moglie Roberta Fusco, non fanno mistero delle loro simpatie politiche. 

“Siamo gli unici fascisti veri rimasti - ha detto in un’intervista a La Zanzara su Radio 24,  Carlo Gariglio - gli altri sono movimenti finti creati per dividerci. Non ho timore a definirmi nazista”.

“Hitler - ha detto ancora Gariglio - ha combattuto contro potentati che oggi ci governano, ha riunificato la patria e ha creato una potenza mondiale venendo poi costretto a fare una guerra. L’Olocausto è una bufala smentita dai fatti, non è mai avvenuto e le camere a gas non sono esistite”. 

Tutto tranquillo però nel piccolo paese piemontese dove il Sindaco, chiamato da La Zanzara, ha detto: “Persone naziste? Magari no, diciamo fasciste. Ho segnalato la cosa in Prefettura ma mi hanno detto di stare serena perchè sono pochi e innocui".

Il primo cittadino di Cellarengo però difende l’operato dei tre in Consiglio Comunale: “Questi signori sono presenti in Consiglio, sono sempre puntuali come orologi svizzeri e non hanno mai fatto azioni destabilizzanti. Si sono attenuti al ruolo di minoranza e non hanno mai fatto propaganda politica”. 

Questa sera l’intervista completa durante la puntata de La Zanzara, in onda su Radio 24 dalle 18.30.

Eleonora Capelli per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.

Si sono esibiti con il passamontagna in testa, davanti a una bandiera delle Brigate Rosse, mettendo in musica trap versi come «Zitto zitto, pagami il riscatto, zitto zitto, sei su una Renault 4», con la stella a cinque punte a incorniciare il nome della band, "P38". 

Così i "trapper brigatisti" si sono presentati il 1° maggio sul palco dello storico circolo Arci "Tunnel" di Reggio Emilia, davanti a una sessantina di persone, in una tappa del loro Br Tour.

Nella terra d'origine di fondatori delle Br, come Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Tonino Loris Paroli, il concerto adesso viene definito «un vero insulto alla memoria delle vittime» dal sindaco Luca Vecchi. Uno schiaffo a chi ancora fa i conti con il lutto, come Lorenzo, figlio di Marco Biagi, ucciso nel 2002 a Bologna da un commando delle Nuove Brigate Rosse. «Le cose schifose sono due: la prima è che il titolare del locale li ha difesi dopo l'esibizione - ha scritto Lorenzo sui social - e la seconda è che non è la prima volta che questo "gruppo" viene invitato nei locali». 

Il tour dei trapper aveva già toccato Roma, Bergamo, Padova e Bologna, ma la ribalta concessa da un circolo Arci ha provocato una vera bufera. «È successa una cosa gravissima, noi ci dissociamo totalmente - dice il presidente regionale Arci, Massimo Maisto, dopo che il presidente del circolo aveva minimizzato parlando di provocazione artistica - Questo non è un gioco, siamo un'associazione nonviolenta e pacifista e non dimentichiamo cosa sono stati gli anni di piombo in termini di morte e dolore».

I componenti del gruppo, che si firmano Astore, Papà Dimitri, Jimmy Pentothal e Yung Stalin, non hanno trovato di meglio che rispondere con un comunicato delirante: «Aldo Moro è stato un morto, come lo sono i morti di overdose, come lo sono i morti sul lavoro nelle fabbriche, come lo sono i morti di una pandemia gestita disastrosamente». 

Un terribile salto all'indietro, a pagine di storia che si speravano chiuse. Sui concerti del gruppo adesso sono in corso accertamenti della Digos, su disposizione dell'autorità giudiziaria. Mentre i versi terribili, che rievocano quella stagione di violenza cieca, suonano anche su You Tube.

Rap Br dei P38 Gang, indagato presidente circolo Arci. Maria Fida Moro: "Denuncio quella band". La Repubblica il 6 Maggio 2022.  

La figlia dell'onorevole assassinato dai terroristi adirà alle vie legali contro il gruppo che inneggia alle Brigate Rosse. Denunciati anche a Pescara dal figlio di un'altra vittima, Giovanni D'Alfonso. Il presidente del circolo Arci 'Il Tunnel' di Reggio Emilia che il primo maggio ha ospitato il concerto della band 'P38 - La Gang' è indagato per istigazione a delinquere. Secondo quanto si apprende ne risponderebbe in concorso con i componenti del gruppo musicale, che nei testi si ispira alle Brigate Rosse, che però sarebbero ancora da identificare, dal momento che si esibiscono a volto coperto. Lo stesso Vicini commenta sui social un avviso ricevuto nell'ambito dell'indagine seguita dalla Digos di Reggio Emilia.

Martedì è previsto un presidio di solidarietà dei Carc davanti alla Questura per l'interrogatorio di Vicini.

"Intendo agire per vie legali. Qui non si tratta di libertà di pensiero, ma è istigazione al terrorismo. Mio padre, Aldo Moro, era il contrario di tutto ciò che c'è in quei testi, altrimenti sarebbe stato comprato come altri. Invece è stato ucciso. E ancora oggi in Italia e in Europa paghiamo l'assenza della sua politica lungimirante".

Così, alla Gazzetta di Reggio, Maria Fida Moro, figlia primogenita dello statista democristiano ucciso dalle Br, annuncia l'intenzione di affidarsi al suo legale per valutare gli estremi di una denuncia nei confronti della band P38 - La Gang.

"Solo chi è passato per un dolore del genere può davvero capire cosa si prova e può capire che anche una canzone può avere esiti volgari e pericolosi - aggiunge Maria Fida Moro - Mio padre era una persona ad esempio che non era assolutamente attaccata al denaro, che non ha mai accettato regali e usava l'indennità parlamentare per far studiare i bambini poveri del sud. Di tutto questo ci si dimentica, spesso si dimenticano anche le persone aiutate, ora diventate adulte. Se fosse stato attaccato al denaro non sarebbe mai morto ammazzato. Invece era attaccato a solidi principi giuridici del fare il bene e non il male, sapendo che, ahimè, proprio facendo il bene sarebbe stato ammazzato. Purtroppo lo ha sempre saputo".

I quattro componenti del gruppo sono stati inoltre denunciati per apologia di reato dalla Digos di Pescara in riferimento alla loro esibizione al circolo Arci Scumm nel capoluogo adriatico la sera dello scorso 25 aprile. A riferirlo è l'edizione abruzzese de Il Messaggero.

Sulla vicenda sono arrivati due esposti in procura, uno dei quali a firma di Bruno D'Alfonso, uno dei tre figli di Giovanni il carabiniere pennese di 44 anni ucciso dalle Brigate Rosse l 5 giugno 1975 nello scontro a fuoco alla cascina Spiotta per la liberazione dell'industriale Vittorio Vallarino Gancia. Denuncia per ora contro ignoti visto che i componenti del gruppo sono anonimi: adottano nomi di fantasia e indossano passamontagna bianchi. Per identificarli anche dopo la seconda esibizione a Reggio Emilia lo scorso primo maggio è al lavoro la direzione centrale Anticrimine della Polizia.

Michele Serra per “la Repubblica” il 6 maggio 2022. 

Per giocare con la morte bisogna conoscerne il peso. La sola cosa interessante da sapere, a proposito del trio "P38-La Gang" che si è esibito a Reggio Emilia cantando le gesta delle Brigate Rosse, è se il loro gioco sia spensierato (nel quale caso si tratta di tre stupidi, e il caso è chiuso) oppure cosciente.

In questo secondo caso l'arte, vera o presunta, non può essere un alibi, e i tre pitrentottini per primi non possono non saperlo o non capirlo. Se scrivo un inno allo stupro, in qualunque contesto, le stuprate e gli stuprati me ne chiederanno conto. Se scrivo un inno al sequestro e all'assassinio, i sequestrati e gli assassinati me ne chiederanno conto. Non ci sono sconti possibili, di fronte alla sopraffazione, e se è vero che il mondo spesso appare come una somma di sole sopraffazioni, non è un buon motivo per iscriversi all'albo dei sopraffattori: questo, non altro, fu il crimine orrendo del terrorismo rosso.

Anche nel caso che il trio voglia richiamarsi all'ambiguità dell'arte, alla sua non corrispondenza ai canoni triti del buon senso, sappia, il trio, che per ambire all'ambiguità (o al sarcasmo, o alla seconda lettura) bisogna essere artisti per davvero. L'arte non è, in sé e per sé, un lasciapassare. Ci sono fior di coglioni che, avendo studiato da "provocatore", credono che le loro coglionate siano provocazioni. Ma bisogna anche avere studiato da artista, averne il talento e lo spirito di sacrificio, per potersi permettere di parlare di rapimenti, omicidi, sangue. Lo scandalo dell'arte ha bisogno, per pretendere attenzione, di enorme lavoro, fatica, studio. Altrimenti è solo uno scandalo - uno dei tanti - della mediocrità.

IL 1º MAGGIO. Il “fuck Putin” che nessuno ha avuto il coraggio di urlare al concertone. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 02 maggio 2022

Siamo in Italia, il paese in cui il 1° maggio un giornalista di Mediaset intervista il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov – diciamo “intervista” ma il verbo è un pietoso eufemismo – e alla fine lo congeda con un surreale «buon lavoro».

Siamo in Italia, dunque, niente di più probabile che se dal palco del concerto del 1° maggio domenica pomeriggio si fosse alzato un collettivo, sonoro, intonato oppure anche meglio stonato “fuck Putin”, sonoro come quello dei Måneskin sul palco del Coachella festival.

La musica non ferma la guerra, ci ha ricordato con la sua ironia contro il pacifismo di maniera la solitaria gag di Lundini che ha cantato che «la guerra è brutta», con tanto di finta telefonata di Vladimir Putin che annuncia la pace.

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Che differenza c’è tra la nostra Resistenza e quella degli ucraini. Mauro Del Bue su Il Riformista il 2 Maggio 2022. 

C’è Resistenza e resistenza? Ci può essere differenza tra quella dei popoli che si battono contro le aggressioni di altri paesi? E che combattono per difendere la loro indipendenza? Che differenza c’è tra la nostra Resistenza al nazifascismo e quella ucraina all’invasione russa? Come nello schieramento partigiano italiano esistevano differenze anche sostanziali di indirizzo politico, pensiamo alle tre guerre, patriottica, democratica e di classe, delle quali parla lo storico Claudio Pavone nel suo libro “Una guerra civile”, così ci saranno differenze, tra il nazionalismo estremo della brigata Azov e il moderatismo delle forze più europeiste, anche nella Resistenza ucraina.

Ma sarebbe l’ora di smetterla di creare ad arte delle divaricazioni tra la conquista del nostro 25 aprile e il drammatico percorso che per ora non ha portato a un analogo 25 aprile di Kiev. I differenziatori, in realtà, siano essi dirigenti di associazioni di partigiani che partigiani non sono mai stati, siano intellettuali e professori da salotto televisivo, non sanno poi spiegare quali siano le differenze. Il coinvolgimento degli Usa? Gli Usa, e meno male che così sia stato, furono attivi e partecipi nell’appoggio alla lotta di liberazione del popolo italiano. Senza questo apporto, e senza la controffensiva sovietica all’operazione Barbarossa, la guerra sarebbe stata vinta da Hitler. Quello di Putin é un regime autoritario e bellicista, ossessionato da quella paura storica dell’accerchiamento della quale parla oggi sul Corriere Angelo Panebianco. Che ci siano, a sinistra (a destra é più comprensibile) dei tentennamenti, delle esitazioni, quando non dei veri e propri giustificazionismi, mi risulta davvero incomprensibile. Mauro Del Bue

Corsi e ricorsi. Le ombre del pacifismo da Hitler all’Ucraina. Gianni Riotta su La Repubblica il 4 maggio 2022.

È solo una passeggiata dei tedeschi nel loro giardino di casa" disse Philip Kerr, XI Marchese di Lothian, quando Adolf Hitler, nel 1936, fece occupare dall'esercito la Renania. E per l'aristocratico inglese, l'idea che i nazisti fossero "vittime" da redimire dell'arroganza occidentale, durò a lungo: "Hitler è un visionario, non un gangster", ripeteva nei memorandum diplomatici al premier britannico Chamberlain e al ministro degli Esteri Eden, anticipando il giudizio che l'ex presidente americano Trump formulerà su Putin: "Un genio!".

La lettera del Mahatma. Quando Gandhi chiese “all’amico Hitler” di fermare la guerra. Redazione su Il Riformista il 4 Maggio 2022. 

Questa che pubblichiamo è la lettera che Gandhi scrisse nel 1939, mentre stava iniziando la seconda guerra mondiale, ad Adolf Hitler. È un documento fantastico perché fa capire bene cosa siano la nonviolenza e il pacifismo. La lettera non arrivò mai a Hitler perché fu intercettata di servizi segreti inglesi, e Londra decise di farla sparire perché pericolosa. Pensate un po’.

Caro amico, se vi chiamo amico, non è per formalismo. Io non ho nemici. Il lavoro della mia vita da più di trentacinque anni è stato quello di assicurarmi l’amicizia di tutta l’umanità, senza distinzione di razza, di colore o di credo. Spero che avrete il tempo e la voglia di sapere come una parte importante dell’umanità che vive sotto l’influenza di questa dottrina di amicizia universale considera le vostre azioni.

Non dubitiamo della vostra bravura e dell’amore che nutrite per la vostra patria e non crediamo che siate il mostro descritto dai vostri avversari. Ma i vostri scritti e le vostre dichiarazioni, come quelli dei vostri amici e ammiratori, non permettono di dubitare che molti dei vostri atti siano mostruosi e che attentino alla dignità umana, soprattutto nel giudizio di chi, come me, crede all’amicizia universale. È stato così con la vostra umiliazione della Cecoslovacchia, col rapimento della Polonia e l’assorbimento della Danimarca. Sono consapevole del fatto che, secondo la vostra concezione della vita, quelle spoliazioni sono atti lodevoli. Ma noi abbiamo imparato sin dall’infanzia a considerarli come atti che degradano l’umanità. In tal modo non possiamo augurarci il successo delle vostre armi. Ma la nostra posizione è unica. Noi resistiamo all’imperialismo britannico quanto al nazismo. Se vi è una differenza, è una differenza di grado.

Un quinto della razza umana è stato posto sotto lo stivale britannico con mezzi inaccettabili. La nostra resistenza a questa oppressione non significa che noi vogliamo del male al popolo britannico. Noi cerchiamo di convertirlo, non di batterlo sul campo di battaglia. La nostra rivolta contro il dominio britannico è fatta senza armi. Ma che noi si riesca a convertire o meno i britannici, siamo comunque decisi a rendere il loro dominio impossibile con la non cooperazione non violenta. Si tratta di un metodo invincibile per sua natura. Si basa sul fatto che nessun sfruttatore potrà mai raggiungere il suo scopo senza un minimo di collaborazione, volontaria o forzata, da parte della vittima, I nostri padroni possono possedere le nostre terre e i nostri corpi, ma non le nostre anime. Essi non possono possedere queste ultime che sterminando tutti gli indiani, uomini, donne e bambini.

È vero che tutti non possono elevarsi a tale grado di eroismo e che la forza può disperdere la rivolta, ma non è questa la questione. Perché se sarà possibile trovare in India un numero conveniente di uomini e di donne pronti, senza alcuna animosità verso gli sfruttatori, a sacrificare la loro vita piuttosto che piegare il ginocchio di fronte a loro, queste persone avranno mostrato il cammino che porta alla liberazione dalla tirannia violenta. Vi prego di credermi quando affermo che in India trovereste un numero inaspettato di uomini e donne simili. Essi hanno ricevuto questa formazione da più di vent’anni. Con la tecnica della non violenza, come ho detto, la sconfitta non esiste. Si tratta di un «agire o morire senza uccidere nè ferire. Essa può essere utilizzata praticamente senza denaro e senza l’aiuto di quella scienza della distruzione che voi avete portato a un tale grado di perfezione. Io sono stupito dal fatto che voi non vediate come questa non sia monopolio di nessuno.

Se non saranno i britannici, sarà qualche altra potenza a migliorare il vostro metodo e a battervi con le vostre stesse armi. Non lascerete al vostro popolo un’eredità di cui potrà andare fiero. Non potrà andare orgoglioso raccontando atti crudeli, anche se abilmente preparati. Vi chiedo dunque in nome dell’umanità di cessare la guerra. In questa stagione in cui i cuori dei popoli d’Europa implorano la pace, noi abbiamo sospeso anche la nostra stessa lotta pacifica. Non è troppo chiedervi di fare uno sforzo per la pace in un momento che forse non significherà nulla per voi, ma che deve significare molto per i milioni di europei di cui io sento il muto clamore per la pace, perché le mie orecchie sono abituate a sentire le masse silenziose. Avevo intenzione d’indirizzare un appello congiunto a voi e al signor Mussolini, che ho avuto l’onore di incontrare all’epoca del mio viaggio in Inghilterra come delegato alla Conferenza della tavola rotonda. Spero che egli vorrà considerare questo come se gli fosse stato indirizzato, con i necessari mutamenti.

Il dibattito tra interventisti e pacifisti. Aldo Grasso contro i pacifisti, lista di proscrizione contro chi vuole il cessate il fuoco. Michele Prospero su Il Riformista il 4 Maggio 2022. 

Cosa succede al Corriere? Ci sono così tanti ex giornalisti rossi lì che sembra di stare a via dei Taurini. E però di curiosità verso le contraddizioni che sempre avvolgono le grandi questioni di un mondo che oscilla pericolosamente tra guerra e pace neanche a parlarne. Conformismo a massicce dosi e solo una gara poco edificante tra le penne per stilare le più fantasiose liste di complicità con il putinismo.

I tamburi di guerra hanno così tanto rintronato le menti di chi scrive da rovesciare completamente l’auspicio antico del Migliore fino a trasformare talvolta il Corriere nell’Unità (stile anni 50) della borghesia: come in gran parte dei giornali, abbondano titoli strillati e parole militanti, denuncia di ogni minoranza che con il dubbio osa uscire dal coro dell’entusiasmo bellico. Perfino una penna di solito pungente, ma sempre con giudizio e ironia, come quella di Aldo Grasso (ed è un vero peccato) lucida gli scarponi e va allo scontro armandosi con i cascami della cultura del sospetto.

In un corsivo di prima pagina egli depone il fioretto che ben gestisce con una consueta gradevole prosa e brandisce una serie di personalità del giornalismo e della cultura sulle quali finisce per invocare l’ombra della riprovazione che spetta ai portatori di colpe inemendabili. Stupisce che un raffinato conoscitore della comunicazione ricorra allo stesso repertorio rustico di Riotta (e di altri compilatori di liste apparse sempre sul Corriere e altri fogli) e metta insieme i nomi più disparati (da Ritanna Armeni, castigata per una sua intervista proprio al Riformista, ad Angelo D’Orsi, colpito per qualche sua ospitata televisiva). Tra i reprobi, sospettati di inclinazioni rossobrune e di nostalgie per l’Unione Sovietica, il Corriere oltre al “professore mitomane” tanto amato dalla Rizzoli, anche una analista come Ida Dominijanni (critica teorica del sovranismo, indagatrice con le categorie della più aggiornata filosofia femminista dei simboli e dei desideri del potere).

Lo scivolamento nella tentazione di denunciare pubblicamente chi non mostra attaccamento al patrio suolo, in uno di quei momenti che evoca il compimento del destino supremo, è segno di una insidiosa mentalità che trasforma la disputa nel pensiero in un duello a forte carica demonizzatrice, secondo lo schema naturalistico amico-nemico. In un tempo che vede l’Italia precipitare in una situazione di quasi belligeranza e considera Putin come il carnefice, la bestia, insomma il nuovo Hitler, inquadrare qualcuno come un seguace del verbo putiniano non significa propriamente fargli un complimento. Anzi, incasellare un nome in una lista di obbedienza putiniana è quasi compiere una delazione a mezzo stampa per denunciare un complice del nemico, uno straniero in patria.

Se i colori hanno un senso, il nero appartiene saldamente alla Meloni e il rosso (facendo però una proibitiva capriola cromatica) a Letta: ad essere coerenti, sarebbero quindi loro, negli incontri e nelle simmetrie costruite negli ultimi mesi, i rossobruni, e però sono omogeneamente atlantisti, guerreschi. Ma, a parte le facili assonanze, trasferendosi da via Taurini a via Solferino molti giornalisti del Corriere hanno sepolto le idealità di un tempo. Dal repertorio più antico, e mai del tutto superato evidentemente, hanno però ripescato la categoria più squallida della sinistra novecentesca: il socialfascismo. Il rossobrunismo è, a tutti gli effetti, una imbarazzante variante della più sanguinolenta metafora degli anni Trenta. Peccato che anche Grasso, estraneo peraltro alle vicende della sinistra storica e quindi alle miserie dello stalinismo politico-culturale, maneggi certi arnesi contundenti che sarebbe bene consegnare all’oblio. Ma come attenuante a suo favore potrebbe esserci il clima cameratesco che si respira nella redazione dove, al posto dell’eskimo, c’è bella e pronta la mimetica e il bellicismo più spinto pare manifestare la definitiva malattia senile dell’ex comunismo romano. Michele Prospero

“Paranoia antioccidentale, trauma infantile”. Volano gli stracci a L'Aria che Tira tra Goffredo Buccini e il giurista Ugo Mattei. Federica Pascale su Il Tempo il 04 maggio 2022.

“Per fortuna non si capisce più niente di quello che dice. È dominato da una forma di paranoia antioccidentale che si spiega soltanto con un trauma infantile. Non so che le hanno fatto gli americani o i liberali ma ci deve stare qualcosa nel passato che spiega questa cosa, perché questa è vera paranoia”. Così Goffredo Buccini declassa il giurista Ugo Mattei durante la puntata di mercoledì 4 maggio de L’Aria che Tira, il talk show politico condotto da Myrta Merlino su La7.

Parlando di Ucraina e del ruolo strategico che l’Unione Europea dovrebbe avere nei negoziati per la pace, il professor Mattei spiega che: “Più allarghi l’Unione europea, rendendola semplicemente un fronte bellico, aggressivo nei confronti delle altre parti del mondo, più la indebolisci e più mantieni l'attuale struttura della dominanza dell'egemonia globale. Quindi questa storia di allargare l'Unione Europea altro non è che un rafforzamento della Nato”. Secondo Mattei, la sovranità italiana non esiste e sono invece gli Stati Uniti d’America a dettare l’agenda politica. A questa analisi e a diversi riferimenti storici snocciolati rapidamente dal professore, risponde il giornalista del Corriere della Sera Buccini che, dopo un incipit pacifico, prosegue additando Mattei come paranoico: “Io sono per la tutela piena di ciò che dice Mattei. Sono disposto a incatenarmi davanti a La7 perché Mattei continui a dire tutto quello che io non condivido, però, senza offesa, mettere De Gasperi dentro questo mischione - che comprendeva il ministro Speranza e il premier Draghi - è un delirio paranoide, di cui io ho il massimo rispetto. Io sono per la manifestazione di ogni paranoia, però bisogna anche ricordare che sono forme di paranoia. Lo dico con simpatia professore, molta simpatia”.

Mattei ovviamente risentito accusa Buccini di stalinismo, e rivendica il diritto ad esercitare la critica: “Psichiatrizzare la politica e psichiatrizzare gli avversari è un modo di comportarsi stalinista. Lei in questo momento ha dimostrato, visto che vogliamo parlare di storia, lo stesso rispetto delle opinioni altrui che aveva Stalin durante i processi di purga”.

Saluti romani (e putiniani) di casa nostra. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Nostalgie canaglie. «Camerata Assunta, presente!». Si è chiuso così, con il tradizionale saluto fascista e le braccia tese di una trentina di persone, il funerale di Assunta Stramandinoli, moglie di Giorgio Almirante, leader storico della Destra nazionale. Mentre la bara veniva caricata sul carro funebre è scattato il saluto romano, come da consunto copione nostalgico: la dolenza dei vinti che si divincola alla ricerca dall’epica perduta. Vivere per indossare un cappello, fez o colbacco. Nel frattempo, infatti, lo specchio della Storia sta riflettendo un’altra ondata nostalgica che annoda la Russia di Putin al mai sopito amore per l’Urss. Il saluto romano è sostituito dall’antiamericanismo, dagli insulti al guerrafondaio Biden e alla Nato, dalla capziosa differenziazione tra armi difensive e offensive, da marce in favore della pace, della neutralità, della diplomazia, della denazificazione dell’Ucraina. In filigrana, dietro all’invasore seriale Putin, appare qualche santo comunista. Tutti figli di Giulietto Chiesa, pace all’anima sua: Vauro, Santoro, Barenghi, D’Orsi, Pagliarulo, Armeni, Dominijanni e tanti altri putiniani nostrani, compresi alcuni mitomani che alimentano i talk show. Il fondo metafisico della nostalgia ci riporta sempre a un paradiso perduto: nero, rosso o rossobruno.

Annozero. La sinistra santoriana e la tragicommedia della controinformazione. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 7 Maggio 2022.

In nessun paese occidentale come in Italia le tesi più ardite e strampalate hanno così tanto spazio nei media. Il rischio è che cresca sempre di più quell’area complottista vicina a Conte, influenzando la posizione atlantica dell’Italia.

All’allarme sulla censura contro il pacifismo italiano (la Pace proibita) lanciato da Michele Santoro al teatro Ghione di Roma e sulla piattaforma iperpopulista ByoBlu risponderei parafrasando Mark Twain che smentiva la notizia della sua morte pubblicata su un’agenzia: «Spiacente di deludervi, ma la notizia della morte dell’informazione libera è grossolanamente esagerata». 

In nessun paese occidentale come in Italia le tesi più ardite e strampalate sono diventate il sale dei talk show, o meglio dei trash-show, che hanno come protagonisti i personaggi più stravaganti e mattoidi, i complottisti più esagitati, i conduttori più felici di fare caciara che di dare informazioni attendibili e verificate. Il risultato è che, com’è avvenuto per la pandemia, tutte le tesi sono considerate equivalenti per cui ogni falso storico che volumi di studi hanno smentito viene presentato come un’opinione legittima: il complotto ebraico mondiale, Hitler che era ebreo, la terra piatta, i vaccini che uccidono, il falso sbarco sulla luna. Di questo soffre l’informazione, e non solo quella italiana, che comunque, a scanso di equivoci, non ha bisogno di nuove regole, gabbie, intromissioni ma solo, come ha argomentato sul Foglio Enrico Mentana, di informazione buona che scacci quella cattiva. Più che di serate al teatro Ghione, di serate davanti alla tv a guardare The Newsroom, la serie americana che racconta benissimo il conflitto tra informazione e audience. 

In occasione della guerra, come ha scritto Mario Lavia, dentro questa bolla mediatica sta crescendo in Italia un’area politica che unisce il M5S di Conte, il giornale di Marco Travaglio, l’estrema sinistra, e aree di pacifismo cattolico, in una convergenza oggettiva (per usare un termine della vecchia sinistra marxista, caro a me come a Francesco Cundari) con il nemico per eccellenza Matteo Salvini. Ognuna di queste componenti, ovviamente, ha una sua specificità. Le motivazioni del mondo cattolico, per esempio, nascono da un pacifismo integrale che ha ben poco a che spartire con chi ha sostenuto nel mondo ogni genere di lotta armata purché antiamericana e antioccidentale e oggi sostiene apertamente la Russia di Putin. 

Politicamente quest’area pone al Partito democratico un enorme problema di alleanze perché, l’hanno detto esplicitamente due dei principali protagonisti, ovvero Michele Santoro e Giuseppe Conte, si propone di rappresentare quella parte del paese che si oppone alla al sostegno militare all’Ucraina. E ciò tocca un punto essenziale dell’identità del Pd di Letta, ovvero la collocazione euro-atlantica. Il vecchio leone televisivo e il gerundista di Volturara Appula sono anche una calamita per gli orfani del Conte «punto di riferimento fortissimo dei progressisti», che infatti tacciono imbarazzati.

Al di là dei numeri dei sondaggi è fuori di dubbio che sull’invio delle armi ai combattenti ucraini il paese è spaccato a metà e che questa divisione lacera profondamente (of course) la sinistra. Per me e per molti altri, ciò significa che la linea di conflitto passa nelle famiglie, tra gli amici, come già avvenuto per la pandemia e i vaccini. 

Ne ha scritto benissimo Luigi Manconi su Repubblica: si tratta di argomenti profondi che riguardano i valori fondanti: la vita e la morte, la libertà e l’oppressione, la pace. E, sempre su Repubblica, Gianni Riotta ha ricordato come tali divisioni si siano già presentate di fronte al tema della guerra. Il fatto è che se avessimo seguito Neville Chamberlain e non Winston Churchill, Charles Lindbergh e non Franklin Delano Roosevelt oggi il tanto vituperato occidente non vivrebbe in democrazia ma nella distopia raccontata da Philip Roth nel suo Complotto contro l’America o nel classico la Svastica sul Sole di Philip K. Dick, dove hanno vinto i pacifisti di allora e nazisti e giapponesi dominano il mondo. (Anche qui due serie tv da non perdere: Il complotto contro l’America e The man in the high castle).

Non voglio fare analisi geopolitiche delle quali non sarei capace, vorrei solo dire sommessamente e con rispetto che ciò per cui si battono oggi i miei vecchi amici e compagni, e cioè il disarmo dell’Ucraina e una pace che somiglia molto alla pax romana, è l’opposto delle ragioni per le quali siamo diventati di sinistra. 

Io ricordo di essere diventato di sinistra non malgrado l’invasione sovietica in Cecoslovacchia, ma contro quell’invasione, con in mente l’immagine di Ian Palach. Che si chiamassero paesi comunisti, come io mi andavo definendo, non me ne importava un fico secco, anche se quelli del Partito comunista italiano mi definivano anticomunista ero orgogliosamente di sinistra, antisovietico quanto antiamericano. Ero contro gli imperialismi. E pensavo, allora come oggi, che un popolo ha diritto a difendere la propria indipendenza con le armi, come il Vietnam ieri e l’Ucraina oggi. Punto.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 3 maggio 2022.

Un po' il richiamo della foresta ideologica di quand'erano giovani e un po' il bisogno di ribalta di artisti in disarmo: da Michele Santoro il promoter di questa serata-evento, il nuovo Che dei pacifisti o dei pacifinti, a Vauro, da Sabina Guzzanti a Moni Ovadia («L'Ucraina è piena di nazisti e gran parte dei giornalisti italiani sono velinari al servizio degli Usa») a Carlo Freccero che se la prende con i nostri tiggì. 

La miscela di Lotta & Ego ha prodotto ieri sera al teatro Ghione, con tanto di diretta su vari canali e siti come il contestatissimo e filo-putiniano ByoBlu di Claudio Messora, ex capo comunicazione grillino, il festival rosso-russo della canzone del neutralismo, del no armi all'Ucraina, del pacifismo integrale e integralista. E «basta pensiero unico occidentale», grida Michele il Tribuno del Popolo (fatto di nani, ballerine e prof alternativi alla Tomaso Montanari più Fiorella Mannoia che non manca mai e canta come sempre Il Disertore) e questo popolo non sta né con Putin né soprattutto con la Nato e nemmeno con gli ucraini che s' arrendano subito perché ci stanno annoiando e perché (copyright Montanari) «davanti alla minaccia non deve esistere la guerra di difesa e la guerra giusta». 

Il titolo della kermesse targata Santoro è la Pace proibita (proibita non dal Cremlino, che evidentemente secondo il Battaglione Ghione sventola la bandiera arcobaleno anche se tutti vedono sola la Z dei carriarmati, ma da quei guerrafondai di Ursula, Biden e Draghi e allora meglio Lavrov) e la tesi è, ci si passi l'espressione, a prova di bomba: se non esistessero gli yankee, che stanno facendo con l'Ucraina quello che fecero con il Vietnam - «Imperialisti!», gridano un po' tutti - il mondo sarebbe più bello.

E che sollazzo, nel vasto mondo di questo festival della canzone ideologica a cui ha aderito tanta bella gente in una parata da sardine (Jasmine Cristallo e ragazze ecologiste che dicono «la guerra è fossile, la pace è rinnovabile»), da masanielli 8de Magistris) e da rieccoli: Ascanio Celestini, Marco Tarquinio (direttore di Avvenire), Elio Germano (è il primo a salire sul palco parlando dei ricchi e cattivi del mondo), Guido Ruotolo e via così in questa sorta di Samarcanda a scoppio ritardato. A cui non ha voluto partecipare Cecilia Strada, la figlia di Gino effigiato come mito sul palco, perché considera il Battaglione Ghione una specie di Armata Rossa o Armata Rotta.

IL MORETTISMO Mi si nota di più se ci sono o se ci sono? Il morettismo è stato corretto così, ed eccoli on stage i compagni mattatori. La colpa di tutto? Più di Biden il quale «fa paura» che di Putin il quale - concede il Montanari, un Dibba più istruito - «fa orrore». E sempre meglio Zio Vlad piuttosto che Zio Sam: «O gli Usa si fermano o la guerra continua», avverte una clip del Ghione. I presenti sono super-fan di Sabina Guzzanti (anche se non tira più ma accusa: «Sì, poveri ucraini, ma ci sono tante altre guerre nel mondo di cui nessuno parla»), di Luciana Castellina che dice «prepariamo il negoziato» (e intanto agli ucraini a cui non vanno date armi si difendono sparando fiori?), della ex militante del 77 infuocato e ora filosofa trendy, Donatella Di Cesare, la quale stronca così la resistenza ucraina: «Non si conquista la libertà attraverso la guerra, la pace è più importante della libertà. Demonizzare Putin non serve a nessuno». Ma serve ancora meno questo disarmante bla bla del disarmo.

Laura Rio per “il Giornale” il 4 maggio 2022.  

Michele Santoro, secondo lei era giusto fare l'intervista al ministro degli Esteri Lavrov?

«Assolutamente sì. Era uno scoop. Qualunque giornalista l'avrebbe voluta fare. Io per primo. Se avessi la possibilità di intervistare Matteo Messina Denaro non mi tirerei certo indietro».

Il giornalista, maestro dei talk, che stava a Belgrado quando la Nato attaccava la Serbia, non si scandalizza per l'intervista rilasciata dal numero due di Putin a Giuseppe Brindisi su Rete4. Negli stessi minuti, domenica sera, invocava una via per la pace all'Arena di Giletti su La7 e il giorno dopo, lunedì, ha organizzato la manifestazione contro «l'informazione omologata» e per dare voce a chi «è contrario a inviare armi all'Ucraina». Due posizioni totalmente diverse, la sua e quella di Brindisi, ma che hanno creato un infuocato dibattito sulla libertà di stampa.

Il conduttore di «Zona Bianca» è stato subissato di improperi, critiche, accuse a livello internazionale.

«Come c'è libertà di espressione ci deve essere anche libertà di critica. Si può dire che ha fatto male l'intervista. Ma dietro l'indignazione ci sono motivazioni politiche, c'è il bellicismo delle parole che nasconde la sostanziale impotenza dei nostri politici: l'Italia è una ruota del carro, le armi vere le stanno inviando gli americani». 

Ma secondo lei l'intervista è stata realizzata in modo corretto?

«Non l'ho vista perché negli stessi momenti ero in studio da Giletti. E, abbiamo fatto più share di Lavrov...Però, in base a quello che ho letto, dico che avrei fatto altre domande». 

Cioè?

«Hanno fatto tanto scandalo le affermazioni sulle origini ebraiche di Hitler e di Zelensky, io non mi sarei soffermato sulla questione degli elementi nazisti tra gli ucraini, piuttosto avrei cercato di fare dire a Lavrov le condizioni per porre fine a questa guerra, per il compromesso».

C'è chi ha ipotizzato che il ministro abbia concesso l'intervista a Mediaset per via della vecchia amicizia di Berlusconi con Putin.

«Anche se fosse non ci troverei niente di scandaloso, un giornalista deve usare ogni mezzo a sua disposizione per arrivare all'obiettivo. Piuttosto, al solito, chi intervista un nemico viene considerato complice del nemico per zittirlo perché la stampa italiana è schierata con le posizioni interventiste».

Con le dovute differenze, anche lei viene messo nella casella «pro-Putin», ma sta facendo il giro dei talk più importanti.

«È il modo per emarginare in maniera silenziosa. Io ho fatto grandi battaglie contro Berlusconi ma era una lotta chiara. Ora i giornali e i telegiornali, anche se invitano o fanno parlare personaggi come me o Orsini, danno un'informazione unica, omologata, il medium è il messaggio». 

Per questo ha organizzato la manifestazione «Pace proibita».

«Certo, per dare voce a chi non è rappresentato nei media e in politica. Non è stata una trasmissione ma un esperimento, un segnale che tutti possono raccogliere, un terremoto per l'informazione, libero a tutti. E mi sembra abbia avuto successo: stimiamo che tra tv locali (come TeleNorba) e web abbiamo raccolto 400.000 persone. E andremo avanti». 

Si è portato dietro i vecchi compagni dei suoi talk show come Vauro.

«Pochissimi. C'era una vasta rappresentazione di diversi mondi, dagli amici di Greta ai filosofi come Donatella Di Cesare».

Ma non c'era il suo amico/nemico Marco Travaglio.

«L'abbiamo invitato, ha ritenuto di non venire. Tra noi ci sono differenze di opinioni, ma auspico che possiamo fare fronte comune in questa battaglia». 

L'accusano di chiedere la pace, ma senza dire come farla.

«Come no? Noi siamo dalla parte del Papa, vogliamo che l'Italia spezzi le catene che ci legano alla strategia americana e si metta in prima linea nell'attività diplomatica. Bisogna mettersi al tavolo con Putin come ha detto Macron».

Vladimir chi? Il PalaPutin santoriano dimostra che la famosa «società civile» non ha mai capito niente di regimi. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 4 Maggio 2022.

Vent’anni fa la sinistra si divise aspramente attorno alle mobilitazioni di quegli stessi intellettuali che ieri affiancavano il capostipite del populismo televisivo. Il revival di lunedì dovrebbe essere occasione di un onesto bilancio.

Il manifesto dell’iniziativa promossa da Michele Santoro sulla guerra in Ucraina aveva qualcosa di antico, con l’elenco degli intellettuali chiamati a partecipare, da Moni Ovadia a Sabina Guzzanti, da Vauro a Fiorella Mannoia. Mancava solo il popolo dei fax (sì, quando Santoro cominciò a cavalcare questo genere di mobilitazioni esisteva ancora il fax), ma quelli erano addirittura i primi anni novanta. L’epoca d’oro, per essere precisi, cominciò un po’ dopo, nei primissimi anni duemila: girotondi, PalaVobis, Ambra Jovinelli.

Non c’è bisogno di perdersi nei meandri di Google per rievocare l’interminabile elenco dei luoghi e delle relative motivazioni alla base delle iniziative che di lì in poi hanno scandito l’infaticabile attivismo della cosiddetta «società civile», dalla guerra in Afghanistan a quella in Iraq, dalle leggi sulla giustizia a quelle sulle frequenze radiotelevisive. Così come non serve aggiungere ai nomi di lunedì sera i tanti che non ci sono più o che nel frattempo sono tornati ai rispettivi mestieri: l’identità di una squadra non cambia per la sostituzione di un paio di centrocampisti, tanto meno per quel minimo di fisiologico turnover che ha visto qualche giovane sardina prendere il posto occupato vent’anni fa da un regista o da uno scrittore.

Non stupisce che la manifestazione santoriana sulla «pace proibita» – proibita da tutti (Biden, Nato, Zelensky, il battaglione Azov), meno che da Putin, par di capire – sia stata trasmessa su Youtube da uno dei più indefessi divulgatori di bufale contro i vaccini e a favore della Russia, allevato non a caso negli uffici comunicazione di quel Movimento 5 stelle che di tutto questo ventennale attivismo è stato il prodotto più riuscito. Tanto meno può stupirci che i partecipanti abbiano ripetuto dal palco le solite assurdità sulla minaccia rappresentata dai nazisti ucraini, sulle provocazioni della Nato, su Zelensky marionetta degli americani, sulla necessità di disarmare gli aggrediti (anziché gli aggressori) e via orsineggiando.

A completare l’effetto amarcord mancava solo un nome, e non a caso: quello di Paolo Flores d’Arcais, il quale nelle scorse settimane ha usato parole durissime contro chi, come il presidente dell’Anpi, ha avuto il coraggio di mettere in dubbio le atrocità di Bucha e proporre un’inaccettabile equidistanza tra vittime e carnefici. Non stupisce che, forse per la prima volta in venti o trent’anni di iniziative simili, molte delle quali convocate e organizzate da lui, non fosse presente.

Nonostante questa significativa eccezione, di cui è giusto dare atto, il revival santoriano permette comunque di tirare un bilancio, approfittando di quel poco di senno del poi che l’esperienza dovrebbe averci regalato.

Vent’anni fa, come i meno giovani ricorderanno, la sinistra si divise infatti aspramente tra chi guidava questo genere di mobilitazioni e chi sosteneva partiti e dirigenti che di tali manifestazioni erano spesso il bersaglio. I promotori teorizzavano che solo grazie a quel genere di iniziative si potesse fermare la deriva autoritaria verso il «regime» berlusconiano. E il fatto stesso che alcuni dirigenti del centrosinistra non accettassero questo tipo di propaganda, e non volessero ad esempio parlare di «regime», era per gli intransigenti la prova della loro sostanziale complicità. Dall’altra parte c’era chi, come me, sosteneva al contrario che quel tipo di mobilitazione non solo era funzionale al berlusconismo, ma soprattutto spianava la strada alla peggiore involuzione populista.

Vent’anni fa, obiettivamente, entrambe le previsioni erano lecite: chi avrebbe potuto dire con certezza se vent’anni dopo ci saremmo ritrovati prigionieri di una dittatura personale costruita passo dopo passo da Silvio Berlusconi, anche grazie all’acquiescenza di un’opposizione troppo morbida, o al contrario in un sistema politico reso ormai ingovernabile dalla deriva populista e antipolitica fomentata da certi suoi oppositori?

Vent’anni dopo, però, lo sappiamo. Avevo ragione io.

Quel partito che resta sulle barricate: ecco chi non vuole "armare" Kiev. Massimo Malpica il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Sollevano dubbi sul conflitto. Ma non sono filo-putiniani.

Putiniani: analisti, giornalisti, politici, intellettuali, artisti; nel nome di Vladimir, della pace, della realpolitik, del complottismo o dell'antifascismo. In tempi come questi, in tempi di guerra, i grigi tendono a scivolare nel bianco o nel nero. E se si sceglie una posizione ambigua, se si sostiene che Kiev non vada armata, si fa indiscutibilmente un favore a Putin, che si condanni o meno l'invasione russa. E si finisce arruolati tra i putiniani. Ne sa qualcosa Alessandro Orsini, travolto da polemiche su polemiche per la sua posizione sul conflitto, ribadita di talk show in talk show, ossia che mandare armi all'Ucraina è inutile, che la stessa resistenza ucraina è inutile, che Ue e Nato hanno grandi responsabilità per quello che sta succedendo e che, sostanzialmente, la cosa migliore sarebbe una resa del Paese e un accordo con Putin.

Ma i distinguo - che in parlamento trovano sponde tra i M5s, gli ex grillini, la Lega e la sinistra, con punte di «eccellenza» come il presidente grillino della commissione Esteri del Senato Vito Petrocelli o come l'ex pentastellata Bianca Laura Granato, che ha addirittura appoggiato esplicitamente l'invasione - hanno contraddistinto anche la posizione del presidente Anpi Gianfranco Pagliarulo che, prima del 25 aprile, ha «smontato» la resistenza ucraina, affermato il suo no all'invio di armi, bocciato le bandiere Nato alle manifestazioni e pure aperto uno spiraglio di dubbio su Bucha, salvo poi correggere il tiro in seguito al polverone sollevato dalle sue parole. Nella pattuglia dei pacifisti con corollario di eccessivo appiattimento italico agli Usa (e che sostengono il teorema della guerra tra Russia e Usa per interposto territorio) spuntano anche un po' di artisti, come Fiorella Mannoia, Moni Ovadia, Ascanio Celestini. Tutti, non a caso, tra i presenti sul palco di «Pace proibita», la serata organizzata due giorni fa al teatro Ghione (tutti esauriti i posti da 12,50 euro) da Michele Santoro per dire no alla «esaltazione delle armi come soluzione» del conflitto ucraino, che ha visto partecipare anche Elio Germano e Sabina Guzzanti. Per la Mannoia, che condanna il «correre all'invio di armi» italiano, la guerra portata a Kiev da Mosca «si sta rivelando una guerra tra Russia e America, con in mezzo quel povero popolo che sta pagando tutto questo». Anche Ovadia tiene il punto, ricordando di avere in casa «tre profughe ucraine» e sostenendo che «ai potenti che si contendono questa storia, degli ucraini non gliene frega niente», prima di bocciare la Ue, «totalmente appiattita sugli Usa». E a spiegare il perché del no all'invio di armi al popolo ucraino che lotta per resistere all'invasione russa è Ascanio Celestini: «Dobbiamo capire che possiamo fare. Se l'unica cosa che possiamo fare è mandare le armi e riarmare questo paese, significa che abbiamo accettato che non soltanto combatteremo questa guerra, ma ne combatteremo altre domani». E pure Mattia Santori, la «sardina» eletta consigliere comunale con il Pd a Bologna, ha una posizione distinta dai dem, ed è decisamente «contrario all'invio delle armi». «Non si risponde ha spiegato - a un fallimento della politica estera mandando armi a un paese che sicuramente è vittima, ma la cui situazione è anche frutto delle nostre scelte sbagliate».

Quella di Kiev è legittima difesa: ce lo spiegano le basi del diritto. Concedere alla Russia parti di territorio ucraino significherebbe sostanzialmente accettare una sconfitta, sia pure parziale. Bartolomeo Romano su il dubbio il 4 maggio 2022.

Sono pienamente a favore della pace. E sono totalmente contrario alle guerre. Ma di fronte a quanto sta avvenendo in Ucraina non credo si possano prendere posizioni pilatesche. Occorre invece ragionare, anche in termini giuridici, per pervenire alla pace, purché giusta e possibilmente duratura.

In effetti, di fronte all’aggressione della Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina, limitarsi ad invocare la pace mi sembra sia una posizione troppo semplicistica. Scendere in guerra, a fianco dell’Ucraina, una decisione oggettivamente improponibile e pericolosa. Cosa è possibile fare, allora, seguendo i percorsi del diritto?

Porrei la questione in questi termini, maggiormente comprensibili, sul piano dei rapporti interpersonali alla luce del nostro diritto penale. Se qualcuno aggredisce ingiustamente un’altra persona, quest’ultima ha il diritto di difendersi: è il tema, sempre dibattuto, della legittima difesa. Di questo profilo si occupa l’art. 52 del codice penale del 1930, la cui portata si è tentato di ampliare, a favore dell’aggredito, nel 2006 e poi nel 2019. Tutti noi comprendiamo che chi si difende non commette alcun reato, perché è la vittima della situazione creata dall’aggressore. E la legge consente anche ad un terzo, estraneo alla vicenda che si svolge tra l’aggressore e l’aggredito, di intervenire contro l’aggressore: è l’ipotesi che si chiama “soccorso difensivo”.

Riportando la riflessione sulla guerra in Ucraina, quasi tutti gli osservatori neutrali (e, certamente, quelli occidentali) sono convinti che la Russia abbia aggredito l’Ucraina; e dunque quest’ultima ha il diritto di difendersi. Affermare che per raggiungere la pace occorre dare qualcosa in cambio alla Russia, in chiave transattiva, di trattativa, è come ipotizzare che l’aggredito dovrebbe comunque accettare di subire un danno dall’aggressore. Concedere alla Russia parti di territorio ucraino significherebbe sostanzialmente accettare una sconfitta, sia pure parziale. Certo, sul piano delle relazioni internazionali, ci possono essere vie alternative, possibili e persino ragionevoli (l’impegno ad una neutralità dell’Ucraina; la promessa che non entri nella Nato): ma pretendere una resa degli ucraini mi sembra veramente troppo.

Rimane l’altra domanda sospesa: cosa possiamo fare noi? Io penso che possiamo aiutare la resistenza (sì: gli ucraini resistono e lo fanno eroicamente) con tutti gli aiuti indiretti ipotizzabili (da quelli alimentari e umanitari sino alla fornitura di armi). Perché aiutare l’aggredito non solo è giuridicamente lecito, ma persino moralmente giusto.

Inoltre, si possono intensificare le sanzioni contro la Russia: del resto, l’impero sovietico è imploso e non penso che la pressione interna, ove crescesse, sarebbe irrilevante. Naturalmente, poi, sul versante delle relazioni internazionali, il piano delle trattative è sempre quello auspicabile: ma per sedersi ad un tavolo ci deve essere un reciproco interesse, che al momento sembra mancare. Ecco perché, anche sul piano giuridico, limitarsi ad invocare la pace, senza fare nulla per indurla, è una posizione idealista, che tuttavia finirebbe per rafforzare l’aggressore e lasciare sole le vittime. (*Ordinario di diritto penale all’Università di Palermo)

Gli italiani contro le armi a Zelensky. Ma coi sondaggi non si governa.  Decidere la propria linea politica seguendo il corso ondivago dei sondaggi sarebbe una sciagura, per l’Italia e per qualsiasi altra democrazia moderna. Daniele Zaccaria su il dubbio il 3 maggio 2022.

Pare che gli italiani siano fermamente contrari all’invio di armi all’Ucraina. Almeno è quanto ci dicono i sondaggi pubblicati a grappolo nelle ultime settimane anche se le cifre ballano vorticosamente. Oltre il 60% secondo Dire- Tecnè, il 55% per Emg e Demopolis, un po’ meno, il 46, 5% secondo un’inchiesta Global resarch realizzata per il programma Piazza Pulita che però conta anche un 20% di indecisi. Ci sarebbe poi un surreale 94% rivendicato da Alessandro Amadori, vicedirettore direttore dell’Istituto Piepoli, ma si fatica a credere a una simile cifra. Dev’esserci stato un errore. Di sicuro però il sostegno attivo del nostro governo alla resistenza di Kiev preoccupa e, in diversi casi, sta facendo arrabbiare i nostri concittadini. Ecco perché in molti chiedono al presidente del consiglio Draghi di interrompere le forniture militari e seguire la voce del “popolo”.

È giusto che un governo ascolti l’opinione degli elettori, che sia capace di “tastare il polso” del Paese per non diventare autoreferenziale e precipitare nell’impopolarità. Ma decidere la propria linea politica seguendo il corso ondivago dei sondaggi sarebbe una sciagura, per l’Italia e per qualsiasi altra democrazia moderna. Non infatti è pensabile il parere della “gente” possa sostituirsi al potere esecutivo e a quello legislativo esercitato dal parlamento e che gli istituti di ricerca demoscopica possano orientare le scelte dei governi, trasformando il sistema decisionale in una parodia della democrazia diretta. Non è pensabile per la natura stessa delle opinioni che sono entità fluttuanti, in continuo cambiamento, influenzabili e manipolabili, ma soprattutto legate alla contingenza, al flusso emozionale delle notizie. Spesso frutto di domande rozze e approssimative che semplificano problemi complessi. Lo dimostrano le percentuali incongruenti delle diverse inchieste che abbiamo citato e le differenti risposte allo stesso quesito a seconda del periodo in cui l’inchiesta è stata realizzata. Dopo le raccapriccianti stragi di Bucha il numero di italiani favorevoli all’invio di armi era decisamente superiore. Le parole di Biden, che ha alzato il livello dello scontro con la Russia, in pochi giorni hanno modificato profondamente il senso comune.

Ma anche ammettendo che i sondaggi ci restituissero una fotografia se non esatta almeno verosimile degli umori popolari, che riuscissero a fissare con precisione la volontà dei cittadini, sarebbe ugualmente scellerato seguirne la corrente. Per una ragione filosofica: il loro scopo è individuare una maggioranza nell’opinione pubblica mentre le democrazie proteggono anche gli interessi delle minoranze. E se gli italiani fossero favorevoli alla pena di morte? E se volessero che la guardia costiera sparasse sui barconi di migranti? Quale governo gli andrebbe incontro solo perché «lo hanno detto i sondaggi?».

Il dibattito sul conflitto in Ucraina. Guerrafondaio è Putin, non chi aiuta gli ucraini. Fabrizio Cicchitto, Umberto Ranieri su Il Riformista il 3 Maggio 2022. 

Caro direttore, non intendiamo abusare per la terza volta del largo spazio offerto meritoriamente dal suo giornale al dibattito in corso in Italia fra le opposte posizioni esistenti a proposito dell’invasione da parte della Russia in Ucraina. Ci limitiamo a brevi note anche perché in caso diverso dovremmo ricorrere al faticoso esercizio di riscrivere con parole diverse quelli che abbiamo già espresso in due articoli perché il prof. Prospero non ha risposto a nessuno dei nostri argomenti. Invece, a parte qualche interessante riferimento bibliografico, ci bacchetta perché saremmo obnubilati da “una attrazione fatale per le armi” e ci boccia perché per motivare questa infatuazione la (nostra) logica traballerebbe.

Purtroppo, la nostra età ci consiglia di evitare inutili perdite di tempo richiedendo al prof. Prospero di darci qualche ripetizione nella materia (la logica) nella quale siamo impreparati. Cogliamo però l’occasione per avanzare una domanda: ad avere “l’attrazione fatale per le armi” o, come è stato scritto in altri articoli sul Riformista a essere “guerrafondai” è Putin che ha invaso l’Ucraina bombardandola, radendo al suolo intere città, mettendo in campo truppe che fanno strage di civili e stuprano centinaia di donne o chi come noi solidarizza con gli aggrediti e, sulla base di questa solidarietà, ritiene che a essi vanno inviate armi per rispondere all’aggressione? Forse che, per non turbare i pacifisti italiani, gli ucraini a questo attacco dovrebbero arrendersi o al massimo potrebbero rispondere con le cerbottane e chi nell’Occidente solidarizza con loro dovrebbe limitarsi a fornirgli dei cartoccetti come unico strumento per non essere tutti attaccati come guerrafondai? Allora è un guerrafondaio il presidente socialdemocratico Scholz che, con tutte le cautele possibili, ha deciso di inviare agli ucraini 50 carri armati? Sono guerrafondaie anche le presidenti socialdemocratiche della Finlandia e della Svezia che, visto il nazionalismo predatorio che ispira Putin, vogliono richiedere l’adesione alla Nato? Francamente noi siamo con loro, non con Putin e tantomeno con Schroeder.

Ci permettiamo di ripetere dai precedenti articoli solo una cosa: per fare la trattativa bisogna essere in due. Finora Zelensky ha richiesto più volte un incontro con la controparte e Putin si è sempre rifiutato di trattare perché evidentemente vuole completare la sua guerra di conquista e di distruzione. Nikolaj Patrushev, segretario generale del consiglio di sicurezza della Federazione Russa, in un’intervista ha espresso quelle che sembrano le intenzioni reali di Putin e anche la sua filosofia: «pertanto il risultato della politica in Occidente e del regime di Kiev da esso controllato non può che essere la disintegrazione dell’Ucraina in più Stati». C’è poi una breve lezione di filosofia politica: «gli europei … hanno adottato i cosiddetti valori liberali, anche se in realtà si tratta del neoliberismo che promuove la priorità del privato sul pubblico, l’individualismo che sopprime l’amore per la patria. Con una tale dottrina l’Europa non ha futuro. Sarà costretta ad imparare di nuovo le lezioni non apprese». Noi troviamo conforto nel sostenere la difficile iniziativa politica e ideale contro l’aggressione spietata all’Ucraina e i laudatori dell’armata di Putin leggendo l’appello di 80 intellettuali di tutto il mondo a sostegno della Resistenza del popolo ucraino.

Appello firmato da Arundhati Roy a Tahar Ben Jelloum, da Noam Chomsky a Wole Soyinka… le cui parole vorremmo fossero diffuse: «Non sbagliamo la battaglia. Tutti e tutte coloro che rivendicano per sé la libertà e credono nel diritto dei cittadini di scegliere i propri leader e di rifiutare la tirannia, oggi devono schierarsi con gli ucraini. La libertà va difesa ovunque … difendendo la guerra di Putin ci priviamo del nostro diritto di essere liberi». Rifletta su queste parole il prof. Prospero. Fabrizio Cicchitto, Umberto Ranieri

Alberto Giannoni per “il Giornale” il 30 aprile 2022.

Da una parte c'è il carnefice, dall'alta le vittime. Bando all'equidistanza ipocrita: qualcuno la guerra la fa e qualcuno la subisce. «L'esercito russo è il carnefice, la popolazione ucraina la vittima». Più chiaro di così è difficile. 

Mentre imperversa un pacifismo ipocrita e unilaterale, dunque, anche nella sinistra-sinistra c'è chi conserva l'onestà intellettuale di chiamare le cose col loro nome. Cecilia Strada per esempio, figlia di Gino, medico fondatore di «Emergency» e icona del pacifismo italiano, scomparso ad agosto. 

Milanese, 43 anni, a sua volta ex presidente dell'Ong famosa per operare nei teatri di guerra, oggi Cecilia Strada è impegnata sul fronte dei soccorsi nel Mediterraneo ed è molto seguita da un'opinione pubblica di sinistra che era affezionata al padre, non tenero certo con l'Occidente e gli americani.

«La situazione è chiara - scrive - C'è un aggressore, la Russia, che ha invaso l'Ucraina e ne massacra i civili. L'esercito russo è il carnefice, la popolazione ucraina la vittima». E in due giorni, questo suo discorso sulla guerra russa in Ucraina ha ottenuto una pioggia di consensi, la bellezza di 20mila «like», una cifra da far impallidire i «post» dei vari leader di partito, soprattutto nel campo giallorosso. 

Una bella lezione di chiarezza, per gli specialisti dei distinguo e dei «ma anche» che imperversano in tv, a volte (finti) pacifisti che si appellano alla «complessità», e proclamano una «equidistanza» che si trasforma in vicinanza all'aggressore. Spesso, questi non lo nominano neanche Putin - in compenso non fanno che parlare degli americani o degli ucraini - e così facendo gli regalano indirettamente alibi e attenuanti: le presunte «provocazioni» occidentali prima di tutto, e poi il battaglione Azov e le formazioni neo-naziste, oppure le qualità del presidente ucraino Zelensky, i suoi orientamenti e i suoi trascorsi.

«Credo di avere messo a fuoco una cosa che mi disturba parecchio della narrazione della guerra in Ucraina» sbotta Cecilia Strada. E vede due possibili errori. Da un lato l'idealizzazione della vittima, dall'altro appunto la sua colpevolizzazione. Li sintetizza così: da un lato «Zelensky come Gandhi» e dall'altro «eh ma il battaglione Azov». «Non c'è alcun bisogno di dipingere Zelensky come Martin Luther King - avverte o di negare l'esistenza di neonazisti nel Paese (ricordiamoci che ce li abbiamo anche noi, eh), o di negare le contraddizioni o i problemi di un Paese per stare, come dobbiamo giustamente stare, dalla parte delle vittime». «I leader ucraini - d'altra parte - potrebbero essere anche mediocri, potrebbero esserci anche trecentocinquantamila battaglioni Azov, potrebbero essere stati commessi crimini negli ultimi anni in Donbass, potrebbe essere tutto: e non cambierebbe di una virgola il fatto che la Russia è l'aggressore, l'Ucraina l'aggredito, uno il carnefice, l'altro la vittima, e bisogna difendere le vittime». «Si sta dalla parte delle vittime - conclude - perché tra carnefice e vittima si protegge la vittima. Indipendentemente da tutto il resto».

Fabrizio Roncone per “Sette – Corriere della Sera” il 23 aprile 2022.

Una tragica ombra avvolge ormai l'Anpi, la sacra Associazione nazionale partigiani d'Italia, custode della memoria storica di quanto avvenne nel nostro Paese tra il 1943 e il 1945: Gianfranco Pagliarulo, che la presiede, ha infatti posizioni inaccettabili sulla guerra in Ucraina. 

Al punto che la mattina in cui le agenzie battono la sua prima dichiarazione, nei giornali - d'istinto - pensiamo sia stato frainteso. E invece no. Fa sul serio. Le sue parole sono addirittura in linea con quelle di Matteo Salvini che, per lunghi e drammatici anni, è andato in Russia a baciare la pantofola di Putin, e che adesso - come noto - non riesce nemmeno a pronunciarne il nome in pubblico (paura, eh?).

Comunque: anche Pagliarulo è convinto che inviare armi alla resistenza ucraina sia un errore. Ma non solo: incapace di distinguere l'aggredito dall'aggressore, propone lo scioglimento della Nato (il momento giusto, certo) e, quando la comunità internazionale scopre la macelleria russa di Bucha, chiede «una commissione d'inchiesta indipendente, che accerti le responsabilità effettive». 

Perché lui, Pagliarulo, all'ipotesi che sia tutta opera di Putin, non ci crede. Dubbio agghiacciante. Intriso di ideologia funesta e pacifismo peloso. Il manifesto che l'Anpi stampa per la Festa della Liberazione ne è la plastica, scioccante prova: con bandiere simil-italiane ma in realtà ungheresi (inconscio omaggio a Orbán, caro amico del tiranno russo?) e una citazione monca dell'articolo 11 della Costituzione. 

L'Anpi, di fatto, arriva a ripudiare anche la nostra guerra di Liberazione. Pagliarulo - giornalista, ex senatore (gruppo Misto-Pdci) - è nato nel 1949 e dovrebbe però saperlo che se è nato in un Paese libero, lo deve alle nostre brigate, salite in montagna con i fucili da caccia e poi armate (con mitra Thompson e Sten) dagli alleati. 

I partigiani non aspettarono i rastrellamenti delle Waffes SS sventolando le bandiere arcobaleno. Perché per la libertà si combatte e si muore. E non solo, Pagliarulo: lei sostiene d'essere di sinistra, però sappia che da queste parti - fin dai tempi di Enrico Berlinguer - è di sinistra chi sta con i deboli e gli oppressi, non chi sogna di marciare sulla Piazza Rossa. Ci pensi prima di salire sul palco del 25 aprile. Anzi, guardi: forse è meglio se resta giù.

Alberto Giannoni per “il Giornale” il 24 aprile 2022.  

«Una legittima resistenza armata». Alla fine il presidente dell'Anpi Gianfranco Pagliarulo ha dovuto alzare bandiera bianca, o meglio ucraina, e ingranare la retromarcia. 

Lo ha fatto a neanche 24 ore dall'intervento del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che con l'occasione del 25 aprile lo ha praticamente «rieducato» a una lettura autentica della storia italiana, impartendogli una lezione memorabile sulla guerra e la pace.

Così, intervenendo a Bari a un'iniziativa sulla Resistenza, il partigiano (ex)comunista si è deciso ad abbandonare la linea neutralista, superando ogni residua ambiguità sulla guerra d'aggressione in corso contro Kiev: «Tutto - ha riconosciuto - è nato dall'invasione russa, moralmente e giuridicamente da condannare e condannata, senza se e senza ma, a cui hanno fatto e stanno facendo seguito uno scempio di umanità e di vita del popolo ucraino e una legittima resistenza armata».

Parole sideralmente lontane non solo dalle vecchie uscite che lasciavano trasparire simpatie per Mosca e ostilità per il governo di Kiev, ma distanti anche dalle posizioni prese nei giorni scorsi, quando l'Anpi ha chiesto una commissione d'inchiesta sul massacro di Bucha, professandosi contraria all'invio di armi a Kiev. 

Per questa linea, l'Anpi era stata contestata da mezza sinistra, e anche dalle altre organizzazioni partigiane, che invece hanno sposato apertamente la causa ucraina, considerandola come una sorta di riedizione della «nostra» Liberazione.

Mattarella venerdì ha chiarito ogni dubbio: «La solidarietà che va espressa e praticata nei confronti dell'Ucraina deve essere ferma e coesa» ha ammonito, biasimando «il disinteresse per le sorti e la libertà delle persone» e spiegando che «l'attacco violento della Federazione Russa al popolo ucraino non ha alcuna giustificazione». 

Ieri Pagliarulo ha provato ad atteggiarsi a vittima, dicendosi amareggiato per gli attacchi e denunciando la «demonizzazione di una posizione che - ha garantito - non è solo dell'Anpi, ma comprende «tanta parte del mondo cattolico e laico». 

In realtà, le sigle partigiane «azioniste» e cristiane hanno preso le distanze da lui, e il 25 aprile si apprestano a celebrazioni separate. Lunedì mattina Fiap, Fivl, Anpc e altre si ritroveranno in largo di Torre Argentina, a Roma, per un'iniziativa con «Più Europa» e «Azione», il cui slogan non potrebbe essere più chiaro («La resistenza ucraina è la nostra resistenza»).

Nella grafica campeggia un pugno coi colori dell'Ucraina e dell'Ue. I giovani di Forza Italia intanto alzeranno le insegne degli Alleati. E se l'Anpi continua a ripetere come un mantra che «la parola d'ordine è pace», i vertici della Fiap - fondata da Ferruccio Parri - ricordano che il 25 aprile «non è la festa della pace ma della fine di una guerra».

Giorgio Bocca, la libertà e la «lunga vacanza» della guerra partigiana. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 22 Aprile 2022.  

Dal viaggio attraverso il fascismo alla Resistenza nelle valli cuneesi. 

La storica rubrica di Giorgio Bocca sull’Espresso si intitolava L’anti-italiano. Bocca pensava non solo se stesso, ma il suo Piemonte come un’anti-Italia: una piccola patria che assomigliava al Paese sognato da Beppe Fenoglio, «una cosa alquanto piccola, ma del tutto seria». Onestamente oggi possiamo dire che non è andata così: perché l’Italia nel mondo globale si è in effetti rimpicciolita; ma si può definire in qualsiasi modo, tranne che «seria».

Eppure, pur essendo giustamente critico verso l’Italia, Giorgio Bocca era profondamente non solo piemontese, ma italiano. La sua generazione, e lui personalmente, aveva fatto «il lungo viaggio attraverso il fascismo». Il giovane Bocca non era uno di quei piemontesi un po’ moralisti della generazione precedente, alla Duccio Galimberti — eroica figura —, che il fascismo l’avevano sempre avversato. In quello straordinario libro che è Il provinciale, lo stesso Bocca scrive: «La signora Ravenna del centro di documentazione ebraico aveva trovato negli archivi una mia recensione ai Savi di Sion, che era un sunto nudo e crudo del testo che non sapevo apocrifo e che comunque non mi importava che lo fosse, dato che era una recensione chiestami dal federale per uno dei soliti ordini giunti da Roma. L’avevo completamente rimossa, ero stato vicino agli ebrei di Cuneo durante la persecuzione, vicino durante la guerra partigiana, amico dopo, mi sembrava che quel ritaglio fosse saltato fuori dal cilindro di un prestigiatore. Ma c’era e la Ravenna mi perseguitò per anni. A qualsiasi dibattito andassi li vedevo seduti in prima fila, lei o un suo incaricato, con nelle mani i volantini che riproducevano la recensione, e finalmente imparai a liberarmene dicendo così, subito: “Vedo in prima fila la signora Ravenna del centro di documentazione ebraico che è qui per rivelarvi che sono stato nei Guf e che ho scritto una recensione ai Savi di Sion”. Ci scherzavo anche con gli amici ebrei di Milano e di Courmayeur, ma coglievo sul loro viso come un riflesso condizionato: va be’ non parliamone, ma l’hai scritta». E ogni volta che io rileggo quel «ma l’hai scritta» mi vengono i brividi, perché penso che un vero grande è sempre duro con se stesso, e Bocca con se stesso è davvero feroce.

Ma cos’altro poteva fare, per riscattare quella recensione e la gioventù in camicia nera, che prendere le armi dopo l’8 settembre, non arrendersi ai tedeschi, salire in montagna e combattere due inverni di guerra partigiana?

È bello che ora un paese in provincia di Cuneo carico di storia come Dronero, il paese di Giovanni Giolitti, dedichi a Giorgio Bocca una piazza . Lui magari farebbe finta di nulla, mugugnerebbe, ma sotto sotto ne sarebbe felice. A rileggere oggi le sue pagine, si capisce subito che ha sparato: le sue parole arrivano dritte come fucilate. E Bocca racconta come la guerra partigiana sia stata l’esperienza più bella della sua vita: una sensazione totale di libertà, l’idea che stai facendo una cosa giusta, e seppure in condizioni drammatiche stai facendo — sono parole sue — anche una sorta di «lunga vacanza», girando per le valli cuneesi in moto d’estate a sugli sci d’inverno, senza un soldo in tasca, imbattendosi in una fioritura quasi miracolosa, bevendo il vino offerto dai contadini — «meglio che lo apriamo noi dei tedeschi» —, sfiorando la morte con la sensazione di essere immortale. Con la consapevolezza che la Resistenza non appartiene a una fazione, ma alla nazione; non è il patrimonio di una parte politica, ma di tutti gli italiani.

Mi sono trovato un giorno in una scuola di giornalismo in cui nessuno sapeva chi fosse Giorgio Bocca. Oggi, tutti in gita a Dronero, in piazza Giorgio Bocca.

La marcia della pace e il dilemma della sinistra. La resistenza è morta dopo la Shoah, Hiroshima e il Vietnam: solo il pacifismo difende la lotta partigiana. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Aprile 2022. 

È un venticinque aprile speciale. Molto sentito. Anche da settori della società, dell’intellettualità, della politica e del giornalismo che in passato erano stati abbastanza freddi di fronte a questa ricorrenza. Cosa è successo? La guerra in Ucraina ha cambiato tutto. I grandi giornali, da molte settimane, identificano la guerra di difesa combattuta dall’esercito ucraino contro gli invasori russi come qualcosa di molto simile alla Resistenza italiana. E di conseguenza mostrano i valori e le glorie della lotta partigiana come prova della giustezza di sostenere con le armi, anche con le armi di attacco, il diritto all’indipendenza dell’Ucraina. E di conseguenza polemizzano coi pacifisti che domani si raduneranno a Perugia, nel nome di Capitini, per marciare fino ad Assisi e chiedere il cessate il fuoco.

Penso che ci siano da fare due ragionamenti. Uno riguarda la Resistenza, l’altro riguarda il pacifismo e il diritto alla difesa. La Resistenza italiana (ma anche, in misura minore, perché meno ampia, quella francese) fu un fenomeno politico importantissimo. Che condizionò pesantemente – e io credo positivamente – gli equilibri politici del dopoguerra. Producendo, tra gli altri effetti, una Costituzione di tipo socialista. Sul piano militare ebbe un peso, ma meno rilevante. L’Italia alla fine fu liberata dagli eserciti inglese e americano, le battaglie decisive furono combattute in Sicilia, poi a Cassino, poi sulla linea Gotica, infine sull’appennino emiliano. Sul piano militare la Resistenza organizzò una guerra di guerriglia soprattutto nelle montagne del nord e poi nella grandi città , specialmente a Roma, che diedero qualche vantaggio agli alleati. Sia sul piano politico che su quello militare (e da questo punto di vista il piano militare fu fondamentale) la Resistenza fu dominata dal partito comunista.

Palmiro Togliatti, che partecipava al governo unitario che si era insediato al Sud presieduto prima da Badoglio poi da Bonomi, la ispirava. I suoi uomini più importanti (Longo, Secchia, Pajetta, Amendola, Boldrini, Curiel) la guidavano sul campo. Anche i socialisti ebbero un ruolo importante (Pertini, Lombardi), ma non prevalente come quello dei comunisti. Poi c’erano alcune brigate “bianche” cristiane, ma non particolarmente forti. E infine c’erano gli azionisti e i liberali, ma soprattutto gli azionisti risentirono fortemente dell’egemonia comunista. I liberali erano molto pochi, a memoria mi viene in mente solo Edgardo Sogno, che poi fu perseguitato negli anni 70. Dico questo perché oggi trovo abbastanza curioso questo entusiasmo per la resistenza e il suo valore fondante della democrazia, espresso da ampi settori di una Italia legittimissimamente ma fortemente anticomunista.

Ora però mi chiedo. La resistenza è attuale? Penso di no. Da quando si è conclusa sono successe cose sconvolgenti. Abbiamo saputo della Shoah. Dello sterminio. Abbiamo assistito a Dresda rasa al suolo senza motivo dall’aviazione inglese (uno dei più giganteschi crimini di guerra della storia). Abbiamo visto Hiroshima. Abbiamo saputo della macelleria staliniana. Abbiamo guardato indignati la barbarie della guerra del Vietnam. Secondo voi è sufficiente tutto questo per far sospettare alle menti più illuminate (e fu così per personaggi come Einstein, Bertrand Russel, Capitini, Dolci, Curie, Picasso e parecchi altri di questo stesso livello) che la guerra non abbia più nessun senso. Che possa solo distruggere politicamente, economicamente, culturalmente e umanamente chi la combatte? Vinti e vincitori. Io penso di si. E non capisco perché la sinistra si dilani nel dubbio tra Resistenza e pacifismo. Io penso che solo il pacifismo possa servire a difendere l’idea e la grandiosità della lotta partigiana.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il paradosso dell'Occidente guerrafondaio. Difendete la democrazia a Kiev, poi tacete sul massacro dei poveri. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 24 Aprile 2022. 

Viviamo ormai in tempo di guerra. La frase è dura da dire perché la guerra sembra incongrua con questo nostro mondo contemporaneo. Pur sempre orribile, era sembrata lontana, semmai ci sentivamo minacciati dal rischio totale della guerra atomica, la guerra mondiale. Ora la guerra ce l’abbiamo addosso, in uno dei pezzi nei quali essa assume la sua forma attuale. La guerra scatenata dall’aggressione della Russia di Putin in Ucraina è una delle oltre 60 che occupano la scena del pianeta. La terza guerra mondiale a pezzi coinvolge ora direttamente l’Europa.

Al tempo della pace, almeno come volontà dichiarata da tutti i protagonisti della scena mondiale e come tendenza di fondo avvertita come necessità storica, tendenza che ha connotato di sé tutto il secondo dopoguerra, dopo la vittoria contro il nazifascismo, ora siamo piombati nel tempo di guerra. L’orrore delle cronache di distruzione e di morte che provengono dall’Ucraina non si diluisce, se si allarga lo sguardo fino a comprendere tutte le guerre in atto nel mondo intero. Niente può sovrastare la distruzione di vite umane e con essa la sistematica aggressione del partito della guerra alle culture di pace e al patrimonio di umanità di cui, invece, avremmo ancor più bisogno oggi. Le conseguenze sociali anche sulle popolazioni non direttamente coinvolte non sono solo un danno collaterale, sono parte esse stesse della guerra. Già oggi possiamo misurarle e vedere quali conseguenze drammatiche producono nella vita di intere popolazioni, di classi, di ceti sociali, soprattutto in quelle già provate e disposte al rischio di povertà.

Bisognerebbe da questo punto di vista che ogni analisi, ogni discorso sulla guerra, incominciasse e finisse con la mai sufficientemente citata ballata di Bertolt Brecht: “La guerra che verrà non è la prima, prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti, fra i vinti la povera gente faceva la fame, fra i vincitori faceva la fame la povera gente, ugualmente”. Ora incominciano a fare la fame per la guerra anche popoli non direttamente coinvolti in essa. In questa guerra sono venute assumendo un peso forte le sanzioni economiche, quelle annunciate in un crescendo senza fine e quelle concretamente già effettuate. Le conseguenze pesano su chi le subisce, ma anche su chi le adotta. Qui non si discute sull’efficacia politico-strategica delle sanzioni, solo si constata che esse non colpiscono i governi, gli Stati, ma i popoli. Oggi Brecht dovrebbe allargare il campo delle povertà indotte dalla guerra, oltre i contendenti diretti, oltre l’aggredito e l’aggressore, oltre vincitori e vinti.

La storia della fame nel mondo vede aprirsi un nuovo spaventoso capitolo. Se si guarda a una delle ragioni economiche della guerra nel Donbass, il possesso delle risorse contenute nelle sue terre e nella sua storia economico-sociale, e la si mette in relazione con la carestia che investe le popolazioni dell’Africa subsahariana, dall’Eritrea al Senegal, non si può non esserne colpiti. Queste zone dipendono per oltre il 50% delle importazioni di grano da Russia e Ucraina. Nel Nordafrica e in Medio Oriente ci sono Paesi che importano fino al 90% del loro cibo, mentre la maggioranza dei bambini soffrono già di malnutrizione. Adesso cosa sta accadendo loro? Il rischio di carestia si fa immanente, a causa proprio degli effetti della guerra, degli aumenti dei prezzi e del blocco dei trasporti. I prezzi dei prodotti alimentari sono diventati i più alti degli ultimi 30 anni, chi ne paga le conseguenze? C’è un interrogativo politico che cresce in questi Sud del mondo, proprio di fronte alla guerra e alle sue conseguenze economiche e sociali. Esso sta già prendendo la forma di “prima il pane, prima la vita”, prima della stessa natura dei regimi politici, prima della democrazia. Mi ha colpito quel che ha detto Marwa, una giovane professoressa tunisina. Undici anni fa, Marwa si era mobilitata contro il regime di Ben Ali, era andata in piazza per chiedere democrazia, aveva lottato per questo.

Oggi è ancor lei, con i suoi ideali, ma ha detto una cosa che dovrebbe far pensare anche in questa parte del mondo, quello che si autodefinisce “Occidente”. Marwa ha detto: «Possiamo rinunciare a tutto, ma non al pane, senza il pane siamo un paese finito». E ancor più dovrebbe far riflettere ciò che Marwa ha detto dopo, quando ha detto che la democrazia non è più la sua priorità. Ha detto infatti: «Non importa se c’è o no il Parlamento, oggi l’importante è che il presidente risolva la crisi alimentare che sta vivendo il Paese». Pane e pace era la bandiera del Movimento operaio delle origini. Non è certo un caso se torna così prepotentemente d’attualità nel tempo della guerra e se ci viene portata dal Sud del mondo, dalle povertà, ma non è solo del Sud. Se riesci a bucare la coltre costituita dall’informazione organizzata per il consenso e dalla morte della politica istituzionale allora puoi già vedere cosa si genera nel profondo delle realtà sociali, della società civile anche qui, in Italia e in Europa. È una realtà che si vorrebbe nascondere trasformando attraverso un’operazione ideologica tanto rozza quanto diffusa nelle classi dirigenti, la guerra di invasione in Ucraina in una contesa generale tra autoritarismo e democrazia.

Per farlo, si nasconde persino che se così fosse la seconda sarebbe in termini di popolazioni interessate a stretta minoranza nel mondo, così come si nasconde che il discrimine che si vorrebbe fissare con la guerra e con gli aggressori non dovrebbe valere mai per i mercati, per la finanza, per gli scambi, in realtà per l’economia. Ma le parole che vengono dalla Tunisia smascherano il trucco ideologico perché ci conducono a interrogarci sullo stato delle nostre democrazie, quelle che ora vengono assolutizzate e mondate di ogni loro peccato solo per dare una certa veste ideologica alla guerra, assai diversa dalla sua natura concreta. Perché prima il pane e non insieme pane e pace? Pane e democrazia? Perché sebbene i termini molto diversi, in Europa come in Tunisia, la democrazia reale, quella in cui viviamo, ha tradito le promesse della democrazia. Nella sua promessa c’era il pane per tutte e per tutti, al di là della metafora, in Italia la promessa della Costituzione democratica, diversamente da quelle liberali, è stata proprio quella di considerare la democrazia come sinonimo di eguaglianza. I ceti abbienti possono in certi tempi frequentare i terreni della democrazia a prescindere, il popolo no.

Il popolo deve poter dare un senso dalla democrazia attraverso le aspettative di futuro, la natura dei rapporti sociali in atto, le possibilità concrete di migliorare la propria condizione di lavoro e di vita. I costituenti della repubblica italiana lo avevano ben chiaro e lo avevano reso cultura del tempo con il rapporto fissato tra democrazia e uguaglianza. Se non vuoi guardare alla devastazione della guerra, all’impoverimento delle genti, guarda come ha votato la Francia e prova a capire come voterà. L’alternativa non è tra libertà e condizionatore, come sgangheratamente ha avuto modo di dire il nostro presidente del Consiglio. Non è cioè tra libertà e bisogni da soddisfare. La prima alternativa è tra pace e guerra, solo nella pace ci può essere la giustizia sociale e una democrazia di massa viva e partecipata. Per questo, un’alternativa allo stato di cose presenti, alle attuali politiche dei governi, si costituisce dal basso, con l’impegno nella società, coniugando l’impegno per la pace con quello per il soddisfacimento dei bisogni, in una pratica sociale, politica e culturale che è il fondamento di ogni democrazia vivente. Di questo parla già intanto, come può, la marcia Perugia-Assisi.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Il diritto alla resistenza. Il popolo ucraino ha diritto alla resistenza, che danni fa il pacifismo. Riccardo Magi su Il Riformista il 23 Aprile 2022. 

Tra due giorni celebreremo la Liberazione, celebreremo cioè lo strettissimo legame tra Resistenza, Liberazione, Costituzione che semplicemente non sarebbe esistito e non avrebbe dato i suoi preziosi frutti se in quei durissimi anni tra la fine della guerra e la nascita della Repubblica avesse prevalso l’opzione della resa. L’attuale situazione del conflitto russo-ucraino è di tutta evidenza profondamente diversa, ma ci sta imponendo una riflessione e un’assunzione di responsabilità politica, culturale e istituzionale sul che fare di fronte a un’aggressione militare in Europa da parte della potenza nucleare russa. Ci ripropone anche – seppure con sembianze nuove, come sempre avviene nella storia – quello che Agnes Heller definiva il paradosso dell’Europa: “L’Europa del fanatismo nazionalista e l’Europa dell’universalismo umanista sono la medesima Europa. L’Europa è l’incarnazione di un paradosso. […] Gli stati nazionali e la loro ideologia di governo, il nazionalismo, fanno la loro comparsa proprio con il credo universale del valore dell’Umanità”.

Il fanatismo nazionalista putiniano, che pure ha delle radici storiche extraeuropee e zariste e sovietiche sue proprie, ha trovato forti legami e corrispondenza in strati non insignificanti delle opinioni pubbliche europee. Ciò a dispetto della compattezza iniziale che l’Ue e l’Occidente democratico hanno mostrato nelle risposte all’aggressione. Tale complicità, con fatica e qualche imbarazzo, è nascosta e dissimulata per convenienza dalle principali forze politiche sovraniste europee. Ma una complicità di fatto si ritrova proprio nel cosiddetto pacifismo radicale, che preferirei definire pacifismo estremista. Il direttore Sansonetti ha rifiutato da queste pagine la contrapposizione tra pacifismo e nonviolenza, non accettando che si sostenga la loro inconciliabilità. Su questo dissento profondamente, restando convinto che la lettura pannelliana sia illuminante e soprattutto sia illuminata dall’esperienza storica.

Era il febbraio del 1991 quando Marco Pannella rispondendo alla domanda di Paolo Franchi: “Pannella, come mai, anche nei suoi discorsi in congresso, tanta polemica contro il pacifismo?”, scandiva: “Perché i giovani sappiano, i vecchi ricordino e si cessi di ingannarli: il pacifismo in questo secolo ha prodotto effetti catastrofici, convergenti con quelli del nazismo e del comunismo. Se il comunismo e il nazismo sono messi al bando, il pacifismo merita di accompagnarli”. Franchi lo incalzava: “Resta il fatto che, con la guerra, l’idea stessa di nonviolenza è stata sconfitta…”. “No, e nemmeno la forza politica non violenta, visto che non è mai esistito in modo organizzato con una strategia politica dell’oggi per l’oggi. Non violenza e democrazia politica devono vivere quasi come sinonimi. Da un secolo non vi sono guerre tra democrazie, diritto e libertà sono la prima garanzia. E il pacifismo storico, nei fatti, lo ha sempre ignorato”. La nonviolenza non è ascesi né testimonianza, ma uso della forza legittima contro l’oppressore. Quando c’è la guerra perché un esercito ha aggredito un paese sovrano l’uso legittimo della forza comprende necessariamente come extrema ratio l’uso delle armi.

Sostenere che la resa avrebbe garantito minori sofferenze significa, a parere di chi scrive, non avere compreso l’obiettivo di cancellazione dell’Ucraina e della sua società come soggettività storico-politica sovrana. Questo significa denazificazione. Per questo continuo a sostenere che non si possa non aiutare in ogni modo il popolo ucraino costretto all’uso delle armi per non soccombere e per ristabilire il diritto contro l’uso brutale della forza che viola il diritto. È una decisione difficile e con le sue contraddizioni che impongono azioni politiche immediate sul piano delle giurisdizioni internazionali, della diplomazia, delle sanzioni, del rilancio dell’integrazione politica europea. Azioni che con fatica sono state messe in atto e che richiedono lo sforzo di tutti. Preferisco rischiare l’incoerenza agli occhi di alcuni, sostenendo l’invio di armi e dovendo sempre aggiungere che considero mortale la convinzione che la guerra sia una continuazione della politica, piuttosto che vivere un atteggiamento di indignata contemplazione che si traduce in complicità con l’aggressore. E in definitiva nella conferma che chi aggredisce vince sempre.

“Il pacifismo, è terzaforzista tra colui che fa il genocidio e il popolo che è sottoposto al genocidio –avvertiva Pannella– da questo secolo è la vergogna della nonviolenza ghandiana”. E proseguiva “è vergognoso, come diceva Gandhi, che quando bisogna lottare in difesa dei diritti di vita, devi scegliere tra il non farlo e il farlo con le armi. A questo punto, diceva Gandhi, meglio il violento che difende il non violento sui diritti negati contro l’oppressione, che non il codardo che non fa nulla. La cifra dell’Europa è la cifra della codardia prima di questo intervento perché ha portato alla supremazia del nazismo prima, e del comunismo poi e alle dittature come quelle di Milosevic.’’

La costruzione dell’Europa politica si è animata o rianimata solo sotto la pressione di gravissime crisi.

L’integrazione europea nasce dalla Resistenza europea, o almeno da una minoranza in essa, più lucida e lungimirante. Oggi si può e si deve rianimare grazie alla Resistenza ucraina che è resistenza europea. Con questo spirito il 25 aprile saremo in piazza a Roma con la Federazione Italiana Associazioni Partigiane, l’Associazione nazionale partigiani cristiani, la Federazione Italiana Volontari della Libertà, l’Associazione nazionale ex deportati nei campi nazisti, l’Associazione Nazionale Famiglie Vittime Martiri Fosse Ardeatine e l’Associazione Cristiana Ucraini in Italia. Riccardo Magi

Appunti per il 25 aprile. L’eccidio di Calvi, Bucha e la lezione della (vera) Resistenza. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 23 aprile 2022.

Premiando gli autori del massacro in Ucraina, Putin si è comportato come Hitler che nel 1944 insignì delle massime onorificenze i soldati del gruppo di combattimento Schanze, autori della strage nel piccolo borgo umbro.

Mentre si avvicinava l’Anniversario della Liberazione ascoltavo o leggevo le opinioni di algidi aedi putiniani dagli occhi di ghiaccio chiedere le prove per attribuire all’esercito d’invasione russo l’eccidio di Bucha e le stragi di civili commesse in Ucraina. Forse è per questo che – qualche settimana dopo i fatti di Bucha – partecipando all’inaugurazione di una piazza dedicata ai 12 civili assassinati dai nazisti e dai repubblichini il 13 aprile del 1944 a Calvi dell’Umbria, il borgo nel quale vivo da qualche anno, mi sono domandato se in quella lontana storia potesse esservi qualche insegnamento valido anche oggi. 

La strage di Bucha, per gli aedi di Putin, non è mai esistita. Quella di Calvi, allora territorio della Rsi, fu presto dimenticata. Una lapide posta sul luogo dell’esecuzione nell’inverno del 1944, poi l’oblio. Fino alla meritoria intitolazione di una piazza voluta dall’attuale sindaco Guido Grillini. 

A squarciare il velo fu la scoperta del cosiddetto Armadio della Vergogna, dove nel 1994 il procuratore militare Antonio Intelisano, che indagava sui crimini del capitano Herbert Priebke, responsabile della strage delle Fosse Ardeatine, scoprì 695 dossier immotivatamente insabbiati nel 1960 sui crimini commessi dai nazifascisti nel 1943/45. 

Quella di Calvi dell’Umbria era una delle stragi insabbiate. Per il numero delle vittime e la crudeltà dei modi, tra le più feroci. Furono accertate le responsabilità dei caporioni fascisti locali: Giunio Faustini, il figlio Vittorio e Bruno Proietti e di ignoti militari tedeschi, ma, a causa di quell’archiviazione, non si giunse mai a un processo. 

Nel piccolo borgo medievale arrampicato sulla collina e dominato dal monte San Pancrazio oggi molto è cambiato, ma non tutto. I muri attorno alla piazza, per esempio, ospitano i murales sulla natività dipinti da tanti artisti a partire dal 1982. I luoghi dove tutto è avvenuto, tuttavia, racchiusi in poche centinaia di metri, sono ancora lì: la Chiesa di Santa Brigida che domina la piazza, così come il convento delle Orsoline subito dietro, e i palazzi antichi. «Vedi quella casa dopo l’arco? Qui c’era l’abitazione e la locanda di una famiglia che fu sterminata, e lì il negozio del barbiere, fucilato anche lui e in quell’angolo, dove ora c’è il minimarket, c’era la caserma dei carabinieri dove furono trattenuti i prigionieri. E questo, dove ora c’è una lapide è il luogo dove furono fucilati». Mi racconta Ugherio Stentella, che da anni, insieme ad altri, tiene viva la memoria di quella strage.

Ho cominciato a interessarmene grazie al mio compianto amico Nevio Bacocco, scomparso a causa del Covid nel febbraio del 2021. Nevio, insegnante, ma soprattutto maestro di vita, con i suoi ragazzi ha raccolto le loro storie, oltre otto ore di interviste ai sopravvissuti e ai discendenti delle vittime. 

Durissima e feroce la primavera del 1944 sull’appennino umbro, logisticamente strategico per l’esercito nazista che risale verso nord. La zona montuosa tra le province di Terni e Rieti è teatro di stragi feroci come quella di Leonessa, il 7 aprile. Tra il 12 e il 14 l’esercito nazista attua l’operazione “Osterei” (Uovo di Pasqua) contro le Brigate partigiane che rendono difficile la ritirata. Tra Narni, Otricoli, Poggio operano le brigate “Gramsci” e “Manni che il 12 sul Monte San Pancrazio ingaggiano uno scontro nel quale diversi di essi cadono. Nel corso del rastrellamento, nazisti e i fascisti fermano circa centro civili. Tre agricoltori (Pielicè, Pettorossi, Carofei), sono assassinati nella frazione di Santa Maria della Neve, il giorno stesso. Gli altri, sono portati nella caserma dei carabinieri. Dodici di essi sono scelti per la fucilazione, la lista è compilata dai fascisti locali.

Ecco l’alba del 13 aprile. Ecco il nostro Spoon River, nella storia di ognuno di quei dodici: «Adolfo, Emilio, Gino, Ernesto e Genesio Guglielmi, quest’ultimi di appena 16 e 17 anni, un’intera famiglia o quasi – racconta lo storico Sergio Bellezza che, insieme a Ugherio Stentella studia da anni i fatti – A scampare alla strage soltanto uno dei fratelli, che al momento del rastrellamento si trovava in campagna dalla fidanzata. La famiglia Guglielmi conduceva a Calvi un piccolo albergo e dava asilo, secondo l’accusa, a elementi partigiani. Inoltre, Emilio, richiamato come carabiniere dopo l’8 settembre, si sarebbe dato alla macchia con altri antifascisti, cui la famiglia forniva vivevi e dava assistenza».

Il professor Bellezza racconta anche un particolare agghiacciante: «Per fare in modo che i due ragazzi, Ernesto e Genesio, potessero essere fucilati insieme agli adulti dovettero issarli su due massi, perché i due adolescenti erano notevolmente più bassi». 

E poi gli altri, ognuno dei quali aveva mille ragioni per vivere e una sola per morire: essere antifascisti o partigiani o essere denunciati dai delatori fascisti come tali: «Il dott. Salvati, medico condotto del Paese, ufficiale medico nei campi di concentramento di Vetralla, Colfiorito e Passo Corese. Dopo l’armistizio era tornato a Calvi, dove esternava liberamente i propri sentimenti antifascisti e prestava cura a elementi partigiani e militari alleati. Il barbiere del posto, Liberato Montegacci, noto oppositore al regime; Fabrizio Fabbri, fucilato perché gli erano state trovate in casa alcune cartucce durante la perquisizione. In realtà s’era sempre rifiutato di fornire viveri alle truppe tedesche e ai repubblichini. Ernesto Sernicola era invece ritenuto un collaboratore dei partigiani e accusato d’aver nascosto 8 inglesi fuggiti dai campi di prigionia. I documenti non riportano le imputazioni a carico di Mario Ranucci, Antonio Lieto e Olindo Landei, il primo da poco residente a Calvi, ma nativo di Greccio, gli altri rispettivamente di Casapulla e Contigliano. Il fatto che non fossero del posto lascia pensare che si trattasse di combattenti alla macchia». 

Conclude il professor Bellezza: «Rimangono i fatti dolorosi e cruenti, che fin d’allora testimoniano il dramma della guerra e la barbarie degli uomini. Esperienze che pensavamo d’aver ormai consegnato alla storia, ma che stiamo rivivendo con l’attacco all’Ucraina da parte della Russia di Putin».

Mi domando cosa penserebbero gli adolescenti Ernesto e Genesio se ascoltassero in tv un Narciso che insegna storia dell’arte dire che i giovani italiani presero le armi perché erano sicuri della vittoria, grazie all’appoggio degli angloamericani, mentre i giovani ucraini di oggi sono solo dei suicidi? Caro professore, venga qui, ascolti queste storie e si chieda se davvero, in quella tragica primavera del 1944, fosse tutto così facile come oscenamente afferma lei per giustificare il fatto che non bisogna dare armi ai resistenti ucraini. 

Quanto al capire da che parte stiano i nazisti in Ucraina, basti pensare che così come oggi Putin premia gli autori del massacro di Bucha, nel 1944 Hitler insignì delle massime onorificenze i soldati del gruppo di combattimento Schanze, autori degli eccidi sulle montagne umbre.

Il pacifismo è il partito della resa altrui. Giancristiano Desiderio su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2022.

Al tempo della guerra in Vietnam, i pacifisti chiedevano agli americani di andarsene non certo ai vietnamiti di arrendersi.

Quando si discute di pace e di pacifismo non bisognerebbe mai dimenticare che gli stessi pacifisti, vuoi ingenuamente vuoi consapevolmente, sono stati usati nella storia del Novecento come delle armi per delegittimare il nemico. Non è un mistero per nessuno — o almeno non dovrebbe esserlo — che il movimento pacifista fu strumentalizzato dal Pci che era attentissimo nel mostrare le guerre in atto e in potenza degli Stati Uniti ma era distratto sulle azioni e intenzioni belliche dell’Unione Sovietica. Vi è nel pacifismo un’ambiguità di fondo, colta molto bene anni fa da Gabriella Mecucci nel libro Le ambiguità del pacifismo , che andrebbe sempre dissolta per evitare che il giusto sentimento di pace degli uomini pacifici e di buona volontà sia trasformato in un’arma di propaganda dal pacifismo ideologico. Purtroppo, dimenticando o ignorando la tragica storia totalitaria del Novecento, il pacifismo dei nostri giorni è riuscito persino a passare dalla propaganda alla caricatura.

Infatti, chiedere agli ucraini di arrendersi per avere la pace, che sarebbe una sottomissione, è ridicolo e immorale ossia grottesco. Al tempo della guerra in Vietnam, i pacifisti non chiedevano ai vietnamiti di arrendersi ma agli americani di andarsene. Oggi perché non si chiede alla Russia di Putin di abbandonare l’Ucraina? Perché si incontrano due tabù: da una parte gli Usa e dall’altro la Russia che per molti pacifisti italiani, tanto di sinistra quanto di destra, sono nient’altro che i loro fantasmi mentali che non hanno superato. Purtroppo, non è solo un problema privato. È anche una grande questione pubblica: è la fragilità della nostra democrazia vista dal lato della politica estera. Quella più importante. Il pacifismo italiano è, allora, una sorta di partito della resa altrui che vive con risentimento ancora nella politica dei due blocchi e desidera la pace come sconfitta del mondo che ha vinto la «guerra fredda»: le democrazie occidentali, noi stessi.

Pacifisti a senso unico. Quel retaggio del Pci che fa tifare per Putin. Riccardo Mazzoni su Il Tempo il 20 aprile 2022.

In Italia - ma non solo - sulla guerra in Ucraina è in atto un nuovo dialogo tra sordi, esattamente com’è avvenuto per il Covid, e se nel caso del virus il negazionismo nasceva dall’antiscientismo, il retaggio «pacifista» che ripudia la realtà dei missili russi e oscura le coscienze trova invece le sue radici nell’antiamericanismo, malattia senile di tanta intellighenzia occidentale. Secondo l’ultimo sondaggio Demos, quasi la metà degli italiani ritiene l’informazione sul conflitto «distorta e pilotata», mentre uno su quattro la giudica addirittura faziosa, con il corollario disperante di percepire le immagini dei massacri come artefatte dai media. Insomma, per questa fascia non marginale di opinione pubblica le devastazioni che ci giungono in tempo reale dalle città ucraine sarebbero solo un’illusione ottica indotta dalla propaganda occidentale. 

Sono dati che fanno riflettere, perché questo sentiment si è diffuso sotto la pelle del Paese senza nemmeno bisogno delle martellanti fake news fabbricate dal regime di Mosca. Ma non c’è bisogno di un’approfondita indagine sociologica per risalire alle cause di questo negazionismo: basta parlare con qualche conoscente che in gioventù era stato convinto dal Pci che l’Urss era il paradiso in Terra, al punto da tifare per la Nazionale sovietica quando incontrava l’Italia. Resta insomma una fazione di irriducibili che non si rassegna a prendere atto della sconfitta storica del comunismo e sogna ancora la rivincita, per cui l’invasione dell’Ucraina appare ai loro occhi, magari solo in modo subliminale, come un’occasione di riscatto per la Grande Madre Russia. Il ragionamento che fanno è più o meno questo: «Il modo con cui le televisioni ci stanno descrivendo la guerra è nauseante... mi fanno diventare simpatico perfino Putin, che finora per me era stato solo uno dei distruttori, dopo Gorbaciov e Yeltsin, dell’impero sovietico. La guerra è guerra, e da che mondo è mondo significa morte e distruzione: perché dunque tutta questa enfasi? E perché non c’è stata altrettanta indignazione quando l’America ha fatto per decenni le sue porcherie in mezzo mondo, dal Vietnam ai golpe in America Latina fino alle guerre in Libia, contro la Serbia e poi in Iraq e in Afghanistan?». 

È del tutto inutile, davanti a una pregiudiziale ideologica così assoluta, replicare che gli Stati Uniti hanno certo commesso errori anche tragici nella loro storia, ma che senza lo sbarco in Normandia tante generazioni europee avrebbero probabilmente vissuto sotto il nazismo, e che una cosa sono stati i conflitti per esportare la democrazia – anche se è una dottrina palesemente fallita – e altra invece è un’invasione tesa a cancellare uno Stato sovrano e la sua democrazia. È una distinzione che non fa presa in chi intimamente sente ancora l’Occidente come il suo nemico ancestrale, un mondo di disuguaglianze che dovrebbe fare penitenza per il suo passato coloniale, ma soprattutto per aver vinto il comunismo, che è stato un incubo per centinaia di milioni di persone, ma che nella mente di questi inguaribili nostalgici resta un’utopia non realizzata ma giusta per il progresso umano. È lo stesso negazionismo che induce a leggere con gli occhiali distorti dell’ideologia le attuali, tragiche vicende ucraine: si nasconde la realtà dei fatti descrivendo la guerra in atto come uno scontro tra opposte volontà violente, chiedendo a entrambi i contendenti di «fermarsi» senza mai distinguere tra i criminali di guerra e i civili massacrati, o tra gli aggressori e i resistenti. E quasi intimando a Zelensky di giustificarsi perché non si arrende. 

Controcorrente, Edward Luttwak impallina i pacifisti italiani: cosa hanno in comune cattolici e comunisti...Il Tempo il 20 aprile 2022.

L'opinione pubblica italiana è intrisa di pacifismo ideologico e anti-americanismo a causa dell'influenza della Chiesa cattolica da una parte e del retaggio comunista dall'altra. Il giornalista americano Edward Luttwak affronta di petto il tema delle resistenze, nell'opinione pubblica italiana, nei confronti di un sostegno incondizionato all'Ucraina sotto l'attacco della Russia. "È una questione culturale" dice il giornalista esperto di politica estera mercoledì 20 aprile a Controcorrentee, il programma condotto da Veronica Gentili su Rete 4. "La chiesa cattolica è contro la strategia e contro il calcolo guerra-pace", afferma Luttwak che prosegue dicendo che per il cattolicesimo chi è attaccato ha una sola opzione, "la resa. La Chiesa dice che gli ucraini si devono arrendere".

Poi c'è la dottrina degli ex comunisti "che non c'è più ma è rimasto un residuo di puro anti-americanismo che non ha alcun senso logico", attacca davanti a Mario Capanna, leader del movimento giovanile del Sessantotto e ai tempi segretario di Democrazia Proletaria.  La differenza tra l'Italia e gli altri paesi europei, conclude il giornalista americano, è che qui ci sono "i cattolici e i comunisti inconsci". Insomma, per Luttwak in realtà i pacifisti italiani hanno il solo obiettivo di dare contro agli Stati Uniti. 

Il senso dimenticato dell'eroismo. Vittorio Macioce il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

I rintocchi di mezzogiorno non hanno avuto risposta. A Mariupol lo sanno per chi sta suonando la campana. Non serve chiederselo. I russi sono stati chiari. «Avete due ore per lasciare la città». Si chiama ultimatum e serve a chi semina morte per lavarsi la coscienza. È come dire: abbiamo dato loro una possibilità. È la vita in cambio della resa. Chi non lo farebbe? E invece niente, silenzio. Tutto questo mentre Putin si atteggia a bullo globale. Prima annuncia e prepara una sfilata celebrativa della vittoria per il 9 maggio, tra le strade morte della città-simbolo distrutta. Poi mette in mostra - come un Kim Jong-un qualunque - il suo «missile impareggiabile». Lo ha battezzato Sarmat e punta il muso verso Occidente. Ma può spaventare gli spettatori dei tg europei, non la gente di Mariupol.

Le macerie sono l'ultimo riparo, ma quel «basta» non arriva. Non lo dicono i soldati ucraini e non lo dice la città. I bus umanitari attraversano a fatica la linea del fronte e si dirigono verso via Taganrogskaya, la fermata della speranza, e poi faranno tappa alle acciaierie Azovstal, per correre poi verso Zaporizhzhia. È la via della sopravvivenza per bambini, donne e anziani. Solo che non è una fuga. Non c'è ressa. Non ci sono code e gli autobus non sono pieni. Si arriva a piccoli gruppi, con il cuore devastato, perché non più in grado di resistere. Chi può invece ha scelto di restare e questo per noi che stiamo qui è qualcosa di indecifrabile, quasi impossibile da comprendere. Non ci appartiene più. È fuori dall'orizzonte delle nostre vite. Davvero qualcuno è disposto a morire per un'idea? Non sai neppure darle un nome. Che roba è? La puoi chiamare patria o libertà, ma non la senti, non la vedi, non la vivi. È troppo astratta. Ma queste per la gente di Mariupol non sono soltanto parole. Non sono chiacchiere da bar o da salotto televisivo. È la realtà. È il dramma della vita e ti costringe a scegliere. È qualcosa di radicale, al di là del qui e adesso. Non vogliono vivere come vuole Putin. Non vogliono svendere il futuro di chi verrà dopo. Non vogliono sottomettersi.

Allora te lo chiedi: tu lo faresti? Forse no, probabilmente no. Non lo sai, perché ti ci devi trovare, ma dire sì sarebbe disonesto. È come giurare adesso che nel '43 saresti andato in montagna. È come prendersi una patente da antifascista sotto gli applausi del 25 Aprile. Chi lo ha fatto davvero avrebbe capito lo sguardo di chi adesso sta a Mariupol. Solo che non ci sono più. Non c'è più nemmeno quel poeta giovane e illuso che nel 1849 andò a combattere sotto il Gianicolo per una vaga idea di Italia. Anche quello era un sogno impossibile. Cosa ti porta a combattere per la Repubblica romana di Mazzini quando di fronte hai l'esercito francese? Nulla che oggi si possa capire. Un proiettile gli frantumò la gamba e dopo quattro giorni, alle sette del mattino, morì di cancrena. Aveva 21 anni e si chiamava Goffredo Mameli.

Sergio Mattarella, l'Anpi e l'Ucraina: il presidente prende a schiaffi i partigiani filo Putin. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 23 aprile 2022.

Fanno più male gli schiaffi, quando arrivano non dai nemici di sempre o dai compagni che all'occasione si rivelano coltelli, ma quando giungono direttamente dai vertici dello Stato, da chi è super partes e non "partigiano". Fanno più male perché sono manate assestate indossando guanti gialli, come sempre avviene nella prassi istituzionale, e di primo acchito possono sembrare pacche bonarie o addirittura carezze. E invece sono le sberle che lasciano le tracce più profonde e più dolorose.

Perciò deve aver ricevuto una bella botta ieri il presidente dell'Anpi Gianfranco Pagliarulo, quando ha sentito le parole pronunciate dal capo dello Stato Mattarella in occasione dell'incontro con le associazioni combattentistiche e d'Arma in vista dell'anniversario della Liberazione.

RETORICA SMENTITA - Tutta la retorica alimentata in questi giorni dall'associazione dei partigiani, col no all'invio delle armi a Kiev, con le posizioni a dir poco critiche nei confronti dell'Alleanza Occidentale, da cui il no alle bandiere Nato alla manifestazione del 25 aprile, e con dichiarazioni ambigue sulla guerra che hanno fatto sospettare un atteggiamento di equidistanza, è stata smontata, anzi stroncata, grazie a pochi ed efficaci concetti sciorinati dal capo dello Stato.

Il primo è che il pacifismo sterile si risolve in arrendevolezza e spesso in sconfitta: la pace, 77 anni fa come oggi, va conquistata con le armi, combattendo. In nome del parallelismo tra la Resistenza partigiana e la resistenza degli ucraini (analogia, anche questa, rifiutata da Pagliarulo), Mattarella avverte che nel 1943-45 ci fu una «rivolta in armi contro l'oppressore.

Rivolta che fu morale, e poi difesa strenua del nostro popolo dalla violenza che veniva scatenata contro di esso». Insomma, serviva un «popolo in armi per affermare il proprio diritto alla pace dopo la guerra». Chiaro, Pagliarulo? Anche perché, continua Mattarella, è vero che «dal nostro 25 aprile viene un appello alla pace», ma «alla pace, non ad arrendersi di fronte alla prepotenza»...

Detto ciò, l'affondo più forte riguarda la colpevole e complice indifferenza manifestata da alcuni (a buon intenditor...

) verso la vita degli ucraini, come dimostrano le tesi di chi non vuole sostenere la loro lotta armata. Qui il capo dello Stato non va per il sottile, anzi picchia duro: la Seconda guerra mondiale, sostiene, fu «un'esperienza terribile, che sembra dimenticata, in queste settimane, da chi manifesta disinteresse per le sorti e la libertà delle persone». Essere indifferenti verso gli ucraini significa spesso avere atteggiamenti equivoci che portano a giustificare le ragioni dell'aggressore, in nome di presunti torti da questi subiti in passato. Mattarella lo sa e afferma con forza: «L'attacco violento della Federazione Russa al popolo ucraino non ha alcuna giustificazione. La pretesa di dominare un altro popolo, di invadere uno Stato indipendente, ci riporta alle pagine più buie dell'imperialismo e del colonialismo».

Nessuna giustificazione: da ripetere a memoria queste parole, nelle stanze dell'Anpi. 

FRATTURE INTERNE - Che fare, allora, di fronte all'invasore? Barricarsi in un irenismo sterile, ideologico e autolesionista, sperando che il Grande Cattivo si ravveda, o tentare di assecondarlo? Rivendicare l'irripetibilità dell'esperienza resistenziale onde avere la scusa per non schierarsi? No, questa è la ricetta dei vili, non dei combattenti. Lo ricorda ancora Mattarella: oggi serve «lottare contro la sopraffazione in aperta violazione del diritto internazionale». Le sue parole sono state talmente sferzanti da mettere in luce le fratture interne all'Anpi, e cioè le resistenze all'attuale custode della Resistenza. Ecco che allora la vicepresidente dell'associazione dei partigiani, Albertina Soliani, sconfessa la linea di Pagliarulo e afferma di essere «assolutamente in sintonia con le parole di Mattarella. La sua è una profondissima riflessione che condivido. Per questo sostengo che vada riconosciuta la Resistenza ucraina». Parliamo della stessa vicepresidente che nei giorni scorsi aveva definito «inadeguate» le frasi di Pagliarulo, ricordando che «l'Anpi dovrebbe esprimersi diversamente» e che è giusto sostenere militarmente gli ucraini perché «anche i partigiani hanno usato le armi». Nel dramma della guerra vera c'è anche una guerra dialettica, politica e grottesca tra partigiani. A conferma che a ogni tragedia segue una farsa. E che anche i partigiani non sanno più da che parte stare. E quali pesci pigliare. A cominciare da Pagliarulo.

Il 25 aprile spiegato facile. Che cosa c’entra la Nato con la decisione di cancellare l’Ucraina dai libri di scuola? Francesco Cundari su L'Inkiesta il 25 Aprile 2022.

In tanti ambigui discorsi sulla necessità della diplomazia e del compromesso sembra implicita l’idea che gli aggrediti abbiano sì diritto a difendersi, ma senza esagerare. Quali e quante città e villaggi abbiamo deciso che sono dunque sacrificabili? 

Le discussioni sul 25 aprile e la marcia Perugia-Assisi sono le classiche polemiche in cui i già convinti di una parte e dell’altra si convincono ancora di più, ma in pochi cambiano idea. Per una volta, proviamo dunque a prenderla larga.

Scriveva ieri sulla Stampa Anna Zafesova che dalle strade di Mosca è scomparso il cartello con l’indicazione per l’Hotel Ucraina, perché così non bisogna più chiamarlo; che dalle autorità è arrivata l’indicazione alla maggiore casa editrice specializzata in testi scolastici di nominare l’Ucraina il meno possibile nei manuali; che al posto di Ucraina, per le zone occupate, si torna a usare il nome di Novorossiya (Nuova Russia), da tempo caro ai separatisti; che deputati russi dicono che i territori ucraini occupati andranno a formare «il distretto federale della Crimea».

La domanda, per i teorici dell’estrema complessità della situazione e per tutti coloro che in questi due mesi hanno parlato senza mezzi termini di responsabilità della Nato, è semplicissima: cosa c’entra l’allargamento dell’alleanza atlantica con la scelta di cancellare il nome dell’Ucraina dai libri di scuola?

Intenzioni e motivazioni degli aggressori sono sotto gli occhi di chiunque le voglia vedere. Gli orrori che ogni giorno di più emergono dalle zone occupate non lasciano spazio ad ambiguità. E invece le ambiguità si moltiplicano. E non mi riferisco solo alle modeste acrobazie verbali di Giuseppe Conte. Tanti a sinistra continuano a formulare sottili distinguo, a ripetere che bisogna sì aiutare gli ucraini, ma bisogna farlo per spingerli a trattare e a trovare un compromesso, perché «l’Ucraina non deve diventare il terreno in cui si vuole battere la Russia», come ha ripetuto ieri Pier Luigi Bersani.

A giudicare da simili discorsi, risuonati ampiamente negli ultimi giorni, dalla marcia Perugia-Assisi al congresso di Articolo uno, sembra quasi che il rischio sia che gli ucraini esagerino, che si finisca in un eccesso di legittima difesa. Ma come si possono fare questi discorsi dopo le atrocità di Bucha, dopo le fosse comuni di Mariupol, dopo aver visto intere città rase al suolo?

Cosa significa, concretamente, dire che bisogna aiutare gli ucraini ma fino a un certo punto? Cosa significa dire che non bisogna pensare di sconfiggere la Russia? Quali e quante città e villaggi abbiamo deciso che sono dunque sacrificabili, che vanno consegnati nelle mani degli aguzzini di Bucha, quegli stessi macellai che Vladimir Putin non ha esitato a decorare pubblicamente, dando così un segnale inequivoco circa le sue intenzioni? Cosa c’è ancora da capire?

Putin "cancella" l'Ucraina a Mosca: "Ora sarà l'hotel Novorossiya". Federico Garau il 24 Aprile 2022 su Il Giornale.

In Russia si cancellano le tracce dell'Ucraina: il caso dell'albergo affacciato sul Moscova.  

In Russia si sarebbe messa in moto una vera e propria campagna anti-Ucraina. Questo almeno quanto riferisce oggi La Stampa, che racconta come a Mosca sia stato eliminato il cartello che indicava la svolta verso l'albergo Ucraina dal ponte Novoarbatsky.

Nella capitale russa, infatti, si trova un hotel di oltre 206 metri che ha proprio il nome della nazione oggi in aperto conflitto con la Federazione russa, ma da qualche giorno al posto del cartello che segnalava la sua presenza si troverebbe ora un pannello che fornisce indicazioni sul parcheggio. Secondo il quotidiano torinese, il nome Ucraina sarebbe stato tolto per non arrecare disturbo a certe personalità altolocate, compreso il presidente Vladimir Putin.

L'albergo Ucraina, ultimato nel '57 e battezzato da Nikita Krusciov, successore di Stalin, aveva fra l'altro già cambiato nome. Oggi, infatti, si chiama Radisson Collection Hotel Moscow, ma secondo La Stampa qualcuno del municipio di Mosca sarebbe voluto correre ai ripari, eliminando ogni residua traccia dell'antico nome. Non solo. Lo stesso quotidiano afferma che in Russia ormai la parola "Ucraina" è divenuta impronuncinabile e che sui social network si starebbe addirittura facendo ironia sull'hotel, dicendo che Putin, frustrato dalla guerra ancora in corso, potrebbe arrivare a prendersela con l'edificio al posto del Paese nemico.

Secondo La Stampa, che parla di "cancel culture" russa, anche il monumento al poeta nazionale ucraino Taras Shevshenko sarebbe a rischio, ed in alcuni ambienti si starebbe già riadottando il nome di Novorossiya per alcuni territori dell'Ucraina, per la precisione quella fascia dell’Ucraina meridionale un tempo appartenuta alla Russia imperiale.

Ma gli esempi riportati dal quotidiano del gruppo Gedi per corroborare le accuse di "cancel culture" russa non finisco qui. Si parla anche di interferenze nei futuri manuali scolastici. Per la precisione, secondo il media indipendente russo MediaZona, alla casa editrice Prosveschenie sarebbe stato chiesto di menzionare l'Ucraina il meno possibile. Ed anche le parti sulla Rus' di Kiev sarebbero state ridotte.

E ancora, fra le notizie che circolano, si dice che la città di Murmansk sia arrivata a cambiare i colori del proprio stemma, blu e giallo, mentre a Yakutsk avrebbero addirittura smontato gli spalti dello stadio, sempre per via dei colori.

La Stampa riferisce poi che a Mosca un passante sarebbe stato arrestato perché sorpreso ad andare in giro con un paio di scarpe blu e gialle, mentre una donna di nome Natasha Tyshkevich sarebbe finta dietro le sbarre per 15 giorni per aver postato lo stemma ucraino sul proprio blog. Viene infine citato l'arresto del 61enne Mikhail Kavun, che secondo la Tass sarebbe però finito in manette con l'accusa di aver finanziato l'organizzazione estremista ucraina Right Sector 

 La Resistenza italiana è stata una lotta per la libertà non per fermare l’invasore. NADIA URBINATI, politologa, su Il Domani il 25 aprile 2022.

In queste due mesi di guerra si è cercato una qualche similitudine tra la resistenza del popolo ucraino contro i russi e la resistenza in Italia tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945. Ma non ci sono similitudini.

In Italia «non c’era stato un nemico entrato a forza». Da noi era quindi mancato «l’odio per lo straniero invasore». La Resistenza è stata piuttosto un movimento di liberazione, una lotta politica di fondazione di un nuovo ordine, spesso identificato con la democrazia.

La guerra partigiana era plurale. E le donne che vi hanno partecipato erano mosse dal desiderio di “fare come gli uomini”, che allora voleva dire, combattere e darsi alla macchia col fucile in spalla; per moltissime, giovanissime, era un’opportunità per fuggire dai ruoli e dalle gerarchie domestiche.

NADIA URBINATI, politologa.Titolare della cattedra di scienze politiche alla Columbia University di New York. Come ricercatrice si occupa del pensiero democratico e liberale contemporaneo e delle teorie della sovranità e della rappresentanza politica. Collabora con i quotidiani L'Unità, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano e con Il Sole 24 Ore; dal 2019 collabora con il Corriere della Sera e con il settimanale Left. Negli Stati Uniti è stata condirettrice della rivista Constellations. Dal 2016 al 2017 è stata presidente di Libertà e Giustizia; è stata vice-presidente sotto la successiva presidenza di Tomaso Montanari.

Lo storico militante che arrivò al cuore della guerra partigiana rivoluzionandone la lettura. DANIELE SUSINI, storico, su Il Domani il 25 aprile 2022

Claudio Pavone, attraverso il suo testo più importante Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, ha rivoluzionato il paradigma resistenziale che si era consolidato nell’immediato dopoguerra.

La definizione di guerra partigiana come conflitto civile fu aspramente osteggiata da sinistra e da molti partigiani, questo perché in quella formula molti vedevano una comparazione tra resistenti e repubblichini, mettendoli, a loro avviso, sullo stesso piano.

Lo storico romano è andato al cuore della guerra partigiana, mettendo in luce le motivazioni che hanno portato migliaia di giovani a combattere in quella guerra, in nome di nuovi ideali e di una nuova etica, rompendo con il fascismo che li aveva precedentemente indottrinati.

DANIELE SUSINI, storico. Direttore del Museo Linea Gotica Orientale di Montescudo Monte Colombo. È autore di La resistenza ebraica in Europa - Storie e percorsi, Donzelli Editore. 

I grandi della Cultura che dissero no alla Resistenza. Emanuele Beluffi su Culturaidentità il 24 Aprile 2022.

La chiamano guerra di liberazione, per noi (e non solo per noi, c’è una ricca messe di documentazione e studi storici a dimostrarlo, basta leggere senza il paraocchi ideologico) è stata una guerra civile fra italiani. Se dici che è divisiva, i “buoni”, i “migliori” (Il Migliore! Togliatti!) ti danno di ignorante e ai dibattiti t’infilano subito la mordacchia, quando invece paradosso per paradosso quest’anno la stessa ANPI è…divisa sulla guerra in Ucraina, c’è chi si è spinto a proporre di infilarci pure il vessillo della NATO, che però nasce non il 25 aprile 1945 ma il 4 aprile 1949: del resto, lo stesso Mattarella ha paragonato la resistenza degli Ucraini alla resistenza degli italiani contro i “nazifascisti”. E mentre la cultura e lo sport dovrebbero unire anzichè dividere, in questi giorni assistiamo allo spettacolo esattamente contrario, con la messa al bando di artisti e sportivi colpevoli di essere russi. Ultima notizia in ordine temporale, alla Biennale di Venezia inaugurata l’altro giorno il Padiglione Russia era chiuso: via!, rauss! E’ l’intolleranza dei “buoni”, che ieri come oggi continua a lasciare lettera morta il monito di più di vent’anni fa di Luciano Violante Presidente della Camera sulla necessità di una pacificazione nazionale, intolleranza che in alcuni casi si trova in imbarazzo quando scopre che i “buoni” magari prima stavano dall’altra parte.

Artisti, attori, musicisti, scrittori e giornalisti. Tra gli 800mila volontari di Salò c’erano anche loro: la Repubblica Sociale aveva visto l’adesione di tanti soggetti poi diventati volti noti dello spettacolo, della cultura e del giornalismo, compresi quegli insospettabili vip che forse molti non si aspettano di trovare: ricordiamo tutti il gran chiasso del Dario Fo paracadutista GNR- Guardia Nazionale Repubblicana, tanto per fare un esempio. Di Giorgio Albertazzi (sottotenente della Legione Tagliamento GNR) magari tutti sanno e magari pure di Ugo Tognazzi (Brigata Nera di Cremona), ma forse ritrovare Wanda Osiris e Giovanni Spadolini nella RSI può far alzare il sopracciglio all’ingenuo. Saranno stati tutti dei coglioni gli artisti più amati dagli italiani (anche dopo) che aderirono alla RSI? O non sarà invece coglioneria la vulgata per cui comunisti uguale cultura mentre fascisti uguale pescivendoli? Ci è voluta, ad esempio, la mostra Post Zang Tumb Tuuum di Germano Celant in collaborazione con l’Istituto Luce – Cinecittà (cioè la casa del cinema fondata da Mussolini, tanto per dire) alla Fondazione Prada (quindi non la mostra di manifesti in un ristorante di Predappio) per far smuovere la pigrizia intellettuale di chi ancora oggi pensa che a livello culturale se non c’è la sinistra c’è il diluvio. Marcello Mastroianni (attore nella Rsi nei ranghi dell’Isituto Geografico militare poi con i tedeschi nell’Organizzazione Todt), Valentina Cortese (Servizio Ausiliario Femminile), Raimondo Vianello (Bersagliere volontario RSI), Luciano Salce (Brigate Nere), Enrico Maria Salerno (allievo ufficiale della scuola GNR di Varese), Ernesto Calindri e Gino Bartali (GNR), Walter Chiari e Ugo Pratt (X Mas), tutti dei rinnegati del presidio democratico? Molti poi hanno fatto il salto della quaglia, vedi oltre al già citato Fo il regista Marco Ferreri (GNR) per esempio, altri sono invece stati allontanati dall’egemonia culturale della sinistra post guerra civile (altro che liberazione) pagandone le conseguenze. E meno male che la cultura dovrebbe unire e non dividere.

Ecco gli altri nomi che dal palco di un teatro o dalla macchina per scrivere o nei templi dello sport hanno aderito o manifestato simpatia per la RSI: Tiberio Mitri, pugile, milizia ferroviaria. Carlo Mazzantini, scrittore, Camice Nere. Piero Vivarelli, regista cinematografico, Xma MAS. Roberto Vivarelli, storico, Brigate Nere. Michele Bonaglia, pugile, fucilato da partigiani 1944. Artisti che lavorarono alla Cinecittà di Venezia: Elena Zareschi, attrice. Mino Doro, attore. Silvio Bagolini, attore. Cesco Baseggio, attore. Roberto Villa ,attore. Lilla Brignone, attrice. Memo Benassi, attore. Emma Gramatica, attrice. Toti dal Monte, soprano lirica. Piero Tellini, sceneggiatore. Carlo Nebiolo, operatore. Fernando Cerchio, regista cinematografico. Carlo Borghesio, regista cinematografico. Giorgio Ferroni, regista. Il tenore Tito Schipa fu arrestato dalla polizia partigiana per l’ abitudine, ai tempi della RSI di presentare così una sua esibizione: Vi canterò ora “Torna a Surriento”….e ci torneremo”. il 25 febbraio del 1945 nei camerini del Teatro della Pergola venne aggredito Antonio De Curtis (in arte Totò), colpevole di calunnie e ironie sui partigiani ai quali durante il suo spettacolo, si era lasciato andare un “imputato alzatevi”.

Giampiero Mughini per Dagospia il 25 aprile 2022.

Caro Dago, stavo ascoltando alla tv le parole dette in occasione delle celebrazioni del 25 aprile, ossia della fine della guerra civile italiana e della restituzione al nostro popolo delle libertà civili e democratiche. Ascolto, e allibisco. Sembrerebbe da quelle parole e dall’ossessiva retorica “resistenziale” di cui si fa forte l’Anpi – ossia l’associazione di cui fanno parte quelli che non erano ancora nati mentre gli italiani si ammazzavano tra loro –che la Liberazione sia avvenuta per merito della Resistenza, e uso non a caso la maiuscola perché le due parole eccome se lo strameritano.

Sono due parole sacre, solo che tra l’una (la Resistenza) e l’altra (la Liberazione) non c’è alcun nesso causale, il che ovviamente nulla toglie all’immenso valore testimoniale della Resistenza e dei suoi morti. 

Per evitare equivoci, ti premetto che lo studio e la conoscenza dei fatti, degli atti e dei protagonisti della Resistenza italiana è stato uno dei nervi centrali della mia formazione morale. Per quel che è di Roma sono stato un amico al massimo grado di Antonello Trombadori, il vicecapo dei gap romani, quello che era a Regina Coeli la mattina in cui i nazi raccattarono le vittime da destinare al macello del Fosse Ardeatine.

Ho conosciuto, profondamente conosciuto, Rosario Bentivegna, il partigiano comunista che accese la miccia della bomba di via Rasella. Ho conosciuto e  ammirato Franco Ferri, il cognato di Maurizio e Marcella Ferrara, di cui i libri dicono che ci fosse anche lui a via Rasella, e invece non c’era perché quel pomeriggio era impegnato in un’altra azione. Ho conosciuto e voluto bene a Luigi Pintor, che venne preso dai nazi, portato a via Tasso e quei bastardi gli ballarono con i piedi sul corpo. Ho bene in mente tutti gli indirizzi dei martiri della Resistenza romana, e sempre mi fermo innanzi a quelle abitazioni su cui c’è una targa con un nome e una data.

Detto questo la Resistenza romana, a cominciare dall’agguato di via Rasella, non ha cambiato di un’ora l’esito della battaglia per la conquista di Roma. Nemmeno di un’ora. 

Quella battaglia la vinsero i soldati americani, inglesi, neozelandesi, quelli della Brigata ebraica (più volte bersagliati da insulti durante i cortei antifascisti del terzo millennio, di quando del fascismo non c’è più l’ombra), marocchini (ivi compreso lo stupro della “Ciociara”).

Quelli che erano sbarcati prima in Sicilia e poi ad Anzio e che ci misero dei mesi a conquistare Monte Cassino, dove arrivarono per primi i soldati polacchi e scoppiarono a piangere. Mussolini è andato giù il 25 luglio non per una qualche mossa audace dei gappisti comunisti, ma perché un bombardamento alleato aveva fatto morti a centinaia nel Quartiere San Lorenzo. E’ semplice, ma è così.

La guerra contro il nazifascismo non l’hanno vinta né quelli che andarono sulle montagne né quelli che ammazzavano più o meno a caso un tedesco o un repubblichino di passaggio nelle grandi città. 

La guerra l’hanno vinta i milioni di uomini che gli Alleati mobilitarono pur di piantare gli stivali sulle spiagge della Normandia e liberare palmo a palmo l’Europa almeno fin dove erano arrivati i russi, i quali non “liberarono” nulla di nulla ma solo sostituirono un regime dittatoriale con un altro.

Quella partita spaventevole la giocarono i carri armati e i bombardieri degli Alleati, non i gap dell’eroico Giovanni Pesce che agirono prima a Torino e poi a Milano. Quella partita la giocò e la vinse il soldato Ryan, a prendere il titolo del famoso film di Steven Spielberg il cui protagonista è uno che negli Usa faceva il professore. Gli americani di soldati Ryan ne mandarono a milioni contro le mitragliatrici e i cannoni manovrati dal più agguerrito esercito al mondo, quello tedesco.

Quella partita la vinse l’America, per dire del Paese contro il quale il mio amico Massimo Fini scaraventa  carrettate di sterco tutte le volte che può. Ossia un giorno sì e un giorno no. E’ semplice, semplicissimo, e non c’è null’altro da aggiungere a meno di non volere usare parole che gonfiano le gote ma che insozzano la verità delle tragedie del Novecento.

 Da ansa.it il 25 aprile 2022.

"La decisione della popolazione di Napoli, della Campania e di tante altre città del Sud, di insorgere contro l'ex alleato, trasformatosi in barbaro occupante, fu una reazione coraggiosa e umana, contro la negazione stessa dei principi dell'umanità. 

E oggi c'è tra gli storici concordia nell'assegnare il titolo di resistente a tutti coloro che, con le armi o senza, mettendo in gioco la propria vita, si oppongono a una invasione straniera, frutto dell'arbitrio e contraria al diritto, oltre che al senso stesso della dignità".

Lo ha detto il presidente Sergio Mattarella parlando ad Acerra in occasione del 25 aprile. 

"Nelle prime ore del 24 febbraio siamo stati tutti raggiunti dalla notizia che le Forze armate russe avevano invaso l'Ucraina, entrando nel suo territorio. Come tutti, quel giorno, ho avvertito un pesante senso di allarme, di tristezza, di indignazione. A questi sentimenti si è subito affiancato il pensiero agli ucraini svegliati dalle bombe. E, pensando a loro, mi sono venute in mente queste parole: "Questa mattina mi sono svegliato e ho trovato l'invasor". Sappiamo tutti da dove sono tratte queste parole. Sono le prime di Bella ciao", ha affermato il capo dello Stato.

"Questo tornare indietro della storia rappresenta un pericolo non soltanto per l'Ucraina ma per tutti gli europei. Avvertiamo l'esigenza di fermare subito, con determinazione, questa deriva di guerra prima che possa ulteriormente disarticolare la convivenza internazionale, prima che possa tragicamente estendersi. Questo è il percorso per la pace, per ripristinarla; perché possa tornare ad essere il cardine della vita d'Europa. Per questo diciamo convintamente: viva la libertà, ovunque. Particolarmente ove sia minacciata o conculcata", lo ha detto il presidente parlando ad Acerra.

Messaggio del premier Draghi: "Il 25 aprile è il giorno della gratitudine verso chi ha lottato per la pace e per la libertà dell'Italia dalla dittatura del nazifascismo. La generosità, il coraggio, il patriottismo dei partigiani e di tutta la Resistenza sono valori vivi, forti, attuali. Oggi celebriamo la memoria della lotta e degli ideali della Resistenza su cui la nostra pace è stata costruita. A tutti gli italiani, buona festa della Liberazione".

"La festa del 25 aprile come sempre parla anche al nostro presente, che parla di guerra, dove una potenza aggredisce e sanguinosamente distrugge un paese sovrano nel cuore dell'Europa. Ma un presente segnato ancora anche dalla pandemia, con i suoi costi umani e sociali. Il 25 aprile ci ricorda che resistere è necessario, è un dovere. Ieri come oggi. Ovunque la giustizia, la dignità, la vita stessa vengono calpestate, umiliate, distrutte". Sono le parole della lettera inviata da Liliana Segre, senatrice a vita, e lette questa mattina a Monte Sole di Marzabotto. 

Luca Josi per Dagospia il 25 aprile 2022.

L’autodeterminazione dei popoli è un diritto. E probabilmente include anche quello al suicidio.

Oggi, in questo clima triste, riaffiora la dottrina “responsabile”, quella del buon padre di famiglia – buono per autocertificazione – che di fronte a uno stupro o una situazione di violenza di cui si dichiara involontario testimone decide di mostrarsi realista e s’interroga sul “che fare?”:

1.Se intervengo, il bruto, non sazio dello strazio inflitto alla vittima potrebbe irritarsi e rivalersi su di me.

2.Se non intervengo, la vittima soccomberà, ma almeno qualcuno, io e la mia famiglia, potrà continuare a vivere e potrà farlo in pace (ovviamente la sofferta decisione sarà accompagnata da abbondanti prolassi di solidarietà, orale, scritta, o modernamente digitale, ai parenti e alla memoria in generale). 

È evidente che l’opzione “1” non esclude la “2” in quanto il bruto, in ragione della sua natura, sfogatosi una prima volta si darà da fare una seconda, una terza e così via. 

Si dirà: ma di quanti guai in giro per il mondo non ci siamo occupati? Quante volte abbiamo girato la testa e coperto le orecchie? Proprio queste urla dobbiamo raccogliere? Con il rischio di avere anche a che fare con un aggressore nuclearmente super dotato. 

Si potrebbe rispondere che proprio in ragione di quest’ultima preoccupazione, nucleare, la storia regala un precedente. Basta tornare ai vituperati anni ’80, quelli in cui l’Europa aveva la tempia del proprio futuro schiacciata sotto il tiro di una vera e propria roulette russa. Da est ci spiegarono: vi abbiamo puntato i nostri missili atomici, contro; se voi rispondete armandovi, si scatenerà la guerra.

Come fini? L’Italia, Craxi, i democristiani - quella “degenerata” classe politica - approvò l’installazione dei Pershing e dei Cruise sul nostro territorio aiutando l’occidente a piazzare gli “Euromissili”. 

Per converso una minoritaria parte del Paese li ringraziò scendendo in piazza - piazza Venezia - con colorate “marce della Pace arcobaleno” nelle quali, in modo pacifico, si bruciavano i manichini delle loro sagome (diversi di Craxi, qualcuno di Cossiga e alcuni, irrinunciabili, di Andreotti); il rogo, si sa, purifica, e soprattutto estingue le tracce delle impronte dei finanziatori di quelle manifestazioni e della loro logistica (l’autobus, il panino, le bandiere e gli striscioni costano e il lungimirante compagno Boris Ponamariov, in quota PCUS, contribuiva a versare il suo contributo; ovviamente in dollari; i rubli, già allora, non li voleva nessuno; si tratta della dottrina Munzenberg, inventore degli “ismi” umanitari, veri miasmi del populismo, che con l’artificio della solidarietà rifilavano, e rifilano, la sòla alle democrazie; ovvero facendo di cause buone – ambientali e sociali – il cavallo di Troia per scardinare il mondo avversario).

Accadde che il deplorato riarmo anziché produrre la corsa all’apocalisse generò la corsa al negoziato e l’Unione Sovietica, pochi anni dopo, cominciò a franare. La vicenda verrà ben raccontata dai diari di Shevardnadze: non potendo più reggere la produzione di SS-20 e 22, al posto di burro e pane – provate voi a mangiare una testata atomica, o anche semplicemente convenzionale, e poi mi direte – l’impero dell’est collassò. 

Così quella società rovinò rappresentando un mondo che era stato capace di mandare uomini nello spazio, ma poche salsicce sulla terra e il cui popolo amava vedere, anche a Mosca, la serie “Dallas” mentre a Washington nessuno si sognava di guardare “Togliattigrad” (unico elemento rassicurante è il Made in Italy; se per l’ideologo di Putin, Aleksandr Dugin, l’Occidente è l’anticristo – e non a caso “Il diavolo veste Prada” – il suo leader maximo indossa platealmente piumoni Loro Piana confermando, nella titanica e secolare lotta tra il bene il male, il saldo protagonismo della moda italiana).

Quindi se vogliamo la nostra libertà, la conservazione dei diritti che abbiamo conquistato, lo stile di vita in cui siamo cresciuti, dobbiamo smettere di ascoltare i marciatori della pace, alternativamente ambientalisti (un tanto al kilowattora), che non vogliono il rigassificatore vicino a loro ma preferiscono comprare energia nucleare oltre il giardino, o che urlano la loro indignazione verso la corruzione del costume occidentale, mentre aprono le porte di casa a tecnologie, infrastrutture e capitali, che quei diritti se li mangiano a colazione e i loro concittadini li concimano in testa, forti dei soldi con cui fanno cassa nel nostro occidente.

E tutto questo, manco a dirlo, per buttare nel water sessant’anni di retoriche e tante lacrime sull’ignominia degli stermini nazisti (su quelli comunisti, purtroppo, neanche quelle).

Confermando che un minuto di aiuti sul campo vale più di una vita di commemorazioni a posteriori e che si può essere solidali nella memoria storica, ma claudicanti nella cronaca (se avessimo sommato i fascisti, reali, agli antifascisti, postumi, con il numero di arruolati, per esempio, avremmo vinto la seconda guerra mondiale a mani basse).  

Al mondo russo che dice che sono entrati in Ucraina, a casa d’altri, distruggendo intere città, massacrando e ammazzando migliaia di cittadini, deportandone ancor più e tutto questo per il loro bene si risponde banalmente: “ma se gli volevate male, cosa gli facevate?”.

E a coloro che, interdetti e pensosi, vi inviteranno ad approfondire e a non generalizzare, rispondete che a un aggredito, inerme, che vi chiede aiuto per difendersi non si offre un cerotto o una preghiera, ma uno scudo e un’arma. Poi deciderà lui se fare il gandhiano; è sempre comodo farlo con la vita degli altri, ma provate a farlo con voi stessi e con la vita dei vostri figli. 

PS: oggi, 25 aprile, c’è notizia che imprese marchigiane avrebbero aggirato l’embargo verso la Russia per rifornire il prezioso mercato e non far morire le loro aziende. Ora: la data è, pacificamente, inopportuna, ma le calzature non sono armi – possono essere sì nocive per eccesso di sudorazione, ma faticherei a equipararle ad armi chimiche e ancor più balistiche (a parte che per alcuni tacchi) – e in realtà non si avvantaggia l’infida nomenklatura oligarca, bensì se ne alleggerisce il portafoglio.

Avrebbero potuto, semplicemente, rivenderla come una subdola operazione di svuotamento finanziario del fronte occupante: “Potevamo lasciarli a piedi, scalzi. Hanno bisogno di noi e con il pagamento delle nostre suole contribuiremo a crescere il nostro PIL per poter finanziare la resistenza Ucraina e il mondo, un po’, più libero”. Non sarebbe stata la nostra “Linea Maginot” ma una dignitosa e scaltra “Linea mocassino”, sì.

25 Aprile: Mattarella depone una corona all'Altare della Patria. Da ansa.it il 25 aprile 2022.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha reso omaggio al Milite Ignoto all'altare della Patria in occasione del 77/o anniversario della Liberazione. 

Alla cerimonia hanno partecipato la presidente del Senato, Elisabetta Casellati, il vice-presidente della Camera, Ettore Rosato, il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato. 

Presenti anche il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri e il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti. Il capo dello Stato ha deposto una corona d'alloro e poi osservato un minuto di raccoglimento. Mattarella è atteso stamani ad Acerra.  

L'Italia torna in piazza oggi per il 77/o anniversario della Liberazione, dopo due anni di celebrazioni condizionate dal Covid. Questa volta si attendono presenze massicce in tante città, ma c'è l'ombra della guerra in Ucraina a dividere gli animi. 

   "Basta guerre. Contro Putin e contro la Nato": questo striscione di Rifondazione comunista, insieme ad un altro in cui è rappresenta la morte con la falce ed un mantello con la bandiera americana, è presente a largo Bompiani, a Roma, dove partirà a breve il corteo dell'Anpi per il 25 aprile. "Non condivido queste bandiere, sono inopportune, ce ne occuperemo. Siamo grati agli Alleati ed alle migliaia di giovani statunitensi morti per la Liberazione dell'Italia", commenta il presidente di Anpi Roma e Lazio, Fabrizio De Sanctis. 

   A Milano ci sarà la tradizionale manifestazione nazionale dell'Anpi ed il presidente Gianfranco Pagliarulo - tacciato di posizioni filo-russe e critico sull'invio di armi a Kiev - ha ribadito la "condanna senza se e senza ma dell'invasione da parte dell'esercito di Putin ed il riconoscimento della legittima resistenza ucraina". 

   A Roma, però, le associazioni partigiane che non aderiscono all'Anpi faranno una propria iniziativa alternativa con lo slogan: 'Celebrare la Liberazione è schierarsi con la resistenza di Kiev'. Forze dell'ordine allertate su tutto il territorio per evitare l'innesco di provocazioni e disordini. A Torino 8 targhe che indicano corso Unione Sovietica sono state danneggiate nella notte, probabile atto dimostrativo contro l'invasione dell'Ucraina alla vigilia del 25 aprile.

    Pagliarulo sarà a Milano per il corteo che dalle 14 partirà da Porta Venezia per raggiungere piazza Duomo. Presenti anche - tra gli altri - il sindaco, Giuseppe Sala, il segretario della Cgil Maurizio Landini e la Brigata Ebraica, che in polemica con l'Anpi aveva proposto di sfilare con le bandiere della Nato.

Dal palco parleranno anche due donne ucraine: Tetyana Bandelyuk, che vive da tempo in Italia, e Iryna Yarmolenko, profuga e consigliere comunale di Bucha, città divenuta simbolo delle uccisioni di civili. "Nessuno - ha detto il presidente dell'Anpi, intervenendo al congresso di Articolo Uno - sa dove porterà la vicenda dell'Ucraina, ma in questo vuoto che riempiremo giorno per giorno è già chiaro il tentativo di delegittimazione dell'Associazione: 'siete putiniani, anzi Pagliarulo è putiniano, sciogliamo l'Anpi'. Noi non rispondiamo. Ma una cosa vorrei che fosse chiara, a nessuna condizione l'Anpi diventerà subalterna, non perderà la sua autonomia da partiti e editori, e tantomeno perderà la sua fisionomia, un'associazione larga, plurale, aperta a tutti gli antifascisti".

   Il presidente ha anche convenuto sul parallelo tra la resistenza ucraina e quella italiana: "Non c'è dubbio. E' evidente che ogni resistenza in caso di guerra diventa resistenza militare. Abbiamo riconosciuto il diritto dei popoli a difendersi dalle invasioni". E ha invitato a mettere da parte le polemiche: "domani i sarà una grandissima e pacifica manifestazione".

    A Genova i 71 componenti del Coro nazionale popolare ucraino 'G. Veryovka', arrivato in Italia a bordo di due autobus da Varsavia, si esibirà in un concerto al Teatro Lirico Carlo Felice.

Vauro: «Mattarella non è più il garante della Costituzione!». E una signora in piazza si arrabbia: «Ma cosa dice?». Corriere Tv il 25 aprile 2022.

Vauro: «Mattarella non è più il garante della Costituzione!». E una signora in piazza si arrabbia: «Ma cosa dice?» Il vignettista in diretta a «L’aria che tira» su La7 - Corriere Tv

L'Aria che Tira, “Sergio Mattarella non è più il garante della Costituzione!". E la piazza contesta Vauro. Il Tempo il 25 aprile 2022.

Si spacca la piazza nel giorno delle celebrazioni del 25 aprile. Vauro Senesi, vignettista, viene intervistato in collegamento con L’Aria che Tira, il talk show di La7 condotto da Myrta Merlino, e attacca duramente il presidente della Repubblica per la sua posizione sulle armi da dare all’Ucraina per difendersi dalla Russia: “È curioso perché il presidente Sergio Mattarella dovrebbe essere il garante della Costituzione, allora io proprio perché ho sentito delle cose diverse affermo che, prendendomene la responsabilità, che per me il presidente Mattarella non è più il garante della Costituzione”.

“No, ma non credo, non dire una cosa del genere Vauro” interviene da studio la Merlino, che scuote il capo così come Gennaro Migliore, presente con lei in studio. All’improvviso il collegamento di Vauro viene interrotto da una signora che lo contesta: “Ma cosa dice, ma state pure a sentire le cretinate”. “Una signora qui forse non ha sentito le ultime dichiarazioni di Mattarella. Lei è d’accordo ad inviare armi?” inizia il siparietto il vignettista, ma la replica della manifestante, che indossa una maglia contro il fascismo, non si fa attendere: “Sì, perché si devono difendere. Quando uno mi aggredisce io mi devo poter difendere, scusa Vauro, però io non sono d’accordo, perdonami, ma se io sono aggredita come faccio a difendermi? Dico ‘ah eccomi, sono pronta, parliamo’. Non è possibile accettare una cosa del genere”. Vauro resta senza parole davanti alla signora che alza le mani ironicamente. La Merlino chiude la contesa mandando la pubblicità: “Discutete in pubblicità con la signora, poi me la presenti, mi piace molto”. 

Anti-americana e nostalgica dell'Urss, Maria Giovanna Maglie fa a pezzi l'Anpi. A Roma striscione anti-Nato per il 25 aprile. Il Tempo il 25 aprile 2022

La retorica dei partigiani "mi dava fastidio quando ero una giovane comunista, figuriamoci adesso...". Maria Giovanna Maglie condanna con durezza le immagini che arrivano dalla manifestazione per il 25 aprile dell'Anpi mandate in onda da l'Aria che tira, il programma di La7. "Io non ho visto una sola bandiera dell'Ucraina nella marcia Perugia-Assisi, non una bandiera degli Stati Uniti" o della Nato, attacca la giornalista, e oggi "vedo una marcia del 25 aprile totalmente contro alla resistenza ucraina, e parliamo di un'associazione", l'Anpi, "che festeggia in continuazione la sua storia di resistenza in armi. Di cosa abbiamo bisogno ancora per capire che stiamo davanti a una evidente contraddizione?". 

Il riferimento della Maglie è naturalmente alle parole del presidente dell'associazione dei partigiani, Gianfranco Pagliarulo, rettificate solo dopo l'intervento del presidente Sergio Mattarella. "L'Anpi è sempre la stessa" dice la giornalista, "ideologica, vecchia e anti-americana. Questa è la sua la sua essenza con grandi nostalgie per il mondo dell'Unione Sovietica", commenta. L'associazione aveva un senso quando i reduci erano in vita, spiega la Maglie, ma oggi è una cosa "tenuta per i capelli che in una situazione di emergenza" come la guerra in Ucraina fa emergere la sue vera essenza. "La retorica mi dava fastidio quando una giovane comunista e mi sembravano strani, questi che più di 30 anni dopo dettavano legge. Figurarsi oggi che sono una vecchia disillusa", dice la giornalista che provoca la reazione della conduttrice Myrta Merlino, che si produce in una difesa d'ufficio dell'Anpi che non è presente con un suo rappresentante in studio. "Nessuno a detto a Pagliarulo di dimettersi e la piazza parla chiaro", taglia corto la Maglie. 

Intanto nelle manifestazioni di Roma e non solo vengono segnalati striscioni e bandiere anti-Nato, con l'Anpi che è stata costretta a dissociarsi. A Milano è comparsa la scritta: "No Draghi, No Nato, No Pd. Guerra agli aggressori". Come volevasi dimostrare. 

25 aprile: a Milano Letta contestato,'servo della Nato'

(ANSA il 25 aprile 2022) -  'Letta servo della Nato", 'Fuori i servizi della Nato dal corteo" sono gli slogan che alcuni manifestanti hanno urlato al segretario del PD Enrico Letta che si trova nello spezzone dei democratici del corteo del 25 aprile a Milano. (ANSA)

25 aprile: Letta, questo corteo è casa nostra

(ANSA il 25 aprile 2022) -  "Questa è casa nostra. La costituzione, l'antifascismo sono casa nostra": è quanto ha detto il segretario del Pd Enrico Letta arrivando al corteo per il 25 aprile a Milano e rispondendo a una domanda sulle critiche al partito ricevute da altri manifestanti con uno sparuto numero che ha chiesto di far uscire il Pd dal corteo.

"Il 25 aprile è la festa dell'unità del Paese contro tutti i fascismi" ed è "là dove dobbiamo tutti essere", ha aggiunto Letta che ha richiamato le parole del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "C'è voglia di lottare per il popolo ucraino contro l'invasore". Sulla presenza o meno di bandiere Nato in manifestazione ha detto che "le polemiche sono superate. Conta l'unità". 'La resistenza è fondamentale per la nostra storia e per il nostro presente per resistere alla violenza", ha aggiunto

LA MACCHINA DEL TEMPO. Dal Nord Italia venti di libertà. Va in scena uno degli ultimi atti della guerra di liberazione nazionale Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Aprile 2022.

È il 25 aprile 1945. Mentre «La Gazzetta del Mezzogiorno» è nelle mani dei lettori, va in scena uno degli ultimi atti della guerra di liberazione nazionale: il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia proclama da Milano, alle 8 di mattina, l’insurrezione generale contro il nemico nazista e si assume tutti i poteri civili e militari.

Il giornale – negli anni del conflitto, a causa della mancanza di carta, composto soltanto da due pagine – riporta le ultime notizie ricevute nella notte: il Po è stato attraversato da avanguardie alleate, la guarnigione tedesca che ancora resisteva tra le case di Ferrara è stata completamente accerchiata. Gli Alleati sono riusciti ad avanzare sospingendo il nemico verso nord e verso est: l’VIII Armata britannica guidata dal gen. McCreery ha liberato Ferrara e Bondeno. Le forze della V Armata sono riuscite ad entrare invece a Modena e La Spezia, dove sono state accolte con grande entusiasmo dalla popolazione. Negli ultimi giorni circa 4000 veicoli nemici sono stati distrutti o danneggiati in Val Padana da caccia e bombardieri leggeri della Raf e del 12° Raggruppamento aereo.

Bologna, liberata qualche giorno prima, sta riprendendo il suo «aspetto normale»: è ricominciato l’andirivieni di carretti carichi di masserizie, lo sgombero delle macerie davanti ai negozi e alle case private. La città emiliana è stata dichiarata «off-limits» per le truppe alleate: i pochi che circolano sono giornalisti e fotografi accolti con cordialità dalla popolazione. Nessuno corre dietro alle jeeps chiedendo sigarette e caramelle: «Venti mesi di lotta hanno dato a Bologna un aspetto austero», si racconta sulla «Gazzetta». Il centro non è grandemente danneggiato: i bei palazzi e le due torri sono ancora in piedi, arroventate dal sole primaverile.

Radio Mosca ha dichiarato che oltre la metà di Berlino è nelle mani dei russi: le truppe sovietiche sono decise a prendere Hitler vivo se sarà ancora in città quando la resistenza tedesca verrà a cessare.

Il Führer ha inviato un ultimo messaggio a Mussolini: «La lotta per la nostra stessa esistenza ha raggiunto la sua sua fase più acuta. Impiegando grandi masse e materiali il bolscevismo e il giudaismo si sono impegnati a fondo per riunire sul territorio tedesco le loro forze distruttive al fine di precipitare nel caos il nostro continente». Sono gli ultimi giorni di vita per i due leader responsabili del conflitto più violento che la Storia mondiale abbia mai conosciuto.

Alla fine di quel 25 aprile 1945 il popolo insorto è padrone di Genova e Milano: nei prossimi giorni anche Torino e le ultime città saranno liberate. Le operazioni militari continueranno fino a maggio e inizierà una lunga fase di transizione dalla guerra civile alla pace.

LA MACCHINA DEL TEMPO. Le truppe sovietiche entrano a Berlino. La riflessione amara su italiani e tedeschi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Aprile 2022.

Le truppe sovietiche sono entrate a Berlino» è il titolo trionfante de «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 24 aprile 1945. L’annuncio è stato dato direttamente dal leader sovietico Stalin: «truppe del primo fronte ucraino, continuando la loro offensiva con l’appoggio di poderose forze d’artiglieria e aeree, hanno fatto irruzione nelle difese tedesche potentemente fortificate». Radio Mosca ha diffuso la notizia che i tedeschi hanno ammassato circa 1000 aerei per la difesa della capitale: in quattro giorni l’Armata rossa, si sostiene dai microfoni sovietici, ne ha abbattuti 411.

Sul fronte italiano, invece, la travolgente marcia degli uomini di Clark ha sconvolto ogni forma di difesa da parte del nemico e ha assunto un ritmo forse mai prima d’ora raggiunto nel corso della Campagna d’Italia. L’attacco finale alleato, iniziato nei primi giorni di aprile, si è mosso su due direttrici: la V Armata in marcia sull’asse Bologna-Piacenza-Milano, l’VIII Armata britannica sul versante adriatico oltre la foce del Po fino a Trieste. A Bologna, liberata da alcune ore, il popolo acclama i liberatori: gli uomini dell’VIII armata guidata dal gen. McCreery sono arrivati nei sobborghi di Ferrara.

Le differenze tra tedeschi e italiani per Azzarita L’articolo di fondo della prima pagina della «Gazzetta», guidata in questi mesi cruciali da Luigi de Secly, è una riflessione al contempo amara e speranzosa sul futuro dell’Italia. Non può essere altrimenti, dal momento che è firmata da Leonardo Azzarita, già direttore del «Corriere delle Puglie» negli anni Venti, poi a capo dell’Ansa: un uomo che ha pagato con la perdita di un figlio il caro prezzo della guerra e della scellerata violenza dei nazisti. C’è una grande differenza tra il comportamento del popolo tedesco e quello del popolo italiano, sostiene Azzarita.

Il primo è caratterizzato da un fanatismo bestiale, dalla cieca obbedienza nei confronti del Führer, evidente anche nell’ostinazione con cui le forze armate conducono questa ultima insensata resistenza. In Italia, invece, il popolo è sempre stato «una massa osannante controvoglia, che viveva della sua sottomissione pavida e screanzata e si compiaceva dicendo barzellette e tirando a campare». E, poi, qui si è avuto il 25 luglio 1943, mentre in Germania la continuità ideologica del fanatismo ha saldato la solidarietà del popolo con i suoi capi e le sue forze armate. Senza negare le responsabilità del fascismo in questa guerra, conclude Azzarita, ora che siamo forse alla vigilia della liberazione del resto dell’Italia, gli Alleati devono tener conto di questa differenza e cambiare radicalmente l’atteggiamento verso il nostro Paese e il suo governo.

Cosa significa oggi celebrare il 25 aprile. Mio padre e mio nonno si unirono alla Resistenza. Ma non festeggiavano. Per non mischiarsi a opportunisti e voltagabbana. Oggi bisogna riflettere su cosa significa questa parola, quando le guerre finora lontane si avvicinano a larghi passi. Marco Tullio Giordana su L'Espresso il 25 Aprile 2022.

In casa mia non ricordo festeggiamenti particolari il giorno del 25 aprile. Eppure sia mio padre (nato nel 1912) sia mio nonno (nato nel 1877), ognuno per suo conto, si unì alla Resistenza. Mio nonno, di cui porto il nome, dopo l’8 settembre raggiunse i suoi alpini nella Val Chisone e lì prese gli ordini, lui che ne era stato il colonnello, dal suo ex-sergente Maggiorino Marcellin, coraggioso combattente e vero genio militare, che non riusciva a dargli del tu. Mio padre invece, tenente dei Lancieri di Montebello, fu sorpreso dall’armistizio a Roma, a Porta San Paolo. Improvvisamente le alleanze si ribaltavano e con parole ambigue, senza chiamarli per nome, i tedeschi diventavano nemici da cui difendersi. Rimasti senza ordini, coi generali che erano quasi tutti scappati col re, cavalleggeri e Granatieri di Sardegna (fra i quali, come scopersi anni dopo, c’era anche il babbo di Dario Argento) si presero la responsabilità di difendere Roma dall’assalto dei Fallschirmjäger tedeschi, forse altrettanto disorientati ma non per questo meno aggressivi (e soprattutto con la catena di comando intatta).

Decimato il suo reggimento, mio padre decise di traversare le linee e raggiungere gli alleati al Sud. Doveva, come molti altri giovani ufficiali del Regio Esercito, essere evidentemente già attivo nella cospirazione antifascista se gli inglesi lo reclutarono subito nel Soe (Special operations executive, l’organizzazione delle attività di intelligence, sabotaggio, addestramento e sostegno dei vari gruppi di resistenza che sorgevano nei paesi occupati dai tedeschi). Dopo un pericoloso volo di notte fu paracaduto al nord e lì rimase per tutto il 1944 e ’45 svolgendo clandestinamente compiti di collegamento fra angloamericani e Clnai (Comitato di Liberazione Alta Italia).

Mio nonno è morto nel 1950, l’anno in cui sono nato io, mio padre nel 1959, quando non avevo ancora compiuto 9 anni. Quando ardivo di chiedere qualcosa sperando di ascoltare qualcosa di avventuroso, mio padre mi guardava severamente e rispondeva: è presto adesso, non capiresti. Dunque tutto quello che so di loro l’ho appreso dopo, studiando e rintracciando i testimoni, soprattutto dal 1997 in poi quando gli archivi inglesi furono finalmente de-secretati e fu possibile rendersi conto della rete clandestina e delle sue imprese, del contributo di molti eroi anonimi, la maggior parte dei quali passati per le armi senza riconoscenza e senza gloria. Tra l’altro, moltissime furono le donne, prima indispensabili compagne, poi rapidamente ributtate, appena finita ’a nuttata, nei ranghi della famiglia a fare le spose e madri, giusto portando a casa il diritto di voto, concesso solo il 1° febbraio 1945 nelle zone dell’Italia liberata.

Ho chiesto tante volte a mia madre, che sapeva molte cose ma non tutto, perché mio padre fosse così restìo alle celebrazioni. Ne ottenni un giorno questa fulminante risposta: per non mischiarsi con gli opportunisti e i voltagabbana sbocciati dopo. I suoi compagni, gli uomini con cui aveva condiviso rischi e avventure, continuava a vederli per conto suo, nessuno aveva la smania di farsi ammirare per aver fatto il proprio dovere. Penso a questa ricorrenza – che le minuscole autorità locali fanno tanta fatica a celebrare ritenendola «divisiva» (mamma mia, la lingua che usano!) – anziché rievocando l’ardimento di Tullio e Gian Pietro, chiedendomi se sarei capace di fare quello che hanno fatto loro, di avere la stessa lucidità nel compiere le scelte che sembrano così ovvie col senno di poi ma non lo sono per niente.

A ognuno tocca riflettere su cosa significhino oggi queste parole: invasione, occupazione, resistenza, vittime civili, quando le guerre finora sempre combattute in teatri esotici e lontani (ma un assaggio l’avevamo avuto coi Balcani) si avvicinano a larghi passi.

Parla la giornalista tra le più forti sostenitrici delle ragioni della pace. “Biden è un guerrafondaio, pentita di aver esultato per la sua elezione”, intervista a Ritanna Armeni. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

Ritanna Armeni, scrittrice e giornalista del manifesto, dell’Unità, di Liberazione e di altri svariati giornali e Tv. Conduttrice di Otto e Mezzo in coppia con Giuliano Ferrara.

Il 25 Aprile, con l’Anpi, sotto tiro. Così come il movimento pacifista e la Cgil. Un pensiero unico in divisa militare li accusa di aver tradito i valori della resistenza partigiana per non aver sostenuto, dicono i commander in chief dei giornali interventisti, la resistenza ucraina. Come la vedi?

In genere una parte della sinistra viene accusata di essere ancorata a vecchi schemi. Ebbene, quello a cui fai riferimento è un ancoraggio a vecchi schemi fatto peraltro, molto spesso, da personaggi che quando, nei tempi passati, si proponevano i vecchi schemi, invece li disprezzavano. C’è tutto un giornalismo “liberal” oggi che ha sempre guardato alla resistenza italiana come una cosa secondaria, che ha sempre considerato, storicamente, la liberazione dell’Italia come qualcosa dovuta agli alleati, il che sia chiaro contiene una parte importante di verità, ma che di questa visione ne ha fatto un motivo di battaglia ideologica.

Oggi?

Questo riscoprire i valori della resistenza oggi, in questo momento, un po’ puzza. La cosa che più mi colpisce è questa incapacità di capire che è una situazione completamente cambiata. Da quando nel ’45 fu sganciata una bomba atomica, e da quando sappiamo che una buona parte del mondo ce l’ha, è chiaro che viviamo e consideriamo queste cose sotto un’ottica diversa. E su questo lasciami dire subito una cosa che ritengo davvero insopportabile.Bisogna smetterla con questo mantra stucchevole, perché storicamente falso, per cui oddio oggi abbiamo la guerra vicino a casa nostra. La guerra in Europa, non tanto tempo fa era a duecento chilometri da casa nostra, dall’Italia, dall’altra parte dell’Adriatico. È chiaro che le guerre sono un elemento endemico di questo pianeta. Se così è, e qualcuno provi a smentirlo, occorre affrontare il tema delle guerre con una mentalità nuova. E in questo, secondo me, c’è il grande valore del pacifismo, che poi ognuno può declinare come meglio crede. Capire che al punto in cui siamo, di risorse belliche sempre più massicce e invasive, sostenute da una ricerca tecnologica che non ha eguali in altri campi, noi ci stiamo giocando davvero il futuro del pianeta. Si dovrebbe ragionare in questo modo. Anche questa è libertà. La libertà dalla guerra, la libertà dall’oppressione. Noi viviamo continuamente in guerra, la guerra è il problema. Il Papa c’ha ragione. Noi abbiamo un pianeta dilaniato dalle guerre, alcune le conosciamo, altre non le conosciamo, altre le veniamo ad apprendere dopo, altre sono lontane e non ce ne occupiamo neanche più. Tra l’altro, secondo me, l’informazione mainstream ha fatto un’operazione che adesso si rivolge tutta contro se stessa…

Perché?

Noi sappiamo che l’informazione ha delle regole “infami”: il cane che morde uomo non fa notizia, uomo morde cane fa notizia. Mille bambini morti affogati nel Gange non fanno notizia. Un bambino morto sotto casa preso da un motorino, fa notizia. Quando uno ti fa vedere l’ottavo ospedale colpito, cosa di cui non dubito, bada bene, so benissimo che è così, perché so benissimo che la guerra è crudele, che ci sono gli stupri, gli ospedali o le scuole bombardati…Tutto ciò è vero. Ma se si punta solo su quello, all’ottavo ospedale, non raggiungi più quello che ti ripromettevi. O per meglio dire: raggiungi quello che l’informazione, a mio avviso, ha già ampiamente traguardato, vale a dire la totale sfiducia della gente. Dopo un po’ le cose, per dirla sempre in modo fine, cominciano a puzzare. Se tu un giorno mi fai vedere le brutture contro i civili, e poi i soldati russi morti ammazzati, e poi la resistenza…siccome ciascuno di noi sa che la vita è complessa, comincia a farsi la sua scala dei valori. Ricordo, in proposito, un episodio che mi lasciò allibita. Era una trasmissione su Sky. Un giornalista ebbe la sfrontatezza di dire, a proposito di non ricordo più quale nefandezza, che questa nefandezza è molto grave, non è stata dimostrata ma sarebbe ben grave anche se non fosse vera!!! Come è grave se non è vera!!! Questa donna è stata stuprata, non è sicuro, però anche se non fosse vero è comunque gravissimo. Quel giornalista non usò questo esempio, ma fu una cosa che mi lasciò senza parole. Ma si può essere così dementi da dire una cosa tragica anche se non è successa è tragica lo stessa.

Si può dire che la narrazione ormai ha cancellato la realtà?

Io al giornalismo “obiettivo” non ci credo. Semplicemente perché non esiste. Io credo, però, al giornalismo onesto, che è un’altra cosa. Il valore dei giornali militanti, che ci sono stati per un periodo della nostra storia, da Il Manifesto a Lotta Continua per fare alcuni esempi, era quello di autodenunciare la propria parzialità. Tu lo sapevi e sapevi anche che c’erano degli altri giornali che non lo denunciavano però tutti sapevano. Togliatti diceva io apro Il Corriere della Sera perché è il giornale della borghesia. Insomma, c’era una chiarezza di voci, una polifonia informativa arricchente.

Ed oggi?

Il problema del momento è quello che viene definito mainstream. Repubblica che attacca il movimento pacifista…è tutta la stessa pappa immangiabile. C’è una ideologia che fornisce una narrazione dei fatti abbastanza omogenea, abbastanza diffusa, che muove dalle stesse opinioni. Non è che la cosa sia indolore. Perché il risultato di tutto questo è che i giornali non vendono. Se io, che ho letto giornali per tutta la vita, m’informo in gran parte sui social media, perché lì so che ci sono quelle dieci-venti persone di cui mi fido, e mi formo un’opinione. Mi spieghi perché io me la debba formare sugli editoriali di ultraottantenni maschi del Corriere della Sera? Il più giovane c’ha 78 anni. Non dico che non ci devono essere, anche perché facendo io parte della categoria anziani la rispetto molto, però, vivaddio, ci deve essere qualche quarantenne, qualche sessantenne, qualche donna…Invece, nulla. E questo lo vediamo anche sulla guerra. Una informazione così fatta non regge, nel senso che alla fine perché la gente si dovrebbe comperare questi giornali che sono tutti uguali, che esprimono tutti la stessa cosa. Oggi francamente non vedo differenza tra il Tg1, per definizione istituzionalizzato, e Repubblica.

Donatella di Cesare ha scritto un articolo che ha fatto molto discutere. Cito un passaggio: “Non era mai avvenuto che il popolo della sinistra si sentisse così tradito nei propri più alti ideali da coloro che hanno promosso una politica militarista. Prima hanno deciso l’invio delle armi, poi hanno votato l’aumento delle spese militari, ora sponsorizzano un’economia di guerra”. È un j’accuse troppo pesante?

No, io credo che sia troppo leggero. Non è vero che è successo adesso. Con l’ex Jugoslavia, avevamo un presidente del Consiglio di sinistra, e avevamo il mondo in mano alla cosiddetta sinistra. Lì sono state mandate le bombe, gli armamenti e via sparando. Di questo è da là che me ne sono accorta. Da un bel pezzo. Io mi ricordo le battaglie pacifiste sull’Afghanistan, sull’Iraq…Adesso non si capisce perché chi fa una battaglia pacifista è pro Russia, mentre chi la faceva allora non era tacciato di essere filo America. Ti confesso una cosa: quello che più mi dispiace nella mia vita è di essere stata felice il giorno in cui è stato eletto Biden. Perché si sta mostrando un guerrafondaio della peggiore dimensione. Tu dici: ma Putin? Beh, Putin lo sapevo, nessuna delusione. Putin è un’assoluta dimostrazione di cosa può essere la Russia e di cosa possano essere certi valori. Io la Russia penso di conoscerla un po’. La gente s’illude se pensa che con questa politica dello scontro frontale, voluta da Biden, la Russia non vada più dietro Putin.

C’è anche una delusione-Draghi?

Rispondo di sì, anche se molto più soft in questo momento. A parte il fatto che io, personalmente, non posso avere una delusione-Draghi perché non ho mai avuto l’illusione-Draghi. Draghi è un tecnocrate intelligente, al quale si pensava di affidare le sorti dell’economia perché ci facesse attraversare al meglio le politiche liberiste europee. E si è trovato alle prese con due cose sulle quali lui non era all’altezza: la pandemia e la guerra. Di fronte a queste cose occorrono i politici. Con la pandemia, insomma, più o meno ce la siamo sfangata, abbiamo anche parlato di una ripresa economica che poi sappiamo che non significa automaticamente miglioramento dell’occupazione o del benessere diffuso, ma comunque possiamo dire che ci sta. La guerra l’ha cancellato. Draghi, secondo me, non ha gli strumenti politici per affrontare questo tornante. Da una parte non mi sono mai illusa che lui potesse essere un uomo di governo oltre certe cose, al di là se fossi d’accordo o meno nel merito, ma oggi più che mai penso che Draghi sia trovato di fronte a una cosa che non è materia sua. Se noi guardiamo alla nostra storia, abbiamo avuto uomini di sinistra, ma anche di destra, di grandi capacità sul piano diplomatico. Basti pensare, per fare due nomi non della mia parte, a Craxi e Andreotti. Sigonella ce la ricordiamo tutti. Non mi pare che oggi ci troviamo di fronte a capacità di quel tipo. Anche qui: ci troviamo a un seguire un mainstream, dei luoghi comuni inquietanti. Quando Michel dice dobbiamo vincere…Tu non puoi parlare in termini di vittoria e di sconfitta. Una politica e un’informazione militarizzate fanno paura.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Cari pacifisti, senza armi Kiev sarebbe già un’enorme fossa comune. Agli apostoli del disarmo unilaterale e della resa senza condizioni sembra sfuggire che le “sporche armi” occidentali hanno già salvato il popolo ucraino dall’ennesimo massacro su Il Dubbio il 28 aprile 2022.

C’è un piccolo particolare che sembra sfuggire agli apostoli del disarmo unilaterale e della resa senza condizioni: se gli ucraini fossero rimasti a mani nude e senza le “sporche armi” occidentali, a quest’ora l’esercito russo starebbe già marciando e bivaccando lungo i viali alberati di Kiev, e il “caro Putin” sarebbe in posa sotto il monumento dell’amicizia russo-ucraina, citazione oscena del fotoritratto di Hitler intento a osservare compiaciuto la tour Eiffel nei giorni del Blitzkrieg tedesco.

Insomma, Kiev sarebbe una enorme Bucha, gli ucraini sarebbero impegnati a scavare l’ennesima fossa comune e noi staremo a gingillarsi con la nostra buona coscienza o, al meglio, a fare i conti col nostro egoismo. Insomma, chi invoca la resa e lo stop all’invio di armi, ignora il fatto che quelle stesse armi hanno già salvato il popolo ucraino dall’ennesimo massacro.

Le inutili proteste del 25 aprile. La Nato non conta più niente, per gli Usa è solo un guaio. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

La conversazione è off the record, ma utile. Un ufficiale dei servizi della Navy, Marina militare americana dice: «In Europa fate una gran confusione fra Nato e Usa. A noi come forze armate americane non importa nulla della Nato, né dell’Europa. Noi siamo preoccupati per il nostro Paese da quando la Russia ha squilibrato la parità strategica. In questo momento, loro hanno la palla e noi siamo gli under dog. E dobbiamo sorvegliare le nostre coste e il traffico mondiale di navi con testate nucleari. Che cosa faccia la Nato non lo sappiamo e francamente neanche ci interessa. È il momento più brutto, peggiore della crisi di Cuba del 1962».

L’umore emergente negli Usa è dello stesso timbro: la guerra potrebbe scoppiare – teoricamente – se i russi cedessero alla tentazione del First Strike, il vecchio incubo: il primo colpo è la tentazione che una superpotenza militare può avere, come un giocatore di poker. Se hai una scala reale in mano, la tentazione è sbancare. Ma ci sono anche buone ragioni per evitare la tentazione: anche le scale reali del poker sono organizzate in modo tale che nessun giocatore può mai essere totalmente sicuro che qualcun altro abbia una scala migliore della sua. Per ora i russi hanno questa superiorità dei missili ipersonici e di una grande bestia da duecento tonnellate capace di arrivare a 38mila chilometri di distanza con una testata computerizzata pesante e capace di prendere decisioni autonome. Gli Stati Uniti e il Regno Unito – che si sappia – sono molto indietro anche se stanno lavorando a ritmo sostenuto per colmare il gap.

Nel frattempo, la Nato vera e propria agisce non secondo piani prestabiliti, ma alla giornata. Il fatto che Svezia e Finlandia abbiano deciso di entrare provoca per ora più rischi che vantaggi. Si tratta di nazioni i cui governi dichiarano di aver paura e di valutare i rischi derivanti dalla paura. La paura si conferma per ora come l’arma di distruzione di massa più efficace se è vero che persino la Svizzera, che si può considerare il campione mondiale della neutralità assoluta e del pacifismo (ben armato da un efficace esercito federale con molte riserve nucleari), ha deciso che i tempi sono cambiati e che un’assicurazione strategica è un eccellente investimento. Nella guerra di propaganda lanciata dai russi, sembra sempre che l’ultima loro invasione non abbia relazione con quella precedente. Ma se si mettono in fila gli interventi russi, sia sovietici che post-sovietici, a partire dalla prima guerra contro la Polonia del 1920, sono consistiti soltanto in una serie di progressive aggressioni fraterne, con l’unica eccezione dell’invasione tedesca, cioè dell’alleato che la Russia staliniana si era scelto come partner della Seconda guerra mondiale che non sarebbe potuta cominciare senza quella partnership.

Giova sempre ricordare che per i russi non esiste una “Seconda Guerra mondiale” ma una “Grande Guerra Patriottica”, che comincia il 21 giugno del 1941 perché si stende un velo pietoso su quel che accadde nel biennio dell’alleanza. C’è infatti da considerare un elemento geopolitico che specialmente da parte russa si finge di ignorare, ed è la paura: tutti i Paesi limitrofi del più esteso Paese del pianeta Terra che hanno assaggiato, sia sotto gli zar che dopo con l’Urss ed ora con la Federazione russa, il dominio di Mosca, vivono l’incubo che la storia si ripeta. La propaganda russa si sforza di far credere che l’estensione della Nato ad Est sia una perfida operazione aggressiva e imperialista voluta dagli americani, ma trascura di considerare che le “iscrizioni” alla Nato nascono dalla decisione di governi sostenuti dalle loro opinioni pubbliche che hanno paura della Russia. E questo dato di fatto noto a tutti, costituisce l’elemento geopolitico da cui la Nato trae una vaga direzione. Sono stato per quattro anni membro della delegazione parlamentare italiana presso la Nato e ho partecipato a infinite discussioni sulla sorte e l’opportunità stessa che la Nato esista, nella più gelida indifferenza del socio fondatore e cioè degli Stati Uniti che hanno espresso fin dal primo decennio di questo secolo il desiderio di liberarsi di questo costosissimo apparato. Anzi, per rendere più visibile il loro disinteresse, gli Usa sono stati per lungo tempo debitori della rata annua di iscrizione.

Della stessa idea era Donald Trump che rappresentava la tendenza sempre presente in America dell’isolazionismo: che vadano a farsi fottere gli europei che ci sfruttano e sbafano le nostre spese per la loro sicurezza, si facciano anche divorare dai russi, peggio per loro: questo era il suo esplicito ragionamento. La Nato era un cadavere su cui brulicavano le discussioni inutili e probabilmente sarebbe definitivamente morta se nel 2008 non ci fosse stato uno strano sussulto: la Russia, paese geograficamente anche europeo, aggrediva in Ossezia, un Paese europeo come la Georgia e vi installava guarnigioni armate per intimidire il governo di Tbilisi e farlo recedere dal proposito di chiedere l’adesione alla Nato insieme alla Ucraina. Quanto all’Ucraina, diversamente da quel che insistono a dire i russi, la Nato oppose un fermo no a Kiev quando avanzò la sua richiesta di iscrizione, per un motivo ovvio: l’Ucraina ha da quando è nata una situazione marcescente con la Russia che occupa di fatto con milizie senza bandiera e sostiene le minoranze russofone: quindi, far entrare l’Ucraina sarebbe stato un rischio mortale perché uno scontro con la Russia avrebbe fatto scoppiare la guerra mondiale.

Ed è esattamente quel che è successo: l’Ucraina è fuori dalla Nato, la Russia l’ha invasa e la Nato, in quanto tale, ha solo indicato un filo rosso (coincidente con i confini geografici dei Paesi membri e confinanti) da non oltrepassare: le armi e le munizioni sono inviate dalle singole nazioni o dall’Unione Europea, ma non dalla Nato che si ritrova una patata bollente senza avere una vera direzione e una struttura territoriale: non esiste infatti un territorio geografico della Nato, ma soltanto i confini politici dei partner che compongono l’Alleanza difensiva atlantica. Soltanto a metà marzo i Capi degli Stati maggiori del Belgio e dell’Estonia hanno aperto ufficialmente il Multinational Ammunition Warehousing Initiative per la sistemazione razionale di tutte le armi disponibili e la loro distribuzione nei Paesi alleati. Ma, e questo è particolarmente rilevante, nella quasi totale assenza degli Stati Uniti che manifestano il loro interesse geopolitico soltanto con le iniziative di sostegno e l’invio di armi deciso dalla Casa Bianca, oltre a un rafforzamento del contingente a stelle e strisce in Romania e Polonia.

Alla Nato si stanno strutturando degli organismi di raccordo militare come il Forward Presence (eFP) e altri organismi di sostegno come le forze di pronto intervento in caso di escalation come la Very High Readiness Joint Task Force e diversi gruppi di “forze pronte su presumibili campi di battaglia”. Ciascuno di questi gruppi è ancora malamente organizzato e dipende per rifornimenti e munizioni da retrovie incerte, su cui la presenza più attiva non è quella americana ma del Regno Unito.

Questo è il momento in entrambi i campi degli osservatori e dei programmatori di macchine robotiche self learning, capaci di imparare dall’esperienza e l’Ucraina sta diventando il più massacrante esempio di esperimento in corpore vili, direttamente sui nuovi strazianti dati della possibilità di resistere alla fame e alla sete di popolazioni urbane, la penetrazione della propaganda nemica, l’uso e l’efficacia delle notizie false e prefabbricate e il controllo dei media insieme quello della individuazione facciale di chi usa telefonini e computer per un censimento immediato dei singoli combattenti e dei resistenti.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La solita pagina nera: bruciano le bandiere dell'Alleanza atlantica e contestano Letta. L'imbarazzo dell'Anpi. Alberto Giannoni il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Bruciano le bandiere della Nato, vilipese come quelle degli americani e dei loro amici. Anzi, "servi".

Bruciano le bandiere della Nato, vilipese come quelle degli americani e dei loro amici. Anzi, «servi».

«Servi della guerra» e «servi della Nato» sono le due scritte con vernice rossa che hanno imbrattato, nella notte fra domenica e lunedì, i muri della sede Pd di via Oropa a Torino. E il Pd è il nuovo «nemico numero 1» della sinistra antagonista, quel magma di centri sociali, «anarchici» e comunisti vari che sono animati da rancori e ossessioni del passato.

Da Torino a Catania, passando per Milano, Reggio Emilia, Bologna e altre piazze, è tutto un bollettino di insulti, minacce e intimidazioni, dirette praticamente contro tutti i partiti rappresentati in Parlamento, e rivolte spesso a dirigenti locali, militanti, famiglie. «Italia viva» e «Più Europa» denunciano che a Reggio una loro delegazione è stata «pesantemente insultata da altri partecipanti, poi invitata dalle forze dell'ordine ad allontanarsi». E fra le vittime dell'aggressione c'è anche una bambina di 8 anni, «rea» di sventolare, oltre alla bandiera italiana, anche quella americana.

È il modo in cui «festeggiano» il 25 aprile le fazioni estremiste che si sentono padrone della Liberazione, e non lo sono. La gran parte dei manifestanti, nei cortei ufficiali, ha partecipato civilmente, va detto, ma gli estremisti hanno lasciato il segno, mettendo in seria difficoltà i padroni di casa, Anpi e sindacati.

Le avvisaglie si sono avute già domenica sera, a Torino, dove - al termine della manifestazione per celebrare la ricorrenza della Liberazione - davanti al palco che ha ospitato le orazioni ufficiali, alcuni esponenti del «Fronte della gioventù comunista» hanno bruciato una bandiera dell'Alleanza atlantica e una bandiera del Pd. E il consigliere comunale Silvio Viale, in passato presidente dei Radicali italiani, è stato contestato durante la tradizionale fiaccolata per essersi presentato con bandiere Nato insieme a quelle dell'Ucraina e dell'Ue, e ha fatto sapere che è stata lanciata vernice rossa contro le serrande della sede dell'associazione radicale Aglietta.

A Milano, hanno insultato direttamente il segretario dem Enrico Letta. Un gruppetto col pugno chiuso e le bandiere dei Carc (i Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo) gli ha gridato: «Letta servo della Nato!». Avevano annunciato di voler «cacciare» il Pd dal corteo e simbolicamente ci hanno provato, ma il leader pd non si è scomposto più di tanto, ha citato il capo dello Stato e ha replicato: «Questo corteo è casa nostra, la Costituzione, l'antifascismo sono casa nostra».

In grave imbarazzo i vertici dell'Anpi. Il presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo ha definito le contestazioni «un grave errore», «perché queste cose il 25 aprile non servono mai». «Anche quando ci sono posizioni diverse - ha spiegato - bisogna evitare che su singoli fatti si perda la bussola di una posizione unitaria. Perché non può essere che comune l'obiettivo della pace in una situazione così grave come quella dell'Ucraina e dell'Europa».

La scelta di campo pro-Ucraina ha attirato sui democratici una mole di contestazioni «da sinistra», probabilmente messe in conto, ma in periferia gli stessi esponenti del Partito democratico non sono esenti da incredibili scivoloni, che evocano addirittura la violenza. Una foto che ritrae Matteo Salvini e Marine Le Pen a testa in giù è stata pubblicata sulle storie Instagram dal capogruppo regionale delle Marche Maurizio Mangialardi, ex presidente Anci Marche e candidato del centrosinistra alle regionali 2020. L'immagine è accompagnata da un testo, anch'esso rovesciato, scritto a quanto pare dallo stesso consigliere: «Salvini tifa ancora Le Pen - si legge - e questo vuol dire che non è cambiato. Nonostante la prudenza Salvini è ancora uno dei principali sponsor di Putin e avversari dell'Europa nel nostro Paese».

Ma in genere è la sinistra estrema degli autonomi e dei comunisti, quella che si è scatenata. Durante il corteo di Bologna, «i soliti balordi - lo denuncia Forza Italia - hanno danneggiato la sede di Unicredit e di Eni e creato scompiglio». A Reggio, come detto, uno degli episodi più inquietanti: la delegazione di «Più Europa» e «Italia Viva» insultata e invitata ad allontanarsi in un «tripudio» di cori anti Nato. «Dispiace constatare - hanno accusato - che le istituzioni locali continuano ad appaltare solo all'Anpi la memoria della Resistenza e della liberazione».

 Cristina Bassi per “il Giornale” il 29 aprile 2022.

Tutti assolti a Milano dai reati contestati con l'aggravante dell'«odio etnico e razziale» gli antagonisti che al corteo del 25 Aprile del 2018 hanno contestato e insultato la Brigata ebraica. Fatti che si ripetono a ogni corteo della Liberazione, tuttavia gli episodi del 2018 sono i primi di questo tipo, finora, ad approdare a processo. La Procura non ha impugnato le assoluzioni. 

La sentenza è arrivata lo scorso ottobre e sono poi state pubblicate le motivazioni della Quarta sezione penale presieduta dal giudice Nicoletta Marchegiani. Tra i quattro antagonisti anche Claudio Latino, 64 anni, già condannato anni fa dopo l'operazione antiterrorismo «Tramonto».

Il pm Leonardo Lesti aveva chiesto pene dai tre agli otto mesi, i difensori, gli avvocati Benedetto Ciccarone, Giuseppe e Margherita Pelazza, l'assoluzione. Latino e un altro imputato, E.B., erano accusati di minacce aggravate ai rappresentati della Brigata ebraica. 

In particolare di aver mimato «il gesto dello sgozzamento» e «la sventagliata di una mitragliatrice». A.P. di aver lanciato una bottiglietta d'acqua contro la Brigata per «offendere o imbrattare», con la medesima aggravante. E D.L.C. di aver colpito in testa un poliziotto con una canna da pesca usata come asta da bandiera.

Quest'ultimo è stato l'unico condannato, per resistenza a pubblico ufficiale (non aggravata), a sei mesi di carcere. Tutte le scene sono state riprese dai video della polizia.

Le indagini hanno ricostruito che gli imputati sventolavano bandiere palestinesi e inneggiavano contro Israele. 

Al passaggio della Brigata ebraica il gruppo di cui facevano parte ha urlato «assassini» e «bastardi». In aula gli imputati hanno ammesso i gesti incriminati, ma hanno insistito sulla «forte valenza politica» della contestazione «delle politiche israeliane di occupazione di territori palestinesi».

La protesta sarebbe stata rivolta alla «presenza di vessilli dello Stato di Israele» ma «senza alcuna valenza discriminatoria nei confronti del popolo ebreo». I testi della difesa, tra cui Moni Ovadia, hanno suffragato tale versione, insistendo sulla distinzione tra «antisemitismo» e «antisionismo». 

Latino ed E.B. si sono detti «offesi» dall'aggravante dell'odio razziale, «incompatibile» con la loro attività di «accoglienza degli stranieri». Aggiungendo che il gesto dello sgozzamento non era una minaccia, bensì voleva «rappresentare l'infanticidio compiuto dall'esercito di Israele poco tempo prima» e che era accompagnato dalla frase (visibile nei video) «Tu ammazzi i bambini». 

La Corte accoglie in questi aspetti le tesi difensive. E assolve sulla base del «significato intrinseco attribuito a detti gesti dai loro autori». La protesta non aveva «motivi razziali» ma origini «prettamente politiche». La condotta, per i giudici, non era infine «accompagnata dalla cosciente volontà di minacciare un male ingiusto». 

Le violenze dei pacifisti. Andrea Indini il 25 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'odio verbale contro la Brigata Ebraica a Milano, il raid dei centri sociali a Bologna, gli insulti a una bimba con la bandiera americana a Reggio Emilia: ecco il 25 aprile violento dei pacifisti antifascisti.

L'immagine più brutta, tra le tante che questo 25 aprile ci ha consegnato, è sicuramente quella di una bambina di appena otto anni insultata pesantemente da un gruppetto di "coraggiosissimi" antifascisti. Si sono accaniti contro di lei solo perché tra le manine stringeva una bandiera a-stelle-e-strisce. L'aggressione è avvenuta oggi pomeriggio a Reggio Emilia mentre la piccola prendeva parte, insieme a una delegazione di +Europa e Italia Viva, al corteo cittadino. Purtroppo non è stato l'unico episodio di violenza a caricare di tensione e odio una celebrazione, quella della Liberazione, che ha sempre diviso il Paese.

Se in passato gli scontri e le divisioni si consumavano tra il centrodestra e la sinistra per l'appropriazione indebita che quest'ultima pretendeva di esercitare sul 25 aprile, quest'anno l'odio degli antifascisti si è riversato su alcune frange più moderate e centriste della sinistra. Gli episodi, oltre a quello già raccontato di Reggio Emilia, sono stati numerosi. A Roma la violenza verbale di Vauro contro il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. A Milano gli attacchi (sempre verbali) a Enrico Letta "servo della Nato" e le durissime intimidazioni alla Brigata Ebraica con cori a sostegno della Intifada. A Torino le bandiere della Nato e del Pd date alle fiamme. A Bologna il raid dei soliti centri sociali che hanno imbrattato e devastato le vetrine. Ovunque, poi, un profluvio di striscioni e slogan che, in nome di uno pseudo pacifismo, sono stati usati contro chi sta sostenendo, all'interno del governo Draghi, la causa ucraina attraverso l'invio di aiuti anche militari.

Giusto questa mattina, ad Acerra, Mattarella aveva rimarcato che "il titolo di resistente va a tutti coloro che, con le armi o senza, mettendo in gioco la propria vita, si oppongono a una invasione straniera". Una precisazione doverosa per i tanti (troppi), come Gianfranco Pagliarulo, che in nome di una imprecisata pace sostengono posizioni filorusse contro i "nazisti" ucraini. Eppure, per quanto nelle scorse ore sembrava si fosse ricreduto, oggi il presidente dell'Anpi ha sì condannato i fischi a Letta ma ha anche ribadito che le bandiere della Nato e degli Stati Uniti al corteo del 25 aprile non devono essere sventolate perché sono "inopportune". Una puntualizzazione pericolosa viste le tensioni e le divisioni di oggi.

Tanta violenza, però, non stupisce più. La sinistra ha da sempre il monopolio del 25 aprile. Da decenni, come ricorda Francesco Giubilei, si erge a giudice supremo: stabilisce chi ha il diritto a ricordare la Resistenza. Un'appropriazione indebita che, con il passare del tempo, ha portato a ridimensionare il ruolo avuto, durante la Seconda guerra mondiale, dai partigiani non comunisti. Oggi si è tentata la stessa operazione. Gli antifascisti hanno cercato di silenziare chi, all'interno della stessa sinistra, non solo ritiene doverosa la resistenza degli ucraini contro l'invasore russo, ma sostiene anche l'impegno attivo dell'Italia contro la guerra attraverso l'invio di armi. È sempre la solita violenza ideologica che poi in alcuni casi sfocia in quella fisica. 

Non ci liberiamo dei cretini rossi. Francesco Maria Del Vigo il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Fischi a Letta e agli ucraini. Anche il Pd e Mattarella si accorgono che il 25 Aprile è la festa dell'odio.

In piazza per la Liberazione, ma allo stesso tempo contro la guerra in Ucraina, nemmeno troppo velatamente a favore di Putin e assolutamente contro la Nato e gli Stati Uniti. Se non fosse una stringatissima cronaca politica della giornata di ieri, potrebbe essere l'anamnesi di uno psichiatra. Il paziente in questione è la sinistra che ieri, nel giorno del suo Natale laico, si è manifestata in tutte le sue contraddizioni macroscopiche: putiniani e antiputiniani, filo atlantici e anti americani, amici e nemici di Israele, sinceri democratici e ipocriti blanditori di autocrazie.

Così, anche quest'anno, la festa della Liberazione è stata occupata dagli estremisti, alla faccia dei tanti manifestanti pacifici. Ed è stata monopolizzata da una sinistra (sedicente) pacifista che non riesce a far pace con se stessa: odia gli americani anche se senza americani non avrebbe nulla da festeggiare; sciorina un affettato anti totalitarismo e poi tifa per tutte le ultime dittature rimaste sul globo terracqueo (siano rosse o russe poco importa); si pavoneggia nel mito della Resistenza e poi se la prende con chi come gli ucraini sta resistendo contro un invasore con le unghie e con i denti, non solo con parole, slogan, bandiere e canzoni. Hanno voglia di dire che il 25 Aprile è una festa di tutti e che la destra la rende «divisiva», quando i primi a dividersi sono proprio loro. Così, i soliti esagitati che ogni anno fischiano la Brigata Ebraica, quest'anno se la sono presa anche con Enrico Letta accusato - con molta originalità -, di essere un servo degli Stati Uniti. Evidentemente persino gli esponenti del Pd sono considerati già troppo di destra per celebrare il 25 Aprile, per entrare nel privé degli estremisti rossi. Ed è proprio questo il danno più grosso che la sinistra ha inferto alla Liberazione: averla sottratta a tutti per farla cosa di pochi, averla politicizzata - anziché storicizzata - per poterla poi usare come clava contro tutto quello che si muove vagamente a destra del proprio baricentro.

L'anno prossimo il presidente dell'Anpi invece di mettere al bando i vessilli della Nato dai cortei (ma poi, voi avevate mai visto una bandiera della Nato in una manifestazione?) dovrebbe assicurarsi che nessuno porti bandiere rosse con falce e martello e il faccione di Putin. Perché il clima è proprio quello, da far accapponare la pelle ai partigiani (quelli veri). Se la Liberazione è questa roba qui, tanto vale liberarsene. 

Non basta dirsi antifascisti per essere democratici. Francesco Giubilei il 25 Aprile 2022 su Il Giornale.

Non c'è nulla da spartire con chi insulta il Presidente della Repubblica, contesta la brigata ebraica, va in piazza con la falce e martello, impedisce di manifestare e aggredisce chi la pensa diversamente.

Per anni la destra italiana è stata accusata di fare polemica il 25 aprile, di essere divisiva e di non riconoscere la Festa della Liberazione come una giornata di unità nazionale. A chi faceva notare il connotato ideologico e politico assunto dalle manifestazioni di piazza, veniva contestato il mancato riconoscimento del valore della resistenza. La ricorrenza del 25 aprile è stata così monopolizzata dalla sinistra e in particolare all’Anpi che negli ultimi decenni ha distribuito patenti su chi avesse o meno il diritto di ricordare la resistenza. Così il ruolo dei partigiani bianchi, cattolici, azionisti, repubblicani è stato non solo ridimensionato ma spesso dimenticato. Lo stesso dicasi per gli alleati il cui contributo nella liberazione viene omesso o ricordato con fastidio. L’area comunista e postcomunista si è impossessata delle piazze del 25 aprile. Si trattava di uno schema conveniente sia per l’Anpi che poteva rivendicare la propria primazia sia per il mondo politico e culturale di sinistra che svolgeva un importante gioco di sponda con l’Associazione Nazionale Partigiani Italiani. Tutto ciò ha funzionato fino allo scoppio della guerra in Ucraina che ha fatto esplodere un corto circuito tutto interno alla sinistra ed è emersa una spaccatura tra i sostenitori all’invio delle armi e i contrari, tra i fautori della Nato e i suoi detrattori. Le polemiche dei giorni scorsi sulla linea assunta dal presidente dell’Anpi sono deflagrate oggi con le manifestazioni di piazza per celebrare la Festa della Liberazione, in particolare a Milano.

Tra gli attacchi al Presidente Mattarella, i litigi tra chi è pro e contro la Nato, le discussioni sulle bandiere americane, gli insulti tra i manifestanti, più che una festa di unità nazionale è sembrato di assistere a una lotta fratricida interna alla sinistra. Non proprio uno spettacolo edificante. Gli episodi sono stati molteplici e diffusi al punto da non poter essere derubricati come semplici provocazioni o scaramucce. In particolare colpisce la contestazione alla Brigata ebraica (un episodio in questo caso non nuovo) a cui si sono aggiunti vari cartelli contro la Nato e gli Stati Uniti come quello di Rifondazione Comunista che recita "Basta guerre. Contro Putin e contro la Nato". In un altro cartello è stata raffigurata la morte con la falce avvolta da un mantello con la bandiera americana. Oltre alle bandiere rosse, colpisce in particolare quanto avvenuto a Reggio Emilia. Nella città emiliana un gruppo di “presunti antifascisti” ha aggredito una delegazione di militanti di Italia Viva e +Europa in cui c'era una bambina di otto anni con in mano una bandiera americana. È lecito domandarsi cosa c’è da spartire con chi insulta il Presidente della Repubblica, contesta la brigata ebraica, va in piazza con la falce e martello, impedisce di manifestare e aggredisce chi la pensa diversamente. Sarebbe ora di dire che non basta dirsi antifascisti per essere democratici.

Il 25 aprile dei marziani elogi per Putin e fischi per la brigata ebraica. Sembra quasi che scimmiottino la “denazificazione” sognata da Putin, convinti realmente che un Paese di 45 milioni di abitanti, sia rappresentato dai duemila esaltati del battaglione Azov. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 27 aprile 2022.

Stavolta non c’era neanche il pretesto della Palestina, la cauzione ideologica dietro cui storicamente il pregiudizio giudeofobico si nasconde e si fa bello. I fischi della piazza di Milano alla Brigata ebraica sono venuti fuori così, gratis, per contorto senso di appartenenza, per ottusa assimilazione e forse per riflesso condizionato. Lo stesso che da qualche anno trasforma l’anniversario della liberazione in una cronaca marziana, con gli ebrei, prime vittime del nazifascismo, contestati a muso duro dalla sinistra “dura e pura”, costretti a sfilare con la “scorta”, protetti dal servizio d’ordine.

La guerra di Putin poi ha complicato il quadro, già di per sé demenziale: «Servi della Nato!», gridavano ieri i contestatori ai reduci dei campi di sterminio hitleriani e ai loro familiari quando le due parti del corteo si sono incontrate. Ma perché?

In piazza i soliti vecchi gruppettari, ma anche molti giovani, ragazze e ragazzi che urlano nei megafoni mentre passano le bandiere con la stella di David. Un’immagine davvero pietosa. Accanto alla Brigata ebraica le comunità ucraine milanesi con tantissime bandiere blu e gialle, naturalmente anche loro fischiate dagli pseudo antifascisti. Qualcuno gli grida in faccia senza alcuna vergogna: «Nazisti!!», altri intonano per diversi minuti l’angosciante e sibillino slogan: «Ucraina antifascista solidarietà internazionalista!».

Sembra quasi che scimmiottino la “denazificazione” sognata da Putin, convinti realmente che un Paese di 45 milioni di abitanti, sia rappresentato dai duemila esaltati del battaglione Azov, Ci mancano solo i simboli della Federazione russa e delle repubbliche separatiste del Donbass per completare il rovesciamento perfetto.

E poi ci sono i vessilli dell’Unione europea, degli Stati Uniti e dell’odiata Nato, altri bersagli d’elezione delle avanguardie antagoniste che nella loro singolare interpretazione della Storia riescono nel capolavoro di gettare fango su tutti coloro che hanno combattuto contro il Terzo Reich. A parte la Russia che nell’universo parallelo in cui vivono essere ancora la gloriosa Urss.

«Fuori la Nato dal corteo!» ringhiano grintosi, ma vola anche un iperbolico «Assassini, assassini!», rivolto praticamente a tutti gli altri dimostranti, dal segretario del Pd Enrico Letta, alle migliaia di persone scese in piazza per ricordare e celebrare il 25 aprile del 1945 e non per alimentare una guerra immaginaria contro l’occidente e la democrazia. Anche perché la guerra, quella vera, divampa da due mesi nel cuore dell’Europa, con città distrutte, migliaia di vittime e milioni di profughi, una guerra di invasione illegale e sanguinaria, scatenata per volontà di Vladimir Putin e non dei suoi avversari globali.

Gli scorre sotto gli occhi tutti i giorni ma non la vogliono vedere perché metterebbe in crisi tutta la teologia geopolitica con cui interpretano ogni evento. C’è chi si aggrappa alla propaganda e alle fake news negando le stragi e chi fa spallucce: «Quello che fanno i russi non ci interessa, noi combattiamo contro gli imperialisti di casa nostra» replicano gli antagonisti a chi gli chiede come mai non dicano nulla sui crimini contro l’umanità in Ucraina e sulla repressione del dissenso interno da parte del Cremlino e del Fsb.

Ma l’insofferenza e il risentimento nei confronti degli ucraini, della strenua difesa del loro paese invaso da truppe straniere, della loro ostinazione a non arrendersi al tiranno non riguarda soltanto le frange più massimaliste della sinistra; è un sentimento strisciante che si fa largo nell’opinione pubblica, favorito dall’ambiguità dell’equidistanza, dai né, né, come se le responsabilità delle due parti in causa fossero equivalenti, un pensiero che cancella magicamente la differenza tra aggressori e aggrediti, tra le vittime e i carnefici.

Per questo il Capo dello Stato Sergio Mattarella, che già venerdì scorso aveva pronunciato parole nette, è tornato a ribadire la vicinanza del nostro paese e della nostra diplomazia con la resistenza di Kiev proprio nel giorno della liberazione.

Quella stessa resistenza davanti alla quale in molti arricciano il naso perché trovano blasfemo il paragone con i nostri partigiani ( che peraltro furono armati e addestrati dagli anglo- americani). E lo ha fatto con la consueta chiarezza, senza timore di accostamenti sacrileghi: «Pensando agli ucraini che resistono mi vengono in mente queste parole: “Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor’. Sappiamo tutti da dove sono tratti questi versi. Sono i primi di Bella ciao».

 La vera storia della Brigata ebraica. Alessandro Gnocchi il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Chi la fischia in corteo dovrebbe leggere il filosofo Jonas che ne raccontò le imprese.

Come ogni anno, la Brigata ebraica è stata fischiata al corteo del 25 aprile di Milano. Speriamo sia soltanto ignoranza e non pregiudizio razzista. Per la prima c'è rimedio, per il secondo quasi mai. Gli analfabeti di andata e di ritorno potrebbero, ad esempio, leggere il discorso che il filosofo Hans Jonas tenne in occasione del Premio Nonino 1993. È intitolato Razzismo e si può leggere in appendice al saggio Il concetto di Dio dopo Auschwitz (edito dal Melangolo).

Prima di entrare nel merito alcune informazioni. Hans Jonas è un filosofo tedesco, naturalizzato statunitense, allievo di Martin Heidegger e compagno di studi di Hannah Arendt. Ha scritto volumi fondamentali sullo gnosticismo e sull'etica nell'età tecnologica, trattando temi cruciali come la clonazione, l'eutanasia, l'eugenetica.

All'ascesa del nazismo, Jonas decide di cambiare aria e si trasferisce prima in Inghilterra e poi in terra d'Israele. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, si arruola. Nel 1940 è in armi. Nel 1944 entra a far parte della appena costituita Brigata ebraica (prima esistevano brigate a prevalenza ebraica, ma nessuna esibiva la stella di David). La Brigata ebraica risale l'Italia da Taranto a Udine, contribuendo in misura decisiva alla Liberazione del nostro Paese. Il viaggio della Brigata prosegue fino alla Germania ormai sconfitta. Non sarà l'ultima guerra di Jonas, che ha partecipato anche alla guerra arabo-israeliana del 1948. In seguito si trasferirà a New York, diventando cittadino americano.

Hans Jonas ha raccontato i suoi anni in divisa, e in particolare il periodo dei combattimenti in Italia. Il suo discorso del 1993 è un capolavoro di umanità ed equilibrio. C'è spazio naturalmente per la condanna del razzismo italiano ma anche la consapevolezza che tale razzismo non aveva corrotto l'intera popolazione. Per questo, Jonas ha scritto di aver sempre sentito un legame stretto con l'Italia.

Tornasse ora, vedrebbe gli spregevoli razzisti italiani in azione nel Paese che la Brigata ebraica ha salvato impugnando le armi e rischiando la vita. Il filosofo potrebbe toccare con mano come il razzismo contemporaneo utilizzi le parole dell'antirazzismo: per questo è così difficile da contrastare. L'antisemitismo infatti si nasconde dietro alla solidarietà per il popolo palestinese.

Chi contesta i liberatori, perché ebrei, suscita soltanto nausea. Per i pecoroni fischianti che si aggregano senza neppure saperne il motivo, proponiamo in questa pagina una parte del discorso di Hans Jonas.

La retorica antifascista ha ancora senso? Le polemiche sul 25 Aprile: viva i partigiani e abbasso i pacifisti, ecco il manifesto dei nuovi moderati. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Aprile 2022. 

Quando eravamo ragazzi, e un po’ estremisti, il 25 aprile gridavamo così: “La Resistenza è rossa / non è democristiana / viva, viva / La guerra partigiana”. Gridavamo questo slogan per contrapporci al Pci, che invece voleva fare del 25 aprile una festa di unità nazionale. E invitava sul palco Taviani e Zaccagnini. Soprattutto Taviani non sopportavamo, perché era, o era stato, ministro degli Interni con la mano un po’ dura. Sto parlando di quegli anni lì, roventi, intorno al 1968. Avevamo ragione piena e torto marcio, credo. Ragione, perché, si dica quel che si vuole, ma la Resistenza è stato fondamentalmente l’episodio più rosso della storia nazionale.

Guidata dai comunisti, in montagna e nelle città. Con tutti gli eroismi e la generosità e le malvagità possibili. Ed è la ragione per la quale in Italia, unico paese occidentale, dopo la guerra si affermò un partito comunista straordinariamente forte e che raccoglieva i voti di circa un terzo della popolazione, e le simpatie, più o meno, della metà.

Torto marcio perché il 25 aprile è un’altra cosa. È la liberazione dal fascismo e dal nazismo, e l’inizio della storia dell’Italia democratica. E francamente sarebbe da cretini immaginare che Hitler e Mussolini furono sconfitti da Longo e Amendola. Furono sconfitti dagli eserciti alleati. Dagli inglesi e dagli americani. Mentre la Germania fu liberata dai russi. E il 25 aprile, in Italia, iniziò una storia democratica eccezionale, nella quale i comunisti ebbero un grande spazio, proprio perché se lo erano guadagnato con le armi, ma i democristiani, e gli altri partiti democratici più piccoli, giocarono un ruolo essenziale. Nacque dall’incontro tra queste forze la Costituzione socialmente avanzatissima, ma anche liberale e garantista, della quale ancora disponiamo e che poco utilizziamo. E quindi era assurdo voler escludere i democristiani e i liberali da una festa che era anche la loro.

In quegli anni politicizzatissimi, il 25 aprile era comunque, essenzialmente una festa antifascista. E l’antifascismo era un “fiume politico” molto stravagante, che teneva insieme liberalità e autoritarismo, russi e americani, comunisti e anticomunisti. Tutti a pari diritto. Perciò sono assurde, oggi, le contestazioni che vengono fatte nei cortei. Contro il Pd, o addirittura – con sfumature antisemite – contro la brigata ebraica. Assurde, contraddittorie e un po’ folcloristiche. Ho sentito i simpatici giovani di Milano che chiedevano al Pd di uscire dal corteo (ma tra tutti quanti, il Pd è il partito più coerentemente erede della Resistenza) perché guerrafondaio. E poi gli stessi giovani gridare che il 25 aprile non è una ricorrenza ma è il giorno della Resistenza. Beh, voi capirete che se uno esalta la Resistenza armata e poi condanna l’uso delle armi per resistere all’invasore, c’è qualcosa che non va. Così come ho trovato curioso imprevisto, quest’anno l’entusiasmo per la lotta partigiana espresso da settori molto moderati e anticomunisti dello schieramento politico. Non li ricordavo, questi settori, negli anni scorsi, in prima linea e col fazzoletto rosso al collo (eh, sì: i partigiani, quasi tutti, portavano il fazzoletto rosso al collo…). Cosa è successo?

C’è una certa inversione di ruoli. I gruppi moderati, che in questi giorni, dalla destra al centrosinistra, si sono spostati su posizioni abbastanza militariste, e che non ammettono dissensi – guidati, come succede sempre in questi momenti di sbandamento della politica, non da un partito ma da un giornale: Il Corriere della Sera – son diventati tifosi accesi di tutta la vecchia retorica resistenziale. E questa retorica è stata gettata nel piatto della lotta dura al pacifismo, spesso con toni abbastanza sbracati, e in una posizione di contrapposizione frontale con la Chiesa cattolica. Partigiani contro pacifisti. Possibile? E tutto questo non pone un problema anche ai pacifisti? Quale problema. Provo a dirlo in modo netto e provocatorio: l’antifascismo è ancora un valore?

Io credo che lo sia se inteso come lotta all’autoritarismo, alle idee reazionarie nel campo del costume, al forcaiolismo, alla xenofobia. Punto. E che non abbia nessun senso se riferito al passato regime di Mussolini. L’antifascismo, quando diventa pura retorica resistenziale, diventa un macigno che serve solo ai conservatori. Toglie alla sinistra ogni problema di linea politica, identificandola con un tabù decrepito e inattuale. La rinchiude in una logica difensivistica, tagliando la strada alle lotte sociali. Sostituisce la ricerca della politica e del conflitto. Sostituisce l’avversario con l’immagine di piazzale Loreto. Un disastro politico e morale. È un vecchio discorso. Lo riprenderemo. Credo che la retorica, o la paura antifascista, già abbia prodotto tanti danni in Italia. Spinse, negli anni 70, il Pci a ripiegare sulla democrazia cristiana. E pezzi di gioventù a ripiegare sulla lotta armata. Gli uni e gli altri con l’obiettivo di evitare un pericolo: il golpe imminente. Pericolo che non esisteva. Ne riparleremo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Era guerra contro l’invasore o era guerra civile? Mattarella e la resistenza, la storia è diversa: i tedeschi li abbiamo traditi, gli americani ci hanno invaso. Paolo Liguori su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

Dopo tanti anni un 25 aprile, festa della Liberazione, che ha rivisto un movimento. Per due anni non si era celebrata, prima era una festa stanca, ormai logora, perché è ormai lontano il tempo della Liberazione. Ieri c’è stato un grande movimento e allora potremmo dirci contenti perché torniamo ad un punto fermo della vita del nostro paese. E invece no, non siamo contenti, perché il movimento c’è stato per l’Ucraina. Allora bisogna dare le armi all’Ucraina perché i partigiani combattevano con le armi o non bisogna darle?

La discussione è durata in maniera più o meno caotica tutto il giorno, poi le parole esaustive del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte al quale io mi inchino perché è il mio Presidente. Però mi dispiace, non ha detto una cosa corretta. “Una mattina mi sono svegliato e ho trovato l’invasor”, sono le parole di ‘Bella ciao’, pronunciate da Mattarella. Si riferiva alla guerra partigiana? Sì, diceva che proprio per questo motivo l’invasore russo in Ucraina e l’invasore in Italia devono essere messi sullo stesso piano e sullo stesso piano la Resistenza.

Ma i tedeschi erano invasori in Italia? No, i tedeschi erano alleati dell’Italia, noi li avevamo voluti come alleati. E quando sono cominciati a sbarcare gli americani, in Sicilia nella sua terra, quelli erano gli invasori. Ci sono state anche battaglie contro pochi fascisti che resistevano e ci sono stati morti. Altri italiani, hanno poi preferito andare con americani e inglesi. Il 25 luglio buttarono a mare Mussolini ma Badoglio disse ‘la guerra continua’ e quindi eravamo ancora in guerra con gli americani, al fianco dei tedeschi. Poi l’8 settembre, giorno in cui si fece l’armistizio, passammo dall’altra parte – naturalmente non lo dico per lei, Presidente, che lo sa benissimo ma per chi potrebbe essersi confuso – il Re in fuga a Bari e noi, da un certo punto dell’Italia in su, nel nord, cominciammo a sostenere la Resistenza, la guerra partigiana con le armi. Ma contro chi? Contro altri italiani che combattevano a fianco della Repubblica di Salò. Quindi italiani da una parte e italiani dall’altra. Era guerra contro l’invasore o era guerra civile?

Perché subito dopo il 25 aprile ne abbiamo fatto una bandiera della Resistenza e del Fronte di Liberazione Nazionale? Perché ne avevamo bisogno per presentare una classe politica all’estero che fosse dignitosa, perché quella di prima aveva perso con Mussolini onore e dignità. Sono tutte questioni politiche, non sono questioni militari, non sono questioni di eroismo contro l’invasore. Sono questioni di opportunità politica. Per fortuna l’Italia ha scelto la parte giusta, ha lasciato andare la parte sbagliata. Questo va raccontato ai ragazzi, questo va raccontato nelle scuole, non che quella guerra partigiana era uguale a questa resistenza ucraina. Per paradosso questa resistenza ucraina ha molte più ragioni perché si tratta veramente del russo invasore. Noi i tedeschi li avevamo scelti, li abbiamo traditi, li abbiamo abbandonati. Questa è la verità storica, il resto sono parole che si sono usate giustamente il 25 aprile per passare dalla parte giusta e farci dare il Piano Marshall. Oggi si usano a sproposito e bisogna stare attenti a non confondere le idee dei giovani perché altrimenti non si sa dove finiamo.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom 

Anpi, Parisi non la dice tutta: i partigiani “rossi” combattevano per Stalin, non per la libertà. Marzio dalla Casta giovedì 21 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.   

Dice al Foglio Arturo Parisi, Gran Muftì del prodismo al tempo dell’Ulivo, che «il ruolo storico dell’Anpi» è «ormai esaurito». Non è la sua, si badi, una semplice opinione. Bensì certezza ricavabile dalla lettera A dell’articolo 1 dell’atto costitutivo della stessa Anpi. «L’associazione – vi si legge – ha lo scopo di riunire tutti coloro che hanno partecipato con azione diretta alla guerra partigiana contro i nazifascisti, contribuendo a ridare al nostro Paese la libertà e la democrazia». Ne discende che essendo il suo presidente, Gianfranco Pagliarulo, nato solo nel 1949 egli non possa fregiarsi del titolo di partigiano. Né, a maggior ragione, esserne il capo.

Parisi al Foglio: «L’associazione ha esaurito il suo ruolo»

Parisi coglie nel segno. Ma anche Marcello Veneziani, nel momento in cui si chiede perché solo ora la sinistra si accorge che l’Anpi è praticamente senza partigiani. Un interrogativo condivisibile e che rilanciamo volentieri: come mai? Veneziani se lo spiega con il fatto che l’Anpi ha una posizione non conforme sulla guerra in corso: pendente più dalla parte dell’invasore russo che dell’invaso ucraino. E questo con buona pace dei versi di Bella ciao, che non per caso Parisi esorta a rileggere una volta constatato, scrive il Foglio, che combattere per la libertà «è un concetto che oggi sembra non andare più a genio all’Anpi senza partigiani».

Sulla Resistenza verità ancora lontana

Ma l’affermazione è tanto vera, quanto incompleta. È infatti il caso di aggiungervi che sul punto il comunista Pagliarulo è in perfetta sintonia con i veri partigiani rossi, per i quali la lotta al nazifascismo era solo il preludio all’avvento dello stalinismo. È il motivo per cui non esitarono ad eliminare partigiani “bianchi“, monarchici, liberali e persino socialisti. Messa così, appare quindi chiaro che al ragionamento di Parisi manca il pezzo finale: la riscrittura, secondo verità storica, della Resistenza: oltre la retorica ufficiale e la rendita di posizione fin qui goduta da chi ha politicamente egemonizzato quel fenomeno, rendendo praticamente sinonimi antifascismo e democrazia. Un’equazione falsa e pericolosa, che ora proprio l’imbarazzata equidistanza tra Mosca e Kiev esibita dal “partigiano” Pagliarulo impone di cancellare.

Quella falce e martello dall’ANPI all’Ucraina. Max Del Papa su Culturaidentita.it il 20 Aprile 2022.

Nei giorni tra il 16 marzo e il 9 maggio si ricorda sempre il calvario di Aldo Moro, lo statista democristiano trucidato dai terroristi nel 1978. Una condanna annunciata. Moro in visita ufficiale negli Stati Uniti si sentì avvisare in modo brutale da Kissinger: noi non capiamo perché dovremmo subire attentati con armi palestinesi transitate per l’Italia in base al tuo lodo per cui tu chiudi gli occhi dietro garanzia che non insanguineranno il tuo Paese. Quindi vedi tu come la vuoi capire. Moro capì. Capì che il suo “lodo Moro”, formula di equidistanza tra israeliani e palestinesi che prevedeva un transito di armi per l’Italia da questi ultimi, dietro garanzia di venire risparmiato dagli attentati, gli sarebbe costato la vita. Pochi mesi dopo, Mario Moretti cominciava ad allestire a Roma i covi – non il covo, i covi – per la prigionia. Perché dalle indagini conseguenti, così come dalle due commissioni d’inchiesta, sarebbero uscite prove di svariati luoghi di detenzione: anzitutto il covo in via Massimi, in zona Balduina, prossimo a via Fani (il tragitto arzigogolato fino a via Montalcini, in una Roma mattutina e convulsa, era una verità di stato sulla quale gli stessi brigatisti si contraddissero innumerevoli volte); quindi un probabile trasporto lungo il litorale di Focene, pieno di quella sabbia catramata depositata sulla Renault 4 che divenne il carro funebre di Moro, e di quelle escrescenze arboree trovate nei risvolti dei pantaloni del presidente; ancora, il citato covo di via Montalcini; infine, un ultimo nascondiglio nella zona del ghetto, dove, secondo le risultanze più recenti, Moro sarebbe stato ucciso per venire trasportato nella vicina via Caetani, a metà tra le sedi DC e PCI. La profezia era compiuta, gli americani avevano usato le BR. Questo per dire che sui condizionamenti atlantici nessuno cade dal pero e nessuno nega siano condizionamenti pesanti, che vanno dalle ingerenze politiche alle manovre economiche fino alle istanze culturali, del resto accettate passivamente: antiamericani in corteo, americanizzati fino al midollo, questo sono sempre stati i giovani italiani: oggi, poi, con le mega multinazionali della tecnologia e dello spettacolo…

Fermato questo punto, possiamo discutere in misura analitica, smaliziata delle ipocrisie sull’Ucraina? A Mariupol, a Odessa, fioriscono bandiere con la falce e il martello che deliziano gli apparenti “né con Putin né con Zelensky”. Come se tutto si riducesse alla giustapposizione tra due capi di stato, l’invaso e l’invasore, come se due popoli fossero solo carne da macello. Non è così e papa Francesco ha cercato di farlo capire col gesto delle due infermiere amiche, una ucraina l’altra russa, alla Via Crucis. Nè con l’uno né con l’altro? Messa così ricorda molto il “né con lo stato né con le BR” di memoria lottacontinuista, per non ammettere che si stava più con le BR. Questi stanno con Putin ed è facilissimo stanarli, basta scrivere contro l’invasore o contro qualche suo propagandista e immediatamente ti ritrovi la bacheca invasa di agit-prop, di “nè-né” con l’effigie di Gramsci, di Guevara, di Chavez, di Stalin, di Mao. Gente che nelle bandiere falcemartellate ritrova il frisson della gioventù, vorrebbe ricostruire il Muro a Berlino e riportare tutto a prima del 1989.

L’impero. La Terza Internazionale. La convinzione, sordida ma tenace, che una buona, sana dittatura sia meglio di una democrazia malaticcia o terminale, come insinua il sociologo Orsini: regime per regime, meglio quello cinese che quello della finanza globalizzata. Che poi nella finanza globalizzata ci sguazzino i Putin, gli Xi prima e meglio degli altri, che sotto il loro tallone i diritti civili, sociali, delle minoranze non siano considerati, è dettaglio o provocazione di chi ragiona. Ma restiamo al punto. Lo svolazzare di bandiere rosse, sui carrarmati, sui monumenti, nelle piazze riporta a una certa concezione della sinistra totalitaria cui si saldano ambienti di destra più o meno estrema. Anche qui, nessuna sorpresa, nessun fatto inedito: già negli anni Settanta i giovani mussoliniani di Costruiamo l’azione invitavano i nemici carissimi, dell’altera pars, a saldarsi contro l’imperialismo occidentale e americano al grido “ragazzi non facciamoci inculare”.

L’imperialismo americano c’è stato e c’è, ma, come spiega Federico Rampini, uno che conosce il mondo, come fai a disinteressarsi di quello russo, cinese, turco-ottomano, persiano e via storicizzando? L’imperialismo russo è genetico, comincia con Pietro il Grande e finisce, per ora, con Vladimir ex KGB: un misto di feudalesimo, stalinismo, misticismo fatalista da Grande Madre Russia che delizia quelli come il presidente dell’Anpi Pagliarulo, uno che riesce a convivere benissimo con le sue contraddizioni: “Condanniamo l’invasione”, ma poi si scopre che considerava l’Ucraina un Paese nazista, tutto intero, nei suoi 46 milioni di abitanti. Putiniano, lui? No, falso, falsissimo, è solo che gli piacciono le bandiere rosse con la falce e col martello, lo esaltano, lo fanno tornare vigoroso. Lui filosovietico? No, solo antiamericano, anti Nato, anti Occidente e, ovviamente, anti Ucraina “nazista”.

Un gattopardismo, un gioco delle tre carte che ha irritato Gian Antonio Stella il quale si è cucinato il Pagliarulo mettendo in fila tutte le sue esternazioni imbarazzanti con tanto di chiosa, rilasciata al Foglio, dal sindaco di Sant’Anna di Stazzema, Maurizio Verona: «Il presidente dell’Anpi non rende onore alla Resistenza. E mi dispiace per l’Anpi. Io questo Pagliarulo preferisco non ascoltarlo, mi fa male vedere dove trascina la storia dei partigiani. Leggo molto più volentieri le dichiarazioni del presidente onorario Carlo Smuraglia. Tra la nostra Resistenza e quella dell’Ucraina non ci sono differenze. Un popolo invaso ha tutto il diritto di difendersi e va aiutato in questa impresa coraggiosa, anche con le armi. Noi siamo per la pace con tutte le nostre forze. Ma di fronte all’invasore, di fronte ai massacratori, di fronte alla violenza cieca, si deve resistere. Questa è la storia di Sant’Anna. Questo è il 25 aprile».

Ma per la versione di Pagliarulo, l’Anpi è quella che ogni anno pretende di impedire ai partigiani ebrei di sfilare. Che sia Sant’Anna di Stazzema o il Donbass, l’unica bandiera a garrire nel sol dell’avvenire, quella che “la trionferà”, dev’essere rossa, con la falce e col martello.

Da open.online il 20 aprile 2022.

Albertina Soliani, vicepresidente dell’Anpi e presidente dell’Istituto Cervi oltre che ex senatrice, dice oggi in un’intervista a Repubblica che anche quella degli ucraini è resistenza. E ha una preoccupazione: che i post del presidente dei partigiani Gianfranco Pagliarulo oscurino «il patrimonio unico che è in Italia la grande eredità della Resistenza e della Liberazione, della fine del nazifascismo, della Repubblica e della Costituzione: così si tradisce il 25 aprile». 

Soliani ritiene che l’Anpi debba «riconoscere decisamente la resistenza del popolo ucraino, così come del popolo del Myanmar e come abbiamo fatto in passato ad esempio, con la resistenza vietnamita». All’associazione serve «una riflessione più profonda e una scelta degli obiettivi principali che sono: sostegno alla resistenza dei popoli, difesa dei valori della democrazia, costruzione dei processi globali di pace e di convivenza pacifica.

Ci vuole una scelta di responsabilità in questo momento storico, che passa attraverso l’Unione europea e quindi la politica estera comune e la difesa comune. Queste sono le cose che dovrebbe dire l’Anpi oggi, in coerenza con la sua storia e con il patrimonio che rappresenta». Mentre è certo che prima dell’invasione del 24 febbraio «dovevano essere compiute azioni sul piano internazionale di collaborazione. 

Premesso questo, l’aggressione di Putin all’Ucraina ha sconvolto il mondo e gli assetti post seconda guerra mondiale. Il gesto di Putin è dirompente: non solo gravissimo e atroce perché devasta un Paese, ma anche perché scardina i principi fondamentali di una convivenza basata sul rispetto della sovranità dei popoli e degli Stati. La scelta di Putin di aggredire l’Ucraina ritengo sia anche dettata dalla sua paura di fronte alle democrazie».

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 20 aprile 2022.

«Ovvio». Basterebbe quella parola a spiegare perché il presidente dell'Anpi Gianfranco Pagliarulo sia sotto attacco con l'accusa d'esser troppo vicino alle «ragioni» di Putin e perché tutti gli altri non possano proprio capirlo. 

La usò pochi anni fa parlando dell'Estonia, della Lettonia e della Lituania, già allora spaventate dall'incubo che il despota di Mosca potesse tentare un giorno o l'altro un colpo di mano sugli stati baltici un tempo posseduti dall'impero zarista e poi dall'Unione Sovietica. Cosa che aveva spinto la Nato a creare una forza d'intervento rapido: «Essendo ovvio che la Russia non ha in nessun modo dato segnali di voler attaccare le tre repubbliche». «Ovvio»? Era il 3 settembre 2014 e la prima zampata l'orso russo l'aveva già data sulla Crimea da appena sei mesi. 

Un'occupazione lampo di migliaia e migliaia di «omini verdi» senza mostrine e segni di riconoscimento, un referendum stravinto «alla russa» (95,32% dei voti al Sì) e oplà, l'annessione era già cosa fatta.

Era poi così ovvio che l'amico Vladimir non avesse altre idee in testa? Magari partendo dalle regioni più vicine?

Il curriculum Macché... Lui, il primo rappresentante dei partigiani a non aver fatto la guerra («Come se io mi iscrivessi a una associazione di garibaldini e pretendessi di parlare a nome di Garibaldi», l'ha infilzato Pierluigi Battista), nato a Bari nel '49, quadro dal '74 del Pci milanese, vice-direttore dall'80 de Il Metallurgico dei metalmeccanici, traslocato nel '91 a Rifondazione, direttore de Il Treno , eletto con l'Ulivo nel 2001 per il Partito dei Comunisti Italiani fondato dal marxista-interista (autodefinizione) Armando Cossutta, piazzato alla guida de La Rinascita della sinistra per poi rientrare nel Pd giusto in tempo per andarsene all'Anpi del quale avrebbe diretto la rivista Patria Indipendente prima di diventare presidente, aveva in testa un solo pericolo.

Non quello della crescente tirannia putiniana legata al voto di scambio con i più spregiudicati e straricchi oligarchi russi ma quello dei più bellicosi nazionalisti ucraini che, in nome della rottura secolare con Mosca, si erano messi nella scia di oscuri figuri come Stepan Bandera, fondatore d'estrema destra dell'Esercito Insurrezionale Ucraino, che arrivò a giurare fedeltà a Hitler e a prendere parte, secondo i nemici, a stragi contro i polacchi e all'Olocausto contro gli ebrei. 

Accuse che non impedirono nel 2009 all'Ucraina di celebrare il centenario della sua nascita con un francobollo commemorativo. E a migliaia di giovani di accorrere ad arruolarsi, come nel giugno 2014, dopo la nascita della autoproclamata repubblica di Donetsk, nel battaglione Azov, il cui sole nero era ispirato al misticismo nazista.

Passato e presente Possibile che fosse tutta lì, l'Ucraina che in questi ultimi mesi, dopo tanti tormenti ed errori come quelli ricordati o la tentata cancellazione (altri anni, altri governi) della lingua delle minoranze, ha obbligato anche i più diffidenti a capire come quel popolo tutti i giorni macellato stia dando un esempio di attaccamento alla libertà, ai diritti, alla democrazia appena scoperta?

Certo, Pagliarulo potrà dire che le cose peggiori le scrisse quando ancora non era il presidente dell'Anpi. Le scrisse, però. In quel 2014. 

«Fosforo bianco su Slovjansk lanciato dagli aerei del nuovo presidente ucraino. Come a Falluja. È una tecnica molto americana. Sono le famose "armi chimiche". Che dice l'Unione Europea? Cosa dicono le Nazioni Unite?». 

«La presenza di una nave della marina militare italiana che va per conto della Nato nel Mar Nero in rapporto alla crisi ucraina aumenta la tensione internazionale. Da mesi Stati Uniti, Europa e Nato stanno giocando col fuoco in una polveriera». «Più tempo passa, più mi convinco che gli States vogliono la guerra per uscire dalla crisi». «Toh! La verità sta venendo fuori persino sulla stampa italiana! L'aereo della Malesia non è stato abbattuto dai cattivi ribelli filorussi ma dai buoni governanti di Kiev, cioè i nazisti». 

«È evidente che il governo ucraino, che andrebbe processato per crimini contro l'umanità, non vuole fare arrivare gli aiuti alle popolazioni che sta bombardando. È altrettanto evidente che cerca ogni pretesto per aprire un conflitto armato con la Russia». «Davanti all'ennesimo, rivoltante massacro operato dai nazisti di Kiev sostenuti dall'occidente, Repubblica fa capire che non si sa chi ha sparato perché ciascuna parte accusa l'altra. Insomma, può essere che gli indipendentisti si siano bombardati da soli.

Ma come si fa a essere non solo così faziosi, ma anche così stupidi?». Le prove allora c'erano, oggi no? 

L'omaggio allo «zar» Per non dire dell'ossequio allo Zar del 2013: «È vero che ci posson esser elementi di strumentalità nelle scarcerazioni che stanno avvenendo in Russia, eppure, pur rimanendo la gravissima macchia della legge contro l'omosessualità, si tratta di fatti positivi che non vanno sottovalutati. Il messaggio che mi pare voglia dare Putin (specificatamente all'Ucraina e più in generale all'universo mondo) è più o meno questo: mentre l'Europa peggiora, la Russia migliora». 

Figuratevi se l'avesse scritto Matteo Salvini!

L'onore «Il presidente dell'Anpi non rende onore alla Resistenza. E mi dispiace per l'Anpi. Io questo Pagliarulo preferisco non ascoltarlo, mi fa male vedere dove trascina la storia dei partigiani. Leggo molto più volentieri le dichiarazioni del presidente onorario Carlo Smuraglia», ha spiegato al Foglio Maurizio Verona, il sindaco di Sant' anna di Stazzema, dove il 12 agosto 1944 le SS massacrarono in meno di tre ore 560 civili, donne incinte e bambini: «Tra la nostra Resistenza e quella dell'Ucraina non ci sono differenze. Un popolo invaso ha tutto il diritto di difendersi e va aiutato in questa impresa coraggiosa, anche con le armi. Noi siamo per la pace con tutte le nostre forze. Ma difronte all'invasore, di fronte ai massacratori, di fronte alla violenza cieca, si deve resistere. Questa è la storia di Sant' Anna. Questo è il 25 aprile». 

Ci sarà rimasto malissimo Gianfranco Pagliarulo, a leggere parole così. E tante altre che in questi giorni si sono levate intorno a lui dal suo stesso mondo. E si sarà reso conto di come per parlare di certi temi sia necessario non avere seminato per strada inciampi come quelli da lui seminati. E se la prende con chi «è andato a frugare in qualche post» forse non ha proprio capito...

Le preziose interviste di Lerner ai protagonisti della Resistenza. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 20 Aprile 2022.  

Il presidente Gianfranco Pagliarulo ha dato troppe prove di inadeguatezza guidare un’associazione così carica di valori per la nostra storia. 

Una modesta proposta: Gad Lerner presidente dell’Anpi, l’associazione nazionale partigiana. L’attuale presidente, Gianfranco Pagliarulo, ex funzionario di partito, cossuttiano di ferro, dovrebbe dimettersi. Sono troppe le prove della sua inadeguatezza a guidare un’associazione così carica di valori per la nostra storia. Il suo attuale neutralismo nei confronti dell’invasione della Russia, le sue ambiguità sulle responsabilità di Putin a proposito degli eccidi di Bucha, la sua proibizione delle bandiere della Nato alle celebrazioni del 25 Aprile (ma su questo è d’accordo anche Lerner) fanno di lui un nostalgico dell’URSS. E a dimostrarlo non ci sono solo le dichiarazioni odierne, ma tutto ciò che ha detto dal 2014 sulla crisi ucraina. Diversi media hanno ripescato i numerosi commenti che Pagliarulo ha pubblicato su Facebook nel 2014-2015. Che un personaggio simile sia il custode dei valori della Resistenza e della Liberazione è quantomeno grottesco (ma Lerner sostiene che c’è chi vuol «rompere le scatole all’Anpi»).

Ha scritto Gian Antonio Stella: «Si sarà reso conto di come per parlare di certi temi sia necessario non avere seminato per strada inciampi come quelli da lui seminati». Ne dubito, ma cosa c’entra Lerner? Rai3 sta riproponendo, fino al 25 aprile, una parte delle oltre quattrocento interviste ai protagonisti della Resistenza italiana che Lerner e Laura Gnocchi hanno preziosamente raccolto (sotto la presidenza di Carla Nespolo) e che costituiscono ora un inestimabile intreccio tra memoria autobiografica e memoria collettiva, tra storia nazionale e storia personale, quella di chi, giovanissimo, fu chiamato ad una scelta rischiosa: combattere per la libertà. Questo deve fare l’Anpi: un lavoro culturale per tenere viva la memoria della lotta di Liberazione. Pagliarulo non è all’altezza di un simile compito. Tolga il disturbo e lasci il posto a Gad Lerner.

Staino contro il presidente dell'Anpi: "Rappresenta una minoranza estremista, troppa ambiguità sulla guerra di Putin". Giovanna Vitale su La Repubblica il 20 Aprile 2022.  

Il vignettista toscano attacca Pagliarulo: "Usa l'Associazione dei partigiani come una struttura di partito. Con le sue posizioni filo-russe ne sta snaturando la funzione di entità nazionale nata per tramandare i valori della Resistenza, trasformandola nel megafono di opinioni politiche radicali e minoritarie". 

Da vecchio iscritto all'Anpi, Sergio Staino è amareggiato e anche un po' preoccupato. "L'Associazione nazionale partigiani sta subendo una metamorfosi politica che rischia di danneggiare le nobili ragioni per la quale è stata costituita", dice il grande giornalista e vignettista toscano. "Se quella che doveva essere un'istituzione di testimonianza, di studio, di conoscenza e di approfondimento sulla Resistenza e la lotta di Liberazione - che sono la base della nostra convivenza civile e della Costituzione italiana - viene usata come una struttura quasi di partito, in cui cioè si esprimono opinioni politiche sulla situazione generale dell'Europa, del governo e degli equilibri mondiali, si esce parecchio fuori dal seminato", spiega il creatore di Bobo.

Giovanna Vitale per “la Repubblica” il 21 aprile 2022.  

Da vecchio iscritto all'Anpi, Sergio Staino è amareggiato e anche un po' preoccupato. «L'Associazione nazionale partigiani sta subendo una metamorfosi politica che rischia di danneggiare le nobili ragioni per le quali è stata costituita», dice il giornalista e vignettista toscano.

Che tipo di metamorfosi?

«Se quella che doveva essere una istituzione di testimonianza, studio, conoscenza e approfondimento della Resistenza e della Liberazione - che sono la base della Costituzione e della nostra convivenza civile - viene usata come una struttura quasi di partito, in cui cioè si esprimono opinioni politiche sulla situazione dell'Europa e del governo, si esce parecchio fuori dal seminato». 

Chi usa l'Anpi come struttura di partito e com' è potuto succedere?

«Con la progressiva scomparsa dei veri partigiani, alcune frange della sinistra radicale che non erano d'accordo su una democratizzazione dell'Anpi hanno pensato di trasformarla in una piccola barricata per la difesa di alcuni principi messi a loro giudizio in discussione.

Ormai quando il presidente Pagliarulo parla, non lo fa a nome dell'Anpi, bensì di una corrente partitica. Quella dei Bertinotti, Diliberto, Rizzo e compagnia. Un tipo di gestione che sta portando l'Associazione a diventare il megafono di una politica estremista e minoritaria». 

Sta dicendo che l'Anpi è ostaggio di una minoranza di estremisti?

«Più che ostaggio è un rifugio per posizioni che non mi sembrano maggioritarie nel Paese. Che la minoranza abbia voce va bene, però non deve rovinare l'Anpi, nata per difendere i valori della Resistenza e diffonderli nelle scuole, nella società, ma non con opinioni di parte». 

Pagliarulo è stato però confermato a larga maggioranza.

«Mah, si sa come vanno i congressi, non mi pare ci sia stata una chiamata alla mobilitazione degli iscritti. Per questo a me piacerebbe che ora si aprisse un dibattito su cos' è l'Anpi: io vorrei fosse considerata come una fondazione, tipo Istituto Gramsci, con un grande archivio e materiali storici per far rivivere nella società l'insegnamento partigiano». 

Così non si rischia di farne una ridotta per nostalgici?

«Noi che apparteniamo alla seconda o terza generazione, conosciamo il limite educativo e culturale di quell'insegnamento che per ragioni anagrafiche ha perso la forza della testimonianza diretta, ma piegarlo al dibattito politico è un errore.

Io sono un riformista anarchico, sono dentro l'Anpi e non mi sento rappresentato dalle posizioni di Pagliarulo, mi riconosco molto di più in quelle del presidente onorario Smuraglia che difende la Resistenza senza forzature né ambiguità. Una cosa è iscriversi all'Anpi, altra iscriversi a un partito». 

A proposito dell'invasione russa, Pagliarulo ha detto che bisogna "capire il contesto e le cause che hanno prodotto la situazione attuale". Le sembra equidistante?

«Trovo incredibile che si cerchino attenuanti a un'aggressione militare che sta massacrando migliaia di civili, con stupri e bambini rapiti. Pagliarulo fa trasparire la visione putiniana del conflitto: anche il dittatore russo sostiene di essere entrato in guerra per colpa della Nato. Ma tirare fuori questo argomento significa giustificare l'offensiva di Mosca, io mi rifiuto». 

Anche sull'invio delle armi agli ucraini l'Anpi si è detta contraria.

«L'Anpi, in quanto associazione partigiana, deve schierarsi a fianco di qualunque popolo combatta per la sua libertà e indipendenza. Conosco l'obiezione: ma ci sono dei nazisti dentro. Non importa. Non devi guardare ai governi, ma all'autonomia di un popolo che si batte per difenderla». 

Insisto, il discrimine per l'Anpi sono le armi. Lei da che parte sta?

«Ma scusi, gli ucraini stanno morendo, li stanno sterminando, e noi che facciamo? Rimaniamo fermi e chiediamo solo di fare delle trattative con chi peraltro non ha alcuna intenzione di cessare il fuoco finché non si sarà preso tutto?». 

La Resistenza ucraina può essere equiparata alla Resistenza italiana?

«La Resistenza è resistenza sempre, a qualunque latitudine e in qualsiasi epoca. Vuol dire che uno mette in gioco la propria vita per l'indipendenza del suo Paese. Là dove la libertà e la democrazia sono aggredite, là c'è resistenza e bisogna sostenerla in ogni modo». 

Anche lei è tra quelli che pensano che l'Europa stia facendo troppo poco per la pace?

«Che ci siano grosse contraddizioni, soprattutto nei confronti delle sanzioni alla Russia, è evidente: stiamo pagando l'arretratezza culturale e politica dell'Unione. Ma mi sembra che, anche a causa di questa guerra sciagurata, la voglia di un'Europa più unita e forte sia crescendo. Per la prima volta mi sento parte di un'Europa che si sta interrogando e sta cercando una strada. In Italia solo tre leader sembrano averlo capito: Draghi, Mattarella e Letta, che si stanno muovendo tutti in questa direzione». 

Simona Tagliaventi per ANSA il 18 aprile 2022.

A una settimana dalla Festa della Liberazione l'Anpi è al centro di una nuova polemica. Dopo aver cercato di placare in conferenza stampa le critiche ricevute per la contrarietà all'invio di armi a Kiev e per aver chiesto una commissione d'inchiesta internazionale volta a scoprire "cosa è accaduto davvero" nel massacro di Bucha, il presidente dell'associazione dei partigiani italiani Gianfranco Pagliarulo è ancora al centro delle polemiche. 

Attacchi che fanno sempre riferimento all'Ucraina, ma stavolta nel mirino sono finiti alcuni post datati 2015 nei quali definiva "nazistoide" il "Regime di Kiev foraggiato dagli Usa". Oggi l'ennesima replica: "Non sono putiniano. Antifascista sempre e condanno l'invasione dell'Ucraina. Continueremo a condannare un' invasione sanguinosa, a sostenere il cessate il fuoco e il ritiro dei russi, a dire no all'invio di armi: l'obiettivo è la pace, condividiamo gli appelli del Papa. Per questo manifesteremo il 25 aprile", ha ribadito Pagliarulo.

"Ogni giorno l'Anpi è attaccata da qualcuno, dicono il contrario di ciò che affermo, parlo di unità e ci accusano di divisioni. Hanno frugato nei miei post del 2015 per dimostrare che sono seguace di Putin. Io mi riferivo ai cambi di regime in Ucraina tra il 2013-2014 e l'avvio della guerra civile nel Donbass”. 

E ricorda "episodi sconvolgenti avvenuti per mano di formazioni ispirate al nazismo" non ultimo "il battaglione Azov" e ribadisce "la presenza straniera e degli Usa nei cambi di regime che è documentata: ero antifascista in quegli anni e lo sono ancora, essere antifascisti non vuol dire essere amico di Putin soprattutto oggi con un'invasione criminale il cui unico responsabile è Putin”. 

Critiche su Pagliarulo sono piovute da Oles Horedetskyy, presidente dell'Associazione cristiana degli ucraini in Italia: "in Italia ci sono molte persone che continuano ad appoggiare Putin, non potendo apertamente schierarsi con l'aggressore, scelgono posizioni apertamente neutre. Come le infelici dichiarazioni recenti del presidente dell'Anpi che qualche anno fa, chiamava 'regime nazistoide' il governo ucraino democraticamente letto traducendo in italiano la pura propaganda russa”.

L'attacco al presidente Anpi viene anche dalle pagine di Micromega, dove il direttore Paolo Flores d'Arcais aveva definito "oscena" e che "infanga i valori della Resistenza" la richiesta di Pagliarulo di appurare cosa fosse avvenuto a Bucha.

Parole durissime che hanno portato Tomaso Montanari, Francesco Pallante e Angelo Orsi a manifestare solidarietà all'Anpi e a interrompere la loro collaborazione con la rivista. La rivista ha poi invitato Pagliarulo ad un confronto pubblico ma lui ha declinato. 

"Dopo il florilegio di insulti e bassezze contro la mia persona e, cosa ancora più grave, contro l'Anpi non risponderò all'invito e non parteciperò al richiesto dialogo", ha detto ringraziando per la solidarietà i tre studiosi che hanno preso le distanze.

Il 25 Aprile festa dell'Occupazione. Francesco Maria Del Vigo il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

Siamo arrivati a questo paradosso: le vestali della Liberazione (italiana) tifano l'Occupazione (dell'Ucraina).

Siamo arrivati a questo paradosso: le vestali della Liberazione (italiana) tifano l'Occupazione (dell'Ucraina). Qualche giorno fa, dalle colonne del Corriere della Sera, Massimo Gramellini (non esattamente una penna di destra) ha suggerito di ribattezzare l'Anpi come «Associazione nazionale putiniani italiani». In effetti l'acronimo è molto versatile e d'altronde già da anni definiva più che altro l'«associazione nipoti dei partigiani italiani», perché di reduci della Resistenza - per evidenti questioni anagrafiche - ne sono rimasti pochi e i loro eredi, più che a custodire la memoria del passato, sembrano interessati ad alimentare le futili polemiche del presente. Se da tempo l'Anpi è in crisi politica ed esistenziale, la guerra in Ucraina ha definitivamente surriscaldato e mandato in cortocircuito i sedicenti custodi della Resistenza. Uno scivolone dopo l'altro, con una perseveranza che non può essere casuale. E, difatti, non lo è.

All'indomani della strage di Bucha, l'Associazione, afflitta da una incontinenza di dichiarazioni e da una ossessiva ricerca di visibilità, si è sentita in dovere di diffondere un comunicato assurto ormai a canone del «neo-neneismo»: non sto con Putin (leggasi: ci sto eccome, ma non è elegante dirlo), ma nemmeno con l'Ucraina e la Nato. «Condanniamo fermamente il massacro, in attesa di una commissione d'inchiesta internazionale guidata dall'Onu e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili», commentava Gianfranco Pagliarulo. Una posizione talmente ambigua da sollevare le ire persino di Paolo Flores d'Arcais (non esattamente una penna di destra, bis). Pochi giorni dopo, sempre il presidente, giusto per non farsi sfuggire neppure una polemica, risponde alla Brigata ebraica che propone di sfilare al corteo del 25 aprile con le bandiere della Nato, dicendo che quelli dell'Alleanza atlantica sono vessilli «inadeguati in una circostanza in cui si parla di pace». Come se l'Italia fosse stata liberata con mazzolini di fiori e non con i fucili e come se gli americani non avessero avuto un ruolo fondamentale nella Resistenza.

Ma d'altronde, ormai è ovvio, il nemico dell'Anpi non è l'invasore, cioè Putin, ma gli Usa e la Nato. Occupazione e liberazione sono etichette da appiccicare alla bisogna per attaccare un nemico o difendere un amico. Lo testimoniano i post del 2014 e del 2015 in cui Pagliarulo si scagliava contro il regime «nazista» di Kiev e faceva da gran cassa alla propaganda del Cremlino. Sempre dalla parte dei compagni che sbagliano. Allora, cari amici dell'Anpi, a questo punto, fate una cosa meno ipocrita: inventatevi una festa dell'Occupazione e celebrate quella. Sarebbe più coerente.

Un movimento nato da scelte strategiche di Mosca. I pacifisti dovrebbero ricordare la storia: la Russia li ha sempre usati. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 14 Aprile 2022. 

È po’ che mi frulla per la testa una ovvietà che nessuno vuol verbalizzare anche se sono sicuro che quasi tutti l’abbiano pensata e con sdegno respinta. Poi tornano ad annusarla, a riconoscerla, e a prenderne le distanze. È un’ovvietà storica, molto impertinente, ignorante e aggressiva, di sicuro reazionaria (oh, la madeleine del sapore di un aggettivo: reazionario) ed è questa. Non è vero che sia mai esistita una guerra fredda ideologica fra capitalismo e socialismo, ma soltanto una lunghissima partita militare fra il Paese Russia – il più gigantesco del Pianeta che va da Varsavia a Tokyo, e il mondo occidentale, Anzi, l’Occidente. Non è mai esistito un rischio di conflitto mondiale a causa delle idee, delle ideologie, delle filosofie. Il vero e unico conflitto fin dal 1917 è stato fra Occidente e Russia ed è stato un conflitto esclusivamente militare.

Quando l’Occidente (americano, inglese e tedesco in particolare) esaminò la “pratica Berlinguer” per concedere il placet all’ingresso in coalizione di governo del Pci italiano, gli alleasti posero una e una sola clausola: avere le prove di un taglio netto, drastico, conflittuale con l’Unione Sovietica. Va benissimo che in Italia ci sia un governo che includa i comunisti, purché i comunisti non includano i russi. Rispondere sì o no, per favore, La risposta fu ni, cioè sì ma non subito, intanto facciamo dei bei giardinetti con l’Eurocomunismo che si riempirono di sterpaglie mentre un emittente di Botteghe Oscure seguiterà finché l’Urss esistette, a recarsi annualmente a visitare signor Ponomariov (o suo successore) per farsi riempire di milioni di dollari la valigetta.

Controprova: quando la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo il 25 aprile del 1974 mandò in soffitta i resti della dittatura di Antonio de Oliveira Salazar e prese il potere, formò un governo di coalizione che includeva anche i comunisti usciti dalla clandestinità. La risposta della Nato e degli americani fu sanguinosa e immediata: il governo portoghese fu momentaneamente disabilitato alla condivisione dei segreti militari dell’Occidente e così fu. Forse si registrò un tamponamento stradale o la mancata manutenzione di una autostrada, ma nulla di più cruento. La leggenda secondo cui “gli americani” vietavano al Pci di formare un governo è una falsa leggenda, perché non si è mai dato il caso che il Pci con i suoi alleati vincesse le elezioni e il diritto di governare, ma fu soltanto escluso che potesse entrare a far parte della maggioranza vincente, accodandosi. Questo era il veto. Fin quando il Pci non avesse rotto in maniera non equivoca radicalmente e frontalmente con la potenza russa sovietica.

All’Occidente andava benissimo che si formassero governi di sinistra nella sua area, perché lo scopo dell’Alleanza Atlantica non era quello di favorire le destre reazionarie antioperaie, ma di potersi garantire un fronte militare in grado di reggere in caso di invasione russa. Lo so, detta così fa storcere il naso. Ma c’è poco da storcere: chiunque voglia può acquistare su Internet il volume A Cardboard Castle (Un castello di cartapesta), che contiene insieme a due ottimi saggi, l’intera collezione dei verbali annuali delle esercitazioni del Patto di Varsavia – l’Anti-Nato di Mosca – il cui tema era sempre lo stesso: per rispondere ad un tentativo di invasione occidentale contro i Paesi socialisti, l’Armata Rossa e i suoi alleati sferrano una controffensiva micidiale, con ampio uso di atomiche tattiche di cui tre dedicate all’Italia, il cui scopo finale è espellere la presenza americana dal continente europeo ricacciandola fino all’Atlantico e poi sfidandola a considerare se passare a una suicida guerra con armi strategiche (termonucleare con missili a lunga gittata) col risultato di uccidere e far morire tutti. Il piano contava sulla certezza che gli americani si sarebbero dovuti adattare alla perdita dell’Europa per non mettere a rischio la propria esistenza, che è esattamente quanto sta accadendo oggi.

Tutta la guerra politica sullo schieramento degli euromissili in Europa e in Italia per rispondere alla simmetrica presenza dei missili a medio raggio sovietici SS20 è anche la storia di come il Partito comunista italiano, messo alle strette fra la scelta di campo militare occidentale o sovietica, scelse quella sovietica scatenando l’armamentario propagandistico del no alle armi, del pacifismo, marce della pace. Quando la Germania nazista invase la Polonia il primo settembre del 1939 dopo essersi garantita con i protocolli segreti del famoso Patto di non aggressione, che l’Armata rossa avrebbe invaso la stessa Polonia da Est incorporandone, come stabilito per iscritto, il 51 per cento accadde un fatto strano. Oggi del tutto dimenticato. L’Europa aveva visto Hitler in azione dal 1933 (quando una prima volta fu dissuaso da Mussolini dall’invadere l’Austria, schierando alcune divisioni corazzate sul Brennero aspettando vanamente l’aiuto di inglesi e francesi, che non mossero un dito) con una serie di interventi militari speciali con cui si era ripreso tutti i pezzi tedescofoni che il trattato di Versailles aveva polverizzato. L’Europa era più o meno d’accordo nel riconoscere a Hitler la possibilità di fare quel che voleva perché si muoveva nella sua zona d’influenza. Quando invase la Polonia Parigi e Londra rimasero malissimo, ma avendo firmato dei trattati si videro costrette a dichiarare guerra alla Germania ma senza muovere un dito, cosa che fece ridere Hitler che ironizzò sulla codardia del decadente occidente.

L’Occidente è sempre descritto – lo hanno fatto insieme un mese fa Putin e il cinese Xi – come decadente, corrotto, codardo, affarista. Stalin era d’accordo con Hitler e fece la voce grossa con Francia e Inghilterra dichiarando durante un ricevimento all’ambasciata bulgara che se Parigi e Londra si fossero azzardate a interferire con le azioni militari sovietiche a sostegno di Hitler, non avrebbe esitato a impartire loro una lezione memorabile. Ma Francia e Inghilterra si guardarono bene dal dichiarare guerra anche a Stalin, dal momento che quello definiva la sua invasione della Polonia come un atto caritatevole e fraterno. E allora accadde il fatto miracoloso, catartico, universale: tutti i pacifisti del mondo libero, particolarmente francesi, americani, inglesi scesero immediatamente in piazza per la pace, contro la guerra. Contro la guerra di Hitler? Ma no, che c’entra, quelli erano fatti privati, personali, geopolitici. I pacifisti del mondo libero scesero in piazza e scatenarono la potenza dei loro giornali, radio, manifesti, contro la guerra che proditoriamente l’imperialismo inglese e la decadente democrazia borghese della Francia, avevano deciso di scatenare contro la Germania.

Sul ponte di Brest-Litovsk, intanto agenti della Nkvd sovietica consegnavano alla Gestapo nazista tutti i rifugiati comunisti tedeschi e i profughi ebrei, fra cui la vedova di Neumann che poi scrisse una disperata memoria letteraria di quegli eventi mostruosi. I pacifisti di allora fiancheggiavano l’aggressore di allora gridando “basta con la guerra! basta con le armi!” Il Partito comunista francese fu messo al bando e dichiarato illegale, sicché quando i tedeschi marciarono a Parigi, soltanto i comunisti francesi li accolsero come liberatori, camerati proletari venuti ad affiancare gli operai e i contadini francesi nella comune guerra all’imperialismo e alla borghesia. Ho ricordato in un numero piuttosto cospicuo di articoli quei fatti ma so di non rischiare di annoiare i lettori perché stavolta non si tratta di mettere a fuoco le alleanze miliari e purtroppo anche ideologiche, ma l’atteggiamento dei pacifisti di allora, fortemente incoraggiato e organizzato dall’Urss.

I russi avevano un interesse fortissimo nel potenziare il pacifismo occidentale per incoraggiare la Germania a proseguire e vincere la battaglia dell’Inghilterra assediata ma non vinta. Stalin era sicuro che finché Hitler fosse stato occupato ad Occidente, non avrebbe prestato attenzione ad Oriente e Hitler contava proprio su questo ragionamento logico del capo del Cremlino. La Germania era senza carburante come oggi. Le sue forze armate erano per lo più tradizionali – muli, fanti a piedi, carriaggi, salmerie, con la nuova punta d’acciaio delle divisioni corazzate Panzer e un settore dell’esercito drogato di anfetamine che non dormiva mai e che poteva marciare e combattere per giorni senza riposarsi ed essere rimpiazzato. Ma la Germania aveva sempre bisogno di una pompa di benzina e la trovò in Norvegia, poi in Francia e lì finirono le riserve, Il resto della storia di quella guerra è noto o comunque non ci interessa in questo momento, I russi rifornirono comunque di carburante nel Mar Nero i sottomarini tedeschi che andavano ad affondare i convogli americani di soccorso agli inglesi, mentre il Presidente americano, accogliendo le sollecitazioni pacifiste, donava agli inglesi altisonanti parole e convogli di navi pieni di soccorsi. Ma si rifiutò anche dopo Pearl Harbor di dichiarare guerra alla Germania. Fu Hitler a dichiarare guerra a Washington.

E quando il 22 giugno del 1941, contro ogni previsione di Stalin, Hitler invase l’Urss, l’impreparazione dell’Armata Rossa totalmente colta di sorpresa provocò subito la perdita di oltre un milione di sodati. E solo allora, contrordine compagni, cambiò la parola d’ordine di tutti i pacifisti del mondo: il destino militare della patria del comunismo era prioritario rispetto ad ogni altra battaglia e dunque viva la guerra partigiana, sì al rifornimento di armi, e fu necessario per Mosca definire quella fase finale del conflitto come “Grande guerra patriottica”, perché le generazioni future non avrebbero dovuto farsi troppe domande su che cosa era accaduto prima. La storia non si ripete se non sotto forma di farsa? È discutibile. A me sembra che si ripeta con una coazione a ripetere che trae alimento dalla negazione della memoria.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L'aggressione all'Ucraina. La guerra fa sempre orrore ma non sempre si può essere neutrali. Biagio Marzo su Il Riformista il 14 Aprile 2022. 

L’ascesa al potere di Vladimir Putin è tutt’altra cosa di un leader politico a tutto tondo. Putin, agente del Kgb a Berlino Est, ritornato in patria con il crollo dell’Urss, si circonda soltanto di uomini fidati dell’agenzia segreta sovietica, studia i meccanismi nascosti del Cremlino e, con il tempo, mette in atto ciò che ha imparato sostituendo i magnati dell’era Eltsin con una schiera di nuovi personaggi, gli oligarchi, che si impossessano della finanza e dell’economia reale cancellando le leggi in vigore e, nello stesso tempo, ampliando la loro influenza in Occidente e in tanti settori, dallo sport all’industria all’immobiliare. E non accade tutto per caso: nel corso del collasso dell’Urss gli agenti del Kgb mettono le mani sulle imprese statali con la scusa delle privatizzazioni e investono abilmente ingenti capitali accumulati in Occidente. La sfera di influenza si sposta nella politica degli Stati europei e negli Stati Uniti d’America, finanziando il FrontNational in Francia, lo Jobbik in Ungheria, la Lega e il Movimento Cinque Stelle in Italia. Tutto ciò è documentato nel libro di Catherine Belton dal titolo Gli uomini di Putin.

Ma non basta. Molto hanno “civettato” i governi Conte con il Cremlino dispensando onorificenze della Repubblica italiana agli oligarchi che più si erano “distinti” nell’investire nel Bel Paese. D’altronde, non fu il governo Conte 1 a dare carta bianca alla troupe di sanitari e militari russi di girare in lungo e in largo il nostro Paese, anche laddove ci sono zone militari. Parliamo della Puglia in cui ci sono a Taranto e a Gioia del Colle basi Nato. Piaccia o no, c’è stata una influenza di Mosca verso l’Italia di due tipi: una economica tramite gli oligarchi e l’altra militare, insomma, di intelligence. Fino a prova contraria il caso dell’ufficiale della Marina Militare, che passava notizie top secret agli uomini dell’ambasciata russa, non è una storia dei libri di John le Carrè. Ma veniamo all’Ucraina. In primo luogo, Putin è salito in cattedra e ha impartito una lezione di storia ad usum delphini negando l’identità etnica dell’Ucraina. Una bugia grande quanto una casa. Gli ucraini nella storia passata e recente sono stati sottoposti ad atrocità disumane: con Stalin morirono 5 milioni di ucraini di fame, con l’occupazione hitleriana ci fu il genocidio, nelle vicinanze di Kiev, a Bibij Jar di 35 mila ebrei e con Putin il massacro di Bucha e di altre località, ancora tutto da accertare.

Nel 2005, dopo la rivoluzione arancione, un gruppo di filo russi fondò, con la connivenza del Cremlino, il movimento politico “La Repubblica di Donetsk” che aveva nel politologo Aleksandr Dugin, (il quale tra l’altro ha partecipato ad alcuni convegni in Italia per conto della Lega di Salvini), il maitre à penser. A dire la verità, all’inizio il gruppo ucraino non fu preso in considerazione. Poi, facendo sul serio con iniziative autonomistiche, le cose cambiarono. Fino a quando, sotto copertura dei russi, non presero il potere. Erano personaggi senza arte né parte, alcuni di loro erano dei soldati di ventura, come Igor Strelkov che fu definito “mostro e assassino”. Da qui presero le mosse altri movimenti del medesimo conio per la conquista di Crimea e di Doneck. Fino ad arrivare ai giorni nostri, ovverosia alla guerra sporca fra Russia e Ucraina la cui aggressione ha sconvolto la geopolitica. Sugli organi di informazione scritti e parlati abbiamo letto e sentito interventi di personaggi di ogni tipo: pacifisti, panciafichisti, atlantisti, pro e contro Nato, guerrafondai, fascisti (i putiniani legati ad Aleksandr Dugin) contro fascisti (la falange nazifascista ucraina Azov). Bastano e avanzano.

Tra l’altro, vengono evocati i fantasmi del passato, come ad esempio l’ingenuità di Chamberlain che aveva ceduto a Hitler la Cecoslovacchia per evitare le ostilità tedesche. Il paradosso dei paradossi è che Praga fu informata e non invitata e invece della pace arrivò il Secondo conflitto mondiale. Va da sé che la guerra di Spagna del ’36, l’accordo di Monaco del ’38 e il patto Molotov-Ribbentrop del ’39 sono tre passaggi storici che dimostrano, senza alcun appello, l’atteggiamento fellone dei governi democratici europei a cui va la responsabilità dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Per fortuna l’iniziale capitolazione nei confronti della Germania nazista fu riscattata dell’entrata in guerra degli Usa. Per carità di patria, facciamo soltanto due nomi e, in più, la Cgil e l’Uil che ci hanno lasciati basiti sul pacifismo: l’emerito professore Luciano Canfora, intervistato dal Riformista, e il presidente della Commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli (M5S), filo russo contrario a inviare aiuti agli ucraini e filo cinese che ignora il genocidio degli Uiguri. Ciononostante non si dimette da presidente di Commissione.

Partiamo così dal pacifismo delle due organizzazioni sindacali di cui sopra che manifestano contro l’invio delle armi all’Ucraina. La Cgil di Landini è comprensibile, perché Landini aveva creduto di fare il leader della nuova sinistra dura e pura, ma meraviglia la Uil di Bombardieri che ha tradito la tradizione del sindacato sempre schierato con l’Occidente con annessi e connessi. Canfora è un pacifista d’antan da guerra fredda che non tiene conto che la Russia ha aggredito l’Ucraina, Paese indipendente il cui presidente è stato eletto con il 70% dei voti. Non si può imporre né con le buone né con le cattive a un Paese aggredito di arrendersi senza combattere. Questo era il sogno di Putin e sarà anche di Canfora e di tanti della sua stessa pasta politica che accusano l’Italia e non solo di armare l’Ucraina.

Insomma, gli aggrediti dovrebbero arrendersi con le mani legate dietro la spalla all’aggressore. Di fronte a questo quadro bellico, l’Occidente non può accettare bell’e buono il Putin menzognero: l’Ucraina avrebbe voluto entrare nella Nato, come se alcuni Paesi baltici e la Polonia non confinassero con la Russia e non facessero parte della Nato. Putin credeva di fare un blitz, una guerra lampo. Ma l’esercito russo si è trovato di fronte una inaspettata resistenza ucraina e una grande solidarietà internazionale, isolando la sua Russia dal contesto mondiale. Ricordiamo la Russia di Stalingrado e la sanguinosa resistenza contro l’esercito hitleriano: questa battaglia determinò in qualche modo alla vittoria nella Seconda guerra mondiale. E il contributo significativo che la Russia ha dato alla storia della cultura europea e mondiale nel campo della letteratura e delle scienze, in epoca zarista e poi in quella sovietica. Proprio su questa cultura si è scatenata una sorta di maccartismo alle vongole, al punto che è stata compilata la ridicola lista di proscrizione di russofili italiani, dal proscrittore che vuole essere più realista del re.

Talvolta il sonno della memoria si risveglia e ci riporta al quotidiano La Stampa e all’allora direttore, Marcello Sorgi, che pubblicò un brano della prefazione a L’eresia di Aldo Capitini (l’intellettuale che quarant’anni prima aveva inventato la marcia della pace) di Norberto Bobbio, il quale scrisse che restò affascinato dall’opera di Capitini. Sempre sul giornale torinese, Guido Ceronetti correggeva il ritratto apologetico di Capitini fatto da Bobbio: “Ghigliottinò in parte la nostra amicizia proprio l’invenzione della marcia Perugia-Assisi. Capitini aveva flirtato con i comunisti. Come Francesco sperava di trasformare i lupi in agnellini, ma era Mosca che infarinava la zampina”. Intervistato decenni dopo da Valter Vecellio, Bobbio confessò che per la marcia Capitini aveva cercato l’appoggio del Partito comunista. “Quando ricevette un telegramma di adesione di Palmiro Togliatti per me fu come se l’avesse vergato una mano insanguinata. Intollerabile”. Anche Marco Pannella, amico di Guido Ceronetti, polemizzò con Capitini “per via dell’inquinamento da pacifismo di ispirazione sovietica”. Le guerre fanno sempre orrore, ma è difficile in alcuni casi, come nel conflitto tra la Russia aggressore e l’Ucraina aggredita, essere neutrali. Biagio Marzo

I quaranta secondi di silenzio (eloquente) di Papa Francesco in tv e il richiamo alla morte di Gesù. Gian Guido Vecchi su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2022.

La replica intervistato prima della via Crucis: il pontefice abbassa lo sguardo, sembra riflettere a lungo, infine alza gli occhi. I riferimenti al conflitto in Ucraina. Quaranta secondi di silenzio, in televisione un tempo infinito. Continuano a fare il giro della Rete le immagini di Francesco che non risponde all’ultima domanda di Lorena Bianchetti, alla fine dell’intervista trasmessa nel programma di Raiuno «A Sua immagine» venerdì, prima della Via Crucis. «Santità, sono quasi le tre. Come dobbiamo vivere questo orario, oggi?». Francesco abbassa lo sguardo, sembra riflettere a lungo, infine alza gli occhi e sorride, come a dire: ecco.

E in effetti non ci potrebbe essere risposta più eloquente. Le tre del pomeriggio sono il momento della morte di Gesù: «Dall’ora sesta ci fu tenebra fu tutta la terra, fino all’ora nona», si legge nel Vangelo di Matteo. Ed è «verso l’ora nona», ovvero le 15, che Gesù grida : «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?», prima di morire. Biblisti e teologi sono concordi nello spiegare che l’incarnazione di Gesù arriva fino al fondo della sofferenza: fino al silenzio di Dio.

La sera, al Colosseo, mentre una donna ucraina e una russa reggevano insieme la Croce, Francesco ascoltava pregando le parole scritte per accompagnare la tredicesima stazione, quella della morte di Gesù: «Di fronte alla morte, il silenzio è più eloquente delle parole. Sostiamo pertanto in un silenzio orante. Che ciascuno nel proprio cuore preghi per la pace del mondo». A volte non ci sono parole, come davanti al dolore innocente. Viene in mente la rivolta di Ivan ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, un romanzo caro a Francesco: «Se la sofferenza dei bambini servisse a raggiungere la somma delle sofferenze necessaria all’acquisto della verità, allora io dichiaro fin d’ora che tutta la verità non vale un simile prezzo». Il Papa ne ha parlato più volte, da ultimo a Fabio Fazio: «Per me, una domanda a cui non sono mai riuscito a rispondere e che alcune volte mi scandalizza un po’ è: perché soffrono i bambini? Io non trovo spiegazioni a questo. Io ho fede, cerco di amare Dio che è mio padre, ma mi domando: perché soffrono i bambini? E non c’è risposta». A volte la sola risposta è il silenzio. Francesco una volta ha scritto: «Il silenzio è anche la lingua di Dio ed è anche il linguaggio dell’amore, come sant’Agostino scrive: Se taci, taci per amore, se parli, parla per amore».

Pasqua di guerra. Papa Francesco contro tutti: “Pazzi, avete scelto l’uccisione dei propri fratelli”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Aprile 2022. 

Francesco ha tutti contro. L’America, l’Inghilterra, La Russia, l’Ucraina, i giornali più potenti dell’occidente, le televisioni, gli intellettuali europei. Però Francesco è testardo, non molla la presa, non si fa condizionare. Ieri ha parlato ancora e ha detto parole di fuoco. Ha accusato i potenti del mondo di essere come Caino. Ha detto che hanno scelto la via della morte, dell’uccisione del fratello, dei fratelli. È una cosa molto bella vedere il coraggio di questo prete argentino che non si fa intimidire dalla colossale sproporzione delle forze. Lui è solo. Solo. Persino un pezzo della sua Chiesa lo ha abbandonato per schierarsi coi russi o con gli americani. Però Francesco è sicuro di avere ragione. L’idea che possa essere la guerra, la corsa alle armi, la chiave che apre il portone della modernità è una idea insensata. Non è in contrasto solo con l’etica. O col Cristianesimo. È in contrasto con la logica.

I fatti degli ultimi giorni, tutti i fatti degli ultimi giorni, dimostrano una cosa sola: che gli attori che sono in campo e che dominano la scena del mondo sono tutti convinti che la guerra debba durare il più possibile. Tutti. Putin, che la guerra l’ha iniziata con una mossa folle e sciagurata. Zelensky, che ancora ieri mostrava i muscoli e si vantava di avere fatto durare la guerra già 50 giorni. Gli inglesi e gli americani, che continuano ad armare Kiev, a guidare le campagne di stampa, a lavorare per creare più incidenti possibile. Diplomatici o militari. Il siluramento della nave russa, che molto probabilmente è avvenuta col consenso e probabilmente l’aiuto tecnico di americani e inglesi, dimostra che la volontà di diplomazia e di pace sta sottoterra. Gli americani hanno voluto rendere ancora più teso il clima con la Russia e spegnere ogni possibile brezza diplomatica. L’Europa si mostra debole debole. Macron e Scholtz si sono presi gli schiaffi in faccia da Zelensky senza reagire in modo clamoroso.

L’Italia è completamente – o così sembra – agli ordini di Washington. Le voci critiche sono pochissime e impaurite. Il sistema dell’informazione, da noi, è interamente militarizzato. Al servizio di una causa, che è la causa americana. Chi dissente viene “orsiniggiato”. Ieri il giornale di Carlo De Benedetti – forse chiamato a offrire una prova certa di fedeltà – ha realizzato un attacco diretto al papa, accusato anche lui, più o meno, di stare dalla parte di Putin e di avere trasformato la Pasqua in una occasione di propaganda politica. Ma lui non cede. Crede nella ragione. Non è neppure una questione di fede stavolta. Lui sta con la ragione. Gli altri, casomai, con la fede nella morte.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il monito del Papa. “Avete scelto Caino”, Papà Francesco tuona alla via Crucis. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 16 Aprile 2022. 

«Il mondo ha scelto – è duro dirlo – ma ha scelto lo schema di Caino e la guerra è mettere in atto il cainismo, cioè uccidere il fratello». È il messaggio di Papa Francesco, come filo conduttore per la celebrazione della Pasqua 2022, ribadito come una litania nel corso del Venerdì Santo, snodatosi per i due momenti centrali della giornata: la celebrazione della Passione nella Basilica vaticana nel pomeriggio e la Via Crucis al Colosseo nella tiepida sera romana, con il ritorno della folla di pellegrini e turisti. Prima dei due eventi, Papa Francesco è andato in onda nel pomeriggio su RaiUno (intervista registrata) nell’ambito del programma religioso A sua immagine.

Ha parlato della guerra in corso, del significato della Pasqua, del messaggio di misericordia e speranza che la Chiesa cattolica cerca di diffondere soprattutto in quest’anno. E ha sottolineato l’importanza del ruolo pacifico e pacificatore delle donne, nella società, nel momento dei conflitti, a partire da quanto raccontano i quattro vangeli. Ed ha voluto riflettere su un passaggio del Vangelo della Passione (Matteo 27,19) che di solito non viene commentato. «C’è una donna nel Vangelo della quale non si parla tanto – un po’ en passant, si dice – è la moglie di Pilato. Lei ha capito qualcosa. Dice al marito: Non immischiarti con questo giusto. Ma Pilato non l’ascolta, “cose di donne”. Ma questa donna, che passa inaspettata, senza forza nel Vangelo, ha capito da lontano il dramma lì. Perché? Forse era mamma, aveva quell’intuizione delle donne. “Stai attento che non ti ingannino”. Chi? Il potere. Il potere che è capace di cambiare il parere della gente dalla domenica al venerdì. L’Osanna della domenica diviene il Crocifiggilo! del venerdì. E questo è il pane nostro di ogni giorno. Ci vogliono le donne che diano l’allarme».

La meditazione sulla stazione XIII della Via Crucis al Colosseo, che fissa il momento della morte in Croce, è stata scritta in riferimento alla guerra in Ucraina, invitando a guardare alla “morte intorno”. «La vita che sembra perdere di valore. Tutto cambia in pochi secondi. L’esistenza, le giornate, la spensieratezza della neve d’inverno, l’andare a prendere i bambini a scuola, il lavoro, gli abbracci, le amicizie… tutto. Tutto perde improvvisamente valore. “Dove sei Signore? Dove ti sei nascosto? Vogliamo la nostra vita di prima. Perché tutto questo? Quale colpa abbiamo commesso? Perché ci hai abbandonato? Perché hai abbandonato i nostri popoli? Perché hai spaccato in questo modo le nostre famiglie? Perché non abbiamo più la voglia di sognare e di vivere? Perché le nostre terre sono diventate tenebrose come il Golgota?. Le lacrime sono finite. La rabbia ha lasciato il passo alla rassegnazione. Sappiamo che Tu ci ami, Signore, ma non lo sentiamo questo amore e questa cosa ci fa impazzire. Ci svegliamo al mattino e per qualche secondo siamo felici, ma poi ci ricordiamo subito quanto sarà difficile riconciliarci. Signore dove sei? Parla nel silenzio della morte e della divisione ed insegnaci a fare pace, ad essere fratelli e sorelle, a ricostruire ciò che le bombe avrebbero voluto annientare».

Lo schema di Caino, ha ribadito più volte il Papa in questi 50 giorni di guerra, è uno “schema demoniaco” che porta ad «uccidersi l’un l’altro per voglia di potere, per voglia di sicurezza, per voglia di tante cose». Si è “dimenticato il linguaggio della pace”. Anche se non mancano gli sforzi per far tacere le armi. «Si parla di pace. Le Nazioni Unite hanno fatto di tutto, ha spiegato Papa Francesco, ma non hanno avuto successo». E l’augurio per la Pasqua, riportato alla fine dell’intervista su RaiUno è “non perdere la speranza”. «La vera speranza, che non delude, è chiedere la grazia del pianto, ma del pianto di gioia, del pianto di consolazione, il pianto di speranza. Nella celebrazione della Passione, la breve preghiera per le vittime della guerra ha chiesto che le loro lacrime e il loro sangue non siano sparsi invano, ma affrettino un’era di pace».

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

La scelta del Papa. Caso della via Crucis, segno di divisione profonda: bellicisti e pacifisti si prendono a schiaffi. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 14 Aprile 2022. 

Il mondo ortodosso è in fermento – abbiamo documentato le critiche teologiche al Patriarca Kirill filo-Putin. Però anche il mondo cattolico non scherza. Papa Francesco è per la pace, come dice chiaramente nel libro di cui pubblichiamo nella pagina a fianco un estratto dell’introduzione inedita. Il volume raccoglie molti degli interventi che papa Francesco ha svolto in 50 giorni di guerra. Praticamente a ogni occasione di incontro, ogni discorso – dalle udienze generali alle udienze dei gruppi e gli Angelus domenicali – il Papa ha martellato in progressione sull’ingiustizia e iniquità della guerra, di ogni guerra, decretando la fine del concetto di “guerra giusta” (discorso del 18 marzo 2022). Il volume contiene di più: riprende alcuni passaggi dell’Enciclica Fratelli Tutti e di altri testi – anche del magistero di Benedetto XVI e dei Padri della Chiesa – per far cogliere la linea netta a favore della pace.

Non pacifismo, non semplicemente approccio nonviolento, ma l’affermazione che la pace è l’unica condizione possibile per lo sviluppo dei popoli. È il Magistero cattolico che si distingue dal pacifismo in quanto filosofia o movimento etico. Nell’introduzione, papa Francesco racconta anche qualcosa di se stesso, da quando fin dall’origine del pontificato ha spesso parlato di terza guerra mondiale “a pezzi”. Oggi fa un passo avanti: di fronte a una sora di “ineluttabilità”, riafferma con forza che “la guerra non è ineluttabile!”. E aggiunge: «Quando ci lasciamo divorare da questo mostro rappresentato dalla guerra, quando permettiamo a questo mostro di alzare la testa e guidare le nostre azioni, perdono tutti, distruggiamo le creature». E proprio nell’introduzione troviamo un importante apprezzamento a favore di mons. Tonino Bello, che la Chiesa sta portando sulla strada della santità. Il compianto vescovo pugliese, per tanti anni presidente di Pax Christi – il movimento cattolico a favore della pace – scriveva e diceva che tutti i conflitti e le guerre “trovano la loro radice nella dissolvenza dei volti”.

E papa Francesco lo spiega così: «Quando cancelliamo il volto dell’altro, allora possiamo far crepitare il rumore delle armi. Quando l’altro, il suo volto come il suo dolore, ce lo teniamo davanti agli occhi, allora non ci è permesso sfregiarne la dignità con la violenza». Nel libro queste frasi diventano Magistero di tutta la Chiesa, come sottolinea Andrea Tornielli nella postfazione, ricordando la linea ininterrotta, da Pio IX, contro la guerra. Quei Papi dell’Ottocento e del Novecento avevano ben chiaro, rispetto ai conflitti europei, che si trattava di guerre tra cristiani, dunque conflitti impossibili da giustificare. Oggi la situazione è più complicata, non solo perché le armi – come giustamente papa Francesco analizza – ammazzano di più, molto di più e non si può non tener conto della violenza tremenda verso le popolazioni civili. È più complicata perché la propaganda fa sembrare minoritario e residuale il Magistero del Papa, lo lascia da solo in prima linea, senza “esercito” dietro di lui.

Nel mondo cattolico qualcosa sta accadendo. Lo vediamo ora all’inizio della Settimana Santa. Domani in processione al Colosseo nella Via Crucis ci saranno una donna russa e una donna ucraina, fianco a fianco. Scelta criticata non solo dall’ambasciatore ucraino presso la Santa Sede ma soprattutto dall’arcivescovo greco-cattolico di Leopoli, mons. Sviatoslav Shevchuk. Taglienti le sue frasi: «Considero questa idea inopportuna e ambigua perché non tiene conto del contesto di aggressione militare russa contro l’Ucraina. Per i greco-cattolici dell’Ucraina, i testi e i gesti della XIII stazione di questa Via Crucis sono incomprensibili e persino offensivi, soprattutto in attesa del secondo, ancora più sanguinoso attacco delle truppe russe contro le nostre città e villaggi. So anche che i nostri fratelli cattolici del rito latino condividono con noi questi pensieri e preoccupazioni». All’arcivescovo si è incaricato di rispondere padre Antonio Spadaro, Direttore di La Civiltà Cattolica sicuramente la più autorevole e prestigiosa rivista ecclesiale. Oltre che con i post su Twitter, ha argomentato su Il Manifesto che «Francesco agisce secondo lo spirito evangelico, che è di riconciliazione anche contro ogni speranza visibile durante questa guerra di aggressione.

Traduce, dunque, Francesco in un tweet: «Il Signore non ci divide in buoni e cattivi, in amici e nemici. Per Lui siamo tutti figli amati». Il suo interesse primo non è la geopolitica, ma – come ha detto tre giorni dopo lo scoppio della guerra – la «gente comune, che vuole la pace; e che in ogni conflitto è la vera vittima, che paga sulla propria pelle le follie della guerra». Fratelli tutti, dunque. Figli tutti. Da qui il grido «Fermatevi!», seconda persona plurale. Però la diatriba interna fa capire che nel mondo cattolico la pace non è così accettata. Le frasi dell’arcivescovo greco-cattolico mostrano una tentazione sempre in agguato: il risorgere del nazionalismo nella Chiesa. Lo vediamo all’opera in diverse maniere. Ad esempio conferenze episcopali che vorrebbero procedere su strade proprie (a caso: la Germania nel Sinodo in corso, oppure gli Usa con le spaccature tra vescovi rispetto al pontificato). Ancora non siamo alle “chiese nazionali” caratteristica del mondo ortodosso, però le frasi di Shevchuk ci dicono che nell’Est europeo l’influsso dell’ortodossia – lì sì ci sono chiese nazionali – si estende anche al mondo cattolico con la tentazione – ulteriore – di rendere santa la guerra perché per l’arcivescovo greco-cattolico Dio dovrebbe benedire la propria parte. Evidentemente per gli ortodossi vale lo stesso ed ognuno tira Dio da una parte sola.

Però dietro c’è qualcosa di più. Il conflitto in corso sposta drasticamente gli equilibri ecclesiali. Papa Francesco sta facendo avanzare la teologia con il rifiuto dell’idea di “guerra giusta” – finora bene accetta ai teologi moralisti. Sta facendo avanzare la teologia con la Fratelli Tutti e l’idea di fratellanza universale (nel 2019 ha firmato una Dichiarazione comune con il mondo musulmano). E la teologia che fa? Resta indietro, abbastanza drammaticamente. Con l’eccezione di mons. Giuseppe Lorizio, docente di teologia fondamentale a Roma, che tre giorni fa ha detto chiaro e tondo che serve una teologia “militante” di fronte ai drammi di oggi. Ed ha aggiunto: le università cattoliche e i teologi devono aprirsi alla realtà, non restare chiusi nelle aule. Tra gli esempi di chi prende sul serio il Papa, cita il documento dei dieci teologi (coordinati da mons. Paglia e dalla Pontificia Accademia per la Vita) che quasi un anno fa chiedeva, poco ascoltato, un rinnovamento della teologia nel senso e nel segno della “fraternità”.

Nell’introduzione i dieci teologi scrivono che «in questa congiuntura, avvertiamo che è moralmente chiuso il tempo di ogni civetteria intellettuale con l’esercizio spensierato del relativismo dissacratore (…) come anche il tempo della ottusa ripetizione di formule sacre che custodiscono un vuoto di affetti e di legami capaci di rianimare, per tutti, nel segno della nominazione di Dio, la speranza evangelica di una comune destinazione della creatura umana (…) In questo spirito di fraternità intellettuale e testimoniale, molto può essere utilmente discusso: ma nulla andrà inutilmente disperso. L’appello allo spirito della fraternità non può essere consumato nel degrado di una visione empatica e sentimentale dell’unità della specie; né venire consegnato alla visione mitica e utopica di una romantica politica del benessere senza confini. la riabilitazione della fraternità è un tema serio, che va pensato ad una profondità ancora inesplorata, per la nostra epoca: dal cristianesimo e dalle religioni, dalla politica e dal potere, dalla filosofia e dalla scienza». Il tema dell’appello è questo: dentro la fraternità intellettuale tutto può essere guadagnato, al di fuori di essa, tutto può venire perduto. L’umano che è comune, a cominciare da quello in mille modi avvilito e abbandonato, è il suo riscontro decisivo. E il tema del suo giudizio ultimo: per tutti (Mt 25, 31-46).

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016). 

“Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace”. Non ci sono buoni e cattivi, siamo tutti fratelli. Papa Francesco su Il Riformista il 14 Aprile 2022. 

Esce oggi in libreria “Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace” (Libreria Editrice Vaticana – Solferino), un libro di Papa Francesco che presenta il dialogo come arte politica, la possibilità della costruzione artigianale della pace e il disarmo come scelta strategica per costruire una situazione pacifica a livello internazionale.

Di seguito un estratto dall’Introduzione.

Un anno fa, nel mio pellegrinaggio nel martoriato Iraq, ho potuto toccare con mano il disastro causato dalla guerra, dalla violenza fratricida e dal terrorismo, ho visto le macerie delle case e le ferite dei cuori, ma anche semi di speranza di rinascita. Mai avrei immaginato allora di veder scoppiare un anno dopo un conflitto in Europa.

Fin dall’inizio del mio servizio come vescovo di Roma ho parlato della Terza guerra mondiale, dicendo che la stiamo già vivendo, anche se ancora a pezzi. Quei pezzi sono diventati sempre più grandi, saldandosi tra di loro… Tante guerre sono in atto in questo momento nel mondo, che causano immane dolore, vittime innocenti, specialmente bambini. Guerre che provocano la fuga di milioni di persone, costrette a lasciare la loro terra, le loro case, le loro città distrutte per aver salva la vita. Sono le tante guerre dimenticate, che di tanto in tanto ricompaiono davanti ai nostri occhi disattenti.

Queste guerre ci apparivano «lontane». Fino a che, ora, quasi all’improvviso, la guerra è scoppiata vicino a noi. L’Ucraina è stata aggredita e invasa. E nel conflitto a essere colpiti sono purtroppo tanti civili innocenti, tante donne, tanti bambini, tanti anziani, costretti a vivere nei rifugi scavati nel ventre della terra per sfuggire alle bombe, con famiglie che si dividono perché i mariti, i padri, i nonni rimangono a combattere, mentre le mogli, le madri e le nonne cercano rifugio dopo lunghi viaggi della speranza e varcano il confine cercando accoglienza presso altri Paesi che li ricevono con grandezza di cuore.

Di fronte alle immagini strazianti che vediamo ogni giorno, di fronte al grido dei bambini e delle donne, non possiamo che urlare: «Fermatevi!». La guerra non è la soluzione, la guerra è una pazzia, la guerra è un mostro, la guerra è un cancro che si autoalimenta fagocitando tutto! Di più, la guerra è un sacrilegio, che fa scempio di ciò che è più prezioso sulla nostra terra, la vita umana, l’innocenza dei più piccoli, la bellezza del creato. Sì, la guerra è un sacrilegio! Non posso non ricordare la supplica con cui nel 1962 san Giovanni XXIII chiese ai potenti del suo tempo di fermare un’escalation bellica che avrebbe potuto trascinare il mondo nel baratro del conflitto nucleare. Non posso dimenticare la forza con cui san Paolo VI, intervenendo nel 1965 all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, disse: «Mai più la guerra! Mai più la guerra!». O, ancora, i tanti appelli per la pace di san Giovanni Paolo II, che nel 1991 ha definito la guerra «un’avventura senza ritorno».

Quella a cui stiamo assistendo è l’ennesima barbarie e noi, purtroppo, abbiamo memoria corta. Sì, perché se avessimo memoria, ricorderemmo che cosa i nostri nonni e i nostri genitori ci hanno raccontato, e avvertiremmo il bisogno di pace così come i nostri polmoni hanno bisogno d’ossigeno. La guerra stravolge tutto, è follia pura, il suo unico obiettivo è la distruzione ed essa si sviluppa e cresce proprio attraverso la distruzione e se avessimo memoria, non spenderemmo decine, centinaia di miliardi per il riarmo, per dotarci di armamenti sempre più sofisticati, per accrescere il mercato e il traffico delle armi che finiscono per uccidere bambini, donne, vecchi: 1981 miliardi di dollari all’anno, secondo i conteggi di un importante centro studi di Stoccolma. Segnando un drammatico +2,6 per cento proprio nel secondo anno di pandemia, quando invece tutti i nostri sforzi si sarebbero dovuti concentrare sulla salute globale e nel salvare vite umane dal virus. Se avessimo memoria, sapremmo che la guerra, prima che arrivi al fronte, va fermata nei cuori. Libreria Editrice Vaticana Papa Francesco

Bergoglio torna a parlare del conflitto in Ucraina. La furia di Papa Francesco: “La guerra non è tra buoni e cattivi”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 15 Giugno 2022. 

Con la guerra in Ucraina non siamo nella favola di Cappuccetto Rosso dove è chiaro chi è il cattivo e chi è la buona. Ma chiediamoci: “Che cosa sta succedendo all’umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali?”. E se non fosse abbastanza chiaro, ecco due aggiunte: “qui non ci sono buoni e cattivi metafisici, in modo astratto. Sta emergendo qualcosa di globale, con elementi che sono molto intrecciati tra di loro”. L’analisi è di Papa Francesco e la conosciamo per merito de La Civiltà Cattolica che ieri ha pubblicato la trascrizione integrale del dialogo del 19 maggio tra il Pontefice e dieci direttori di altrettante riviste dei gesuiti in diversi paesi europei.

La conversazione ha spaziato a tutto campo: dalla guerra alla situazione della Chiesa e dei rapporti con gli ortodossi, dai giovani alle priorità della Compagnia di Gesù in Europa. Non sono a favore di Putin, argomenta il Papa e precisa: «Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli». Il conflitto non deve nascondere, in una visione parziale della realtà, i tanti altri disastri bellici in corso. «Ci sono altri Paesi lontani – pensiamo ad alcune zone dell’Africa, al nord della Nigeria, al nord del Congo – dove la guerra è ancora in corso e nessuno se ne cura. Pensate al Ruanda di 25 anni fa. Pensiamo al Myanmar e ai Rohingya. Il mondo è in guerra. Qualche anno fa mi è venuto in mente di dire che stiamo vivendo la terza guerra mondiale a pezzi e a bocconi. Ecco, per me oggi la terza guerra mondiale è stata dichiarata. E questo è un aspetto che dovrebbe farci riflettere. Che cosa sta succedendo all’umanità che in un secolo ha avuto tre guerre mondiali?

Io vivo la prima guerra nel ricordo di mio nonno sul Piave. E poi la seconda e ora la terza. E questo è un male per l’umanità, una calamità. Bisogna pensare che in un secolo si sono susseguite tre guerre mondiali, con tutto il commercio di armi che c’è dietro! Quella che è sotto i nostri occhi – aggiunge papa Francesco – è una situazione di guerra mondiale, di interessi globali, di vendita di armi e di appropriazione geopolitica, che sta martirizzando un popolo eroico». L’analisi porta con sé una domanda molto forte: chi si prenderà cura dei profughi e delle donne, quando l’emergenza sarà passata? E c’è anche un compito per le riviste dei gesuiti: impegnatevi a parlare del conflitto, a sensibilizzare, affrontando «il lato umano della guerra. Vorrei che le vostre riviste facessero capire il dramma umano della guerra. Va benissimo fare un calcolo geopolitico, studiare a fondo le cose. Lo dovete fare, perché è vostro compito. Però cercate pure di trasmettere il dramma umano della guerra, il dramma umano di una donna alla cui porta bussa il postino e che riceve una lettera con la quale la si ringrazia per aver dato un figlio alla patria, che è un eroe della patria… E così rimane sola. Riflettere su questo aiuterebbe molto l’umanità e la Chiesa. Fate le vostre riflessioni socio-politiche, senza però trascurare la riflessione umana sulla guerra».

Nella lunga riflessione il Papa si lascia andare anche a ricordi personali, parlando della visita compiuta a Redipuglia e al cimitero militare di Anzio, due momenti di grande commozione pensando a quelle migliaia di giovani morti. Quanto all’ortodosso Patriarca Kirill di Mosca, Papa Francesco taglia corto: «Ho avuto una conversazione di 40 minuti con il patriarca Kirill. Nella prima parte mi ha letto una dichiarazione in cui dava i motivi per giustificare la guerra. Quando ha finito, sono intervenuto e gli ho detto: Fratello, noi non siamo chierici di Stato, siamo pastori del popolo. Avrei dovuto incontrarlo il 14 giugno a Gerusalemme, per parlare delle nostre cose. Ma con la guerra, di comune accordo, abbiamo deciso di rimandare l’incontro a una data successiva. Spero di incontrarlo in occasione di un’assemblea generale in Kazakistan, a settembre. Spero di poterlo salutare e parlare un po’ con lui in quanto pastore».

Un altro capitolo riguarda la situazione della Chiesa. E qui il Papa avvia una riflessione molto decisa: nella Chiesa europea “vedo rinnovamento” con “movimenti, gruppi, nuovi vescovi che ricordano che c’è un Concilio alle loro spalle. Perché il Concilio che alcuni pastori ricordano meglio è quello di Trento. E non è un’assurdità quella che sto dicendo”. Altrove, specie negli Usa, il Concilio Vaticano II lo si vorrebbe semplicemente cancellare dalla storia. Il Papa ne è acutamente consapevole e lo dice senza mezzi termini, anche se non spiega in che modo si debba arginare i settori conservatori. “Il numero di gruppi di «restauratori» – ad esempio, negli Stati Uniti ce ne sono tanti – è impressionante” e “ci sono idee, comportamenti che nascono da un restaurazionismo che in fondo non ha accettato il Concilio. Il problema è proprio questo: che in alcuni contesti il Concilio non è stato ancora accettato. È anche vero che ci vuole un secolo perché un Concilio si radichi. Abbiamo ancora quarant’anni per farlo attecchire, dunque!”.

Un’altra tematica ha a che fare con la Germania. Anche qui la risposta dimostra una capacità di visione più ampia e profonda di quello che si legge di solito sui media. Papa Francesco sa quali sono le difficoltà ecclesiali ma ha deciso di aspettare e non forzare le situazioni. E lo dice, indicando una strategia precisa e consapevole: «Il problema sorge quando la via sinodale nasce dalle élite intellettuali, teologiche, e viene molto influenzata dalle pressioni esterne. Ci sono alcune diocesi dove si sta facendo la via sinodale con i fedeli, con il popolo, lentamente». Sulla diocesi di Colonia dove l’arcivescovo è contestato per la scarsa sensibilità verso le denunce di casi di abusi, papa Francesco non le manda a dire e rivela dettagli importanti: «Ho chiesto all’arcivescovo di andare via per sei mesi, in modo che le cose si calmassero e io potessi vedere con chiarezza. Perché quando le acque sono agitate, non si può vedere bene. Quando è tornato, gli ho chiesto di scrivere una lettera di dimissioni. Lui lo ha fatto e me l’ha data. E ha scritto una lettera di scuse alla diocesi. Io l’ho lasciato al suo posto per vedere cosa sarebbe successo, ma ho le sue dimissioni in mano».

Della serie: comportati bene… Intanto il direttore di una rivista on line chiede come parlare ai giovani e anche qui la risposta è pronta: «Non bisogna stare fermi»; «ai miei tempi il lavoro con i giovani era costituito da incontri di studio. Ora non funziona più così. Dobbiamo farli andare avanti con ideali concreti, opere, percorsi. I giovani trovano la loro ragione d’essere lungo la strada, mai in modo statico. Qualcuno può essere titubante perché vede i giovani senza fede, dice che non sono in grazia di Dio. Ma lasciate che se ne occupi Dio! Il vostro compito sia quello di metterli in cammino. Penso che sia la cosa migliore che possiamo fare». Questa risposta si lega con un’altra riflessione che il Papa ha già svolto nell’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” sul modo di annunciare il Vangelo oggi e sul principio che “la realtà è superiore all’idea”: non basta comunicare idee: non è sufficiente. Occorre comunicare idee che provengono dall’esperienza. Questo per me è molto importante.

Le idee devono venire dall’esperienza. Prendiamo l’esempio delle eresie, sia che esse siano teologiche sia che siano umane, perché ci sono anche eresie umane. A mio parere, un’eresia nasce quando l’idea è scollegata dalla realtà umana. Da qui la frase che qualcuno ha detto – Chesterton, se ben ricordo – che «l’eresia è un’idea impazzita». È impazzita perché ha perso la sua radice umana”. Il principio è semplice: «la realtà è superiore all’idea, e quindi bisogna dare idee e riflessioni che nascono dalla realtà». I gesuiti hanno nel “dna” il tema del “discernimento”: analizzare la realtà, riflettere bene, poi agire. Il Papa lo mette a fuoco puntando in alto: “se si lancia una pietra, le acque si agitano, tutto si muove e si può discernere. Ma se invece di lanciare una pietra, si lancia… un’equazione matematica, un teorema, allora non ci sarà alcun movimento, e dunque nessun discernimento”.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Mattia Feltri per “La Stampa” il 15 giugno 2022.  

In una conversazione riportata ieri dalla Stampa coi direttori di dieci riviste europee della Compagnia di Gesù, Papa Francesco è tornato sulla guerra d’Ucraina. La sua opinione è nota, ma nell’occasione la dettaglia: alla condanna dell’aggressore si accompagna un fremente elogio del coraggio dell’aggredito, ma con l’avvertenza che questa non è la storia di Cappuccetto Rosso, non ci sono buoni e cattivi, la questione è più complessa. 

In particolare - lo aveva già detto, lo ripete - la Nato ha abbaiato ai confini russi, forse per fomentare la guerra, perlomeno senza lo scrupolo di evitarla. Bisogna sempre accostarsi con particolare prudenza e rispetto alle parole di un pontefice, che si sia credenti oppure no.

Mi sono ricordato della volta in cui, rientrando in volo dallo Sri Lanka, una settimana dopo la strage di Charlie Hebdo (dodici morti nella redazione del giornale satirico per mano di terroristi islamici), Francesco dichiarò sacre le libertà di religione e di espressione, ma né l’una né l’altra sono illimitate: se dici una parolaccia a mia madre, spiegò, aspettati un pugno. 

Anche lì, mi pare, l’intenzione era di sollecitare una lettura delle cose senza semplificazioni manicheiste, cioè un invito, replicato ieri, alla complessità. Per la prudenza e il rispetto raccomandati prima, mi limito a dubitare che sarebbe buona cosa dare un pugno a chi insultasse mia madre, e ad aggiungere che parlare di buoni e cattivi, subito dopo o durante una mattanza, a Parigi o a Kiev, sarebbe inutile e infantile. Non sono buoni e cattivi, sono vittime e carnefici, e le ragioni dei carnefici sono qualcosa che diventa il nulla.

Amicus Papa, sed magis amica logica. Delle due l’una: o si dice che c’è un aggressore e c’è una vittima o si dice che le cose sono più complesse. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 16 giugno 2022.

Se c’è un invasore, non si può negare che la guerra sia iniziata con l’invasione; se si sta dalla parte dell’Ucraina, non si può aggiungere che non ci sono buoni e cattivi, per la contradizion che nol consente.

Non so per quale ragione il direttore della Civiltà cattolica, Antonio Spadaro, abbia criticato con parole dure il titolo («La Nato ha provocato Putin») dato dalla Stampa a un’anticipazione della sua conversazione con Papa Francesco. Questo il suo tweet di martedì: «Purtroppo quel titolo virgolettato è fasullo. Ho protestato con @LaStampa. Nella conversazione non c’è infatti».

Basta leggere il testo integrale della conversazione per verificare come il Papa citi ancora una volta – lo aveva già fatto, ad esempio, con il Corriere della Sera – un anonimo capo di stato secondo il quale, prima del conflitto, la Nato stava «abbaiando alle porte della Russia».

A scanso di equivoci, il Pontefice non si limita a riportarne il giudizio, ma loda esplicitamente l’interlocutore come un uomo saggio e capace di «leggere i segni di quel che stava avvenendo». Dunque, appurato che l’analisi citata dal Papa era da lui pienamente approvata, quale sarebbe la differenza tra il dire che la Nato, prima che la guerra scoppiasse, stava «abbaiando alle porte della Russia» e il dire che «la Nato ha provocato Putin»? Semmai, al netto della sempre deprecabile abitudine italiana di virgolettare le sintesi, si potrebbe dire che la versione della Stampa attenui la forza dell’immagine usata da Papa Francesco. Certo non ne cambia in nulla il significato.

Trattandosi di una conversazione tra un Papa gesuita e i direttori delle riviste europee della Compagnia di Gesù, sarei tentato di spiegare la cosa, sicuro di non offendere nessuno, con un eccesso di gesuitismo, almeno da parte del direttore della Civiltà cattolica. Il guaio è che il resto della conversazione era persino più esplicito.

Naturalmente non voglio avventurarmi nell’interpretazione del pensiero del Papa. Mi preoccupano di più i molti che in questi giorni hanno utilizzato le sue parole per tirare l’acqua al proprio mulino.

Del resto lo stesso Spadaro, proprio sulla Stampa, il 20 aprile ha ricordato che «Francesco ha definito lucidamente il conflitto “inaccettabile aggressione armata”, “guerra ripugnante”, “massacro insensato”, “invasione dell’Ucraina”, “barbarie”, “atto sacrilego”». Definizioni che sembrerebbero inequivoche, e che mi guardo bene dal contestare. D’altronde, chi oggi, anche tra i più fermi oppositori del sostegno all’Ucraina, non comincia ogni discorso ripetendo che è chiarissimo chi sia l’aggressore e chi l’aggredito? Se però questo è anche il pensiero del Papa, e personalmente non ne sono affatto sicuro, bisogna comunque riconoscere che è arduo ritrovarlo nel senso e anche nella lettera di quanto affermato nella conversazione con i direttori delle riviste dei gesuiti.

«Quello che stiamo vedendo è la brutalità e la ferocia con cui questa guerra viene portata avanti dalle truppe, generalmente mercenarie, utilizzate dai russi», dice Papa Francesco. Dopodiché aggiunge: «Ma il pericolo è che vediamo solo questo, che è mostruoso, e non vediamo l’intero dramma che si sta svolgendo dietro questa guerra, che è stata forse in qualche modo o provocata o non impedita. E registro l’interesse di testare e vendere armi. È molto triste, ma in fondo è proprio questo a essere in gioco».

È evidente a chi si riferisca il Papa quando ipotizza, diciamo così, che la guerra sia stata «provocata», per non parlare della valenza di quel generico riferimento agli interessi dietro la possibilità di «testare e vendere armi», che sarebbe addirittura la vera posta in gioco.

Si può sostenere che la guerra è stata scatenata da Vladimir Putin al solo scopo di impadronirsi dell’Ucraina, per ragioni imperialistiche, e si può dire, al contrario, che si tratta di una «guerra per procura» provocata dagli americani, dalla lobby delle armi e magari anche da Big Pharma (melius abundare quam deficere, dicevano i latini, molto prima di Totò); ma sostenere o alludere a entrambe le cose finisce per fare più confusione che chiarezza.

Sta di fatto che subito dopo la frase appena riportata lo stesso Papa Francesco aggiunge quella che ha tutta l’aria, per restare ai latinismi, di una excusatio non petita: «Qualcuno può dirmi a questo punto: ma lei è a favore di Putin! No, non lo sono. Sarebbe semplicistico ed errato affermare una cosa del genere. Sono semplicemente contrario a ridurre la complessità alla distinzione tra i buoni e i cattivi, senza ragionare su radici e interessi, che sono molto complessi. Mentre vediamo la ferocia, la crudeltà delle truppe russe, non dobbiamo dimenticare i problemi per provare a risolverli».

Può darsi che dietro tante apparenti contraddizioni vi siano ragioni nobilissime, legate alle segrete arti della diplomazia vaticana, o magari anche a forze superiori di cui io, ateo materialista, non posso rendermi conto. Ma una cosa è certa: nell’esultanza dei tanti che in questi giorni si sono subito fatti scudo delle parole del Papa per rilanciare i consueti argomenti contro il sostegno all’Ucraina, che si traducono semplicemente in un aumento della pressione per interrompere gli aiuti all’aggredito, a tutto vantaggio dell’aggressore, non è difficile discernere l’esito ultimo di certi discorsi.

Si può dire, infatti, che in questa guerra non ci sono buoni e cattivi, e si può dire, al contrario, che si sta convintamente dalla parte della vittima, cioè dell’Ucraina; ma non si possono sostenere entrambe le cose. Si può dire che in questo conflitto è chiarissimo chi è l’aggressore e chi è l’aggredito, e si può dire, al contrario, che questa guerra è cominciata molto prima del 24 febbraio, giorno dell’aggressione russa; ma delle due l’una. Si può dire che le cose sono chiarissime e si può sostenere, al contrario, che non lo sono affatto, ma non si può sostenere che sono al tempo stesso chiarissime e avvolte nell’oscurità, mi dispiace, perché la luce non può essere al tempo stesso accesa e spenta, per la «contradizion che nol consente». Amicus Papa, sed magis amica logica.

I cavillosi complici di Putin. Davanti all’orrore, anche la normale ipocrisia delle nostre discussioni è divenuta impossibile. Francesco Cundari su Linkiesta il 15 Aprile 2022.

C’è un abisso che separa il dibattito pubblico su quanto sta accadendo in Ucraina da tutte le discussioni precedenti, anche le più grottesche. Una differenza che avrà conseguenze personali e politiche per ciascuno di noi.

Il dibattito pubblico in Italia assomiglia da molti anni a una partita truccata tra ubriachi. Siamo sinceri, non è una novità: non è colpa della guerra e nemmeno dei social network. E ovviamente ci sono luminose eccezioni. Buona parte delle discussioni che si possono seguire in televisione o sui giornali, tuttavia, è riassumibile nella formula: un truffatore che dà dell’imbroglione a un baro.

Un conto però è quando l’oggetto della contesa, faccio un esempio a caso, è la legge elettorale, e l’imbroglio si riduce al solito gioco delle tre carte con cui di volta in volta il favorito nei sondaggi si batte in difesa del maggioritario, salvo poi invocare il proporzionale nel momento in cui gli equilibri si rovesciano (spesso anche a causa della legge elettorale da lui difesa al giro precedente, perché i nostri bari hanno almeno questo di rassicurante: che non sanno neanche barare).

Altro discorso è quando l’oggetto della contesa riguarda l’invasione di un Paese libero e democratico – quando cioè il dibattito si svolge mentre sono in corso stermini, torture, stupri di massa – e il baro di cui sopra va in tv ad accusare chi vorrebbe fermare tutto questo di non volere la pace e mettere a rischio il dialogo con i torturatori.

C’è un salto di qualità, ma soprattutto c’è un abisso morale che separa le discussioni sulla guerra in Ucraina da tutte le precedenti, per quanto grottesche potessero essere pure quelle. È questo salto che rende difficile, almeno per me, ma forse non soltanto per me, continuare a osservare e commentare un tale spettacolo.

È un salto che costringe ciascuno di noi a fare i conti con la propria coscienza, con le proprie idee passate e presenti, con i propri punti di riferimento politici e intellettuali, con i propri amici, conoscenti, follower.

Ammesso che sia sensato indicare una data, io non so quando si possa dire che si è diventati di destra o di sinistra, nazionalisti, pacifisti, conservatori o progressisti – se a dieci anni, a quindici o a ventidue – ma penso che non bisognerebbe mai dimenticare, per dir così, la direzione del nesso causale.

Se a un certo punto della vostra vita avete pensato che eravate di sinistra, per esempio, posso immaginare che a muovervi sia stato un certo desiderio di giustizia, o un sentimento di indignazione per le ingiustizie subite, da voi stessi o da altri: classi sociali, minoranze religiose, popoli oppressi. Ma quali che siano state da allora in poi le vostre letture, studi, relazioni e scelte di vita, la direzione del nesso causale non dovrebbe essere cambiata: avrete eventualmente cominciato a leggere Marx perché volevate combattere quelle ingiustizie, non viceversa. Dubito che dall’Ottocento a oggi ci sia stata una sola persona che, dopo essere giunta all’ultima pagina del Capitale, ne abbia tratto la conclusione che era ingiusto far lavorare i bambini in fabbrica. Mi sembra più verosimile l’inverso. Così non penso ci sia un solo antifascista che abbia tratto dai libri l’idea che lo sterminio degli ebrei sia stato un orrore, mentre trovo assai verosimile che tanti siano diventati antifascisti dopo avere visto l’orrore dell’Olocausto.

Se dunque, oggi, davanti alle atrocità di Bucha e di tante altre città ucraine, le tue letture e le tue scelte passate non ti portano a domandarti cosa possiamo fare per fermare tutto questo, ma a fare le pulci alle vittime, a sindacare ogni loro reazione o dichiarazione, a discutere persino le scelte di comunicazione con cui denunciano l’orrore che stanno subendo, mi pare evidente che abbiamo un problema. Un problema che riguarda anche il nesso causale da cui eravamo partiti.

Detto in altri termini: se le atrocità di cui siamo testimoni ogni giorno entrano in conflitto con le tue idee politiche o geopolitiche, con i tuoi passati giudizi su Putin e sulla Russia, sulla Nato e sugli Stati Uniti, forse dovresti rivedere quei giudizi, non negare l’evidenza.

Altrimenti temo che siamo noialtri a dover accettare l’evidenza del fatto che hai cambiato campo. E qui non stiamo parlando più di destra o sinistra, dell’essere filo-americani o anti-americani, ma di qualcosa di molto più basilare. È il motivo per cui si chiamano principi: perché vengono prima.

Forse però l’emergere di questo grande equivoco è pure necessario, non solo a ciascuno di noi singolarmente, per capire davvero chi sono le persone che credevamo di conoscere, ma alla collettività. Forse uno degli esiti di questa terribile prova sarà anche una complicata e dolorosa opera di riconsiderazione di tante posizioni, storie, leadership politiche e intellettuali. In fondo, è quello che la guerra ha sempre fatto, segnando nuove discriminanti e nuove identità, in politica, nel giornalismo, nella cultura, ed è inevitabile che accada anche stavolta.

Maria Teresa Meli per il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.

È più di un mese e mezzo che il popolo ucraino resiste all'invasore russo, eppure il tema dell'invio delle armi a Zelensky da parte dell'Occidente continua ad agitare il dibattito tra gli intellettuali della sinistra italiana. Tutti, o quasi, però, ammettono che Putin è l'aggressore. Certo, ci sono alcune eccezioni, come Luciano Canfora, secondo il quale si sta assistendo a «uno scontro tra potenze e il torto sta dalla parte della potenza che vuole prevaricare». Che a suo giudizio non è la Russia, come verrebbe spontaneo immaginare, bensì l'Ucraina. 

L'altro ieri lo storico ha fornito un altro esempio di come la pensi sull'argomento, dando della «neonazista nell'animo» a Giorgia Meloni, rea di essersi «subito schierata con i neonazisti ucraini». Ma gli altri intellettuali pacifisti non seguono la strada di Canfora.

Benché anche altri usino toni non certo accomodanti nei confronti degli ucraini. La filosofa Donatella Di Cesare ha insinuato che sia Kiev a voler allargare il conflitto e sul dibattito che si è aperto in Italia ha tagliato corto con un tweet: «Chi chiede l'invio delle armi non è di sinistra». 

Differente l'impostazione di un altro «pacifista», Tomaso Montanari, che è convinto che l'aggressore sia il presidente russo e proprio per questo mal sopporta che le «poche voci in dissenso» rispetto al mainstream vengano «additate come degli amici di Putin». Questo, per il rettore dell'Università per stranieri di Siena, «è intollerabile». Ad avviso di Montanari la guerra deve cessare «il prima possibile», e perciò le armi agli ucraini non vanno inviate «mentre la strategia dell'Occidente è che la guerra si prolunghi il più possibile».

Contrarissimo agli aiuti militari anche Marco Revelli, secondo il quale «mandare le armi aumenta il rischio di far crescere il numero delle vittime». Il sociologo piemontese ieri all'Aria che tira su La7 ha però introdotto un altro argomento che fa discutere: «È in corso uno scontro tra narrazioni, tra quella imbarbarita russa, un racconto evidentemente falsificato, e la narrazione dell'altro combattente che fa filtrare informazioni che gli interessano». 

Chi non nutre dubbi sulla necessità di aiutare il popolo ucraino è Luigi Manconi, che ha sottolineato la «necessità di difendere i propri diritti attraverso la forza». Il politologo si è interrogato anche sui motivi che hanno spinto alcuni intellettuali di sinistra ad assumere certi atteggiamenti: «Più che l'anti-americanismo, che pure è rilevante e che ritengo abbia anche delle buone ragioni, pesa l'attrazione verso ciò che rappresenta la Russia.

Una storia di potenza che resiste all'Occidente, il volontarismo socialista di cui non si riconosce il fallimento, il fascino del decisionismo putiniano, una tradizione terrigna e fiera. È quanto seduce una certa sinistra autoritaria, spaventata come Cirillo I, da un Occidente decadente e consumistico». 

Per lo scrittore Erri De Luca, che si è definito «un partigiano della resistenza ucraina» «attendere che il più forte e il più prepotente vinca non coincide con nessuna tregua e nessuna pace». Paolo Flores D'Arcais, che su Micromega sta animando un dibattito su questo tema, è determinato: manderebbe «molte più armi e molto più efficienti» all'Ucraina, anche perché il non darle, come chiedono i pacifisti, «di fatto avvantaggia» i russi. Del resto, ieri sul Corriere Dacia Maraini ha individuato tra i falsi miti di questa guerra proprio la tesi di chi sostiene che «armare gli ucraini» significhi «incrementare la guerra».

Vecchiaia egoista. Il declino demografico ci rende più indifferenti alla lotta degli ucraini. Gianni Balduzzi su L'Inkiesta il 14 Aprile 2022.

L’ideologia rossobruna trova terreno in un Paese sempre meno giovane, più conservatore e vittimista, preda del mito di un’inesistente epoca d’oro in cui l’Italia “si faceva rispettare”. Fare sacrifici per la libertà altrui viene vissuto come un sopruso.

Quando un Paese comincia a declinare dal punto di vista demografico, a perdere popolazione, si tratta di un cambiamento solo quantitativo o anche qualitativo? Vi è una trasformazione della società? E quali aspetti di tale società vengono impattati?

Sono domande che sorgono spontanee quando si è di fronte, come ora, a un fenomeno ormai sempre più strutturale come il calo del numero degli abitanti del nostro Paese. I numeri del 2021 seguono il trend previsto, dopo il dato eccezionale del 2020. La ripresa di un flebilissimo tasso migratorio, un ingresso ogni mille persone, non compensa il -5,2, sempre per mille, del saldo naturale.

È dal 2014 che l’effetto del calo delle nascite supera quello dell’immigrazione, e per questo il 2021 è stato l’ottavo anno consecutivo con il segno meno davanti al tasso di crescita complessivo. Sarebbe stato così anche senza il calo record dei parti dovuto alla pandemia. 

Che non si tratti solo di aritmetica è immediatamente chiaro quando si osserva lo sviluppo di questo trend nelle diverse macro-aree italiane.

Il Mezzogiorno era l’unica zona del Paese in cui fino a 10 anni fa le nascite superavano le morti, a differenza che nel Centro-Nord. Oggi è l’area in cui il tasso di crescita (ormai decrescita) naturale è peggiorato di più nel tempo (di 6,3 punti per mille persone in quasi 20 anni) arrivando al livello del Nord Est.

E considerando che lì il tasso migratorio è il più negativo, è proprio nel Sud e nelle Isole che il declino demografico si fa maggiormente sentire, ovvero nell’angolo economicamente più fragile del Paese.

Dati Istat

È questa fragilità economica a provocare tale calo della popolazione o, viceversa, è quest’ultimo a mantenere più povere queste regioni? Chiaramente vi è un circolo vizioso in atto: i redditi bassi non attirano immigrazione, e anzi provocano la partenza dei giovani più istruiti verso il Nord e l’estero, e questo peggiora ulteriormente le dinamiche demografiche.È una dimostrazione del fatto, comunque, che questo tipo di declino è strettamente legato a quello economico.

I tassi di variazione della popolazione peggiori nel 2021 si sono riscontrati proprio nelle aree più marginali del Mezzogiorno, nella zona appenninica, in Sardegna, in Sicilia. Al Nord i cali sono stati meno marcati, e da qualche parte, per esempio l’Alto Adige, si è visto il segno più. Questo vuol dire che nei prossimi anni sarà destinata a cambiare anche la mappa dell’età media. Se già ora milanesi, bergamaschi, bresciani e naturalmente altoatesini sono più giovani dei sardi, dei brindisini, dei cosentini, degli irpini, tutti mediamente over 46, in futuro sarà sempre più normale osservare i meridionali invecchiare più velocemente degli altri italiani.

Sono però solo economiche le conseguenze di questo cambiamento in atto? Si tratta solo di accelerare il declino delle aree già fragili e di rendere più difficile un vero welfare state e il pagamento delle pensioni a un numero sempre più ampio di anziani?

C’è il fondato sospetto, in realtà, che un Paese sempre più vecchio possa cambiare anche politicamente. Quando l’indice di vecchiaia, ovvero il rapporto tra il numero di over 64 e quello di under 15, passa in quasi 20 anni da 131,7 a 182,6 (+38,6%), vuol dire che a influire sulle decisioni di un Paese sono persone diverse, in una differente fase della vita.

Ovvero in quella fase in cui si tende a privilegiare lo status quo, la conservazione di piccoli e grandi privilegi, di sicurezze o presunte tali, in cui non vi è ormai traccia di quella visione, a volte avventata, a volte idealista, che caratterizza la giovinezza.

Non si tratta solo di essere a favore del cambiamento, di capire quanto sia importante “fare le riforme”, ma anche di avere il coraggio di schierarsi in modo netto a favore di idee di libertà, anche quando questo può costare sacrifici.

La riluttanza di tanti italiani nel capire che tipo di battaglia si sta consumando in Ucraina, tra un regime autocratico che aggredisce e una democrazia che si difende, sembra esemplare. Si dirà: c’entra l’ideologia, non solo il quieto vivere e il timore degli impatti economici delle sanzioni e dell’embargo alla Russia. Ma proprio l’ideologia, rosso-bruna, di destra o sinistra, più banalmente sovranista, è strettamente collegata all’età e al declino economico.

Molteplici indagini lo rivelano: sono gli over 40 e gli over 50 che più di tutti amano crogiolarsi nel mito di un’Italia un tempo prospera e ora non più “sovrana”, oppressa dal globalismo liberal-capitalista, e che quindi parteggiano per chiunque condivida gli stessi nemici, in primis la Russia di Putin. E chi, più di una popolazione più vecchia perché impoverita, e impoverita anche perché più vecchia, sa inventarsi un passato tanto inesistente quanto affascinante, frutto di una distorsione dei ricordi, in cui si stava meglio e l’Italia “si faceva rispettare”?

Così la rievocazione della notte di Sigonella si unisce alla nostalgia per gli anni ’80, all’ostilità verso gli Usa, la Ue, l’Occidente. Il desiderio di tornare indietro diventa quello che oggi perlomeno nulla cambi, al di là degli slogan di cambiamento, il desiderio che la guerra in Ucraina non smuova dalle comode certezze su cosa è giusto cosa è sbagliato, appunto l’Occidente, l’euro, Bruxelles.

Il fatto che siano stati gli elettori delle aree del Paese in più rapido invecchiamento e più veloce declino economico a premiare negli ultimi anni i partiti più populisti e sovranisti, dal Sud alle più interne del Centro, non sembra un caso.

Chiedere di rinunciare un po’ all’aria condizionata o di fare un qualsiasi sacrificio ai sempre più 50-60enni che si sentono già vittime del sistema, non è come chiederlo a chi ha il futuro davanti. E rischia di essere una missione impossibile.

Polemica sul 25 aprile. L’Anpi: no alle bandiere della Nato. Il Museo della Brigata ebraica: «Parole ipocrite». Giuseppe Alberto Falci su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2022.

Il presidente dell’Associazione dei partigiani Pagliarulo: «La Nato non è una sigla pacifista». Dureghello (Comunità ebraica di Roma): «Incoerente e strumentale». 

Gianfranco Pagliarulo, presidente dell’Anpi, si presenta in conferenza stampa per illustrare le celebrazioni della festa della Liberazione e scolpisce una serie di frasi sul conflitto fra Russia e Ucraina che innescano la polemica.

Pagliarulo premette di essere sempre stato dalla parte di chi ha subito l’aggressione, l’Ucraina, allontanando così le critiche che sono piovute addosso all’Associazione nazionale dei partigiani per essere stata assai timida nei confronti dell’invasione russa. Poi, però, ribadisce la posizione contro il riarmo dell’Ucraina perché «potrebbe portare a una catastrofe», invia una stoccata al presidente Zelensky perché anche lì «ci sono vuoti democratici: il presidente ucraino ha sciolto una decina di partiti di opposizione recentemente». E poi mette in chiaro che «sarebbe sbagliato identificare la resistenza italiana con la resistenza Ucraina».

In questo contesto a chi gli domanda dell’iniziativa della Brigata Ebraica di voler sfilare con le bandiere della Nato, Pagliarulo risponde: «Sono inappropriate. Non mi pare sia un’associazione pacifista». Sulle polemiche con la Comunità ebraica, prova a tendere la mano: «Manderò una lettera alla signora Dureghello (presidente della Comunità ebraica di Roma, ndr) chiedendole un incontro. Siamo sempre aperti».

Tentativo fallito, perché Dureghello replica immediatamente: «La polemica con l’Anpi sul 25 aprile è diventata noiosa». Per la presidente della Comunità ebraica di Roma «è curioso che si sia detto no alle bandiere Nato e sì a quelle palestinesi: vuol dire che esiste un tema non solo d’incoerenza, ma anche di strumentalità politica». La polemica, dunque, esplode. Pochi minuti e interviene Davide Romano, direttore del Museo della Brigata Ebraica di Milano: «Ho sentito con sgomento la conferenza stampa di Pagliarulo e con dolore devo definire le sue parole ipocrite: non può dire di essere contro l’invasione di Putin e nel contempo criticare il riarmo ucraino. L’esercito russo da 50 giorni sta distruggendo l’Ucraina. Non armare Kiev significa permettere la continuazione di questo immondo stupro di un intero Paese davanti agli occhi del mondo».

Critica l’Anpi anche il mondo della politica. Andrea Marcucci (Pd) è perentorio: «Non condivido la posizione dell’Anpi». Annamaria Bonfrisco (Lega): «Così ledono la memoria degli italiani e la Resistenza». Massimiliano Iervolino (Radicali italiani) auspica che il 25 aprile «siano benvenute tutte le bandiere, dalla Nato a quella dell’Ucraina».

Viva la libertà. L’ambiguità dell’Anpi sull’aggressione di Mosca e il 25 aprile dei filoputiniani. Mario Lavia su L'Inkiesta il 16 Aprile 2022.

Mentre c’è un popolo di partigiani che resiste all’invasore russo, gli eredi dei partigiani italiani fanno distinzioni imbarazzanti e stanno attenti a disturbare le operazioni speciali del nazifascismo del XXI secolo.

È incredibile: mentre in Europa divampa una guerra sanguinosa tra uno stato dittatoriale e uno stato democratico, c’è chi in Italia non si schiera o addirittura si schiera dalla parte sbagliata, accecato dai demoni dell’antiamericanismo e in molti casi dalla strage delle illusioni di gioventù – e tralasciamo qui di citare le orribili performance dei buffoni che vogliono farsi notare in televisione. 

Mentre il mondo non capisce ancora come vada a finire, ed è dunque questo il momento di fare qualcosa, di schierarsi, da noi ci si divide sul 25 aprile, che è esattamente la Festa di chi allora si pose dalla parte della democrazia, rischiando così che  la sua settantasettesima ricorrenza diventi un pasticcio o un’occasione mancata. Eppure sarebbe così facile. 

Un esempio di chiarezza viene da Ravenna, città Medaglia d’Oro al valor militare per il contributo offerto dai partigiani locali, dove i due portavoce di +Europa Nevio Salimbeni e Maria De Lorenzo hanno rivolto un appello: «La festa del 25 aprile giustamente è la festa di tutti gli italiani. Ma questo 25 aprile non può essere uguale a tanti altri  perché è in corso una terribile guerra di aggressione, non procurata né giustificabile, da parte della Russia di Putin nei confronti dell’Ucraina. Per questo riteniamo che questo 25 aprile sia giusto venga dedicato anche alla resistenza ucraina e chiediamo a tutti di partecipare a un evento simbolico, un flash mob, portando ovunque le bandiere dei resistenti all’aggressione, e sostenendo ogni iniziativa che consenta agli ucraini di difendersi e di raggiungere una pace giusta nel più breve tempo possibile».

La posizione di +Europa è molto chiara: contro il fascismo, ergo a fianco di Kiev. Non è una forzatura. È una conseguenza logica. Al contrario, l’Associazione nazionale partigiani italiani ha pensato bene di produrre un manifesto (anche brutto) in cui non si fa cenno della resistenza ucraina – cioè della incarnazione odierna della lezione del 25 aprile – più o meno come era avvenuto nella manifestazione di piazza San Giovanni del 5 marzo sostanzialmente neutralista.

Ma come aggravante c’è il fatto che da allora ci sono state le tante Bucha che anche il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo ha potuto vedere, testimonianza inequivocabile di chi siano oggi i partigiani; lui dice che la sua organizzazione non è equidistante: e allora perché non fa stampare manifesti contro Vladimir Putin, l’aggressore, e invece passa un manifesto neutro come quello? Perché è la solita ambiguità di quella sinistra per la quale il problema è sempre un altro e ovviamente più complesso.

E poi è veramente increscioso che le posizione “né con Putin né con Zelensky”, simboleggiata in una nazistoide vignetta di un disegnatore che si chiama Vauro, alligni anche in un alcuni circoli del Pd, secondo quanto ha denunciato il senatore Andrea Marcucci, in evidente contrasto con la ferma linea di Enrico Letta, Lorenzo Guerini, Lia Quartapelle, Piero Fassino, Enzo Amendola, cioè i massimi dirigenti dem che si occupano di politica internazionale (non a caso non figura nessuno della sinistra interna). 

Così come l’ex parlamentare cossuttiano oggi presidente dell’Anpi Pagliarulo, invece di esibirsi in inutili distingui tra la Resistenza italiana e quella ucraina, dovrebbe sapere che a fianco di Kiev ci sono tutti, ma proprio tutti, i paesi democratici del mondo e l’alleanza militare occidentale di cui l’Italia fa parte che sta aiutando gli ucraini con ogni mezzo. 

Però per lui portare in piazza bandiere della Nato potrebbe «provocare incidenti»: ma a parte che quando mai si sono viste bandiere della Nato, il punto è che bisognerebbe portare alle manifestazioni le bandiere dell’Ucraina aggredita e cartelli contro l’invasione imperialista del Cremlino. 

Chi potrebbe essere contrario? Giusto i filoputiniani ex filosovietici, gli sconfitti di ieri e di domani. Pazienza, il 25 aprile è una cosa troppo importante per preoccuparsi di loro.

"Imbarazzante", "Se ci fossero i partigiani...". L'Anpi spacca pure la sinistra. Francesco Curridori il 14 Aprile 2022 su Il Giornale.

Stretto tra Anpi, Canfora e Vauro, il centrosinistra italiano critica i partigiani e prende le distanze dall'ala più radicale.  

“I partigiani di un tempo metterebbero in riga tutti questi…”. Le prese di posizione del presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo contro l’invio di armi all’Ucraina scuotono ancora la sinistra italiana.

Il Pd, il più grande partito di centrosinistra presente in Parlamento, ha votato per aiutare anche militarmente Kiev a difendersi dall’invasione della Russia. Un voto che, a dispetto di quel che afferma l’Anpi, viene fortemente rivendicato dai parlamentari democratici, convinti del fatto che non si possa essere equidistanti. Tra un aggressore (la Russia) e un aggredito (l’Ucraina), non si può stare né affianco del primo né in posizione di terzietà. “L’Anpi, dimentica che la Resistenza teneva insieme liberali e comunisti contro obiettivo comune: cacciare l’invasore”, ci dice una deputata piddina che, per potersi esprimere liberamente, preferisce restare anonima. Chi, invece, non ha paura di esporsi è la senatrice renziana Raffaelle Paita: “I veri partigiani non avrebbero dubbi da che parte stare. Dalla parte del popolo ucraino che sta lottando per la libertà di tutti noi”.

Vauro, l'Anpi e i pacifisti: ecco la noia dell'Italia

Il costituzionalista Stefano Ceccanti, ricorda, invece, che l’Ucraina sta sta solo esercitando il diritto, riconosciuto anche dalla Carta dell’Onu, alla legittima difesa. Un diritto “che – spiega il deputato dem - dovremmo particolarmente apprezzare come cittadini di un Paese che ha dato al mondo una canzone come ‘Bella ciao’ che inizia con la frase ‘Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor’”. Neppure la deputata Alessia Rotta nutre dubbi: “Inviare degli aiuti al popolo ucraino fa parte del pacifismo. Si ottiene la pace naturalmente con le trattative diplomatiche, ma anche aiutando chi è aggredito”. La senatrice Valeria Fedeli, invece, invita a distinguere le varie posizioni presenti all’interno dell’Anpi: da una parte quella di Pagliarulo e dall’altra quella dell’ex presidente Smuraglia e degli associati di Bologna e di Milano che hanno scelto la “non equidistanza rispetto alla guerra”. Anche il senatore Andrea Marcucci si mostra assai critico verso Pagliarulo: “Credo che le sue ultime uscite, perlomeno 'ambigue', non rendano onore alla storia che dovrebbe rappresentare”.

Federico Fornaro, capogruppo di LeU alla Camera, difende l’associazione dei partigiani e dice: “Si possono non condividere le prese di posizione dell’Anpi, in particolare questa, ma denigrarla e attaccarla quotidianamente è inaccettabile”. Arturo Scotto, coordinatore nazionale di Articolo Uno, si dice stupito per le polemiche riguardanti un manifesto che convoca la manifestazione del 25 aprile dove campeggia “una scritta tanto esplicita quanto scontata: l’Italia ripudia la guerra”. Dentro il Pd, però, c’è anche chi sommessamente fa notare che “sarebbe bene citarlo per esteso l’articolo 11 della Costituzione”. Il deputato renziano Michele Anzaldi “con la tragedia Ucraina alle porte” ritiene “doveroso evitare le tradizionali polemiche sul 25 aprile” ma, per la prima volta, è la sinistra a dividersi sui partigiani. Scotto, però, non intende voltare le spalle all’Anpi e rinnoverà la tessera anche quest’anno, anno in cui “sono improvvisamente e incredibilmente annoverato nel partito di Putin”.

Ma il centrosinistra è scosso anche dal ‘caso Luciano Canfora’, il noto storico che ha definito Giorgia Meloni una “neo-nazista”. Sì, proprio il leader di Fratelli d’Italia con cui Enrico Letta, non perde occasione per confrontarsi pubblicamente e legittimarla come avversario politico. Anche in questo caso, la stigmatizzazione degli esponenti di centrosinistra è netta. “Sulle intollerabili dichiarazioni, peraltro ripetute, del professor Canfora, penso tutto il male possibile”, dice il senatore Marcucci. “Gli insulti rivolti da Canfora alla Meloni sono due volte inaccettabili: perché lei non è neonzista e con queste parole non si scherza perché offendono anche la posizione dell’Ucraina e del suo governo”, attacca il deputato dem Fausto Raciti.

L'insulto di Canfora alla Meloni fa doppiamente orrore

“È una frase inaccettabile e assolutamente lontana anni luce dalla realtà”, conferma Fornaro di LeU. “Canfora è imbarazzante”, sentenzia la renziana Paita che definisce “inqualificabile” l’aggressione subìta dalla Meloni e annovera il noto storico in “quella schiera di cosiddetti intellettuali che stanno dando il peggio nel dibattito pubblico”. E, se la deputata Rotta respinge il termine neonazista e definisce Giorgia Meloni come “il leader di una forza di estrema destra”, la senatrice Fedeli non accetta “questo gioco di etichette” perché del leader di FdI “conosciamo la sua storia politica e le sue origini”. L’ex ministro dell’Istruzione è rimasta molto colpita anche dalla “pessima” vignetta di Vauro in cui Zelensky viene identificato “non come un presidente di una nazione, ma con un ebreo”. “Disgustosa” è l’aggettivo usato dal collega Marcucci per questa vignetta “che ricalca il modo in cui la propaganda nazista ritraeva i banchieri ebrei”. Stretto tra Anpi, Canfora e Vauro, il centrosinistra italiano scopre di disprezzare una certa sinistra.

Pagliarulo dixit. La propaganda putiniana del capo dei partigiani italiani contro i «nazisti ucraini». Carmelo Palma su L'Inkiesta il 18 Aprile 2022.

Su Facebook il presidente dell’Anpi ha scritto post che sembrano ricopiati dalle veline del Cremlino, riprendendo qualunque porcheria negazionista che abbiamo sentito in questi anni dalla bocca del dittatore russo.

Gratificato da immeritata notorietà, dopo la nuova invasione russa dell’Ucraina, per avere schierato l’ANPI su una posizione neutralista e disarmista, eccepito sulle responsabilità russe a proposito degli eccidi di Bucha e proibito le bandiere della Nato alle celebrazioni del 25 aprile, il Presidente dell’ANPI Gianfranco Pagliarulo potrebbe sembrare a prima vista un grigio travet del cerchiobottismo post-comunista e del pacifismo a geometria variabile.  

Un ex funzionario della Rivoluzione che, rimasto orfano degli amici, si tiene stretto almeno i nemici e, senza neppure più aspettare l’alba del sole dell’avvenire e del mondo nuovo senza padroni, combatte la tenebra della dominazione yankee sul vecchio mondo liberal-capitalista e soprattutto l’Anticristo della sinistra obbediente al Washington consensus e ai principi economici e civili dell’ordine atlantico.

Di lui si sapeva che era stato dirigente del PCI, poi nel 2001 senatore di Rifondazione Comunista e quindi, dopo la scissione cossuttiana, dei Comunisti italiani, di cui aveva diretto il giornale di partito, La rinascita della sinistra. 

Uscito dal PdCI con l’attuale assessore alla sanità della Regione Lazio D’Amato, aveva animato alcune esperienze rosso-verdi nella sinistra del PD, quindi aveva abbandonato l’attività di partito e si era dedicato all’impegno nell’ANPI, di cui nel 2020 era diventato presidente succedendo a Carla Nespolo. 

Della sua attività politica negli anni della scalata ai vertici dell’associazione dei partigiani italiani non parlano i libri e neppure i giornali, ma il suo profilo Facebook, che consente di rettificare l’immagine troppo benevola che emerge da questo ritratto da triste e depresso nostalgico del PCI. 

Pagliarulo non è stato uno dei tantissimi ex comunisti che sono rimasti ostili all’Occidente e alla Nato shakerando le retoriche pacifiste di Gino Strada, quelle ambientaliste di Vandana Shiva e quelle economiche di Marianna Mazzucato. Pagliarulo è stato una sorta di Giulietto Chiesa bonsai. Un volenteroso nano tra i – chiamiamoli così – giganti del putinismo ex comunista, in convergenza parallela con i putinisti tendenza Salvini-Savoini, che la guerra all’Ucraina ha ricongiunto ai primi in un grande abbraccio pacifista.

Qualunque porcheria negazionista che abbiamo sentito in questi anni dalla bocca di Putin, qualunque riscrittura sovietica della storia Ucraina e dell’Euromaidan come colpo di stato americano e qualunque ribaltamento nella vicenda bellica ucraina come un attacco nazista Usa alla Russia, dal 2014 Pagliarulo l’ha scritta sul suo profilo Facebook usando a piene mani fonti governative del Cremlino. Un infaticabile volantinatore delle veline della propaganda putiniana. Non manca nulla. Lo scarso successo dei suoi post – pochi like, commenti e interazioni – non cambiano il senso del suo impegno assiduo. Come si sa, a quelle latitudini non conta il valore del servizio, ma il pensiero, la dedizione e l’obbedienza.

Passiamo in rassegna alcuni interventi del 2014, dopo l’annessione della Crimea e l’invasione del Donbass da parte della Russia. 

«Bombardata Donetsk dai caccia e dagli elicotteri. Circa cento morti. Dopo la strage di Odessa. Per molto meno sono intervenuti in passato l’Onu, la Nato, il tribunale dell’Aja. Oggi, invece, c’è il silenzio dei cimiteri. Tranne gli States, che applaudono. Questo è il nuovo presidente dell’Ucraina». (28 maggio 2014)

«Fosforo bianco su Slovjansk lanciato dagli aerei del nuovo presidente ucraino. Come a Falluja. È una tecnica molto americana. Sono le famose ’armi chimiche’. Che dice l’Unione Europea? Cosa dicono le Nazioni Unite?». (12 giugno 2014)

«Trovo la cosa grave, sbagliata e controproducente perché la presenza di una nave della marina militare italiana che va per conto della Nato nel Mar Nero in rapporto alla crisi ucraina aumenta la tensione internazionale. Da mesi Stati Uniti, Europa e Nato stanno giocando col fuoco in una polveriera», a proposito dell’ingresso nel Mar Nero di una nave militare italiana. (15 giugno 2014)

«L’UE ha versato al nuovo governo ucraino … egemonizzato da forze paramilitari esplicitamente neonaziste e sostenuto economicamente, militarmente e politicamente dal Dipartimento di Stato americano, 500 milioni di Euro, che si sommano ai 100 milioni versati il 20 maggio. Leggo che questi 500 milioni (ai quali si aggiungerà prossimamente un’altra cifra superiore al miliardo di euro) sono stati acquisiti dall’UE indebitandosi sul mercato finanziario. Per pagarli ci sarà bisogno, verosimilmente, di nuove strette di austerità». (18 giugno 2014). 

«Nazisti italiani in Ucraina. E non è una novità». (20 giugno 2014).

«Non pubblico le foto di persone fatte a pezzi a Gaza dai bombardamenti israeliani e nelle Repubbliche dell’est Ucraina dai bombardamenti dei nazistoidi di Kiev. Ma le foto ci sono, a migliaia, prova inconfutabile degli orrendi massacri in corso». (29 luglio 2014)

«Più tempo passa, più mi convinco che gli States vogliono la guerra per uscire dalla crisi. Ma se fosse guerra, sarebbe guerra in Europa, e sarebbe una catastrofe». (9 agosto 2014) 

«Toh! La verità sta venendo fuori persino sulla stampa italiana! L’aereo della Malesia NON è stato abbattuto dai cattivi ribelli filorussi ma dai buoni governanti di Kiev, cioè i nazisti». (13 agosto 2014) 

«Questo tal vicepresidente Usa, Joe Biden, avrebbe ammonito Mosca – leggo sui giornali online – contro ogni «violazione della sovranità» di Kiev. A parte il fatto che prima di ammonire bisognerebbe avere la prova della violazione, si fa presente che la politica estera americana dal dopoguerra ad oggi, ma in particolare negli ultimi vent’anni, è stata una serie pressocché ininterrotta di violazioni di sovranità di altri Paesi». (16 agosto 2014) 

«È evidente che il governo ucraino, che andrebbe processato per crimini contro l’umanità, non vuole fare arrivare gli aiuti alle popolazioni che sta bombardando. È altrettanto evidente che cerca ogni pretesto per aprire un conflitto armato con la Russia», commentando un comunicato ufficiale del ministero degli esteri russo (22 agosto 2014) 

«Rasmussen (che sarebbe il segretario della Nato) minaccia la guerra alla Russia». (27 agosto 2014)

«Gli Stati Uniti non vogliono una composizione pacifica della guerra civile in Ucraina. Da tempo gli Stati Uniti, la Nato e Israele stanno facendo morire l’Onu». (29 agosto 2014) 

«La cosa interessante è che, secondo Repubblica, la forza d’intervento rapido NATO, che comprende anche un contingente italiano della Folgore (e te pareva!), è stata creata a difesa – pensate un po’ – di Estonia, Lettonia e Lituania dal rischio di un’aggressione russa. I casi sono tre: essendo ovvio che la Russia non ha in nessun modo dato segnali di voler attaccare le tre repubbliche, o questa “forza NATO” è pura propaganda, o è una sfida al riarmo ai confini con la Russia, oppure, infine, si ha notizia che all’interno delle tre repubbliche stia per scoppiare qualcosa a causa della profondissima crisi in cui versano nel contesto UE». (3 settembre 2014) 

«Cento parà della Folgore pronti ad invadere la steppa sotto la saggia guida dell’obnubilato Rassmussen!» (6 settembre 2014) 

«Grottesco e reticente il rapporto dell’Ufficio di Sicurezza olandese sull’abbattimento del Boing malese. La prima conclusione è che è stato abbattuto. Grande scoperta! La seconda conclusione è che, guardando le foto che si conoscono da mesi e che io ho pubblicato su Facebook molto tempo fa e che dimostrano incontrovertibilmente che l’aereo è stato mitragliato da centinaia di proiettili (la grande parte dei fori è tondeggiante, più piccoli e piegati all’interno quelli di entrata, più grandi e piegati all’esterno quelli di uscita), è che forse è stato colpito da un missile! Gli olandesi cercano malamente di accreditare la tesi di Kiev». (9 settembre 2014) 

«Testo interessante sull’Ucraina, a proposito delle falsità finora veicolate dai media». Il testo interessante è titolato: «Non c’è nessuna invasione russa» (10 settembre 2014

«Pazzi da legare (in senso stretto) al governo dell’Ucraina». (15 settembre 2014)

«Questo presidente, premio Nobel per la pace, sta portando il mondo davanti a un abisso», a commento di un articolo di fonte governativa russa intitolato «Obama esorta tutto il mondo a unirsi contro la Russia». (28 settembre 2014) 

Di fronte a tutto questo, appare evidente che l’attuale neutralismo di Pagliarulo non è una posizione, ma una maschera per dissimulare un putinismo molto radicato, ma oggi poco confessabile. È dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, del resto, che nella sinistra comunista il pacifismo è il surrogato conveniente e politicamente corretto della difesa della guerra della Russia totalitaria all’Occidente democratico, di cui l’Ucraina è la nuova e sanguinosa frontiera. E mentre Putin traccia il solco, Pagliarulo, come può, lo difende.

Il conflitto Russia-Ucraina. “Aiutare Kiev è di sinistra, il nostro popolo non è stato tradito”, parla Gianni Cuperlo. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 16 Aprile 2022. 

Facendosi “interventista”, votando l’aumento delle spese militari, “sposando” l’economia di guerra, la sinistra ha negato, cancellato, se stessa. L’articolo per Il Riformista di Donatella Di Cesare ha creato dibattito, suscitato polemiche, fatto schierare. E questo è già un risultato importante. Ne discutiamo con Gianni Cuperlo, presidente della Fondazione Pd.

Sostiene Donatella Di Cesare in un articolo per “Il Riformista”: “Non era mai avvenuto che il popolo di sinistra si sentisse così tradito nei propri più alti ideali da coloro che hanno promosso una politica militarista. Prima hanno deciso l’invio delle armi, poi hanno votato l’aumento delle spese militari, ora sponsorizzano un’economia di guerra”. Siamo a questo punto?

Donatella Di Cesare è una filosofa che ha affrontato domande di fondo sulla modernità. Le domande aiutano a pensare, le risposte sono necessarie per agire. Oggi dissento da quella sua critica perché mi pare rimuova proprio la domanda su cosa si è consumato negli oltre cinquanta giorni che ci separano dall’invasione dell’Ucraina. Se aggiriamo questo interrogativo può accadere che le risposte, anche quelle in capo alla politica o al Pd, vengano lette per ciò che non sono. Per capirci, io non penso che abbiamo “promosso una politica militarista”. Dinanzi a un paese sovrano con un governo legittimo invaso militarmente da un esercito straniero abbiamo riconosciuto quel “diritto naturale” alla difesa che è scolpito nella Carta delle Nazioni Unite. In questo senso non credo neppure che abbiamo “tradito” il popolo di sinistra nei “suoi più alti ideali”. Penso che sostenere una lotta di libertà che resiste alla sopraffazione di chi vuole annettersi un paese negando la sua stessa natura (“l’Ucraina non esiste”) corrisponda alla difesa di quei valori che distinguono la sinistra da concezioni autoritarie.

L’invio delle armi: non è stato un errore?

Sull’invio di armi si è discusso e si discuterà. Ascolto e ho rispetto per chi teorizza e soprattutto pratica un pacifismo integrale. Il punto è che nei crocevia della storia la politica è chiamata a prendere delle decisioni salvo che non si scelga a priori di chiedere agli ucraini di prendere atto della sproporzione di forze e in conseguenza di arrendersi, ma quella per me sarebbe la sconfitta dei valori costitutivi di uno stato di diritto e della democrazia. Detto ciò inviare armi alla resistenza ucraina non può avere come scopo una vittoria militare “in battaglia” per citare le parole, a mio avviso sbagliate, dell’Alto Commissario per la politica estera, Josep Borrell. L’idea che questo conflitto si prolunghi sino a sancire un vincitore e uno sconfitto può solo generare una tragedia maggiore e una carneficina. Per questo anche il sostegno militare al pari delle sanzioni a Mosca, degli aiuti umanitari e dell’accoglienza di milioni di profughi aveva e ha l’obiettivo di indurre Putin a recedere dalla strategia sciagurata che ha seguito sino qui.

Resta il capitolo delle spese militari come prospettiva a medio e lungo termine.

Bisogna fare chiarezza: l’Italia ha sottoscritto un impegno al vertice dell’Alleanza Atlantica nel 2014 in Galles, da quel momento tutti i governi lo hanno confermato. Parliamo dell’obiettivo del 2% della spesa militare sul Pil entro il 2024 ora spostato al 2028. Ma il punto di sostanza è a cosa debbono servire quelle risorse. Di un sistema comune di difesa e sicurezza si parla dai primi anni Cinquanta e allora furono i francesi a bloccare tutto. Oggi sommiamo 27 eserciti, 23 aviazioni e 21 forze navali. Chiarire a quale modello di difesa tendiamo implica razionalizzare una spesa che, sommando i bilanci dei 27 paesi dell’Unione, è oggi tre volte e mezza l’analoga voce di bilancio della Federazione Russa. La via non è spendere di più in armi sempre più potenti, ma spendere meno e meglio razionalizzando gli investimenti in essere.

Il variegato mondo pacifista, in tutte le sue articolazioni cattoliche, progressiste, di sinistra, ha fortemente criticato l’aumento delle spese miliari deciso dal Governo e votato a larghissima maggioranza dal Parlamento. Le chiedo: decidere di sostenere, anche con armamenti, la resistenza dell’Ucraina all’invasione russa comportava in automatico il portare, sia pure diluito nel tempo, al 2% del Pil le spese militari?

Rispondo di no e aggiungo che il voto sulle spese militari avverrà in autunno e c’è tutto il tempo e il dovere di parlarne con serietà. Il punto però, insisto, è mettersi d’accordo su quale modello integrato di sicurezza vogliamo. Per questo trovo sbagliata la logica tedesca del riarmo “solitario” in una forma della deterrenza del tipo Guerra Fredda con un balzo nel vecchio secolo. Credo che la strada sia un’altra, quella di una nuova Helsinki che riesca a non spezzare del tutto il rapporto con la Russia anche se non sappiamo quali saranno i suoi equilibri una volta chiusa questa pagina. C’è poi il tema del merito che spesso rimane sullo sfondo o viene del tutto ignorato, la spesa militare si articola in tre voci fondamentali: quella per il personale, quella per addestramento e manutenzione e quella per i sistemi d’arma. Come ho detto, nella logica di una difesa comune è possibile razionalizzare gli investimenti in una economia di scala. Anche per questo credo vada respinta una certa pulsione bellicista che pare riemergere e che vede nell’incremento della spesa un’occasione da non perdere per l’industria militare. Un solo F35, cacciabombardiere di quinta generazione prodotto dall’americana Locked Martin, costa 110 milioni di euro. La domanda è se pensiamo di investire sulla protezione dei territori e delle popolazioni – la pandemia qualcosa ha insegnato – o la strategia è riarmare e riarmarsi fuori da una visione del mondo del dopo. Non lascerei solo papa Francesco a ragionare di questo anche perché risorse aggiuntive serviranno per fronteggiare i nodi sociali in casa nostra e la carenza di cibo e la fame di intere popolazioni nell’Africa mediterranea e non solo.

Il segretario del Pd, Enrico Letta ha sostenuto che per Putin “conquistare la Francia” vale assai di più dell’Ucraina. Il riferimento è alle presidenziali francesi con Marine Le Pen, che non ha mai nascosto simpatie putiniane, che al ballottaggio del 24 aprile contende l’Eliseo a Emmanuel Macron. Lei come la vede?

Spero che il ballottaggio veda prevalere Macron e non perché rappresenti per me il modello di una politica di sinistra, ma perché l’alternativa oggi è incarnata da una destra che Marine Le Pen sta tentando di “europeizzare” anche se di europeo contiene ben poco. La combinazione Orban-Le Pen segnerebbe un arretramento di lunga durata per quei principi di libertà, tolleranza, laicità dello Stato, cooperazione, che sono l’anima del processo di integrazione. E questo al netto dei debiti di riconoscenza che entrambi, Orban e Le Pen, hanno nei confronti di Putin. Detto ciò la parabola deprimente dei socialisti francesi è monito a non rimuovere una verità: la sinistra che non si occupa del dramma sociale del popolo che si candida a rappresentare è destinata non solo a perdere, ma a estinguersi. Il risultato di Mélenchon sta lì a dimostrarlo e credo debba interrogare anche noi, il che non significa condividerne tutte le risposte, ma – torno ancora lì – non ignorare le domande che provengono dalla parte più ferita e offesa della società.

Dopo avergli dato del “macellaio”, Biden ha accusato apertamente Putin di essere il mandante di un “genocidio” suscitando la presa di distanze di Macron. Non è che le uscite del presidente americano siano indice di una idea politica di gestione della guerra che alla lunga rischia di confliggere con gli interessi dell’Europa?

Noi siamo alleati degli Stati Uniti. Abbiamo nei loro confronti un debito di riconoscenza storico e anche un debito politico per non avere riprodotto dopo il 1945 lo schema delle riparazioni di guerra decise a Versailles e che alimentarono in Germania un sentimento di rancore e di isteria nazionalista. Detto ciò è utile che Italia ed Europa mantengano una loro autonomia in rapporto a interessi strategici che possono divergere anche alla luce del fatto che non tutti gli inquilini della Casa Bianca la pensano allo stesso modo e praticano la stessa politica. Oggi l’Europa dovrebbe ricomporre un modello di convivenza e cooperazione in un continente segnato dalla crisi, dalla pandemia e dalla guerra. Leggo che Biden ha in mente le elezioni di mid-term e spera di presentarsi come il presidente che ha imposto a Mosca il suo Afghanistan magari risolvendo una volta per tutte il “problema” Putin: spero che per perseguire quel risultato non metta in conto una prosecuzione della guerra. L’Europa non ha alcun interesse a coltivare lo stesso calcolo.

Per tornare a casa nostra. In che modo il tema della guerra ridefinisce l’orizzonte politico e culturale della sinistra e del Partito democratico in particolare?

Questa guerra civile nel cuore dell’Europa impone a tutti, non solo a noi, di indossare nuove lenti per guardare al futuro del continente e dobbiamo farlo dentro equilibri di potenza destinati a mutare. Peserà il ruolo della Cina che, al di là delle dichiarazioni scontate di amicizia con Mosca, non sembra vivere con favore quanto sta avvenendo, e peserà la funzione degli Stati Uniti dopo la fuga indecente da Kabul e nel pieno di una competizione che vira il loro baricentro nell’indo-pacifico. Quindi mai come adesso l’Europa è chiamata a decidere del proprio destino e in questo senso torna preziosa la profezia di Jean Monnet quando diceva che l’Europa si sarebbe fatta nelle crisi e sarebbe stata la somma delle soluzioni adottate per quelle crisi. Facciamo in modo di non dimenticarlo.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Cartabianca: intervento di Caprarica fa il giro del web e zittisce tutti. Marco Della Corte il 17/04/2022 su Notizie.it.

Con il suo intervento, Antonio Caprarica ha zittito sia Orsini che Di Cesare. 

In una recente puntata di Cartabianca su Rai3, Antonio Caprarica ha zittito sia il professore Alessandro Orsini che la filosofa Donatella Di Cesare. Il suo intervento ha fatto il giro del web. L’argomento era la guerra in Ucraina. In pochi giorni, il giornalista e saggista originario di Lecce ha scalato le classifiche degli opinionisti televisivi più stimati, tramite alcune dichiarazioni che sono state riproposte sui social.

Caprarica ha affermato che i fatti sul conflitto in atto stanno venendo affrontati con una certa leggerezza. Caprarica non comprende come Putin, che ha aggredito un paese, ora venga ritratto come vittima dell’aggressione americana. 

L’intervento di Caprarica: “Leggerezza nel valutare la parole di Putin”

Antonio Caprarica ha detto a Cartabianca: “Adesso è diventata una guerra per cacciare Putin e gli Stati uniti che non vogliono la pace e gli ucraini che si ostinano a difendere la loro terra.

Mi pare veramente un modo sorprendente, strabiliante di ragionare e anche una certa, francamente, leggerezza nel valutare ciò che Putin ha detto con una certa chiarezza”. 

Un “rovesciamento dei fatti”

Accalorandosi con Donatella Di Cesare per averlo interrotto, Antonio Caprarica ha precisato: “Un dittatore feroce ha dichiarato che bisognava smilitarizzare e denazificare un paese e lo ha aggredito, dopodiché questo stesso dittatore oggi viene rappresentato come vittima dell’aggressione americana.

Se questo non è un rovesciamento dei fatti, mi dica lei che cosa è”.  

Pane e disinformazione. Il finto pacifista che una mattina si è svegliato e ha spiegato la complessità dell’invasor. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 9 aprile 2022.

Il neutralista segue una dieta mediatica rigida per negare la realtà. Legge gli articoli in cui si scrive che a Bucha non c’è stato un massacro perché non c’erano i bossoli, guarda solo i talk show che definiscono Zelensky un nazista, e se la figlia chiede perché i bambini muoiono sotto le bombe, le dice che la situazione è complessa. 

Ore 7,00: il Pacifista si sveglia. Ha dormito poco. È stato su fino a tardi, a informarsi sui progressi della denazificazione e a solidarizzare con la dissidenza pacifista obbligata a lavorare gratis.

Ore 7,30: il Pacifista fa le abluzioni. Canta Bella Ciao, perché lui non ci sta sotto schiaffo, con quelli che gli fanno le pulci perché s’è ingarbugliato un po’ sulle resistenze che van bene e quelle che no. E anzi – pensa tutto tremante – lui al 25 aprile della pace ci andrà tanto più orgogliosamente, e con rinnovate iniziative di pace: basta sassaiole solo sulla Brigata Ebraica, anche un po’ contro l’ambasciata ucraina.

Ore 8,00: il Pacifista legge i giornali. Non si sente solo, dopotutto. Sì, d’accordo, ci sono i trafficanti d’armi occidentali che tengono bordone alle attrici travestite da donne incinte e ai nani nazisti camuffati da bambini, e purtroppo guadagnano qualche posizione: ma vivaddio c’è spazio anche per chi denuncia il degrado morale della dirigenza ucraina. E per fortuna resiste il giornalismo d’inchiesta, quello che a Bucha non c’erano i bossoli.

Ore 8,30: il Pacifista esce per andare al lavoro.

Ore 8,31: il Pacifista rientra.

Ore 12,00 (nel mezzo un po’ di relax con le agenzie russe): il Pacifista torna in trincea, cioè davanti alla Tv. Niente frittatona di cipolle né Peroni ghiacciata: la giudiziosa mogliettina ha preparato etnico, il cous cous di Cassia Nord, scodelle Ikea in sospetto di cospirazione anti-glocal ma vabbè. «Shhhht!!!! Famme sentì, amò, c’è il compagno sindacalista che dice bisogna processare Zelensky per crimini de guera».

Ore 14,00: il Pacifista va al pc. Profilo Twitter aperto il 24 Febbraio: prima, quando c’erano centocinquantamila russi al confine del regno nazista, non serviva ancora. Dopo, davanti all’improntitudine degli insubordinati al dovere della resa, diventava imperativo impegnarsi. E alè: «No a tutte le guerre! Né con le stuprate né con la Nato!». Clic. Andrà bene? Un controllo veloce sul Fatto Quotidiano e si rassicura: è stato un po’ cauto, ma migliorerà.

Ore 18,00 (s’era appisolato, nella deliquescenza indotta dai talk pomeridiani che invitano alla cautela sugli asili sventrati, magari erano scuole di teatro): il Pacifista si è perso le ultime sul missile che ha fatto strage in stazione, porca puttana! Ma non gli serve molto per recuperare il bandolo: stavano caricandoli sui vagoni piombati, e il missile ha fermato il crimine nazista.

Ore 20,00: il Pacifista, a tavola, pensa anche ai suoi doveri di padre:

– Papà, dice la maestra che ci sono tanti profughi.

– Lo so, amore mio, ma è la disinformazione: non sanno che vivere sotto una dittatura è meglio.

– Ma papà, quelli gli tirano le bombe!

– E ridaje con la disinformazione! Quelli sono costretti a tirargli le bombe perché l’Europa dà le armi a Zelensky che non si arrende e cià la villa in Versilia e poi dove lo metti il Vietnam e anche Israele occupa i territori e vogliono la legge del profitto e poi c’è il precariato e l’acqua pubblica va difesa e l’Atac è il punto di riferimento fortissimo della pace no anzi quella è l’ANPI… Sì insomma ci siamo capiti.

– Ma papà, io non è che ho capito proprio bene.

– Lo so, tesoro, è un po’ complesso.

Ore 21,00: ora il Pacifista è esausto, la settimana è stata dura. E domani si va a messa.

Il dibattito sugli eventi bellici. Freud e Einstein: il carteggio per la pace. Lea Melandri su Il Riformista il 10 Aprile 2022. 

Nella sua inattualità, quella “barbarie” che è la guerra non ha mai smesso di essere attuale sulla scena del mondo. Per questo è importante non fermarsi al “qui e ora” di ogni evento bellico e continuare a cercarne le radici, se non si vuole dare per scontato che essa sia connaturata alla componente animale degli esseri umani, e perciò immodificabile. Riletto oggi, il carteggio tra Freud e Einstein del 1932, si impone con l’evidenza di una ragione che non ha mai smesso di interrogarsi sul perché della guerra e sulla strada che può portare a “nuovi e validissimi modi di azione”.

Difficile non riconoscere, nelle domande di Einstein a chi pensa abbia “scoperte” adeguate a soddisfarle, l’enigma difronte al quale si è trovata ogni generazione e che lentamente sta arrivando a consapevolezze nuove. “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra?”, “Come è possibile che la minoranza riesca d asservire alle proprie cupidigie la massa del popolo, che da una guerra ha solo da soffrire e da perdere?”, “Vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alla psicosi dell’odio e della distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L’esperienza prova che piuttosto la cosiddetta “intellighenzia” cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, perché l’intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata.” Nella sua risposta, Freud riprende la tesi, già contenuta nel saggio Il disagio della civiltà, che esistano nell’uomo pulsioni di due specie: quelle che “tendono a conservare e a unire”, che chiama “erotiche”, e quelle che tendono a distruggere e a uccidere.

Aggiunge che “si tratta soltanto della delucidazione teorica della contrapposizione amore e odio” e che quasi mai una pulsione agisce isolatamente dall’altra. “La pulsione di autoconservazione, è certamente erotica – scrive -, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. La mescolanza di questi impulsi distruttivi con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento. Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali servissero da paravento alle brame di distruzione.” Lo stesso vale per la pulsione amorosa quando voglia “impadronirsi del suo oggetto”. In sostanza, è la conclusione di Freud, l’essere vivente protegge la propria vita distruggendone una estranea, ed è questa una crudeltà che attraversa “la storia e la vita quotidiana”.

Il perverso annodamento tra conservazione e distruzione, prima ancora che le guerre, sembra dunque interessare, anche se non è detto esplicitamente, il rapporto tra il sesso che ha conquistato e sottomesso l’altro, per affermare la propria forza e superiorità, ma anche per conservare il beneficio delle cure che quel corpo materno poteva dargli. La particolarità di un dominio, come quello patriarcale, che attraversa le vicende più intime – la sessualità e la maternità -, che tiene insieme la vita e la morte, la fascinazione e l’odio, la tenerezza e la violenza, non poteva non toccare nelle sue viscere più profonde anche la storia nata dalla virilità guerriera che ha governata da sola il mondo per millenni. Non sono solo gli stupri ad accomunare gli uomini in guerra o l’ “hitlerismo inconscio”, la volontà di potere, di cui parla Virginia Woolf, ma anche quella specie di travolgimento ipnotico in cui si mescolano eroismi, grandi idealità e barbarie. “Toccando nel vivo, la guerra rende al mondo la giovinezza, vigore e verità, apre un nuovo ciclo economico e politico. Si paragona con insistenza – scrive Roger Caillois nel suo libro La vertigine della guerra (Edizioni Lavoro 1990) – la guerra ai parti, non soltanto perché essa è insieme sanguinosa, dolorosa e feconda, ma anche perché esprime direttamente i bassifondi delle società, le spinte viscerali necessariamente orribili che l’intelligenza non potrebbe comprendere né controllare (…) Ogni guerriero si dedica spontaneamente alla violenza e alla crudeltà, ritenendosi di buon grado nel suo diritto se beve, se gioca, se ruba o se stupra, se picchia, se umilia, se uccide (…) Esige di essere onorato da coloro ai quali protegge la vita, rischiando la propria.”

Fino a quando, a metà degli anni Settanta non è stata approvata la riforma del diritto di famiglia, esisteva il “delitto d’onore”, una legge che prevedeva una pena ridotta a chi uccidesse la moglie per difendere l’onore proprio o della famiglia. A legittimare ogni forma di violenza e di crudeltà, nel privato come nel pubblico, nelle relazioni personali e intime, così come nel conflitto tra i popoli, si può pensare che sia proprio il vincolo, di cui parla Freud, tra spinte opposte di amore e di morte, di salvezza e distruzione, di onorabilità e delinquenza, e che la cultura sessista ha dato come “naturale”. L’idea “rigeneratrice” della guerra, che si è voluto vedere solo nelle ideologie totalitarie, non a caso si ritrova più o meno scopertamente nelle culture autenticamente progressiste e democratiche, per “passione” o perché, come ha detto Joyce Lussu, il patriarcato considera comunque utile il “sacrificio umano”, in tutte le forme che ha preso storicamente, dalla pena di morte agli armamenti.

I diversi destini attribuiti al maschio a alla femmina, i riflessi che pulsioni primordiali di amore e odio, appartenenza e differenziazione, hanno sedimentato nelle istituzioni del vivere sociale, costituiscono ancora oggi una “preistoria” che si preferisce lasciare in ombra. La guerra, nei suoi effetti contrastanti di imbarbarimento e normalizzazione di alcuni ruoli vitali per la sopravvivenza, fa emergere con evidenza il nodo indistricabile che tiene insieme istinti e ragione, virilità e potere, individuo e storia collettiva. È per questo che le analisi che vengono dal versante di una cultura tradizionalmente intesa, arroccata dietro la “neutralità” dell’opinione maschile, pur non mancando di interesse, mostrano il limite che ha la ripetizione di vecchie dicotomie, l’incapacità di riconoscere il salto che ha fatto la coscienza storica nel momento che ha sottratto al silenzio di millenni la radice prima di ogni forma di violenza, aprendo la strada a un cambiamento di rotta del processo di incivilimento. Lea Melandri

Le parole del grande grammaturgo. L’uso della violenza militare: guerra e pace secondo Shakespeare. Filippo La Porta su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

È vero, l’Occidente si è coperto storicamente di innumerevoli misfatti (di cui il colonialismo costituisce l’emblema), e spesso ha tentato di glorificarli. Però l’Occidente stesso, più di qualsiasi altra civiltà, ha saputo criticare se stesso e denunciare quei misfatti. Ai miei occhi ciò è motivo di orgoglio quasi etnocentrico, anche se mi rendo conto che stabilire come criterio per valutare una civiltà quello della sua capacità autocritica rientra interamente nella nostra civiltà e non può avere pretesa universalistica.

All’origine della modernità c’è Machiavelli, esperto dell’arte della guerra e grande figura tragica (propone correttivi, non utopie!), che raccomanda al principe (Il Principe, 1532) perfino di eliminare i propri nemici, se non può indebolirli: la stabilità politica, la sopravvivenza dello stato – per consolidare un ordine sociale – giustifica qualsiasi mezzo (la guerra è qui il modello della politica, dove chi perde non ha salvezza).

Ma c’è anche Erasmo, per il quale (Querela pacis, 1517) una pace ingiusta è meno dannosa di una guerra giusta. Ora queste due posizioni le ritroviamo interamente nell’opera di Shakespeare, con un passaggio da una visione epico- eroica alla parodia, come ci mostra la studiosa Maria Valentini in un bel saggio sulla Guerra di Shakespeare, compreso nei Linguaggi della guerra, a cura di Valerio Magrelli (Spartaco 2009). Nei drammi storici della prima tetralogia (Enrico VI parte 1, 2, 3 e Riccardo III) il drammaturgo sostiene la causa patriottica dei Tudor, in quelli della seconda (Riccardo II, Enrico IV parte 1 e 2 ed Enrico V) abbiamo Falstaff che, dopo essersi finto morto in battaglia, sberleffa l’onore (“Cos’è l’onore? Aria”), al contrario del superguerriero Hotspur; e infine Troilo e Cressida, che decostruisce l’epica omerica (nel 1603, quando sale al trono Giacomo I, sovrano tendenzialmente pacifista).

Impressionante come nell’Enrico IV il re morente suggerisca al figlio di far dimenticare al popolo l’usurpazione che grava sulla corona dichiarando guerra a un paese straniero! Enrico V tematizza soprattutto la questione della guerra giusta, dunque autorizzata da Dio, di san Agostino (De civitate Dei) e san Tommaso (Summa theologiae). La guerra diventa “giusta” in quanto espressione di un volere divino perché fatta per riparare a una ingiustizia e per ristabilire pace ed equità (e anche perciò obbligatoriamente “giusta” anche nella forma, nella sua condotta, senza violenza gratuita e con misericordia – o se si preferisce con misura – senza uccidere i civili né i prigionieri, etc.). Ma scopriamo che l’arcivescovo di Canterbury benedice la guerra di Henry solo per opportunismo, e d’altra parte il conflitto con i francesi si macchierà di stupri e massacri insensati. Ma la scena più commovente della tragedia è quando il duca di Borgogna, dopo la pacificazione finale tra le parti, dirà: “al cospetto di tale reale adunata, / chiedo per quale ostacolo o impedimento / la pace, ignuda, povera e martoriata, /la tenera nutrice di arti, raccolti, e fecondità gioiosa / non debba nel più bel giardino del mondo, la nostra Francia ferace, mostrar le sue liete fattezze”. E ancora: “i nostri figli, noi stessi / abbiam perduto, o non troviamo il tempo di coltivare, /le scienze che dovrebbero ornare il nostro paese, / ma veniam su come selvaggi – come soldati /che non fan nulla se non pensare al sangue – torvi, imprecanti e malvestiti, /e imbarbariti in modo innaturale”.

In Troilo e Cressida mi sembra definitivo il commento del dissacratore Tersite, che parlando con Achille e Patroclo, così definisce il “pretesto” della guerra di Troia: “Che truffa, che furfanteria, che speculazione! E tutto per una puttana e per un cornuto”. La tragedia, che somiglia spesso a una commedia, ha al proprio centro – come giustamente annota Maria Valentini – la corruzione, il disfacimento (il trionfo del caso), l’infezione, una decomposizione morale e metafisica. Ma va segnalato anche il discorso di Amleto nel IV atto: “”dormo, e a mia vergogna / qui ventimila uomini s’accostano,” per una fantasia o per uno scherzo / della fama, alla tomba come a un letto”. / per un palmo di terra” (precedentemente aveva detto “anche per un guscio d’uovo”). Shakespeare irenico e pacifista? Sarebbe anacronistico affermarlo. Però la sua opera è attraversata dall’intera gamma delle posizioni sulla guerra: da una parte unico mezzo per correggere una ingiustizia e ristabilire un ordine infranto, dall’altra come orrore perlopiù immotivato, pretestuoso, qualcosa di innaturale che imbarbarisce gli esseri umani (riecheggiando il pensiero di umanisti come Erasmo e Tommaso Moro). Il lettore, a proposito della guerra, potrà sentirsi Amleto e il duca di Borgogna che guardano i combattimenti con scetticismo e orrore, o anche parteggiare per qualche sovrano impegnato nella sua giusta guerra per ristabilire il diritto, però da Shakespeare si ricava la convinzione che ogni cosa può essere vista da molte prospettive, e proprio questo è alla base del dialogo. Ognuno di noi ha oscillato tra Hotspur (sincero ma insopportabilmente retorico) e Falstaff (arguto epperò amorale), forse con una lieve propensione per quest’ultimo.

Ora, dopo i 60 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale l’umanità ha definitivamente perduto l’innocenza. La violenza, implicata nella modernità stessa (si pensi solo alle tante e sacrosante rivoluzioni che l’hanno scandita) può ancora rientrare in un orizzonte civile democratico? Sono cresciuto con il mito della Resistenza, da cui nasce la nostra repubblica (solo perciò esito a invitare alla resa chi intende resistere avendo una mattina “trovato l’invasor”!). Ho appoggiato qualsiasi lotta di liberazione, ad ogni latitudine (perfino il Fronte Belisario del Sahara, di cui continuo a sapere pochissimo), e avrei disprezzato chiunque avesse consigliato ai vietcong di arrendersi, soltanto per ridurre il numero di morti (ecco, mi piacerebbe che quanti aderiscono, legittimamente, a un pacifismo integrale, ricordassero più spesso questa loro “educazione sentimentale”). Però oggi solo a sentir parlare di “violenza emancipativa” vengono i brividi. Forse l’interrogativo centrale resta questo, anche in termini machiavellici: se non resisti ai violenti e agli “scellerati”, questi prevarranno: ma se li vinci con mezzi “scellerati”, chi davvero vince alla fine? Nei personaggi di Shakespeare, terribili e ridicoli, tragici e comici, codardi ed eroici, sospesi tra saggezza e follia, si rispecchiano i nostri dilemmi senza vera soluzione. Filippo La Porta

La Resistenza anti retorica e senza eroi di Fenoglio. Filippo La Porta su Il Riformista il 31 Marzo 2022. 

Nei tanti, verbosi talk bellici ogni tanto qualcuno dice “Le chiacchiere stanno a zero”. Già, però lì ci si va per chiacchierare. Proviamo allora a cambiare ottica e scenario, e prendiamo uno scrittore che odiava le chiacchiere, Beppe Fenoglio. Il Partigiano Johnny uscì postumo, casualmente, in pieno ‘68, e subito venne messo in relazione con la rivolta studentesca (addirittura paragonato impropriamente a Che Guevara, benché Fenoglio fosse anticomunista). Forse si esagerava però esiste pure un legame tra quel grande romanzo incompiuto e l’anima insieme “moralistica” e libertaria di quel movimento, poi obliterata dai partitini.

La letteratura resistenziale è cospicua (ricordo almeno i Calvino e Meneghello, oltre al neorealismo di Renata Viganò e al Rigoni Stern della ritirata russa…), però Fenoglio ha raccontato meglio di tutti la guerra partigiana, in modi anche a volte crudi, asciutti, cronachistici, o altre volte con un espressionismo che inventa nuove parole (straordinario e paragaddiano il mistilinguismo del Partigiano Johnny) per aderire meglio a una realtà così inafferrabile. Senza mai però intenti celebrativi, senza la stucchevole retorica di tanta vulgata neorealista, e anche perciò era guardato con diffidenza dai critici del Pci. Il suo partigiano, ha osservato Geno Pampaloni “non giudica ma sceglie”. Non occorre infatti giudicare o sforzarsi di capire qualcosa che sempre ci resterà un po’ estraneo. È sufficiente scegliere, limpidamente e responsabilmente, sapendo altresì che le nostre stesse scelte sono in parte casuali, legate ad una fatalità, eppure ineluttabili. La sua energia linguistico-retorica – a parte i neologismi e gli inserti di inglese, una inesausta inventività metaforica – è il corrispettivo dell’energia vitale che sta all’origine dei suoi personaggi.

Nel mio immaginario Fenoglio, che peraltro amava la letteratura inglese (da Shakespeare a Marlow e a Coleridge), oltre alla rivoluzione di Cromwell, è imparentato con Orwell. Le differenze tra i due – anche solo dal punto di vista stilistico – sono così evidenti che non vale la pena soffermarcisi. Però in entrambi c’è il primato della morale sulla politica, una profonda onestà verso se stessi, un impegno esistenziale prima che ideologico. Spiriti liberi, al tempo stesso patrioti e inappartenenti, fortemente laici, precipitati nel secolo breve delle ideologie: hanno odiato tutti i totalitarismi e obbedito solo alla propria coscienza (Orwell era uno strano socialista libertario, Fenoglio, monarchico, diventò solo più tardi simpatizzante socialista). Vediamo meglio l’opera e la biografia di Fenoglio. L’8 settembre si trova sbandato a Roma, dove aveva fatto il corso di allievo ufficiale, da lì sfuggendo ai rastrellamenti tedeschi, torna nelle sue Langhe e diventa partigiano nelle bande badogliane o “azzurre”, dopo una fugace esperienza nei comunisti “garibaldini”: “in the wrong sector of the right side”. Il Partigiano Johnny – benché a tratti di lettura ostica (a differenza del romanzo breve Una questione privata, splendido nella concentrazione), per l’uso dell’inglese, per le cacofonie, per la mescolanza di parole ricercate e parole gergali, di lingua letteraria e colloquialità (ha avuto almeno due stesure, e la sua ricostruzione è filologicamente ardua) – è trascinante come una ballata, come un poema epico-narrativo che tiene con il fiato sospeso, impregnato della bellezza del paesaggio, e perciò con punte di un lirismo intensamente cromatico (“le colline naufragavano nel violaceo”, e ancora dalla collina scendono per un sentiero “in una dolorosa orgia di giallo”).

In che modo è rappresentata la guerra partigiana? Direi in tutta la sua grandezza però tragica. Da una parte Johnny sente di doversi schierare, inequivocabilmente. Quando verso la fine un mugnaio gli consiglia di imboscarsi fino alla fine della guerra, tanto gli Alleati stanno per arrivare, risponde: “Mi sono impegnato a dir di no fino in fondo, e questa sarebbe una maniera di dir di sì”. Combattere i fascisti è per lui, totalmente spoliticizzato, un dovere che viene prima della politica, un imperativo categorico, perfino “una missione senza motivazioni” (Ferroni), e in ciò un poco ricorda la scena finale del “Mucchio selvaggio” di Peckinpah, quando il capo della banda chiede agli altri di salvare il loro compagno prigioniero – ma è una missione palesemente suicida – e quelli rispondono: “Why not?”. Dall’altra le pagine del romanzo sono punteggiate da morti insensate, da orrori ingiustificati. Tutto è ricompreso in una misura più ampia, in un tempo ciclico ed eterno che è quello dell’epos: il succedersi delle stagioni, delle albe e dei tramonti, dove l’unica cosa salda è però la scelta tra il bene e il male, ogni volta assoluti pur nella loro relatività e nella contingenza storica.

Mentre sta per compiere il primo omicidio – una spia fascista – e sparandogli con la pistola lo farà guardandolo negli occhi, “un groppo di catarro saliva procellosamente per la gola di Johnny”. Poi lo seppellirà, camminando sulla neve sporca di sangue, che scrocchia sotto i suoi stivali. La sepoltura somiglia a un gesto rituale che appartiene a quello stesso paesaggio, primordiale e senza tempo, e ne sigilla il destino tragico. La guerra mette a nudo le ragioni ultime di chi vi partecipa – a un compagno Johnny dirà, contro gli ignavi di ogni tempo: “Ricordatelo, senza i morti, loro e nostri, nulla avrebbe senso”. Eppure la stessa guerra sembra rivelare un fondo oscuro, imperscrutabile dell’esistenza.

Orwell parte volontario per la Guerra di Spagna solo per una questione di moral decency, senza perciò ritenersi superiore: passando per Parigi mostra di comprendere e accettare il disimpegno “vitalistico” dell’amico Henry Miller. Il protagonista di Fenoglio, idiosincraticamente antifascista, decide di andare in collina come combattente, per poi liberare i parenti dei renitenti alla leva della Repubblica Sociale di Salò che erano stati imprigionati nella caserma. E, come il suo autore, decide di schierarsi, di difendere ostinatamente la patria e la propria terra avita, per salvare ai suoi stessi occhi la propria dignità. Non manca, pur nella indignazione, una nota di straniante umorismo: i truci repubblichini, rei per lui di aver tradito la patria creando un governo fantoccio filotedesco, gli appaiono “atletici e germanlike… con un risultato visivo verminoso, apertamente, deliberatamente fratricida”.

Nessuno è tenuto a essere un eroe, come ricorda il celebre monito brechtiano (“beato il paese che non ha bisogno di eroi”), e probabilmente oggi l’eroismo epico del passato è chiamato a esprimersi più in modi diversi, nell’azione esemplare, nella disobbedienza civile (che richiede ancor più immaginazione), nella testimonianza non-violenta (egualmente e anzi più rischiosa). Tuttavia avremo sempre bisogno dell’eroismo sobrio, umile, antiretorico, di Fenoglio e Orwell, delle loro scelte esistenziali di campo, limpide e compiute quasi per una vocazione. Nei tanti, verbosi talk bellici ogni tanto qualcuno dice “Le chiacchere stanno a zero”. Già, però lì ci si va per chiacchierare. Proviamo allora a cambiare ottica e scenario, e prendiamo uno scrittore che odiava le chiacchiere, Beppe Fenoglio. Filippo La Porta

Anpi, bufera per il manifesto del 25 aprile: bandiere ungheresi e dietrofront su guerra e armi. E i partigiani? Il Tempo il 12 aprile 2022.

Gli eredi dei partigiani ci ricascano. Il manifesto dell'Anpi, Associazione Nazionale Partigiani d'Italia che non include più combattenti per la resistenza per motivi anagrafici, ha diffuso un manifesto celebrativo per il prossimo 25 aprile, realizzato dall'illustratrice Alice Milani, che ha scatenato un putiferio. Si vedono in un piazzetta di paese giovani e anziani seduti, e disegnata sul terreno la citazione (parziale) dell'articolo 11 della Costituzione: "L'Italia ripudia la guerra". Ai banconi bandiere bianco, rosse e verdi che però sembrano il tricolore dell'Ungheria dal momento che le strisce sono orizzontali. 

"Un cortocircuito tra storia e cronaca che sembra rimandare più alla recente vittoria elettorale del destrissimo Victor Orban che all'omaggio alle forze che componevano il Comitato di Liberazione Nazionale", fa notare Libero che con un articolo di Giovanni Sallusti parla di una "certificazione di una disfatta simbolica generale, un punto di non ritorno comunicativo per un'associazione che aveva già perso pesantemente credibilità nei giorni scorsi, quando aveva invocato «una commissione d'inchiesta per appurare cosa davvero è avvenuto» a Bucha, di fatto scimmiottando la retorica complottarda putiniana".

Tra le critiche mosse all'ennesima gaffe dell'Anpi c'è la citazione parziale della Costituzione, dal momento che l'Italia ripudia sì la guerra, ma "come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali". E poi rinnega se stessa: basati pensare che nel 2019, solo due anni fa, il manifesto dell'associazione sempre e per il 25 aprile mostrava i partigiani armi in pugno, senza le quali addio Resistenza al nazifascismo. 

Parla di "Anpi in versione Paperissima" Massimo Donelli sulla Nazione. Gli eredi dei partigiani ripudiano la guerra quando gli pare, il senso. Basti pensare che nel manifesto per il 25 aprile 2022 trascurano il dettaglio che la parola "guerra" "compare cinque volte nelle prime quattro pagine dello statuto Anpi (l'avranno mai letto?)". 

Il caso. Anpi travolta dalle polemiche, il manifesto per il 25 aprile tra bandiere ungheresi e Resistenza dimenticata. Fabio Calcagni su Il Riformista l'11 Aprile 2022. 

Già al centro delle polemiche per la sua posizione sulla guerra in Ucraina, che secondo alcuni commentatori rivelerebbe una certa ambiguità nei confronti del regime di Vladimir Putin, l’Anpi torna nell’occhio del ciclone per il manifesto ufficiale delle celebrazioni del 25 aprile, la festa della Liberazione dal nazi-fascismo.

Nel manifesto, disegnato dalla illustratrice e fumettista Alice Milani, si vedono alcune persone in una tipica piazza italiana, al cui centro c’è la scritta “L’Italia ripudia la guerra”.

Un richiamo ovviamente all’articolo 11 della Costituzione, che però fa discutere. Per alcuni, che hanno criticato l’idea sui social, la citazione sarebbe monca, senza richiami alla guerra combattuta dagli stessi partigiani per liberare il Paese dal nazi-fascismo e senza la parte in cui si legge “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli“.

Dietro tutto c’è ovviamente il caso politico generato dalla posizione tenuta dall’inizio del conflitto dall’associazione dei partigiani, ritenuta troppo morbida con il Cremlino. Ultima polemica riguarda i fatti di Bucha, che l’Anpi ha condannato chiedendo però “una commissione d’inchiesta internazionale guidata dall’Onu e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili”.

Insomma, nonostante le evidenti prove, nessun riferimento ai crimini russi. Per Gianfranco Pagliarulo, presidente di Anpi, l’associazione era stata però tra le prime a condannare l’aggressione in Ucraina e le polemiche rivolte contro di essa erano dovute a “un pregiudizio di alcune persone e alcune aree contro l’Anpi”

Eppure anche il 28 febbraio, quattro giorni dopo l’inizio del conflitto, in un comunicato l’associazione invitava la Nato a non portare avanti “una politica di potenza“, mentre veniva condannata “la sequenza di eventi innescata dal continuo allargamento della Nato a Est vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia“.

Ma nel manifesto per il 25 aprile c’è anche uno scivolone ‘artistico’. Se da una finestra sulla sinistra spunta una donna che regge una bandiera arcobaleno con la scritta “pace”, dal lato opposto ci sono alcune bandiere tricolori. Peccato che i colori siano stati disposti orizzontalmente, mostrando così di fatto la bandiera dell’Ungheria.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Il fattore P. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera l'11 aprile 2022.  

Nel sacro nome della Resistenza, all’Anpi si è finito per perdonare di tutto. Non solo che i pochi partigiani ancora vivi non vi avessero più da tempo alcun ruolo, ma che l’associazione fosse sempre in prima linea quando si trattava di manifestare contro gli americani. I quali saranno pure il male assoluto, ma combatterono accanto alle brigate partigiane e le rifornirono di armi nella lotta all’invasore nazista. All’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia è stata perdonata anche la neutralità pelosa nella guerra in corso e persino certi arrampicamenti sui muri per distinguere la Resistenza buona da quella cattiva del popolo ucraino. Ma il manifesto del prossimo 25 aprile è imperdonabile e lascia intendere che il problema dell’Anpi sta diventando la sua P. Anzitutto nessun cenno all’invasore Putin, che se non è un fascista, di certo gli assomiglia. Poi una citazione monca dell’articolo 11 della Costituzione, «l’Italia ripudia la guerra», dimenticandosi di aggiungere «come strumento di offesa» e arrivando così all’assurdo di ripudiare anche quella di Liberazione. Ultimo tocco d’artista, la gaffe delle bandiere alle finestre: simil-italiane ma in realtà ungheresi, omaggio inconscio a un altro politico di estrema destra, Orban, amico caro dell’aggressore russo. Alla fine, l’unica cosa azzeccata del manifesto resta la sigla Anpi, purché la si declini in modo più veritiero: Associazione Nazionale Putiniani d’Italia.

Da globalist.it l'11 aprile 2022.

La domanda che divide gli antifascisti – in queste settimane di aggressione russa all’Ucraina – è: l’Anpi, ossia l’associazione nazionale partigiani, eredità di chi ha combattuto la resistenza, perché oggi non sostiene la resistenza ucraina, ossia di un popolo che sta subendo l’occupazione russa e scende in piazza per contestare l’invasore? 

Perché l’associazione che ha per riferimento “Bella ciao”, nel quale si parla di chi ha trovato l’invasore e si è ribellato, oggi ha una posizione contraria a sostenere militarmente l’Ucraina mentre i partigiani combatterono anche perché le armi fatte arrivare loro dagli Alleti?

La polemica continua: «L’Italia ripudia la guerra». Questa la scritta del manifesto ufficiale per il 25 aprile dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Una citazione dell’articolo 11 della Costituzione, quella dell’Anpi. 

«Il disegno è stato realizzato da Alice Milani, illustratrice e fumettista, che ringraziamo di cuore anche da qui», si legge sul profilo Facebook dell’Associazione, finita in diverse occasioni al centro delle polemiche per la posizione assunta sul conflitto in Ucraina. 

Nel manifesto si vedono alcuni partigiani, in cerchio con diversi ragazzi e bambini, ed al centro la scritta «L’Italia ripudia la guerra». 

Ovviamente un manifesto del genere non poteva che rinfocolare le polemiche. Che puntuali sono arrivate con le accuse verso l’Anpi di aver assunto una posizione lontana dalla storia stessa dell’Associazione.

E infatti è stata una pioggia di critiche: “

L’unica cosa che vi rappresenta perfettamente in codesto cazzo di disegnino sono le bandiere ungheresi al davanzale del palazzo.

Orban e l’anpi sono la stessa roba ormai. 

Le persone che hanno creato l’ANPI, la guerra l’hanno fatta, per combattere i nazisti.

Se fossero stati tutti come voi, ora parleremmo tutti tedesco. 

Estrapolare una frase dal suo contesto è poco corretto. La mia famiglia mi ha insegnato i valori della Resistenza, voi mi confondete. 

Niente, scollati dalla realtà e dalla storia che rappresentate. Non c’è pace se c’è un aggressore, bisogna respingerlo.

Parlando con iscritti in centro Italia, mi sembra di capire che sia un problema di dirigenza, va seriamente messa in discussione. 

La ripudia come strumento di offesa, insomma non possiamo fare i Vladimir Putin della situazione e invadere uno Stato Sovrano per risolvere le varie controversie con gli altri Stati. Ma è consentita la difesa, altrimenti non ci sarebbe nemmeno un esercito. La difesa della Patria 

Io sono rimasto amareggiato dalle vostre posizioni

Eppure il rimprovero dolce della Segre non è servito, il richiamo di Smuraglia ex partigiano non è servito, il cazziatone di Flores D’Arcais nemmeno

Il 25 Aprile lo festeggierò senza più ascoltare le vostre vuote parole 

Non siamo arrivati alla Liberazione del 25 Aprile con la pace ma con la RESISTENZA.

(Messaggio semplice ed elementare come il vostro bel manifesto) 

Anpi,ti sei distratta: la Russia ha invaso un paese confinante, libero ed autonomo e sta massacrando e torturando i civili. Ti ricordi la resistenza?I partigiani (quelli veri,non quelli da operetta come voi) si sono fatti ammazzare per la libertà. E voi ve ne uscite con le minchiate

Anpi, i partigiani sono spariti e non conoscono la bandiera italiana. Ma incassano: ecco quanto, le cifre. Andrea Cappelli Libero Quotidiano il 13 aprile 2022.

Si chiama "Associazione nazionale partigiani d'Italia" ma su oltre 120.000 iscritti sono appena circa 4000 i combattenti che hanno vissuto in prima persona gli eventi della Resistenza. Gli altri ne hanno solo sentito parlare, a partire dal presidente nazionale Gianfranco Pagliarulo, nato nel 1949. Avendo smarrito da tempo il suo scopo, oggi l'associazione combattentistica interviene sui temi più disparati: dall'accoglienza dei migranti alle battaglie per i diritti LGBTQI, potendo contare su cospicui finanziamenti statali. Già, una domanda sorge spontanea: quanto costa ai contribuenti il finanziamento delle iniziative degli autoprocramati "eredi dei partigiani"? In un documento pubblicato il 5 maggio scorso emerge che il ministero della Difesa ha stanziato, per il 2021, 1 milione e 700mila euro circa di finanziamenti "da erogare a enti, istituti, associazioni, fondazioni e altri organismi" vigilati dall'ente di via XX settembre. Di questi, 1 milione di euro (lo stesso importo già stanziato nel triennio 2017 - 2020) è stato destinato alle "associazioni combattentistiche e partigiane": nello specifico, l'Anpi ha incassato 99.000 euro.

TRASPARENZA - Osservando lo storico dei contributi riportati nero su bianco nella tabella, dal 2013 a oggi l'Anpi ha ricevuto dal ministero della Difesa un totale di 900.000 euro, con una media di 100.000 euro all'anno di finanziamento. A questo si aggiungono - come riportato dalla stessa Associazione nella sezione "Amministrazione trasparente" del suo sito - 241.000 euro circa derivanti dal 5 per mille dell'Irpef relativi al 2020, incassati a ottobre dello scorso anno.

Se a questo aggiungiamo che la quota minima d'iscrizione all'Anpi varia dai 15 ai 20 euro se ne ricava che gli introiti derivanti dai tesserati si aggirano sui 2 milioni e 400mila euro l'anno. Il costo della tessera è forse dovuto al fatto che nel 2022 l'immagine di copertina è opera del vignettista Marco Dambrosio "Makkox", che ha raffigurato una piccola partigiana intenta a saltellare su un prato, scavalcando con un balzo un fez maleodorante: un capolavoro d'autore insomma.

Osservando le voci di spesa previste dall'Associazione per il 2022 stupisce la cifra destinata all'organizzazione del 17° Congresso: 459.961 euro. Insomma, scordatevi i vecchi congressi un po' ingessati di una volta, ora le cose si fanno in grande...

I finanziamenti che ogni anno vengono erogati alle sezioni locali dell'Anpi arrivano anche dalle amministrazioni comunali: stiamo infatti parlando di una realtà molto radicata sul territorio, comprendente più di 100 comitati provinciali, 1.500 sezioni, 17 coordinamenti regionali e 9 sedi dislocate in paesi esteri.

NELLE CITTÀ - Nel 2020 il Comune di Milano ha destinato 6000 euro al Comitato provinciale Anpi per la sua "attività annuale". Cifra, quest' ultima, di poco inferiore a quella stanziata dal Comune di Modena in data 30 aprile 2020: 7500 euro. Il Comune di Carpi, invece, ha dato prova di maggiore pragmatismo: oltre a destinare una quota annua di 4000 euro, nel giugno 2020 ha messo a disposizione dell'associazione anche uno sgabuzzino di 8 mq circa "per il ricovero degli attrezzi necessari alle opere manutentive". Oltre ai numerosi contributi sui cui l'associazione può fare affidamento ogni anno, a suscitare aspre polemiche negli scorsi anni sono state alcune prese di posizione a dir poco controverse come la presenza, nel 2019, del logo dell'Anpi di Parma in una locandina che pubblicizzava un convengo che metteva in discussione il dramma patito dai martiri delle foibe. Del resto, con tutti i fondi pubblici a loro destinati, quanto a iniziative i membri Anpi non hanno che l'imbarazzo della scelta: si può passare dall'adesione al Gay Pride a manifestazioni a sostegno dell'accoglienza dei migranti. Parafrasando un famoso canto popolare potremmo anche dire: "Una mattina/mi son svegliato/e ho trovato i contributi".

Torna in piazza il Primo maggio pacifista. Il sindacato si mobilita contro l'Occidente. Massimiliano Parente il 13 Aprile 2022 su Il Giornale.

Un Concertone mai così stonato. Suonerebbe bene nella piazza Rossa.

Intanto, durante la tragedia della guerra fasciocomunista scatenata da Putin in Ucraina, tra poco ci beccheremo il 25 aprile, con le solite bandiere rosse e antioccidentali, e poi il concertone del primo maggio, con le stesse bandiere più qualche arcobaleno della pace e il solito giro di cantanti belli e buoni e rigorosamente contro la Nato, sennò che adunata canterina Cgil, Cisl e Uil sarebbe. Ci saranno tutti i peace & love, da Colapesce a Carmen Consoli, da Coez a Ariete, e poi Mace Ft Venerus, Gemitaiz, Joan Thiele, e altri che devono confermare, dovranno pensare a come allinearsi all'ideologia degli organizzatori, visto il momento. Mi pare strano non ci sia Jovanotti, che crede in una grande Chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa, probabilmente non sa che posizione prendere per salvare capra e cavoli.

Eppure mai il concertone del primo maggio apparirà così stonato, a prescindere da chi ci sarà, perché sarebbe meglio non esserci, sempre a prescindere. Voglio dire, io sono uno scrittore e non sono un cantante, ma mai andrei su un palco organizzato da chi, da sempre, è contro la Nato, contro il capitalismo, contro l'Occidente, contro il consumismo, contro il liberismo, e continua a esserlo ancora oggi.

Basta vedere cosa ha dichiarato la Cgil, il principale promotore dello spettacolo, il più grande sindacato italiano: bloccare l'invio delle armi in Ucraina. Mentre in Ucraina stanno morendo sotto le bombe russe. Ci manderei Landini, sul fronte. Insieme a quelli dell'Anpi, i quali ancora devono verificare la responsabilità del massacro di Bucha, anche lì rendendo evidente non solo da quale parte stanno, ma pure che se non fossero intervenuti gli americani altro che «Bella ciao». Così come se gli americani non avessero fondato la Nato dopo, sai che canzoni, passavamo da «Faccetta nera» all'inno sovietico. A proposito: Bella ciao, la canteranno? La cantavano due anni tutti dai balconi (come se il virus fosse americano, e c'è pure chi l'ha sostenuto), ma adesso va riscritta, visto che il partigiano parteggia per l'invasor. Al mattino del primo maggio i sindacati pacifisti saranno a Assisi, immagino a pregare per l'Ucraina, d'accordo con il papa e anche con politici come Salvini, contrari alle armi, favorevoli alle preghiere (a parte che le preghiere non hanno mai salvato nessuno, ma non ho mai capito: un essere onnipotente non se ne accorge da solo? Come ti permetti di dirgli cosa deve fare? O è un modo come un altro per starsene con le mani giunte senza far niente). Dopo a Roma, a sentire le canzoni in nome della pace. Vedrete, come sempre, quante bandiere rosse e arcobalenate. Utilissime agli ucraini.

D'altra parte il primo maggio è sempre stato il raduno delle anime belle anticapitaliste, che nel capitalismo ci sguazzano, mica gli album gli artisti te li regalano. Grazie alla Nato puoi cantare quello che vuoi. Grazie alla Nato ci sono i sindacati. Grazie alla Nato esiste Landini. Però magari quest'anno ci sarà anche qualcuno di destra, chissà, perché Putin ha fatto questo bel regalo all'Occidente: rendere evidente a tutti che fascisti e comunisti sono la stessa cosa, stanno dalla stessa parte (non solo in Italia ma anche in Ungheria, e in Francia speriamo bene). Puoi mettere insieme le posizioni di Laura Boldrini e Casa Pound di fronte a una guerra ai confini dell'Europa.

Insomma, noi mandiamo armi per la Resistenza, gli altri pregano e cantano. Però sarebbe stato bello, quest'anno, se visto che non bisogna inviare armi, il concertone lo avessero messo su non a Roma a piazza San Giovanni, ma sotto il Cremlino. Chissà chi tornava vivo.

Da La Zanzara – Radio 24 il 12 aprile 2022.

Pupi d'Angeri, ambasciatore del Belize presso l'Unione Europea, ex collaboratore di Yasser Arafat, a La Zanzara su Radio 24 attacca Zelensky e scatena la polemica. Ad Alassio vogliono ritirargli un premio. 

D’Angeri: “Non bisogna criminalizzare Putin, non serve a niente. Putin è di una intelligenza superiore alla media”. “Dal 2014 Putin sta dicendo che non vuole i missili sotto casa, che non vuole le armi chimiche, a un certo punto ha detto basta”.

“Bucha? I morti li hanno messi a scacchiera, sono stati piazzati in quel modo dagli ucraini. Hanno fatto uno show, prendendo dei morti veri e mettendoli lì”. “I morti sono stati messi a proposito, senza ombra di dubbio”. 

“Zelensky? E’ insopportabile, uno spaccone. Non fa il bene del suo popolo”. “Se non si tratta, non si arriva a nulla”. Poi sbrocca con Parenzo: “Zelensky sta danneggiando la signora Rossi in Italia, pensionata, che paga di più la luce. Grazie a Zelensky e a persone come lei. Paga di più la luce per colpa di persone come voi, si vergogni”.  

Da globalist.it il 12 aprile 2022.

“No alla guerra senza Ze e senza Vla”: questo il testo della nuova vignetta di Vauro Senesi, che disegna Zelensky e Putin uno a fianco all’altro per il Fatto Quotidiano. E su Twitter scoppia la polemica, legata sia all’equiparazione tra l’aggredito e l’aggressore, sia per una presunta connotazione antisemita nel disegno di Zelensky, ritratto con un naso adunco che – secondo i detrattori di Vauro – ricorda le vignette naziste contro gli ebrei.

Non è la prima volta che Vauro viene criticato per le sue posizioni sulla guerra in Ucraina: già qualche settimana fa Vauro era stato protagonista di uno scontro con Piazzapulita, dove si era definito il giornalista Giulietto Chiesa ‘il ventriloquo di Putin’. Vauro aveva cercato di chiamare la trasmissione ma la chiamata gli era stata rifiutata.

In un’intervista per Globalist di qualche settimana fa, Vauro aveva dichiarato che l’informazione “fa propaganda per l’Ucraina, non tanto per la sua popolazione, ci mancherebbe altro, ma per dare una visione unilaterale di quello che sta accadendo. Nel Paese, dove il corrispondente della Rai da Mosca Marc Innaro viene attaccato perché accusato di essere filorusso e, se uno si azzarda, me compreso, a fare una critica ad alcune decisioni, che sono anche molto gravi, come, ad esempio, quella di inviare armi, a sostegno della resistenza ucraina, viene immediatamente arruolato fra i filo-Putin e i filorussi”.

Estratto dell’articolo di Gianluca Roselli per “il Fatto quotidiano” il 14 aprile 2022.  

Così Vauro si vede costretto a spiegare. "In questo disegno non c'è alcun riferimento alla ebraicità di Zelensky, cosa per me del tutto priva di rilevanza: se disegno una caricatura è ovvio che "carico" i tratti somatici del soggetto: Zelensky ha un naso importante non perché è ebreo, ma perché è il suo naso".

L'Aria che Tira, “accuse infamanti e linciaggio”. Vauro si difende e attacca il Pd: i più bellicisti in Italia. Il Tempo il 14 aprile 2022.

Vauro Senesi è finito al centro delle polemiche per una vignetta che ritrae Volodymyr Zelensky in una maniera che ha fatto sobbalzare la comunità ebraica, che ha puntato il dito in particolare su come è stato disegnato il naso (“adunco, con lo stile della Difesa della Razza”) del presidente dell’Ucraina. Il vignettista è ospite in studio nell’edizione del 14 aprile de L’Aria che Tira, talk show di La7 condotto da Myrta Merlino, e parla delle accuse che gli sono state rivolte: “Non ho tanta voglia di parlarne, ma sono qui e vediamo. Ho fatto il mio lavoro, come faccio da più di 50 anni, con vignette e caricature. A quanto pare sono diventato internazionalmente antisemita, la cosa mi amareggia, non ho nessuna intenzione di giustificarmi, faccio caricature, carico nel disegno i tratti del rappresentato e li esaspero. Le accuse di antisemitismo sono grottesche e ridicole, quello che testimonia la mia vita è l’opposto di qualsiasi forma di razzismo. Sono accuse vergognose e infamanti, non ho mai pensato che il naso adunco sia una caratteristica degli ebrei. Ora Ruth Dureghello dirà che sono antisemita…”.

Andrea Purgatori, conduttore di Atlantide, scherza sul suo naso non proprio piccolino e prende le difese di Vauro: “Nessuno ha visto che c’è scritto nella vignetta, è una frase contro la guerra. L’intenzione non è quella di colpire Zelensky o Vladimir Putin”. Vauro affonda il colpo dopo che gli viene fatto leggere il messaggio su Twitter di Andrea Marcucci, senatore del Partito Democratico: “Non sono opinioni su di me, è un tentativo organizzato di linciaggio, le opinioni sono un’altra cosa. Marcucci? Sono quelli con l’elmetto… Il Pd è il partito più bellicista che abbiamo nel panorama politico italiano attuale. È il partito più atlantista, dovrebbero vergognarsi loro per la storia che avevano un tempo e l'impegno per la difesa della pace, non con l'aumento delle armi”.

Il vizio antico di Vauro fissato sul naso degli ebrei. Fiamma Nirenstein il 13 Aprile 2022 su Il Giornale.

Nel mio modesto ruolo di giornalista, riconosco tuttavia su un eroe contemporaneo, Volodymyr Zelensky, quello stesso naso, quel tratto di penna.

Nel mio modesto ruolo di giornalista, riconosco tuttavia su un eroe contemporaneo, Volodymyr Zelensky, quello stesso naso, quel tratto di penna. È successo nel 2008, quando stavo per essere eletta in Parlamento col Popolo della Libertà. È un naso da ebreo, carico di malevolenza, secondo un'iconografia che il buon senso e il buon gusto dovrebbero suggerire conclusa. Ma non lo è: su tutte le pubblicazioni antisemite nel mondo, da quelle naziste-suprematiste bianche a quelle islamiste un bel naso adunco la racconta quasi tutta, e basta un'occhiata ai social media dei neonazisti o alle vignette di «Palestinian Media Watch» e vedrete nasi alla Vauro a milioni. Oltre il naso, sul petto a me Vauro disegnò una stella di David e un fascio, col simbolo del partito. Perché, ogni naso ebraico è sempre accompagnato da buoni pretesti. Quello della vignetta con volto di Zelensky è la magnifica ragione del «no alla guerra». Pacifismo. Quindi questo «no» si accompagna all'equidistanza dai due guerrafondai, rappresentati torvi, ugualmente pericolosi: sono Ze e Vla, «senza Ze e senza Vla» sotto il «no» pacifista: identici quello che sgancia le bombe a chi se le becca, chi seppellisce i suoi morti a chi ha causato la carneficina di donne, vecchi e bambini in fuga alla stazione. Ma Vauro è pacifista, naturalmente «è un uomo d'onore» come lo erano quelli né con lo stato né con le Br. La tentazione di tirar dentro un naso ebraico per questa guerra di fatto è già diffusa, e spesso sottende una velata comprensione delle ragioni russe. L'Iran attribuisce a Zelensky mire «sioniste», disegni imperialisti di dominio e arricchimento in combutta con Soros e con Israele, come ai tempi del primo covid, anche questo male l'hanno inventato gli ebrei per profittarne. Anche per i siti suprematisti, Zelensky fa la guerra alla Russia per mandare ondate di ebrei in Israele a occupare «Territori». Però la livella morale fra Zelensky e Putin passa per il naso, mentre il mondo ha di fronte, sì, e menomale, un eroe ebreo che combatte bene, fiero di essere tale, che difende l'Ucraina ma ama anche Israele. Ma che strano.

Sanzioni Russia, gli intellettuali che vogliono la morte delle nostre imprese. Pensatori di sinistra in confusione con la guerra in Ucraina. Corrado Ocone su Nicolaporro.it il 14 Aprile 2022.

La guerra di Ucraina ha gettato lo scompiglio fra gli intellettuali italiani di sinistra. Ne parlavamo su queste pagine domenica scorsa, portando diversi esempi. Nel frattempo si sono inserite altre due “perle”: un surreale appello che circola online e che ha come promotori e primi firmatari Roberto Esposito e Nadia Urbinati; e una delirante affermazione di Luciano Canfora fatta in un incontro in una scuola di Bari.

Iniziamo dall’appello. La tesi di Esposito e Urbinati è che per fermare Putin dobbiamo seguire fino in fondo la via delle sanzioni, e pazienza se moriremo di freddo e se il sistema industriale ne sarà penalizzato. Poiché Esposito e Urbinati sono due filosofi, suona un po’ strano, soprattutto per il primo impegnato di solito su questioni prettamente speculative, una discesa su un terreno empirico quale quello del gas e del petrolio russi. Bisogna allora far riferimento al “non detto”, cioè alla “filosofia” che ha ispirato l’iniziativa. Per fortuna, il breve testo ce ne dà indizi sufficienti. Enucleiamoli per punti, non entrando nel merito tecnico delle questioni che pure, così come impostate da Esposito e Urbinati, potrebbero generare non poche obiezioni di buon senso (a cominciare dall’idea che l’economia sia un gioco a somma zero per cui se pratichi l’embargo verso la tua fonte di approvvigionamento a te basta sostituirla).

La decrescita felice. L’idea che in fondo in fondo trapela è che, se le nostre case di occidentali sono meno riscaldate o refrigerate, e se l’industria si blocca, dopotutto non è un male perché riscopriremo modi più “naturali” di vita. E soprattutto daremo un colpo a quel capitalismo indiustrialistico e consumistico che ci corrode l’animo.

L’ antiamericanismo, cioè l’idea che non è un male se noi non seguiamo l’America “guerrafondaia”, e quindi la NATO, e piuttosto che inviare armi proviamo a combattere il despota con mezzi più “gentili”

L’europeismo come soft power, con un’Europa “spazio pubblico del diritto” e come primo esempio di costruzione “statuale” non armata o comunque non al livello delle potenze “imperialistiche”. Che è poi come volere la botte piena e la moglie ubriaca, cioè la pace senza sporcarsi le mani o conservando integra l’anima. Il che effettivamente è potuto accadere negli anni del secondo dopoguerra, ma solo perché altri (gli Stati Uniti appunto) facevano il lavoro sporco e a costo zero o quasi per noi.

L’equiparazione di Putin al nazismo e allo stalinismo, e quindi l’idea che lo stalinismo sia una cosa e il comunismo un’altra. Dimodoché il comunismo è dopo tutto solo una buona idea applicata male, una nobile tendenza dell’animo umano.

Più semplice è invece, per certi aspetti, il caso del professor Canfora, il quale non ha mai pensato che lo stalinismo fosse una perversione: per lui è stato ed è il modello ideale. L’antioccidentalismo, in questo caso, non si serve di surrogati più o meno subdoli come quelli dell’anti industrialismo e della decrescita felice, oppure ancora dell’europeismo autonomo dall’America e fuori dalla cornice dell’atlantismo. Esso si manifesta allo stato puro, come critica al modello capitalistico e al nazifascismo come suo presunto succedaneo politico. In quest’ottica, una posizione di destra è “fascista” a prescindere perché la stessa democrazia liberale in fondo lo è. La Meloni, “nazista nell’animo” si è quindi naturalmente schierata con i “neonazisti ucraini”. Non poteva fare altrimenti.

Fa un po’ tenerezza dopo tutto vedere come per uno come Canfora il tempo non sia passato e come la Russia di oggi non sia altro che la vecchia Unione Sovietica e Putin il suo Stalin. In sostanza, l’uomo che vuole “denazificare” l’Europa e, attraverso una ferrea dittatura del proletariato, avvicinare il suo popolo al marxiano “regno della libertà”, cioè al comunismo realizzato. Corrado Ocone, 14 aprile 2022

"Voi occidentali?" Crosetto è una furia contro la Castellina. Come se ne esce la comunista a Controcorrente. Il Tempo il 13 aprile 2022.

Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky è "colpevole di andare avanti con la guerra e farne ammazzare tanti", afferma Luciana Castellina,  giornalista ed ex parlamentare comunista, nel corso della puntata di mercoledì 13 aprile di Controcorrente, su rete 4. La conduttrice Veronica Gentili le chiede see quella che per noi è la necessità di arrivare una trattativa, per il popolo ucraino è in realtà una ressa inaccettabile ai russi. Ma l'icona della sinistra va oavanti me un caterpillar: "Capisco che i ragazzi vogliano sparare, ma i capi di Stato devono capire che così si va verso un bagno di sangue e saranno trucidati tutti", afferma la Castellina secondo cui le ragioni di questa guerra "si conoscono da trent'anni", e alla base c'è l'allargamento della Nato a est. 

Nell'eloquio, all'esponente comunista scappa una frase che fa drizzare le antenne a Guido Crosetto, imprenditore ed ex sottosegretario alla difesa. "Lei ha detto 'voi occidentali'. Perché lei non si sente occidentale?" attacca il co-fondatore di Fratelli d'Italia, ormai fuori dai partiti. "Eravate tutti zitti ai tempi della guerra in Libia, in Iraq la stessa cosa. So benissimo quando uno coi carri armati invade un'altra nazione è lui l'aggressore, dall'altra parte di sono le vittime" attacca Crosetto che è un fiume in piena.

"Se nessuno avesse dato le armi all'Ucraina loro avrebbero combattuto a mani nude e sarebbero morti per difendere la loro nazione, Io non mi lascio accecare dall'odio alla Nato o all'Occidente". Crosetto ne anche per Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra Italia, che abbozza una difesa: "Qui non c'è nessuno che ce l'ha contro l'Ucraina, condanniamo fermamente l'aggressione russa". 

Anpi, il «compagno» Pagliarulo e la bufera sul 25 Aprile (tra Bucha e il tricolore sbagliato): «C’è una fatwa contro di noi». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

Il presidente dei partigiani, già fedelissimo di Cossutta, e le polemiche per la Liberazione: «Esponenti della cultura liberal democratica negano il pensiero critico». 

Il presidente nazionale dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo (a destra: il manifesto delle celebrazioni per il 25 Aprile 2022)

Travolto dalle polemiche (qui Il Caffè di Massimo Gramellini) , ma confermato praticamente all’unanimità. Gianfranco Pagliarulo è stato rieletto presidente dell’Anpi al congresso nazionale (2 astenuti su 37 membri) proprio mentre infuria la bufera innescata da una brutta serie di inciampi sul 25 Aprile, a cui si sono aggiunte ardue sortite sulla guerra in Ucraina. Ma riavvolgiamo il nastro. Prima la condanna del massacro di civili a Bucha, espressa in termini discutibili, con il capo dell’associazione dei partigiani che ha chiesto «una commissione d’indagine indipendente per fare piena luce su quanto accaduto». C’è sì la condanna del «presidente Putin e dell’esercito russo» che «dovranno rispondere delle loro azioni». Pagliarulo aggiunge anche un “però”, che accende le polveri: «Che siano stati i russi» a compiere l’eccidio di Bucha è «ragionevole» per l’Anpi, ma «ciò non toglie la necessità di una commissione per appurare le responsabilità specifiche in capo al comandante o altri ufficiali. Non mi pare una cosa da poco. Ci dev’essere un processo prima di una condanna».

Il compagno Pagliarulo, già fedelissimo di Armando Cossutta, fu vicedirettore de Il Metallurgico, giornale della Federazione Lavoratori Metalmeccanici di Milano. Il presidente dei partigiani ha un lungo passato tra Pci, Comunisti italiani, Rifondazione e pure una legislatura da senatore (dal 2001 al 2006), eletto nella coalizione l’Ulivo. Dopo una breve parentesi con Sinistra democratica e, ancora più breve, nella sinistra Pd, Pagliarulo si allontana dalla politica. E nell’ottobre del 2020, dopo la morte di Carla Nespolo, prima donna presidente dell’Anpi e primo vertice a non aver combattuto coi partigiani (era nata nel ‘43), Pagliarulo ne viene eletto successore.

Si arriva così alla presentazione della Liberazione 2022 . Nel manifesto della festa, opera della fumettista Alice Milani, spicca in particolare la bandiera della pace. Oltre a questa, però, da due balconcini di una tipica piazzetta italiana spuntano due bandiere con i colori: verde, bianco e rosso. Quelli dell’Italia, insomma, soltanto disegnati con le bande orizzontali, nella sequenza della bandiera dell’Ungheria , guidata dal putiniano Viktor Orbán. «Confusi loro, infelici noi. Che pena un Anpi gestito così», è il commento del costituzionalista Francesco Clementi, che apre alle critiche.

Ma le contestazioni piovono a raffica anche per un altro particolare non da poco. Nella piazzetta del manifesto c’è una grande scritta: «L’Italia ripudia la guerra»; solo una parte dell’articolo 11 della Costituzione, che prosegue così: «...come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Pagliarulo prova a metterci una toppa, che però si rivela peggio del buco: «Siamo contro l’invasione da parte della Russia». E di nuovo un “però”, altrettanto scivoloso: «No all’invio di armi all’Ucraina». Per poi giustificarsi: «L’Anpi sta subendo una vera e propria fatwa, nelle forme più ridicole e grottesche, oltre che più false» anche da parte di «esponenti della cultura liberal democratica che così negano il pensiero critico». Si innesca un altro pandemonio. Poi il silenzio forzato, sperando che la bufera rallenti.

L’Anpi, la guerra e quell’antiamericanismo fuori tempo massimo. Sorprende quel gettare dubbi e ombre su un massacro che solo menti molto fantasiose o in malafede possono attribuire agli ucraini o, addirittura, a una regia cinematografica. Andrea Di Consoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Aprile 2022.

Ci sono associazioni, politici, intellettuali, cittadini italiani che proprio non ci riescono a deplorare con fermezza e senza ambiguità l’invasione russa dell’Ucraina. E uno dei motivi principali per cui non riescono a farlo – e speriamo che il putinismo o il neo-sovietismo siano davvero fenomeni marginali – è l’antiamericanismo, che ovviamente ha diverse gradazioni e differenti tonalità.

Sono in tanti a dire, di fronte ai crimini di Kharkiv, Mariupol, Bucha, Makariv, che in passato a fare queste stesse cose furono gli Usa, e citano il Vietnam, il Cile, l’Iraq, l’Afghanistan, ecc; e l’aspetto che più colpisce è che queste cose vengono dette ancor prima di condannare esplicitamente la guerra di annessione di Putin e del suo regime oligarchico. È certamente vero che la politica estera degli Usa è stata anche una storia di guerre e di morte, ma complessivamente il ruolo degli americani è stato determinante nel difendere a livello mondiale il sistema liberal-democratico occidentale. Diciamo che anche noi italiani abbiamo beneficiato dell’ordine mondiale disegnato dagli Usa, ma anziché riconoscerlo con onestà intellettuale ce ne siamo spesso lavati le mani manifestando o criticando apertamente il «lavoro sporco» che il loro esercito era costretto a fare in ogni angolo del mondo.

All’indomani dell’invasione dell’Ucraina non sono stati pochi coloro che in Italia hanno giustificato Putin sostenendo che la Nato non doveva avvicinarsi troppo ai confini orientali. Dopodiché, non appena l’Ue, i singoli Stati europei e gli Usa hanno deciso di fornire armi all’Ucraina, hanno avuto la prova provata che a fomentare la guerra fossero gli americani e i loro «servi sciocchi» europei. Mai, in tutto questo, una parola vera in difesa della resistenza ucraina e del sacrosanto diritto all’indipendenza e alla sovranità. Al punto che a sentir loro parrebbe che a causare questa guerra siano stati gli Usa, come ha brutalmente confermato l’ambasciatore cinese a Mosca Zhang Hanhui, che ha sbraitato davanti al nostro ambasciatore unicamente accuse agli Usa, e nemmeno una alla Russia, che evidentemente Pechino ha tutto l’interesse di ridurre a Stato vassallo.

In questo scenario, dunque, continua a far discutere il comunicato stampa dell’Anpi (Associazione partigiani d’Italia) che, il 4 aprile, ha scritto: «L’Anpi condanna fermamente il massacro di Bucha, in attesa di una commissione d’inchiesta internazionale guidata dall’Onu e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili». A parte il cattivo italiano utilizzato, davvero sorprende questo gettare dubbi e ombre su un massacro che solo menti molto fantasiose o in malafede possono attribuire agli ucraini o, addirittura, a una regia cinematografica.

Ma veniamo al dunque: a dire queste cose, senza nemmeno una parola di vicinanza verso i partigiani ucraini in lotta contro «l’invasor» russo, è un’associazione che, in teoria, dovrebbe riunire coloro che hanno fatto la Resistenza in Italia, anche se di reduci, ormai, non ce ne sono quasi più. E allora a cosa serve una simile associazione? A tenere viva la memoria della Resistenza, e questo è certamente importante ed encomiabile. Ma qui si ha la netta sensazione di un’associazione vetero-comunista che usa l’autorevolezza storica dei partigiani per mantenere vivo un movimento politico comunista e anti-americano che non manca occasione per fare politica.

Come mai il presidente Pagliarulo e i vertici dell’Anpi non esprimono vicinanza al popolo ucraino e ai soldati-partigiani che da un mese e mezzo stanno lottando e morendo per difendere la propria patria? Siamo certi che qualsiasi loro risposta riporterà il discorso al punto di partenza: alle colpe dell’America, della Nato, dell’Ue. E a quel pacifismo pilatesco che auspica, di fatto, la resa di Zelensky e l’indifferenza dell’Occidente. Così, implicitamente, dando campo libero a Putin, che sarà anche un dittatore, ma è pur sempre un contraltare, insieme alla Cina, dello strapotere americano (è la stessa logica del dopoguerra, che portava molti comunisti a preferire la dittatura sovietica alla «falsa democrazia» americana).

L’Anpi è ovviamente libera di scrivere e di dire tutto ciò che vuole. Ma ha ancora senso un’associazione di partigiani senza più partigiani? Gli iscritti all’Anpi farebbero prima ad aderire senza ipocrisie a uno dei partiti comunisti che ci sono in Italia.

Dagonews l'8 aprile 2022.

Perché papa Francesco non nomina mai Vladimir Putin? Perché il Vaticano non ha lanciato alcuna contumelia contro i politici e i militari russi per le nefandezze che hanno ordito e stanno commettendo contro gli ucraini? 

Quando si parla di “diplomazia vaticana” a cosa ci si riferisce? Le ambascerie del Papa sono conosciute, e attestate, già a partire dalla fine del quarto secolo. Ma erano missioni temporanee soprattutto tra Roma e Costantinopoli.

A metà dell’ottavo secolo, il re Boris di Bulgaria, neo convertito al cristianesimo, scrisse una lunga lettera al Papa Nicolò primo, ponendo anche una serie di questioni giuridiche per i rapporti Stato-Chiesa e altri diritti. 

La “Lettera di Papa Nicolò ai Bulgari” contiene quella “teoria dei due soli”, la indipendenza della sfera sacra da quella profana e viceversa, così cara a Dante: la laicità dello stato nasce cattolica a metà dell’anno Ottocento.

Poi, nelle varie risposte ai quesiti posti dal sovrano bulgaro, si ricava una vera e propria “costituzione” civile e cristiana: i suoi sudditi si erano appena convertiti. La cosa interessante nella lettera di Papa Nicolò è un passaggio dove il Pontefice dice al Sovrano: «Tra le questioni da voi proposte c'è la richiesta di leggi civili. A questo proposito, volentieri vi manderemmo i libri che potremmo considerare necessari a voi in questo momento». 

Dopo molti secoli, Paolo VI dirà che gli uomini della diplomazia vaticana sono «esperti di umanità»; “portano libri” a servizio del popolo e non dei sovrani. Per questo la Santa Sede (e non lo stato della Città del Vaticano) stabilisce rapporti diplomatici con i popoli e non con i governi: rappresenta le comunità dei credenti (e in tempi moderni, non solo cattolici) di fronte alle autorità politiche e agli organismi internazionali.

Alla morte di Giovanni XXIII, la Santa Sede aveva rapporti diplomatici con 40 nazioni, diventate 70 alla morte di Paolo VI, 176 dopo Giovanni Paolo II, 187 con Benedetto e Francesco. La diplomazia vaticana si è strutturata, soprattutto negli ultimi decenni, come una sorta di “Onu dei poveri” dove vengono discussi e rappresentati problemi che all’ONU e in altri organismi sono sottoposti ai veti, più o meno espliciti, delle potenze di riferimento. 

Ed è un processo del tutto contemporaneo, sviluppatosi man mano che l’organizzazione internazionale si bloccava con meccanismi non più sopportabili. All’ONU, i cinque Paesi vincitori della seconda guerra mondiale continuano ad avere un diritto di veto ormai incongruo e pieno di problemi. 

La “geopolitica vaticana”, qualora significhi qualcosa, non nasce dal Vaticano per proiettarsi verso il mondo, è esattamente in contrario: nasce dalle comunità, le Chiese, presenti tra i popoli del mondo e si proietta verso il Vaticano per permettere ai diplomatici del Papa di raccoglierle, dar loro forma, e tentare di tutelare anche politicamente le istanze che contengono.

Il papa non nomina mai Putin perché deve dare forma alla tutela delle comunità credenti sparse in Ucraina e Russia. E che questa tutela sembra poter esprimere qualche speranza è confermata dai rapporti che gli ortodossi fedeli a Mosca stanno intessendo con i cattolici in Ucraina e altrove: ieri il vescovo ortodosso dei fedeli russi in Spagna e Portogallo ha firmato una lettera di condanna a Putin insieme ai vescovi cattolici di Spagna. 

Altre iniziative simili sono già avvenuto in quasi tutta Europa, con l’unica eccezione della Serbia. E non stupisce che, dopo aver giocato al gatto e al topo con il papa che gli chiedeva un incontro, è ora il patriarcato di Mosca a chiedere di incontrare Francesco: probabilmente, in Libano a giugno. 

Agli estranei, sembra il gioco delle tre carte. Ma la diplomazia vaticana sa benissimo che i capi di stato, e le forme di governo passano, mentre le Chiese restano. Lo è stato con Hitler e Stalin, lo sarà anche con Putin e il patriarca Kirill.

Bergoglio non condanna Putin, vince la linea moderata del Vaticano. All’Angelus della Pasqua, pur con il discorso più sentito, papa Francesco non è andato oltre i confini diplomatici. GIANFRANCO SVIDERCOSCHI su Il Quotidiano del Sud il 19 aprile 2022.

Era la Pasqua. Il giorno che celebra il Cristo risorto. Il momento più significante, decisivo, per una religione che, a differenza di tutte le altre, crede in un Dio che attraverso il figlio sì è fatto uomo. E, per ciò stesso, ha riconosciuto a ogni uomo una dignità che nessun altro gli ha dato e gli potrà mai dare.

Anche per questo, anzi, soprattutto per questo, molti credenti – e, forse, non solo credenti – speravano che la Pasqua potesse favorire il compimento del loro sogno. Il sogno che avevano dentro, un nuovo “I have a dream”, e cioè una Chiesa che si liberasse dei lacci e lacciuoli della diplomazia, e rivendicasse quel vincolo di fratellanza che Dio ha stabilito, una volta per sempre, fra tutti gli esseri umani.

Il sogno di una Chiesa che, appunto in nome del Dio dell’Incarnazione, ma anche in nome della sacralità della vita e della dignità di milioni di donne e di uomini che sono i popoli dell’Ucraina e della Russia, insomma, una Chiesa che si rivolgesse espressamente, apertamente, ai due presidenti, Volodymyr Zelenski e Wladimir Putin. Chiamandoli per nome. E invitandoli a cessare immediatamente ogni operazione bellica, e a cominciare a trattare, e a trovare una soluzione, possibilmente stabile e definitiva, per tutti i problemi sul tappeto.

E invece? Invece, il sogno è rimasto ancora e solamente un sogno. All’Angelus della Pasqua, pur con il discorso più sentito, più accorato, ma anche più fermo, più duro, di quelli pronunciati finora, papa Francesco non è andato oltre i confini di quella strategia, volutamente moderata, prudente, circospetta, che la diplomazia vaticana aveva impostato, e che lui, spesso divincolandosi e con uscite personalissime, ha comunque seguito.

“Sia pace per la martoriata Ucraina, così duramente provata dalla violenza e dalla distruzione della guerra crudele e insensata in cui è stata trascinata. Si scelga la pace. Si smetta di mostrare i muscoli mentre la gente soffre. Per favore, per favore: non abituiamoci alla guerra, impegniamoci tutti a chiedere a gran voce la pace, dai balconi e per le strade! Pace!”. Si potevano trovare parole più esplicite, più dirette di queste, per chiedere la fine di un conflitto già così spaventosamente sanguinoso?

Ma ecco il punto, il solito punto nodale. Perché non dire chi abbia “trascinato” l’Ucraina in questa guerra “crudele e insensata”? Perché non ricordare al mondo chi sia stato a scatenare questa ennesima catastrofe? Più avanti nel discorso. Implorando pace per Gerusalemme, il Papa ha elencato particolareggiatamente tutti i gruppi religiosi (cristiani, ebrei e musulmani) e nazionali (israeliani e palestinesi), i quali scontrandosi ripetutamente, anche nei giorni scorsi, allungano all’infinito i tempi per una eventuale pacificazione. Perché allora non farlo anche per quanto sta succedendo in Ucraina? Perché non condannare Putin, la Russia, per il massacro, se non il genocidio, che stanno perpetrando?

“Chi ha la responsabilità delle Nazioni ascolti il grido di pace della gente. Ascolti quella inquietante domanda posta dagli scienziati quasi settant’anni fa: ‘Metteremo fine al genere umano, o l’umanità saprà rinunciare alla guerra?’”. Parole gravi, importanti, che sottintendevano il pericolo di un allargamento del conflitto ucraino, se non addirittura l’esplodere di una guerra nucleare. Ma era giusto rivolgere queste parole, finendo col rimetterli ancora una volta sullo stesso piano, e quindi con l’attribuirgli un’eguale parte di responsabilità nello scatenamento del conflitto, tanto all’aggressore (la Russia) quanto all’aggredito (l’Ucraina)?

E poi, di nuovo, l’allargamento del discorso-guerra al mondo intero. Disperdendo o quanto meno attenuando, di conseguenza, le cause specifiche che hanno portato all’invasione dell’Ucraina. E così, Bergoglio ha fatto un lunghissimo elenco dei conflitti ancora in corso, delle loro gravissime ripercussioni sul piano umano, sociale ed economico. Dimenticando però, ma che strana dimenticanza!, nel parlare delle difficoltà che incontrano le minoranze cristiane in Africa e Asia, dimenticando di accennare alla Cina, di denunciare la nuova durissima repressione che stanno subendo vescovi, preti e credenti della Chiesa cosiddetta “clandestina”. Alla faccia del tanto reclamizzato Accordo, e ancora segreto, tra Vaticano e Pechino.

“La pace è possibile, la pace è doverosa, la pace è la primaria responsabilità di tutti”. E comunque, anche solo per ricordare questo al mondo, l’azione di papa Francesco e della Santa Sede resta fondamentale. Un’azione sicuramente dai molti aspetti criticabili, perfino incomprensibili, ma che almeno tiene aperta la speranza di un qualche negoziato, di una tregua, in modo da far tacere le armi, da risparmiare la vita ad altri poveri innocenti.

Mai come in questo momento, infatti, le parole del Vangelo – dette però apertamente, senza sotterfugi, senza paure e cautele, o, peggio, senza manipolazioni – potrebbero far da solido fondamento alle parole della politica, della diplomazia. Ed ecco perché l’impegno concreto della Santa Sede non potrà limitarsi a quello, pur importantissimo, insostituibile, dell’aiuto ai profughi, della solidarietà con chi più soffre. In questo modo, la missione della Chiesa si ridurrebbe a quella di una ONG, di una agenzia umanitaria.

La carità evangelica è anche, e soprattutto, dire la verità al momento giusto, e quando ce ne sia più bisogno. Lo ha ricordato con molta franchezza il vescovo di Odessa, mons. Stanislaw Szyrokoradiuk, quando il cardinale Konrad Krajewski (elemosiniere, inviato del Papa, ma non, come inavvertitamente gli è scappato in una intervista, anche ex segretario personale di Giovanni Paolo II) è arrivato con una autoambulanza da destinare alle emergenze di questa città, continuamente sotto assedio dell’esercito russo.

“Non vogliamo solo aiuto materiale, ma anche morale, anche spirituale”, ha detto il vescovo ucraino. “Ci aspettiamo che il Papa pronunci parole più forti sul patriarca Kirill, che ha benedetto Putin, questo nuovo Hitler. Ci aspettiamo che il Papa dica chiaramente che cosa significhi questa guerra…”.

La dottrina di Papa Francesco. Sant’Agostino non parlò mai di guerra giusta. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 21 Aprile 2022. 

Dove sono i teologi, nel conflitto in corso? Guerra di valori, la definisce il Patriarca ortodosso Kirill di Mosca, intendendo che la Russia combatte un corrotto Occidente. E i teologi nostrani dove sono? A don Mauro Cozzoli, della Lateranense, abbiamo lasciato campo libero a disquisire di “guerra giusta”, qualche tempo fa sull’agenzia Ansa. Don Giuseppe Lorizio, anche lui docente alla Lateranense, ha scritto – giustamente e in controtendenza – che ci vuole un rinnovamento profondo della teologia pena la sua insignificanza. Però in tv – prendiamo ad esempio Floris martedì dopo Pasqua – si discetta confondendo la difesa con la guerra giusta. E mettendo a tacere una voce autenticamente pacifista come quella di don Fabio Corazzina, efficace parroco di Brescia quando predica – ma non in tv – ed esponente di Pax Christi Italia.

Dando invece spazio alla “teologa ucraina” Natalia Karfut (non si sa dove insegni teologia) che si è presentata con una fotocopia dal “Compendio della Dottrina Sociale” della Chiesa, per dire che al numero 500 si parla di guerra giusta. Se avesse letto tutta intera la parte relativa del più ampio “Catechismo”, avrebbe avuto un’idea più precisa. Lo facciamo subito qui in questo articolo. In tutte queste trasmissioni si tace sempre e comunque del Papa, che pure ha parole inequivocabili proprio sulla “guerra giusta”. Ma siccome vanno in un’altra direzione rispetto alla “vulgata” che deve dominare, si fa finta che il Papa non esista. E così la confusione è molto grande. Vale la pena di mettere ordine. Come scrive giustamente don Rocco D’Ambrosio, docente alla Gregoriana, la dottrina cattolica si tira un po’ da ogni parte, soprattutto quando si argomenta per sentito dire, per giustificare tutto ed il suo contrario. Ed invece il pensiero della Chiesa è più preciso. Il “Catechismo della Chiesa cattolica” spiega che ci sono condizioni che ci possono far parlare di “guerra come legittima difesa con la forza militare. Essa è giustificata solo se sottomessa a rigorose condizioni di legittimità morale” (che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo; che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare).

“Questi sono gli elementi tradizionali elencati nella dottrina detta della ‘guerra giusta’. La valutazione di tali condizioni di legittimità morale spetta al giudizio prudente di coloro che hanno la responsabilità del bene comune” (Catechismo, par. 2309). E qui si dovrebbe aprire un dibattito, proprio per indicare “chi” abbia tale e tanta legittimità dal punto di vista morale. In ogni caso su questa linea si inserisce il richiamo all’ingerenza umanitaria, formulato da Giovanni Paolo II: “Quando le popolazioni civili rischiano di soccombere sotto i colpi di un ingiusto aggressore e a nulla sono valsi gli sforzi della politica e gli strumenti di difesa non violenta, è legittimo e persino doveroso impegnarsi con iniziative concrete per disarmare l’aggressore. Queste tuttavia devono essere circoscritte nel tempo e precise nei loro obiettivi, condotte nel pieno rispetto del diritto internazionale, garantite da un’autorità riconosciuta a livello soprannazionale e, comunque, mai lasciate alla mera logica delle armi” (Discorso 1 gennaio 2000). Da notare che “ingerenza umanitaria” è un concetto usato per giustificare l’invasione dell’Iraq da parte di una coalizione occidentale. La cui legittimità morale ad ergersi come difensori dei diritti umani, appare quanto meno dubbia.

Se possiamo distinguere tra aggressore e aggredito (sul piano teorico, almeno) – ma in assenza degli esperti di scienze umane (leggi psicologi) le cui teorie sistemiche e strategiche (in psicologia, s’intende!), aiuterebbero a comprende i meccanismi psicologici e sociali dei conflitti (e aiutare nel disinnescarli, prevenirli, contrastarli…) – sul terreno le situazioni sono sempre molto diverse. E sono i tipi e la quantità di armi a fare la differenza. Qui interviene Papa Francesco. E non da oggi. A parte i numerosi interventi profusi in questi 50 e passa giorni di guerra, la linea più avanzata nella Dottrina Sociale la troviamo nell’enciclica “Fratelli Tutti” del 2020 che impone – impone, è il caso di dirlo – un drastico cambiamento di prospettiva. Siccome le guerre sono tutte “giuste” viste da una parte o dall’altra – pensiamo ai papi del Medioevo che benedivano spaventosi massacri definiti Crociate – e siccome le armi di cui siamo in possesso ci possono far distruggere tutta la terra non una ma centinaia di volte, occorre superare l’idea stessa di guerra. E per chi cita sant’Agostino come grande fautore della “guerra giusta”, Papa Francesco fa notare che “elaborò un’idea della guerra giusta che oggi ormai non sosteniamo”. E proprio il vescovo di Ippona scrisse che “dare la morte alla guerra con la parola, e raggiungere e ottenere la pace con la pace e non con la guerra, è maggior gloria che darla agli uomini con la spada” (Epistula 229, 2: PL 33, 1020).

Chiaro? Più chiaro leggendo bene i paragrafi 258-260 della “Fratelli Tutti”, e ricordando Giovanni XXIII quando scriveva “riesce quasi impossibile pensare che nell’era atomica la guerra possa essere utilizzata come strumento di giustizia” (“Pacem in Terris”, par. 67). In particolare Papa Francesco argomenta così (sintetizzo). La possibilità di una legittima difesa mediante la forza militare è lecita con regole precise (quelle elencate prima). E tuttavia “nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione” (par. 2309) e dunque come si vede, la “guerra di legittima difesa” è poco praticabile in se stessa. Papa Francesco aggiunge: “Tuttavia si cade facilmente in una interpretazione troppo larga di questo possibile diritto” e si finisce per “giustificare indebitamente” anche attacchi “preventivi” o azioni belliche che causano problemi più gravi.

“La questione è che, a partire dallo sviluppo delle armi nucleari, chimiche e biologiche, e delle enormi e crescenti possibilità offerte dalle nuove tecnologie, si è dato alla guerra un potere distruttivo incontrollabile, che colpisce molti civili innocenti. (…) Dunque non possiamo più pensare alla guerra come soluzione, dato che i rischi probabilmente saranno sempre superiori all’ipotetica utilità che le si attribuisce. Davanti a tale realtà, oggi è molto difficile sostenere i criteri razionali maturati in altri secoli per parlare di una possibile ‘guerra giusta’. Mai più la guerra!” (par. 258). Nei passaggi successivi il Papa sottolinea che l’ordine internazionale non può mai essere fondato sulla paura, sul ricorso alla forza come strumento di consenso. E insiste su un’idea molto semplice: è la politica – nel senso più nobile del termine – che non deve mai abdicare dal suo ruolo e deve impegnarsi a fondo per portare nel mondo pace e sviluppo, non conflitti.

Che dire? La linea della Chiesa dal Concilio in poi Magistero è inequivocabile. Abbiamo visto Giovanni XXIII, poi Paolo VI affermare senza incertezze che è lo sviluppo il nuovo nome della pace (sempre “Populorum Progressio”). Ed ora Papa Francesco. Come facciano sedicenti teologi televisivi, o commentatori, a ignorare completamente 60 anni di Magistero Sociale, è veramente difficile comprenderlo. A ripensarci bene, ha ragione don Giuseppe Lorizio: la teologia – i teologi – faranno bene a rinnovarsi sul serio e a prendere l’unica strada sensata e possibile, cioè integrare etica e Dottrina sociale per rinnovare il pensiero teologico di fronte alle drammatiche sfide del presente, pena l’insignificanza. Del resto, chi parla davvero di pace oggi? A parte il Papa, il cardinale Parolin, mons. Vincenzo Paglia (sul fronte della Santa Sede), moltissimi tacciono ed i pochi sacerdoti in tv (vedi don Fabio Corazzina) vengono interrotti e non possono spiegare. Meglio la tv che furoreggia, della tv che faccia riflettere un po’? Fabrizio Cicchitto

(ANSA il 22 aprile 2022) "Un Papa non nomina mai un capo di Stato, tanto meno un Paese, che è superiore al suo capo di Stato". Risponde così papa Francesco, in un'intervista a La Nacion, alla domanda sul perché nei suoi interventi non nomini mai Vladimir Putin o la Russia. E sugli sforzi per una mediazione nel conflitto ucraino sottolinea che "ci sono sempre procedure. Il Vaticano non riposa mai. Non posso dirvi i dettagli perché cesserebbero di essere sforzi diplomatici. Ma i tentativi non si fermeranno mai".

A tale proposito, "due cardinali hanno confessato di sperare che nei primi giorni di maggio finisca gran parte della guerra in Ucraina, se non la guerra stessa. Sono le informazioni che loro gestiscono, anche se nessuno è sicuro che alla fine questo accadrà". Sul significato della sua visita all'Ambasciata russa presso la Santa Sede all'indomani dell'invasione in Ucraina, Francesco spiega: "Sono andato da solo. Non volevo che nessuno mi accompagnasse. Era una mia responsabilità personale. È stata una decisione che ho preso in una notte da sveglio pensando all'Ucraina. È chiaro a coloro che lo vogliono vedere bene che stavo segnalando al governo che può porre fine alla guerra all'istante". "Ad essere onesto, vorrei fare qualcosa in modo che non ci sia più un solo morto in Ucraina. Non uno di più. E sono disposto a fare tutto", aggiunge il Pontefice.

"Tutta la guerra è anacronistica in questo mondo e in questa fase della civiltà - osserva Francesco -. Ecco perché ho anche baciato pubblicamente la bandiera ucraina. È stato un gesto di solidarietà con i loro defunti, con le loro famiglie e con coloro che soffrono l'emigrazione". E sul perché non è ancora andato a Kiev, dove pure per lui c'è molta attesa, "non posso fare nulla che metta a rischio obiettivi più elevati, che siano la fine della guerra, una tregua o, almeno, un corridoio umanitario - afferma -. A cosa servirebbe che il Papa andasse a Kiev se la guerra continuasse il giorno successivo?".

Da globalist.it il 9 agosto 2022.

Il Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, in un’intervista a Limes ha parlato della guerra in Ucraina e delle parole di Papa Francesco, spesso interpretate nella maniera sbagliata da parte dell’opinione pubblica. 

“Il disarmo è l’unica risposta adeguata e risolutiva a tali problematiche, come sostiene il magistero della Chiesa. Si rilegga, ad esempio, l’enciclica “Pacem in terris” di san Giovanni XXIII. Si tratta di un disarmo generale e sottoposto a controlli efficaci. In questo senso, non mi pare corretto chiedere all’aggredito di rinunciare alle armi e non chiederlo, prima ancora, a chi lo sta attaccando”

Dire che il Papa è filorusso è una “semplificazione” che non tiene contro del fatto che “Papa Francesco ha condannato fin dal primo istante, con parole inequivocabili, l’aggressione russa dell’Ucraina, non ha mai messo sullo stesso piano aggressore e aggredito né è stato o apparso equidistante”. 

“Confesso che mi spaventa un po’ questa semplificazione. Il papa è filorusso perché invoca la pace? Il papa è filorusso perché condanna la corsa al riarmo e l’impiego di ingenti somme per l’acquisto di nuove e sempre più potenti armi, invece di utilizzare le risorse disponibili per la lotta alla fame e alla sete nel mondo, la sanità, il welfare, l’educazione, la transizione ecologica?”.

“Il papa è filorusso perché invita a riflettere su ciò che ha portato a questi inquietanti e pericolosi sviluppi, ricordando che una convivenza fondata sulle alleanze militari e sugli interessi economici è una convivenza dai piedi di argilla? Il papa è filorusso perché chiede di applicare lo `schema di pace´ invece di perpetuare lo `schema di guerra´?”. 

“Non si può semplificare a tal punto la realtà! Papa Francesco ha condannato fin dal primo istante, con parole inequivocabili, l’aggressione russa dell’Ucraina, non ha mai messo sullo stesso piano aggressore e aggredito né è stato o apparso equidistante. È stato, per così dire, `equivicino´, cioè vicino a quanti soffrono le conseguenze nefaste di questa guerra, le vittime civili innanzitutto, e poi i militari e i loro familiari, comprese le madri di tanti giovani e giovanissimi soldati russi che non hanno più avuto notizie dei loro figli morti durante i combattimenti”. 

“Ritengo pertanto ingenerose e anche un po’ grossolane certe critiche, legate forse”, sottolinea il cardinale Parolin, “alla constatazione che il papa non fa il `cappellano dell’Occidente´”.

Anti temporalismo. Perché non ha senso paragonare Papa Francesco ai pacifisti cripto-putiniani. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 30 Aprile 2022.

Il neutralismo del Pontefice non è un’ecumenica o ipocrita equidistanza tra aggressori e aggrediti, ma una scelta strategica per evitare che la Chiesta Cattolica sia strumentalizzata e offra sponde all’etno-nazionalismo politico-religioso. Seppur nell’oltranzismo pacifista, la sua è una difesa religiosa della società aperta e del mondo globalizzato.

Le posizioni di Papa Francesco sulla guerra all’Ucraina hanno suscitato dubbi e anche sgomento tra gli aggrediti, ma rimane sbagliato accomunarlo ai pacifisti cripto-putiniani nascosti dietro il suo talare ed eleggerlo, come essi vorrebbero, a patrono universale del neutralismo politico. 

Ridurre la sua figura e il suo messaggio a quelli di un padre Zanotelli più alto in grado e, come il padre comboniano, persuaso che la guerra, anzi ogni guerra, sia solo un prodotto dell’infamia dell’Occidente liberal-capitalistico e abbia come unico rimedio una sorta di comunismo evangelico, è fare un’operazione uguale e contraria a quella di quanti, dopo la sua elezione, denunciarono da posizioni iper-tradizionaliste che un antipapa ateo e comunista aveva usurpato il soglio di Pietro. E questi vedovi del ratzingerismo immaginario sono gli stessi – ironia della storia – che oggi plaudono al rifiuto di Francesco di rompere con l’osceno contoterzista del cesaropapismo putiniano, il patriarca ortodosso di Mosca Cirillo, e con sua teoria della guerra santa anti-relativista e anti-omosessuale.

Bisognerebbe insomma evitare di fare coincidere la realtà storica del pontificato di Francesco con l’immagine prodotta dalle fantasie e dai timori dei suoi più interessati seguaci e spregiatori. 

È più ragionevole e più laico interpretare il fenomeno Bergoglio, anche dal punto di vista teologico-politico, come una manifestazione della trasformazione della Chiesa universale e della sua geografia morale e materiale e leggere la sua ostinata contrarietà a patrocinare, in questa guerra, la parte giusta contro quella sbagliata, non come un’ecumenica o ipocrita equidistanza, ma come una volontà di tenere la Chiesa cattolica alla larga da qualunque collateralismo strategico, per conservarle piena libertà di manovra e di parola e per emanciparla dalla servitù di qualunque Cesare locale e globale. 

Tutto questo, in base a una virtù dettata storicamente da una necessità, cioè dall’essere oggi la Chiesa – al di là della sua specifica vocazione – il ricettacolo di tutte le disperazioni della Terra e dall’avere un popolo in gran parte disperso, povero e perseguitato, per cui l’organizzazione ecclesiale non è, neppure in senso derivato, un’istituzione politica, ma piuttosto quell’immenso ospedale da campo dell’umanità, che è la rappresentazione che da subito Francesco ha voluto dare della Chiesa del nuovo millennio.

Certo è che sulla guerra all’Ucraina – che è di aggressione in senso politico, ma che è una guerra civile in senso religioso e segue un dolorosissimo scisma del campo ortodosso – Papa Francesco ha posizionato la Chiesa in un altrove in cui la pace pericolosamente confina – per gli ucraini, ma non solo per loro – con il martirio e non con la giustizia e in cui anche la difesa dei diritti degli aggrediti sembra implicare il contagio con la violenza degli aggressori e l’inammissibile compromissione con lo spirito di Caino. 

Francesco e vasti settori della Chiesa Cattolica sembrano proporre agli ucraini qualcosa di molto simile a quello che Gandhi propose agli ebrei di fronte alle persecuzioni naziste nell’approssimarsi della soluzione finale: accettare il sacrificio come scandalo necessario e come sola possibile breccia nel muro della violenza e nella coscienza dei violenti. 

In Francesco e in Gandhi, la fede religiosa nella conversione dei malvagi e la fiducia politica nella riconciliazione con i nemici liberati dall’inganno della violenza si identificano nella convinzione che solo andando «come agnelli in mezzo ai lupi» (Luca 10:3) si propizia un ordine umano che manifesta la potenza di Dio e della verità, cioè di un amore capace di estinguere la seduzione dell’odio. 

L’etica della croce, che ha animato per secoli l’apostolato missionario, non è però di per sé una garanzia di responsabilità politica.  Come scrisse brutalmente Hannah Arendt, che pure era tutt’altro che incline a un realismo politico deterministico, «se il dramma potente e ben riuscito della resistenza non violenta di Gandhi si fosse scontrato con un nemico diverso – la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, o magari il Giappone anteguerra, invece che con l’Inghilterra – il risultato non sarebbe stato la decolonizzazione, ma un massacro e la sottomissione» (Sulla violenza, 1970). 

Non c’è da stupirsi quindi che la voce con cui Francesco, pur senza allontanare lo sguardo dal male e dall’orrore, parla alle vittime di una guerra criminale suoni alle orecchie degli ucraini e dei loro sostenitori come un silenzio succube ai propositi dei carnefici. L’impressione è ulteriormente aggravata dal fatto che la resistenza ucraina ha tutte le caratteristiche della legittima difesa militare, autorizzata dal Catechismo della Chiesa Cattolica, quando sussistano queste tre condizioni: «che il danno causato dall’aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; che ci siano fondate condizioni di successo», (§2309) e che lo stesso Catechismo stabilisce che «la legittima difesa, oltre che un diritto, può essere anche un grave dovere, per chi è responsabile della vita di altri. La difesa del bene comune esige che si ponga l’ingiusto aggressore in stato di non nuocere. A questo titolo, i legittimi detentori dell’autorità hanno il diritto di usare anche le armi per respingere gli aggressori della comunità civile affidata alla loro responsabilità» (§2265).

Malgrado quindi l’etica del martirio sia una matrice fondamentale dell’esperienza cattolica e della sua affermazione storica – la conquista del mondo attraverso la conversione degli uomini – nei due millenni trascorsi dalle origini la Chiesa è stata tutt’altro che un’istituzione pacifista o nonviolenta. Fare notare questa contraddizione può essere un efficace artificio retorico, ma non svela il senso – positivo o negativo che lo si voglia giudicare – della scelta di Francesco, che chiama in causa l’idea che della Chiesa del terzo millennio ha questo Papa, che viene dalla fine del mondo e il ruolo politico che immagina per l’istituzione ecclesiale. Un ruolo, a tutta evidenza, del tutto esterno ed estraneo agli equilibri di potenza degli stati e ai blocchi ideologici e politici costruiti attorno a questi equilibri.

Ci può essere in questa scelta, come suggeriscono alcuni intellettuali cattolici, la volontà di preservare un ruolo per la diplomazia vaticana, in Ucraina e non solo. Ma possiamo azzardare che ci sia in primo luogo la volontà, radicalmente anti-temporalistica, di non schierare Dio su un campo di battaglia. È logico che a un Occidente, che si sente orfano di Giovanni Paolo II e del suo impegno anti-comunista e anti-totalitario, Papa Francesco appaia un Papa più equivoco e accomodante e che la delusione sia bruciante nel momento in cui, dopo la fine della II Guerra Mondiale, si affaccia sullo scenario della storia una nuova guerra globale tra libertà e illibertà, tra i sostenitori della democrazia e quelli di autocrazie violente e criminali.

La ragione per cui il Papa non fa in questa guerra il cappellano militare delle democrazie è però, in fondo, l’altra faccia della medaglia della precedente e quanto mai provvidenziale scelta di impedire che la Chiesa cattolica offrisse sponde all’etno-nazionalismo politico-religioso. Questo Papa non vuole, perché in ogni caso non può essere occidentalistico. Vuole una Chiesa radicalmente allineata alla sua sostanza umana: senza patrie, senza terre, senza potere. Anche perché oggi la Chiesa prospera in termini di vocazioni, di conversioni e di fermento ecclesiale dove non esistono affatto radici cristiane.

Non si tratta di negare quanto la storia politica della nostra porzione di mondo sia tributaria alla cultura cristiana. Si tratta di impedire che la Chiesa terzomondiale, che oggi è quella reale, venga usata come alibi ideologico dai tanti leader cosiddetti cristiani – da Trump, a Le Pen, da Orban a Salvini: tutti in ottimi rapporti con Mosca – che vorrebbero usare la croce in modo sacrilego: come una pietra di confine insuperabile e non come una pietra dello scandalo universale e come un messaggio di fratellanza universalistico. Quella di Francesco, anche nell’oltranzismo pacifista, rimane una difesa religiosa della società aperta e del mondo globalizzato.

Criticare quindi Francesco come se fosse una quinta colonna putiniana, come una sorta di Pagliarulo o di Orsini con i paramenti sacri è oggettivamente una cosa sbagliata, ingenerosa e sciocca. Anche perché a questo Papa, assai più che al precedente, va riconosciuto di avere profeticamente impedito che quella cattolica, come altre chiese cristiane, finisse affossata nella trincea del tradizionalismo religioso e del tribalismo morale anti-moderno, dentro e fuori dall’Europa. Affossamento che la paranoia dei valori non negoziabili, coltivata sotto i precedenti pontificati, rendeva certamente possibile, oltre ad accomunare, come già detto, la predicazione cattolica a quella del cekista ortodosso di Mosca, che benedice, proprio in nome di questi valori, le bombe e gli eccidi di Putin.

L’ecumenismo di Francesco, quale limite all’orrore nel segno del Cristianesimo? RAFFAELLA GHERARDI su Il Quotidiano del Sud il 28 Aprile 2022.

NON c’è dubbio che la guerra santa di invasione che il duo “Putin- Kirill” ha scatenato il 24 febbraio 2022 contro l’Ucraina e la decadenza dell’intero Occidente lascerà profonde tracce non solo dal punto di vista semplicemente umano per i massacri, le distruzioni, gli stupri, le deportazioni, l’esodo di milioni di persone che essa già finora è stata in grado di provocare, ma anche sotto il profilo religioso e specificamente della/delle eredità cristiane e anche all’interno del mondo cattolico.

La domanda di cosa significhi sentirsi cristiani non può non balzare oggi alla coscienza di tutti coloro che, pur con accenti diversi, fanno del messaggio del Vangelo il riferimento di una fede che, almeno fino a ieri, veniva ritenuta in questo terzo millennio del tutto lontana dal poter ispirare una guerra odiosa e da vera e propria crociata, anche contro coloro che non solo condividono la fede in Cristo ma anzi, come il popolo ucraino, sono persino fratelli nel credo dell’ortodossia. Anche se si sprecano oggi le giustificazioni storiche (o presunte tali)  a proposito di una Chiesa, quella russa, da sempre vocata a un rapporto “armonico” col potere politico, la cerimonia pasquale russo-ortodossa in cui Putin, col cero devotamente in mano nella cattedrale di Cristo Salvatore a Mosca, presenzia al solenne rito pasquale celebrato dal  Patriarca Kirill (rendendogli poi anche grazie a seguire del suo fermo appoggio allo Stato e, ovviamente, è da intendersi anche alla guerra/non guerra “operazione speciale” in atto a suon di bombardamenti indiscriminati, fosse comuni di centinaia di civili e barbarie di ogni tipo), è qualcosa che ripugna alle coscienze di questo vituperato occidente che oserebbe poter pensare che le guerre scatenate nel nome di Cristo non possano più avere alcuna giustificazione. 

In quello stesso momento in cui congiuntamente Kirill e Putin celebravano la resurrezione di Cristo, lo stesso Putin respingeva anche nei giorni della Pasqua ortodossa (così come nella settimana precedente, neanche a dirlo, in quelli della Pasqua cattolica) ogni tentativo di arrivare almeno a una tregua umanitaria e anzi semmai i bombardamenti contro obiettivi civili si intensificavano ancora di più così come i suoi fidi alleati e boia ceceni mostravano a tutto il mondo i loro sguaiati festeggiamenti e balli sulle rovine fumanti della città martire di Mariupol, delle fosse comuni con migliaia di vittime civili, e la volontà di annullare nel sangue ogni forma residua di resistenza. Per contro di fronte all’orrore della benedizione di una guerra santa, culminato nei fastosi riti pasquali celebrati da Kirill, senza batter colpo sui massacri in atto nel segno di un Dio vendicatore (contro le colpe del popolo ucraino reo di voler essere libero e sovrano e di un occidente che persino osa pensare nei termini di decadenti diritti umani), anche da tante parti del mondo ortodosso, e persino all’interno della ortodossia russa, si levavano grida di aiuto e di speranza rivolti al Papa di Roma.

Tralasciando ogni riferimento al richiamo da parte dei leader politici ucraini alla possibilità di un ruolo prettamente politico per Francesco in qualità di possibile mediatore di pace, oppure anche come semplice personale e inconfutabile  testimonianza da parte sua (in forza di una autorevolezza morale riconosciutagli da tanti nel mondo e non solo cristiano), semmai avesse accettato l’invito a recarsi in Ucraina, degli orrori che si stavano compiendo in quel paese, il grido di dolore proveniva, per esempio, dal prete ortodosso di Bucha che, proprio in occasione della Pasqua, dichiarava: «Se l’arrivo di Papa Francesco potrà contribuire alla pace, noi lo aspettiamo. È anche importante che venga a vedere coi suoi occhi cosa è successo qui». E ancora, in riferimento alla Via Crucis di Roma: «Far portare la croce a due donne, russa e ucraina, è una buona idea di unità, ma una delle due parti deve ammettere le proprie colpe e pentirsi».

Ora se è chiaro che solo la disperazione di chi sta ora subendo in prima persona una devastante guerra di aggressione, ammantata di giustificazioni metafisico/religiose/cristiane,  può condurre all’identificazione di un popolo, quello russo, con il suo tiranno, ai Cattolici tutti non ha potuto che far piacere vedere rivolgersi al proprio Papa, quale testimone riconosciuto dei valori fondativi del Vangelo, le grida di dolore di chi la violenza inaudita della guerra in atto la sta sperimentando ogni giorno e ne è vittima e per chiedergli aiuto. E in effetti è noto a tutti quale complicato itinerario abbia percorso il Papa in questi più di due mesi di guerra, nel tentativo di mediare il messaggio pacifista/fondamentalista del “no alla guerra, senza se e senza ma”, con la necessità di non celare il fatto che, nel caso in oggetto, ci sono un paese e un popolo aggrediti che  rivendicano la necessità di resistere per sé stessi e per le proprie scelte democratiche e una potenza imperiale che nemmeno riconosce la loro esistenza e vuole ricondurli a suon di bombe nell’alveo della propria tirannia, benedetta da Kirill.

Alcune tappe di questo percorso sono apparse più felici di altre a seconda della sensibilità dei singoli o anche delle eredità culturali del cattolicesimo nelle varie parti del mondo contemporaneo e non è certo il luogo qui di discettare in proposito. Quel che, a mio avviso, occorrerebbe che Francesco chiarisse bene fin da subito e  in profondità di fronte ai cattolici di oggi ma anche di fronte a tutti i cristiani che vedono nel messaggio evangelico l’esatto contrario di qualsiasi bellicistico proposito per innescare sanguinose guerre di religione/di potenza (consci del fatto che la storia ne è drammaticamente piena e che lo stesso occidente cristiano moderno ha fatto molta fatica per lasciarsele alle spalle) è quale via egli intenda perseguire sotto la bandiera dell’ecumenismo e del dialogo interreligioso a lui da sempre cari. Più specificamente, per quanto riguarda l’ortodossia e ancora più da vicino quella russa di Kirill: esiste o no uno spartiacque “dopo la benedizione della guerra di aggressione all’Ucraina”? Un “dopo Bucha”, dopo le numerose “Bucha” che via via si stanno ogni giorno aggiungendo? Ancora più prosaicamente si apre una serie di interrogativi: «Quale prospettiva intende perseguire il Papa nei suoi rapporti con Kirill? Intende far finta di nulla e comportarsi con lui da potere a potere, sperando di ricavare qualcosa, magari grazie alla mediazione di quest’ultimo col suo grande referente politico Putin, per la martoriata Ucraina? In nome del realismo politico Kirill può essere ancora un interlocutore come prima, sul quale conviene calare il silenzio sul misfatto della sua benedizione a una guerra di religione cristiana e di potenza?».

Certo con qualche sorpresa i cattolici e i cristiani di tutto il mondo che aborrono le guerre di religione/di potere addirittura condotte oggi, 2022, nel segno del messaggio evangelico, non possono non vedere con qualche preoccupazione alcuni eventi e dichiarazioni recenti da parte di Francesco di cui hanno dato conto i giornali. I suoi auguri per la Pasqua a Kirill, per esempio. Un giornale di stretta area cattolica titola: La lettera del Papa al patriarca Kirill: “Operiamo per la pace in Ucraina dilaniata dalla guerra” e altri giornali mettono comunque in rilievo, anch’essi in gran parte fin dai titoli la funzione di operatori di pace che Francesco pone in risalto per se stesso e per Kirill. «Caro Fratello – così suona il messaggio centrale della lettera a quest’ultimo -, possa lo Spirito Santo trasformare i nostri cuori e renderci veri operatori di pace, specialmente per l’Ucraina dilaniata dalla guerra, affinché il grande messaggio pasquale della morte alla nuova vita in Cristo diventi una realtà per il popolo ucraino, desideroso di una nuova alba che porrà fine alla oscurità della guerra». Capolavoro politico questa affermazione che cerca perlomeno di trascinare Kirill, (messo da Francesco sul suo stesso piano), a vedere di lenire le piaghe del popolo ucraino: assordante silenzio sul fatto che quelle piaghe le ha volute e le vuole proprio lui, Kirill nella sua stretta alleanza guerrafondaia con Putin.

Il fine, – lenire le piaghe del popolo ucraino, appunto – si potrebbe commentare, giustifica i mezzi; il prezzo: il riconoscimento a Kirill della pari dignità da parte del Papa di Roma nel segno del comune riferimento cristiano anche per quanto riguarda questa guerra…. E che Vatican news informi poi che nel sito ufficiale della chiesa russo ortodossa la lettera di Francesco sia stata pubblicata… beh, non stupisce: miglior legittimazione Kirill non poteva sperare per sé stesso anche nel corso di una cristiana guerra santa di aggressione di cui egli sposa profondamente le “ragioni”.

Alla coscienza cattolica e cristiana contemporanea sarebbe bene che il Papa chiarisse anche certe oscurità della sua recente intervista al quotidiano argentino “La Nacion”.  Egli ha confermato il rapporto “molto buono” che ha con Kirill, avendo anche cura di sottolineare quanto segue: «Mi dispiace che il Vaticano abbia dovuto annullare un secondo incontro con il Patriarca Kirill che avevamo programmato per giugno a Gerusalemme. Ma la nostra diplomazia ha ritenuto che un incontro tra noi in questo momento potesse portare molta confusione» Come è noto Francesco e Kirill si sono incontrati una sola volta, nel 2016, a L’Avana dove hanno firmato una dichiarazione congiunta. Davvero stupisce comunque il rimpianto esplicitato chiaramente dal Papa per aver dovuto in qualche modo soccombere ora alle ragioni della diplomazia per quanto riguarda il rinvio dell’incontro.

Ma davvero, verrebbe da chiedere, Sua Santità, capo della religione cattolica e artefice di un messaggio religioso cristiano che ripudia la guerra santa, non ha pensato da solo quanto un incontro del genere sarebbe costato all’intera coscienza cattolica e cristiana contemporanea, dopo la cristiana guerra santa di aggressione all’Ucraina benedetta da Kirill? Ma poi a seguire il Papa specifica la dichiarazione precedente secondo i termini seguenti, che però non risultano chiarificatori più di tanto dato che genericamente si ricordano le ragioni del dialogo interreligioso a lui da sempre caro: «Io ho sempre promosso il dialogo interreligioso. Quando ero arcivescovo di Buenos Aires ho riunito in un fruttuoso dialogo cristiani, ebrei e musulmani. È stata una delle iniziative di cui vado più orgoglioso. È la stessa politica che promuovo in Vaticano… per me l’accordo è superiore al conflitto».

E ancora la Politica: eccola balzare di nuovo alla ribalta… Quel che è certo è che la guerra in corso squassa profondamente la coscienza di tanti cattolici nei confronti del loro Papa… a lui il compito di chiarire anche a loro tanti perché.

Carlo Tecce per espresso.repubblica.it il 29 Aprile 2022.  

«È frustrante, troppo frustrante. Nient’altro», si sfoga l’arcivescovo Visvaldas Kulbokas, agente diplomatico vaticano, da settembre nunzio apostolico a Kiev, nato sul mar Baltico a Klaipeda in Lituania nel ’74. C’è un episodio fin qui inedito che spiega il ruolo di papa Francesco nella guerra in Ucraina, i rapporti altalenanti con la Chiesa ortodossa di Mosca, l’ostentata convergenza del patriarca Kirill I col regime di Vladimir Putin. Un episodio che l’Espresso ha ricostruito con testimoni diretti e che riguarda lo strazio di Mariupol e migliaia di vite.

Il 22 marzo, a quasi un mese dall’aggressione militare dei russi, l’ambasciata ucraina presso la Santa Sede ha comunicato che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky aveva ricevuto una «promettente» telefonata da papa Francesco, ne seguiranno altre, più sintetiche, non rivelate. Per il Vaticano era l’occasione per approvare davanti al mondo la fiera resistenza ucraina che, però, si preferisce chiamare «legittima difesa».

Il governo di Kiev non può ottenere armi, droni o cannoni da Jorge Mario Bergoglio e neppure molto denaro, anche se già un paio di anni fa per la regione del Donbass ci fu una donazione di 16 milioni di euro di cui 5 prelevati dai fondi papali e da marzo decine di migliaia di euro ogni giorno affluiscono sui conti delle sette diocesi e delle organizzazioni religiose. 

In Ucraina i cattolici sono circa 3,2 milioni su 43 milioni di residenti, una minoranza ben ramificata, ma il pontificato di Jorge Mario Bergoglio, sfruttando le relazioni già avviate da Joseph Ratzinger, s’è prodigato parecchio per l’unità dei cristiani e ha intensificato i contatti con gli ortodossi.

Proprio il nunzio Kulbokas, che ha servito da consigliere anche nella sede di Mosca, fu l’interprete durante lo storico incontro tra papa Francesco e il patriarca Kirill che si tenne a Cuba il 16 febbraio 2016 in una laica saletta all’aeroporto internazionale dell’Avana. In quella circostanza i due capi cristiani, con spirito ecumenico, si assegnarono un compito preciso: «Gli esiti della conversazione mi permettono di assicurare che attualmente le due Chiese possono cooperare - riassunse Kirill - per la difesa dei cristiani e lavorare affinché non ci sia guerra e la vita umana venga rispettata ovunque». Cristiani sono i russi. Cristiani sono gli ucraini.

Il patriarca e il pontefice firmarono anche una dichiarazione congiunta che al paragrafo 26 conteneva un appello per risolvere il conflitto nell’area orientale del Donbass: «Deploriamo lo scontro in Ucraina che ha già causato molte vittime, innumerevoli ferite ad abitanti pacifici e gettato la società in una grave crisi economica e umanitaria. Invitiamo tutte le parti alla prudenza, alla solidarietà sociale e all’azione per raggiungere la pace. Invitiamo le nostre Chiese in Ucraina a lavorare per pervenire all’armonia sociale». Questo auspicio verrà subito disatteso perché la Chiesa di Kiev si staccherà dalla Chiesa di Mosca per assumere una sua indipendenza gerarchica.

Per il governo di Kiev, comunque, papa Francesco è una lunga campata che conduce a Mosca. Ne è una prova inconfutabile la doppia evacuazione degli orfanotrofi di Vorzel e Kherson avvenuta fra il 9 e il 10 marzo per curare decine di neonati. Su richiesta delle autorità ucraine fu il Vaticano a intercedere con i generali russi per una tregua. 

Il 22 marzo Zelensky e Bergoglio hanno parlato di pace e di come salvare i profughi che non hanno più tempo per aspettare che arrivi. Allora il 23 marzo, su mandato di papa Francesco, la segreteria di Stato col cardinale Pietro Parolin ha ordinato alla nunziatura di Kiev, fra le poche ambasciate che non hanno abbandonato mai la capitale, di allestire al più presto un piano per entrare in sicurezza con un convoglio di almeno 50 autobus a Mariupol e aprire un corridoio umanitario per estrarre dalla mattanza russa 2.500 civili alla volta finché consentito. Finché possibile.

Il cardinale Parolin ha discusso con Andriy Yermak, il capo di gabinetto di Zelensky. Il nunzio Kulbokas ha informato i suoi referenti al ministero degli Esteri di Kiev e ha affrontato i dettagli con la vicepresidente (cattolica) Irina Vereshchuk. La prima bozza prevedeva una missione a Mariupol di un vescovo cattolico e di un vescovo ortodosso. Per la Chiesa di Roma era pronto monsignor Pavlo Honcaruk, vescovo della diocesi di Zaporizhia. E sempre lì a Zaporizhia, il governo locale avrebbe fornito pacchi di viveri, l’assistenza dei medici e rifugi per la notte. «Poi ci siamo accorti che il livello era insufficiente per convincere i militari russi».

Così il Vaticano ha coinvolto la Chiesa di Mosca. Il patriarca Kirill I è in una posizione scomoda e perciò equivoca e confusa. Un giorno ha definito la «guerra giusta», un altro, il 16 marzo in videoconferenza con papa Francesco, l’ha ridefinita «ingiusta» e ha garantito l’impegno degli ortodossi per le «questioni umanitarie». In sostanziale coerenza con le ultime dichiarazioni, Kirill I ha accettato di partecipare al convoglio per Mariupol. Vuol dire che la missione era svolta in nome del patriarca di Mosca e del pontefice di Roma. 

Un messaggio potente che accorciava le distanze fra i popoli e imponeva domande (e pressioni) ai governi. Il 27 marzo era la data scelta per la partenza. La delegazione l’avrebbe guidata il nunzio Kulbokas. Più titoli per i negoziatori e i cittadini del pianeta. La Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa fanno tacere le armi.

L’artiglieria di Mosca non spara più su Mariupol. Invece no. I generali russi hanno ignorato il pontefice e il patriarca. Non hanno fermato i cannoni. Hanno proibito alla carovana cattolica e ortodossa l’ingresso a Mariupol. «Un fallimento, un dolore. Un costo enorme. Un costo che non possiamo misurare – racconta monsignor Kulbokas – perché in mezzo ci sono vite che non abbiamo potuto sottrarre alla furia degli spari. È frustrante non riuscire a soddisfare le richieste di chi sta per morire. È molto complicato da accettare». 

Da quel 27 marzo la diplomazia ha sentito la pace più lontana. E molte speranze sono appassite. Adesso le ragioni si capiscono. Almeno si percepiscono. Bergoglio ha cancellato l’appuntamento con Kirill I fissato a giugno a Gerusalemme su «indicazione della diplomazia vaticana». Duplice lettura: non inchinarsi a Mosca, non imbarazzare Kirill. Altra annotazione: il patriarca di Mosca, nonostante Mariupol, le tragedie, le sofferenze, le atrocità della guerra scatenata dall’Armata rossa, ha accolto alla veglia di Pasqua il fedele Putin con annessa candela e dunque ha confermato la sua totale sintonia col Cremlino. (Queste sono le immagini trasmesse, alcuni sospettano fossero di repertorio). 

Però il Vaticano insiste puntando gli stessi varchi che Putin ha sbarrato. In questo modo va decifrata l’ultima lettera che papa Francesco ha indirizzato ancora a Kirill. «C’è stato un secondo piano per Mariupol», precisa il nunzio Kulbokas. Alla vigilia di Pasqua, per due operazioni, una pubblica, l’altra riservata, papa Francesco ha inviato per la terza volta in Ucraina il cardinale polacco Konrad Krajewski, l’elemosiniere apostolico. Krajewski ha consegnato un’ambulanza a Kiev e poi è andato a pregare fra le rovine apocalittiche di Borodjanka, Irpin, Vorzel, Bucha.

Il cardinale ha esitato a rientrare a Roma perché ha tentato invano di ricevere il nullaosta dai russi per accedere alla zona dell’acciaieria Azovstal di Mariupol e riportare alla luce e alla vita migliaia di civili intrappolati. «Ora sono qui in Vaticano e non ho programmi per domani. Papa Francesco mi ha suggerito di lasciare il motore acceso perché potrei tornare in Ucraina in qualsiasi momento. Siamo in uno stato di allerta permanente», puntualizza col suo tono perentorio il cardinale Krajewski.

Si sono registrate incomprensioni (o meglio, tensioni) anche fra il governo di Kiev e la Chiesa di Roma. Come per la preghiera pasquale di una donna ucraina e una russa. Il Papa ha ricevuto copiose critiche per la sua ritrosia nel citare Putin. In Ucraina la propaganda non ha risparmiato il Vaticano. La nunziatura apostolica ha smontato le menzogne più pericolose. Per esempio che l’Istituto per le opere religiose, meglio noto con l’acronimo Ior, custodisse i soldi di Putin.

Oppure che il Vaticano fosse contrario alle spedizioni di armi in Ucraina: «Ciascuno è libero di diventare martire e sacrificare sé stesso, ma la teologia cattolica - rammenta il nunzio Kulbokas - riconosce la legittima difesa. Noi non offriamo soluzioni politiche o militari. Questo è un principio chiaro. Noi non incoraggiamo un maggior armamento e non individuiamo le clausole di un accordo. 

Per questo motivo, come esplicitato dal Papa, non ci rivolgiamo ai presidenti e non menzioniamo né il governo di Kiev né quello di Mosca, però lavoriamo sempre per la pace sapendo distinguere fra chi offende e chi reagisce. Sotto la croce non esistono distinzioni, ci sono gli ucraini e anche i russi. Non mandiamo via nessuno». A breve sarà in visita a Kiev monsignor Paul Richard Gallagher, il ministro degli Esteri. La diplomazia vaticana è concentrata sui civili e su un unico uomo che porta a Putin. Kirill I che fu Vladimir Michajlovic Gundjaev. Il sedicesimo patriarca di Mosca e di tutte le Russie.

Intervista a Papa Francesco: «Putin non si ferma, voglio incontrarlo a Mosca. Ora non vado a Kiev». Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 3 Maggio 2022. 

Intervista a Papa Francesco: «Da Putin non abbiamo ancora ricevuto risposta. Zelensky? L’ho chiamato il primo giorno di conflitto, ma ora non è il momento di andare a Kiev Ho parlato 40 minuti con il patriarca Kirill, gli ho detto: non siamo chierici di Stato. L’Italia sta facendo un buon lavoro, oggi l’intervento al ginocchio»

La frase l’ha ripetuta molte volte, in questi giorni. Con garbo e un largo sorriso. Ed è la prima cosa che dice (al colloquio partecipa Fiorenza Sarzanini, vicedirettrice del Corriere) appena entrati nel salotto di Santa Marta: «Scusatemi se non posso alzarmi per salutarvi, i medici mi hanno detto che devo stare seduto per il ginocchio». 

Oggi papa Bergoglio dovrà fare un piccolo intervento, una infiltrazione, per superare un dolore che non gli permette di muoversi, di partecipare nel modo che vorrebbe alle udienze e agli incontri con i fedeli. «Ho un legamento lacerato, farò un intervento con infiltrazioni e si vedrà — racconta —. Da tempo sto così, non riesco a camminare. Una volta i papi andavano con la sedia gestatoria. Ci vuole anche un po’ di dolore, di umiliazione…». 

Ma non è questa la preoccupazione principale del Pontefice. Parlare di quello che sta accadendo nel cuore dell’Europa gli provoca tormento. «Fermatevi», fermate la guerra è l’appello che ha gridato dal 24 febbraio scorso, quando le armate russe hanno invaso l’Ucraina e morte e distruzioni sono diventate un elemento terribile delle nostre vite di europei. Lo ripete ancora, quell’appello. Con lo sconforto di chi vede che non sta accadendo nulla. 

C’è una vena di pessimismo nelle parole con cui Bergoglio ricorda gli sforzi che sta facendo, insieme al segretario di Stato della Santa Sede Pietro Parolin («Davvero un grande diplomatico, nella tradizione di Agostino Casaroli, sa muoversi in quel mondo, io confido molto in lui e mi affido»), per ottenere almeno il cessate il fuoco. 

Il Pontefice mette in fila tutti i tentativi e ripete più volte che è pronto ad andare a Mosca. «Il primo giorno di guerra ho chiamato il presidente ucraino Zelensky al telefono — dice papa Francesco — Putin invece non l’ho chiamato. L’avevo sentito a dicembre per il mio compleanno ma questa volta no, non ho chiamato. Ho voluto fare un gesto chiaro che tutto il mondo vedesse e per questo sono andato dall’ambasciatore russo. Ho chiesto che mi spiegassero, gli ho detto “per favore fermatevi”. Poi ho chiesto al cardinale Parolin, dopo venti giorni di guerra, di fare arrivare a Putin il messaggio che io ero disposto ad andare a Mosca. Certo, era necessario che il leader del Cremlino concedesse qualche finestrina. Non abbiamo ancora avuto risposta e stiamo ancora insistendo, anche se temo che Putin non possa e voglia fare questo incontro in questo momento. Ma tanta brutalità come si fa a non fermarla? Venticinque anni fa con il Ruanda abbiamo vissuto la stessa cosa». 

La Nato e il Cremlino

La preoccupazione di papa Francesco è che Putin, per il momento, non si fermerà. Tenta anche di ragionare sulle radici di questo comportamento, sulle motivazioni che lo spingono a una guerra così brutale. Forse «l’abbaiare della Nato alla porta della Russia» ha indotto il capo del Cremlino a reagire male e a scatenare il conflitto. «Un’ira che non so dire se sia stata provocata — si interroga —, ma facilitata forse sì». 

E ora chi ha a cuore la pace si trova di fronte la grande questione della fornitura di armi, da parte delle nazioni occidentali, alla resistenza ucraina. Una questione che non trova tutti d’accordo, che spacca il mondo cattolico e quello pacifista. Il Pontefice si mostra dubbioso, la sua dottrina ha avuto sempre al centro il rifiuto della corsa agli armamenti, il no all’escalation nella produzione di armi che prima o poi qualcuno decide di mettere alla prova sul campo, provocando morte e sofferenza. «Non so rispondere, sono troppo lontano, all’interrogativo se sia giusto rifornire gli ucraini — ragiona — .La cosa chiara è che in quella terra si stanno provando le armi. I russi adesso sanno che i carri armati servono a poco e stanno pensando ad altre cose. Le guerre si fanno per questo: per provare le armi che abbiamo prodotto. Così avvenne nella guerra civile spagnola prima del secondo conflitto mondiale. Il commercio degli armamenti è uno scandalo, pochi lo contrastano. Due o tre anni fa a Genova è arrivata una nave carica di armi che dovevano essere trasferite su un grande cargo per trasportarle nello Yemen. I lavoratori del porto non hanno voluto farlo. Hanno detto: pensiamo ai bambini dello Yemen. È una cosa piccola, ma un bel gesto. Ce ne dovrebbero essere tanti così». 

Le parole di Francesco, nella conversazione, tornano sempre a ciò che è più giusto fare. Molti gli hanno chiesto il gesto simbolico di una visita in Ucraina. Ma la risposta è netta: «A Kiev per ora non vado — spiega —. Ho inviato il cardinale Michael Czerny, (prefetto del Dicastero per la Promozione dello Sviluppo umano integrale) e il cardinale Konrad Krajewski, (elemosiniere del Papa) che si è recato lì per la quarta volta. Ma io sento che non devo andare. Io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin. Ma anche io sono un prete, che cosa posso fare? Faccio quello che posso. Se Putin aprisse la porta...». 

La Chiesa ortodossa

Può essere il patriarca Kirill, capo della Chiesa ortodossa russa, l’uomo in grado di convincere il leader del Cremlino ad aprire uno spiraglio? Il Pontefice scuote la testa e racconta: «Ho parlato con Kirill 40 minuti via zoom. I primi venti con una carta in mano mi ha letto tutte le giustificazioni alla guerra. Ho ascoltato e gli ho detto: di questo non capisco nulla. Fratello, noi non siamo chierici di Stato, non possiamo utilizzare il linguaggio della politica, ma quello di Gesù. Siamo pastori dello stesso santo popolo di Dio. Per questo dobbiamo cercare vie di pace, far cessare il fuoco delle armi. Il Patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin. Io avevo un incontro fissato con lui a Gerusalemme il 14 giugno. Sarebbe stato il nostro secondo faccia a faccia, niente a che vedere con la guerra. Ma adesso anche lui è d’accordo: fermiamoci, potrebbe essere un segnale ambiguo». 

La Via Crucis

L’allarme di una guerra mondiale a pezzettini che papa Bergoglio aveva fatto negli anni passati sta, dunque, diventando qualcosa che deve scuotere le coscienze di tutti. Perché, per il Pontefice, siamo anche oltre i pezzettini, siamo in una realtà che può portare davvero a una guerra mondiale. 

«Il mio allarme non è stato un merito, ma solo la constatazione della realtà: la Siria, lo Yemen, l’Iraq, in Africa una guerra dietro l’altra. Ci sono in ogni pezzettino interessi internazionali. Non si può pensare che uno Stato libero possa fare la guerra a un altro Stato libero. In Ucraina sono stati gli altri a creare il conflitto. L’unica cosa che si imputa agli ucraini è che avevano reagito nel Donbass, ma parliamo di dieci anni fa. Quell’argomento è vecchio. Certo loro sono un popolo fiero. Per esempio quando per la Via Crucis c’erano le due donne, una russa e l’altra ucraina, che dovevano leggere insieme la preghiera, loro ne hanno fatto uno scandalo. Allora ho chiamato Krajewski che era lì e mi ha detto: si fermi, non legga la preghiera. Loro hanno ragione, anche se noi non riusciamo pienamente a capire. Così sono rimaste in silenzio. Hanno una suscettibilità, si sentono sconfitti o schiavi perché nella Seconda guerra mondiale hanno pagato tanto tanto. Tanti uomini morti, è un popolo martire. Ma stiamo attenti anche a quello che può accadere adesso nella Transnistria». 

L’attesa del 9 maggio

La conversazione sulla guerra volge al termine e la sintesi sembra pessimista: «Per la pace non c’è abbastanza volontà — è l’amara constatazione di Francesco — la guerra è terribile e dobbiamo gridarlo. Per questo ho voluto pubblicare con Solferino un libro che ha come sottotitolo Il coraggio di costruire la pace. 

Orbán, quando l’ho incontrato mi ha detto che i russi hanno un piano, che il 9 maggio finirà tutto. Spero che sia così, così si capirebbe anche la celerità dell’escalation di questi giorni. Perché adesso non è solo il Donbass, è la Crimea, è Odessa, è togliere all’Ucraina il porto del Mar Nero, è tutto. Io sono pessimista, ma dobbiamo fare ogni gesto possibile perché la guerra si fermi». 

La politica di Roma

Lo sguardo è rivolto anche alle azioni che può mettere in campo il nostro Paese. «L’Italia sta facendo un buon lavoro — afferma il Pontefice — . Il rapporto con Mario Draghi è buono, è molto buono. Già in passato, quando era alla Banca centrale europea, gli ho chiesto consiglio. È una persona diretta e semplice. Ho ammirato Giorgio Napolitano, che è un grande, e ora ammiro moltissimo Sergio Mattarella. Rispetto tanto Emma Bonino: non condivido le sue idee ma conosce l’Africa meglio di tutti. Di fronte a questa donna dico, chapeau». 

Della politica, e dei politici italiani, non vuole parlare più di tanto. Raccomanda a tutti serietà e capacità di gestire i successi del momento che spesso diventano effimeri. C’è ancora tempo, nella chiusura del colloquio, per un bilancio sul cambiamento della Chiesa, la sfida a cui ha dedicato e dedicherà il massimo impegno. 

«Spesso ho trovato una mentalità preconciliare che si travestiva da conciliare. In continenti come l’America latina e l’Africa è stato più facile. In Italia forse è più difficile. Ma ci sono bravi preti, bravi parroci, brave suore, bravi laici. Per esempio una delle cose che tento di fare per rinnovare la Chiesa italiana è non cambiare troppo i vescovi. Il cardinale Gantin diceva che il vescovo è lo sposo della Chiesa, ogni vescovo è lo sposo della Chiesa per tutta la vita. Quando c’è l’abitudine, è bene. Per questo cerco di nominare i preti, come è accaduto a Genova, a Torino, in Calabria. Credo che questo sia il rinnovamento della Chiesa italiana. Adesso la prossima assemblea dovrà scegliere il nuovo presidente della Cei, io cerco di trovarne uno che voglia fare un bel cambiamento. Preferisco che sia un cardinale, che sia autorevole. E che abbia la possibilità di scegliere il segretario, che possa dire: voglio lavorare con questa persona». 

L’ultimo pensiero è per il cardinal Martini di cui il Papa ha riletto un articolo «perfetto», dopo l’11 settembre, sul terrorismo e sulla guerra. «È talmente attuale che ho chiesto di ripubblicarlo sull’Osservatore romano. Continuate sui giornali a indagare la realtà, a raccontarla. È un servizio al Paese di cui vi ringrazierò sempre».

Estratto dell’articolo di Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2022.  

«Anche io sono un prete, che cosa posso fare? Faccio quello che posso. Se Putin aprisse la porta...». Le parole al Corriere del Papa dolorante, che soffre per il suo ginocchio e per il destino del mondo, hanno toccato molti cuori e aperto forse qualche spiraglio. Fermare la guerra in Ucraina è il suo pensiero dall'inizio.

«Ma io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin», ha detto Francesco al direttore Luciano Fontana. E la prima risposta è arrivata subito ieri da vicinissimo, via della Conciliazione numero 10, la sede dell'ambasciatore russo in Vaticano, Aleksandr Avdeev, che al cronista Sergey Startsev dell'agenzia di stampa Ria Novosti ha dichiarato: «In qualsiasi situazione internazionale, il dialogo con il Papa è importante per Mosca. E il Pontefice è sempre un gradito, desiderato, interlocutore».

Parole anche affettuose. Insomma, non è arrivato un «niet» né un silenzio assordante da parte di Mosca. Sembra piuttosto una base da cui partire. Assai più scettico, invece, l'ambasciatore ucraino presso la Santa Sede, Andrii Yurash: «Un messaggio significativo quello del Santo Padre. Peccato però che Putin sia sordo non solo alla nobile richiesta di Bergoglio ma anche alla voce della sua stessa coscienza. Coscienza? Ho citato qualcosa che non esiste...». […]

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 4 maggio 2022.

[…] L'intero ventaglio dei media russi ha dato ampio spazio all'intervista del Corriere a papa Francesco sulla guerra in Ucraina. A cominciare dalle tre ammiraglie, le agenzie di Stato Ria Novosti , Interfax e Tass , che ne hanno riportato il testo quasi integrale. Ma la diversa scelta dei passaggi sui quali soffermarsi è molto indicativa dell'orientamento delle singole testate. 

[…] «Il Papa non si aspetti un tappeto rosso ai suoi piedi», ha detto il presentatore del telegiornale del mattino di Rossiya-1 , il canale del propagandista-oligarca Vladimir Soloviov. «La sua missione non sarà facile, i rapporti tra noi e "loro" sono ormai troppo compromessi». Alcuni commenti dei lettori apparsi su Vzglyad , giornale online politico-economico, danno valore a questa tesi.

«Il Vaticano è sempre stato antirusso». «Vogliono dividere la Chiesa ortodossa con il loro cattolicesimo dalle tinte azzurre». L'azzurro, nel gergo russo, è il colore che identifica i gay. I media più nazionalisti e più vicini al Cremlino, come Moskovsky Komsomolets e Russia Today , hanno «aperto» citando le parole di Francesco sul fatto che una delle cause dell'invasione russa è stata «l'abbaiare» della Nato alle porte della Russia.

Tra questi, Primo Canale , la rete della giornalista ribelle Marina Ovsiannikova autrice della famosa protesta in diretta contro le notizie false, che nell'edizione della sera ha pubblicato un titolo alquanto tagliente. «Colpa della Nato, lo riconosce anche il Papa». Lo stesso ha fatto M.47 News, il più popolare sito giornalistico della regione di San Pietroburgo. «La Nato è colpevole di tutto, così afferma il Papa». 

Più significativa la reazione di Zargrad , tivù e sito molto vicini alla Chiesa ortodossa, finanziati dal «santo» oligarca Konstantin Malofeev, vicino agli ambienti del nazionalismo religioso, che in un editoriale non firmato sull'edizione online si produce in una cauta e diffidente apertura su una eventuale visita di Francesco. «Curioso come all'inizio il Papa abbia subito chiamato Zelensky, mentre non abbia rivolto un pensiero a noi russi. Quel giorno pensammo che ogni suo passo fosse ritagliato sulle sagome dell'Occidente. Quindi, braccia aperte a questa sua illuminazione. Ma sappia che noi non accetteremo mai la pace indecente che il mondo occidentale sta chiedendo alla Russia».

DAGONEWS il 4 maggio 2022.

L’intervista rilasciata da Papa Francesco al “Corriere della Sera” continua ad alimentare le polemiche. In un colpo solo Bergoglio è riuscito a far indispettire Mosca, con i suoi papagni contro il patriarca Kirill (per cui ha ricevuto una sonora smentita dalla chiesa ortodossa), ma anche e soprattutto gli Stati Uniti, per via delle sue affermazioni contro la Nato. 

In particolare a Washington non è piaciuto un passaggio del colloquio del Pontefice con Luciano Fontana, quello in cui Bergoglio sostiene che “l'abbaiare della Nato alle porte della Russia” ha indotto Putin a reagire male e a scatenare il conflitto. “Un'ira che non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì”.

L’opinione pubblica statunitense non ha reagito bene a queste parole, come testimonia un articolo firmato da Barbie Latza Nadeau sul “Daily Beast”, che bolla come complottiste le dichiarazioni di Bergoglio: “Non ha condannato la guerra che dura ormai da quasi tre mesi, e se lo ha fatto, lo ha fatto solo con leggerezza. Ha parlato due volte per telefono con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, ma soprattutto per esortarlo a non reagire. È anche andato all'ambasciata russa presso la Santa Sede giorni dopo l'inizio dell'invasione per ‘registrare le sue preoccupazioni’ su quanto stava accadendo”. 

“Non c’è stato alcun accenno - continua Nadeau - a ciò che sarebbe successo se gli ucraini non avessero reagito ferocemente, se ciò avrebbe significato una completa annessione dell'intero paese, milioni di morti, o il rafforzamento di un Putin già insaziabilmente assetato di potere. Francesco ha virato verso la teoria della cospirazione quando ha incolpato la comunità internazionale di aver istigato la guerra”.

Ora, va bene che il Papa deve fare il Papa e non può dirsi favorevole al riarmo, ma come si devono difendere secondo lui gli ucraini bombardati da “Mad Vlad”? Bastano le preghiere? E soprattutto, perché Bergoglio non riesce a prendere una posizione chiara contro l’invasione russa?

Francesco Borgonovo per “La Verità” il 4 maggio 2022.

Chissà, magari fra un po' inizieranno a chiamarlo Bergogliov e lo accuseranno di essere un agente al servizio del Cremlino. Per ora, si limitano a invitarlo a tacere, o a nascondere alla bell'e meglio le sue parole più taglienti. In effetti, a leggere il Corriere della Sera di ieri, sembrava quasi che papa Francesco si apprestasse a scomunicare Vladimir Putin. 

E di certo il pontefice, nell'intervista concessa al direttore Luciano Fontana, non è stato tenero col presidente russo, concedendosi pure qualche iperbole. Tra le altre cose ha paragonato il conflitto in Ucraina al genocidio del Rwanda, ha detto che «tanta brutalità» deve fermarsi, e ha spiegato di essere pronto a recarsi a Mosca «a incontrare Putin», evidentemente per invitarlo a deporre le armi.

Qualche robusta bacchettata il papa l'ha rifilata anche al patriarca Kirill della chiesa ortodossa di Mosca: «Il patriarca non può trasformarsi nel chierichetto di Putin», ha detto Bergoglio, «io avevo un incontro fissato con lui a Gerusalemme il 14 giugno. Sarebbe stato il nostro secondo faccia a faccia, niente a che vedere con la guerra. Ma adesso anche lui è d'accordo: fermiamoci, potrebbe essere un segnale ambiguo». Insomma, il capo di Santa Romana Chiesa ha ribadito la più ferma condanna della guerra, e non ha concesso attenuanti ai russi. 

A ben vedere, però, ha fatto schioccare parecchio la frusta anche all'indirizzo degli artiglieri da tinello di casa nostra, ma questa parte del suo messaggio è stata fatta passare - come dire - leggermente in sordina.

Francesco ha riservato all'Occidente parole decisamente ruvide. L'ira di Putin, ha spiegato, «non so dire se sia stata provocata, ma facilitata forse sì». E da che cosa? Semplice: dall'«abbaiare della Nato alla porta della Russia». 

L'immagine canina non è certo delle più tenere, e non capita spesso che il Papa utilizzi toni di questa portata. Ma nei titoli scodellati dal quotidiano di via Solferino delle suddette parole non v'era traccia. «Putin non si ferma, voglio incontrarlo. Ora non vado a Kiev», gridava a caratteri cubitali il Corriere.

Nei sommari riprendeva le frasi dolenti del Pontefice sulle armi all'Ucraina, e quelle elogiative nei confronti di Sergio Mattarella, Giorgio Napolitano e persino Emma Bonino («la rispetto molto, non condivido le sue idee, ma conosce l'Africa meglio di tutti». 

Nemmeno un riferimento, tuttavia, alla reprimenda indirizzata all'alleanza atlantica nessuna traccia. A quanto pare, il Bergoglio che si sottrae al discorso manicheo e sa orientarsi tra torti e ragioni ha messo in imbarazzo i suoi stessi intervistatori.

Succede spesso, negli ultimi tempi. 

Questo Papa che non si fa ghermire dal pensiero prevalente, e che continua a invocare la pace senza guardare da una parte sola ha mandato in crisi i sinceri progressisti di mezzo mondo. I quali, dopo averlo tanto elogiato in passato, ora probabilmente preferirebbero che tacesse.

Emblematico il tweet pubblicato ieri dal solito Claudio Velardi: «Il Papa sostiene che la Nato ha abbaiato inducendo Putin a scatenare la guerra», ha scritto. «Dice che Orbán gli ha assicurato che il 9 maggio finisce tutto Forse è meglio il Papa continui a prendersi cura delle anime più che di vicende terrene». 

Curioso: finché si occupava di migranti, Francesco veniva ripetutamente invitato a occuparsi di faccende terrene. Adesso che insiste sulla pace, entrando in conflitto con i desideri dei progressisti euroatlantici, ecco che gli intimano di star zitto e di farsi gli affaracci suoi. Lui, però, zitto non ci sta. 

Non solo infila il dito al centro della piaga Nato, ma fa pure notare l'alto tasso di ipocrisia atlantica. In un libro appena uscito intitolato Contro la guerra, Francesco ricorda le «guerre per procura» e cita il caso della Siria. Non pago, fa riferimento allo Yemen, un tasto su cui ha battuto anche nel dialogo con il Corriere: «Il commercio degli armamenti è uno scandalo, pochi lo contrastano», ha detto.

«Due o tre anni fa a Genova è arrivata una nave carica di armi che dovevano essere trasferite su un grande cargo per trasportarle nello Yemen. I lavoratori del porto non hanno voluto farlo. Hanno detto: pensiamo ai bambini dello Yemen. È una cosa piccola, ma un bel gesto. Ce ne dovrebbero essere tanti così». Già: ormai da anni i portuali di Genova, ciclicamente, bloccano le armi dirette nella Penisola arabica, e che il Pontefice li citi non è casuale. 

L'invito non è esattamente esplicito, ma nei fatti Bergoglio sta appoggiando il boicottaggio delle spedizioni di materiale bellico. In pratica, il Papa sembra aver deciso di spalleggiare autorevolmente le iniziative dei pacifisti più radicali, cioè quelli che quotidianamente vengono svillaneggiati dai giornali italiani, specie quelli di sinistra.

Non stupisce, dunque, che una bella fetta del suo discorso non sia molto gradita ai media, i quali preferiscono rilanciare le dichiarazioni relative al possibile incontro con Putin. Anche in quel passaggio, tuttavia, è contenuta una robusta lezione per tutti coloro che, nei giorni scorsi, contestavano la decisione del segretario generale Onu, Antonio Guterres, di recarsi a Mosca prima che a Kiev. 

Ebbene, Francesco indica le stesse priorità: «A Kiev per ora non vado», afferma. «Io prima devo andare a Mosca, prima devo incontrare Putin». Un'agenda esattamente contraria a quella stabilita dagli americani la settimana passata, e non è certo un caso: Francesco ha in mente un percorso di pace, mentre gli Stati Uniti continuano a camminare sul sentiero di guerra.

Il Papa va avanti, gli altri stanno (abbastanza) indietro. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista, su Il Riformista il 3 Maggio 2022.  

Scenario: mattina del 2 maggio, in una sala di Casa Santa Marta. Papa Francesco riceve il Gotha della Federazione Internazionale dei Farmacisti Cattolici.

E rivolge loro un discorso il cui centro è racchiuso in queste frasi: <Vorrei tornare sul vostro ruolo sociale. I farmacisti sono come un “ponte” tra i cittadini e il sistema sanitario. Questo è molto burocratizzato, e per di più la pandemia lo ha messo a dura prova, rallentando, se non a volte paralizzando, le procedure. Ciò comporta, concretamente, per chi è malato maggiori disagi, maggiori sofferenze e, purtroppo, danni ulteriori per la salute. In tale contesto la categoria dei farmacisti offre un duplice contributo al bene comune: alleggerisce il peso sul sistema sanitario e allenta la tensione sociale. Naturalmente questo ruolo va svolto con grande prudenza e serietà professionale, ma per la gente è molto importante l’aspetto della vicinanza – sottolineo questo: la vicinanza -, l’aspetto del consiglio, di quella familiarità che dovrebbe essere propria di un’assistenza sanitaria “a misura d’uomo”. È vero questo. Nei quartieri i farmacisti sono la casa, sono alla mano. Si deve andare dal medico, ma dai farmacisti vai, suoni il campanello e li trovi alla mano: “Prendi questo”, è una cosa più famigliare, più vicina>. Il discorso integrale, comunque breve, è disponibile qui.

Cosa c’è che non va? C’è che a ben guardare, i farmacisti cattolici internazionali non si sa chi siano. Non hanno un sito internet tutto loro, ma li trovi come una sigla all’interno di un gran calderone di associazioni. Sono naturalmente approvati dalla Santa Sede ma anche la scheda presente nel sito internet del Dicastero per i laici la Famiglia la Vita, non riporta contatti “elettronici”. Niente di niente, nel 2022!

Non hanno un canale Twitter e neppure Facebook. Praticamente non esistono. Nel data base delle associazioni della società civile, cui fanno riferimento, trovi il nulla vero e proprio e a 24 ore dall’evento non ci sono notizie in merito all’udienza che pure è un riconoscimento importante.

Insomma nel mondo dei media non esistono. Il Papa avrebbe parlato ad un uditorio presente ma inesistente. Ha espresso concetti importanti, che restano lì.  Ricorda un po’ la canzone “Il deserto” di Giorgio Gaber, quando immagina che la tv parli ad un mondo vuoto: “C’è solo il grande schermo che va avanti / è una follia di indifferenza e presunzione /non si accorge di parlare a gente assente / a un auditorio di cartone. /  Bisogna far qualcosa, qualsiasi cosa, bisogna dirlo / a quella bocca aperta, mandargli un telegramma urgente. / Guardate, non c’è più la gente, bisogna dirlo / al grande schermo, ai dirigenti, alla Demoscopea / la gente è andata via, la gente è andata via / è andata tutta via…”

Sembra una grande metafora della Chiesa di oggi: Papa Francesco parla, qualcuno ascolta, però dietro c’è il vuoto. Chissà come andrà a finire.

Papa Francesco: "Io filo-Putin? Coprofilia". Raptus contro i giornalisti "pagati" che amano gli escrementi. Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

"Io filorusso? I giornalisti cadono nella calunnia e nella coprofilia". Sono le testuali parole di Papa Francesco, nella risposta a una lettera inviatagli dal giornalista argentino Gustavo Sylvestre, della tv argentina C5N e riportata da Crux Now. Dichiarazioni durissime, e inusuali anche per un Pontefice, come Bergoglio, che non ha mai disdegnato immagini crude come quella, famosa, del pugno in faccia. Il tema è caldissimo, anche in Argentina: il Papa per settimane ha rifiutato di pronunciare il nome di Vladimir Putin, per non far pesare esclusivamente sul presidente russo le responsabilità della guerra in Ucraina. In uno schema binario "bianco o nero" come quello che regna in periodo bellico, la posizione del Vaticano è stata scambiata rapidamente per una tacita opposizione alla resistenza della popolazione ucraina, in nome di una generica "Pace".

I giornalisti che lo accusano di essere filo-russo per non aver condannato Putin, spiega Francesco, stanno cadendo nella "disinformazione, nella calunnia, nella diffamazione e nella coprofilia", che delinea la condizione perversa di chi è interessato agli escrementi. La lettera del Papa è stata pubblicata dal giornalista sul suo blog personale, dove però manca la missiva inviata al Pontefice. Nella sua lettera a Sylvestre, il Papa ha anche affermato che alcuni dei giornalisti che lo accusano di una posizione pro-Putin potrebbero essere pagati per scrivere tali articoli: "Che tristezza! Una vocazione così nobile come quella dell'informazione, sporcata". 

Tutto questo nelle stesse ore in cui hanno iniziato a circolare, in Italia, i contenuti della intervista esclusiva di Lorena Bianchetti, presentatrice di A sua immagine su Rai1, al Pontefice in occasione della Pasqua. Ospite questa mattina di RTL 102.5 in Non Stop News, la conduttrice spiega: "Sono stati toccati tantissimi temi, tutti quelli che riguardano l'attualità. Nel mio piccolo ho cercato di portare con me tutti noi che viviamo le preoccupazioni, le sfide, le angosce di ogni giorno. Il pretesto è proprio il Venerdì Santo. Siamo partiti anche dalle espressioni di Gesù, che muore in croce da innocente, così come tanti innocenti continuano a morire a causa della guerra e non solo. Sono convinta che le parole del Santo Padre siano un'iniezione di bellezza, forza e incoraggiamento".

Papa Francesco: «Ucraina aggredita. La guerra è un sacrilegio, no al riarmo». Papa Francesco su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.

Pubblichiamo in esclusiva l’introduzione inedita al saggio di papa Francesco «Contro la guerra. Il coraggio di costruire la pace» (Solferino - Libreria Editrice Vaticana), da domani nelle librerie e nelle edicole con il «Corriere della Sera».

Un anno fa nel mio pellegrinaggio nel martoriato Iraq ho potuto toccare con mano il disastro causato dalla guerra, dalla violenza fratricida e dal terrorismo, ho visto le macerie delle case e le ferite dei cuori, ma anche semi di speranza di rinascita. Mai avrei immaginato allora di veder scoppiare un anno dopo un conflitto in Europa. Fin dall’inizio del mio servizio come vescovo di Roma ho parlato della Terza guerra mondiale, dicendo che la stiamo già vivendo, anche se ancora a pezzi. Quei pezzi sono diventati sempre più grandi, saldandosi tra di loro... Tante guerre sono in atto in questo momento nel mondo, che causano immane dolore, vittime innocenti, specialmente bambini. Guerre che provocano la fuga di milioni di persone, costrette a lasciare la loro terra, le loro case, le loro città distrutte per aver salva la vita.

«L’Ucraina aggredita e invasa»

Sono le tante guerre dimenticate, che di tanto in tanto ricompaiono davanti ai nostri occhi disattenti. Queste guerre ci apparivano «lontane». Fino a che, ora, quasi all’improvviso, la guerra è scoppiata vicino a noi. L’Ucraina è stata aggredita e invasa. E nel conflitto ad essere colpiti sono purtroppo tanti civili innocenti, tante donne, tanti bambini, tanti anziani, costretti a vivere nei rifugi scavati nel ventre della terra per sfuggire alle bombe, con famiglie che si dividono perché i mariti, i padri, i nonni rimangono a combattere, mentre le mogli, le madri e le nonne cercano rifugio dopo lunghi viaggi della speranza e varcano il confine cercando accoglienza presso altri Paesi che li ricevono con grandezza di cuore.

«La guerra è un cancro»

Di fronte alle immagini strazianti che vediamo ogni giorno, di fronte al grido dei bambini e delle donne, non possiamo che urlare: «Fermatevi!». La guerra non è la soluzione, la guerra è una pazzia, la guerra è un mostro, la guerra è un cancro che si autoalimenta fagocitando tutto! Di più, la guerra è un sacrilegio, che fa scempio di ciò che è più prezioso sulla nostra terra, la vita umana, l’innocenza dei più piccoli, la bellezza del creato. Sì, la guerra è un sacrilegio! Non posso non ricordare la supplica con cui nel 1962 san Giovanni XXIII chiese ai potenti del suo tempo di fermare un’escalation bellica che avrebbe potuto trascinare il mondo nel baratro del conflitto nucleare. Non posso dimenticare la forza con cui san Paolo VI, intervenendo nel 1965 all’assemblea generale delle Nazioni Unite, disse «Mai più la guerra! Mai più la guerra!». O, ancora, i tanti appelli per la pace di san Giovanni Paolo II, che nel 1991 ha definito la guerra «un’avventura senza ritorno».

I mercato delle armi

Quella a cui stiamo assistendo è l’ennesima barbarie e noi, purtroppo, abbiamo memoria corta. Sì, perché se avessimo memoria, ricorderemmo che cosa i nostri nonni e i nostri genitori ci hanno raccontato, e avvertiremmo il bisogno di pace così come i nostri polmoni hanno bisogno d’ossigeno. La guerra stravolge tutto, è follia pura, il suo unico obiettivo è la distruzione ed essa si sviluppa e cresce proprio attraverso la distruzione e se avessimo memoria, non spenderemmo decine, centinaia di miliardi per il riarmo, per dotarci di armamenti sempre più sofisticati, per accrescere il mercato e il traffico delle armi che finiscono per uccidere bambini, donne, vecchi: 1.981 miliardi di dollari all’anno, secondo i conteggi di un importante centro studi di Stoccolma. Segnando un drammatico +2,6% proprio nel secondo anno di pandemia, quando invece tutti i nostri sforzi si sarebbero dovuti concentrare sulla salute globale e nel salvare vite umane dal virus.

Non arrendersi al male e cercare il dialogo

Se avessimo memoria, sapremmo che la guerra, prima che arrivi al fronte, va fermata nei cuori. L’odio, prima che sia troppo tardi, va estirpato dai cuori. E per farlo c’è bisogno di dialogo, di negoziato, di ascolto, di capacità e di creatività diplomatica, di politica lungimirante capace di costruire un nuovo sistema di convivenza che non sia più basato sulle armi, sulla potenza delle armi, sulla deterrenza. Ogni guerra rappresenta non soltanto una sconfitta della politica ma anche una resa vergognosa di fronte alle forze del male.

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2022.  

Antalolij, Danylo, Pavel, Tymofil e Viktor vengono da una casa famiglia di Odessa, il Papa ha regalato loro delle grandi uova pasquali di cioccolata e sorridono radiosi. Francesco ci prova ma ha il viso tirato, lo sguardo triste. Alla fine dell'udienza di ieri ha dispiegato e mostrato ai fedeli una bandiera dell'Ucraina, «me l'hanno portata ieri, viene dalla guerra, proprio da quella città martoriata, Bucha», prima di ripiegarla con cura e chinarsi a baciarla.

Nella catechesi aveva denunciato «l'impotenza dell'Onu», ora scandisce: «Le recenti notizie sulla guerra in Ucraina, anziché portare sollievo e speranza, attestano nuove atrocità, come il massacro di Bucha: crudeltà sempre più orrende, compiute anche contro civili, donne e bambini inermi». La parole del Papa richiamano quelle di Dio a Caino: «Sono vittime il cui sangue innocente grida fino al Cielo e implora: si metta fine a questa guerra! Si facciano tacere le armi! Si smetta di seminare morte e distruzione!». I bimbi, accolti a Cagliari, hanno portato a Francesco il disegno di un panorama fiorito in giallo e azzurro con un cuore accanto alla bandiera italiana.

«Questi bambini sono dovuti fuggire e arrivare a una terra straniera. Non dimentichiamoli, e non dimentichiamo il popolo ucraino. È duro essere sradicati dalla propria terra per una guerra». 

Nell'udienza ha ripercorso il viaggio a Malta, dove aveva denunciato la «guerra sacrilega» fomentata da «qualche potente, tristemente rinchiuso nelle anacronistiche pretese di interessi nazionalisti». 

Francesco dall'inizio non ha mai nominato Putin, pur denunciando la «violenta aggressione contro l'Ucraina» e la sua «crudeltà disumana». La diplomazia vaticana non chiude mai la porta e il Papa è «disposto a fare tutto» per favorire una mediazione, non ha escluso un viaggio a Kiev se «conveniente» per la pace e, ci fossero le condizioni, un cessate il fuoco. Prepara un incontro con Kirill, «si pensa al Medio Oriente», anche se le invocazioni del patriarca di Mosca a «difendere la patria» non promettono granché.

«La logica dominante è quella degli Stati più potenti per affermare i propri interessi estendendo l'area di influenza», ha spiegato Francesco ieri, opponendo «il diritto e la forza dei piccoli» e «la logica del rispetto e della libertà» alla «colonizzazione dei più potenti». 

Fino a esclamare: «Dopo la Seconda guerra mondiale si è tentato di porre le basi di una nuova storia di pace, ma è andata avanti la vecchia storia di grandi potenze concorrenti. Nella guerra in Ucraina, assistiamo all'impotenza dell'Onu».

La Brigata ebraica sfida le ambiguità dell'Anpi "Il 25 Aprile con bandiere ucraine e della Nato". Alberto Giannoni il 9 Aprile 2022 su Il Giornale.

Romano: "Basta usare il nome dei partigiani per una politica settaria".

Liberare il 25 aprile dal settarismo dell'Anpi. Portare in piazza non solo le bandiere dell'Ucraina: anche quelle della Nato, ideale erede degli eserciti Alleati che hanno liberato l'Europa.

Il direttore del Museo della Brigata ebraica di Milano Davide Romano, dà una scossa al fronte che si appresta a celebrare la Liberazione. «Dobbiamo liberare l'Anpi - dice - liberarla da chi usa il nome dei partigiani per fare politica, una politica settaria che non ha niente a che vedere con gli ideali di democrazia e libertà della parte migliore del 25 aprile».

La questione, ovviamente, è quella posizione labile e ambigua che l'Anpi italiana ha preso pochi giorni fa sui massacri di Bucha. Un equilibrismo inconcepibile fra Ucraina e Russia. «Perfino Berlinguer aveva detto di sentirsi più sicuro sotto l'ombrello Nato. Dopo 40 anni, questa Anpi dimostra un pervicace antiamericanismo e una feroce diffidenza contro chi ci ha garantito libertà». Posizioni veterocomuniste. «Serve una liberazione o un esorcismo - sorride amaro - visto che sembra posseduta dallo spirito di Baffone. Sembra una caricatura. E all'Anpi di Crescenzago pensano che i nazisti siano alla Nato e al Pentagono, un'aberrazione storica, che non dovrebbe avere diritto di cittadinanza».

Il tema, insomma, è quello di una sinistra che non riconosce la democrazia liberale come valore. «Dimenticano tantissimi giovani sono venuti a morire per difendere la nostra democrazia. Sono nei cimiteri alleati, e un'Anpi equidistante fra la democrazia e la dittatura distrugge un patrimonio culturale enorme. Io credo che il presidente (Gianfranco Pagliarulo, ex Pci e senatore del Pdci, ndr) dovrebbe dimettersi. È la democrazia che celebriamo il 25 aprile».

Non tutte le sigle dei partigiani sono uguali: «I partigiani cristiani con Mariapia Garavaglia hanno preso una posizione molto diversa sull'Ucraina, e chiara. I partigiani cristiani erano tantissimi e importanti. Ma la stessa Anpi Milano ha dato prove ottime. L'Anpi nazionale però con la scomparsa dei partigiani sta diventando il covo di una sinistra estrema che usa quella sigla per i suoi scopi politico-ideologici. Sono quelli che contestano la Brigata ebraica a Roma».

Romano, quasi 20 anni fa, ha riscoperto la storia della Brigata ebraica, e dopo tanti anni - nonostante le contestazioni, peraltro sempre più sparute - la sfida è vinta. Prossima tappa, fra due settimane, in una giornata che si annuncia molto calda. «Proprio perché non accettiamo equidistanza fra aggredito e aggressore, porteremo le bandiere della Nato in piazza il 25 aprile, perché la Nato è la continuazione della lotta alleata contro il nazifascismo, perché è ovvio che Stalin non combatteva per la democrazia, e dove è arrivato ha portato dittatura. Putin è la stessa cosa». La Russia non è minacciata. «L'Ucraina è una democrazia sotto assedio. E Alessandro Di Battista dovrebbe studiare e riflettere: è come Israele, assediata dalle dittature che l'hanno attaccata ancor prima che nascesse, e miracolosamente sopravvive. Andremo in piazza con bandiere di Israele, Nato e Ucraina».

Contro la militarizzazione del dibattito. Quella sinistra filo-Putin che giustifica la guerra. Fulvio Abbate su Il Riformista l'8 Aprile 2022. 

Potrebbe risultare interessante un viaggio nella mente di coloro che, da posizioni “comuniste”, meglio, “antagoniste”, meglio ancora, “internazionaliste”, trovano ragioni di comprensibile legittimità a ciò che Putin definisce “operazione speciale”, ossia l’aggressione all’Ucraina. Dove, anche in presenza alla strage di Bucha, seppure nella sua evidenza fotografica criminale, si accenna con puntigliosità etico-politica, presunto pensiero complesso, come da recente comunicato Anpi, al bisogno di “appurare cosa davvero è avvenuto” (sic). Una subcultura, citando un vocativo da attivo di sezione, che “viene da lontano e va lontano”, e che qui proveremo a ricostruire visivamente, sequenza frastagliata di riferimenti e suggestioni iconiche, e magari perfino sonore: manifesti, volantini, slogan, titoli, canzoni, memorabilia e altri materiali ancora di un’agit-prop, sì, residuale e tuttavia pronta nuovamente a mostrare la propria postura ideologica nelle recenti giornate di guerra. Attenta talvolta a legittimare i crimini in nome di una ragione politica superiore, teleologica, riferita all’approdo finale.

Un dispositivo mentale, si sappia, di segno leninista: l’Uomo, la Guida, giunge a bordo del suo treno blindato per pronunciare poche esatte parole quasi testamentarie: “Tutto il potere ai soviet!”. Lo stesso “soviet” che agli occhi di un piccino insieme politico persistente, al di là d’ogni distinguo, sembra essersi comunque reificato in Putin, dunque in piena continuità edipica. C’è modo di veder scorrere, varie ed eventuali, l’intera cartella dei manifesti realizzati da Editori Riuniti per il 50º anniversario della rivoluzione d’ottobre, le guardie rosse all’assalto del Palazzo d’Inverno su tutto, per poi, ritrovare il viso della fedayn Leila Khaled accostata al kalashnikov, e, restando in tema, un primo slogan in grado di suggerire la quadreria rivoluzionaria per intero, “Ira-fedayn-tupamaros-vietcong!”, poi il volto di Ho Chi Minh accompagnato dall’immagine della ragazzina vietnamita che tiene in ostaggio il pilota Usa abbattuto insieme al suo B-52: Davide e Golia. Nell’elenco non mancherà “La cantata rossa per Tall El Zaatar” e forse anche “Stalingrado” degli Stormy Six, e ancora paccottiglia sovietica, dove nulla esclude che possa d’improvviso riapparire anche il profilo di Stalin, il Supermaschio delle pulsioni “internazionaliste”, altrettanto lo scatto del soldato sovietico che pianta la bandiera con falce e martello in cima al Reichstag.

Sempre in funzione anti-Usa, tornano, su muri, cortei o cartelli, “Yankee go home” e “No alla Nato”, e il volto totemico di Angela Davis, militante comunista, allieva di Marcuse a Berkeley, non mentre “muore lentamente sul muro”, come viene citata da Francesco De Gregori in una canzone, semmai intatta come paradigma anticapitalistico; va detto comunque che perfino il Quartetto Cetra le renderà omaggio con un brano. Facendo caso alle pagine social del Collettivo Stella Rossa Nordest ritrovo le foto ritoccate delle “eroiche” cecchine sovietiche nei giorni dell’assedio di Stalingrado, e il volto della cosmonauta Valentina Tereskova, e neppure manca, appunto, la già menzionata fedayn. Sul profilo Facebook dei Carc, Comitati di appoggio alla Resistenza per il Comunismo, c’è modo di apprendere infatti che “Putin lotta contro l’imperialismo” (sic).

Una mensola di citazioni mai tramontate, omaggio a una morgue, a un qualcosa di storicamente fallimentare per illiberalità, dove neppure la riflessione sul giacobinismo (nel senso che si possa affermare la libertà con metodi estranei alla libertà stessa) potrà mai salvare dalla percezione di una tossicità ideologica mortuaria. Un fortino che riterremmo scaduto, se non fosse invece il domicilio di una condizione mentale, forse propria di chi ha altrettanto creduto che il partito armato, se vittorioso sul “cuore dello Stato”, avrebbe garantito all’Italia giustizia sociale. Riemergono anche, virtualmente, i volti di Ulrike Meinhof e l’idea stessa che il messaggio delle Brigate Rosse avesse un valore di palingenesi. Retoriche perfino le immagini dedicate alla morte di Edy Ongaro, “Bozambo”, con la sua bustina segnata dal fregio sovietico; passioni tristi, che già Hans Magnus Enzensberger, nei versi di “Mausoleum” aveva accompagnato nel retrobottega della storia. Vero che nulla si crea e nulla si distrugge, compresa perfino la possibilità che Putin appaia ad alcuni come la nuova Angela Davis.

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

L'invio di armi a Kiev. “Spese militari sono una follia, gli amici di Putin sono nella Lega”, intervista a Nicola Fratoianni. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'8 Aprile 2022. 

Rivendica il suo “no” al “decreto Ucraina” e all’aumento delle spese militari. Ha parole durissime contro i «veri putiniani che andrebbero cercati anche tra chi sostiene il governo Draghi». In questa intervista a Il Riformista, Nicola Fratoianni, segretario nazionale di Sinistra Italiana e deputato di LeU, affronta di petto i temi della guerra. Senza sconti per nessuno.

La Nato avverte: “la guerra durerà anni. Qualcuno si opporrà?”. È il titolo di prima pagina di questo giornale a commento delle dichiarazioni del segretario generale della Nato, Stoltenberg. Lei come la vede?

Quelle di Stoltenberg sono dichiarazioni, valutazioni inquietanti. Ci auguriamo che non sia così. Ma augurarselo non basta. Di fronte al perdurare della guerra è ogni ora più urgente aumentare l’iniziativa e la pressione perché la guerra finisca, perché ci sia un cessate il fuoco, perché ci sia il ritiro delle truppe, perché finisca questo orrore. La guerra produce ogni giorno, in terra ucraina, un numero di lutti che costruisce una catena infinita. E che produce ogni giorno, fuori dall’Ucraina, effetti e conseguenze che rischiano di essere molto pesanti da ogni punto di vista. Assumere questa prospettiva, quasi normalizzandola, rappresenta un orizzonte che io credo debba essere messo al centro di una iniziativa, innanzitutto dall’Europa, ancora più decisa e più forte perché la guerra si fermi il prima possibile, perché si apra in modo solido e stabile una prospettiva diplomatica di trattativa che chiuda le ostilità e ricostruisca un orizzonte di pace e di stabilità.

Lei è stato tra i parlamentari, una trentina, che hanno votato contro il “decreto Ucraina” e all’innalzamento delle spese militari. Per questo una certa stampa in mimetica l’ha ficcato tra gli amici di Putin. Come replica?

Io sono stato tra coloro che hanno votato prima contro l’invio delle armi all’Ucraina e poi contro l’aumento delle spese militari. Assumo, sul primo punto, la domanda che anche altri si sono fatti dando però una risposta diversa. Ho fatto quella scelta perché resto convinto che le armi chiamano armi, che l’escalation produce escalation. Ho fatto quella scelta in modo ponderato e convinto. E la rifarei. Ma su quel punto do atto a chi ha fatto scelte diverse dalla mia di non essere per questo necessariamente iscritto al partito della guerra, di non essere per forza un amico della guerra o qualcuno che la vuole. L’aumento delle spese militari invece lo trovo una follia. Una follia dal punto di vista del contesto nel quale siamo e anche dal punto di vista della prospettiva a cui allude. E lo trovo una follia per il modo con cui è stato argomentato, giustificato, sostenuto, cioè in relazione a quello che accade oggi in Ucraina. Una scelta che peraltro non ha nulla a che vedere con l’auspicabile, ma a oggi totalmente assente, prospettiva concreta di una difesa europea. Di fronte a tutto questo, in questo Paese accade una cosa, insieme sconvolgente, pericolosa, e al tempo stesso grottesca…

Vale a dire?

Siamo di fronte a una guerra devastante. E il problema non è chi l’ha provocata, la Russia di Putin, chi la subisce, il popolo ucraino, delle armi che la combattono e l’alimentano. No, il problema di questa guerra sono i pacifisti. C’è una incredibile caccia al pacifista. Editorialisti che passano il loro tempo, nei loro comodi salotti, a stilare liste di proscrizione, a costruire improbabili alleanze, tutte unite da un incredibile filoputinismo presunto. Anche perché, come ho avuto modo di ricordare in diverse occasioni, anche in Parlamento, in questi giorni terribili, se qualcuno cerca gli amici di Putin, vada a guardare innanzitutto in una parte rilevante del governo Draghi, non certo tra i pacifisti. Putin, con la sua piattaforma, è stato in questi anni il principale finanziatore, sostenitore, organizzatore, della peggiore destra internazionale. E a chi ha aperto la caccia al pacifista, andrebbe ricordato che questa guerra è anche alimentata dalle armi che l’Italia ha venduto a Putin. Andassero a cercare gli amici di Putin tra quelli che hanno venduto armi per centinaia di milioni all’autocrate russo, armi che vengono utilizzate anche contro i civili ucraini. Che i pacifisti possano da un lato essere indicati come gli amici di Putin, e dall’altro essere all’indice del pubblico ludibrio, come il problema, beh, questo è il segno di un rovesciamento della realtà, di un imbarbarimento non solo politico ma anche culturale. Che porta con sé un’altra palese contraddizione.

Quale?

Molti giustificano la retorica bellicista, o comunque la necessità di armarsi, di arruolarsi dentro una dialettica binaria in cui non c’è nessun altro spazio che per l’amico o il nemico, con il ritorno di formule che purtroppo già in passato abbiamo sentito risuonare molte volte e che hanno portato a veri e propri disastri: penso alla “Guerra di civiltà”, lo scontro tra i nostri valori e i valori, o per meglio dire, i disvalori degli altri, tra democrazie liberali e autocrazie. Pensi a quanta contraddizione esiste in chi, in nome della difesa dei valori delle democrazie liberali e plurali, costruisce l’indice di proscrizione, accusa di diserzione e dunque sostanzialmente sogna e prova a buttare giù dall’ “albero” del dibattito politico permesso e accettato, chiunque sia portatore di opinioni diverse.

La “Guerra di civiltà” viene oggi declinata in termini di democrazie liberali vs autocrazie, e del campo democratico di cui una delle espressioni sarebbe la Nato…

A chi si arma di questa declinazione aggiornata della “Guerra di civiltà” per mettere all’indice i pacifisti, andrebbe chiesto: ma scusate, in questa guerra di valori, Erdogan in quale civiltà e campo di valori lo piazzate? Stiamo parlando di un signore che non Fratoianni ma il nostro presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha definito, con efficace semplicità di parola, dittatore, salvo poi spiegare che con i dittatori si tratta. Del resto, come si vede, con i dittatori si tratta sempre, anche quando fanno la guerra. Perché l’altra incredibile vicenda di questa situazione, è che mentre la retorica bellicista tende ad escludere dalla discussione chiunque sollevi dubbi, perfino sul fatto che sia utile e necessario aumentare di 13 miliardi all’anno la spesa per armamenti in un Paese che già ne spende oltre 25 all’anno, mentre tutto questo avanza, noi assistiamo a una continua trattativa con la Russia di Putin, solo che non una trattativa orientata a costruire da parte dell’Europa non una soluzione di pace, ma si tratta sul gas, sulle materie prime. Con la stessa facilità con cui si inviano le armi, si decide l’aumento della spesa militare, si alimenta la retorica bellica, con la stessa impressionante facilità e faccia tosta, sul gas si è pragmatici, trattativisti, pur sapendo che con i proventi della vendita del gas all’Europa, oltre 800 milioni di euro al giorno, Putin finanzia la sua guerra d’aggressione.

Lei è stato protagonista di molte battaglie in difesa dei più indifesi, come i migranti lasciati morire nel Mediterraneo o respinti nei lager libici. Partendo da questa chiara scelta di campo e guardando al variegato mondo della sinistra e a quello pacifista, le chiedo: perché c’è chi fa ancora fatica a dire che in questa guerra la Russia di Putin è l’aggressore?

Innanzitutto voglio dire che dentro questo mondo, di chi in questi anni ha lavorato sul terreno dell’immigrazione, della difesa dei più deboli, in quel mondo non c’è alcuna ambiguità. Pensiamo ad organizzazioni come Mediterranea, che per prime hanno proposto pratiche dal basso d’interposizione, la proposta che Luca Casarini ha avanzato, ormai un po’ di tempo fa, dalle pagine del vostro giornale. Una presa di posizione nettissima, e anche una disponibilità sempre in prima fila, a metterci non solo la faccia ma anche il corpo. Quelle ong hanno organizzato più di una carovana in territorio ucraino, non solo al confine. Sono andate a Leopoli, ancora qualche giorno fa, a portare aiuti e ad aiutare i profughi a venire via dal territorio del conflitto. Detto questo, che a me pare il dato di gran lunga più importante, è vero che esiste in alcuni settori, marginali, una reticenza. Che io considero del tutto inaccettabile. Vede, io condivido molto il discorso di Luigi Manconi che invita tutti ad assumere il punto di vista delle vittime. Ciò che non mi convince è l’atterraggio, sul piano dell’invio delle armi, come immediata risposta all’assunzione di quel punto di vista. Ma quel punto di vista è decisivo. Il punto di vista delle vittime è sempre decisivo. Vale quando aiuti i migranti che rischiano di morire nel Mediterraneo o quando prendi le parti dei più deboli nelle periferie urbane di qualsiasi delle nostre città, schiacciati dalla diseguaglianza, dallo sfruttamento, dal precariato. E tanto più vale dentro il territorio di una guerra combattuta in modo asimmetrico: l’aggressione della grande potenza russa e la condizione di aggrediti dei cittadini e delle cittadine dell’Ucraina. A ciò aggiungo che nei discorsi di Putin c’è il rigurgito esplicitamente neo imperiale della Madre Russia che nulla ha a che fare con la resistenza di Stalingrado o cose del genere. Il punto non è se dobbiamo stare con chi è aggredito, gli ucraini. Questo per quanto mi riguarda, è fuori discussione. Il punto è come si fa a rendere questo prender parte più efficace e a non trasformarlo in un elemento che rischi di produrre ulteriori allargamenti del conflitto. Chi sostiene “né con Putin né con la Nato”, non mi avrà mai al suo fianco. Il punto non è espungere dal giudizio cosa sia stata la politica della Nato in questi decenni. Il mio giudizio su questo è sempre stato negativo. Ma pensare che ci possa essere un automatismo meccanico tra questa politica e l’invasione di Putin dell’Ucraina, è un errore. Un grave errore. È del tutto inaccettabile qualsiasi reticenza. Ci vuole il coraggio e la nettezza di una posizione che però proprio perché assume un punto di vista, non rinuncia alla complessità.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Tagadà, Federico Rampini inchioda i "finti pacifisti": col gas russo finanziamo i massacri di Putin. Il Tempo il 07 aprile 2022.

Si fa strada l'idea che gli Stati Uniti abbiano solo vantaggi dal protrarsi della guerra in Ucraina per vari motivi, su tutti quelli che vedono un'Europa destinata a indebolirsi economicamente e che dovrà ricorrere sempre di più al gas americano. Su questo tema interviene Federico Rampini, editorialista del Corriere della sera, che spiega come invece gli Usa hanno fatto molto per evitare che la situazione bellica precipitasse, a partire dal tentativo di portare via il presidente ucraino Volodymyr Zelensky da Kiev nei primi giorni dell'invasione russa del Donbass: "Possiamo immaginare quanta voglia avesse  l'America di chiudere il conflitto il prima possibile. La vera sfida strategica" di Washington "è con la Cina, non con la Russia", spiega Rampini giovedì 7 aprile a Tagadà, il programma di Tiziana Panella su La7. 

Draghi tira fuori gli artigli e va allo scontro con la Russia: indecenti sono i vostri massacri

"Lo dico per ricordare che dietro alle teorie che circolano in Italia su questa America che starebbe aizzando l'Ucraina contro la Russia c'è il fenomeno, molto italiano, del finto pacifismo", attacca il giornalista che punta il dito sullo slogan "né con la Nato, né con la Russia". Sembra che vogliamo "inventarci delle colpe occidentali", come se l'Occidente avesse sempre qualcosa da farsi perdonare, un senso di colpa innato. 

Rampini interviene poi sulla volontà europea, e dell'Italia, di chiudere il rubinetto delle risorse energetiche che arrivano da Mosca. "Finché rimane il gas russo l'Europa continuerà a finanziare gli armamenti di Putin e i massacri russi in Ucraina", dice il giornalista che dà ragione al ministro degli Esteri ucraino, Dmytro Kuleba, che ha partecipato alla riunione dei ministri degli Esteri della Nato. Germania e Italia sono i Paesi che più sono dipendenti dal gas russo, e i loro sforzi di rendersi indipendenti non vedranno risultati prima di due o tre anni, ricorda Rampini.   

Domenico Di Sanzo per true-news.it il 7 aprile 2022.

“Io stesso sono iscritto all’Anpi e ho letto le parole di decani storici dell’Associazione tipo Carlo Smuraglia, che sono diverse da quelle espresse dai vertici, un conto è chi rappresenta dai vertici l’Anpi, un conto sono le migliaia di iscritti”, risponde a true-news.it il senatore del Pd e componente della Commissione Esteri in Senato Alessandro Alfieri a proposito delle posizioni dell’associazione dei partigiani sulla guerra in Ucraina.

Le polemiche sull’Anpi

L’Anpi, infatti, dall’inizio dell’invasione è stata al centro delle polemiche. Prima per aver criticato la scelta di inviare armi a Kiev e per avere detto basta all’espansione a est della Nato, poi per aver chiesto la formazione di una commissione di inchiesta internazionale sui fatti di Bucha, “composta solo da paesi neutrali”. Poi ci sono stati dei parziali dietrofront, ma la miccia si era già accesa.

Il dem Alfieri – da iscritto all’Anpi – è netto: “La stragrande maggioranza delle persone iscritte all’Anpi la pensa diversamente rispetto ai vertici, in tutti questi anni c’è stata una sottovalutazione, comunque dico che sono intollerabili le equidistanze tra Putin e la Nato e questo è francamente inaccettabile, c’è bisogno di una reazione forte rispetto a questa equidistanza, bisogna cambiare il racconto delle cose”. 

Le controversie di sinistra radicale e M5s

Dall’Anpi alla sinistra radicale, che ha espresso idee ancora più decise su spesa militare, invio di armamenti e Nato. “Io capisco che in alcuni settori della sinistra ci siano posizioni deliberatamente anti-americane, e rispetto queste opinioni anche se non le condivido perché gli americani garantiscono e hanno garantito la nostra sicurezza per anni, però per avere una autonomia strategica dell’Europa anche nel campo militare e geopolitico c’è bisogno di grandi investimenti in difesa, di una forza europea e per arrivare a questo ci vogliono grandi risorse e del tempo, quindi alla fine c’è dell’incoerenza in questa posizione”. 

Anche Giuseppe Conte, leader del M5s, ha sollevato un polverone sulla questione dell’innalzamento della spesa militare al 2%, in ottemperanza agli obblighi assunti con i partner della Nato. Qui Alfieri ci vede da parte di Conte “l’esigenza di marcare alcuni punti politici, ma ci sono delle linee rosse da non valicare, una è il sostegno al governo, l’altra ricade sul mantenimento di un rapporto di alleanza politica con il Pd, che sostiene convintamente il governo anche su questo tema.

La Difesa del Pd

Prosegue Alfieri: “Anche perché Lorenzo Guerini, il ministro della Difesa, ha sempre parlato di un aumento graduale delle spese per la difesa, da qui al 2028, investimenti che comprendono anche e soprattutto la cybersicurezza. C’è bisogno di soldi per far assicurare l’inviolabilità delle nostre reti e delle nostre istituzioni pubbliche, e abbiamo visto un esempio di questo in quello che è avvenuto di recente con l’hackeraggio ai danni delle Ferrovie dello Stato”. 

Quindi aggiunge: “Non si tratta solo di fucili e cannoni, ma anche di investimenti nel settore dello spazio, che è fondamentale sia dal punto di vista civile sia dal punto di vista militare, ma abbiamo visto con il Generale Figliuolo come la Difesa sia stata fondamentale anche durante la campagna vaccinale contro il Covid”.

E Salvini?

“Eh sì, poi c’è il finto pacifismo di Salvini che nasconde soltanto i legami con Russia Unita e con Putin, del quale ha sempre lodato le capacità di leadership, mentre ora con sprezzo non del pericolo, ma del ridicolo, è passato a Papa Francesco e al pacifismo, insomma passare da Putin a Papa Francesco non è proprio il massimo della coerenza, ecco”.

Estratto dell'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 6 aprile 2022.

Nel laboratorio dove Putin, in vista delle elezioni ormai vicine, rimescola la politica italiana, sta prendendo forma la "Federazione dei negazionisti e degli equidistanti" che è un po' una sòla, come a Roma si chiama la patacca, e un po' è l'Ulivo dei Né Né. E visto che non sarà facile trovargli un nome, ispirandoci al tormento onomastico di Occhetto, potremmo battezzarla "la Cosa Putiniana", o meglio ancora, la "Gioiosa Macchina Antiguerra".

Il leader predestinato, di nuovo "quasi" leader, è Giuseppe Conte, che da sempre vede se stesso come il federatore, il Prodi del populismo italiano, domatore di estremisti come già fu nel suo primo governo quando ad Angela Merkel, preoccupata per le intemperanze di Salvini e Di Maio, diceva: «A quelli ci penso io». 

L'equidistanza tra Putin e la Nato, Conte l'ha esibita, nel suo ormai famoso linguaggio dell'"inderloguzione pretermessa", a Francesco Bei che lo intervistava, con un altro saggio di non sense: «La nostra scelta atlantista è fuori discussione» ha premesso. Ma poi: «Dobbiamo liberarci del vetero atlantismo», che non significa niente, ma certifica un antiamericanismo, questo sì vetero, travestito di equilibrio. 

Con Conte (…) il populismo dunque si riorganizza nel negazionismo e tenta un nuovo assalto alla democrazia, in sintonia con la guerra di aggressione che Putin ha sferrato proprio alla democrazia. (…) Orsini fa "il guerriero culturale" come Dibba faceva il tupamaros e Freccero ipotizza che Mairupol sia "una fiction" come a quel tempo Sibilia giurava che lo sbarco sulla Luna era stata una simulazione, una balla. Presto organizzeranno il No Bucha Day come allora ci fu il Vaffa Day.

(…) Nel corto circuito destra-sinistra sono (…) uno spettacolo il Conte che sbatte i pugni e imita Salvini che, a sua volta, imita Conte parlando come lui per metafore, allusioni e "interlocuzioni pretermesse". 

Ad unirli c'è la doppia goffaggine di non nominare mai Putin: sempre più spesso la guerra diventa per entrambi una cattiva azione senza autore, proprio come scrive su uno dei giornali di riferimento della "Gioiosa macchina antiguerra" Marco Travaglio che probabilmente aspira a diventarne l'autista: «sapremo tutto, forse, da un'inchiesta internazionale alla fine della guerra (e molto dipenderà da chi l'avrà vinta). Ma francamente importa poco chi li abbia uccisi, e dove, e quando».

E va bene ridere della prosa di Travaglio, ma un po' di sdegno verso l'Anpi bisognerà tirarlo fuori, non più limitandosi a segnalare che l'associazione, in mano a un ceto di impiegati, si è allontanata dai partigiani.

A Gianfranco Pagliarulo che fu assistente di Cossutta, va ricordato che l'Armando mai e poi mai si sarebbe schierato con i Né Né, con quelli che si sentono neutrali tra la Russia e l'Ucraina. 

Cossutta, che abbiamo conosciuto bene, disprezzava i Né Né : lui stava e anche oggi sarebbe stato con la Russia. (…)

Quale sarà il programma politico di questo Rassemblement? Per adesso è il No che, soprattutto quando è declamato, decora le coscienze mentre il sì rimanda alla sottomissione di Gertrude. Dunque: No Nato, No Vax, No War, No Riarmo, No Green Pass , No Global (...)

Contro la radicalizzazione delle posizioni. Dal pacifismo integrale alla guerra contro Hitler, la lezione di Simone Weil: “La non-violenza è buona solo se è efficace”. Filippo La Porta su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

L’aspetto forse più affliggente del dibattito sulla guerra in Ucraina è la radicalizzazione delle posizioni, la loro rappresentazione fatalmente caricaturale (bellicisti con elmetto vs pacifisti irenici). Per ampliare l’orizzonte della discussione credo sia utile ripassare alcune tappe fondamentali del pensiero occidentale sulla guerra. Prendiamo Simone Weil, straordinaria mistica razionalista del secolo scorso, filosofa “dilettante” vicina al sindacalismo rivoluzionario, capace di vivere ogni giorno – con una coerenza personale che sfiora la santità – i principi in cui credeva. Pacifista integrale e però quando scoppia la guerra impegnata nella Resistenza armata. Provo a ricostruire brevemente il suo percorso, che dal pacifismo dei primi anni ‘30 perviene all’adesione alla Resistenza francese (si veda S.Weil, Scritti sulla guerra, Pratiche 1998, con una bella e utile introduzione di Donatella Zazzi).

Nel 1931, quando comincia a insegnare nei licei, considera la guerra un male assoluto, anche perché colpisce più di tutti gli operai, gli oppressi, i lavoratori sfruttati (nel 1928 aveva elaborato un progetto di servizio civile che doveva sostituire quello di leva), e perché comporta una militarizzazione dello stato e della vita civile, il rischio di una involuzione totalitaria (dunque critica anche l’idea marxista di guerra rivoluzionaria). Nel ‘36, con lo scoppio della Guerra Civile spagnola, il suo pacifismo ha una prima incrinatura perché si arruola nei ranghi come “soldato”, in un gruppo che affianca la colonna anarchica di Buenaventura Durruti. Va a finire in cucina e si ustiona con l’olio bollente Poi però non tornerà più al fronte perché la Guerra Civile le appare solo una guerra tra potenze per l’egemonia, ma soprattutto scrive a Bernaos di aver capito che “quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare né castigo né biasimo si uccide”. E aggiunge: “non ho mai visto nessuno , nemmeno in confidenza, esprimere repulsione o solo disapprovazione per il sangue versato”. Un’analisi che rende il suo pacifismo ancora più radicale e che segna una differenza “antropologica” di fondo tra uomini e donne.

Nel 1937 scrive un saggio importante, “Non ricominciamo la guerra di Troia”, dove spiega come sia greci che troiani si fossero dimenticati delle ragioni del combattere. Si riavvicina ai gruppi pacifisti e anche di fronte all’Anschluss e agli accordi di Monaco ritiene che “una guerra in Europa sarebbe una sventura certa, in tutti i casi, per tutti, da tutti i punti di vista”. Di qui la sua insistenza nel voler negoziare, fare concessioni anche apparentemente eccessive, temporeggiare, puntare su strategie che possano logorare nel lungo periodo la Germania nazista Infine nel giugno 1940 quando l’esercito tedesco invade la Francia costringendola a fuggire con i genitori avviene un mutamento di rotta. Coglie negli ex sodali pacifisti una “inclinazione al tradimento”, e pensa di aver compiuto “una negligenza criminale nei confronti della patria”. Scrive a De Gaulle, prima elabora un Progetto di formazione di infermiere di prima linea, che operano nel campo di battaglia, poi chiede di essere utilizzata in missioni operative, anche se non otterrà risposta (di tutto questo parla in saggi fondamentali come Riflessioni sull’origine dell’hitlerismo, L’Iliade o il poema della forza, e nei Quaderni ). Assegna un valore strategico all’azione di sabotaggio e alla propaganda. Considera come nemico principale l’idolatria, la sua natura totalitaria.

Idolatrici erano il fascismo e il comunismo, dove l’idolatria è il surrogato deformato della religiosità vera: si ama come Dio uno stato, una nazione, un partito, e ad essi si sacrificano la propria vita e quella degli altri…. Con l’occupazione tedesca della Cecoslovacchia conclude che la guerra è un male necessario: nel mondo sublunare che abitiamo, sottoposto alla forza e alla necessità, non ci è sempre permesso di sottrarci al male! Inoltre osserva che se la Francia, in quel momento sottomessa dall’esercito tedesco, fosse liberata dagli americani o dai russi, resterebbe “in una condizione di servitù” degradante: il solo modo per evitarlo è “una grande azione che trascini il paese” e che cancelli ogni viltà passata “con una rinascita di coraggio e di fraternità combattente”.

Nei Quaderni annota lucidamente: “La non-violenza è buona solo se è efficace. In questi termini si pone la questione rivolta a Gandhi dal giovane a proposito della sorella. La risposta dovrebbe essere: usa la forza, a meno che tu non sia in grado di difenderla con altrettanta possibilità di successo senza violenza”. Aggiunge che tutto questo “dipende anche dall’avversario”. E commentando la Bhagavad gita induista: “Arjuna è nel torto perché si lascia sommergere dalla pietà invece di pensare chiaramente il problema: posso non combattere?”. La consapevolezza tragica della dimensione storica non la abbandona mai: anche se la causa del vincitore o quella del vinto fosse giusta per lei “il male prodotto dalla vittoria come dalla sconfitta non è meno inevitabile. Nel 1941 ragionando sul tempo, una necessità che incatena l’essere umano, scrive che questa necessità si riflette nel “potere che procura a coloro che sanno bruciare i campi ed uccidere gli uomini, cose rapide, nei confronti di coloro che sanno far maturare il grano e allevare i bambini, cose lente”.

Eppure la consapevolezza tragica non le impedisce di partecipare a quel male necessario che è la guerra contro Hitler. E ancora, in un passo che sembra liquidare il suo precedente pacifismo integrale: “Un male che non posso evitare di compiere, se non compiendone uno più grande, non sono io a compierlo, è la necessità”. Non solo non possiamo sottrarci al male ma dovremmo assumerlo su di noi, anche umilmente, sapendo che in quel momento occorre comunque agire. Ora, tra noi continueremo a dividerci e a discutere se, ad esempio, l’invasione nazista della Cecoslovacchia sia equiparabile a quella russa dell’Ucraina, o se una pace ingiusta sia comunque meno dannosa di una guerra giusta, etc. Però Weil ci invita a misurarci con il kairòs, con il momento opportuno, contingente, ineludibile, in cui anche i nostri principi più saldi possono modificarsi.

Filippo La Porta

Ripensare la politica a partire dalle macerie. La Nato va sciolta perché ha perso la sua ragione di esistenza: costruiamo l’Europa della pace neutrale e solidale. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 30 Marzo 2022.

C’è la necessità-possibilità di un’alternativa politica al pensiero così quasi unanimemente presente e in ogni caso dominante nelle istituzioni e nei partiti anche in Italia. La necessità è certamente tale per coloro che pensano alla pace come al fondamento della politica per un largo schieramento di forze e persino come levatrice della ricostruzione, in questa parte del mondo, di una soggettività critica forte, di ciò che un tempo, in Italia e in Europa, era rappresentata dalla sinistra.

Oggi, il Papa è solo nel cielo della politica, invece questo cielo dovrebbe essere pieno di protagonisti della costruzione di un mondo nuovo, nel quale sia bandita la guerra e la conquista della pace sia promotrice di una radicale trasformazione del modello sociale nel quale siamo imprigionati fino a rischiare la catastrofe. L’esposizione dell’umanità e del Pianeta al rischio della sua autodistruzione è oggi alla portata della guerra atomica come della crisi devastante generata dal rapporto tra questo tipo di sviluppo e la natura. Ma c’è anche in profondità la questione che Marx ed Engels avevano già annunciato come connessa alle sorti generali del capitalismo e della lotta di classe. Secondo gli autori del Manifesto, «una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta». Il tema della pace non è destinato al campo dei sogni. Si impone invece come decisivo, in primo luogo, qui ed ora, sul terreno dei movimenti, della partecipazione, della costruzione del popolo della pace.

Dei movimenti, esso ha tutte le caratteristiche, a partire da quello di essere sempre carsico. Ora, piuttosto che abbandonarsi alla contemplazione di cosa esso è stato nei suoi punti più alti, sia nell’elaborazione del pensiero politico che della partecipazione di massa (i cento milioni che hanno riempito le piazze del mondo contro la guerra all’inizio del millennio), è bene applicarsi ai sottili fili d’erba che faticosamente rinascono e alla loro possibile propagazione, malgrado il tanto diserbante irrorato dalla politica corrente. Quando rinasce la marcia della pace a Perugia e ad Assisi, rinasce con essa una speranza. Su queste pratiche di speranza contro la guerra, ovunque si manifestino, dovrebbe poggiare la costruzione di un pensiero politico adeguato, alternativo a quello che sembra configurarsi come pensiero unico, quello che sta costituendosi a partire dalla risposta data dal concerto degli Stati atlantici, all’orribile guerra di invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Un’altra classica, lontana, previsione sembra così inverarsi in questa nuova drammatica emergenza. «Il pensiero dominante è il pensiero della classe dominante».

Il pensiero sostenuto da un sofisticato e pervasivo sistema di comunicazione è però elementare, privo di qualsiasi complessità, anche se, ovviamente, come sempre, non privo di pezze d’appoggio nella realtà. In esso, la guerra di Putin diventa Putin stesso e il suo regime tout court diventa il nemico. L’opposizione guerreggiata e la resistenza del popolo dello Stato ucraino viene sostenuta e assorbita nell’Occidente trasfiguratosi nell’alleanza atlantica. La reazione di quest’ultima alla guerra è costituita da una ritorsione crescente per indebolire e fermare il nemico, facendo ricorso a tutti i mezzi a disposizione, politici, giuridici, economici, sino all’invio delle armi agli ucraini, sulle spalle dei quali è lasciata la possibilità della trattativa, semmai con una cauta chiamata in causa di un terzo come mediatore. In questa logica, tutti i mezzi di dissuasione sono usabili in un’escalation che sembra affidare allo scontro armato il suo esito, piuttosto che all’iniziativa politica e alla grande diplomazia. L’unico limite militare assunto è quello di non valicare la linea di ciò che presumibilmente condurrebbe alla terza – e per tutti distruttiva – guerra mondiale. A questo, si aggiunge il limite economico per autoprotezione, quello di non adottare misure di ritorsione che pregiudicherebbero anche le proprie economie.

Il pensiero unico è prigioniero dell’ipocrita “se vuoi la pace, prepara la guerra”. Esso si separa, senza dichiararlo e finanche a volte dicendo di volersi rifare ad esso, allo spirito del secondo dopoguerra, quando però invece della creazione delle Nazioni Unite e delle costituzioni democratiche, vengono adesso, dai governi europei, sepolte quelle, insieme alla temperie culturale e politica che le aveva generate. Come ieri, la moneta, così oggi, l’armamento dovrebbe co-determinare la nuova Europa. Difficile dire “peggio mi sento, eppure”. Anche senza metterci il carico dei corredi intellettualmente impresentabili, ma che spesso accompagnano il nucleo portante del pensiero unico, questo basterebbe a rendere evidente la necessità di una idea alternativa dell’Europa, nel mondo, per chi pensi che anche al suo interno vadano affermate le idee per una lotta senza quartiere alla diseguaglianza, nella costruzione di una nuova società ispirata a un ecologismo integrale. Tra quelle idee non necessarie al pensiero unico, ma non incompatibili con esso, tanto che spesso lo accompagnano, basti ricordare sia la tesi di un Putin figlio dell’Urss, che quella di lui come di un nuovo Hitler, come quella che lo vorrebbe eliminato fisicamente e soprattutto dalla più pericolosa e inquinante, la tesi dello scontro tra la democrazia occidentale, da un lato, e l’autocrazia, dall’altro, configurando così uno scontro di civiltà, in realtà inesistente.

Quest’ultima tesi avrebbe il pregio per le classi dirigenti di cancellare in un solo colpo la crisi dell’Europa e dell’Occidente e le cause profonde, strutturali e politiche che le hanno generate, a partire dalla globalizzazione capitalistica, con le conseguenti crisi sociali e democratiche. L’alternativa, dunque, dovrebbe partire proprio da qui, dalla storica necessità di costruire un’altra Europa, portatrice nel mondo di un modello sociale, democratico ed economico originale e promettente per tutto il mondo intero e, in specie, per i suoi sud. Il suo farsi ponte tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest, la indurrebbe a riscoprire una traccia andata perduta della sua storia, quella di una neutralità attiva dell’Europa. La traccia l’aveva già segnata la sinistra italiana nel suo momento di massimo consenso popolare, in tutte le sue componenti comunista, socialista, cattolica e in politica, e l’aveva lasciata col suo impegno per la pace e la lotta per il disarmo atomico.

Chi pensa che tutto ciò fosse una copertura degli interessi dell’Unione sovietica è costretto anche a cancellare che uno degli uomini della sinistra più autonomi, non solo dell’Unione sovietica, ma anche del Partito comunista italiano, tanto da aver coniato la definizione di “a-comunista”, Riccardo Lombardi, è stato il presidente di quei partigiani della pace. Quella politica esprimeva una cultura profonda che potrebbe riemergere in una nuova vita. Ieri, fuori dai blocchi, oggi fuori da una contesa economica e statuale che ci porterebbe dentro la globalizzazione e il dominio dei mercati e la sua crisi, che ci condurrebbe ancor più minacciosamente nell’instabilità, nell’incertezza e nella privazione di futuro per le sue genti. Sulla guerra a pezzi e ora sulla guerra scatenata da Putin, e sulla replica miope dell’Occidente, si vorrebbe ricostruire, dentro l’Europa, la Frontiera, con un nuovo muro, senza la grande politica. Ma l’Europa dovrebbe invece al contrario costituirsi per spezzare le frontiere, per attraversarle, per proporsi come un polo del dialogo, come costruttrice di pace. Un’Europa neutrale, forte del suo essere disarmata e invece produttrice di sue proprie e originali forze organizzate per l’interposizione nei conflitti, per il soccorso in mare e in terra di chi cerca una terra da calpestare come condivisa e un tetto sotto cui vivere, in una comunità aperta e accogliente. Pensiamo all’opposizione tra le armi e la cultura delle traduzioni.

Le prime sono del mondo cupo e minaccioso di oggi; le seconde sono la premessa di un rapporto creativo tra diversi, tra diverse persone, tra diverse comunità, tra diverse società, tra diverse culture e religioni, tra diverse organizzazioni sociali, fatte di diversi rapporti di potere tra le classi, come tra i cittadini, annunciando così anche un diverso rapporto tra gli Stati. L’Europa politica che si liberi dai lacci e dai lacciuoli che oggi la imprigionano e che la rendano un nano politico, lontano dai suoi popoli e separata da tante parti del mondo, un’Europa che non dovrebbe temere il mare aperto. È questa l’Europa di cui ci sarebbe bisogno. Un vecchio e geniale sindacalista tanti anni fa ci invitava a lasciare sempre le consolidate sponde con un appello a provarci. Ci diceva che per imparare a nuotare, bisognava buttarsi in acqua. L’appello varrebbe a maggior ragione per quell’impresa politica che volesse prefigurare un futuro diverso dell’esistente. Vale, in particolare oggi, quando tutto sembra precluso fuori dal drammatico disordine esistente, vale per la rinascita della politica di cui abbiamo bisogno. Non si dovrebbe allora avere paura delle discontinuità, né di proporsi obiettivi apparentemente irrealistici, come quello del disarmo universale e del dissolvimento delle alleanze militari, come quello dello scioglimento della Nato.

La Nato già ieri aveva perso la sua ragione di esistenza, con la fine del mondo diviso in due blocchi contrapposti. Lasciarla reinventarsi ora, sulla ripresa dello spirito di belligeranza e sull’aumento delle spese permanenti dei Paesi europei, e restarci dentro acriticamente, non avrebbe alcun senso per un’Europa che volesse scegliere come fondamento della sua ricollocazione internazionale la pace e il dialogo tra i popoli. Se essa si rivolgesse al Mediterraneo potrebbe già trarre, dentro la sua vicenda storica lunga e tormentata, il filo dell’incontro del dialogo tra religioni, culture, esperienze, lingue e vissuti, sulle sponde diverse di uno stesso mare, quello che chiamiamo “il mare nostro”. Un’Europa diversa, larga, “dall’Atlantico agli Urali”, e promettente, si collocherebbe così nel nuovo mondo da costruire in pace e con la pace, a cominciare dalla sua stessa vita interna.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Fausto Bertinotti. Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 4 aprile 2022.

«Sa che nei giorni scorsi ho fatto una cosa molto interessante? Sono stato a Napoli, alla Whirlpool (la "r" è inconfondibile, ndr), a incontrare donne e uomini meravigliosi di tante aziende in crisi che continuano ad avere grande capacità di resistenza e di iniziativa, nonostante siano stati completamente abbandonati dalla politica». 

La conversazione con Fausto Bertinotti si apre così, ché se al segretario del Partito della rifondazione comunista dal 1994 al 2006 chiedi quale sia la sua lettura di quel che sta accadendo in Ucraina, ti spiegherà che dietro al fatto che il Belpaese abbia oggi il record dei precari dal 1977, in fondo, c'è la medesima storia di un fallimento. 

Quaranta giorni dall'inizio della guerra. Come si è potuti arrivare fin qui?

«Il quadro generale è quello di una globalizzazione capitalistica che ha visto falsificate le premesse e le promesse: l'idea, cioè, di una unificazione del mondo per la via del mercato dopo il crollo dei regimi dell'Est. Il mondo è ora incerto e instabile. Ha ragione il Papa: siamo a una terza guerra mondiale combattuta a pezzi. La guerra in Ucraina? C'è un colpevole, ma non ci sono innocenti».

Su chi sia il colpevole in pochi coltivano il dubbio. Perché dice non ci sono innocenti?

«La molla scatenante della guerra parla anch' essa della crisi della politica. Perché riemergono nella crisi fantasmi di un passato. C'è una logica di una potenza basata sul nazionalismo, una Patria bandita come arma contro le altre patrie, il ritorno al passato. E questo mette in luce l'altro fallimento, di quello che pomposamente si chiama Occidente, dell'area atlantica: gli Usa sono stati protagonisti della globalizzazione, che ha aperto alla crisi della democrazia». 

Non è forse invece questa una guerra in favore della democrazia?

«Non mi pare difficile osservare che anche l'Europa è da anni dentro una tendenza di regimi di governo tecnici-oligarchici. È un rinsecchimento della democrazia, che si misura - come si diceva una volta - dalla gente che vota con i piedi, nel senso che non va a votare.

Quasi metà degli elettori italiani disertano le urne. E il voto mi sembra essere il punto decisivo di una democrazia, no?».

E la globalizzazione che cosa c'entra?

«Ci tengo all'aggettivazione: globalizzazione capitalistica. Sull'economia si è compiuta la ristrutturazione della politica e delle sue istituzioni. La politica, cioè, è diventata governabilità. Che in sintesi significa essere interni sia alla logica di mercato sia della coalizione economico-militare. 

L'Europa si sta oggi rivelando per quello che è: nascondersi dentro l'alleanza atlantica non è niente altro che una manifestazione evidente del suo nanismo politico. Mentre ci sarebbe bisogno del suo patriottismo, ma non indotto. L'unico grande protagonista sulla scena è Francesco». 

Lo stima tanto che viene da chiederle se si sia convertito.

«Non vado a messa, non sono credente. Ho sempre guardato con grande interesse, però - come chiunque si sia occupato di vita sociale e politica così a lungo -, all'esperienza del cattolicesimo che è imprescindibile, ovviamente, in Italia. Faccio parte di una generazione di militanti del movimento operaio che ancora ricordano quando Giovanni XXIII aprì la Chiesa al mondo con il Concilio».

Insomma è la figura del Papa che da sempre la affascina.

«Beh, non mi faccia fare una classifica dei pontefici. Papa Francesco indubbiamente è oggi una delle rarissime voci autorevoli di pace nel mondo. E le sue encicliche parlano di una valorizzazione umana che è una critica all'economia esistente: non siamo obbligati, dice esplicitamente, a subire la dittatura del profitto. Ora le cito una frase di Bergoglio che mi è rimasta impressa e che le so dire quasi testualmente». 

Prego.

«Ha detto che una società in cui c'è un contadino senza terra, un lavoratore senza dignità nel lavoro, donne e uomini senza un tetto sotto al quale abitare, è una società inaccettabile. E occorre lottare per cambiarla». 

Invasione di campo?

«No, la pastorale di un grande Pontefice. È il messaggio cristiano. Affascinante».

Resta ancora comunista, Bertinotti, vero?

«Certo». 

E della Cina di oggi che dice?

«Le rispondo ricordando che una sinistra eretica a cui ho appartenuto quando l'Unione Sovietica era al massimo delle sue forze la definiva con il termine "socialismo reale" per distinguersi da essa. Vale oggi, si figuri allora. Che cos' è la Cina se non economia di mercato anch' essa?». 

Non è utopia lottare oggi contro il mercato?

«Sì, se rimaniamo dentro il quadro istituzionale. Non se ci affidiamo ai movimenti. Lei è giovane, ma forse si ricorderà che all'inizio del millennio il Forum sociale di Porto Alegre, in Brasile, diede luce al movimento altromondista, dal quale nacque quello per la pace, contro la guerra in Iraq. Fu capace di schierare in un solo giorno 100 milioni di persone nelle piazze del mondo, si rende conto?». 

Oggi non si vedono piazze piene.

«Ne avremmo tanto bisogno. Guardi che il sistema di accumulazione capitalistica è molto esposto alla crisi. La crisi sociale è drammatica. Io credo che mai ci sia stata nel dopoguerra italiano una situazione in cui il lavoro è a tal punto ridotto a ventre molle della società». 

Possibile fermare con le piazze un'escalation militare di tale portata?

«Il problema è che oltre ai danni incomparabili della morte di migliaia di persone, anche le comunicazioni di massa sembrano essersi costruite come fossero in guerra. C'è un arruolamento ideologico, politico, culturale».

Su tutti i media?

«La televisione in particolare, che sembrava essere stata messa in crisi dai social network, in questo conflitto sta riacquistando potenza. E penetra attraverso un'inflazione di informazioni e con una sistematica ripetizione di argomenti. Chi fa comunicazione ha preso il posto dei partiti, ormai inerti e portati dal vento soltanto al governo, che li calamita». 

Dice che è tanto difficile essere critici, oggi?

«Un vecchio amico dalla lunga storia politica mi faceva notare quanto sia curioso che se deve dire la sua deve fare prima la premessa che Putin è colpevole. Una volta indossata questa sorta di corazza difensiva (ride) gli è concesso di parlare. Io la penso molto diversamente dal pensiero corrente». 

Riassumendo?

«A: non c'è una guerra giusta. B: non si prepara la pace con la guerra. C: la politica utilizza un codice imparato in tempo di Covid: imita il linguaggio degli esperti e si perde. Non che non si possa parlare di armi, ma è questione di priorità. Se la deterrenza sono le armi, usiamo la stessa logica di chi ha scatenato la guerra». 

Come se ne esce, invece?

 «Con la primazìa della politica di pace». 

Cioè?

 «Trattativa, trattativa, trattativa». 

Mario Draghi ha chiesto il cessate il fuoco a Putin. Qualche giorno prima ha detto che Putin non vuole la pace. Non è per questo che la Ue sta finanziando la guerra?

«Attribuire al nemico il rifiuto di trattare significa far diventare il conflitto un conflitto di civiltà, tra democrazia e autocrazia. Negare una volontà del nemico impedisce la risoluzione di pace. Israeliani e palestinesi, benché attaccati e con territori occupati, si disposero alla trattativa. Ci riuscirono. Tanto che ad Arafat, Peres e Rabin fu assegnato il Nobel per la pace. Poi l'accordo fallì, certo, ma per altre ragioni».

Abbiamo approvato l'aumento delle spese militari con voto di fiducia.

«La guerra è la sostituzione della politica, non certo la sua prosecuzione. Perché è sopraffare, vincere, distruggere. Il compromesso invece, quando si tratta di Stati, è un termine nobilissimo. Il problema è poi anche far sì che la guerra non possa tornare. E per questo ci vuole un'Europa davvero autonoma dalla Nato». 

Dotata di un suo esercito?

«No, al contrario, fondata su un'idea nuova: un'autorevolezza basata sul canone della cooperazione». 

L'ha stupita la sinistra con l'elmetto?

«La sinistra istituzionale è diventata liberale - mi sembra molto difficile da contestare - e, ora, organicamente atlantica. Si è dissolta sulla governabilità. 

L'impianto politico che giustificò la sinistra, e cioè la critica al mercato, è stato totalmente dismesso. La cosa è aggravata dal fatto che la tradizione pacifista e neutralista ha tutte le sue origini alla sinistra italiana. Socialista, comunista, e pure cattolica. Non ha eredi, però, nell'arco costituzionale di oggi. Per questo le dico che è stato un dispiacere, ma non una sorpresa».

Domenico Agasso per “la Stampa” il 4 aprile 2022.

«Siamo tutti colpevoli, il Signore abbia pietà di noi, di tutti noi». Papa Francesco torna a Roma da La Valletta con un volo AirMalta e parla del conflitto in Ucraina con evidente dolore e compassione. Conferma la sua disponibilità per un viaggio a Kiev ma precisa che «non so se si potrà fare e se è conveniente». Su Putin afferma: «Non l'ho sentito, ma gli direi quello che ho detto finora a tutte le autorità». Assicura di non conoscere ancora le notizie delle esecuzioni in strada e delle fosse comuni a Bucha. E denuncia che «non impariamo! Siamo innamorati delle guerre e dello spirito di Caino».

Santità, ci hanno colpito le immagini provenienti da Bucha, un paese vicino a Kiev, dove gli ucraini hanno trovato decine di cadaveri per strada, alcuni con le mani legate, come se fossero stati «giustiziati». Sembra che la sua presenza in quella zona sia sempre più necessaria. Pensa che sia fattibile? E quali sarebbero le condizioni?

«Grazie per avermi comunicato questa notizia che non conoscevo ancora. Sempre la guerra è una crudeltà, una cosa inumana. Io sono disposto a fare tutto quello che si debba fare, e la Santa Sede, soprattutto la parte diplomatica, il cardinale Parolin e monsignor Gallagher, stanno facendo di tutto, ma di tutto, non si può pubblicare tutto quello che fanno, per prudenza, per riservatezza, ma siamo al limite del lavoro. Fra le possibilità c'è il viaggio.

Ci sono due ipotesi: una - me lo ha chiesto il presidente della Polonia - sarebbe inviare il cardinale Krajewski a visitare gli ucraini che sono stati ricevuti in Polonia; lui è andato già due volte, ha portato due ambulanze ed è rimasto lì con loro e lo farà un'altra volta. 

L'altro viaggio che qualcuno mi ha domandato è a Kiev: io lo dissi con sincerità che avevo in mente di andarci, la mia disponibilità sempre c'è. Ma non so se si potrà fare, e se è conveniente farlo. Poi da tempo si ragiona su un incontro con il patriarca Kirill, si sta lavorando a questo, si sta pensando al Medio Oriente come luogo».

Dall'inizio della guerra ha parlato con Vladimir Putin?

«Le cose che ho detto alle autorità di ogni parte sono pubbliche. Nessuna è riservata.

Quando ho parlato con il Patriarca lui poi ha fatto una bella dichiarazione. Il presidente della Russia l'ho sentito alla fine dell'anno quando mi ha chiamato per farmi gli auguri.

Il presidente dell'Ucraina l'ho sentito due volte. 

Poi il primo giorno di guerra ho pensato di andare all'ambasciata russa per parlare con l'ambasciatore che è il rappresentante del popolo, e fare le domande e dire le mie impressioni. Ho sentito anche l'arcivescovo maggiore di Kiev Schevchuck. Poi ogni due o tre giorni con regolarità una giornalista, Elisabetta Piquet, che stava a Leopoli e ora a Odessa. Lei mi dice come stanno le cose. Vorrei farvi le condoglianze per i vostri colleghi giornalisti che sono caduti. Siano dalla parte che siano, non interessa».

Quale sarebbe il messaggio per Putin se avesse la possibilità di parlargli?

«I messaggi che ho dato a tutte le autorità, sono quelli che ho diffuso pubblicamente.

Non uso un doppio linguaggio». 

Ci sono guerre giuste?

«Ogni guerra nasce da un'ingiustizia. Perché c'è lo schema di guerra. Per investire per comprare armi. Dicono: ma ne abbiamo bisogno per difenderci. Quando è finita la Seconda guerra mondiale tutti hanno respirato il "mai la guerra". È cominciata un'ondata di lavoro per la pace anche con la buona volontà di non distribuire le armi, le armi atomiche dopo Hiroshima e Nagasaki. Settant' anni dopo abbiamo dimenticato tutto.

Ci sono stati dei grandi come Ghandi che hanno scommesso sullo schema della pace. Ma noi siamo testardi come umanità. Siamo innamorati delle guerre, dello spirito di Caino. Sono addolorato. Non impariamo. Che il Signore abbia pietà di noi, di tutti noi. Tutti siano colpevoli!». 

Com' è andata la visita a Malta?

«Sono contento, ho visto un entusiasmo della gente impressionante. Uno dei problemi che ho notato è la migrazione. Ed è grave perché Grecia, Cipro, Malta, Italia, Spagna sono i paesi più vicini all'Africa e al Medio Oriente: atterrano qui, arrivano qui, i migranti, e vanno accolti sempre! Ogni governo deve dire quanti ne può ricevere.

Per questo ci vuole un'intesa con i Paesi dell'Europa, dove però non tutti sono disponibili. Ma almeno bisogna non lasciare tutto il peso a questi Paesi limitrofi. Oggi (ieri, ndr) sono stato nel centro di accoglienza e le cose che ho sentito lì sono terribili, la sofferenza per arrivare qui, e poi i lager nella costa libica. 

Questo sembra criminale no? L'Europa sta facendo il posto con tanta generosità agli ucraini che bussano alla porta, così deve fare anche per coloro che vengono dal Mediterraneo».

La sua salute come va?

«È capricciosa, ho questo problema al ginocchio che provoca altri problemi di deambulazione, è un po' fastidioso, ma sta migliorando, almeno posso andare avanti. Due settimane fa non potevo fare nulla. È una cosa lenta, vediamo se guarisce, ma c'è il dubbio che a questa età non si sa come finirà la partita, speriamo che vada bene».

 Fausto Carioti per “Libero quotidiano” il 4 aprile 2022.

Nei tanti libri sull'identità italiana e la nostra idea di patria, e negli editoriali che da trent' anni scrive per il Corriere della Sera, la costante di Ernesto Galli della Loggia è il realismo, anche quando questo comporta giudizi duri. Le cose che dice in questa intervista non fanno eccezione. 

Inevitabile iniziare da Vladimir Putin, professore. In queste settimane i paragoni storici sul presidente russo si sono sprecati. A lei chi ricorda?

«Nessuno. Non è mai capitato che un funzionario dei servizi segreti diventasse capo di un grande Stato europeo. Naturalmente, dato il ruolo che ricopre, Putin risente di tendenze ed idee radicate nella storia russa, e quello che fa e dice rientra in una certa tradizione del suo Paese. Ma come personaggio è un uomo nuovo». 

Joe Biden lo ha definito «un macellaio» e ha detto che non può restare al potere. Nessun dubbio che questo sia ciò che pensa di Putin. Il punto è se il presidente degli Stati Uniti, potenza nucleare, possa dire ciò che pensa del suo corrispettivo russo. Ha sbagliato?

«Sì, credo proprio che abbia sbagliato. A meno che Biden non sappia, attraverso le fonti dell'intelligence statunitense, che nelle alte sfere russe è in atto un forte movimento per spodestare Putin. In tal caso le sue parole potrebbero aver avuto lo scopo di incoraggiare tale movimento. 

Dubito che sia così, però. La cosa più probabile è che le sue parole siano state dettate dall'emozione per l'incontro che aveva appena avuto con i profughi ucraini, e questo significa che dal punto di vista politico sono state uno sbaglio». 

Lei non sembra credere all'ipotesi di una "primavera di Mosca", di una rivolta popolare che depone lo "zar", nella quale invece qualche osservatore occidentale spera.

«Escludo che possa esserci una rivolta popolare. Tra l'altro la maggioranza dei russi ignora quasi tutto di ciò che sta accadendo in Ucraina, inclusi le modalità dell'invasione e il numero dei soldati morti. Oggi Putin può essere spodestato solo dai vertici dell'esercito russo».

 Che ragioni avrebbero?

«Hanno dovuto obbedire a una decisione politica, ma a nessun militare piace essere infilato in un'avventura senza sbocchi come si sta rivelando quella ucraina. Per questo gli unici che potrebbero fare un cambio della guardia al Cremlino sono loro, i capi dell'esercito, ovviamente d'intesa con altri poteri russi». 

Lei ci crede?

«Non faccio previsioni, lì dentro ci sono troppe cose che ignoriamo completamente. Mi limito a fare ipotesi di scuola».

Veniamo all'Italia, professore. Gli elettori, secondo i sondaggi, hanno simpatia per la causa ucraina, ma sono contrari all'aumento delle spese militari. Non è contraddittorio, per un Paese che si proclama figlio della resistenza armata partigiana?

«Vecchia storia: le persone sono raggiunte da una telefonata, si trovano sottoposte a una domanda a bruciapelo e non possono stare lì a cavillare e sofisticare. Motivo per cui i sondaggi vanno sempre presi con molta cautela». 

Proviamo a prenderli cautamente sul serio.

«È normale che di primo acchito la maggioranza degli elettori sia contraria ad aumentare le spese militari, perché appaiono soldi sottratti alla spesa sociale. Ma è chiaro che c'è una contraddizione con la volontà di sostenere la resistenza Ucraina, che per continuare a combattere ha bisogno delle armi che possiamo darle.

È una delle contraddizioni tipiche dell'opinione pubblica, che spesso vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Spetterebbe alla classe dirigente politica mettere d'accordo certe esigenze contraddittorie».

E finora come si è comportata la classe politica italiana?

«Un dato che merita attenzione è quello dei trecento parlamentari che si sono rifiutati di andare in aula a seguire l'intervento di Zelensky. Posso credere che qualcuno avesse problemi di famiglia odi altro tipo. 

Ma la grande maggioranza di loro - parliamoci chiaro - sono personaggi di secondo piano, sicuri di non essere rieletti, che stanno cercando una ricollocazione politica e finanziaria per il loro futuro. E siccome non da oggi, ma da anni, c'è una forte attività della Russia per "penetrare", diciamo così, i sistemi politici occidentali, allo scopo di acquistare "simpatie", credo che le due cose siano legate. Mi fermo qui, non voglio dire di più».

Fosse vero ciò che lei ipotizza sarebbe gravissimo. A parte gli interessi nascosti dei singoli, però, c'è un problema di linea ufficiale dei partiti e delle alleanze, e lo dimostrano le sofferenze di Enrico Letta e del suo "campo largo".

«Confesso che sul Pd mi ero illuso. Mi aspettavo che restasse sulla posizione espressa all'inizio da Letta, aderente alla linea di Draghi, che prevede il sostegno pieno all'Ucraina e il rispetto dell'impegno, assunto in sede Nato, di aumentare in tempi rapidi la spesa per il riarmo, portandola al 2% del Pil».

Non è andata proprio così.

«No. Di fronte alla presa di posizione di Conte, che ha dichiarato la propria indisponibilità, il Pd ha fatto una rapida riconversione su posizioni possibiliste e ha aperto la trattativa: non più due, ma cinque, sei anni... Ha ancora paura di essere diverso da come era in passato, di staccarsi dai vecchi dogmi e di affrontare una battaglia chiarificatrice all'interno della sinistra».

Un'occasione persa per Letta e i suoi, insomma.

«Sì. Inoltre credo che pesi molto la paura di andare da soli alle elezioni, senza i Cinque Stelle. La loro unica speranza di ottenere un successo che li porti al governo è legata all'alleanza col M5S». 

Che ha deciso di trasformare l'ultimo anno di legislatura in una guerriglia continua contro Draghi.

«Le scelte di Conte fanno parte del grande capitolo della dissoluzione dei Cinque Stelle.

Conte è alla testa di un movimento che ogni giorno perde consensi. Ha bisogno come l'aria che respira di costruirsi un ruolo, visto che, tra l'altro, lui personalmente non ne ha alcuno, non essendo nemmeno eletto in parlamento.

Come molti politici superficiali, crede che avere un ruolo significhi avere una posizione eccentrica, di cui i giornali l'indomani parleranno. E siccome il suo contendente interno, Di Maio, è schierato su una posizione atlantista, Conte ha scelto di schierarsi in senso contrario». 

Detta in questo modo, sembra che il capo politico del movimento sia Di Maio e che Conte sia il suo sfidante.

«Nei fatti, mi pare che le cose si avviino ad essere così. I Cinque Stelle cercano una nuova ragion d'essere, dato che tutte le loro identità precedenti, l'"uno vale uno" e le altre chiacchiere, si sono rivelate vane. Di Maio, con la sua azione governativa, sta cercando di costruire questa nuova piattaforma, ma si scontra con un gruppo di dissidenti, alla testa dei quali si è messo Conte. 

Mi sembra, però, che i parlamentari del movimento abbiano capito che, se vogliono essere rieletti, è dalla parte di Di Maio che debbono stare. Infatti, nella sostanza, è a lui che rispondono i gruppi in parlamento». 

Se le cose stanno così, la scissione è inevitabile.

«Direi proprio di sì. E sbaglierò, ma credo proprio che Di Maio sia la carta vincente, perché stare al governo gli dà il ruolo e l'immagine che Conte non ha».

Chi si oppone alle spese militari, però, può dire di avere dalla propria parte il papa. Anche grazie a giganti come sant' Agostino, la Chiesa ha elaborato una dottrina della «guerra giusta», secondo la quale è moralmente lecito, in certe circostanze, l'uso delle armi. Ora Bergoglio ha espresso «vergogna» perla scelta di portare la spesa militare al 2% del Pil, che giudica «una pazzia». È una novità rispetto alla tradizione della Chiesa?

«Sì, è in parte una novità. Mi pare, peraltro, che le dichiarazioni del papa siano state molto contraddittorie. Dapprima ha preso posizioni filorusse; poi, forse anche a causa delle critiche che gli sono state mosse da dentro la Chiesa, ha cambiato posizione, iniziando a parlare di "aggressione", pur senza mai nominare la Russia. Alla fine sembra essersi attestato su una posizione di generica condanna della guerra e del riarmo».

Questo pesa sull'azione del Vaticano?

«Credo che le posizioni del papa mettano soprattutto in grave difficoltà la diplomazia vaticana. La quale ha una grande tradizione e notevole capacità, ma mi sembra che soffra molto di una guida così incerta e ambigua. Più in generale, penso che la leadership "politica" del papa, chiamiamola così, sia da tempo molto confusa, e alla fine sfoci in una pressoché assoluta irrilevanza politica».

L’Ucraina e la scelta occidentale: il timone della vecchia Dc (che manca all’Italia). Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.  

Il ruolo che fu di De Gasperi e degli altri democristiani. Ora intorno a Pd e FdI potrebbero saldarsi due poli per garantire, nell’alternanza, la collocazione del Paese.

Ci vorrebbe un’altra Dc. Nell’assistere alla confusione ideale e talvolta anche morale, alle furbizie e ipocrisie del dibattito politico italiano intorno alla guerra all’Ucraina, viene da rivolgersi al passato. Perché la Democrazia Cristiana, che trent’anni fa, proprio in questi giorni, partecipava con il suo simbolo per l’ultima volta alle elezioni, ha commesso molti errori, e anche qualche reato, ma su un punto non ha mai sbagliato: è stata per quarant’anni la garante della collocazione dell’Italia in Occidente, dalla parte giusta della storia.

L’adesione alla Nato

Ripercorrendo le vicende dell’adesione alla Nato nell’aprile del 1949 sembra di rileggere le vicende dell’oggi. Allora eravamo noi, piccola nazione sconfitta e distrutta dalla guerra, a chiedere di entrare nella nuova Alleanza, e negli Stati Uniti molti non si fidavano, tanto che la decisione finale fu rimessa al presidente Truman in persona. Ma anche allora il pericolo per l’Europa era l’espansionismo russo, a quel tempo rivestito peraltro della formidabile forza ideologica del comunismo. Non fu facile, nemmeno per la Dc. Esisteva in quel partito una componente di «terzaforzismo religioso», ben rappresentata dal gesuita padre Riccardo Lombardi. C’era il gruppo di Giovanni Gronchi, un cattolico così poco atlantista che quando fu eletto presidente nel 1955 l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce rifiutò di partecipare al ricevimento inaugurale, lamentando un malanno che fu subito ribattezzato «gronchite». E poi c’era la resistenza dei dossettiani. Perfino nella diplomazia vaticana si auspicava una collocazione più defilata dell’Italia, ospite della Santa Sede. Fu Pio XII a rompere gli indugi: il cristiano doveva rifiutare il motto «si vis pacem para bellum», ma anche l’espressione «pace a tutti i costi»; perché l’opzione pacifista doveva essere «pratica e realistica», non frutto di «debolezza o stanca rassegnazione».

Il trionfo di De Gasperi

Così vinse De Gasperi. E l’Italia non ebbe a pentirsene. Né in termini economici né in quanto a libertà. Certamente non nel 1956, quando l’Armata Rossa invase l’Ungheria per stroncare un tentativo di riformismo, o nel 1968 quando i tank del Patto di Varsavia stroncarono nel sangue la primavera di Dubcek a Praga. Al punto che Enrico Berlinguer, il capo di quel partito comunista italiano che negli anni ’50 si era battuto in nome del pacifismo contro la scelta atlantica, nel 1976 riconobbe a Giampaolo Pansa, sul Corriere, che sotto l’ombrello Nato si sentiva più sicuro per la democrazia italiana. Da un certo punto di vista la scelta della Dc di allora fu persino più facile, perché più obbligata, di quella di fronte alla quale si trova l’Italia di oggi: il mondo diviso in blocchi, il fattore K, il pericolo comunista, non lasciavano molti margini di scelta. Ma, d’altra parte, allora ci si trovava di fronte a una minaccia grave ma pur sempre rimasta sempre e solo virtuale: una Guerra Fredda fondata sulla deterrenza che per fortuna non diventò mai calda. Mentre oggi la guerra è calda del sangue di migliaia di morti civili in Ucraina, e il pericolo è ben più reale e immediato, e l’espansionismo russo è anche più cinico, animato com’è da un nazionalismo neanche più portatore di una missione universale, come era ai tempi del comunismo. Qualcosa di questa radice occidentalista (che del resto non impedì alla Dc di essere anche europeista con De Gasperi, neo-atlantista e mediterranea con Fanfani, filo-palestinese con Andreotti) è per fortuna rimasta nell’elettorato italiano, almeno in quello più anziano. In una ricerca di Ipsos realizzata per la Fondazione De Gasperi, la scelta di entrare nella Nato è ancora considerata da un terzo degli italiani nati prima del 1974 come la più importante fatta dalla Dc (contro un quarto dei «millennial», nati dopo il 1980). E, curiosamente, gli ex elettori scudocrociati — ne sono rimasti 5.628.000 che votarono Dc nel 1992 — riversano oggi i loro voti principalmente al Pd (13,8%) e a Fratelli d’Italia (13,4%); cioè ai due partiti più coerentemente schierati dalla parte dell’Europa e dell’Occidente nella crisi ucraina e più attenti alla dimensione internazionale della politica.

Il buco nero al centro

C’è da chiedersi se questo seme potrà germogliare in un sistema politico italiano che ha oggi al suo centro un grande buco nero, un partito di maggioranza relativa che non lo è più, che non ha una sua idea della politica estera, e soprattutto tende a subordinarla agli interessi contingenti della politica interna. Naturalmente non nascerà una nuova Dc. Ma nei due schieramenti potrebbero saldarsi intorno al Pd e a FdI poli che garantiscano, anche nell’alternanza delle maggioranze, la collocazione del Paese. Oppure potrebbe un giorno nascere al centro una maggioranza ridefinita da questa guerra, unita dalla politica estera e di difesa, garante dell’europeismo e del rapporto transatlantico, corazzata contro gli avventurismi filo-russi o filo-cinesi. Ma, per nascere, avrebbe bisogno di una legge elettorale proporzionale. Proprio ciò che i due maggiori eredi del voto democristiano, Pd e FdI, per ora rifiutano.

La familiarità del male. A sconvolgerci davvero non è l’orrore di Bucha, ma la resistenza degli ucraini. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 4 Aprile 2022.

Nel mondo alla rovescia in cui i “guerrafondai” sarebbero coloro che vogliono aiutare gli aggrediti, mentre “pacifisti” e “realisti” sarebbero coloro che li invitano ad arrendersi, non c’è massacro che basti.

Molti pensano che le atrocità emerse nella città di Bucha dopo il ritiro dell’esercito russo rappresenteranno uno spartiacque. Molti sostengono che dinanzi ai corpi di centinaia di civili inermi fucilati con le mani legate dietro la schiena ci sarà una generale presa di coscienza, e chi finora si è inerpicato per ignobili distinguo, false equivalenze ed empie equidistanze non avrà il coraggio di insistere oltre. Qualcuno pensa addirittura che assisteremo a sincere autocritiche, se non da parte di quel grottesco esercito di scoppiati che ha occupato i palinsesti televisivi, perlomeno da parte di chi li ha invitati e difesi in nome del pluralismo e della libertà di opinione. Personalmente non sono così ottimista.

Certo, adesso almeno dovrebbe essere chiaro a tutti, come ha notato Anne Applebaum, che quando parliamo con leggerezza di quali «concessioni territoriali» l’Ucraina dovrebbe fare alla Russia di Vladimir Putin stiamo parlando di questo: esporre i civili di quelle regioni a fucilazioni, stupri di massa, saccheggi, deportazioni. Si tratta peraltro di cose, in gran parte, già emerse e documentate da tempo, come il tentativo di prendere le città per fame e per sete, costringendo la gente a bere l’acqua dalle pozzanghere e dai canali di scarico (domanda che metto tra parentesi per gli appassionati di false equivalenze: quale esercito occidentale applica simili sistemi?).

Notizie che finora non hanno impedito al dibattito di prendere la piega grottesca che ha preso, almeno qui in Italia, dove “guerrafondai” sono diventati coloro che si schieravano dalla parte degli ucraini e “pacifisti” o “realisti” coloro che li invitavano ad arrendersi all’invasore, sostenendo che le sofferenze dei civili erano colpa di chi insisteva a resistere. Una deriva davvero orwelliana perché, prima ancora di ogni altra considerazione etica o politica, si deve dire che è vero l’esatto contrario: sono stati finora i soldati ucraini – e le armi occidentali – a difendere i civili, comprese donne e bambini, dalla sorte toccata loro nelle città in cui l’esercito russo è riuscito a penetrare. Le immagini di Bucha ne sono solo l’ennesima conferma.

Come mai abbiamo dunque tanta difficoltà a riconoscere questi elementari dati di fatto? Perché definiamo la loro negazione come espressione di una libera opinione, anziché come disinformazione o semplicemente come falsità, menzogna, propaganda?

La mia impressione è che a turbarci davvero non sia il male, nemmeno nella forma radicale delle atrocità compiute a Bucha, ma la possibilità del bene. Quello che ci sconvolge non è la crudeltà degli aggressori, cui siamo purtroppo assuefatti e con cui abbiamo una certa familiarità, ma la resistenza degli aggrediti, tanto più sconvolgente perché messa in atto da persone che fino a ieri facevano una vita identica alla nostra, con lavori come i nostri, in città simili alle nostre, almeno fino al momento in cui i bombardamenti non le hanno rese irriconoscibili.

È questo che ci imbarazza, è di questo che non sappiamo davvero come parlare, nel mondo alla rovescia in cui siamo precipitati, in cui ci si vergogna a chiamare eroi coloro che resistono, mentre non si esita a disquisire con aria saccente delle ragioni strategiche e geostrategiche degli assassini.

Indimenticabile e insuperabile, da questo punto di vista, l’inchiesta del Fatto quotidiano sulla villa al Forte dei Marmi di un uomo che poteva fuggire negli Stati Uniti o in qualunque altra parte del mondo un mese fa, e invece è rimasto a Kiev, pur sapendo di essere l’obiettivo numero uno dei russi. Basta il titolo: «Zelensky, villa al Forte e società nascosta al fisco».

Abbiamo passato anni a domandarci con le facce indignate come l’Europa e il mondo abbiano potuto voltarsi dall’altra parte in circostanze ben più difficili di quelle in cui ci troviamo noi, quando si trattava davvero di mettere in gioco la propria vita, mica la bolletta del gas, e adesso fatichiamo a reggere il confronto con chi la vita la rischia tutti i giorni, e non vediamo l’ora di leggere che in realtà, prima della guerra, parcheggiava l’auto in doppia fila, evadeva le tasse e diceva le parolacce.

Vorrei credere anch’io che dinanzi alle atrocità commesse dall’esercito russo sui civili di Bucha assisteremo a un soprassalto di consapevolezza. Temo invece che più il peso dell’orrore continuerà ad aumentare, più forte si farà la reazione di rifiuto.

Leggo che all’ultima riunione della celebre commissione Dupre il giurista Ugo Mattei ha detto: «Ci sono elementi di continuità tra la gestione della pandemia in Occidente e la guerra della Nato». Sulla stessa linea, Carlo Freccero ha osservato che «Covid e guerra hanno trasformato il dibattito in propaganda» e che «la guerra in Ucraina è come una fiction», mentre Massimo Cacciari ha espresso la convinzione che si tratti in realtà di «una guerra tra imperi», pur invitando tutti, in un soprassalto di lucidità, a «stare attenti ai toni» e a «tenere conto di come si muove l’avversario: col Covid abbiamo fatto fatica a far capire che non fossimo terrapiattisti» (ma pensa un po’). Quanto all’ultimo monologo dell’ospite d’onore di cotanta iniziativa, quel professore idolo dei talk show che si è definito «guerriero intellettuale», addirittura «forgiato nello scontro e nella lotta», è squalificante anche solo parlarne.

È però significativo che il gruppo, nato contro il green pass, sia passato con tanta naturalezza dalla contestazione della dittatura sanitaria in Italia (peraltro nel frattempo autoliquidatasi per decreto) alla denuncia della «guerra della Nato» in Ucraina. È significativo soprattutto che siano loro stessi a rivendicare un nesso e una coerenza tra le due battaglie, che si basano non per niente sulle stesse fonti, cioè sulla stessa paccottiglia, lo stesso ammasso di teorie della cospirazione, bufale e propaganda. Materiale che nelle democrazie occidentali mature si trova confinato perlopiù agli organi semiclandestini dei movimenti di estrema destra, ma che in Italia, per usare un termine molto caro ai nostri populisti, è da tempo «mainstream». Com’è «mainstream» la filosofia che c’è dietro, egemone da molto prima della guerra e della pandemia, almeno dagli anni Novanta.

Mi auguro anch’io che le terribili immagini di Bucha, nonostante tutto, diano una scossa al nostro dibattito pubblico. Ma non so se basterà una scossa a risvegliarci da questo trentennale sonno della ragione. 

La sporca guerra russa. Basta con i “né né”, sull’aggressione all’Ucraina o si sta di qui o si sta di là. Mario Lavia su L'Inkiesta il 4 Aprile 2022.

Le immagini che arrivano da Bucha mostrano una nuova Guernica. La politica italiana è abbastanza compatta nella condanna di Putin, ma ora anche gli intellettuali più tiepidi devono isolare che si ostina a parlare di “montature cinematografiche” e di altre idiozie.

Ora voltate la testa dall’altra parte, cari intellettuali che invocate “l’analisi”, che vi sbracciate a chiedere per Vladimir Putin “una via d’uscita”, che suggerite a Volodymyr Zelensky la resa, ora andate a piazza San Giovanni con i cartelli “né con Putin né con la Nato”, ripetete pure che il problema “non è Putin ma la guerra”, abbiate il coraggio di affermare che è tutta una montatura cinematografica, cara La7, continua a chiamare i Grimaldi e gli Orsini per un pugno di share. Fate pure i pensosi soppesatori di torti e ragioni, ma «il tempo è scaduto», come dice Enrico Letta, perché il macello di Pucha del macellaio Putin (bravo Joe Biden, si era espresso benissimo) è la Guernica di questa sporca guerra russa, la My Lai del Cremlino che sollevò una generazione in tutto il mondo contro la dirty war americana di 54 anni fa.

I russi scappano e fanno terra bruciata, ma molto peggio di come fecero i loro antenati nel 1812 per difendere Mosca da Bonaparte – e oltretutto allora erano loro gli attaccati. I carri armati con la Z lasciano la zona di Kiev e annientano tutto ciò che è possibile: le scene le abbiamo viste tutti e non ci sono parole per descriverne l’orrore – almeno non ne siamo capaci noi – ed è davvero umiliante per qualunque persona civile ascoltare il Cremlino che parla di una macchinazione, infatti tutti i grandi leader democratici sono stati unanimi nell’esecrare le esecuzioni di uomini con le braccia legate dietro la schiena, per dire solo uno dei crimini commessi dall’esercito di Putin, le torture, le fosse comuni, i carri armati che passano sui cadaveri. Sono massacri, azioni punitive di cui i russi – come ha detto Mario Draghi – «dovranno rendere conto», chissà quando, chissà come, ma presto o tardi.

Bucha segna, o dovrebbe segnare, una svolta nella coscienza collettiva del mondo intero. Qualche cinico continuerà a dire: questa è la guerra, bellezza. No, questa non è più nemmeno la guerra, questa è la ferinità dell’animale azzoppato, dell’assassino braccato. Si deve dare a Putin una via d’uscita, come ha pontificato Michele Santoro? Ma Bucha dice che a questo punto ogni trattativa diventa non solo difficilissima ma – come dire – insopportabile, come si farebbe a stringere la mano al macellaio, come si potrebbe discutere con lui della spartizione di un territorio che questo nipotino di Stalin e Hitler ha insanguinato e disseminato di cadaveri senza testa, senza braccia, senza gambe?

In attesa di capire quale sarà la risposta dell’Occidente, la cui condotta rischia di essere, di fronte all’enormità di quanto avviene in Ucraina, troppo debole (a questo punto serve altro che le sole sanzioni o l’invio di qualche arma), bisogna, qui in Italia, cominciare a essere meno indulgenti con le fake news e con i propalatori della propaganda di Vladimir Putin. Bucha obbliga ogni singola coscienza a schierarsi. O di qua o di là.

Per fortuna, la politica italiana appare sufficientemente unita nella condanna della Russia, e ancora va dato atto al Pd di Letta di spingere forte in questa direzione laddove Giuseppe Conte è sempre un po’ impacciato, e non parliamo poi di Silvio Berlusconi e Matteo Salvini. Sperando infine che Maurizio Landini, l’Anpi, Luciana Castellina e Nicola Fratoianni riconvochino una manifestazione ma con un cartello solo – “Con l’Ucraina, contro Putin” – per dimostrare che stanno dalla parte della civiltà e della ragione.

Lezione di storia. Moni Ovadia e l’equivoco sui crimini di guerra russi (di allora e di oggi). Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 4 Aprile 2022.

Secondo l’attore, gli ebrei avrebbero un grande debito con l’Armata rossa che ha sconfitto i nazisti, dimenticando però i pogrom e le persecuzioni antisemite dell’Unione sovietica. Sarebbe come dire che le vittime dell’esodo istriano devono molto alla resistenza jugoslava che ha contrastato le forze dell’Asse. 

Ho un debito di riconoscenza personale e familiare con Moni Ovadia (lui probabilmente nemmeno lo sa), e perciò faccio fatica a criticarlo pur quando dice cose a mio giudizio profondamente sbagliate. Ma quelle che ha detto in un’intervista pubblicata l’altro giorno da il Riformista denunciano un tale livello di disinformazione – e, mi spiace dirlo, di forsennatezza intellettuale – che faccio più fatica a tacere.

Mi riferisco, in particolare, all’affermazione di Ovadia secondo cui «gli ebrei hanno un grande debito con l’Armata rossa» poiché, aggiunge, «se l’Armata rossa non avesse tenuto e contrattaccato…». Che è come dire che i mongoli dovevano essere grati ai russi perché altrimenti vincevano i giapponesi o – faccio volutamente l’esempio urticante – che le vittime dell’esodo istriano hanno un grande debito con la resistenza jugoslava che ha contrastato le forze dell’Asse. Oppure – si perdoni ancora – che gli ucraini hanno un debito enorme coi russi, che gli vogliono denazificare il Paese.

Il problema – con cui non fanno i conti quelli che la pensano come Moni Ovadia, e disgraziatamente sono tanti – è che il patto nazi-comunista del 1939 non è revocato da una resipiscenza sovietica pagata con i 27 milioni di morti che giustamente Ovadia ricorda in quell’intervista, ma da una digressione della medesima impostazione imperiale che non arriva a Berlino per portare pace e libertà, ma per imporre un altro giogo. 

E ci arriva sulla scorta di una tradizione di pratiche antisemite non propriamente episodiche: quella di cui non molto tempo fa parlò Piero Fassino (spiace doverlo ricordare, ma tant’è) discutendo dello stalinismo che ha «tra le sue tare i pogrom anti ebraici» (a me non verrebbe in mente di dire che le deportazioni e l’assassinio in massa degli ebrei erano una tara del Terzo Reich, ma lasciamo perdere).

Finché non faremo chiarezza su queste cose (e non sono i guerrafondai yankee a impedire che se ne faccia), continueremo a discutere su piani diversi e incompatibili.

Bucha, cosa è successo: i pacifisti ora non hanno più alibi. Riccardo Mazzoni su Il Tempo il 04 aprile 2022.

Gli orrori di Bucha, con le immagini sconvolgenti delle fosse comuni e delle esecuzioni di civili inermi con le mani legate, sono già una delle più atroci pagine di guerra della storia recente, un’onta che resterà indelebile sull’esercito russo e sul padrone del Cremlino.

Saranno le organizzazioni internazionali, attraverso una commissione indipendente, a certificare la mostruosità di un evento che già oggi dovrebbe comunque scuotere le coscienze anche di quei settori dell’opinione pubblica occidentale che per retaggi ideologici o per convenienza si ostinano a invocare la neutralità puntando l’indice contro le presunte colpe della Nato.

Non è una novità, perché negli ultimi decenni sono sempre esistite correnti di pensiero, soprattutto in Europa, inclini a giustificare le imprese dei dittatori, si chiamassero Milosevic, Khomeini o Saddam Hussein, in nome di una radicata avversione all’America e ai valori di libertà e democrazia che il suo ombrello militare ci ha garantito.

Ora la dottrina dell’interventismo umanitario armato, che a partire dalle guerre jugoslave degli anni Novanta era stato un elemento chiave della strategia statunitense, è andata in soffitta con il ritiro dall’Afghanistan, ma non per questo il mondo è diventato più stabile. Anzi: l’espansionismo militare russo, unito a quello economico cinese e al tentativo di costruire un cartello geopolitico multipolare di contrasto all’Occidente sono tutti tasselli di un mosaico instabile, e di uno scenario di cui già oggi sperimentiamo la pericolosità, con una pandemia ancora in corso, una guerra nel cuore d’Europa e il ritorno dello spettro della fame nel mondo.

In un tornante della storia drammatico come questo dovrebbe scoccare per tutti l’ora della responsabilità, invece le democrazie – la nostra in particolare – pullulano di piccoli Quisling pronti ad usare la libertà per schierarsi con i suoi nemici. Putin era già indifendibile, ma da ieri lo è di più, e chi ancora si rifugia nella zona grigia del pacifismo senza se e senza ma per un atavico riflesso antioccidentale non ha veramente più alibi, perché non possono esserci alibi di fronte a crimini di guerra come quelli documentati ieri sulle macerie spettrali di una sconosciuta cittadina ucraina.

L’ultima carta giocata dal putinismo da talk-show è il paragone letteralmente improprio tra la guerra in Ucraina e gli interventi della Nato nella ex Jugoslavia, ma è solo un miserabile trucco per confondere le cause con gli effetti: allora, infatti, l’Occidente intervenne prima con la Operation Deliberate Force, nel ’95, e quindi con l’operazione Allied Force del ’99 per fermare i massacri del regime serbo in Bosnia e in Kossovo, sfociati in vere e proprie pulizie etniche, e senza l’intervento americano le fiamme nei Balcani sarebbero continuate a divampare per anni; la Russia invece ha invaso uno Stato sovrano colpevole solo di aver scelto la strada della democrazia e sta cercando di annientare un intero Paese negandogli il diritto di esistere. 

La differenza tra le due guerre è in tutta evidenza gigantesca, ma continua a non esserlo per chi non esita a violentare la storia pur di schierarsi contro l’Occidente. Gli irriducibili putiniani si aggrappano anche al fatto che i bombardamenti della Nato sulla Serbia avvennero senza un mandato specifico dell’Onu a causa della sostanziale paralisi del Consiglio di Sicurezza, ma dopo il fallimento del negoziato di Rambouillet, dovuto alla totale indisponibilità del presidente Milosevic a trattare, si aggiunse l'aperta violazione degli accordi sottoscritti in precedenza dal governo serbo, che attuò una repressione talmente brutale da provocare una catastrofe umanitaria che la Nato si decise a fermare. L’esatto contrario di Putin, che è l’unico responsabile di questa nuova catastrofe umanitaria.

Il dibattito. “Mi sono finto pazzo per non fare il soldato”: obiettare si ma rispettare le regole. Valter Vecellio su Il Riformista il 31 Marzo 2022. 

Non me lo sogno neppure per un nano secondo di invocare censure di sorta, nei confronti di quanto pensa, dice e scrive Luca Casarini su quello che accade in queste ore in Ucraina, e in generale; di “martiri” del pensiero ce ne sono già troppi, non è davvero il caso di creare altri casi alla Alessandro Orsini (che mai ha avuto la possibilità di dire la sua, da quando, improvvidamente, gli è stato rescisso il contratto da parte dei responsabili di Rai 3, e del Messaggero). Però ogni limite ha una pazienza, per rubare l’espressione a Totò e stemperare un po’ l’incavolatura nel leggere varie amenità casariniane (“Siete sicuri che l’antimilitarismo sia una colpa?”, Il Riformista 30 marzo).

Non entro nel merito dell’interrogativo posto dal titolo, e neppure discuto le considerazioni dell’articolo, che pure… Il passaggio “limite” che supera la mia pazienza è quando Casarini racconta dei suoi presunti trascorsi antimilitaristi: “…il militare non l’ho fatto, quando ancora la leva era obbligatoria…perché mi feci passare per matto. Quelli come me che avevano già reati politici e militavano in organizzazioni della sinistra extraparlamentare, se facevano domanda di obiezione li spedivano in caserma punitiva”. Allora: Wikipedia informa che Casarini è del 1967. Aveva dunque cinque anni quando il Parlamento vara la legge sull’obiezione di coscienza, conquistata grazie all’impegno del Partito Radicale (Marco Pannella, Roberto Cicciomessere, Alberto Gardin, e tanti altri). Dal 1972 si poteva dire NO al servizio militare, e svolgere il servizio civile; la pena aggiuntiva, per chi faceva questa scelta, erano sei mesi in più di “servizio”. Non si finiva più in galera.

Di certo non ci sono finito io, che l’obiezione di coscienza l’ho fatta a suo tempo, e avevo, posso garantirlo, i miei bravi “carichi” politici sulle spalle. Non solo: a un certo punto, con altri cinque compagni radicali, stanchi di attendere da quasi un anno che si venisse destinati al servizio civile (che doveva indicare il ministero della Difesa), scrivemmo una bella lettera “aperta” nella quale si comunicava che l’attesa stessa si era protratta per troppo tempo, e ben oltre i mesi che avremmo dovuto svolgere nel servizio sostitutivo; per quella ragione ci rendevamo indisponibili a qualsivoglia servizio, la nostra diventava “obiezione di coscienza integrale”; si esigeva per questo motivo il foglio di congedo, oppure ci mandassero pure in carcere.

Al ministero della Difesa (all’epoca il ministro era Lelio Lagorio), per non avere grane che certamente da radicali avremmo procurato, scelsero la strada “dolce”: ci inviarono il congedo. Tutto alla luce del sole, da nonviolenti, senza necessità di fingerci matti o depressi. Ove non fosse chiaro, la differenza nei metodi e nella “filosofia” è tutta qui: nell’accettare le regole di un gioco anche quando non è il nostro, e nel pretendere che quelle regole siano applicate, o se non funzionano perché superate, le si cambino. senza fingere o ricorrere a trucchi da film alla “Pierino”. In effetti, poi, dopo qualche tempo, la leva non è più stata obbligatoria. Valter Vecellio

 Federico Rampini linciato e insultato dalla sinistra? Cosa c'è dietro davvero: quando Donald Trump...Alessandro Giuli su Libero Quotidiano l'1 aprile 2022

Piovono missili su Federico Rampini. Negli ultimi giorni il veterano giornalista - ora editorialista per il Corriere della Sera dopo un lungo passato a Repubblica - è diventato bersaglio dei generali salottieri e del loro caporalato social ai quali non va giù la linea durissima da lui assunta contro Putin e i suoi ventriloqui. Ma sullo sfondo s' intravede qualcosa di più: un regolamento di conti parecchio vendicativo contro le posizioni di Rampini sui totem tradizionali della sinistra da cui proviene: dall'immigrazione al politicamente corretto fino al globalismo suprematista liberal.

A FREDDO

L'ultima bomba "intelligente" l'ha sganciata Gad Lerner su Twitter, senza circostanziare il perché: «Dategli tempo, a Federico Rampini, che pian pianino poi magari ci diventa l'Éric Zemmour italiano». Dietro il brutale accostamento con il candidato all'Eliseo in odore di xenofobia sovranista - peraltro non gradito da molti follower che hanno lamentato "la miseria" e la "pochezza" dell'attacco a freddo - c'è voluttà di gettarsi nella mischia in cui Rampini lotta con maggior acribia dacché la Russia ha invaso l'Ucraina. 

Il corrierista esperto di politica internazionale due giorni fa ha ingaggiato sul La7 una battaglia furibonda con un intoccabile come Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, al quale ha fatto notare che le sue critiche alle sanzioni economiche che «non fanno meno male dei bombardamenti e non piegano i regimi, ma piegano i popoli» portano acqua al mulino di Putin e rendono chine se faccia latore un collaborazionista di fatto. «Ha messo sullo stesso piano le sanzioni economiche e i bombardamenti. Ma stiamo scherzando? Questa è un'offesa vergognosa alle madri dei bambini uccisi», ha detto Rampini; mentre il direttore del quotidiano dei vescovi già si predisponeva a un tuffo nel vittimismo digitale per lamentare su Twitter l'ignoranza della propria storia e formazione cattolica da parte del rivale.

La circostanza che Lerner sia divenuto una firma di punta del Fatto, peraltro, si sposa benissimo con una recente vignetta in cui Vauro rappresentava sul giornale di Marco Travaglio un Rampini armato fino ai denti e soprannominato "Rambini". Ma queste non sono soltanto perfidie occasionali provocate dalla linea radicale contro l'autocrate russo, descritto da Rampini come una figura molto più prosaica rispetto alla mitologia escatologica dei suoi sostenitori, più interessato insomma a conquistarci a suon di bugie e bombe (complice interessata la Cina) piuttosto che a salvarci l'anima.

Al plotone d'esecuzione anti-rampinista si è infatti aggiunto anche Dagospia, non senza l'abituale tratto ironico però, in un pezzo allusivo ad ampio raggio: «La metamorfosi di Federico Rampini. Da "Occupy Wall Street" alla condanna di Black Lives Matter». Prima di prodursi nel suo corsivo, Dago si è goduto l'aggressiva performance di Rampini ospite di Nicola Porro a Quarta Repubblica, e ha quindi stilato un campionario delle sue ultime opinioni più indigeste al conformismo sinistroide nel quale ha pascolato per anni pagato dal Gruppo Espresso. Conclusione: «Ma quello vero è il Rampini 1 o il Rampini 2? Tutto cambiato, salvo le bretelle».

EX COMMILITONI

La verità, come dimostra per esempio la biografia d'un altro esule in patria della sinistra come Giampiero Mughini, è che gli ex commilitoni malsopportano i fuoriusciti che non rinunciano alla critica e all'autocritica. Pratica nella quale Rampini eccelle, avendo pubblicato due formidabili libri - "La notte della sinistra" e "Suicidio occidentale", entrambi Mondadori - nei quali fa letteralmente a pezzi i vecchi feticci di famiglia, difesi dalla vecchia guardia goscista con l'arma della più feroce delegittimazione antropologica. 

Fra le colpe che non hanno perdonato a Rampini c'era quella di aver capito prima degli altri che Donald Trump stava intercettando il consenso dei forgotten men abbandonati dalla ricca élite democratica; adesso il copione si ripete di fronte all'allarme in difesa di un Occidente imbelle e ipocrita assediato dal dispotismo asiatico.

Né bellicismo né pacifismo. Leggere Emmanuel Mounier per capire perché con Putin bisogna usare la forza. Mario Lavia su L'Inkiesta il 2 Aprile 2022

“I cristiani e la pace”, scritto dall’intellettuale francese nel 1939 e ora ripubblicato da Castelvecchi, è un testo fondamentale sulle ragioni che ci portano a combattere la tirannia per difendere i nostri diritti. Pagina dopo pagina, si scoprono tante analogie tra quell’epoca storica e la recente invasione russa in Ucraina. 

«Anche Esprit è costretto al silenzio. Propongo come motto a Mounier a proposito della rivista e dei suoi amici: Vires acquirit tacendo… Lascio ad altri lo stupore. Io ho un animo così poco portato all’insubordinazione, alla protesta…». Con il suo tipico tono snob, così André Gide annotava nel suo Journal il 12 gennaio 1941. Di fronte alla chiusura della sua combattiva rivista Emmanuel Mounier per fortuna non tacque: non era nel suo spirito. Chi era, questo intellettuale francese? Era un personaggio notevole nel panorama culturale della Francia entre-deux-guerres, nella temperie del «mondo di ieri», come dirà Stefan Zweig, alla ricerca di un nuovo senso della storia umana.

È importante fissare il contesto storico nel quale si alzò la voce di Mounier, un contesto dominato dalle ferite della Prima Guerra e dal sentore, e poi dallo scoppio, della Seconda guerra mondiale, gli anni del grande travaglio dell’intellettualità e della cultura cattolica d’Oltralpe così bene illuminate dai grandi scrittori cattolici, da François Mauriac a George Bernanos, il più inquieto tra loro. E, pur senza eccedere, vorremmo a questo proposito anche sottolineare la qualità letteraria, con il suo fiammeggiante stile, di Mounier: alla stregua del Pascal «admirable écrivain», come di lui scrisse Saint-Beuve.

Senza la cornice di un mondo incapsulato come per un malefico sortilegio da due guerre si smarrirebbe la ragione della centralità del concetto di pace che anima una parte importante – anche se non esaustiva – del suo pensiero. Bene dunque la ripubblicazione de “I cristiani e la pace” (prefazione di Stefano Ceccanti, introduzione di Giancarlo Galeazzi – Castelvecchi), testo scritto nel 1939, dunque all’indomani di quella catastrofe di Monaco che aprì la strada alla folle avventura hitleriana. Ed è facile – lo argomenta con chiarezza Ceccanti nella introduzione – e per certi aspetti incredibile l’analogia con l’attuale conflitto messo in atto da Vladimir Putin ai danni dell’Ucraina e dell’ordine mondiale che, pur senza cadere in banali richiami ai famosi corsi e ricorsi, certamente ripropone l’esatto dilemma dinanzi al quale si trovò il filosofo cattolico: quale strada imboccare per evitare da una parte la logica bellicista e dall’altro un pacifismo imbelle e, diremmo con linguaggio gramsciano, subalterno?

Innanzi tutto bisogna essere chiari: «La parola pace significa oggi, per la maggior parte degli uomini, assenza di guerra armata; Monaco ha salvato la pace significa: i fucili non hanno sparato», scrive Mounier per dire che la pace non è mera assenza di guerra, ma un ordine nuovo (ci si passi una seconda citazione di Gramsci) fondato – ecco il senso del personalismo mouneriano – sulla rifondazione della persona «vista essenzialmente attraverso l’impegno volto alla trasformazione della società, al superamento di quello che, con espressione divenuta famosa, aveva chiamato il disordine stabilito, all’instaurazione in Europa di una pace fondata sulla giustizia», scrive Galeazzi nella ricca introduzione. Ecco, nell’indissolubilità del nesso filosofico (persona) con quello storico-politico (pace fondata sulla giustizia) sta forse l’essenza del messaggio di Mounier.

Tutto questo implica una lotta: del cristiano con se stesso – qui si sente un richiamo pascaliano – e del cristiano nel mondo, una lotta che diremmo aperta perché inedita, fuori dagli schemi consolidati e fallimentari del liberalismo classico e del marxismo. Lotta nel senso di lotta per la giustizia, cioè per il diritto: «Non esiste diritto – scrive Mounier – che non sia stato plasmato da una forza, che non si sostenga senza una forza. Le democrazie liberali sono nate come le dinastie ereditarie: con una presa di potere. Il diritto sindacale non è derivato dallo zelo dei giuristi né dalla buona volontà dei privilegiati, come pure l’affrancamento della borghesia nel XVIII secolo: sono tutti stati determinati dalla pressione di una forza… La forza è all’origine e non può essere eliminata per tutto il cammino percorso dal diritto: perché il diritto, con la sua sola affermazione, provoca la forza e deve poi da questa proteggere la sua libertà di passaggio».

E lotta significa anche, o può significare, resistenza (che ci pare il senso profondo della guerra giusta). C’è insomma in Mounier una tensione permanente, se vogliamo drammatica, che è anche la tensione che scaturisce dalla crisi di una lunghissima epoca storica («Assistiamo al crollo di una civiltà prodottasi verso la fine del Medioevo, consolidata e nello stesso tempo minata dall’epoca industriale, capitalista nelle sue strutture, liberale nella sua ideologia, borghese nella sua etica») e si proietta alla ricerca di una nuova antropologia né hobbesiana né kantiana, come ha notato Giorgio Tonini (che ricordiamo giovanissimo seguace del personalismo mouneriano) in un colto articolo (si può leggere qui).

Mounier spiega chiaramente: «L’uomo è lupo per l’uomo: ogni tirannia professa questo pessimismo di fondo in merito alla natura umana. Tale pessimismo non è cattolico. Per il cattolicesimo, il peccato originale ha sottratto all’uomo un regime di grazia sovrabbondante e, con questo sradicamento, ha ferito, ha scosso nel profondo una natura che era organicamente inserita in questa vita di grazia. Ma non l’ha né distrutta né corrotta e questa natura, che resta sostanzialmente buona, è a ogni momento, attraverso il consenso a una grazia perennemente offerta, capace di restaurazione». Qui si inserisce il protagonismo dei cristiani: «A quel bellicismo che considera la guerra come una fatalità per sua natura ineluttabile e, di conseguenza, come un organismo politico normale, noi opponiamo dunque il rifiuto dettato della teologia e della speranza cristiane».

La questione è tutt’altro che astratta, ma storica, politica. Di Mounier (scorrettamente da taluni collocato a destra) si ricorda l’impegno contro l’hitlerismo e il collaborazionismo della destra francese e in generale la passività del pacifismo imbelle di Monaco: «Questo pacifismo, nel settembre del 1938 non aveva a cuore la giustizia dei Sudeti, né quella dei Cechi, né quella dei Trattati, né quella delle loro vittime, né l’ingiustizia della guerra, ma aveva una sola ossessione: che non si interrompessero i suoi sogni di pensionato».

La quadratura del cerchio è molto difficile, anche oggi. Una strada possibile? La nostra Costituzione (che – azzardiamo – a Emmanuel Mounier sarebbe piaciuta), che è poi il punto di caduta dello scritto di Ceccanti laddove sintetizza mirabilmente due punti mouneriani – né bellicismo né pacifismo imbelle – all’articolo 11: «Lo Stato ripudia la guerra come strumento di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli. Consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Nel temine «ripudia» c’è l’opposizione al bellicismo; nel «consente alle condizioni parità» la vistosa correzione del pacifismo imbelle. Ecco dunque dove riposa (anche) la forza della nostra Carta: ed ecco perché risalire alle sue fonti più pure non è davvero esercizio inutile o minore.

Il report della Nato sulle spese militari: boom dell’Italia nel 2020 con Giuseppe Conte. Nell’anno della pandemia e della recessione, il governo guidato dall capo del M5S, secondo i numeri ufficiali dell’alleanza atlantica, ha aumentato gli investimenti di oltre 5 miliardi di euro. Gran parte dei 30 Paesi membri hanno rovesciato le tendenze con l’arrivo del virus e le hanno confermate nel 2021. Carlo Tecce su L'Espresso il 5 aprile 2022.

A pagina 141 della relazione annuale dell’alleanza atlantica Nato, un documento ufficiale appena diffuso, si trovano le risposte corrette alle domande sbagliate che la politica italiana si è posta sulle spese militari. Due punti fermi. L’Italia ha aumentato gli investimenti in maniera considerevole nel 2020, anno del virus, con un salto da 21 miliardi di euro a oltre 26. Il ministro della Difesa è lo stesso di oggi, è Lorenzo Guerini. Il presidente del Consiglio è cambiato, è Giuseppe Conte. Se ne deduce che Conte, oggi capo dei Cinque Stelle fondati nel giorno di San Francesco, non possa attribuire a Mario Draghi improvvide e sfiancanti corse alle armi.

Il parametro di riferimento nei dibattiti politici e televisivi è il 2 per cento del prodotto interno lordo (pil) richiesto dai vertici Nato. I 26,360 miliardi di euro ascritti all’Italia rappresentano circa l’1,6 per cento del pil registrato nel 2020. La scorsa settimana un pericoloso complottista che guida la Chiesa cattolica, papa Francesco, ha dichiarato che la «guerra in Ucraina era preparata da tempo con il traffico di armi».

Per precisare: Jorge Mario Bergoglio non parteggia per il regime di Vladimir Putin né chiunque arguisca delle tendenze da numeri inanimati e veritieri. Perciò la tabella della Nato, non di una congrega di irriducibili dei «fiori nei cannoni», colpisce per la rilevante crescita in Difesa durante la recessione per la pandemia. È successo a gran parte dei 30 membri dell’alleanza atlantica capeggiati dagli Stati Uniti e soprattutto agli europei Italia, Germania, Polonia, Romania e i baltici Lituania, Lettonia, Estonia. Nel 2020 ciascuno, nessuno escluso, ha ricalibrato le uscite a fronte di minori entrate, ne ha patito chiunque, tranne l’industria delle armi. È un fatto. E i fatti non simpatizzano o parteggiano. Il Pil era rosso dappertutto: -8,33 per cento in Italia, -5,34 in Germania, -2,51 in Polonia, -5,13 in Romania, -1,6 in Lituania, -3,73 in Lettonia, -2,7 in Estonia. In rapporto al Pil sono anni che l’Italia stanzia più denaro della Germania.

Le stime Nato per l’Italia sono di 27,395 miliardi di euro nel 2021. Nessuna statistica riflette i dati sui quali si sofferma la discussione politica in Italia e con i quali si riempiono interi palinsesti tv. I partiti si concentrano sugli equivoci 25,9 miliardi di euro previsti per il 2022 dal bilancio della Difesa che include gli stipendi dei Forestali e il costo dei militari in strada e non include gli acquisti di materiale bellico a carico del ministero dello Sviluppo e i fondi per le missioni internazionali elargiti dal ministero del Tesoro.

Come già illustrato in un recente servizio sull’Espresso, basato sulle analisi del centro studi della Camera, lo Stato ha messo a disposizione della Difesa almeno 30,4 miliardi di euro per il 2022.

Dopo la disfatta in Afghanistan e gli sforzi del 2020/21, la Nato temeva una frenata per il 2023 e il futuro. La guerra ha modificato le previsioni. La direzione è quella lì. Quella indicata, anzi anticipata pure da Conte. Armiamoci di più. 

Luca Sablone per ilgiornale.it il 31 marzo 2022.

Probabilmente Giuseppe Conte ha la memoria corta. Al di là delle innumerevoli piroette che con estrema disinvoltura lo hanno portato a essere presidente del Consiglio prima del governo gialloverde e poi di quello giallorosso, fa strano vedere il leader del Movimento 5 Stelle inalberarsi così tanto contro l'aumento delle spese militari al 2% del Pil in pochi anni. 

Un atteggiamento che non fa rima con quanto portato avanti dai suoi due esecutivi. Infatti proprio in quegli anni, quando il M5S si è radicato nel palazzo, Conte a Palazzo Chigi aveva una valutazione tutt'altro che negativa verso le spese per la Difesa.

Gli investimenti

Ora l'ex premier fa la voce grossa e chiede di destinare le risorse economiche contro i rincari. Come se dal 2018 al 2021 la disoccupazione, ad esempio, non fosse una priorità da considerare. Non a caso in molti hanno voluto ricordare al leader del M5S alcuni dati: i piani concordati nel 2014, e seguiti dai vari governi che si sono succeduti, "prevedono un continuo progressivo aumento degli investimenti entro il 2024".

Numeri snocciolati specialmente dopo il duro faccia a faccia con Mario Draghi: fonti di Palazzo Chigi tengono a sottolineare che nel 2018 il bilancio della Difesa "era sostanzialmente uguale al 2008". 

Una situazione che però ha subito notevoli variazioni nel corso degli anni, fino a raggiungere "24,6 miliardi" nel 2021: il che viene considerato "un aumento del 17%". Tra il 2021 e il 2022 il bilancio della Difesa sale invece a 26 miliardi: "Un aumento del 5,6%". 

Gli acquisti dell'era Conte

Per il Movimento 5 Stelle non è così: i grillini sostengono che si tratti di un totale di +2,7 miliardi in 3 anni (da 21,7 a 24,4 mld), "ovvero +12% non +17%". Sta di fatto che però le spese militari nei due governi Conte non sono state di certo disdegnate. Anzi. Sarebbe dunque necessario riportare alcuni dati, nella speranza che magari l'ex premier possa ricordare alcune mosse dei suoi governi.

L'edizione odierna de Il Messaggero parla ad esempio di centinaia di milioni di euro per l'acquisto di droni, per elicotteri multiruolo e per "nuovissime e iper-tecnologiche cacciamine". 

Basta spulciare il Documento Programmatico Pluriennale 2019-2021 con cui l'allora ministro della Difesa (l'ex grillina Elisabetta Trenta) aveva presentato al Parlamento lo stato di previsione della spesa per l'anno finanziario 2019 e per il triennio 2019-2021, approvato nel 2018. Le tabelle sono così divise: profilo programmatico degli stanziamenti, primo triennio, triennio successivo e oneri.

Per il mantenimento dell'operatività della linea carri armati il programma ha un onere complessivo di 35 milioni di euro distribuiti in 3 anni (4 nel 2019 e 15,5 sia nel 2020 sia nel 2021). Per gli F-35 Joint Strike Fighter (AM+MM) 690 per il 2019, 859 per il 2020 e 747 per il 2021. Per i Vtlm2 il programma è finalizzato all'acquisizone di una prima tranche di 398 mezzi: 1 milione per il 2019, altri 6 per il 2020 e 13 per il 2021, per finire a 65 per il triennio successivo (2022/2024).

Non va dimenticata la questione spazio e cyber. Quanto alla fase di sviluppo del sistema di difesa aerea corto/medio raggio, il programma prevede che il sistema missilistico debba sostituire i sistemi attualmente in servizio basati sul missile ASPIDE. Gli oneri? 1 milione nel 2019, altri 10 nel 2020 e 15 nel 2021. Nel triennio successivo (2022/2024) ben 69. Non passa inosservato Cosmo Skymed 2nd Generation per l'acquisizione e il lancio in orbita entro il 2022 di ulteriori 2 satelli CSG. Ancora risorse economiche: 52 nel 2019 e 70 sia nel 2020 sia nel 2021.

Da “il Giornale” il 30 marzo 2022.  

Per quelli di Liberi e Uguali, costola sinistra del centrosinistra che ha accolto molti profughi del Pd, la spesa militare attuale dell'Italia basta e avanza: «In una situazione che mette la popolazione a rischio di dover affrontare di nuovo una crisi molto pesante spiegano quelli di Leu -, le risorse devono essere concentrate sulle emergenze economica, sociale ed energetica, non adoperate per le armi». 

La sinistra pensa al popolo, non certo alle armi. Oddio, qualcuno sì. Prendete Massimo D'Alema, ex candidato (non eletto) come senatore di Leu, appunto.

In Colombia, si è dato un gran daffare per piazzare un grosso ordinativo di armi, roba da 80 milioni di euro. La armi in Ucraina non vanno bene, in Colombia invece sì.

La fattoria dei neutralisti. Per George Orwell, i pacifisti erano i migliori alleati del totalitarismo. Ugo Arrigo su L'Inkiesta il 30 Marzo 2022.

Nella sua ampia produzione saggistica, l’autore britannico dimostra ostilità verso chi sceglieva di non schierarsi, anche di fronte a personaggi come Hitler. Se il Führer avesse voluto conquistare l’Inghilterra, scriveva, vi avrebbe promosso movimenti contro la guerra.

George Orwell non è solo il grande scrittore della Fattoria degli animali, di 1984 e di molti altri romanzi e racconti. Egli è stato anche un importante autore di scritti politici, disseminati nel corso della sua breve vita e pubblicati principalmente negli anni ‘30 e ‘40 in articoli per giornali e riviste. Tra Orwell romanziere e Orwell saggista non vi è tuttavia alcuna distinzione di motivazioni e obiettivi, trattandosi solo di due distinte forme di un identico impegno sociale, come spiega lui stesso nel testo del 1946 Perché scrivo: «Ogni riga di ogni lavoro serio che ho scritto dal 1936 a questa parte è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico, per come lo vedo io».

Come si legge nell’introduzione a una raccolta francese dei suoi scritti politici: «Nonostante l’immensa celebrità di Orwell scrittore il suo pensiero resta ampiamente ignorato o incompreso. ..È tempo di leggerlo come una figura maggiore, e ormai classica, del pensiero politico del ventesimo secolo, allo stesso titolo di un Gramsci o di una Hannah Harendt»¹.

Stiamo parlando di Orwell oggi, nel pieno della crisi internazionale prodotta dall’invasione russa dell’Ucraina, perché a distanza di un’ottantina d’anni le sue riflessioni politiche rappresentano un’importante chiave di lettura per comprendere cosa sta avvenendo. Utilizzo solo alcuni spunti, per ragioni di spazio, e parto da un breve frase che lui scrisse in tema di distinzione tra destra e sinistra in una corrispondenza privata nel 1948: «La vera distinzione non è tra conservatori e rivoluzionari bensì tra i partigiani dell’autorità e i partigiani della libert໲. All’epoca il Regno Unito era appena uscito vittorioso dalla lunga guerra scatenata dai regimi autoritari che si erano progressivamente impossessati dell’Europa continentale tra gli anni ’20 e ’30 sino a cancellare completamente, con l’occupazione della Cecoslovacchia nel 1938-39 e la sconfitta e subordinazione della Francia nel 1940, ogni residuo di democrazia parlamentare a sud delle isole britanniche e della penisola scandinava.

Oggi fortunatamente la situazione è completamente differente all’interno dell’Europa ma altrettanto non si può dire riguardo a ciò che accade ai suoi confini e non si può non guardare con preoccupazione al fil rouge che lega, in una sorta di internazionale reazionaria, nuovi e differenti autoritarismi, dalla Russia di Putin ai movimenti sovranisti che hanno intorbidato in questi anni, per fortuna senza risultati fatali, diverse democrazie europee, sino alla parabola americana di Trump, culminata con l’assalto al Campidoglio, e al Brasile di Bolsonaro.

Di tutti questi esempi il più eclatante non è tuttavia la Russia di Putin, trattandosi di un paese totalmente privo nella sua storia di durature esperienze liberaldemocratiche, bensì gli Stati Uniti, nei quali l’avvento di Trump ai vertici del partito che fu di Lincoln e di Theodore Roosevelt ha rappresentato una decisa rottura con due secoli e mezzo di percorso esemplare delle istituzioni democratiche. È sorprendente, ed è molto pericoloso, che una quota rilevante di elettori repubblicani non abbia accettato la sconfitta di Trump da parte di Biden e che ritenga inconcepibile di aver perso nelle urne, mostrando di preferire il successo a qualunque costo del proprio candidato rispetto al corretto funzionamento delle procedure elettorali.

Che molti repubblicani, sembrerebbe più della metà, amino Trump più della democrazia del loro Paese è uno dei segni più evidente di come il pendolo della storia abbia svoltato verso il partito dell’autorità, allontanandosi dalla tradizione liberaldemocratica angloamericana che così grande ruolo ha avuto negli ultimi ottant’anni sullo scenario internazionale nel salvarci dapprima dal nazifascismo e nel proteggerci in seguito dal rischio sovietico. Orwell avrebbe avuto molto da dire se avesse potuto osservare in tempi recenti Boris Johnson al posto che fu di Winston Churchill e Donald Trump in quello di Franklin Delano Roosevelt. E anche Vladimir Putin al posto di Josif Stalin, il quale approfittò del patto Molotov-Ribbentrop per riportare nel perimetro russo un pezzo di Polonia, provarci senza successo con la Finlandia e riuscirvi con gli stati baltici e la Bessarabia, ora Moldavia.

Putin avrebbe osato provare a modificare in maniera netta, unilateralmente e manu militari, i confini dell’Europa se il pendolo non avesse preso con decisione da diverso tempo, fuori dai suoi confini dopo averlo fatto in precedenza nella madrepatria, la direzione del partito dell’autorità? Difficile credervi e infatti non vi aveva sinora provato, Crimea a parte, pur essendo al potere da ormai quasi un quarto di secolo. Ha dovuto attendere con pazienza per più di venti anni che il terreno in occidente divenisse favorevole per la sua semina autoritaria, contribuendo a fertilizzarlo in tutti i modi possibili. Le democrazie occidentali sono deboli e ingenue e possono essere scalate finanziando, probabilmente con pochi soldi, movimenti e leader politici, acquisendo il consenso di manager e decisori di governo che sono in grado di creare legami di dipendenza dalle forniture russe di materie prime che non possono essere recisi facilmente una volta consolidati. La nomina dell’ex primo ministro tedesco Gerhard Schröder ai vertici del colosso statale Gazprom non è stata che la ciliegina sulla torta di questa evidente strategia, il personaggio più autorevole inserito nella squadra all’interno del cavallo di Troia che Putin ha regalato all’occidente.

Dunque oscillazione del pendolo, in questo caso in parte spontanea e in parte favorita, “oliata”, potremmo dire. Orwell era consapevole dell’oscillazione e 1984 è una messa in guardia contro il caso peggiore della deriva totalitaria: «L’azione del libro si svolge in Gran Bretagna – egli scrive – per sottolineare che i popoli di lingua inglese non sono per natura migliori degli altri e che il totalitarismo, se non è combattuto, potrebbe trionfare ovunque». E in un testo della seconda metà degli anni ‘30 si legge: «Potrebbe essere un cattivo segno per uno scrittore non essere sospettato oggi di tendenze reazionarie così come era un cattivo segno venti anni fa non essere sospettato di simpatie comuniste».

Nell’immediato primo dopoguerra sembra che il comunismo andasse di moda tra gli intellettuali per poi lasciare presto il posto agli -ismi di segno contrario, fascismi e nazismo. Il pendolo aveva cambiato direzione e si sarebbe rapidamente inoltrato sino alla tragedia estrema della seconda guerra mondiale. E dopo essersi nuovamente voltato nella direzione delle libertà e avervi raggiunto dopo quasi mezzo secolo la massima espansione con il 1989 e il post 1989 ha nuovamente fatto marcia indietro in direzione autoritaria raggiungendo, io credo, il suo limite con la presidenza Trump negli Stati Uniti e la guerra in corso della Russia all’Ucraina.

Quando il pendolo della storia volge verso la libertà allora la pace e la prosperità sono assicurate in maniera crescente. Quando volge verso l’autorità esse sono a rischio e possono nuovamente sorgere venti di guerra. Nell’uno e nell’altro caso sono presenti nella società civile persone particolarmente attente al tema della pace che tuttavia poco si notano nel primo, dato che la corrente va spontaneamente nella loro direzione, e molto si notano invece nel secondo. Chi sono e cosa vogliono i pacifisti quando il pendolo volge all’autorità? Orwell li ha visti in azione e ne ha scritto con chiarezza e precisione. Noi che li rivediamo ora abbiamo tutto l’interesse a rileggerlo.

«È un fatto che il pacifismo non esista se non in comunità i cui membri non credono alla possibilità reale di una invasione e di una conquista straniera… Nessun governo potrebbe operare secondo principi puramente pacifisti, poiché un governo che rifiutasse di ricorrere alla forza in qualsiasi circostanza potrebbe essere rovesciato da chiunque fosse pronto a utilizzare la forza. Il pacifismo rifiuta di affrontare il problema del governo, e i pacifisti pensano sempre come persone che non si troveranno mai in una posizione d’autorità, ed è per questo che li considero irresponsabili…»³.

E inoltre: «La propaganda pacifista tende naturalmente a dire che i due campi sono egualmente cattivi; ma se si studiano più attentamente gli scritti dei giovani intellettuali pacifisti, si vedrà che, lungi dall’esprimere una disapprovazione imparziale, essi sono diretti quasi interamente contro l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Inoltre, inevitabilmente, essi non condannano la violenza in se stessa, ma solamente la violenza che è utilizzata per difendere i paesi occidentali. I russi, a differenza degli inglesi, non sono in alcun modo biasimati per il loro apparato bellico». Infine un’affermazione che risale all’epoca bellica: «Se Hitler potesse conquistare l’Inghilterra cercherebbe, ipotizzo, di favorire qui lo sviluppo di un ampio movimento pacifista, in grado di impedire qualsiasi resistenza seria e facilitargli il controllo del paese».

Orwell, che si arruolò volontario coi repubblicani spagnoli, non aveva dunque una grande opinione dei pacifisti, considerandoli nell’ipotesi più benevola portatori di errori logici e in quella meno benevola dei potenziali utili idioti a sostegno dei despoti che le guerre le scatenano.

¹ George Orwell, Ecrits politiques (1928-1949), Agone, Marsiglia, 2009.

² Citato in Simon Leys, Orwell ou l’horreur de la politique, Plon, 2006.

³ Questa citazione, come le due seguenti, è tratta dall’appendice Quelques propos de George Orwell

al libro di Simon Leys, Orwell ou l’horreur de la politique, Plon, 2006.

Sono incomaptibili? Pacifismo e garantismo ripudiano la guerra, lo diceva Pascal ma anche Goering. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

In questi giorni ricevo lettere, telefonate, messaggi e moltissimi tweet che contestano il mio dichiarato schieramento pacifista, perché – sostengono – il pacifismo è in contrasto col garantismo e con l’essere liberali. Io non credo che abbiano ragione. So benissimo che esistono molti garantisti che hanno compiuto una scelta interventista, e rispetto in modo assoluto le loro idee, e conosco da molti anni la distinzione tra idea nonviolenta e idea pacifista, anche perché ho conosciuto Marco Pannella. Però non posso accettare, francamente, la pretesa di contrapporre pacifismo e non violenza. O anche di contrapporre garantismo e pacifismo.

Una cosa è dire che non c’è automatismo, cioè che non è necessaria l’identificazione, una cosa diversa è lanciare l’anatema e pretendere l’inconciliabilità. La mia idea di garantismo, effettivamente è molto vasta. E si fonda sul pensiero liberale ma anche, e soprattutto, sul pensiero cristiano. Cioè sull’idea del perdono o, meglio ancora, della non-colpa (“chi è senza colpa scagli la prima pietra”, oppure “tu, ladro, vieni con me in paradiso”. Cioè due passaggi colossali del Vangelo).

Garantismo

Provo a riassumere il mio punto di vista un po’ schematicamente. Non credo che il garantismo sia solo la richiesta del rispetto totale di una serie di regole – sostanziali o formali – che riguardano l’ amministrazione della giustizia. Non penso che il garantismo possa limitarsi all’esaltazione dei diritti della difesa e alla presunzione di innocenza, e alla richiesta di prove provate. Ho l’impressione che se si lascia stringere in questo perimetro un po’ angusto, il garantismo muore. Perde il respiro. E soprattutto finisce con il diventare vittima delle interpretazioni. Le quali permettono una grande elasticità e molte distinzioni. Cioè permettono di difendere solo alcuni e non altri, solo fino a un certo punto e non oltre, solo gli innocenti e non i colpevoli, solo se assolti e non se condannati. Io invece credo che il garantismo sia un’idea generale di società. Fondata sui diritti e non sulla punizione. Sulla soluzione dei problemi e non sulla ricerca del colpevole. Sul valore di ogni esistenza e non su un’etica che stabilisce una gerarchia, e sceglie le esistenze migliori e le peggiori, quelle degne di premi e quelle degne di punizione, quelle da rispettare e quelle da calpestare.

Il garantismo, per quello che mi riguarda – e qui usciamo anche dal cristianesimo – è l’idea che si rifiuta di operare distinzioni nette tra bene e male. E che immagina che la forza del bene non stia nella repressione del male, ma nella comprensione e nella assunzione.

Pacifismo

Che c’entra il pacifismo? L’idea di fondo del pacifismo, per quel che ho capito in questi primi miei settant’anni, è il rifiuto della guerra come strumento di prosecuzione della politica. Naturalmente rifiuto della guerra è l’ultimo stadio del rifiuto dell’uso della forza come mezzo per regolare la convivenza. È chiaro che questo principio prevede delle eccezioni. Però il principio vale. Vale la tendenza. L’idea è quella: la scelta di usare la politica, la diplomazia, la deterrenza, la pressione, l’economia, la forza di massa del popolo, come mezzi essenziali per sedare le tensioni e risolvere le controversie. Questa idea non è del tutto balzana se è scritta a chiare lettere nella nostra Costituzione. Leggevo in questi giorni, fornitomi dal figlio di Mario Zagari (deputato socialista alla Costituente) il resoconto del dibattito che si svolse prima dell’approvazione dell’articolo 11 della Costituzione. Quello sulla guerra. Fu Zagari a chiedere e ottenere che la parola “rinunzia” fosse sostituita con la parola “ripudia”. L’Italia ripudia la guerra. Non è un dettaglio. La scelta è quella di non considerare la posizione contro la guerra come un’opzione passiva, ma al contrario come opzione attiva. Accompagnata dalle righe successive dell’articolo 11, le quali stabiliscono che è compito del nostro paese favorire e promuove organizzazioni internazionali che servano a garantire la pace tra i popoli. È quella parola – ripudia – a imprimere alla nostra Costituzione un carattere nettamente pacifista. Rafforzata dall’incitamento a promuovere la pace e non solo ad accettarla.

Io ho l’impressione che questa idea pacifista sia in perfetto allineamento con l’idea garantista. Il punto comune è il punto di partenza: la ripugnanza per la forza, per la vendetta, per la punizione. E la convinzione che i mezzi non siano indifferenti e non contino meno dei fini: se il mezzo è la morte, l’uccisione, lo sterminio, conta poco il fine, per quanto esso sia nobile. L’infamia del mezzo finisce per omologare il liberatore all’oppressore. Il giudice al reo. Il moralizzatore al colpevole. Naturalmente è un argomento molto complesso, questo. Che investe la filosofia. E io non sono un filosofo. Perciò chiamo in mio aiuto un grande filosofo francese del 600. Antico ma di pensiero molto moderno. Diceva così: “Si dovrà dunque uccidere per impedire che ci siano dei cattivi? Uccidendo se ne faranno due invece di uno”. Si chiamava Blaise Pascal, questo filosofo. Esprimeva l’idea essenziale del pacifismo e del garantismo. Chi vuole la guerra?

Un’altra citazione. Leggete queste poche righe : “È naturale che la gente non voglia la guerra. Non la vogliono gli inglesi, non la vogliono gli americani, neanche i tedeschi la vogliono. Si capisce. È compito dei leader del paese orientarli, indirizzarli verso la guerra. È facilissimo: basta dirgli che stanno per essere attaccati, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo, e perché mettono in pericolo il paese. Funziona così in qualunque paese, che sia una democrazia, una monarchia o una dittatura”. È una dichiarazione di Hermann Goering, rilasciata nei giorni del processo di Norimberga, nel 1945. Voi sapete chi era Goring: uno dei massimi gerarchi nazisti e il fondatore della Gestapo. Non credo che ci sia bisogno di commentarle.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Pacifismo e interventismo: il dibattito dopato. Il pacifismo peloso di politici, estremisti e no vax fan di Putin e l’ambiguità di Salvini e Berlusconi. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 29 Marzo 2022. 

Francamente tutta la discussione in corso in Italia sul pacifismo, sulla resa, sull’invio o meno di armi alla resistenza ucraina ci sembra assai singolare e atipica, per cui torniamo su di essa, su alcuni aspetti storici e anche su alcuni aspetti politici molto attuali. In primo luogo per ciò che riguarda la storia, il pacifismo, anzi per metterla su un piano medio ideologico il neutralismo, possono essere positivi e condivisibili rispetto a una specifica situazione e del tutto negativi e sbagliati rispetto a un’altra. Il neutralismo era del tutto condivisibile rispetto alla guerra del 1915-18, quello che il papa Benedetto XV ha chiamato l’inutile strage. Allora erano in campo ben tre neutralismi: quello socialista – da Turati ai massimalisti -, quello cattolico – Don Sturzo – e quello liberale – Giolitti- che erano largamente maggioritari nel Paese per cui ci fu un sostanziale colpo di mano che portò l’Italia ad abbandonare la sua neutralità e a buttarsi a capofitto nella guerra in alleanza con la Francia e l’Inghilterra.

Ci fosse però qualcuno che vuole evocare il pacifismo o il neutralismo, il rifiuto dell’uso delle armi rispetto alla seconda guerra mondiale, anche in quella occasione per una fase ci fu un “pacifismo peloso” e fu quello molto esplicito e reale del Pcf, quello più dichiarato che praticato a causa della sua inesistenza politica dello stesso Pci, quando era vincente il patto Ribbentrop Molotov: fino al 1941 il Pcf fu neutralista e pacifista, poi, per dirla in termini politicamente scorretti, noi dobbiamo a Hitler e alla sua decisione di rompere la alleanza con Stalin e di porre in essere l’operazione Barbarossa se nel 1941 l’Urss fu restituita allo schieramento anti nazista e anti fascista. Ricordiamo tutto ciò perché nella materia a nostro avviso non esiste nessun precostituito schema ideologico a prescindere dalla concreta situazione esistente sul campo. Allora, anche rispetto alla presa di posizione, certamente del tutto al di fuori e al di sopra delle parti, espressa oggi da papa Francesco a proposito della intenzione dei Paesi della Nato di arrivare a un 2 per cento di spese militari, non possiamo fare a meno di osservare due cose: non ci risultano analoghe prese di posizioni da parte pontificia a proposito dell’andamento delle spese militari della Russia e della Cina, che certamente hanno avuto un andamento del tutto superiore alla cifra del 2 per cento.

In secondo luogo questa tematica non nasce a freddo ma in un momento assai particolare e drammatico del quadro internazionale dal quale nessuno, neanche il pontefice, può prescindere. O meglio, potrebbe prescindere solo con un assoluto salto di qualità quale sarebbe la sua visita a Kiev. Allora, non possiamo fare a meno di operare una netta distinzione fra chi oggi è per il pacifismo assoluto con il conseguente rifiuto delle armi agli ucraini e addirittura la richiesta di resa da parte di costoro fatto da persone del tutto in buona fede, con chi invece non lo è affatto e anzi è per Putin per una serie di ragioni. È per Putin il professor Canfora perché, a nostro avviso, sbagliando completamente analisi, essendo da sempre un rigoroso e ferreo stalinista, allora ritiene che Putin essendo russo, usando le armi e usandole non solo contro gli Ucraini ma in effetti contro la Nato, gli Usa, l’Unione Europea nella sostanza rientra in quello storico retroterra politico culturale per il quale egli è da sempre schierato. Però a nostro avviso il professor Canfora sbaglia analisi perché Putin in effetti è un dittatore nazionalista di destra portatore di istanze territoriali e politiche di tipo predatorio come testimonia anche il fatto che i suoi riferimenti culturali ruotano intorno alle tematiche proposte da Alexander Dugin a proposito del sovranismo, della grande Russia con riferimenti a Pietro Il Grande, Ivan Il Terribile e a Stalin, non come leader comunista, ma come il padre della patria che ha guidato l’Urss alla vittoria nella Seconda guerra mondiale e poi alle conquiste territoriali dirette e indirette conseguenti a Yalta.

A parte il professor Canfora, che comunque ha una sua linearità storico-culturale, c’è un reticolo di estrema destra, di estrema sinistra e di no vax che attraverso mille canali del web si riconosce in Putin e “nel sistema Putin”. Qui veniamo a un aspetto fondamentale del problema. Putin ha dato vita non solo ad una autocrazia, ma anche ad una cleptocrazia con oligarchi che, con il suo consenso, si sono impadroniti di una parte delle risorse dello Stato e con una catena di business e di tangenti che ha coinvolto leader politici, partiti, correnti, manager, ambasciate, e imprese dell’Occidente. Costoro sono stati messi in imbarazzo e in difficoltà in seguito all’estremismo dell’intervento militare posto in essere da Putin e poi dall’inattesa resistenza del popolo, dell’esercito ucraino e del leader Zelensky. Adesso, però, per fare comunque da sponda al loro leader di riferimento in difficoltà senza troppo sporcarsi le mani, la “catena Putin” riemerge nei termini di un pacifismo peloso che arriva fino a sostenere quella tesi della resa che risolverebbe tutti i problemi che in modo inatteso Putin si è trovato davanti in seguito all’imprevedibile resistenza del popolo e dell’esercito ucraino.

Sin qui anche un pullulare di iniziative le quali in modo singolare, avvalendosi di siti e hacker originariamente no vax adesso cavalcano il filo puntinismo. Ciò detto veniamo a coloro che sull’argomento tengono la posizione pacifista fino alla tesi della resa essendo in perfetta buonafede e non coinvolti nel sistema Putin. Rispetto a queste posizioni riteniamo condivisibile anche nelle virgole l’intervista che Sergio Cofferati ha reso al Corriere della Sera. Ne riportiamo tre punti essenziali: «L’equidistanza viene giustificata con argomenti assurdi. Perché questa guerra terribile termini come tutti vogliamo bisogna evitare i Russi si impadroniscano della Ucraina. Anche l’efficacia delle sanzioni viene rafforzata se in parallelo si aiuta la resistenza ucraina, guardando al comune passato, quello dei nostri genitori e dei nostri nonni, non si può non arrivare alla conclusione che liberta è democrazia vanno difese a tutti i costi. Una idea della resa è priva di senso. Così finirebbero la democrazia e la libertà, una eventualità da scongiurare. Che sinistra è una sinistra che non è solidale con un popolo aggredito e che non cerca di aiutarlo in tutti i modi? Peraltro non è affatto detto che se cedessero su questi diritti – la democrazia e la libertà – gli ucraini avrebbero salva la vita. Se non sei d’accordo, se sei un dissidente ti privano anche della vita o quanto meno te la rendono molto difficile».

Queste limpide parole sono ancora più valide se confrontate con quello che stanno facendo adesso i Russi in Ucraina e anche rispetto alle ambiguità che in Italia stanno emergendo da parte di Conte e di Salvini. Quello che stanno facendo i Russi in Ucraina grida vendetta al cospetto di dio e proprio gli autentici pacifisti non possono non condannarlo nel modo più deciso. I Russi vorrebbero asfaltare tutta l’Ucraina e poi, come hanno fatto in Cecenia, metterla nelle mani di qualche leader fantoccio alla Lukashenko. Quindi è proprio vero che gli Ucraini stanno combattendo non solo per se stessi ma per l’Europa. Qualora gli Ucraini non avessero resistito e si fosse ripetuto il bis della Crimea, adesso Putin si sentirebbe in grado di fare un passo ulteriore e investire la Moldavia e i Paesi Baltici ritenendo che l’Occidente ormai non è più in grado di reagire. A quel punto l’alternativa sarebbe terribile: o l’accettazione di una egemonia russo-cinese di stampo autoritario nel mondo, o la terza guerra mondiale: non si scappa dalla alternativa a suo tempo emblematicamente espressa da Chamberlain da un lato e Churchill dall’altro quando ci si trova davanti ad una dittatura aggressiva, predatoria, pronta a usare qualunque mezzo militare.

In secondo luogo è sempre più evidente che in Italia il binomio Draghi -Mattarella è fondamentale per assicurare all’Italia un ruolo serio e positivo in Europa e nell’Occidente. Va dato atto da un lato a Enrico Letta, dall’altro lato a Giorgia Meloni, indipendentemente dalle collocazioni di maggioranza e opposizione, di aver capito qual è il punto fondamentale della realtà politica oggi in Italia, in Europa e nel mondo. Contro questa strategia emerge la pericolosa ambiguità di forze come quelle espresse da Conte, da Salvini, e dal silenziosissimo Berlusconi (un silenzio che non fa onore a chi ha sempre affermato di essere portatore di una autentica posizione liberale che a onor del vero ha fatto valere nei confronti delle tendenze più negative del giustizialismo alla italiana.

Vorrei sbagliare ma abbiamo l’impressione che in Italia molti nodi stanno venendo al pettine. Nel passato spesso in termini negativi non ci siamo fatti mancare nulla: manca solo adesso che nel momento in cui è in corso nel cuore dell’Europa una terribile guerra di aggressione, oggi contro l’Ucraina domani potenzialmente contro altri, che in Italia si faccia una crisi di governo per via del tendenziale aumento delle spese militari che peraltro il premier Conte aveva sancito firmando una intesa nel 2019. Fabrizio Cicchitto

Conte pacifista anti Draghi ma con lui a Palazzo Chigi le spese militari sono salite. Domenico Di Sanzo il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

Gialloverde, giallorosso, uomo di governo, leader di partito, moderato infine pacifista. Giuseppe Conte dopo lo scoppio della guerra in Ucraina cerca di ritagliarsi uno spazio politico e mediatico.

Gialloverde, giallorosso, uomo di governo, leader di partito, moderato infine pacifista. Giuseppe Conte dopo lo scoppio della guerra in Ucraina cerca di ritagliarsi uno spazio politico e mediatico. In difficoltà nei sondaggi, alle prese con una leadership su cui pende la spada di Damocle dei tribunali, nel pantano di un partito che è diventato ingestibile, l'avvocato cavalca la campagna contro l'aumento delle spese militari al 2% del Pil. Una crociata mediatica e di consenso, alla ricerca di uno spazio in una fetta di elettorato «pacifista» e di certo non filo-atlantica, che sembra orfana di un riferimento politico. Con il Pd di Enrico Letta compatto sul budget per la difesa, Conte ha individuato un tema per uscire dalle secche. Accarezzando l'anti-atlantismo, l'ex premier è arrivato a minacciare fibrillazioni nel governo sul tema della spesa militare. Ha fatto sapere che è sul tavolo l'ipotesi di non votare il Def (Documento di Economia e Finanza) senza un chiarimento sulle spese militari. Ha smentito la volontà di innescare una crisi di governo, mentre ha aperto solo a una crescita graduale della cassa per gli armamenti e vedrà oggi alle 17 e 30 il premier Mario Draghi per discutere del tema. Nel Pd e tra i pentastellati critici ci si chiede se davvero l'avvocato di Volturara sia pronto per l'all-in o se si tratti soltanto di un bluff a beneficio dei sondaggi. Intanto è stallo e non c'è un accordo per un ordine del giorno di maggioranza sul dl Ucraina, ancora bloccato in commissione al Senato e su cui il governo sta valutando di porre la questione di fiducia. Anche se alcuni senatori grillini hanno fatto già sapere che non saranno presenti in Aula per il voto.

«È strano che sia proprio Conte a riscoprirsi così ortodosso, lui che ha impostato la sua carriera sul fatto di essere un moderato, che è stato due volte presidente del Consiglio, e che anzi lo è diventato perché nel 2018 non era un leader di partito, a differenza di Luigi Di Maio», riflette una fonte di alto livello del M5s. E infatti è fin troppo facile far emergere le contraddizioni del leader dei Cinque stelle. Anche durante i suoi governi - senza una guerra in Europa - Conte ha sempre rispettato gli impegni presi con gli alleati della Nato. Il balzo più rilevante in termini di spesa militare è stato registrato nel 2020, l'anno dei lockdown e della fase più drammatica della pandemia da Covid. L'Italia è passata dai 22miliardi e 844 milioni del 2019 ai 24miliardi e 427 milioni dell'anno successivo, per un incremento del 7,28%. Nel 2020 l'Italia ha speso per la difesa l'1,4% del Pil, più della media europea dell'1,3%. Dunque Giuseppi - come lo aveva soprannominato Donald Trump - non si è mai tirato indietro sugli impegni presi con la Nato. E nel M5s nessuno ha fiatato.

«Conte per avere un po' di consenso spara a zero contro le spese militari italiane. Però sulle spese militari russe in Italia lo stesso Conte e l'intero M5s rifiutano di fare chiarezza con la commissione di inchiesta sul Covid che Italia Viva ha proposto e che nessuno vuole, chissà perché. Le spese militari evidentemente vanno bene solo se pagano le missioni dei soldati russi», attacca Matteo Renzi nella sua Enews. Contro Conte anche l'ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta del governo gialloverde, fuoriuscita dal M5s: «Da Conte solo una mossa politica, gli elettori vanno guidati», dice all'Adnkronos. «Se nel M5s prevale Di Battista nessun dialogo con il Pd», incalza il senatore dem Andrea Marcucci in un'intervista a True News.it

Pigi Battista asfalta l’Anpi: «I partigiani di oggi? Usurpatori che non hanno mai rischiato la pelle». Valerio Falerni lunedì 28 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.   

Partigiani? Pensionati, piuttosto. Come il loro presidente Gianfranco Pagliarulo, classe 1949. Quando è nato, i tedeschi erano ritornati in Germania, il fascismo era finito e l’Italia era già una repubblica. «Sai che cosa abbiamo in comune io e lui – ironizza  Pierluigi (Pigi) Battista in un’intervista a Libero -? Che nessuno di noi due ha rischiato la pelle per la libertà dell’Italia». Quelli dell’Anpi oggi, incalza l’ex-vicedirettore del Corriere della Sera, «non sono partigiani, sono gli usurpatori di una nobile sigla che esprimono le loro posizioni come tanti altri gruppi di associati». Sarebbe una constatazione persino scontata. Non in Italia, però, dove l’Anpi mette becco su tutto, persino «contro la riforma costituzionale di Renzi».

Pigi Battista intervistato da Libero

Il ruolo dell’Associazione è tornato prepotentemente d’attualità con la guerra in corso in Ucraina. Che ha trovato Pagliarulo e compagni attestati su un “né né…” drammaticamente uguale a quello in cui tentò di rifugiarsi la peggiore sinistra al tempo dell’attacco del brigatismo rosso allo Stato. A distanza di tanto tempo, la circostanza dà ragione a chi da sempre sostiene che l’Anpi non è stata mai veramente rappresentativa di tutta la Resistenza. «Partigiani – ricorda in proposito Battista – erano Guido Pasolini, ammazzato dalla Brigata comunista Garibaldi, e Francesco De Gregori, lo zio del cantautore, ucciso con lui a Porzus». Così come lo erano l’ex-ministro Paolo Emilio Taviani ed Edgardo Sogno. «Nel dopoguerra hanno dato vita a Gladio per proteggere l’Italia da un’eventuale invasione sovietica», aggiunge il giornalista.

Ma il colpo decisivo Battista lo sferra quando marca la differenza tra lo Zelensky collegato con il Congresso Usa e con il Bundestag tedesco da quello che si è rivolto al Parlamento italiano. Nei primi due casi il presidente ucraino ha citato, rispettivamente, Pearl Harbor e il Muro di Berlino. Nel collegamento italiano, invece, non ha neppure accennato ai partigiani. «Perché – spiega Pigi Battista – nella storiografia internazionale la resistenza italiana ha un peso vicino allo zero, irrilevante». E  conclude: «La libertà ha trionfato grazie agli americani».

Giusto. Un altro piccolo sforzo andrebbe tuttavia fatto per capire perché l’Ucraina lotta ancora per conquistarla e l’Europa dell’Est teme ancora di perderla. Già, per quei popoli la sconfitta  significò solo il salto dalla padella di Hitler alla brace di Stalin. A conferma che libertà e democrazia c’entravano poco con gli obiettivi degli Anglo-americani. È giusto invece riconoscere che è stata per noi fu una vera fortuna essere sconfitti da loro e non dai loro alleati sovietici. È l’ultimo pezzo di verità che manca, aspettando Pigi Battista.

L’Anpi resiste anche a Mattarella e a Liliana Segre. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 24 marzo 2022.

L’aggressione al popolo ucraino è «ingiustificabile», la Federazione russa «ha fatto ripiombare il continente europeo in un tempo di stragi, di distruzioni, di esodi forzati che fermamente intendevamo non avessero più a riprodursi dopo le tragiche vicende della Seconda guerra mondiale».

Il messaggio che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha preparato per i congressisti dell’Associazione dei partigiani è solenne, soprattutto severo. Viene scolpito, parola per parola, il giorno prima al Quirinale.

Eppure i congressisti respingono il paragone con la Resistenza italiana. Lo ha detto più volte il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliaruolo, che però stavolta sceglie di non tornarci sopra forse proprio per non polemizzare con Mattarella.

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

La guerra di Putin ha fatto a pezzi l’album di famiglia del pacifismo italiano. L’odio per gli Usa e le “ragioni” della Russia quando la geopolitica conta più dell’etica. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 27 marzo 2022.

L’invasione russa dell’Ucraina ha scompaginato l’album di famiglia del pacifismo italiano, mai così diviso e smarrito di fronte a una guerra d’aggressione che sembra togliere punti di riferimento consolidati nel tempo e rovesciare la stessa narrazione bellica del secondo dopoguerra. Durante la infinity war del post 11 settembre con la caccia a Bin Laden e l’occupazione di Iraq e Afghanistan da parte degli alleati anglo- americani milioni di persone sono scese in piazza nelle principali capitali dell’Occidente, Parigi, Londra, Roma, New York, Berlino. Contestavano la guerra di Bush Jr. e Tony Blair, il cinismo con cui Washington fabbricò le prove per colpire Baghdad e il suo regime, i bombardamenti sulle città, le vittime civili, i milioni di profughi.

In fondo erano americani, arroganti cowboy: Corea, Vietnam, Medio Oriente, Yugoslavia, Somalia, lungo tre generazioni il movimento pacifista era abituato a protestare contro “l’imperialismo yankee” in tutte le sue versioni, dai conflitti “sporchi” degli anni 70 in Sudamerica, alla sbandierata esportazione della democrazia durante la lotta al terrorismo. Per la sinistra pacifista opporsi a quelle guerre e a quel mantra ipocrita da gendarmi del pianeta era un copione facile, facile, che poteva recitare a occhi chiusi. Il nemico poi, ce l’avevi in casa: i governi occidentali che seguivano le bellicose sirene del Pentagono, aggredendo paesi sovrani e violando le nostre costituzioni che «ripudiano la guerra».

Per molti decenni il pacifismo è lievitato nella cornice della Guerra Fredda, quasi sempre anti- americano, sempre terzomondista, nella convinzione che le guerre siano lo strumento supremo del capitale per imporre il suo dominio sul mondo. Ma con la guerra di Vladimir Putin, che nell’immaginario di molti rappresenta un argine (ancor più psichico che materiale) ai progetti espansionistici della Nato a trazione statunitense, questo schema è andato in pezzi. È bastato cambiare gli interpreti, rovesciare i ruoli per buttare i principi storici del pacifismo. Come ad esempio il ritiro immediato delle truppe di occupazione militare come condizione necessaria per ottenere la pace. «Via le truppe da Saigon, via le truppe da Baghdad e Kabul!», gridavano giustamente i cortei di chi diceva no alla guerra “senza se e senza ma”. Poi c’era chi stava apertamente con i Vietcong e discuteva se inviare o no armi ai compagni vietnamiti e chi aveva posizioni più moderate, ma tutti esigevano il ritiro delle truppe.

Perché non fanno lo stesso oggi con i militari dell’armata russa che da un mese martellano Kharkiv, Mariupol, Kerson e altre città ucraine? Non c’è forse un paese aggredito e un paese aggressore? I distinguo pelosi sul presunto “nazismo” dell’esercito di Kiev, sulle provocazioni dell’occidente con i suoi vizietti imperiali, sul fanatismo irresponsabile di Zelensky che manderebbe al macello il suo popolo mai si erano sentiti nel movimento pacifista storico. Come nessuno avrebbe mai impiegato l’argomento “realista”, secondo cui la superiorità militare russa è così schiacciante che non conviene a nessuno mettere i bastoni tra le ruote al boss del Cremlino e quindi bisogna sottostare alle sue condizioni.

Una posizione rivendicata da ampi settori della sinistra radicale e non, ma anche da frange della destra sovranista e grillina, i primi per sincero anti- americanismo, gli altri per altrettanta sincera ammirazione nei confronti dello zar. Per costoro gli ucraini devono arrendersi e basta, concedere a Mosca quel che desidera (Donbass, Crimea e neutralità), altro che armi alla resistenza. È un pacifismo surrogato, che deriva di sana pianta dalla geopolitica ormai diventata una specie di disciplina olistica in grado di spiegare tutto, poco incline all’empatia e all’imparzialità, per il quale la pace conta solo se contrasta con le strategie dei propri avversari e il nemico del mio nemico è un mio amico. Usa e Ue sostengono la difesa militare dell’Ucraina? Allora Kiev deve arrendersi.

C’è poi un pacifismo “ideale”, etico, autonomo dalle ideologie, che in questi giorni sta chiedendo ugualmente bandiera bianca all’Ucraina per evitare un ulteriore bagno di sangue di civili. Un po’ radicale gandhiano un po’ catto- comunista; è la tradizione della lotta non violenta che vede nella resa non un atto di viltà ma un gesto nobile, forse il più nobile di tutti. Da don Milani a Danilo Dolci da Aldo Capitini a Marco Pannella, contro tutte le guerre; magari utopico e ingenuo, ma l’unico rimasto credibile. 

Togliatti o Pannella? La differenza tra pacifismo e nonviolenza, cioè tra odio per la Nato e amore per la democrazia. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 26 Marzo 2022.

Il primo nasce come continuazione della lotta di Resistenza (in ottica anti-atlantista) e non escludeva il ricorso all’azione militare. Il secondo, abbracciato tra gli altri dal Partito Radicale, teorizza la migliore efficienza di una lotta senza armi, ma solo quando questa sia in grado concretamente di togliere forza e legittimità all’avversario.

La politica pacifista italiana nasce alla fine degli anni ’40 con l’esperienza dei Partigiani della Pace, promossa dal fronte social-comunista per convertire ideologicamente la resistenza al nazifascismo in opposizione all’atlantismo – la costituzione della Nato nel 1949 venne definita da Togliatti un «atto di guerra» – e sostenere la politica internazionale dell’Urss staliniana, individuata come un «baluardo della pace» e «della libertà e indipendenza dei popoli».

La matrice (o il peccato) originale del pacifismo italiano è sopravvissuto sia alla sua progressiva ibridazione con l’antimilitarismo di ispirazione laica e religiosa, con cui i comunisti trovarono in seguito importanti punti di convergenza, sia al progressivo, ma mai completo distanziamento del PCI dall’Unione Sovietica.

Malgrado la scelta atlantista della metà degli anni ’70 – Berlinguer che riconosce l’ombrello della Nato come opportunità per perseguire la «via italiana al socialismo» – ancora un decennio dopo, sulla questione degli euromissili, il PCI concentra sulla Nato l’accusa di opporsi alla strategia del disarmo, necessaria per scongiurare l’apocalisse nucleare e improntare le relazioni internazionali al valore della pace.

In ogni caso il pacifismo comunista e post-comunista non è mai stato nonviolento. Il ricorso alla resistenza e all’insurrezione armata non è mai stato né teoricamente escluso, né concretamente avversato nelle sue manifestazioni anti-imperialiste e anti-colonialiste. Al contrario è stato esplicitamente teorizzato e anche programmato come mezzo di emancipazione politica e sociale. I Partigiani della Pace a cavallo tra gli anni ’40 e ’50 aspettavano ancora in massa l’ora X della Rivoluzione, con i fucili della Resistenza nascosti in cantina.

La nonviolenza si sviluppa invece in Italia su presupposti e con riferimenti politico-intellettuali del tutto diversi. Nasce dal rifiuto di relativizzare il principio assoluto del “non uccidere”, proprio per affermare la nonviolenza come alternativa reale alla violenza. Anche se tra le sue manifestazioni c’è stata la storica battaglia per il riconoscimento del diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, la teoria nonviolenta non chiede semplicemente il rispetto giuridico e morale di chi non voglia usare le armi, ma la messa in discussione dell’opportunità di usarle tout court; chiede insomma di realizzare un radicale riallineamento di fini e mezzi, dell’obiettivo di uno Stato e di una politica senza violenza (o con meno violenza) e di una strategia d’azione che si astenga dalla violenza (o la minimizzi) proprio per prefigurare questo risultato e propiziarne il conseguimento. Tutto questo, prima che sul piano delle relazioni internazionali e delle politiche di difesa, vale all’interno del processo democratico e del confronto con qualunque Potere.

La nonviolenza, da Capitini a Pannella, non è quindi una forma di irenismo morale, ma una teoria della prassi e un’etica della responsabilità politica. Non una forma di renitenza, ma di lotta. In particolare, nella declinazione radicale la nonviolenza non abita in interiore homine, ma è incarnata nel corpo a corpo fisico e pubblico, cioè immediatamente politico, con la violenza.

Lo storico preambolo allo Statuto del Partito Radicale, che conferisce «all’imperativo del “non uccidere” valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa», afferma un obiettivo politico, non un principio di identità morale.

Quando Pannella diceva che «nonviolenza e democrazia sono sinonimi» denunciava il legame tra la violenza e la negazione della libertà e dello stato di diritto e dunque tra la nonviolenza come mezzo e la difesa della democrazia come fine. Infatti è la democrazia che trasforma il “non uccidere” nel fondamento costituzionale della libertà degli uomini e dei popoli, cioè in una legge storicamente assoluta.

Al polo opposto della nonviolenza – è questo il punto fondamentale – c’è la violenza, non la guerra. La guerra, intesa in senso propriamente bellico, non rappresenta, né esaurisce l’universo della violenza politica. La guerra è una delle forme o delle conseguenze della violenza politica, a volte neppure delle più letali. L’Unione Sovietica ha ammazzato più cittadini sovietici in pace che soldati tedeschi in guerra. Solo in Ucraina, tra il 1932 e il 1933, nell’Holodomor, cioè nel riuscitissimo esperimento di genocidio per carestia, morirono 4 milioni di persone, la metà dei quali bambini.

Dal punto di vista pratico, inoltre, la teoria nonviolenta ha ipotizzato e provato a sperimentare – in certo modo scientificamente – la superiore efficienza di una scelta disarmata, quando questa sia in grado concretamente di disarmare, cioè di destituire di legittimità e di consenso, la violenza cui si contrappone e che intende superare. Questo è avvenuto in contesti storici determinati, ma significativi: in primo quelli dell’India coloniale, giunta all’indipendenza grazie alla mobilitazione nonviolenta gandhiana, e degli Usa segregazionisti, dove l’uguaglianza giuridica della popolazione nera venne conquistata da Martin Luther King e dal movimento dei diritti civili proprio neutralizzando in primo luogo tentazioni separatiste e violente contro la popolazione bianca.

Si può dire approssimativamente che la nonviolenza – che ripetiamo: è tale se si oppone alla violenza, non se vi soggiace passivamente – ha dimostrato di funzionare là dove ha incarnato istanze di libertà e di liberazione capaci di suscitare contraddizioni nel campo avverso, in nome di principi almeno potenzialmente comuni.

Gandhi e King hanno ottenuto l’indipendenza dell’India e l’uguaglianza di tutti gli americani soprattutto in nome dei valori della democrazia inglese e statunitense e delle culture politiche liberali, di cui Usa e Regno Unito si facevano vanto e che la dominazione coloniale e la legislazione segregazionista ormai storicamente contraddicevano in modo sempre meno sostenibile. Anche la gran parte delle sollevazioni est europee furono nonviolente, da quella di Solidarnosc con Walesa in Polonia, alla cosiddetta “rivoluzione di velluto” cecoslovacca di Havel e sfruttarono la crescente fragilità dell’impero comunista e le crepe che si aprivano al suo interno e che avrebbero portato a breve anche al collasso dell’Urss.

Questi nomi – non quelli di Togliatti e di Secchia – sono stati i riferimenti e in alcuni casi – penso soprattutto ad Havel – i compagni di lotta dei nonviolenti italiani, cioè in primo luogo dei radicali. Coerentemente con la logica per cui la violenza è già di per sé un fallimento politico, una conseguenza del fatto di non avere saputo produrre anticorpi sufficienti per prevenire l’insorgenza del male, in Italia i nonviolenti soprattutto, ma non solo, di matrice radicale sono stati sia dei teorici dell’interventismo disarmato – Pannella negli anni ’70 e ’80 propone di “bombardare” di informazioni con una sorta di Radio Londra planetaria tutti i popoli soggetti al dominio sovietico – sia dei politici molto più laici dei pacifisti nel giudicare l’interventismo armato in scenari di guerra conclamata.

Di fronte al conflitto nell’ex Jugoslavia – esplosa, sostenevano i radicali, anche per la responsabilità europea di non avere saputo prevenire con una politica di integrazione l’inevitabile disgregazione nazionalista della costruzione titina – Pannella e Langer chiesero subito a gran voce ben un intervento militare internazionale per scongiurare l’esito genocida dell’offensiva serba contro i musulmani di Bosnia. Intervento che arriverà, ma tardivamente, solo dopo Srebrenica.

A dire il vero, anche gli interpreti e i teorici più sofisticati della nonviolenza hanno ritenuto di proporre (con il senno del poi possiamo dire: molto imprudentemente) una alternativa disarmata pure di fronte a rischi di eccidi indiscriminati. Si pensi a Gandhi che di fronte alla persecuzione nazista degli ebrei propose alla fine degli anni ’30 una strategia di resistenza nonviolenta. Ma anche Gandhi, nella sua intransigenza, fu sempre più laico dei passati e presenti pacifisti anti Nato e anti Occidente, per cui le guerre sono tutte ugualmente sbagliate e ingiuste, da qualunque parte le si guardi o le si combatta.

Gandhi sosteneva esattamente il contrario: che «anche quando entrambe le parti credono nella violenza, spesso la giustizia si trova da una delle due parti» e che «chi crede alla nonviolenza» non soggiace comunque «alla proibizione di aiutare uomini e istituzioni che non operano sulla base della nonviolenza».

Qualcosa di molto diverso e per certi versi di opposto, come si vede, dal pacifismo senza se e senza ma contro le “guerre americane” e dai peana commossi alla resistenza anti-imperialista. Pacifismo che oggi non è solo di sinistra, ma, poco sorprendentemente, anche e soprattutto di destra.

Cofferati: «La libertà va difesa. Che sinistra è quella che non è solidale con il popolo aggredito?». Maria Teresa Meli su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

Gli ucraini, oggetto di «un’aggressione violentissima da parte della Russia», «vanno aiutati anche con le armi». Sergio Cofferati ne è convinto. L’ex leader della Cgil, poi sindaco di Bologna ed eurodeputato, non comprende le perplessità di quanti, a sinistra, puntano l’indice contro l’Occidente che sta aiutando l’Ucraina militarmente. Come la senatrice , Cofferati non crede alla teoria dell’equidistanza tra Ucraina e Russia, che sembra invece fare presa in una certa sinistra, nella maggioranza degli iscritti all’Anpi, in una parte del Movimento 5 Stelle e nella Cgil.

Cofferati, quindi secondo lei è giusto mandare le armi al presidente Zelensky ? « Non capisco la contrarietà al fatto che i Paesi dell’Unione europea e, di conseguenza, anche l’Italia, abbiano dato le armi agli ucraini: senza come fanno a difendersi? Pensiamo al nostro passato, alla Resistenza : senza gli aiuti, le armi e l’intervento di altri Paesi non ci saremmo mai liberati dal fascismo e dal nazismo».

Però in un pezzo della sinistra, e non solo, visto che un atteggiamento simile si riscontra anche in una parte dei 5 Stelle, prevale la logica dell’equidistanza tra Russia e Ucraina. « L’equidistanza viene giustificata con argomenti assurdi: perché questa guerra terribile termini, come tutti vogliamo, bisogna evitare che i russi si impadroniscano dell’Ucraina. Anche l’efficacia delle sanzioni, che deriva dalla loro qualità e dalla determinazione con la quale si mettono in campo, viene rafforzata se in parallelo si aiuta la resistenza ucraina».

Anche aiutare il presidente ucraino Zelensky con le armi. «Io rispetto l’opinione di tutti, ma non sono per nulla d’accordo con questa posizione. Guardando al comune passato, a quello dei nostri genitori, o dei nostri nonni, non si può non arrivare alla conclusione che libertà e democrazia vanno difese a tutti i costi».

Ma c’è anche chi in questi giorni difficili va sostenendo che gli ucraini dovrebbero arrendersi. Solo così, viene spiegato, riusciranno a salvarsi ed eviteranno altre morti. « L’idea della resa è priva di senso. Così finirebbero la democrazia e la libertà. Un’eventualità da scongiurare. Che sinistra è una sinistra che non è solidale con un popolo aggredito e che non cerca di aiutarlo in tutti i modi? Peraltro non è affatto detto che se cedessero su questi diritti — la democrazia e la libertà — gli ucraini avrebbero salva la vita. Gli esempi del passato ce lo dimostrano: se non sei d’accordo, se sei un dissidente, ti privano anche della vita o quanto meno te la rendono molto difficile».

Che cosa pensa della reazione che ha avuto l’Unione europea nei confronti della Russia e della sua aggressione all’Ucraina? «In queste settimane l’Europa ha dimostrato una compattezza e una coerenza non scontate, tanto più se si pensa ai rapporti economici e diplomatici che alcuni Paesi della Ue avevano con la Russia. Ora bisogna andare avanti con la stessa coerenza guardando al futuro: bisogna cambiare i trattati, riscriverli, e fare in modo che l’Europa diventi quella immaginata dai padri fondatori, perché attualmente non è così. Non ci possono più essere nella Ue politiche produttive ed economiche diverse. Lo stesso dicasi per quanto riguarda la materia fiscale. Su questi temi che sono fondamentali non si può intervenire solo se c’è l’unanimità, come avviene adesso. Si decida a maggioranza, anche assoluta, ma si cambi, altrimenti non si va da nessuna parte».

L'annuncio di Fulvio Abbate. Tifano per Putin, lascio l’associazione dei partigiani: certa sinistra era pure col boia Milosevic. Fulvio Abbate su Il Riformista il 26 Marzo 2022.  

Non rinnoverò, anzi, riconsegnerò la tessera dell’Anpi. D’ora in avanti coltiverò l’antifascismo e la memoria resistenziale lontano da ogni sigla, sigillo ufficiale, in assoluta solitudine, servendomi in modo pienamente autarchico degli strumenti che accompagnano la memoria storica e “civile” necessaria. In perfetta coscienza – perdonate l’insostenibile retorica – dei principi per nulla sindacabili di giustizia, libertà, e di rivolta. Possibilmente, poeticamente facendo ricorso alle invettive di Pier Paolo Pasolini, le stesse che vivono ormai nell’astuccio ideale dell’elegia politica, come i versi di “Vittoria”, scritti nel 1963, all’indomani del varo del primo governo di centrosinistra, quando un giornale titolò “Da oggi ognuno è più libero”, dove, immaginando i partigiani mentre lasciano le proprie tombe: “Vorrei vedere chi ha il coraggio di dirgli che l’ideale che arde segreto nei loro occhi è finito, appartiene ad altro tempo, che i figli dei loro fratelli da anni ormai non lottano più, e la storia crudelmente nuova, ha dato altri ideali, li ha quietamente corrotti…”.

Le ragioni della scelta di riconsegnare la tessera, già manifestata qualche settimana fa, dopo le prime dichiarazioni sul conflitto russo-ucraino ai miei occhi non meno ambigue e discutibili, vengono ora sollecitate e rese definitive dalle dichiarazioni non meno irricevibili del presidente dell’Anpi, Gianfranco Pagliarulo, pronunciate a Riccione durante il congresso annuale dell’organizzazione. In nome di una propria legittima nozione di pacifismo, l’Anpi ritiene che non si debbano rinviare armi ai combattenti della resistenza ucraina, così infatti leggo: “La condanna dell’invasione è irrevocabile ma dobbiamo cercare di capire il contesto e le cause che hanno prodotto la situazione attuale”. E ancora: “non per giustificare ipocritamente l’intervento russo ma per porre all’ordine del giorno questioni capitali: nuovo ordine mondiale, sistema di difesa collettiva, cooperazione, coesistenza pacifica. Per questo è un errore minimizzare la recente storia ucraina, dalle formazioni naziste ucraine alla Crimea, al Donbass, alle interferenze russe, al ruolo di Ue, Nato e Stati Uniti. Sbaglia chi guarda l’albero ma non vede la foresta”.

Nell’autobiografia, “Confesso che ho vissuto”, il poeta e diplomatico “comunista” cileno Neruda, con intento di stigmatizzare il poeta dell’Indicibile Rilke, così afferma: “In tempo di guerra parlare di alberi è un crimine”. Chi l’ha detto? Non è vero, anche nell’abisso di un rifugio dove ci si ripara dalle granate, è giusto sia coltivato l’incanto. L’albero e la foresta che personalmente vedo davanti a me, al di là d’ogni possibile-improbabile simmetria tra la resistenza italiana al nazifascismo e l’attuale lotta che degli ucraini contro gli invasori russi, mostra innanzitutto con chiarezza assoluta un popolo e uno stato sovrano aggrediti da un esercito criminale che si è reso nemico, così come è inequivocabilmente propria di un criminale di guerra la condotta politica e militare di Vladimir Putin. In questi casi, il proprio luogo è ora e sempre l’aggredito, anche con le armi, a maggior ragione se, come sempre più appare evidente, la resistenza ucraina appare già vittoriosa sull’infamia russa.

Il pacifismo, sì, in questo caso è fuori contesto, il tema è la salvezza, dove le armi hanno un valore difensivo. Ogni altra opzione appare a me riverbero di una subcultura che certo segmento della sinistra ha coltivato nel tempo e che evidentemente ancora adesso ama coltivare, allo stesso modo di chi anni addietro assumeva come proprie le parti di un boia, Milosevic, perché chissà come vi ravvisava comunque l’eco familiare delle sue bandiere. Comprendo che ad alcuni il blu e il giallo ucraino possano sembrare un corpo cromatico estraneo, non è però il mio caso.

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Salvini e Meloni? I partigiani pro-Putin dichiarano guerra ai due leader: gli insulti dell'Anpi. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

E giustamente, anziché prendersela con Putin, i partigiani (o ciò che resta di loro) decisero di prendersela con Meloni e Salvini. Piuttosto che attaccare senza se e ma un autocrate ex comunista, sferrarono l'attacco contro i temibili "estremisti di destra" di Lega e Fratelli d'Italia. Non è la prima volta che l'Anpi sbaglia bersaglio, anzi si può dire che abbia un talento particolare in quest' ambito. Ma pare grottesco, mentre impazza un conflitto a rischio mondiale e nucleare, che stiano lì a parlare di minaccia neofascista in Italia, rappresentata peraltro da due partiti stravotati e pienamente legittimati a stare in Parlamento: farlo significa essere miopi, oltreché ideologicamente ossessionati. Qualcuno lo ricordi a Gianfranco Pagliarulo, il presidente dell'Anpi, che ieri, in occasione dell'imperdibile congresso dei partigiani a Riccione - "sotto il sole, sotto il sole (dell'avvenire) di Riccione", canterebbero i Thegiornalisti - ha mostrato la sua vera preoccupazione in questa fase storica: la crescita dei partiti sovranisti. «In Italia», ha avvertito il presidente Anpi, «registriamo la forza dei due partiti di estrema destra, simili ma in perenne competizione (Fratelli d'Italia e Lega, ndr). Preoccupa che oramai da circa due anni i sondaggi elettorali diano alla somma dei due partiti una percentuale più o meno del 40%». Si chiama democrazia, Pagliarulo, ma da buon "democratico" deve averlo dimenticato... Il presidente Anpi non si ferma qui, perché vede nero ovunque, come Zucchero nella canzone. «Inquieta ancora di più», continuava ieri, «l'insieme di collegamenti con formazioni neofasciste i cui rappresentanti ritroviamo eletti nelle liste dei due partiti sovranisti, in particolare Fratelli d'Italia. Il legame delle persone elette in questo partito con il Ventennio è conclamato».

REDUCTIO AD HITLERUM

Conclamato? Pagliarulo deve essersi perso le intemerate della Meloni contro ogni forma di "dittatura" passata e presente, da quella di Putin (da lei condannata senza titubanze, a differenza dell'Anpi) a quella del politicamente corretto. Ma si è perso soprattutto le sue parole nette di condanna di ogni deriva nostalgica: «Non c'è spazio per razzismo e antisemitismo nel mio partito», ripete da tempo Giorgia. La quale ieri, in occasione dell'anniversario della strage delle Fosse Ardeatine, ha definito quell'eccidio «una delle ferite più profonde della storia nazionale». Ma niente, per l'Anpi ottusa, destra significa ancora nazi. Eccola là, la patetica reductio ad hitlerum. Ma la cosa più curiosa è che, nei confronti della vera minaccia, Putin, Pagliarulo fa invece tutti i distinguo possibili. «Dobbiamo cercare di capire il contesto e le cause che hanno prodotto la situazione attuale», diceva ieri, pur definendo «la condanna dell'invasione irrevocabile».

E ancora, a dimostrazione che la sua condanna non era proprio irrevocabile, aggiungeva: «È un errore minimizzare la recente storia ucraina, dalle formazioni naziste ucraine al ruolo di Ue, Nato e Usa». E già, perché nazi e Nato sono una cosa sola, per l'Anpi. Parimenti è singolare il cortocircuito per cui gli eredi dei partigiani, che pure combatterono con le armi, non accettano l'invio di munizioni a Kiev («Così si alza il livello della tensione internazionale», ha detto Pagliarulo) e rifiutano l'analogia coi resistenti ucraini. «È un po' forzato il paragone tra ucraini e partigiani», diceva ieri Fabrizio De Sanctis, presidente dell'Anpi di Roma, «perché paragoniamo due periodi storici differenti: allora si combatteva anche per la pace». Già, invece oggi si combatte per la guerra eterna... Ma è inutile stare troppo a cavillare. Il problema è che, per l'Anpi, i combattenti ucraini sono tutti nazisti. Insomma, anche in Ucraina il pericolo non è mica Putin, ma la crescita dell'estrema destra. 

Mirella Serri per “la Stampa” il 25 marzo 2022.

«Ucraina nazista», «denazificare l'Ucraina». Putin lo ripete a ogni piè sospinto: il progetto politico dell'«operazione militare speciale» ha, tra le sue motivazioni più urgenti, quella di «smantellare il pensiero neonazista degli ucraini». Lo ha gridato il nuovo zar anche nella kermesse allo stadio di Mosca: bisogna fermare il genocidio compiuto dal «nazista» Zelensky. Poco importa che il presidente ucraino venga da una famiglia di origine ebraica, che alcuni suoi parenti siano stati vittime della Shoah. 

Come mai l'autocrate russo si riempie la bocca parlando della minaccia nazista che sarebbe rappresentata dagli ucraini? E come mai usa questo argomento come uno degli elementi fondamentali nella sua strategia di informazione (o disinformazione)? Innanzitutto l'evocazione della lotta contro i seguaci di Mussolini e di Hitler rimanda al successo della guerra patriottica contro l'Asse nazifascista che per i russi costituisce un elemento unificante e basilare per l'identità nazionale. 

La parola nazista, inoltre, è un ammiccamento alle piazze, ai politici e agli intellettuali di tutta Europa, in particolare a quelli italiani del «né né», «né con Putin né con la Nato», e rammenta che stare con Putin vuol dire stare dalla parte giusta della storia, essere antifascisti e antinazisti. Infine lo slogan della «denazificazione» dell'Ucraina richiama al popolo russo, inclusa quella parte meno colta e priva di una memoria storica, un tema ricorrente nei libri di scuola, enunciato nelle aule e che risuona nei dibattiti.

L'appellativo di nazista viene rivolto agli ucraini da più 70 anni, segna la storia dei rapporti russo-ucraini dalla fine della seconda guerra mondiale. 

È un richiamo propagandistico che affonda nella falsificazione della memoria. Terminato il secondo conflitto mondiale, l'Ucraina fu considerata negli anni dell'Impero del male come il più terribile covo di ribelli, il cuore fascista dell'Urss. 

Come mai? Ogni più piccolo segnale di dissenso o di critica espresso dagli abitanti di questo Paese fu designato come il verbo dei «disfattisti», dei nemici e dei «controrivoluzionari». Gli ucraini erano rei di essersi ribellati, prima alla collettivizzazione di Lenin e poi al diktat di Stalin che negli anni 30 aveva perseguitato i kulaki, i contadini che coltivavano la terra con lavoratori alle loro dipendenze. Ma nel secondo dopoguerra non erano «fascisti» solo per questo. Durante l'occupazione nazista le armate di Hitler sterminarono circa 1,6 milioni di ebrei ucraini.

Al termine, nella seconda metà degli anni 40, i cittadini ucraini s' illusero di poter dare testimonianza delle atrocità di cui erano stati vittime tra il 1931 e il 1932: nelle loro drammatiche traversie, infatti, non c'era da ricordare solo la ferocia nazista ma anche l'Holodomor, la carestia che, provocata intenzionalmente da Stalin, causò milioni di morti. Il sogno ucraino di raccontare tutto durò poco: dall'autunno del 1945 venne sbattuto in prigione chiunque in Ucraina pensasse di portare alla luce le proprie memorie. Il divieto di parlare venne in parte aggirato da ricerche storiche sulla carestia e sui morti di stenti finanziate dagli emigrati ucraini.

Solo nel 1991 venne fatta chiarezza: il Partito comunista dell'Ucraina riconobbe, prima che si dissolvesse l'Unione Sovietica, che la carestia era stata dovuta a «un percorso criminale seguito da Stalin e dalla sua cerchia più stretta» anche perché temeva di «perdere» questo Stato che con la sua forte vocazione all'autonomia e il suo sguardo rivolto all'Europa era una minaccia per l'Urss e per il suo stile di vita. 

L'epiteto spregiativo per gli ucraini, nazisti, tornò in grande spolvero nel 2010, dopo che il filorusso Viktor Janukovy divenne presidente del paese. Di nuovo chi voleva ricordare la tragedia della morte per fame fu chiamato nazista e Putin bloccò in Russia le ricerche d'archivio. Nel 2014 i media russi definirono i militari che invasero la Crimea e l'Ucraina orientale «patrioti separatisti» in lotta contro «i fascisti e i nazisti ucraini».

Il governo russo ripercorre ancora oggi le orme di quello sovietico. Parte dell'intellighenzia e dei politici italiani che sposano la causa del «né né» fingono di credere che l'appellativo nazista sia stato attribuito al popolo ucraino solo di recente, cioè da quando hanno ripreso fiato nel paese formazioni di estrema destra come il noto battaglione Azov. 

Ma chiamare gli ucraini nazisti per via di queste presenze è una metonimia: la parte non vale per il tutto ed equivarrebbe a dire che le nazioni democratiche in cui esistono frange simili devono essere «defascistizzate». Putin, trasformando gli ucraini in «nazisti» per antonomasia, ha fatto un'abile operazione di disinformazione. Un falso che attraversa i decenni e che guida la mano di chi preme il bottone dei missili russi.

Alessia Rastelli per il “Corriere della Sera” il 25 marzo 2022.

«Un'aggressione immotivata e ingiustificabile contro la sovranità dell'Ucraina», di fronte a cui «non è concepibile alcuna equidistanza». Così ieri la senatrice a vita Liliana Segre sulla guerra tornata in Europa, a proposito della quale, aggiunge, «possiamo solo unirci per chiedere un immediato cessate il fuoco». 

La senatrice a vita parla in un videomessaggio al Congresso nazionale dell'Associazione nazionale partigiani d'Italia (Anpi), in corso a Riccione. Un tema dolorosissimo quello dell'attuale conflitto, sul quale ha faticato finora a esprimersi, lei che ha vissuto la Seconda guerra mondiale e l'orrore della Shoah.

«Il conflitto assurdo e sanguinoso - dice nel suo intervento -, che all'improvviso è tornato a sconvolgere il cuore dell'Europa, provoca in me un orrore che non è facile descrivere: quelle bombe sulle case, quelle famiglie in fuga, quei padri che baciano i figli forse per l'ultima volta e tornano indietro per combattere... quanti ricordi di un terribile passato, che non avrei mai immaginato di rivedere così vicino».

Quindi, per interpretare quanto sta accadendo, la senatrice si affida alla Costituzione italiana, alla quale è ispirato il Congresso dell'Anpi: «Anche rispetto a questa mostruosità della guerra - spiega Liliana Segre - la nostra Carta ci offre una guida sicura, se riusciamo a declinare in chiave universale i suoi precetti». 

Come fa lei, proseguendo il ragionamento: «L'aggressione immotivata ed ingiustificabile contro la sovranità dell'Ucraina - chiarisce - rappresenta proprio l'esempio evidente del tipo di guerra che, più di ogni altro, l'articolo 11 della Costituzione ci insegna a "ripudiare": la guerra come "strumento di offesa alla libertà degli altri popoli".

E la resistenza del popolo invaso rappresenta l'esercizio di quel diritto fondamentale di difendere la propria patria, che l'articolo 52 prescrive addirittura come "sacro dovere"». Dunque, continua, «non è concepibile nessuna equidistanza; se vogliamo essere fedeli ai nostri valori, dobbiamo sostenere il popolo ucraino che lotta per non soccombere all'invasione, per non perdere la propria libertà». 

Con una precisazione significativa per lei che fu detenuta nel lager di Auschwitz liberato dall'Armata rossa, e che vide con i suoi occhi, a un certo punto, gli eserciti americano e sovietico, allora dalla stessa parte, congiungersi: il sostegno agli ucraini «non può e non deve significare inimicizia nei confronti del grande popolo russo, anzi. Anche quest' ultimo subisce le conseguenze nefaste delle scelte e della condotta disumana dei suoi governanti. Condotta che reca offesa alla memoria dei 20 milioni di caduti dell'Unione Sovietica - dunque russi e ucraini insieme - nella guerra vittoriosa contro il nazifascismo». Infine, conclude la senatrice, «credo che proviamo tutti lo stesso senso di ripugnanza, di angoscia e anche di impotenza di fronte a questa guerra.

Possiamo solo unirci nel chiedere un immediato cessate il fuoco, la fine dell'invasione russa, l'invio di rapidi aiuti alla popolazione civile, l'avvio di trattative a oltranza, l'affidamento all'Onu di un ruolo di interposizione, il ristabilimento di una pace autentica basata sulla giustizia e il rispetto dei diritti dei popoli». Con un augurio finale all'Anpi perché possa essere «sempre più presidio della nostra democrazia, testimoniando ora e sempre i valori della Resistenza, della Costituzione e della pace».

Fabrizio Roncone per il “Sette - Corriere della Sera” il 25 marzo 2022.

Ho scoperto con stupore che, sulla guerra in Ucraina, la posizione del segretario generale della Cgil Maurizio Landini e tremendamente vicina a quella del cantante Povia, noto per la canzone dei “bambini fanno ooh” e per le sue teorie bizzarre e destrorse (no vax convinto, accusato di xeno-fobia, si batte contro i diritti LGBTQ+, crede alle scie chimiche e pensa che i terremoti siano provocati da noi abitanti quando ci spostiamo).

Landini sostiene che sia sbagliato inviare armi agli ucraini, «perche su quel territorio c’e un conflitto impari in termini di forze: quello che ha invaso l’Ucraina e uno degli eserciti piu potenti del mondo... e pensare che armando gli ucraini si sconfigga Putin e un atto di cinismo, perche prolungare il conflitto non porta al negoziato» (da un’intervista a La Stampa).

Povia e piu ruvido, ma il succo e lo stesso (a Non e l’arena, su La7): «Non possiamo pensare che una formica, l’Ucraina, combatta un elefante, la Russia. Percio Zelensky dovrebbe abdicare al trono, subito».

Il bello di vivere in un Paese libero come l’Italia e che ognuno puo dire la sua, anche davanti a un conflitto dove c’e chiaramente un aggredito e un aggressore che bombarda i civili, gli ospedali pediatrici e minaccia l’intera Europa. 

Landini (Povia, vabbe) si ostina purtroppo a non capire che la resistenza, le sanzioni e l’isolamento internazionale sono gli unici strumenti di pressione in grado di costringere Putin a un tavolo della pace.

E comunque: se pure smettessimo di inviare armi, gli ucraini resisterebbero a prescindere, anche lanciando solo sassi contro i tank. E poi, segretario: da queste parti s’e sempre saputo che essere di sinistra vuol dire stare con i deboli e gli oppressi.

E un’altra cosa ancora: crede forse che se i nostri partigiani avessero aspettato i rastrellamenti delle SS sventolando le bandiere arcobaleno, lei ogni 25 aprile potrebbe salire su un palco a festeggiare la Liberazione e cantare Bella ciao?

Le nostre brigate sparavano con gli armamenti paracadutati dagli alleati, con i mitra Thompson e Sten – quest’ultimo citato anche da Beppe Fenoglio in quel meraviglioso romanzo che e Il partigiano Johnny, lo rilegga. Per la liberta si combatte. Un popolo ha il diritto di combattere per difendersi. E chiedergli di arrendersi e immorale. 

L’azzardo della marcia “pacifista” a Kjiv e la prudenza di Pannella in Croazia. Come ricorda la Farnesina, in Ucraina è in corso una guerra senza quartiere: si rischia non solo di diventare obiettivi, ma anche ostaggi. Valter Vecellio su Il Dubbio il 22 marzo 2022.

Ha sempre tenuto in somma considerazione, le tre virtù teologali: fede, speranza, carità; e le quattro cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza, considerandoli valori universali. Forse proprio per questo, era rispettoso dei credenti e al tempo stesso anticlericale senza concessioni. La prudenza, in particolare: Marco Pannella, guascone, avventurista, spericolato, provocatore, avventato, e quant’altro, al contrario si è sempre mosso con prudenza. Non con “calcolo”, inteso come interesse; piuttosto la sua era l’attenzione del giocatore di scacchi, consapevole che una volta mossa la prima pedina, si deve subito prevedere come reagirà l’avversario, parare e anticipare le sue, di mosse; e sfruttare le “distrazioni”, gli “errori”: i “varchi”. Se una cosa aborriva era la “testimonianza”, il gesto per il gesto; fissava degli obiettivi e li perseguiva con metodo. Le sette virtù, appunto.

Si ricorderà quel suo lungo e penoso sciopero della fame e della sete, dove giunge a bere, davanti alle telecamere, la sua urina, “il prodotto del suo corpo”, così da guadagnare le ore necessarie per raggiungere l’obiettivo prefissato. Prudentemente quell’urina è stata “prodotta” prima di cominciare l’azione nonviolenta, nella previsione di essere costretto a ricorrere a quell’estrema mossa. In altra occasione alcuni compagni decidono di intraprendere anche loro uno sciopero della sete. Non nasconde la sua preoccupazione, impone che il gruppo dei digiunatori stazioni in permanenza nella sede del Partito Radicale, “per non perderli d’occhio”, vuole che oltre al costante controllo medico, l’azione non si prolunghi oltre le 48 ore. Pannella dunque, misura e calcola le sue forze, le risorse, fino a quando ci si può spingere; quando è opportuno fare una concessione, e un passo indietro.

Molti ricordano ora ricordano quando, dopo settimane di digiuno, una quantità di interrogazioni parlamentari, assieme all’allora segretario del Partito Radicale Olivier Dupuis trascorre il capodanno nelle trincee di Osijek con indosso la divisa dell’esercito croato; ma allora era silenziata la sua voce, il suo invocare che la politica aggressiva e assassina di Slobodan Milosevic fosse fermata a ogni costo. Oggi il contesto è differente. Non c’è una pubblica opinione apatica, tecnicamente ignorante. Oggi si assiste a una reazione decisa e ammirevolmente compatta, sia pure tardiva, alla guerra sanguinosa scatenata da Putin e dalla sua cricca di tagliagole. Ha dunque senso accorrere a Kijv, da inerti più che da inermi, e offrirsi quali “scudi umani”? Si può pensare che al Cremlino, impegnati come sono in una guerra di terrore che non risparmia bambini, disabili, anziani, donne, si facciano scrupolo di occidentali accorsi generosamente per interporsi tra i combattenti? Si auspica che possano essere a migliaia a marciare per la pace. E quelle migliaia, ove tali diventassero, con quale “prudenza” verrebbero convogliate, e ammassate in quelle zone? Non è una scampagnata di fine settimana; è come scalare l’Everest con scarpe da ginnastica. Se “qualcosa” accade, poi?

Certo: sono accorsi per qualche ora i leader di Polonia, Repubblica Ceca e Slovenia. Il primo ministro ceco Petr Fiala, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki, il vice primo ministro polacco Jaroslaw Kaczynski e il primo ministro sloveno Janez Janša si sono incontrati con il presidente Volodymyr Zelensky, in rappresentanza del Consiglio Europeo; ma è stata una missione politica, non solo visita di solidarietà: rischiosa, ma non arrischiata; preparata, con la stessa prudenza che animava Pannella: senza andare allo sbaraglio, senza mandare allo sbaraglio persone animate indubbiamente da ottime intenzioni ma che in questo modo rischiano tuttavia di produrre più danni di benefici.

Generosa la parola d’ordine: “Tutti in Ucraina, usiamo i nostri corpi per fermare le bombe”; ma è da irresponsabili il voler portare, come si annuncia e promette, migliaia di persone a Kjiv. Bene fa la Farnesina a ricordare che in Ucraina è in corso una guerra senza quartiere, che c’è il concreto rischio non solo di diventare possibili obiettivi, ma anche, letteralmente, ostaggi. È questo che ci chiedono gli ucraini? Se si vuole visivamente e fisicamente portare solidarietà al popolo ucraino, forse è meglio organizzare manifestazioni a Mosca e nelle altre città russe (senza prima annunciarle), e unirsi ai tanti che in queste ore sfidano coraggiosamente la dittatura e dicono il loro NO alla guerra scatenata da Putin: a fianco di Marina Ovsyannikova, la giornalista della televisione di Stato russa che si ribella e riesce a mostrare in diretta, durante l’edizione serale del telegiornale più seguito, un cartello con scritto: «No» alla guerra in inglese; e in russo: “Non credete alla propaganda, qui vi stanno mentendo”; di Anna Nemzer, la giornalista russa che dichiara pubblicamente: “Dovevamo capire che Putin è un assassino. Adesso però ribelliamoci”; di Svetlana Gannushkina, 80 anni, leader del Comitato di assistenza civica, da anni impegnata per l’affermazione dei diritti umani; più volte candidata al premio Nobel per la pace, manifesta contro la guerra in Ucraina, e viene fermata vicino alla stazione della metro Teatralnaya, al centro di Mosca. Rilasciata, torna a manifestare; nuovamente fermata; di Elena Chernenko, corrispondente di “Kommersant”, organizza una lettera aperta contro la guerra in Ucraina. “Non c’è alcuna giustificazione per la guerra… le azioni militari… non risolvono e non hanno mai risolto i problemi”, si legge nel testo, firmato da 200 giornalisti. Il comportamento della Chernenko viene definito dalle autorità moscovite “non professionale” e le viene impedito di lavorare; di Elena Kovalskaya, direttrice del Teatro statale e Centro Culturale Vsevolod Meyerhold di Mosca: si dimette dagli incarichi per protesta contro l’invasione dell’Ucraina. Definisce Putin un assassino: “È impossibile lavorare per lui e da lui riscuotere uno stipendio…”.

Reductio ad Putinum. “Si vis pacem, para pacem” e le abusate massime latine sulla guerra. Francesco Lepore su L'Inkiesta il 23 Marzo 2022.

Citare l’espressione “Se vuoi la pace, pianificala” in una guerra già guerreggiata è un modo contraddittorio e ipocrita di rifarsi alla saggezza degli antichi romani. Come ricorda Agostino, la pace non è assenza di guerra ma tranquillitas ordinis e non si può ottenere senza la tutela dei beni delle persone.

Non può che far piacere il ricorso al latino, lingua non solo negletta ma anche bistrattata, per argomentare opinioni personali e sintetizzarle in tempi drammatici come quelli attuali. Il riferimento non è certamente alla citazione di Leo Strauss Reductio ad Hitlerum, su cui s’è recentemente esemplata quella di Reductio ad Putinum, sia per la specifica fallacia logica da esse designate sia per la pedantesca quanto mendosa latinizzazione dei moderni cognomi. Cui invece, sia ben chiaro, il celebre filosofo tedesco-americano d’origine ebraica fece ricorso con consapevole ironia nel coniare l’espressione 71 anni fa. 

Ci si riferisce al contrario all’usata e trita massima Si vis pacem, para pacem in gran rispolvero da quando è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina. La si legge o la si sente ripetere ovunque, dai social ai salotti televisivi, in nome d’un pacifismo tout court non di rado accompagnato più da cauti tentativi giustificatori di Vladimir Putin che da condanne nette per le sue operazioni miliari – come lo stesso emulo di Pietro il Grande vuole le si chiami – e da empatia per vittime resistenti. Aggettivo, questo, non declinabile per il popolo ucraino secondo la filosofa televisiva Donatella Di Cesare, che va cianciando di neomaccartismo da un talk show all’altro.

Non sia mai poi che si parli di resistenza, come se un tale lemma non avesse tra i suoi molteplici significati quello generico di «azione di difesa contro il nemico o l’avversario» e come se quello specifico di «movimento di opposizione agli oppressori» sia storicamente pertinente, nonché ammissibile nel suo aspetto di «lotta armata», solo in relazione a quanto si determinò durante il secondo conflitto bellico mondiale in Paesi occupati da nazisti e da fascisti.

Questo non significa affatto deprezzare l’altissimo motto Si vis pacem, para pacem, letteralmente traducibile in Se vuoi la pace, prepara la pace o, più liberamente, in Se vuoi la pace, pianificala. Ma piuttosto evidenziarne il contraddittorio e alquanto ipocrita utilizzo in una guerra già guerreggiata. Guerra violenta e d’aggressione senza soluzione di continuità con quella in atto dal 6 aprile 2014 nel Donbass che, strettamente collegata con la crisi di Crimea e caratterizzata da efferatezze anche da parte ucraina come la strage d’Odessa, non aveva finora suscitato alcun interesse né manifestazione pacifista di sorta in Occidente. Orbene, la pace se la si vuole fortemente, come si grida giustamente in tante piazze italiane ed europee, bisogna appunto prepararla. Altrimenti si ridurrà il bel detto latino a mero slogan depauperato di contenuto.  

Il ripercorrerne la genesi storica potrebbe aiutare a fugare tale pericolo, a essere più guardinghi nell’uso, a trarre valide lezioni per la costruzione d’una pace che sia veramente tale. Esemplato con significato rovesciato sul più noto Si vis pacem, para bellum (Se vuoi la pace, prepara la guerra) – riformulazione della pericope «Igitur qui desiderat pacem, praeparet bellum» tratta dal III libro dell’Epitoma rei militaris di Vegezio –, è per la prima volta attestato con sicurezza il 2 aprile 1841 in una lettera del sansimonista Barthélemy-Prosper Enfantin al generale Saint-Cyr Nugues. Si era nel pieno della seconda campagna francese contro Abd al-Qadir in Algeria, dove secondo il riformatore parigino alcune cause della sanguinosa e diuturna guerra «si sarebbero potute evitare» proprio applicando il detto Si vis pacem, para pacem. Non famoso come quello vegeziano ma in generale più «veritiero per il XIX secolo», si sarebbe potuto concretare per la specifica pianificazione e realizzazione della pace in Algeria attraverso una «conoscenza più perfetta del paese, delle sue risorse, dei costumi degli abitanti, del clima, dei luoghi e delle stagioni buone o cattive, in una parola se lo si fosse studiato». 

Sia pur nella volgarizzazione inglese If you wish for peace, prepare for peace, se ne ha indicazione come «massima universalmente citata» già nel 1862, quando il politico ed economista britannico John Noble dava alle stampe il profetico opuscolo Arbitration and a Congress of Nations as a Substitute for War in the Settlement of International Disputes non senza criticare una diffusa ipocrisia nell’utilizzo e insistere sulla dimensione preparatoria della pace. Uno dei primi autorevoli testimoni italiani dell’originale formulazione in latino sarebbe stato Filippo Turati, che nel celebre discorso La vertigine degli armamenti e le riforme sociali, tenuto alla Camera il 12 giugno 1909, avrebbe detto: «Il famoso si vis pacem, para bellum non è che un giuoco di parole da oracolo di Delfo. Torniamo, signori, al senso comune, che dice: si vis pacem, para pacem. Poniamo fine a questa vana follia della gara degli armamenti che estenua le nazioni; creiamo gli arbitrati; federiamo gli Stati; se altri non vuol dare l’esempio, e noi si cominci».

Ritornando ai nostri giorni, una corretta pista interpretativa del detto è rinvenibile nell’audiomessaggio con cui Cristiana Collu, direttrice della Galleria nazionale di Arte moderna e contemporanea (GNAM), ha spiegato l’installazione Peace sulla scalinata del museo romano. «Si vis pacem, para pacem. Se vuoi la pace prepara la pace, costruisci la pace. Non basta infatti – per citarne la parte iniziale – essere contro la guerra o semplicemente desiderare la pace, che non è una parentesi, anche se a guardare la storia può sembrare così. E la pace non è assenza di guerra: ma è una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia secondo le parole di Spinoza».

La pace, per l’appunto, non è assenza di guerra ma per citare Agostino è tranquillitas ordinis (tranquillità dell’ordine) e, come tale, non si può ottenere senza la tutela dei beni delle persone, il rispetto della loro dignità tanto come singole quanto appartenenti a un popolo, la pratica della giustizia, il diritto d’ogni singolo Stato di scegliere il proprio assetto economico, sociale, culturale senza per questo dover subire minacce, aggressioni, invasioni da parte d’un altro. Fosse anche in nome di presunte esigenze geopolitiche come sta accadendo in Ucraina. 

Non a caso il fermo rigetto della guerra e la riprovazione della corsa agli armamenti da parte di Francesco (mai così citato a sproposito dagli odierni maître-à-penser da tv), che considera quest’ultima un mezzo per aggravare anziché eliminare le cause dei conflitti bellici e insiste sulla prioritaria strada dei negoziati, non significa affatto per il pontefice della Fratelli tutti che un popolo – nel caso specifico quello ucraino – non debba difendersi quando ingiustamente aggredito e che debba cedere a una resa incondizionata.

Se domenica all’Angelus tornava a deprecare «la violenta aggressione contro l’Ucraina, un massacro insensato dove ogni giorno si ripetono scempi e atrocità» e a definirla «crudeltà disumana e sacrilega», ancora più chiaro è il suo pensiero nel messaggio indirizzato il 15 marzo a Gintaras Grušas, arcivescovo di Vilnius e presidente del Consiglio delle Conferenze episcopali europee: «Il grido straziante d’aiuto dei nostri fratelli ucraini – così Bergoglio – ci spinge come Comunità di credenti non solo a una seria riflessione, ma a piangere con loro e a darci da fare per loro; a condividere l’angoscia di un popolo ferito nella sua identità, nella sua storia e tradizione. Il sangue e le lacrime dei bambini, le sofferenze di donne e uomini che stanno difendendo la propria terra o scappando dalle bombe scuotono la nostra coscienza». 

Parole, queste, che sarebbe opportuno leggere in linea di continuità con il magisterium pacis di un predecessore quale Paolo VI, cui Francesco non ha fatto mai mistero di guardare come ispiratore. E in particolare con un passaggio del Messaggio per la VI Giornata della Pace (1° gennaio 1973), dove fra l’altro viene riportata la celeberrima frase Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant (Dove fanno il deserto, lo chiamano pace) tratta dall’Agricola di Tacito. «Ma – si chiedeva Montini – è questo residuo di vitalità, che possiamo dire vera pace, ideale dell’umanità? È questa modesta e prodigiosa capacità di ricupero e di reazione, è questo disperato ottimismo che può placare la suprema aspirazione dell’uomo all’ordine e alla pienezza della giustizia? Chiameremo pace le sue contraffazioni? Ubi solitudinem faciunt pacem appellant! (C. Tacito). Ovvero daremo a una tregua il nome di pace? A un semplice armistizio? a una prepotenza passata in giudicato? a un ordine esteriore fondato sulla violenza e sulla paura? oppure a un equilibrio transitorio di forze contrastanti? a un braccio di ferro nella tensione immobile di opposte potenze? Un’ipocrisia necessaria; di cui la storia è piena». 

Richiederebbe un’analisi a parte l’ampio ricorso alla sentenza tacitiana nella seconda metà del secolo scorso da parte di movimenti sia studenteschi sia pacifisti come slogan per riprovare l’imperialismo statunitense. Sentenza invece dimenticata, a parte qualche minima attestazione, per la guerra in corso. Viene da chiedersi se ci sia o meno imbarazzo a utilizzarla, come a riproporre il relativo passaggio del discorso di Calgaco, dal momento che se ne potrebbe dare una rilettura attualizzante per l’imperialismo putiniano e gli orrori in corso. Quod Deus avertat, sempre che lo si possa invocare.

Le parole del grande grammaturgo. L’uso della violenza militare: guerra e pace secondo Shakespeare. Filippo La Porta su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

È vero, l’Occidente si è coperto storicamente di innumerevoli misfatti (di cui il colonialismo costituisce l’emblema), e spesso ha tentato di glorificarli. Però l’Occidente stesso, più di qualsiasi altra civiltà, ha saputo criticare se stesso e denunciare quei misfatti. Ai miei occhi ciò è motivo di orgoglio quasi etnocentrico, anche se mi rendo conto che stabilire come criterio per valutare una civiltà quello della sua capacità autocritica rientra interamente nella nostra civiltà e non può avere pretesa universalistica.

All’origine della modernità c’è Machiavelli, esperto dell’arte della guerra e grande figura tragica (propone correttivi, non utopie!), che raccomanda al principe (Il Principe, 1532) perfino di eliminare i propri nemici, se non può indebolirli: la stabilità politica, la sopravvivenza dello stato – per consolidare un ordine sociale – giustifica qualsiasi mezzo (la guerra è qui il modello della politica, dove chi perde non ha salvezza).

Ma c’è anche Erasmo, per il quale (Querela pacis, 1517) una pace ingiusta è meno dannosa di una guerra giusta. Ora queste due posizioni le ritroviamo interamente nell’opera di Shakespeare, con un passaggio da una visione epico- eroica alla parodia, come ci mostra la studiosa Maria Valentini in un bel saggio sulla Guerra di Shakespeare, compreso nei Linguaggi della guerra, a cura di Valerio Magrelli (Spartaco 2009). Nei drammi storici della prima tetralogia (Enrico VI parte 1, 2, 3 e Riccardo III) il drammaturgo sostiene la causa patriottica dei Tudor, in quelli della seconda (Riccardo II, Enrico IV parte 1 e 2 ed Enrico V) abbiamo Falstaff che, dopo essersi finto morto in battaglia, sberleffa l’onore (“Cos’è l’onore? Aria”), al contrario del superguerriero Hotspur; e infine Troilo e Cressida, che decostruisce l’epica omerica (nel 1603, quando sale al trono Giacomo I, sovrano tendenzialmente pacifista).

Impressionante come nell’Enrico IV il re morente suggerisca al figlio di far dimenticare al popolo l’usurpazione che grava sulla corona dichiarando guerra a un paese straniero! Enrico V tematizza soprattutto la questione della guerra giusta, dunque autorizzata da Dio, di san Agostino (De civitate Dei) e san Tommaso (Summa theologiae). La guerra diventa “giusta” in quanto espressione di un volere divino perché fatta per riparare a una ingiustizia e per ristabilire pace ed equità (e anche perciò obbligatoriamente “giusta” anche nella forma, nella sua condotta, senza violenza gratuita e con misericordia – o se si preferisce con misura – senza uccidere i civili né i prigionieri, etc.). Ma scopriamo che l’arcivescovo di Canterbury benedice la guerra di Henry solo per opportunismo, e d’altra parte il conflitto con i francesi si macchierà di stupri e massacri insensati. Ma la scena più commovente della tragedia è quando il duca di Borgogna, dopo la pacificazione finale tra le parti, dirà: “al cospetto di tale reale adunata, / chiedo per quale ostacolo o impedimento / la pace, ignuda, povera e martoriata, /la tenera nutrice di arti, raccolti, e fecondità gioiosa / non debba nel più bel giardino del mondo, la nostra Francia ferace, mostrar le sue liete fattezze”. E ancora: “i nostri figli, noi stessi / abbiam perduto, o non troviamo il tempo di coltivare, /le scienze che dovrebbero ornare il nostro paese, / ma veniam su come selvaggi – come soldati /che non fan nulla se non pensare al sangue – torvi, imprecanti e malvestiti, /e imbarbariti in modo innaturale”.

In Troilo e Cressida mi sembra definitivo il commento del dissacratore Tersite, che parlando con Achille e Patroclo, così definisce il “pretesto” della guerra di Troia: “Che truffa, che furfanteria, che speculazione! E tutto per una puttana e per un cornuto”. La tragedia, che somiglia spesso a una commedia, ha al proprio centro – come giustamente annota Maria Valentini – la corruzione, il disfacimento (il trionfo del caso), l’infezione, una decomposizione morale e metafisica. Ma va segnalato anche il discorso di Amleto nel IV atto: “”dormo, e a mia vergogna / qui ventimila uomini s’accostano,” per una fantasia o per uno scherzo / della fama, alla tomba come a un letto”. / per un palmo di terra”(precedentemente aveva detto “anche per un guscio d’uovo”). Shakespeare irenico e pacifista? Sarebbe anacronistico affermarlo. Però la sua opera è attraversata dall’intera gamma delle posizioni sulla guerra: da una parte unico mezzo per correggere una ingiustizia e ristabilire un ordine infranto, dall’altra come orrore perlopiù immotivato, pretestuoso, qualcosa di innaturale che imbarbarisce gli esseri umani (riecheggiando il pensiero di umanisti come Erasmo e Tommaso Moro). Il lettore, a proposito della guerra, potrà sentirsi Amleto e il duca di Borgogna che guardano i combattimenti con scetticismo e orrore, o anche parteggiare per qualche sovrano impegnato nella sua giusta guerra per ristabilire il diritto, però da Shakespeare si ricava la convinzione che ogni cosa può essere vista da molte prospettive, e proprio questo è alla base del dialogo. Ognuno di noi ha oscillato tra Hotspur (sincero ma insopportabilmente retorico) e Falstaff (arguto epperò amorale), forse con una lieve propensione per quest’ultimo.

Ora, dopo i 60 milioni di morti della Seconda Guerra Mondiale l’umanità ha definitivamente perduto l’innocenza. La violenza, implicata nella modernità stessa (si pensi solo alle tante e sacrosante rivoluzioni che l’hanno scandita) può ancora rientrare in un orizzonte civile democratico? Sono cresciuto con il mito della Resistenza, da cui nasce la nostra repubblica (solo perciò esito a invitare alla resa chi intende resistere avendo una mattina “trovato l’invasor”!). Ho appoggiato qualsiasi lotta di liberazione, ad ogni latitudine (perfino il Fronte Belisario del Sahara, di cui continuo a sapere pochissimo), e avrei disprezzato chiunque avesse consigliato ai vietcong di arrendersi, soltanto per ridurre il numero di morti (ecco, mi piacerebbe che quanti aderiscono, legittimamente, a un pacifismo integrale, ricordassero più spesso questa loro “educazione sentimentale”). Però oggi solo a sentir parlare di “violenza emancipativa” vengono i brividi. Forse l’interrogativo centrale resta questo, anche in termini machiavellici: se non resisti ai violenti e agli “scellerati”, questi prevarranno: ma se li vinci con mezzi “scellerati”, chi davvero vince alla fine? Nei personaggi di Shakespeare, terribili e ridicoli, tragici e comici, codardi ed eroici, sospesi tra saggezza e follia, si rispecchiano i nostri dilemmi senza vera soluzione. Filippo La Porta

La guerra alla verità. I pacifisti difenderanno ancora Putin ora che le bombe russe devastano l’Ucraina? Iuri Maria Prado su Linkiesta il 22 Marzo 2022.

Quelli che hanno chiesto la resa degli ucraini in nome della pace non hanno detto una parola sulle immagini di distruzione e violenza che neanche la vomitevole propaganda del Cremlino può nascondere.

Come diceva il poeta? «Qui li voglio vedere». I pacifisti. Voglio vedere i pacifisti qui dove si discute del carattere possibilmente involontario delle bombe sugli ospedali. Voglio vederli qui dove per doverosa equanimità, non per denunciarne l’oscenità, si riporta l’agenzia russa secondo cui quello era un covo di nazisti. Voglio vedere qui i pacifisti, qui dove le notizie degli stupri sono coperte dalla giornalista che dice «se fosse vero… ma c’è tanta disinformazione». 

Qui li voglio vedere, mentre si discute di Volodymyr Zelensky (è testuale anche questa) che «deve farla finita subito con una guerra che non può raggiungere l’obiettivo per cui è partita». La guerra. Di Zelensky. Che non può raggiungere l’obiettivo da cui è partita. La guerra partita da Zelensky.

Ma non li vedo qui, i pacifisti. Non li vedo qui a denunciare quella vomitevole propaganda. Li vedo semmai lì, tra quelli che la alimentano: o lì, direttamente, ad alimentarla.

Voglio vederli qui, mentre si fa retorica sul culo al caldo di chi difende il diritto degli ucraini di difendersi, e reclama il dovere degli europei di aiutarli, quando evidentemente non ha il culo al caldo chi rinnega quel diritto e intralcia quel dovere con le belle manifestazioni rivolte a dare il nome di pace alla vittoria dell’aguzzino.

Ma io non li vedo. Io vedo che continuano a dire tante cose, a farne altrettante, senza tuttavia dire che quello schifo non gli appartiene e che anzi lo avversano; senza fare quel che dovrebbero, se volessero perseverare nella decenza anziché nella complicità con quell’immonda contraffazione: e cioè farla finita con chi dice che chi subisce la guerra deve farla finita con la guerra che gli ha fatto l’altro.

Non so se potrebbero continuare a essere pacifisti se cominciassero a dire e fare le cose che servono innanzitutto, e cioè dire che quelle cose non si possono dire: e fare in modo non dico che non siano più dette, che è impossibile, ma almeno che non siano dette piombando nell’assoluto silenzio pacifista che le legittima.

Poi parliamo di guerra: se è la guerra di chi l’ha fatta e sempre più atrocemente la perpetua. Poi parliamo di pace: se non è la pace fondata sul potere dell’aggressore di annichilirla. Poi parliamo di pacifismo: se è quello che non fa la guerra alla verità; se non è quello che fa pace con la menzogna.

Guerra in Ucraina, 8 italiani su 10 sono contro Putin ma spaccati sull’invio delle armi. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 23 Marzo 2022. 

L’invasione russa dell’Ucraina ha incontrato difficoltà probabilmente non previste. Essa si è scontrata in particolare con la volontà del presidente Zelensky, dell’esercito ucraino e di buona parte della popolazione di quel paese di resistere al novello Zar. Che vuole, con tutta evidenza, trovarsi a qualsiasi costo in una posizione di forza nel negoziato che prima o poi dovrà porre termine a un conflitto i cui costi crescono ogni giorno per tutti, in vite umane per i soldati di entrambe le parti e per i cittadini del paese invaso.

Putin può sperare anche nella divisione dei paesi della Unione Europea e della Nato. E potrebbe piegare la resistenza ucraina se le sanzioni imposte alla Russia dai paesi dell’alleanza occidentale non riusciranno a creare un qualche rigetto da parte della popolazione russa e soprattutto dell’esercito. Solo le prossime settimane ci diranno, come ha scritto Thomas Friedman sul New York Times, quale piega prenderà il conflitto e se Putin proverà una ulteriore escalation in caso di impossibilità di vittoria sul campo. L’America in questa atroce vicenda rischia in realtà relativamente poco. Il suo interscambio con la Russia è poco rilevante e la sua dipendenza energetica praticamente nulla. In più la Russia è lontana dagli Usa. L’Europa, viceversa, non solo confina con il paese che ha invaso l’Ucraina ma comprende paesi come la Germania e l’Italia che scoprono oggi l’ingenuità di essersi resi dipendenti dalla Russia per quasi metà del proprio fabbisogno di gas. Per questi due paesi, come per altri in Europa dell’est e in Scandinavia, dove la dipendenza dalle fonti energetiche russe è ancora maggiore, col passare delle settimane l’atteggiamento di solidarietà nei confronti dell’Ucraina potrebbe per questo andare scemando.

Da questo punto di vista, va sottolineato come la guerra in corso abbia almeno due facce. Vi è, ovviamente, prima di tutto, un contenuto militare, che si può seguire ogni giorno in televisione e che mostra lutti e rovine. Ma il conflitto ha anche, sin dall’inizio, un aspetto mediatico, di non poca importanza, perché ha anche il fine di convincere – o quantomeno influenzare – le opinioni pubbliche dei vari paesi. Putin, come si è visto, ha grande interesse a tenere dalla propria parte la popolazione russa, cercando di isolarla dai media occidentali. Zelensky, d’altro canto, tende a chiedere l’appoggio dei paesi occidentali, anche influendo sui cittadini di questi ultimi. E si è rivelato un grande comunicatore: i suoi interventi ai parlamenti delle diverse nazioni hanno sempre avuto grande efficacia. Concentrandosi sull’Italia, quale è stato, sino a questo momento, l’effetto sull’opinione pubblica del nostro paese?

Occorre dire anzitutto che la guerra ha, com’era prevedibile, sconvolto gli italiani. Un sondaggio effettuato da Demos ha misurato il livello di preoccupazione dei nostri concittadini: 2 su 3 si dichiarano “molto” preoccupati. A costoro va aggiunta la quota (27%) di chi afferma di essere comunque “abbastanza” in ansia. Nell’insieme, dunque, il 93% degli italiani mostra di essere in varia misura colpito negativamente da quanto accade nell’Est europeo. Solo il 3% afferma di non essere per nulla preoccupato.

Molto diffuso – ma, si noti, relativamente più contenuto rispetto all’estensione del livello di preoccupazione – è il sentimento di condanna verso l’iniziativa di Putin. Sempre secondo Demos esso raggiunge il 77% e anche Swg trova un valore simile (80%). È significativo rilevare come la maggiore accentuazione di quanti, viceversa, non si dichiarano ostili alla Russia si trovi tra gli elettori di M5s e di Fratelli d’Italia (malgrado la leader di quest’ultima forza politica, Meloni, sia tra coloro che hanno espresso le posizioni più convintamente atlantiste). Simile è, coerentemente, la percentuale di quanti vorrebbero che l’Ucraina fosse parte dell’Unione Europea: 71%.

Ma resta diffusa tra la popolazione, sia pure minoritaria, l’opinione che «anche l’Europa ha forti responsabilità» la quale raggiunge il 26%. Fortemente minoritaria, ma non irrilevante, è la quota di chi ritiene che la Russia abbia ragione: secondo molti sondaggi si aggira sull’ 8%, vale a dire quasi un italiano su 10. Questa è dunque la non piccola estensione dei più convinti putinisti italiani. Il discorso appare diverso – con una estensione del consenso significativamente molto minore – quando dal generico appoggio all’Ucraina si passa alla valutazione della decisione di inviare armi a questo paese. I dati variano lievemente a seconda dei sondaggi, ma mostrano tutti lo stesso scenario: una maggioranza relativa (49% per Ixè, 43% secondo Demopolis, 45% secondo Eumetra) si dichiara favorevole. Ma una percentuale non tanto minore (40% per Ixè, 38% per Demopolis, 35% per Eumetra) è contraria. Anche in questo caso, si rilevano accentuazioni di contrarietà all’invio delle armi tra gli elettori di Fratelli d’Italia e tra quelli del Movimento 5 Stelle.

Un discorso analogo si può fare per le sanzioni economiche, ritenute opportune dal 58%, ma non apprezzate dal 25%, un italiano su quattro. L’opposizione all’invio di armi o alle sanzioni deriva da svariate motivazioni, talvolta in contraddizione tra loro: dall’equidistanza (o, molto più raramente, la “simpatia” verso la Russia) al pacifismo integrale. Che sono posizioni minoritarie rispetto alla maggioranza della popolazione, ma relativamente diffuse. E che potrebbero però essere in futuro più presenti, nel caso che le sanzioni imposte alla Russia dovessero, com’è probabile, comportare un costo anche per gli italiani. A quel punto vedremo come si schiereranno le forze politiche. Oggi o esplicitamente favorevoli alla reazione occidentale all’invasione o silenti. 

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Da tgcom24.mediaset.it il 27 aprile 2022.

In un'Europa sconvolta dalla guerra, "nessun equivoco, nessuna incertezza è possibile": invadendo l'Ucraina, la Russia "ha scelto di collocarsi fuori dalle regole a cui aveva liberamente aderito, contribuendo ad applicarle." Lo ha detto il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, intervenendo al Consiglio d'Europa. Per questo, la decisione "di prendere atto della rottura intervenuta" è coerente "con i valori alla base dello Statuto dell'organizzazione".

"Italia pronta a nuove sanzioni senza esitazioni" - Rispondendo a una domanda di un delegato conservatore britannico che gli faceva osservare come non tutte le imprese italiane rispettino le sanzioni, Mattarella ha affermato che "l'impianto sanzionatorio è pienamente operativo in Italia. Nel rispetto dei principi dello Stato di diritto e dell'economia di libero mercato, che in Italia vigono e sono rispettate, le imprese in autonomia si regolano di conseguenza, così come avviene nei Paesi che hanno un'economia di mercato. L'Italia è pronta ad eventuali altre sanzioni, senza alcuna esitazione".

"La guerra è un mostro vorace, fermiamo questa deriva" - "La guerra è un mostro vorace, mai sazio - ha proseguito -. La tentazione di moltiplicare i conflitti è sullo sfondo dell'avventura bellicista intrapresa da Mosca. La devastazione apportata alle regole della comunità internazionale potrebbe propagare i suoi effetti se non si riuscisse a fermare subito questa deriva. Dobbiamo saper opporre a tutto questo la decisa volontà della pace. Diversamente ne saremo travolti". 

L'appello alla Russia: "Sappia fermarsi" - Il Capo dello Stato ha quindi lanciato un appello al governo della federazione russa "perché sappia fermarsi, ritirare le proprie truppe, contribuire alla ricostruzione di una terra che ha devastato, è conseguenza di queste semplici considerazioni. Alla comunità internazionale tocca un compito: ottenere il cessate il fuoco e ripartire con la costruzione di un quadro internazionale rispettoso e condiviso che conduca alla pace". 

"Aggressione Russia spinge all'unità dell'Europa" - "L'aggressione della Russia sollecita ancor di più la spinta all'unità dei Paesi e popoli europei che credono nella pace, nella democrazia, nel rispetto del diritto internazionale e nello Stato di diritto". 

"La pace è frutto di una paziente collaborazione tra popoli" - Secondo il presidente della Repubblica, "quanto la guerra ha la pretesa di essere lampo - e non le riesce - tanto la pace è frutto del paziente e inarrestabile fluire dello spirito e della pratica di collaborazione tra i popoli, della capacità di passare dallo scontro e dalla corsa agli armamenti, al dialogo, al controllo e alla riduzione bilanciata delle armi di aggressione". La pace, ha rimarcato Mattarella "è frutto di una ostinata fiducia verso l'umanità e di senso di responsabilità nei suoi confronti". 

Antifascismo, sempre. Così Mattarella ha rimesso in riga le incredibili derive neutraliste dell’Anpi. Mario Lavia su L'Inkiesta il 25 Marzo 2022.

Nel messaggio all’associazione dei partigiani, il presidente della Repubblica ricorda chi sono i colpevoli (la Russia) e le vittime (Ucraina) e ribadisce il valore della solidarietà attiva, rifacendosi alla lezione del cattolicesimo politico democratico.

Una lezione a chi tergiversa, a chi esita, a chi, dietro la scusa di “voler capire”, non si schiera. Si può leggere così il messaggio che ieri Sergio Mattarella ha inviato al congresso dell’Anpi, un messaggio sobrio ma non casualmente molto forte, non casualmente – diciamo – perché da tempo la gloriosa associazione dei partigiani si è schierata su posizioni di sinistra radicale e pertanto, nel contesto attuale, nel riflusso neutralista.

Forse per questo Mattarella, pur certamente lontanissimo dalle polemiche, è stato così netto: «L’ingiustificabile aggressione al popolo ucraino di cui si è resa responsabile la Federazione russa ha fatto ripiombare il Continente europeo in un tempo di stragi, di distruzioni, di esodi forzati che fermamente intendevamo non avessero più a riprodursi dopo le tragiche vicende della Seconda guerra mondiale. Sono i valori della Resistenza che, ancora una volta, ci interrogano. In Ucraina e in tutta Europa».

Nomi e cognomi: la Russia è colpevole, l’Ucraina la vittima. Punto. Altro che “capire meglio”: che c’è da capire? Stabilito questo, il Presidente della Repubblica connette la Resistenza ucraina a quella nata durante la Seconda guerra mondiale. La Resistenza dei partigiani che volevano il ritorno alla democrazia. «Il bersaglio della guerra non è soltanto la pretesa di sottomettere un Paese indipendente quale è l’Ucraina – scrive ancora il Presidente della Repubblica – l’attacco colpisce le fondamenta della democrazia, rigenerata dalla lotta al nazifascismo, dall’affermazione dei valori della Liberazione combattuta dai movimenti europei di Resistenza, rinsaldata dalle Costituzioni che hanno posto la libertà e i diritti inviolabili dell’uomo alle fondamenta della nostra convivenza».

L’attacco russo non è dunque solo a un Paese sovrano ma alla democrazia, alla “nostra” democrazia: non è, in fondo, quello che da un mese grida Zelensky? Altro che «aprire una grande dibattito nel Paese», come disse il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo alla manifestazione pacifista-neutralista di San Giovanni del 5 marzo: Mattarella, recuperando nitidamente il nesso tra difesa dall’invasore e diritti inviolabili dell’uomo, a partire dalla cornice democratica che li garantisce, non si è trincerato nei vacui e vaghi appelli alla pace ma si è autorevolmente collegato al grande filone del cattolicesimo politico democratico che non alza bandiera bianca ma partecipa attivamente alla difesa della vita umana e della dignità dei popoli.

Ecco perché nel suo messaggio ai partigiani il Capo dello Stato evoca quella «solidarietà attiva con chi sta resistendo» che poi è il punto caratterizzante l’impegno dei cattolici democratici e antifascisti, qui e ora come lo fu tra le due guerre (non senza contraddizioni e durissime polemiche) e durante la lotta di Liberazione nazionale.

Non si tratta di affermare i contenuti della “guerra giusta”, categoria scivolosa entro la quale di tutto può trovarsi – a seconda di chi la brandisca – ma della difesa del diritto a difendersi, in tutti i modi. E questo non è un diritto “freddo” ma intriso, per il cattolico, di moralità nel nome della umanità e della pace, quando essa non sia presupposto ma, come nel caso presente, obiettivo.

Messo così a fuoco, il tema della difesa, contenuto nel messaggio di Mattarella all’Anpi, è addirittura la premessa per la costruzione di un ordine fondato sulla pace: per questo la discussione sugli armamenti militari può essere sul “come” più che sul “se”, perché la necessità della difesa è precondizione per un assetto mondiale diverso. E non a caso questo è un dei punti essenziali del discorso pubblico e delle decisioni politiche che però, nel dibattito nostrano, è diventato come al solito questione ideologica e di bandierine con il folle rischio (alimentato da Giuseppe Conte nell’intervista di ieri alla Stampa) di una possibile crisi di governo proprio su questo punto.

Ma per fortuna le forze più responsabili stanno disinnescando la mina e hanno convenuto che è meglio evitare votazioni parlamentari. Per fortuna dal messaggio del Presidente dunque è giunto un segnale forte e senza incertezze su dove sta l’Italia, con i suoi valori di ieri e di oggi, e chi vuol intendere intenda.

Mattarella all’Anpi: «In Ucraina i valori della Resistenza». Ma non condanna il comunismo. Valerio Falerni giovedì 24 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.  

Si apre oggi a Riccione il 17° congresso dell’Anpi, l’associazione partigiani italiani praticamente sopravvissuta ai suoi fondatori (la dirige il pensionato Gianfranco Pagliarurlo, nato dopo la guerra). Il protocollo prevede l’accorato messaggio del Presidente della Repubblica. Che arriva infatti di buon mattino. «L’ingiustificabile aggressione al popolo ucraino di cui si è resa responsabile la Federazione russa – scrive Mattarella – colpisce le fondamenta della democrazia, rigenerata dalla lotta al nazifascismo, dall’affermazione dei valori della Liberazione combattuta dai movimenti europei di Resistenza». La solita solfa. Spiace rilevarlo, ma il capo dello Stato ha perso una buona occasione per dare prova di aver aggiornato il proprio armamentario alla luce dei tragici fatti in corso in Ucraina.

Mattarella ricorda solo il «nazifascismo»

Innanzitutto perché rispetto a Putin proprio l’Anpi ha riproposto l’inquietante ambiguità dei “né né“ sfoggiata dalla peggiore sinistra italiana al tempo del terrorismo rosso; e poi perché la guerra ad Est avrebbe douto imporgli una riflessione non conforme sulla Seconda guerra mondiale e sul ruolo che vi ha avuto l’Unione Sovietica, patria del comunismo internazionale. Non per par condicio tra opposti totalitarismi, ma per rispetto della verità storica. Parlare infatti di «democrazia rigenerata dalla lotta al nazifascismo», per giunta mentre la Russia ingoia parte dell’Ucraina equivale a nascondere la polvere sotto il tappeto. E ad omettere che per metà Europa la sconfitta del nazismo non è affatto coincisa con la conquista della libertà. Polacchi, estoni, cechi, slovacchi, bulgari, romeni, ungheresi, tedeschi orientali, lituani, lettoni e ucraini hanno dovuto aspettare altro mezzo secolo di dittatura comunista prima di dotarsi di libere istituzioni.

La democrazia si difende con la verità

C’è qualcuno in grado di confutare questa ricostruzione storica? Difficile. E allora perché Mattarella non l’ha detto? Forse per omaggio alla specificità del comunismo italiano? Ma non facciamo ridere: il Pci era agli ordini di Mosca come tutti i partiti comunisti dell’Occidente. Era di certo il più attrezzato culturalmente, di gran lunga il più organizzato e più intelligente, ma questo non lo esonerava dal battere i tacchi ogni qualvolta il Cremlino faceva schioccare la frusta. Era anche una questione di rubli, di armi, di addestramento di brigatisti rossi. O vogliamo davvero credere che il Pci si autofinanziasse con la vendita domenicale dell’Unità e con le salamelle smerciate alle feste di partito? Mattarella queste cose le sa bene, eppure non le esterna. Avanti Presidente, trovi il coraggio per farlo. La democrazia, quella vera, si difende con la verità.

 Ucraina, perché il Pd non può mollare gli "anti fascisti" più duri. Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

L’Anpi e il Pd la pensano in modo molto diverso. L’associazione dei partigiani, giusto per restare agli ultimi giorni, è contraria all’invio di armi all’Ucraina, critica l’aumento delle spese militari e chiede, tramite il suo presidente, Gianfranco Pagliarulo, «una progressiva dismissione delle strutture Nato». Il Partito democratico, senza scendere troppo nei particolari, è su posizioni esattamente opposte. Quelli che la pensano come l’Anpi, di solito, vengono definiti dai dem, con una punta di disprezzo, dei “putinisti”, se non direttamente dei “fascisti”. Ma coni sedicenti custodi dei valori della Resistenza i toni sono molto più concilianti.

Ieri, intervenendo al congresso di Riccione, Enrico Letta ha usato parole dolcissime: «Il Pd e l’Anpi staranno sempre dalla stessa parte del campo, non staranno mai in parti diverse perché il nostro è il campo della Costituzione, è il campo della democrazia, è il campo dei principi dell’anti fascismo». Ma perché tutto questo miele? Semplice: la sinistra di governo, quella leale nei confronti di Draghi, quella pronta ad alzare le spese militari come chiesto dalla Nato, quella attenta ai rapporti con gli Usa, non vuole e soprattutto non può rompere con l’altra sinistra, quella dell’Anpi ma anche dei centri sociali, quella anti americana, quella dell’antifascismo più trinariciuto.

Perché se oggi i dem sono al governo con Forza Italia e la Lega di Matteo Salvini, presto o tardi torneremo alle urne. E allora, come sempre, tornerà il pericolo nero, usato come una clava contro gli avversari politici. Tornerà l’allarme fascismo, per provare ad impedire al centrodestra di andare al governo. E allora al Pd serviranno ancora l’Anpi, i centri sociali e i loro voti. Eccome se gli serviranno...

Fascismo e antifascismo, padre e figlio: 1943, tempo di decidere. MASSIMO GRAMELLINI su Il Corriere della Sera il 22 Marzo 2022.  

«La scelta» (Rizzoli), il nuovo romanzo di Walter Veltroni: una famiglia divisa (e una giovane coraggiosa) nella Roma sconvolta dalle bombe. Un grande affresco storico

Immergersi nel nuovo romanzo storico di Walter Veltroni, mentre sugli schermi scorrono parole e immagini di guerra, aggiunge all’intensità del racconto un’urgenza personale. Urgenza di capire e di capirsi, perché nelle scelte dei personaggi del libro c’è più che mai anche la nostra. Veltroni racconta «una settimana particolare» della storia d’Italia, quella che va dal 19 al 26 luglio del 1943, dal bombardamento alleato del quartiere San Lorenzo all’arresto di Mussolini che innesca un immediato e colossale spogliarello politico. Nel volgere di poche ore, gerarchi e gerarchetti gettano nei tombini le camicie nere e i distintivi di partito. Tutti tranne uno, Manlio Morgagni, sodale di lunga data del dittatore, che per vent’anni ha impugnato l’agenzia di stampa Stefani come un megafono di regime.

Fin dalle prime pagine si capisce che Veltroni prova stima o comunque grande rispetto per l’uomo. Non per il fascista, né per il giornalista. Per l’uomo. La sua coerenza e la sua fedeltà a un’amicizia più che al proprio tornaconto personale sono valori assoluti che trascendono le ideologie. E Veltroni li lascia trasparire per contrasto, descrivendo la mediocrità dell’Italietta fascista: quella di sempre, ma non sempre quella di tutti. Perché c’è un popolo che talvolta si rivela migliore di chi lo comanda e che nel romanzo è rappresentato da una famiglia ben inserita nel sistema, sia pure ai livelli più bassi. Quella di Ascenzo de Dominicis, commesso dell’agenzia Stefani, un fascista della prima ora cresciuto con il mito di Mussolini e di Morgagni.

Walter Veltroni (Roma, 1955) è stato direttore de «l’Unità», vicepresidente del Consiglio, sindaco di Roma e segretario del partito democratico 

Prima ancora dei suoi personaggi, è proprio l’autore ad avere compiuto La scelta che dà il titolo al libro (Rizzoli). Veltroni avrebbe potuto raccontare la caduta del Duce dalla prospettiva scontata di un antifascista o di uno di quei voltagabbana che vediamo agitarsi sullo sfondo nelle ultime pagine. Invece ha deciso di farci entrare nella casa di un fascista sincero — convinto anche se non fanatico — e di mostrarci, anche lì, l’uomo che sta dietro al fascista. Un uomo che, scena dopo scena, è costretto a prendere atto dello sgretolarsi di tutto ciò in cui ha creduto, a cominciare dal suo ruolo all’interno della famiglia e della società. C’è un passo quasi comico, se non fosse drammatico, in cui l’usciere dell’agenzia Stefani assiste al giubilo di tanti ex fascisti alla notizia della caduta del governo Mussolini. «Io non so che fare: se partecipare fintamente a questa gioia che non condivido, almeno credo, oppure ostentare la mia tristezza, coerente con le mie idee. Non so cosa sia giusto. E allora mi rifugio nel bagno, chiudo la porta e mi siedo sulla tazza. Non piango, ho persino paura di farlo».

Ascenzo ha una moglie, Maria, che fin dalle prime righe vediamo muoversi «come una faina» per procacciare cibo ai suoi cari, e due figli diversissimi che col passare delle ore, delle pagine e purtroppo delle bombe si scopriranno sempre più simili. Margherita è una ragazzina insicura e spaventata: diventerà coraggiosa e determinata. Arnaldo un giovane dalle idee e dalle pulsioni confuse, ma destinato a dare senso e sostanza alla sua ribellione generazionale con l’adesione all’antifascismo. La scena più forte del romanzo, se si escludono ovviamente quelle del bombardamento di Roma, è il conflitto tra padre e figlio. Dapprima si tratta di una sfida di silenzi, più che di parole. Poi di uno scontro fisico, con il figlio che arriva a mettere le mani addosso al padre. Veltroni sembra suggerirci che il regime finisce in quel momento: quando per la prima volta, in una famiglia qualsiasi, il potere assoluto del Padre-Duce viene posto brutalmente in discussione.

Per il resto, e che resto, il romanzo è tutto un cercarsi e un inseguirsi per le strade di una Roma sconvolta dall’impensabile: le bombe che piovono a grappolo sulla città del Papa. Veltroni racconta lo stupore, la paura, la rabbia e poi la disperazione e la ricerca di un capro espiatorio, che per il capofamiglia Ascenzo sono i crudeli Alleati, ma per il figlio Arnaldo e per la gente comune assume da subito i contorni di Mussolini, un fantasma che ci viene mostrato da lontano: fragile, malato e succube dei deliri di Hitler.

Ci sono momenti nella vita in cui bisogna scegliere non tanto da che parte stare, ma che cosa si vuole essere. Spesso è solo sotto pressione che il nostro carattere finalmente si rivela, anzitutto a noi stessi. E così può succedere che Manlio Morgagni decida, lui solo, di fare i conti con la Storia. E che a casa di Ascenzo siano le donne, madre e figlia, a prendere in mano le redini della famiglia, grazie a quel talento tutto femminile di comandare senza imporre, con l’ascolto e il convincimento, di cui mai come in questi giorni sentiamo tanto il bisogno.

La nostra guerra. Quando sotto le bombe c’erano gli italiani. Walter Veltroni su L'Inkiesta il 24 Marzo 2022.

Con il romanzo “La scelta”, Walter Veltroni racconta la storia di una famiglia di Roma nel luglio 1943. Sono quei giorni decisivi in cui la Capitale viene colpita dal fuoco alleato e tutti si trovano di fronte alla necessità di prendere decisioni dolorose.

“Perché odio gli inglesi”. Io non so cosa rispondere, non so cosa scrivere. Ma è un tema da dare per l’estate a una ragazza di quattordici anni? Cosa le è saltato in mente alla professoressa? Io non li odio, gli inglesi, perché mai dovrei? Ci saranno, a Londra, ragazze come me e bambini impauriti, mogli di soldati al fronte e genitori di figli morti in battaglia. La guerra non mi piace, mi fa tristezza. Non ha nulla di bello e non sai mai chi ha ragione. È nera, una notte scura. È un tempo che non vedi l’ora che finisca. Come una malattia.

La guerra ha cancellato tutto quello che vivevamo in allegria: i picnic con i panini al Parco della Rimembranza, le festicciole con i compagni di classe, le gite fuori porta, la cena con i tavoli sul marciapiede da sor Alfredo che cucina una pasta alla carbonara che ci rendeva allegri, tutti e quattro.

La guerra ha cambiato papà, ora è sempre preoccupato e nervoso, Arnaldo è diventato un cavallo imbizzarrito e mamma si strugge nel cercare cibo per noi. Non vedo l’ora che finisca, questa guerra che ci hanno insegnato a invocare. Ma la guerra è bella quando non c’è, solo quando non c’è.

Il padre di Elisa, la mia compagna di classe, è sparito. È partito per la Russia e non è tornato.

Neanche morto. Non se ne sa più nulla, in famiglia non conoscono il suo destino, la mamma va ogni giorno alla stazione con la foto di suo marito, sperando che qualcuno lo riconosca. Elisa mi ha fatto leggere le ultime lettere che ha ricevuto dal padre, ormai diversi mesi fa. Mi sono tornate alla mente pensando al tema che quella scellerata di professoressa ci ha assegnato. Neanche lui, che stava al fronte, odiava i suoi nemici, i russi. Era solo stanco, tanto stanco.

Il papà di Elisa scriveva che non ce la faceva più. Che aveva freddo e fame, che le armate italiane erano senza munizioni e senza mezzi di trasporto, che le divise erano inadeguate per il gelo, che molti suoi commilitoni stavano scappando e tanti, tra cui un ragazzo di Tolmezzo con cui aveva fatto amicizia, erano morti.

Ho copiato un pezzo dell’ultima lettera, che mi ha molto impressionato:

… Il freddo era feroce: con milioni di trafitture ci penetrava negli orecchi, sotto il passamontagna, e, di quando in quando, dovevamo sfilare le mani che tenevamo costantemente riparate, assieme alle bombe, nelle tasche del pastrano, per frizionarci vigorosamente il naso con un’operazione quanto mai dolorosa. I piedi sembravano attanagliati dagli scarponi ed avvertivamo la carne formare un tutto unico con le calze. Sovente,approfittando di qualche punto più riparato, pestavamo forte i piedi sulla neve e li sbattevamo l’uno contro l’altro cercando di muovere le dita… Sotto le isbe di Deresowka, mi sfilai la borraccia ed ingollammo una buona sorsata di cognac. Per berlo era una impresa. Guai se le nostre labbra fossero venute a contatto con il metallo; freddo com’era, ci avrebbe profondamente ustionato, strappandoci lembi di carne. Dovevamo, perciò, con estrema cautela, farcelo colare direttamente in gola, dove bruciava facendoci restare senza respiro. Ci asciugavamo poi, in fretta, le eventuali gocce, perché altrimenti la pelle, già tesa dal freddo sino a spezzarsi, si sarebbe aperta in profonde e dolorose screpolature.

Queste parole mi hanno molto impressionata e le ho lette ad Arnaldo, una sera, prima di dormire. Lui si è infuriato, ha cominciato a battere i pugni sulle lenzuola. Era una vergogna che, mentre quella povera gente soffriva e moriva, i gerarchi responsabili di averli mandati al massacro facessero la bella vita e Mussolini se ne stesse tra gli agi dei giardini di Villa Torlonia. Ha detto che era una guerra assurda, che la stavamo perdendo miseramente per andare appresso a quel pazzo di Hitler e che bisognava fare qualcosa.

Ma io, Margherita, cosa posso fare? Pensavo a Elisa che piangeva mentre mi leggeva la lettera e a suo padre che chissà dove era, se era. Ad Arnaldo non ho letto, per non farlo arrabbiare di più, un altro passaggio, in cui il papà della mia compagna diceva di aver familiarizzato con i russi. La gente di quelle campagne, i nemici, era disposta ad aiutarli. Per una medaglia o un caricatore era disposta a cedere una gallina o delle uova.

Anche loro cercavano pane, anche loro erano affamati e disperati.

Ho letto i brani della lettera anche a Franco. Lui è più grande di me di quattro anni e forse per quello mi è sembrato che non volesse dare importanza a quelle parole. Non si è di certo commosso né indignato. Ha alzato le spalle e ha detto solo che la guerra è così, come se la cosa non lo riguardasse. Mi ha sorpreso, ma devo dire che avevo pensato di farlo struggere con quelle parole, in primo luogo perché si accorgesse di me. Invece niente, mi ha trattato come una bambina. Lui guarda quelle più grandi e questo non mi va giù. Se sapesse che ieri, 8 luglio, sono diventata donna…

Papà dice che quelli belli sono scemi, ma forse lo dice perché lui sa di non essere un adone. Se però è vero, Franco deve essere molto stupido, perché è meraviglioso. Quando cammina sembra voli, capelli biondi e lineamenti perfetti. Tutte le ragazze della scuola sono innamorate di lui. E lui ne è consapevole, perché si muove come un pavone. Io sono piccola, anzi lo ero, ma devo riuscire a baciarlo, prima o poi.

Così deve sposarmi, dopo.

Anche Elisa, ora che la scuola è finita, tutte le mattine va alla stazione Termini con la mamma. Porta con sé una foto del padre in uniforme, in modo che sia più riconoscibile. Passano delle ore lì, sui binari, e spesso le guardie le mandano via. Non sono sole, ci sono decine di mamme e mogli che fanno la stessa cosa. Domani voglio andare con lei, almeno le faccio compagnia. E se hanno un’altra foto del papà anche io la voglio mostrare a quei ragazzi che tornano.

Faccio finta di avere un padre eroe di guerra, mentre il mio è usciere all’agenzia Stefani. Quella che dice che in Russia stiamo combattendo ad armi pari e che i russi alla fine perderanno. Non so se sperare che abbiano ragione. Sono stanca di questa vita e di parlare solo di guerra, bombardamenti, morti, cibo da trovare.

Qualcuno vinca, qualcuno perda, ma finisca, una volta per tutte. Voglio togliere la carta blu dalle finestre e poterle aprire per respirare l’aria delle serate romane.

Non è così che dovrebbero vivere le ragazze della mia età. Dovremmo poter sognare Massimo Girotti o Alida Valli, cantare le canzoni di Rabagliati o del Trio Lescano e ballare nelle strade agitando le nostre belle gonnelline a fiori con i calzettoni bianchi. 

Mamma mi ha dato da mettere dell’ovatta per mascherare il sangue che mi cola sulle gambe. L’ho fatto, ma si deve essere spostata e così ho macchiato proprio i calzettoni. Me ne sono accorta perché per strada mi ha guardato in basso un signore che poi ha sorriso con uno strano ghigno. Stavo andando all’edicola a comprare la rivista «La Donna» che mi piaceva tanto perché dava consigli alle ragazze e alle donne su come truccarsi e pubblicava dei vestiti bellissimi, da sogno, ma ora insegna solo come riciclare gli abiti e rammendare le divise. Quando mi sono accorta delle macchie sono tornata sui miei passi e di corsa ho riguadagnato casa. È difficile essere donna. Mi sento anche strana, debole, ho mal di testa.

Forse era meglio restare ragazza. O forse no.

Ho detto a papà che uno di questi giorni voglio andare con Elisa alla stazione Termini.

Me lo ha impedito. Mi ha detto solo: «No». Io gli ho chiesto perché. Lui mi ha risposto, infastidito: «È pericoloso». E non ha più detto altro.

IL DIBATTITO. La resistenza ucraina vale come quella italiana della Seconda guerra mondiale. ALBERTO CAVAGLION su Il Domani il 20 marzo 2022

La Resistenza è stata la dimostrazione del meglio di cui gli italiani fossero capaci: un’assunzione di responsabilità, una volontà di riscatto, una capacità di costruire qualche cosa di serio e di pulito.

Chi dovrebbe essere il primo a notare le convergenze, oggi si attarda in sottili distinguo. Come se gli ucraini fossero figli di un dio minore.

Coloro che contestano il nazionalismo ucraino dimenticano che l’idea di nazione cova sotto la cenere, matura e si consolida durante le occupazioni straniere.

ALBERTO CAVAGLION. Storico e docente italiano. Laureatosi in lettere e filosofia all'Università di Torino nel 1982, fu dal 1982 al 1984 borsista dell'Istituto italiano per gli studi storici e della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Studioso dell'ebraismo, insegna all'Università di Firenze. È membro del comitato di redazione de "L'indice dei libri del mese" e dal 2012 del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Ha curato edizioni commentate delle lettere di Felice Momigliano a Giuseppe Prezzolini (Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1984) e a Benedetto Croce ("Nuova Antologia", n. 2156, ottobre-dicembre 1985, pp. 209–226) e di Se questo è un uomo di Primo Levi (Torino: Einaudi, 2000; n. ed. 2012); l'edizione italiana del Dizionario dell'olocausto (Torino, Einaudi, 2004), gli Scritti novecenteschi di Piero Treves (con Sandro Gerbi, Bologna, Il mulino, 2006), e gli Scritti civili di Massimo Mila (Milano, Il saggiatore, 2011).

 Fausto Carioti per “Libero Quotidiano” il 20 marzo 2022.

Dalla parte del ministro della Difesa Lorenzo Guerini, democristiano pragmatico impegnato a portare la spesa militare al 2% del Pil, e per questo bollato dal governo russo come «falco». Ma anche con chi, come Elly Schlein, la pensa all'opposto di Guerini e sostiene che la spesa militare non deve aumentare, nemmeno adesso.

Intruppato nell'Alleanza atlantica, eppure determinato a intruppare a sua volta i pacifisti dei centri sociali, quelli che contro la Nato vanno in piazza. Con Mario Draghi, il quale ha già detto che ci serviranno più gas, carbone e petrolio, e al tempo stesso con le fattucchiere dell'ecologismo, convinte che un Paese come l'Italia possa andare avanti con le sole fonti rinnovabili.

È il doppio gioco di Enrico Letta, e non è nuovo. C'è qualcosa di miracoloso, però, nel fatto che prosegua tuttora, quando le scelte cruciali riguardano proprio la politica militare e quella energetica, senza che nessuno noti tanta spregiudicatezza. Cosa vuol dire avere una stampa amica e compiacente.

Il Letta di governo, giacca, cravatta e retorica della responsabilità (quella che usa ogni giorno contro Matteo Salvini), è lo stesso che da mesi ha spedito come propria avanguardia a sinistra la Schlein, una che è nata nel 1985, ma pare uscita dagli annali della gauche radicale degli anni Settanta.

Nel "campo largo" del segretario del Pd, accanto a Nicola Fratoianni, contrario a dare le armi all'Ucraina, e a Giuseppe Conte, che la guerra ce l'ha dentro al M5S, la vicepresidente dell'Emilia-Romagna è destinata ad avere un ruolo sempre più importante. 

Proprio ieri, la madonna pellegrina di Espresso, Repubblica e Manifesto ha fatto il primo passo come figura politica di livello nazionale. Ha organizzato a Roma, nel parco del Prenestino che comprende il "Centro sociale occupato autogestito ex Snia", un «appuntamento collettivo» chiamato "Visione comune" e costruito attorno alla «intersezionalità». 

Ossia al progetto politico che mette insieme lotta di classe, pacifismo, teoria gender, femminismo, terzomondismo, ecologismo estremo e le idee sull'oppressione razziale del movimento Black lives matter, per giungere alla conclusione che la colpa di tutti i mali della Storia appartiene al maschio bianco occidentale. 

Insomma, quanto di più lontano ci dovrebbe essere dal Pd liberal e riformista che piace raccontare a Letta. Invece gli unici a mancare, perché fuori dal giro, erano quelli di Italia viva e di Azione: gli altri c'erano tutti.

A partire da Alessandro Zan, al quale l'unico embargo che interessa è quello sul disegno di legge contro la «omotransfobia», che il parlamento non potrà toccare sino al 27 aprile: quel giorno, ha ricordato, «finisce l'embargo della tagliola», e lui ha già la baionetta pronta. C'era il vicesegretario del Pd, Peppe Provenzano, leader dell'ala sinistra del partito, assieme a Nicola Fratoianni. 

C'era l'europarlamentare milanese Pierfrancesco Majorino, che ha attaccato le scelte di Guerini e Draghi: «Non ho capito cosa c'azzecchi l'aumento della spesa militare. Non possiamo vivere la drammatica emergenza che viviamo come occasione per fare le peggiori scelte possibili». 

La Schlein sottoscrive tutto: anche per lei, ha detto a Repubblica, l'aumento della spesa militare «è un errore», perché «la pace non si fa mai con i fucili» (chissà che ne pensano i partigiani, quelli veri).

Era in collegamento Conte, che con la Schlein vuole «costruire le premesse per un patrimonio comune politico» (non sarà difficile, le poche idee dei grillini provengono tutte dall'armamentario della vecchia sinistra). E ovviamente c'era Letta. 

Non ha detto nulla sul fatto che lì si contestassero la politica militare e la politica energetica del governo. Ha preferito sventolare le bandiere del ddl Zan e dello ius scholae, il progetto per la cittadinanza agli immigrati, perché «nelle nostre società c'è la necessità di fare esperienza di diversità». 

Tutto normale? Pare di sì. Solo il senatore Andrea Marcucci, della minoranza pd, fa notare che «i mal di pancia» a sinistra, sulle spese militari, «in questa fase non sono accettabili». Il riferimento è alle Schlein, ai Majorino a tutti gli altri. Quelli che Letta si tiene stretti, convinto che per il suo partito l'accozzaglia sia un valore aggiunto.

Valori, principi, legalità. La Costituzione dice che l’Italia deve spegnere la guerra, non alimentarla. Alberto Cisterna su Il Riformista il 22 Marzo 2022. 

Sono tempi difficili. Pandemia e guerra stanno fratturando le società e questo sta accadendo soprattutto in Occidente. In Italia e altrove sono improvvisamente venute alla luce diversità, distinzioni, crepe, contrasti di convinzioni intorno a snodi fondamentali della vita collettiva. Il benessere ci aveva reso flaccidi e accomodanti, inclini a quella tolleranza che, non a caso, non ha spazio nella nostra Costituzione – tutta imbevuta di valori – perché considerata in sé e per sé tappa intermedia verso la gelida indifferenza. Probabilmente è così per la nostra Carta, generata da partigiani appunto.

Ci si divide e su cose importanti, dunque, e non è un caso che nelle polemiche di questi due anni orribili ci siano finiti dentro, e spesso per primi, filosofi, costituzionalisti, sociologici, teorici del diritto. Perché quando le questioni incidono profondamente l’esistenza e toccano i pilastri della terra comune, spetta a chi può spendere competenza pronunciare parole anche scomode. Difficile, quindi, tener distinti i discorsi sull’obbligo vaccinale, sul green pass, sui decreti emergenziali, sull’eutanasia da quelli sulla guerra in Ucraina. Tutti affondano alle radici delle convinzioni più intime di ciascun cittadino, del modo con cui intende la libertà, il bene comune, la solidarietà, la vita e la morte, quindi, la pace e la guerra. A un mese circa dall’inizio di un bagno di sangue scatenato da un criminale di guerra, ci sono parecchie cose nella discussione in atto che non devono sorprendere. Siamo divisi in modo anche radicale, è il prezzo di una democrazia resa fiacca dalla sfiducia, ma che è pur sempre vitale.

Ci voleva un costituzionalista di grande prestigio, Gaetano Azzariti, professore ordinario di costituzionale alla Sapienza, per ridare vigore e dignità a una riflessione che qualcuno, anche con una certa malizia, vuole vedere sprofondare negli agevoli acquitrini di un misero confronto tra pretesi putiniani e pretesi antiputiniani. Confronto del quale, invero, nessuno sente il bisogno tanto chiare sono le ragioni degli oppressi rispetto a quelle degli oppressori e che è piuttosto solo un modo per sottrarsi a un dibattito meno superficiale. E, infatti, Gaetano Azzariti, in un saggio dal titolo particolarmente suggestivo (“La Costituzione rimossa”), si è curato di volgere lo sguardo alle radici di un’analisi sui temi della guerra e della pace che per essere ordinata e moralmente corretta non dovrebbe che partire dalla Costituzione. Pensate un po’ il professore lo ho fatto proprio riprendendo in mano la Carta del 1948 e ricordandone il testo parola per parola, sillaba per sillaba, con rigore scientifico. Un’operazione sovversiva di questi tempi, soprattutto se si scopre che «nel dibattito sulla guerra in Ucraina che si è svolto in Parlamento la Costituzione è stata rimossa. Mai richiamata, né nell’intervento del presidente del Consiglio, né nella risoluzione approvata con il concorso di maggioranza e opposizione».

Certo argomento particolarmente scomodo quello del richiamo ai padri costituenti che qualcuno immagina ignari di cosa fosse un conflitto e che, come tali, si erano avventurati in uno degli enunciati più solenni della Costituzione: «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Non si discute della guerra come sacra difesa della patria (articolo 52), del diritto del Parlamento a proclamarla in caso di aggressione (articoli 60, 78 e 87); queste sono cose scontate. Il professore Azzariti dubita, piuttosto, che la Costituzione consenta di fornire armi a un paese che versi in stato di belligeranza con un’altra nazione nell’ambito di una controversia internazionale senza che ogni mezzo di risoluzione pacifica del conflitto non sia stato portato a compimento o almeno tentato efficacemente. E’ sotto gli occhi di tutti che nessuno dei due contendenti vuole raggiungere una tregua in questo momento e che ciascuno spera di potersi aggiudicare qualche vantaggio. Certo secondo prospettive radicalmente opposte e per non comparabili esigenze, ma la pace non sta oggi di casa in quella terra piena di odio.

L’articolo 11 della nostra Costituzione, dopo il ripudio della guerra, tutto d’un fiato, senza interporre neppure una pausa, prosegue: (l’Italia) «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Un blocco unitario, un nucleo privo di fessure o cedimenti di sorta secondo Azzariti, il quale aggiunge: «c’è allora da chiedersi se, in caso di guerra, i principi costituzionali debbano essere sostituiti con i vincoli internazionali. Domanda per nulla peregrina poiché è evidente che la crisi Ucraina ha una sua determinante dimensione globale e la soluzione deve essere ricercata coinvolgendo il diritto internazionale più che quello nazionale. Ciò non toglie però che il comportamento del nostro Governo, anche sul piano dei rapporti con gli altri Stati e nelle organizzazioni di cui è parte, deve essere indirizzato dalla sua legge suprema».

Si pone, così, il problema della cessione delle armi in favore di un paese che si trovi in stato di conflitto con un altro. La legge 185 del 1990 non consente l’approvvigionamento di armi verso stati in stato di conflitto armato almeno che – secondo i principi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite – uno di essi non stia esercitando «il diritto naturale di autodifesa individuale o collettiva».

L’Ucraina sicuramente versa in questa condizione e sicuramente, da nazione aggredita, può ricevere armamenti dal Governo italiano. Ma la medesima legge, più volte, si cura di precisare che tali operazioni di cessione devono essere regolamentate «dallo Stato secondo i principi della Costituzione repubblicana che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», lasciando intendere che l’opzione governativa (previo parere delle Camere) di inviare armi a uno dei contendenti non può che procedere dal paradigma indefettibile del ripudio della guerra. Una nazione «la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione» recita la legge del 1990 non può ricevere armi dall’Italia. Ecco perché non riforniamo di armi i palestinesi o i curdi o gli yemeniti o altre popolazioni in guerra nel mondo, perché ripudiano la pace. Poche altre battute dal saggio di Azzariti: «in Ucraina, in questo momento, se vuoi la pace devi far cessare il confronto militare, non solo quello armato che sta producendo gli orrori della guerra, ma anche quello tra le potenze e gli Stati che si armano per continuare lo scontro, magari in altre forme. Ora è il tempo dei “costruttori di pace”, ovvero di soggetti che in piena autonomia possano operare come mediatori tra le parti in lotta. Organizzazioni terze, non perché prive di giudizio – è chiaro in questo caso chi siano gli aggressori e chi le vittime – ma perché estranee al conflitto. Per poter svolgere la funzione di mediazione necessaria, infatti, non si può al tempo stesso partecipare alla guerra».

Siamo al punto nevralgico del discorso: si deve chiarire, al più alto livello possibile di ragionamento, se armare uno dei contendenti equivalga o meno a partecipare a una guerra, violando l’imperativo costituzionale del ripudio. L’Italia, si dice anche per un preciso diktat americano, si è vista privata quasi subito di questa terzietà che consente oggi a nazioni come la Turchia o Israele o la Cina di cercare un dialogo e una soluzione al massacro in atto. Con le forniture di armi, secondo Azzariti, il paese è venuto meno a un dovere costituzionale irrinunciabile e non negoziabile cedendo alle pressioni di un’organizzazione “non terza” come la Nato, da lui ritenuta neppure compresa tra quelle che l’articolo 11 indica come promotrici di pace, essendo un’alleanza militare. E’ vero, il popolo ucraino ha ogni diritto a difendersi, ma ammonisce ex cathedra lo studioso: «Ai popoli e agli Stati non in guerra spetta un altro compito: quello di far cessare le ostilità, “porre fine al conflitto”, non invece alimentarlo». Non un buon proposito da spendere in chiacchiere, ma un dovere costitutivo della Repubblica. Alberto Cisterna

Il “pacifismo” della Costituzione non è né estremo né assoluto…L’invio delle armi italiane in Ucraina non è tecnicamente assimilabile all’entrare in guerra. Giovanni Guzzetta su Il Dubbio il 19 marzo 2022.

L’approvazione da parte della Camera dei Deputati e la prossima, scontata, deliberazione del Senato sul decreto-legge che autorizza la fornitura “di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore delle autorità governative dell’Ucraina”, chiude la partita parlamentare della conversione in legge, assicurando anche l’avallo dell’organo della rappresentanza popolare alle scelte del governo. E chiude, per il momento, il dibattito sulla compatibilità di tale scelta con le norme costituzionali in materia di conflitti armati.

Ma non sono pochi coloro che hanno manifestato perplessità sulla legittimità della scelta, soprattutto perché il dibattito sul rispetto della Costituzione in materia di guerra e conflitti armati ha una storia antica. Quantomeno fin dalla ratifica del Trattato Nato nel luglio del 1949 e, via via, in occasione di ogni impegno militare assunto dall’Italia nei decenni della vita repubblicana. Qualche chiarimento può essere allora opportuno. Il dibattito ruota sulla portata normativa dell’art. 11 della Costituzione, frequentemente evocato. Questo, a sua volta, esprime chiaramente il ripudio della guerra “come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

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A tale prima proposizione si aggancia la successiva, che consente limitazioni di sovranità qualora si tratti di perseguire l’obiettivo di assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni, mediante l’adesione a organizzazioni internazionali. Sull’art. 11 si è sviluppato un amplissimo dibattito, non ancora sopito nemmeno tra gli addetti ai lavori, mentre, purtroppo, è mancata l’occasione di pronunzie definitive da parte della Corte costituzionale. In questo quadro la domanda se la fornitura di armi costituisca una violazione dell’art. 11 è certamente legittima, ma la risposta negativa, a mio parere, altrettanto netta. Innanzitutto va chiarito che il ripudio della guerra non costituisce un’affermazione solamente programmatica o ideale, ma ha un preciso valore giuridico che non si può ignorare.

E tale “ripudio” non attiene solo alle guerre in cui l’Italia sia un paese belligerante, ma ad ogni guerra che sia strumento di offesa alla libertà degli altri popoli o sia usata come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. In altre parole l’art. 11 esprime una scelta di valore: “ripudio” delle guerre offensive o usate per risolvere conflitti internazionali, politici, economici, giuridici. Tale qualificazione vale per ogni tipo di guerra ovunque combattuta, e dunque anche per il conflitto bellico scatenato dalla federazione russa, atteso il suo carattere certamente offensivo. Si potrebbe dire: ma che senso ha che l’art. 11 si occupi anche di guerre che non riguardano direttamente l’Italia? Ha senso perché da quella scelta di valore discendono delle conseguenze giuridiche per l’Italia.

La prima conseguenza è che in nessun caso, proprio per la previsione dell’art. 11, l’Italia sarebbe potuta scendere in guerra alleandosi con l’aggressore. In secondo luogo, la previsione che il ripudio riguardi solo la guerra “offensiva”, giustifica che si possa utilizzare la forza militare nell’ambito di organizzazioni internazionali rivolte ad assicurare la pace e la giustizia tra le nazioni. E, infatti, nell’ambito, ad esempio, dell’ONU, che è certamente un’organizzazione rivolta a favorire la pace e la giustizia tra le nazioni, l’Italia partecipa anche ad attività belliche volte “reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace” (art. 1 Carta ONU e ancora più l’intero capo VII).

Il che conferma, con buona pace dei numerosi sostenitori della tesi contraria, che l’essere organizzazione per la pace e la giustizia tra le Nazioni non è incompatibile con l’uso delle armi per garantire quella pace. Insomma il “pacifismo” cui si ispira la Costituzione italiana non è né estremo né assoluto. Non lo è perché certamente la Costituzione non esclude la guerra difensiva della sovranità italiana (art. 52 della Costituzione: dovere di difesa della Patria sacro e inviolabile), ma non lo neanche con riferimento alle operazioni di sostegno alle vittime di guerre di aggressione, nei limiti necessari a consentirne la difesa e purché non si risolvano in uno strumento di offesa alla libertà di altri popoli o di risoluzione di controversie “meramente” politiche, giuridiche o economiche. Tanto più se ciò avviene sotto l’ombrello di organizzazioni internazionali.

Nel caso della guerra ucraina, si potrebbe discutere se tale ombrello ci sia, mancando una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’ONU. Anche se quella risoluzione manca perché, in questo caso, lo Stato aggressore (la Russia) detiene un potere di veto e quindi non accetterebbe mai una risoluzione contro di sé. Tant’è che l’ONU è ricorsa a una deliberazione dell’Assemblea Generale che ha, a larghissima maggioranza, condannato l’attacco. Insomma, gli esperti di diritto internazionale ci diranno se in questo caso il principio della necessaria deliberazione del Consiglio di sicurezza potesse essere sostituito da una deliberazione dell’Assemblea (prassi già utilizzata in passato).

Ma quel che conta è che la decisione italiana di intervenire a sostegno dello Stato aggredito non viola comunque, nei termini che ho indicato, l’art. 11 della Costituzione. Essa è, anzi, proprio conseguenza del ripudio delle guerre offensive e contrarie agli obiettivi di pace cui fa riferimento quella disposizione. Infine c’è da dubitare che fornire armi all’Ucraina, nella cornice dei principi dell’art. 11, sia addirittura tecnicamente assimilabile all’entrare in guerra. Si tratta di attività che, infatti, secondo gran parte della dottrina internazionalistica non determinano di per sé l’acquisizione dello status di “stato belligerante”, ma possono semmai inquadrarsi negli “atti ostili” verso lo Stato (la Russia) destinato a subirne le conseguenze nell’ambito del conflitto.

Ed è infatti così che le autorità russe le hanno qualificate rivolgendosi minacciosamente all’Italia. Insomma l’Italia non è in guerra, nessuno stato di guerra è stato dichiarato e la scelta politica (su cui ovviamente si è liberi di dissentire politicamente) di sostenere, anche con materiale militare lo Stato aggredito, non costituisce, nella cornice dell’art. 11 Cost., una violazione della Costituzione.

Vladimir Putin, il "benaltrismo" di destra che difende i russi è in malafede. Corrado Ocone su Libero Quotidiano il 22 marzo 2022.

Nella retorica di sinistra il "benaltrismo" è stato, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, un espediente retorico usato e abusato. Appena le forze governative, o chiunque avesse un minimo di potere nelle amministrazioni, provava a risolvere qualche atavico problema, a sinistra si storceva il naso dicendo che «ben altre» erano le questioni che si sarebbero dovute affrontare, quelle «serie» e che stavano alla base di tutto. La causa "vera" di una illegalità o una ingiustizia che aveva come responsabile evidente qualcuno di sinistra era da ricercare, ad esempio, nel «disagio sociale» o negli effetti perversi del malvagio capitalismo.

Anche a livello internazionale il benaltrismo era usato abbondantemente, e ovviamente quasi sempre ed esclusivamente in funzione antiamericana e antioccidentale. D'altronde, non era stato Mao a dire che era lo stupido che guardava il dito quando gli si indicava la luna? Recentemente la sinistra ha sfoderato non irrilevanti quote di benaltrismo quando Matteo Salvini, provando a combattere l'immigrazione clandestina semplicemente con le leggi in atto, è stato accusato non solo di essere un «criminale» ma anche di ridurre il problema che è «ben più vasto» ai respingimenti nel Mediterraneo. «Ben altre» sono le cause che spingono i popoli a migrare pur non avendo chi migra i requisiti del rifugiato politico: la globalizzazione, il capitalismo, ecc. ecc. Dati questi precedenti, fa veramente specie che, in questi giorni di guerra, il benaltrismo abbia ripreso vigore a destra, in frange non irrilevanti seppure minoritarie.

Non è un esempio di benaltrismo lo spostare il discorso, come alcuni fanno, dalla brutale aggressione di un autocrate ad uno Stato che fino a prova contraria dovrebbe essere sovrano, alle "malefatte" dell'Occidente, alla caduta dei suoi valori, all'edonismo e al nichilismo che ci avrebbe ormai conquistato? Tutte questioni vere, e che anche noi abbiamo più volte affrontato e denunciato, ma che sono semplicemente fuori luogo ora che la posta in gioco è evidente fino alla banalità. E, d'altronde, non è proprio su di esse che il tiranno ha provato a dare una coloritura ideologica a quella che è una semplice volontà di potenza imperialistica? Il "fuori luogo" è, in verità, la cifra specifica del benaltrismo, sintetizzabile in una sola parola: malafede. Esso, fra l'altro, contribuisce ancor più ad indebolire quella energia e fibra morale che a destra non a torto si denuncia in forte crisi nelle nostre società.

I giovani benaltristi. L’ideologia liquefatta e il deludente nichilismo degli studenti. Dante Monda su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.

Per le nuove generazioni è difficile aderire a una interpretazione generale del mondo, che orienti l’analisi e dunque l’azione. Dopo anni di crisi e di sfiducia è rimasta solo una pura indifferenza che mette in discussione il senso di manifestare per l’Ucraina.

Monza, Brianza, lunedì 7 marzo. Entro in classe per una lezione su Thomas Hobbes. Come spesso capita, il mio progetto naufraga. A spiazzarmi sono le domande dei ragazzi: dirette, senza vergogna. Vogliono sapere cosa sta succedendo in Ucraina. E perché stiamo per andare, in quarta ora, a una marcia per la pace nelle vie del centro. A che serve.

Le loro osservazioni, oltre a far saltare la lezione, smontano anche alcune mie aspettative. Infatti emerge chiaramente che i ragazzi non sono quelle creature ingenue, sognatrici e creative che ancora qualcuno crede. E soprattutto non corrispondono, questo è sicuro e posso giurarlo, a quell’immagine di rivoluzionario utopista valida (forse) in passato ed esemplificata dal monologo-autoritratto titolabile “quando avevo sedici anni” che Michele Serra ha recitato l’altro giorno a Che tempo che fa, con un effetto, a parere di chi scrive, quantomeno anacronistico.

Se i giovani degli anni Settanta, come ricorda Serra, credevano «che “fate l’amore e non la guerra non fosse solo uno slogan”, ma un programma politico», sicuramente oggi le cose non stanno così. E che sia un bene o un male onestamente non lo so. D’altronde qui non si vuole dare giudizi morali ma solo testimoniare, quasi a mo’ di reportage da questo fronte che mi capita di frequentare, che le cose sembrano un po’ più complesse di come alcuni (ormai pochi, ma che vanno su Rai 3) credono.

Da un lato, le parole che oggi provengono da dietro i banchi di scuola suonano del tutto estranee a una qualsiasi consapevole e complessiva visione della realtà sociale, antropologica o storica. Ho notato ad esempio un dettaglio che mi sembra rivelatore: un errore diffusissimo nelle interrogazioni è l’utilizzo improprio del termine ideologia al posto di filosofia, o teoria, o visione del mondo o anche religione.

Si sa, quando la parola diventa buona per tutto allora non significa più niente, e così sembra che il significato del concetto stesso di ideologia, così fondamentale nel secolo scorso, si sia liquefatto.

Sembra banale prenderne atto ancora, dopo tre decenni o più di pensiero post-ideologico, ma l’esperienza sul campo lo conferma: si fa fatica a rinvenire, non dico un sistema dogmatico, ma anche una qualsiasi esplicita interpretazione generale del mondo, che orienti l’analisi e dunque l’azione. Fra le notizie di attualità che colpiscono di più i giovani non c’è spazio per nessuna generalizzazione di valore normativo: l’espressione che tronca ogni universalizzazione è «dipende».

In un certo senso quasi nessun mio studente connette chiaramente l’analisi e la sintesi: è molto difficile sentire nello stesso discorso una frase del tipo «se le cose stanno così… allora bisogna fare in questo modo». Sembra mancare il salto dal dato alla tesi, dalla notizia all’interpretazione e dunque alla prescrizione. Ciò non vuol dire che vi sia una carenza intellettuale, ma solo un impianto cognitivo diverso da quelli tradizionali: più incompiuto, ma per questo anche più aperto al nuovo.

Questo è quanto sembra accadere nelle loro costruzioni argomentative, almeno a livello consapevole.

Infatti c’è un altro lato della medaglia. A ben guardare, che si parli di storia, filosofia o attualità, dietro ogni affermazione di dati di fatto e relative opinioni particolari, pur sconnessi da una qualsiasi sintesi consapevole, sembra intravedersi di tanto in tanto un presupposto non detto, una sorta di messaggio nascosto che, lo ammetto, a volte mi spaventa e spero sia un’allucinazione. Suona più o meno così: «È tutto inutile».

Ieri un’alunna, ad esempio, sosteneva che «la marcia per la pace non serve a niente, perché agli ucraini che noi manifestiamo non cambia molto, hanno bisogno di altro». Al di là dell’aspetto semplicemente emotivo, colpisce l’impianto paradossalmente ideologico di quelle parole. Sono parole che volano, irriflesse, buttate là senza dietro un pensiero. E tuttavia quel vuoto non è neutrale: in natura il vuoto è sempre colmato.

Nello specifico, a insinuarsi fra quei giudizi sommari mi sembra esserci un misto di sentimenti e moventi inconsapevoli, fra cui una certa dose di pura indifferenza mascherata dall’ormai classico schema retorico del benaltrismo. Tutto, ma proprio tutto, è inutile perché tutto è indifferenziato in quanto meno importante di altro. Marcia per la pace? Invece dovremmo aiutarli economicamente. Parliamo di Ucraina? È solo una news che fa tendenza: perché parliamo solo di questo? In fondo ne parliamo solo per egoismo da europei: perché non parliamo del Pakistan?

Ripeto, non voglio dare giudizi affrettati. In fondo il moralismo è l’altra faccia del disincanto: tutto è inutile perché tutto è corrotto. Voglio solo porre la questione nei termini più completi possibili a partire dal mio punto di osservazione: l’impianto privo di ideologia dei ragazzi che concluderanno questo secolo è una prospettiva non solo irreversibile, ma per molti versi promettente, che ci proietta verso la costruzione del nuovo libera da molti vecchi fardelli; proprio per questo però occorre educare alla scelta come metodo scientifico e pratico che rompa la retorica sterile di un’indifferenza omologante e fondamentalmente immatura.

C’era una volta la realtà. I sedicenni del 2022 non sono i più sfortunati di sempre, sono solo ignoranti (come tutti gli adolescenti). Guia Soncini su L'Inkiesta il 10 marzo 2022.

Gli adulti di questa epoca hanno fatto i figli tardi e li trattano come vacche sacre. E alcuni di loro, come il direttore di Oggi, si compiacciono del vittimismo, pure per interposta generazione, perché è il modo più veloce per ottenere moltissimi cuoricini e retweet dolenti

Un giorno della terza elementare ci vennero a prendere a scuola prima che finissimo il tempo pieno: avevano sparato al Papa, chissà cosa stava succedendo, magari la mossa successiva era far saltare in aria una scuola elementare di Bologna.

Il mese successivo, i bambini della mia età guardarono in diretta i tentativi di recuperare un loro coetaneo che stava morendo in tv, dopo essere cascato in un pozzo.

Quando ero al liceo l’Aids era una roba con cui si moriva, e si prendeva facendo l’unica cosa che t’interessi fare a sedici anni: scopare (oppure facendoti di eroina, che a quei tempi era diffusa quanto la Red Bull oggi).

Questa lista di dolenze non serve a dire che siamo stati la generazione più sfortunata di tutti i tempi, ma a dire che siamo stati gli ultimi ad avere dei genitori adulti. I genitori di oggi, per gli ottenni che vedessero un bambino agonizzare in un pozzo, come minimo chiederebbero il bonus psicologo.

I genitori di oggi, i genitori della mia generazione, dico spesso che li ha rovinati la Pixar. Se convinci gli adulti che debbano avere gli stessi consumi culturali dei loro figli, poi ti ritrovi con genitori adolescenti anche allorché quarantenni, cinquantenni, sessantenni. Gente che, all’età che una volta avevano i nostri genitori o i nostri nonni, invece del loden ha la felpa col cappuccio, e invece di Thomas Bernhard legge Zerocalcare.

Li ha rovinati la Pixar ma soprattutto li hanno rovinati i cuoricini. È l’unica spiegazione che trovo al fatto che una persona intelligente come Carlo Verdelli ieri abbia fatto un tweet così concepito: «Una ragazza di 16 anni a suo padre: “Prima il Covid, adesso la guerra da vicino. Quello che stiamo provando noi negli ultimi due anni, voi ve lo siete risparmiato per tutta la vita”. Dice il vero. Noi adulti da giovani avevamo sogni, loro incubi».

I sedicenni hanno tutto il diritto di non sapere niente, e da ben prima di questo secolo stupido.

Avevo dodici anni quando Roberto Roversi scrisse Chiedi chi erano i Beatles, una canzone la cui protagonista, la ragazzina bellina col suo sguardo garbato gli occhiali e con la vocina, non sa niente di niente. «I Beatles non li conosco, neanche il mondo conosco. Sì, sì: conosco Hiroshima, ma del resto ne so molto poco, ne so proprio poco».

Gli adulti, però, invece di blandire la loro inettitudine, incoraggiare il loro vittimismo, e rifiutarsi di comportarsi da adulti, potrebbero per esempio raccontar loro che no, non sei il sedicenne più sfortunato di tutti i tempi. Tua madre, avesse avuto la pandemia, non avrebbe avuto tutto il mondo nel telefono, avrebbe parlato con gli amici lontani sì e no una volta a settimana perché le interurbane costavano. Tua nonna non aveva la lavastoviglie, e se viveva fuori città neppure l’acqua corrente. La tua bisnonna s’è fatta due guerre mondiali.

«Mi ha detto mio padre: l’Europa bruciava nel fuoco. Dobbiamo ancora imparare: noi siamo nati ieri»: com’è che nel 1984 il sessantunenne Roberto Roversi sapeva rappresentare una differenza tra adulti col dovere della memoria storica e adolescenti per cui il mondo è cominciato il giorno in cui hanno cominciato il liceo, e nel 2022 il sessantaquattrenne Verdelli non ha voglia di farlo?

È perché gli adulti di oggi fanno i figli tardi e quindi poi, invece di considerarli ontologicamente scemi, li trattano come vacche sacre? È perché a compiacersi del vittimismo, pure per interposta generazione, si prendono moltissimi cuoricini, e retweet dolenti, e approvazione da una generazione (la mia) che ha sostituito il combinare qualcosa col riprodursi? È perché vincere il Nobel è faticoso, e dire «i bambini non si toccano» è facile e popolare, e quindi a un certo punto ci siamo detti ma chi me lo fa fare di sbattermi, e ci siamo buttati sui cuoricini?

Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, mia madre viveva a Milano. Nel decennio successivo, raccontava così l’aver abitato in mezzo agli anni di piombo: «Non potevi andare dal parrucchiere senza aver paura che ti sparassero». Un’adulta di oggi direbbe che andava in biblioteca, o a fare volontariato, o altra dolenza che la facesse sembrare la vittima con le giuste caratteristiche che amiamo cuoricinare. Col parrucchiere fai l’impopolare fine di quelle che si dolgono per l’Ucraina dalle Maldive.

Al cui proposito, e della guerra vicina che mai prima dei sedicenni d’oggi nessuna generazione aveva dovuto subire: quand’ero piccola esisteva la Jugoslavia, sono certa che Verdelli se ne ricordi, e sappia com’è finita e tutte le cose che non sa chi i Beatles non li conosce. Magari può raccontarlo, che l’Europa bruciava nel fuoco, a una sedicenne che debba ancora imparare: lei è nata ieri, ma lui no.

Ignazio Stagno per ilgiornale.it il 17 marzo 2022.

Una vergogna senza se e senza ma. Il passaggio della "Nave carabiniere" sotto il ponte levatoio del canale navigabile di Taranto, lascia senza parole. Ma non per il prodigio delle acciaierie navali o per una manovra particolare del comandante, niente di tutto questo. 

Gli insulti della vergogna

La vergogna è tutta negli insulti che sono stati rivolti all'equipaggio da parte di un gruppo di "pacifisti" che usano le parole per esprimere solo tutto quel veleno ideologico rispolverato, come fosse un'auto d'epoca in garage, in ogni occasione buona per infangare le nostre Forze Armate. Le offese e gli insulti sono partiti al passaggio della nave. Urla e lancio di oggetti da quelle terrazze che danno sul canale che porta al bacino dell'Arsenale all'interno del Mar Piccolo. Prima la scritta con tanto di striscione "La guerra la stiamo già pagando: chi con la vita, chi con la fame. No Nato! No Putin!". Poi la raffica di fango: "Bastardi, bastardi, assassini, dovete morire". 

La solidarietà sui social

Un coro che ha indignato quei milioni di italiani che credono nel lavoro svolto dalle nostre Forze Armate e in questo momento delicato dalla nostra Marina Militare che deve assicurare la protezione dei nostri confini via mare in uno dei periodi più drammatici della storia recente. 

Sui social la clip video degli insulti si è immediatamente sparsa in lungo e in largo con commenti che hanno restituito la dignità a quell'equipaggio ingiustamente offeso: "Ignoranza allo stato puro, anziché ringraziare i nostri militari che corrono il rischio di non rivedere più le loro famiglie, questi addirittura gridano assassini", si legge su Facebook.

Ma una presa di posizione è arrivata dallo stesso Ministero della Difesa con le parole del ministro Guerini: "Pur trattandosi di un gruppo ristretto di persone, che non rappresenta in alcun modo i sentimenti riservati dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani alle donne e agli uomini in uniforme, preoccupa la violenza di cui è stata fatta bersaglio la nave della Marina Militate 'Carabiniere', al rientro nel porto di Taranto. 

Ciò che rincuora è che si tratta dell'opera di pochi, che prende a pretesto una fase di tensione internazionale per cercare di riproporre parole d'odio ingenerose nei confronti di chi si impegna, quotidianamente, per garantire la tutela della sicurezza del Paese e di ciascuno di noi. Si tratta di azioni che si condannano da sole. Voglio esprimere la mia vicinanza all'equipaggio del 'Carabiniere' e a tutta la famiglia della Difesa".

Parole di condanna arrivano anche dal sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè: "Immagini che fanno male al paese. L’aggressione a nave Carabiniere è un gesto che nel nome di un malcelato pacifismo in realtà violento offende le istituzioni e i marinai che ogni giorno adempiono il proprio dovere. Vicinanza agli uomini e alle donne della Marina Militare". Insomma un certo pacifismo di sinistra sfocia sempre nell'odio. Nel mirino, come sempre, la divisa. 

Pacifista nel mirino. Donatella Di Cesare massacrata perché crede nella pace. Angela Azzaro su Il Riformista il 18 Marzo 2022. 

Donatella Di Cesare alla fine è sbottata e ieri ha scritto un post molto duro, amareggiato, di chi non ne può più. «Non ho mai avuto tanti attacchi come in queste ore. Non solo gli hater sui social – su twitter – ma anche sulla stampa ufficiale. Insulti in tv, parole di odio livore disprezzo intolleranza. Una campagna diffamatoria personale degna di questa violenta propaganda bellica». Quale è la colpa della filosofa? Di sinistra, una delle poche garantiste serie in circolazione, Di Cesare si è espressa contro la guerra, senza fare il tifo per Zelensky. Ha espresso dubbi, ha posto domande, si è rifiutata di schierarsi rinunciando a interrogare, come lei l’ha chiamata, la complessità. Soprattutto è una di quelle, per fortuna non l’unica, anche se spesso in tv è sola, che è convinta che alla guerra non si risponda con la guerra e che è sbagliato inviare armi all’Ucraina. La guerra, è il concetto chiave, non si ferma con la guerra.

In questo giornale dall’inizio dell’aggressione russa contro l’Ucraina abbiamo sempre dato spazio a tutte le posizioni, convinti che la contrapposizione netta, la guerra delle parole sia un male da evitare a tutti i costi. Per questo, per aver ospitato posizioni di pacifismo radicale, come quella di Alberto Cisterna che ha proposto la resa per fermare la guerra, ci siamo sentiti definire traditori e immorali. Le stesse accuse che vengono mosse nei confronti della filosofa che con estremo coraggio sta portando avanti la sua posizione. Ma è difficile, molto difficile, quando invece di discutere si punta il dito, si tratta chi pensa fuori dal coro come una reietta, una che fa il gioco del nemico, in qualche modo colpevole di quello che accade nel fronte ucraino. Si tratta di una violenza inaudita e ha ragione Di Cesare quando si lamenta non solo dell’attacco sui social ma in particolare di quello che viene scritto dai grandi giornali, dagli opinionisti che l’accusano in maniera così pesante.

È un’incitazione all’odio pericolosissima: la grande firma accusa, i social attuano la condanna e non è necessario che dalla parole si passi ai fatti. A volte, lo sappiamo tutti bene, le parole sono altrettanto contundenti, possono fare male come il lancio di una pietra, come un colpo, come una frustata. A volte le parole feriscono così tanto che le persone sono costrette a fare un passo indietro. Ci vuole coraggio a fare come Donatella Di Cesare: andare in tv per sostenere le proprie idee. Ma questo al coro degli interventisti, di chi usa le immagini di guerra per fare leva solo sui sentimenti e non sulla ragione (che è politica, diplomazia, impegno personale e collettivo rispetto alle conseguenze di tutte le guerre) questo dà fastidio, non viene tollerato, anche se sono poche le voci, anche se si tratta di una minoranza, non va bene. Quelle poche voci devono tacere si devono omologare, devono seguire la maggioranza. Noi garantiste e garantisti lo sappiamo bene, lo viviamo ogni giorno sui temi della giustizia e dello Stato di diritto. Ora lo stiamo provando anche sulla guerra. E lo dice una che a differenza di Di Cesare ha molti più dubbi, Ma nessun dubbio sul fatto che il dibattito non può essere soffocato con accuse, con attacchi personali, con banalizzazioni.

Il coraggio di arrendersi

Sempre più spesso se qualcuno è contrario all’invio delle armi diventa immediatamente schiacciato nella casella “filo-Putin”. Anche se non lo è, anche se non lo è mai stato. Su questo ha scritto un bellissimo post la scrittrice e giornalista Ritanna Armeni. «Nella diatriba fra “complessisti” e “semplicisti” io faccio parte della prima categoria, quindi sarei putiniana, amica degli invasori, nemica della democrazia, indifferente ai bambini morti, agli ospedali bombardati. Nemica del popolo ucraino che resiste al nemico. Donna senza i principi della democrazia e della libertà. Va bene. Cioè, va male ma non sono turbata più di tanto. Anzi approfitto per confessarvi che il mio “complessismo “ è molto più ampio e condannabile di quel che pensate». Eppure c’è un modo diverso di fare, di confrontarsi. Ne abbiamo dato un esempio sul Riformista pubblicando la risposta di Lea Melandri ad Adriano Sofri che sul Foglio le aveva scritto una lettera aperta. Lei pacifista radicale, lui a favore dell’invio delle armi in Ucraina. Uno scambio bellissimo. Senza accuse, senza offese, senza capri espiatori. Parlare liberamente e dissentire si può. Si deve.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

"Bastardi, dovete morire...". Gli insulti vergognosi alla Marina Militare. Ignazio Stagno il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Urla, offese, insulti: uno spettacolo orribile quello andato in scena a Taranto. Tutto l'odio dei "pacifisti" per le nostre Forze Armate.

Una vergogna senza se e senza ma. Il passaggio della "Nave carabiniere" sotto il ponte levatoio del canale navigabile di Taranto, lascia senza parole. Ma non per il prodigio delle acciaierie navali o per una manovra particolare del comandante, niente di tutto questo.

Gli insulti della vergogna

La vergogna è tutta negli insulti che sono stati rivolti all'equipaggio da parte di un gruppo di "pacifisti" che usano le parole per esprimere solo tutto quel veleno ideologico rispolverato, come fosse un'auto d'epoca in garage, in ogni occasione buona per infangare le nostre Forze Armate. Le offese e gli insulti sono partiti al passaggio della nave. Urla e lancio di oggetti da quelle terrazze che danno sul canale che porta al bacino dell'Arsenale all'interno del Mar Piccolo. Prima la scritta con tanto di striscione "La guerra la stiamo già pagando: chi con la vita, chi con la fame. No Nato! No Putin!". Poi la raffica di fango: "Bastardi, bastardi, assassini, dovete morire".

La solidarietà sui social

Un coro che ha indignato quei milioni di italiani che credono nel lavoro svolto dalle nostre Forze Armate e in questo momento delicato dalla nostra Marina Militare che deve assicurare la protezione dei nostri confini via mare in uno dei periodi più drammatici della storia recente. Sui social la clip video degli insulti si è immediatamente sparsa in lungo e in largo con commenti che hanno restituito la dignità a quell'equipaggio ingiustamente offeso: "Ignoranza allo stato puro,anziché ringraziare i nostri militari che corrono il rischio di non rivedere più le loro famiglie, questi addirittura gridano assassini", si legge su Facebook. 

La reazione della Difesa

Ma una presa di posizione è arrivata dallo stesso Ministero della Difesa con le parole del ministro Guerini: "Pur trattandosi di un gruppo ristretto di persone, che non rappresenta in alcun modo i sentimenti riservati dalla stragrande maggioranza dei cittadini italiani alle donne e agli uomini in uniforme, preoccupa la violenza di cui è stata fatta bersaglio la nave della Marina Militate 'Carabiniere', al rientro nel porto di Taranto. Ciò che rincuora è che si tratta dell'opera di pochi, che prende a pretesto una fase di tensione internazionale per cercare di riproporre parole d'odio ingenerose nei confronti di chi si impegna, quotidianamente, per garantire la tutela della sicurezza del Paese e di ciascuno di noi. Si tratta di azioni che si condannano da sole. Voglio esprimere la mia vicinanza all'equipaggio del 'Carabiniere' e a tutta la famiglia della Difesa". Parole di condanna arrivano anche dal sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè: "Immagini che fanno male al paese. L’aggressione a nave Carabiniere è un gesto che nel nome di un malcelato pacifismo in realtà violento offende le istituzioni e i marinai che ogni giorno adempiono il proprio dovere. Vicinanza agli uomini e alle donne della Marina Militare". Insomma un certo pacifismo di sinistra sfocia sempre nell'odio. Nel mirino, come sempre, la divisa.

"Andiamo a Kiev". Ora i pacifisti siano coerenti. Francesco Maria Del Vigo il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Che il pacifismo italiano non se la passasse particolarmente bene lo avevamo già intuito.

Che il pacifismo italiano non se la passasse particolarmente bene lo avevamo già intuito. Ma ora, a mostrarci il certificato di morte dell'ossessione buonista, è uno dei suoi massimi vessilliferi: Luca Casarini. Il leader di Mediterranea, ex No Global, No Tav, No Tap, no qualunque cosa e ora anche sedicente No war (ora si chiamano così, perché hanno capito che il pacifismo non tira più) lancia una proposta coraggiosa dalle colonne del Riformista: «Andiamo a fare gli scudi umani a Kiev». L'appello è indirizzato agli opinionisti con «stivali ed elmetto» (cioè tutti quelli che non vogliono abbandonare gli ucraini al loro destino) ma soprattutto al leader del Pd: «Mi rivolgo a lui: andiamo insieme a Kiev». Come se fosse una gita scolastica, organizza tutto lui. Tour operator Casarini.

Ma, per una volta, siamo d'accordo. Senza alcuna provocazione. Perché mette alla berlina tutti i suoi compagni e distrugge buona parte del cammino che ha percorso nella sua vita da contestatore. Basta fare i pacifisti con la pace (ma soprattutto la guerra) altrui. Cioè quello che Casarini e soci hanno fatto fino a ieri, anzi fino ad oggi. Troppo comodo sventolare la bandiera arcobaleno sprofondati sul divano del proprio salotto. Che lo andassero a dire a quelli che un salotto non lo hanno più - sventrato dalle bombe recapitate dal Cremlino -, che non si devono opporre, che non devono combattere, che non devono imbracciare un fucile per difendere la propria vita e la propria famiglia. O, altrimenti, come ha proposto Casarini l'alternativa è fare gli scudi umani. Una maxi manifestazione sotto le bombe con «30, 40, 50 mila europei con in testa parlamentari, segretari di partito, editorialisti e personalità pubbliche» o forse un tentativo di autoestinzione della sinistra stessa, direbbe qualche maligno, di sicuro una novità rispetto al solito e vetusto panciafichismo. Ovviamente non gli ha risposto nessuno dei suoi amici gauche caviar. L'unico che lo ha preso sul serio è il ministero degli Esteri, che pare si sia detto sconfortato. Se è sconfortato Di Maio, immaginiamoci gli altri...

Avvisiamo, per correttezza, il prode «scafista» dell'ong Mediterranea che da quelle parti però non si scherza, non è come traghettare qualche clandestino in Italia e magari fare i bulli e gli sbruffoni con gli ufficiali della Guardia di Finanza. Lì c'è la guerra, non c'è spazio per le buffonate alla Carola Rackete.

Non servirebbe a nulla, temiamo, ma se non altro sarebbe meno ipocrita. Sarebbe un'idea audace al limite dell'eroismo. Se non fosse la solita buffonata.

Slavoj Zizek per “la Stampa” l'8 marzo 2022.  

Ogni astratto appello alla pace non è sufficiente: il termine «pace», preso a sé, non ci consente di tracciare distinzioni fondamentali. Gli occupanti vogliono sempre, sinceramente, la pace nei territori che occupano. Israele vuole la pace in Cisgiordania. In Ucraina, la Russia è in missione di pace... Lo stesso Lenin riteneva che una grande guerra potesse creare le condizioni di una rivoluzione. Oggi, per impedire la guerra, c'è bisogno di una qualche forma di rivoluzione. Ricordiamo le parole pronunciate il 2 febbraio dal ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov: se scoppiasse una Terza guerra mondiale, si tratterebbe di un conflitto nucleare, altamente distruttivo; e la Russia correrebbe «un reale pericolo», se Kiev acquisisse armamenti nucleari.

Già anni addietro, com' è noto, Putin affermò che se, durante una guerra futura, la Russia avesse perso sul campo di battaglia, sarebbe stata pronta a usare per prima le armi nucleari. Mao Zedong aveva torto: quando la guerra gli va male, le tigri di carta si fanno più temibili. L'ossessione che la Russia non debba solo perdere in Ucraina, ma che debba essere vista perdere (nei termini di Boris Johnson) è molto, molto imprudente.

Le parole hanno un peso e aumentano la tensione. I capi politici in pericolo sono disposti a prendersi ogni rischio pur di salvare la faccia. Prima dell'attacco russo, Zelenskyi aveva ragione a mettere in guardia gli Stati Uniti dal ripetere di continuo che la guerra fosse imminente: sapeva che era vero, ma sapeva anche che ripeterlo può essere una profezia che si autoavvera. 

Dov' è oggi la saggezza dimostrata da Kennedy e Chruëv all'epoca della crisi cubana? Il 5 marzo Putin ha definito «equivalenti a una dichiarazione di guerra» le sanzioni promulgate contro la Russia e che avrebbe considerato belligeranti le nazioni occidentali che imponessero l'interdizione al volo sull'Ucraina.

Dobbiamo leggere queste affermazioni nel contesto di quel che Putin ha più volte ripetuto nei giorni precedenti: gli scambi economici con l'Occidente debbono procedere secondo il solito; la Russia manterrà gli impegni e continuerà a vendere gas agli europei... La morale è che la Russia non sta tornando alla cara vecchia Guerra Fredda, con le sue regole consolidate: durante la Guerra Fredda i rapporti internazionali erano chiaramente normati, grazie allo spettro della «Mad» («Mutually Assured Destruction» ) delle due superpotenze. Quando l'Urss invase l'Afghanistan, violando così quelle regole non scritte, pagò cara l'infrazione: la guerra in Afghanistan fu l'inizio della sua fine.

No, la «Mad» è ormai alle spalle. Superpotenze vecchie e nuove si mettono oggi reciprocamente alla prova: tentano di imporre la propria versione delle regole globali, applicandole per procura su nazioni e Stati più piccoli. La Russia prova a dettare un nuovo modello di relazioni internazionali: non più la Guerra Fredda ma la pace calda, una pace che equivale a una guerra ibrida permanente, in cui gli interventi militari vengono ridefiniti come missioni umanitarie di peacekeeping e di prevenzione del genocidio.

Quando la guerra è scoppiata, abbiamo letto che «la Duma esprime il suo inequivocabile e rafforzato sostegno al misure proporzionate agli scopi umanitari». Quanto spesso, in passato, abbiamo ascoltato dichiarazioni simili, applicate agli interventi in America Latina o in Iraq; ora è la Russia a prendere quel posto. (E perciò Julian Assange dovrebbe essere più che mai il nostro eroe). Mentre, in un Paese che intende controllare, la Russia bombarda le città, ammazza i civili, attacca le università, il commercio dovrebbe procedere normalmente, e tutto il resto, al di fuori dell'Ucraina, andare avanti come prima... È a questo che dobbiamo opporci senza condizioni. 

Dobbiamo fermare Vladimir Putin senza mandare armi all’Ucraina. LAURA BOLDRINI, deputata, su Il Domani il 14 marzo 2022

Le notizie che giungono dai diversi fronti di guerra in Ucraina sono estremamente allarmanti. Dopo aver provocato morte e distruzione a est, l'offensiva russa avanza in modo spregiudicato e pericoloso verso la Polonia.

È quindi sempre più urgente fermare Vladimir Putin. Ma come? Non penso che il modo giusto ed efficace sia inviare armi tanto più ad utilizzo dei civili.

Va urgentemente messa in campo un’azione comune, di cui l’Ue dovrebbe farsi portatrice, che coinvolga tutti i leader mondiali, così da mettere Putin alle strette e indurlo ad accettare il negoziato.

Le notizie che giungono dai diversi fronti di guerra in Ucraina sono estremamente allarmanti. Dopo aver provocato morte e distruzione a est, l'offensiva russa avanza in modo spregiudicato e pericoloso verso ovest, distruggendo basi militari a 50 chilometri da Leopoli e a 20 chilometri dalla Polonia, porta d’ingresso dell’Ue. Il presidente russo, Vladimir Putin, sta alzando il tiro, è pronto a tutto, anche alla carneficina, e rischia di causare l’incidente che determinerebbe una reazione della Nato. È quindi sempre più urgente fermarlo.

Ma come? Non penso che il modo giusto ed efficace sia inviare armi tanto più ad utilizzo dei civili che in questi giorni si stanno arruolando perché dare fucili a chi non ha esperienza non è sufficiente ad arginare la preponderanza militare e la furia devastatrice del Cremlino.

IL TERRENO DI PUTIN

La guerra è il terreno di Putin, in Cecenia come in Georgia, nel Donbas, in Siria e altri luoghi. Per questo motivo, pur votando alla Camera la risoluzione di condanna per l’aggressione all’Ucraina, mi sono astenuta sul punto che riguarda i rifornimenti bellici. Altrettanto penso che farò sul decreto che ci accingiamo a votare nei prossimi giorni.

Ritengo che le sanzioni siano lo strumento da utilizzare con sempre maggiore vigore perché sulla difesa dei principi democratici e della sovranità di uno Stato non possono essere fatti sconti a nessuno. All’aspetto economico va poi affiancato il piano politico.

Ritengo che vada urgentemente messa in campo un’azione comune, di cui l’Ue dovrebbe farsi portatrice, che coinvolga tutti i leader mondiali, così da mettere Putin alle strette e indurlo ad accettare il negoziato. Senza questa forte pressione politica la guerra rischia di avvitarsi in una spirale ancora più pericolosa, con molte altre vittime e altra distruzione. E l’obiettivo della de-escalation militare tanto auspicato resterà un miraggio per molto tempo ancora.

LAURA BOLDRINI, deputata. Nel 2013 è stata eletta alla Camera dei Deputati. Da marzo 2013 è stata presidente della Camera dei Deputati. Rieletta nel 2018, è deputata del PD. Prima di entrare in Parlamento ha lavorato per circa 25 anni in diverse Agenzie dell’Onu, di cui 15 anni come portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR).

La guerra in Ucraina e il “né … né” nostrano con la sua galassia di opportunisti. Le culture cattoliche e comuniste hanno fornito una vera e propria rete di salvataggio ai variegati e molteplici spezzoni del “né … né”. Su quella rete si sono schierate le potenti aggregazioni dell’atlantismo insieme al mainstream nostrano che non sopporta America e yankee. Aldo Varano su Il Dubbio il 23 marzo 2022.

Quando e se, speriamo presto, finirà l’incubo di una possibile terza (e ultima) guerra mondiale, scatenata dalle bombe di Putin contro l’Ucraina, bisognerà riflettere sul perché in Italia il dibattito s’è incentrato, con un’ampiezza sconosciuta in tutti gli altri Stati europei nessuno escluso, sul “né … né”, per significare che noi italiani, popolazione e governo, non avremmo dovuto aiutare né l’aggressore russo né l’aggredita Ucraina. Con l’aggiunta strategica, che il “né… né”, non serve e non può certo giustificare l’aggressione di Putin. Non c’è analista né giornale italiano che non si sia occupato dell’argomento. Per aggirare le difficoltà connesse a questa posizione, per sostenerla senza però assumersene la responsabilità culturale, s’è perfino teorizzato un divieto costituzionale, sempre e comunque, all’utilizzo delle armi. Il che per attenuare qualsiasi nostro coinvolgimento perché è come se dicessimo: “Certo sarebbe anche bello e giusto aiutare l’Ucraina con le armi ma la Costituzione in Italia ce lo impedisce. Insomma, pazienza ma non si può”. Interpretazione forzata del principio fondamentale del ripudio costituzionale della guerra come ha spiegato sul

Dubbio il giurista Giovanni Guzzetta. È vero: nessuna forza politica del nostro Paese è scesa in campo per appoggiare esplicitamente il dittatore russo e le sue pretese di prendersi, come sta facendo, una parte del territorio ucraino e di controllarne la restante parte. È inoltre evidente a tutti che Putin rinvia e rinvierà le trattative invocate da Zelensky per avere il tempo di impadronirsi di altri territori. Ma è anche vero che in nessun Paese dell’Ue è così ampiamente fiorito il “né … né” che significa un “posate le armi” non per chiedere di riportare la situazione a “prima” dell’invasione russa ma per fermarla e riconoscerla al punto in cui è ora arrivata grazie a bombe e carri armati, con cui continua a farsi strada Putin.

Ovviamente, dal ripudio della guerra e della violenza, subito e comunque, che arriva a teorizzare “il coraggio e la dignità della resa per la salvezza di altre vite umane”, emergono anche principi e testimonianze etici e pacifisti di grande valore dietro cui é possibile riconoscere la presenza preziosa di una cultura cattolica e la presa d’atto della sacralità della vita umana. Ma paradossalmente è proprio l’insieme di queste suggestioni a fare da sfondo al mescolarsi di convinzioni e ideologie di segno diverso e/ o perfino opposto sulle quali la storia della Russia, dal ’ 17 del secolo scorso, ha lasciato segni e tracce mai interamente rimosse.

L’exploit in Italia del “né … né”, piaccia o no ai suoi sostenitori, coincide con la presa d’atto che le ragioni del più forte sono insindacabili e definitive (il fondo strategico della pretesa di Putin e la ragione per cui continua ad aggredire territori che immagina diventeranno suoi), e racconta l’intreccio italiano tra le diffuse e diverse culture cattoliche e la deriva politica di chi in passato ha giudicato la Rivoluzione di Lenin del 1917 come all’inizio di un’era storica che avrebbe costruito l’uomo nuovo e una società a sua misura. Fatica a emergere in Italia che in realtà l’attuale deriva di Putin coincide, sia pure a scoppio ritardato, col fallimento del sogno dell’Ottobre rosso del ’ 17 di Lenin.

Curiosamente nel nostro Paese l’evidente conclusione tragica di una fase secolare iniziata con gigantesche speranze non ha trovato spazio né alcuna riflessione tra gli intellettuali italiani forse convinti che la fine di quella storia appartenga all’ 89. Eppure al di là delle argomentazioni spesso forzate che circolano, è innegabile che le bombe contro gli ucraini abbiano irrevocabilmente chiuso quel ciclo oggi, in questo terribile 2022, e non nell’ 89 del secolo passato, quando Putin aveva già 37 anni, ed era parte consapevole di quel mondo.

L’ultimo secolo (o poco più) di storia è stato vissuto in Russia per sette decimi dentro il sol dell’avvenire, ma ha lasciato sul terreno uomini, valori, convincimenti e culture di una comunità ora dominata da Putin, che si entusiasma all’idea di poter aggredire e sottomettere un Paese confinante sparando su mucchi di civili donne, vecchi e bambini compresi. Questo groviglio diventa particolarmente complesso in Italia dove un cattolicesimo molto articolato s’è mescolato con la realtà del più forte partito comunista dell’Europa democratica, anch’esso, come il movimento cattolico, con grandi differenze al proprio interno.

Le culture cattoliche e comuniste hanno fornito una vera e propria rete di salvataggio ai variegati e molteplici spezzoni del “né … né”. Su quella rete si sono schierate le potenti aggregazioni dell’atlantismo insieme al mainstream nostrano che non sopporta America e yankee. L’estremismo parolaio di sinistra e quello di una destra all’eterna ricerca di nuove avventure. Gli amici di Putin perché la Russia è sempre la Russia di un sogno antico ma anche quelli che grazie a Putin hanno fatto affari o sono diventati esponenti importanti di qualche nomenclatura politica e/ o affaristica. E dentro il “né … né” s’è installata inevitabilmente la gigantesca galassia dell’opportunismo nostrano all’eterna ricerca di un posto al sole ancor prima che per il Belpaese per la propria famiglia.

La sinistra, gli intellettuali e le scelte difficili. Benvenuti nel solito paese “né né”. Concita De Gregorio La Repubblica il 14 Marzo 2022.

Litigare per la pace, una storia che si ripete.

Avrete anche voi, nel tempo che resta insaturo dalle ultime dal fronte, sentito parlare della gara di ingegni di chi, da casa, suggerisce come si risolve il conflitto. Specialmente a sinistra, che è il luogo dove per tradizione più si dibatte a volte fino allo sfinimento e alla polverizzazione ma, ci si consola: democraticamente, quindi evviva.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 15 marzo 2022.

Prima di scrivere questa nota ho lasciato passare qualche giorno (ragioni di stima). Ho rivisto il monologo più volte. Ora non ho dubbi: quella di Maurizio Crozza è stata un'esibizione infelice perché il «neneismo» della sinistra radicale (neneismo is the new qualunquismo) è oltraggioso. Più un comizio che satira.

Nell'ultima punta di «Fratelli di Crozza», Crozza si è sentito in dovere di celiare sulla situazione geopolitica della guerra cha ha spinto la Russia a invadere l'Ucraina. Putin viene descritto come un pazzo criminale ma se ha agito così di chi è la colpa? «Ci sono degli esaltati che sanno cosa fa incazzare lo zar e glielo fanno sotto il naso… Guardate come sono cresciuti i Paesi della Nato dal 1998 ad oggi, sempre più vicini alla Russia: Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Macedonia. Sono diventate tutte rosse, ci mancava solo una base Nato nei bagni del Cremlino e il cerchio si chiude».

Dunque, la colpa è della Nato, degli americani. Per rafforzare il suo antiamericanismo, Crozza ha ricordato che «a Cuba nel '62, gli americani mica hanno lasciato che i russi gli mettessero dei missili ai confini, giustamente si sono incazzati, è chiaro che prima o poi la Russia si sarebbe incazzata».

Infine, da fine stratega, ha invitato l'Europa a diventare neutrali come la Svizzera. Crozza e i suoi autori dimenticano alcune cose fondamentali sulla democrazia. Paesi come l'Estonia o la Lettonia e tutti gli altri elencati forse preferiscono vivere, di loro spontanea volontà, sotto l'ombrello della Nato piuttosto che sotto quello della dittatura russa.

Gli americani (i cui errori in politica estera non si contano) nel '62 si sono «incazzati» con Cuba ma non hanno massacrato civili e bambini. Infine, è il caso di ricordare che la Svizzera ha compiuto un passo storico, adottando le sanzioni contro la Russia decise dall'Unione europea.

Dagonews il 15 marzo 2022.

E’ abbastanza chiaro: noi occidentali siamo disposti a combattere sino (quasi) all’ultimo ucraino pur di stanare il dittatore delle guerre in Cecenia, Siria, Georgia… e delle morti dei vari Politkovskaja, Nemtsov, Litvinenko… Quanto sta accadendo in Ucraina era già stato previsto, fin dal 2015, dal politologo di Chicago John Joseph Mearsheimer (Why is Ukraine the West's Fault? Featuring John Mearsheimer - YouTube ). 

Ciononostante, si è preferito non seguire la politica dell’appeasement, che nel ’38 non andò così bene. Anche allora si era disfatto un mondo, c’era un iniquo Trattato di Versailles, c’erano territori rivendicati, la povertà, le banche in mano ad altri, lo “spazio vitale”, la perdita dell’identità, l’Anschluss perché si è lo stesso popolo… ma l’appeasement non frenò il cattivo e incazzato.

La prima domanda da porre ai né né e agli esploratori dei “diritti di Caino” è la seguente: è più importante difendere un universale principio di autodeterminazione oppure ottenere una Pace sotto ricatto? La pace possibile, infatti, non è la “Pace perpetua” di cui scrive Kant nel 1795, che prevede la formazione di una federazione che abbracci tutti i popoli della terra con un ordine legale imposto da un'autorità mondiale superiore. Questo è l’ideale massonico al quale guarda il processo di globalizzazione (da cui quella che Mario Monti chiamò “cessione di sovranità nazionale”).

A questa prospettiva, chiamata dal filosofo putiniano Alexandr Dugin quella del primato del cielo, ovvero quella dei collegamenti rete, dei cittadini senza identità permanenti e di genere, degli inquilini del mondo senza una “loro” terra, della koiné inglese, degli Erasmus, dei protagonisti delle comunicazioni senza lavoro stabile… la Russia oppone il primato della Terra estesa, della tradizione e della identità, del genere, della non autodeterminazione e delle sfere di influenza culturale, linguistica e politica. Come Putin, anche i né né non comprendono che questo, però, è il mondo fermo a un secolo fa, quando Sykes-Picot si dividevano l’Asia Minore con la squadra, il primo, per altro, promettendo la stessa terra sia agli ebrei che agli arabi.

Ma nessuno lo veniva a sapere; stiamo parlando del mondo dei fratelli Lumiere, di quando Francia e Inghilterra controllavano il 90% dei mercati, di una popolazione analfabeta e stanziale, delle colonie d’Africa... Allora aveva senso la “geopolitica”, le cui ragioni si difendevano con la diplomazia delle élite e i carri armati. Oggi il carro armato è un fossile rispetto al telefonino che riprende e posta sui social la morte di un bambino! Non c’è stata una geopolitica occidentale verso l’Est perché ci sono i telefonini a farla! Ci sono stati coloro che avevano cinque e dieci anni quando cadde il Muro di Berlino e oggi sono diventati i padroni del loro futuro e si autodeterminano.

Preferiscono un comico fluido a un dittatore, osservano Victoria dei Maneskin all’Eurovision che si fa fotografare seminuda e gender-fluid su un divano (con un crocefisso al collo e un bikini blasfemo con scritto “father”, “son” e “holy spirit”) e la preferiscono alla predica Pope Cirillo I, che vede nei gay la fine del mondo. Se vuoi combattere questi costumi scostumati – ci provò già Rousseau, padre di Marx – devi offrire un’alternativa, non i carri armati! Quale diritto morale avrebbe avuto l’Europa a dire a un giovane ucraino “no tu no”, noi ci divertiamo ma tu non puoi poiché, altrimenti, il tuo vicino s’incazza? Tu appartieni alla civiltà Rus’a di Kiev e dei Paesi ex-comunisti, la tua vita non può cambiare, forse i pronipoti… 

La seconda domanda riguarda l’obiezione dei né né sulle altre guerre (ma anche in Yemen, Siria… non ci siamo comportati allo stesso modo); questa è solo una correità. Se non abbiamo la forza di impegnarci su tutto questo non deve vietare di impegnarsi su qualcosa. C’era un povero e mi sono girato dall’altra parte; ma questo non esclude che ne possa aiutare un altro. Inoltre, c’è un aspetto ovvio: non solo l’Ucraina è più vicina, ma è un Paese cristiano e ha ottimi ambasciatori in Europa: le sue lavoratrici e i suoi lavoratori presso le nostre famiglie.

Come puoi pensare che, in un mondo fatto da civiltà diverse (e non per volontà dei globalisti), una bomba che uccide il bambino della tua collaboratrice domestica possa suscitare in Europa lo stesso sgomento e sdegno di una bomba lanciata da un musulmano su altri musulmani in Asia dopo vent’anni di terrorismo islamico? L’Europa non è un mondo perfetto; ben che vada è il “migliore dei mondi possibili” con i suoi paradossi (leggere “Candide”, please). 

Una terza domanda da porre ai né né, già che di Voltaire stiamo parlando e vogliamo difendere le ragioni in cui non crediamo, è questa: d’accordo, così come proteggiamo le biodiversità possiamo difendere il multilateralismo, evitare la costruzione di un mondo di cittadini tutti uguali e sostenere civiltà diverse (quella del cielo, quella della Terra e molte altre ancora…). Ma questo mondo di civiltà diverse e “protette” può comprendere i dittatori? Le società aperte (vedi K.R.Popper, “La società aperta e i suoi nemici”) e democratiche sono per loro natura costruite con pesi e contrappesi che ne determinano il controllo. Se la platonica civiltà dittatoriale protetta prende il sopravvento, che fine fa l’idea di mondo multilaterale a più civiltà?

Basta armi in Ucraina, il politologo Revelli fa infuriare Minniti: "Chi c'era dietro i viet cong..." Il Tempo il 15 marzo 2022.

L'invio di armi all'Ucraina da parte dell'Italia e dell'Occidente fa discutere man mano che prosegue la guerra scatenata dalla Russia. Cominciano a fare rumore le voci contrarie al supporto europeo alla resistenza di Kiev, come quella del politologo Marco Revelli che martedì 15 marzo è intervenuto a L'aria che tira, il programma condotto da Myrta Merlino su la7. L'accademico spiega di comprendere le ragioni del presidente ucraino Volodymyr Zelensky e di quanti, nel Paese vaso, "vogliono resistere e giustamente chiedono un appoggio, ma noi dobbiamo parlare con una doppia responsabilità: del peso che le nostre parole hanno e delle loro possibili ricadute", dice Revelli. 

Per il politologo dobbiamo "guardare un po' più lontano rispetto alle esigenze del momento. A me pare che da tutte le testimonianze che vediamo questa guerra ogni giorno che passa diventa più feroce, sanguinosa e terribile. Questo è il crimine inescusabile di Vladimir Putin". La posizione di Revelli è che la guerra va fermata, non prolungata anche in forma di resistenza perché significa più sangue". Parole che provocano la reazione della conduttrice e dell'ex ministro dell’Interno, il dem Marco Minniti, favorevole all'invio di armi a Kiev. "In quello scenario di armi ce ne sono già troppe, e produrranno più sangue. Dobbiamo coltivare l'umanesimo, la guerra cancella l'umanità. Bisogna non farle scoppiare, e non tutto è stato fatto per evitare questo conflitto. Le vittime sono i poveracci" ribadisce il politologo mentre Minniti manifesta la sua contrarietà dal momento che questa scelta equivarrebbe la resa dell'Ucraina.

"I vietcong hanno battuto gli Usa perché Russia e Cina gli mandavano armi", replica l'esponente del Pd riferendosi a una citazione di Revelli che aveva messo in parallelo la guerra di oggi e il Vietnam. "Al tempo lo sapevo e sostenevo l'invio di armi e lo condividevo. Non possiamo dimenticarlo".

L'Aria che Tira, Antonio Caprarica asfalta i pacifisti: “L'Ucraina dovrebbe arrendersi e alzare le mani?” Il Tempo il 15 marzo 2022.

Antonio Caprarica è tra gli ospiti della puntata del 15 marzo de L’Aria che Tira, programma di La7 condotto da Myrta Merlino, e sostiene la causa dell’Ucraina accusando duramente la Russia: “Uno dei nodi veri di questa situazione è l’essenza del putinismo, cioè un regime tirannico, una cleptocrazia tirannica, che protegge i suoi interessi senza farsi lo scrupolo di ricorrere all’omicidio politico, che troppo spesso ci siamo colpevolmente dimenticati. L’inesistenza della democrazia in Russia è qualcosa di cui l’Occidente non dovrebbe ricordarsi solo quando scoppiano le guerre. Spero che finisca questa carneficina”.

“Davanti a questa situazione - dice convinto l’ex corrispondete Rai - non è legittimo che siano l'Europa e l'Occidente a decidere cosa devono fare gli ucraini rispetto alla difesa di popolo della loro terra. Ai pacifisti animati dalle buone e nobile intenzioni chiedo: cosa dovrebbero fare gli ucraini e cosa dovremmo fare noi per porre fine al bagno di sangue? Negoziare? Benissimo, ma Emmanuel Macron ha chiamato Vladimir Putin oltre venti volte in questi venti giorni, ci sono pressioni da tutto il mondo, Putin non si siede al tavolo negoziale e manda solo segnali di fumo che gli servono per guadagnare tempo in una guerra non può perdere e non può nemmeno vincere. Quali sono le posizioni del pacifismo estremo? Arrendersi e alzare le mani? Il negoziato vogliono due parti che devono negoziare”.  

Caprarica conclude il discorso ricordando agli altri ospiti in studio, tra cui il politologo Revelli, che cosa facevano tutti loro in passato davanti ad altri conflitti armati: “Nelle marce di pace della mia generazione sulla guerra in Vietnam non chiedevamo ai viet-cong di deporre le armi, perché difendevano la loro terra. Come mai - chiosa duro Caprarica - se è aggredito un popolo europeo, che si batte in nome dei valori dell’Occidente, chiediamo di deporre le armi all’aggredito?”.

Tutti vogliamo vivere in pace ma non si può essere equidistanti. Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 13 marzo 2022.

Caro direttore, praticamente ogni giorno un illustre editorialista del Corriere si sente in dovere di additare al pubblico ludibrio il pacifismo in tutte le sue accezioni, rischiando quasi di elevarlo al rango di massimo responsabile della gravissima crisi attuale. Oltretutto alla vasta categoria del pacifismo vengono spesso iscritti d’ufficio sia gli amici di Putin sia tutti coloro che si interrogano su quale forma di aiuto possiamo dare agli ucraini. Non facendo parte della categoria di «pacifisti» mi chiedo, con tutta l’angoscia del caso, se non sia lecito avere dei dubbi sul fatto che continuare a inviare armi sia veramente la scelta migliore. Non sarebbe invece meglio inasprire le sanzioni e cercare di mettere in atto ogni possibile risorsa diplomatica? È giusta un’autocritica dei pacifisti ma credo che, vista la situazione, non dovrebbero essere i soli a mettersi in discussione. Alessandro Vaccari

Caro signor Vaccari, Invocare la pace è sempre giusto e nobile. Chi meglio di noi, generazioni che per fortuna non hanno conosciuto la guerra, può apprezzare la grandezza del vivere in pace? Proprio per questo motivo penso sia un bene parlarsi con parole di verità. Nessuno in Europa e nel mondo occidentale ha voluto o provocato questo conflitto, non c’è alcuna ragione storica e politica che giustifichi quello che sta facendo Putin. Nel nostro mondo ci sono stati negli anni movimenti e leader che hanno avuto gran simpatia per Putin; partiti di ogni genere che hanno accettato finanziamenti dalla Russia. Per non parlare di chi apprezzava i buoni affari che si potevano fare con Mosca, senza alcuna altra considerazione. Ora davanti all’orrore dei bombardamenti e dei morti molti dei putiniani di un tempo si sono convertiti a un generico pacifismo. Il retropensiero è sempre lo stesso: le colpe stanno da tutte le due parti, la Nato è un’alleanza da combattere. E in ogni caso la massima attenzione viene riservata alle conseguenze economiche e ai sacrifici che combattere Putin può comportare. Di questi novelli pacifisti non vale dunque tener conto, quanto è forte l’ipocrisia che li anima. Parliamo invece dei tantissimi che credono alla pace come un valore assoluto che va perseguito anche a costo di rinunciare a libertà, democrazia e indipendenza. Io penso che il popolo ucraino stia dando una straordinaria prova di coraggio e di attaccamento a valori che sono i nostri stessi valori. Vorrei con tutto il cuore che ogni cosa si possa risolvere pacificamente e immediatamente. Che Putin fermi questa guerra. Ma se ciò non accade abbiamo il dovere morale e politico di fare tutto il possibile per aiutare gli ucraini, sostenendoli con le sanzioni, i finanziamenti e le armi di cui hanno bisogno per resistere. Ultima questione: è ipocrita dire «aiutiamoli» e poi non inviare le nostre truppe? Ma per chi vuole pace, evitare un conflitto mondiale non credo sia un tema irrilevante.

Partigiano, ucraini arrendetevi per salvare l'umanità. ANSA il 13 marzo 2022. "Ai ragazzi ucraini che stanno combattendo dico di arrendersi. Solo se loro si salveranno, potranno salvare l'umanità": a dirlo all'ANSA è Maffeo Marinelli, 97 anni, uno degli ultimi partigiani d'Italia. Parole, pronunciate al telefono dalla sua casa di Pesaro, che si portano dietro la preoccupazione di un'espansione del conflitto tra Russia e Ucraina.

"So cosa significa stare in guerra, ma non c'è territorio per cui valga la pena uccidere o morire", sostiene. Gli si chiede di Vladimir Putin e la mente lo riporta al ventennio fascista e al nazismo della Seconda Guerra Mondiale, che lo vide tra i ragazzi che organizzarono la resistenza nel nord delle Marche: "Sono sicuro - insiste - che (Putin, ndr) si eliminerà da solo. Arriverà un momento in cui sarà lui stesso a mettersi in ginocchio e chiedere di essere ammazzato. Non potrà continuare a vivere con questo fardello addosso". "Guardare il cielo e vedere cadere le bombe c'è solo da vergognarsi", sottolinea l'ex partigiano che si dice convinto che "dietro a questa guerra ci sono soprattutto tanti interessi economici". "Ma agli ucraini dico di finirla qui, smettete di combattere e fatevi da parte, ci penserà Dio alla vostra terra", aggiunge Maffeo, pensando sempre alla fine del dittatore russo. Marinelli è un uomo di pace e già in altre circostanze, ricordando la Seconda Guerra Mondiale, aveva avuto modo di dire che a distanza di tanti anni non capiva ancora "il motivo per cui fu combattuta". A maggior ragione oggi, fa ancora più fatica a comprendere il conflitto in atto: "Cosa abbia Putin nella testa non si sa, certo è che se continua così mette a rischio l'umanità". "Ma guai - conclude Maffeo - pensare di andare tutti in guerra. Putin si eliminerà da solo". (ANSA).

Ucraina, anche i progressisti si sono stufati dell'Anpi: "Non siete dei veri partigiani". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 13 marzo 2022.

I partigiani di oggi sono un ossimoro. Non hanno fatto la guerra, tantomeno la Resistenza. Come arma sventolano una bandiera della pace, provano un fastidio per gli americani che manifestano orgogliosamente e per la libertà non solo non sono più disposti a morire, ma neppure ad abbassare i caloriferi in primavera. Ne consegue che, ogni volta che scendono in piazza, il che è poi da quasi ottant' anni la loro unica attività, fanno la figura dei fessi. Rispetto ai loro nonni, sono distanti più o meno quanto i russi dagli ucraini: il ceppo è comune ma interessi, obiettivi e visioni del mondo sono pressoché opposte.

Se ne è accorta anche la sinistra, che da sempre usa i sedicenti partigiani del Duemila come truppe da sbarco, mandandoli allo sbaraglio per aprirsi spazi di manovra, senza omettere di mettergli prima nella gavetta quattro soldi pubblici, per garantirsi poi di non dovergli coprire le spalle. Con la crisi ucraina c'è però stato un salto di qualità e sull'Anpi i compagni hanno iniziato a scaricare raffiche di fuoco amico. Ne hanno più di una buona ragione. I partigiani di oggi infatti non sanno più per chi parteggiare. Sono contro l'invasione di Putin e a favore degli ucraini ma, fini analisti, hanno intuito che dietro il presidente Zelensky si nasconde il fantasma dell'America e per questo il leader di Kiev gli sta quasi più antipatico del signore di Mosca; infatti si oppongono all'idea di mandargli fucili e munizioni. Se armiamo i resistenti, è la teoria (s)partigiana, ci rendiamo colpevoli di una strage, perché gli ucraini non possono vincere, pertanto aiutarli significa solo prolungarne il massacro e il martirio. La loro strategia quindi è scendere in strada a duemila chilometri di distanza dal fronte per invocare la pace, come se Putin, che bombarda senza pietà donne e bambini di una popolazione che chiama «fratelli russi», potesse mai starli a sentire.

IL PESO DELLE ARMI - D'altronde, e in questo sono simili ai loro nonni, anche i partigiani d'oggi soffrono di scarso senso della realtà. Un tempo convinti di aver scacciato i nazisti dall'Italia quasi da soli, pensano ora di intimorire l'Armata Rossa con la forza del dialogo e del pensiero. Dimenticano che la guerra per la libertà di ottant' anni fa è stata possibile grazie alle armi che gli americani hanno passato alla Resistenza italiana e che oggi loro non vogliono passare a quella ucraina. E, per mantenere le forme, fingono di non sapere che, allo stato attuale, il solo modo per fermare la guerra e Putin, che ormai non può più recedere dal tentativo di conquistare tutta l'Ucraina, è metterlo in difficoltà sul campo, nella speranza che, a forza di sanzioni economiche e contrattempi militari, qualcuno a Mosca si muova per dare scacco allo zar. La notizia, come si diceva, è che anche nella sinistra che più sinistra non si può qualcuno inizia a non sopportare più gli intorcinamenti partigiani e lo dice a brutto muso. Così un arcistufo Carlo Calenda sentenzia che «l'Anpi oggi non rappresenta altro che se stessa e incarna valori opposti a quelli che animarono la Resistenza». Ma si sa, il leader di Azione è un bastian contrario che ne ha per tutti. Più male probabilmente fanno i giudizi degli anziani intellettuali Furio Colombo e Luigi Manconi, che ricordano come l'essenza dell'azione partigiana sia la lotta armata e, senza di essa, non sarebbero giustificate ambizioni di indipendenza e sovranità nazionale.

COLTELLATE POSTUME - Anche se la peggior coltellata alla lotta partigiana arriva dal pagliaccio Pagliarulo, omonimo dell'attuale capo dell'Anpi, il quale avverte che inviare armi agli ucraini «espone l'Italia a un grave pericolo». Quello della rappresaglia, che i partigiani del '45 non temevano, perché si abbatteva inesorabilmente sui civili, mentre terrorizza quelli di oggi, per lo più una congrega di pensionati ciabattoni, perché potrebbe, forse abbattersi di loro. C'è però di peggio. Ieri uno Zelensky sempre più consapevole di essere di fatto abbandonato dall'Occidente, che dà miliardi ogni giorno al signore del gas Putin, il nemico, e noccioline all'esercito Ucraino, l'alleato, ha parlato a una piazza dove c'erano sia Letta sia l'Anpi, chiedendo copertura aerea da parte della Nato. Letta gli ha dato ragione ma non farà nulla per concedergli quel che chiede. Pure l'Anpi no farà nulla, ma almeno gli ha dato torto, dimostrando meno faccia del leader Pd. 

Francesco Merlo per la Repubblica il 13 marzo 2022.

Piazza contro piazza, "cara Nato" contro "cara Mosca", la Bad Godesberg di Enrico Letta e del suo Pd contro la Cgil e l'Anpi ridotte a campo profughi dell'ideologia. Ieri era partigiana la piazza di Firenze e la settimana scorsa era neutrale quella di Roma. 

Duecento piazze d'Europa si sono connesse con Zelensky a Santa Croce, in inglese, che è la lingua della democrazia, platealmente all'opposto degli irriducibili che a San Giovanni, sette giorni prima, parlando la lingua morta dell'antiamericanismo, avevano manifestato per disarmare Zelensky.

E nei suoni consonantici con cui le lingue slave arrivano a noi italiani che pochissimo le pratichiamo, nell'implosione fonica c'è la Z di Zelensky aggredita dalla Z dei carri armati di Putin, la Z di Zivago contra la Z che gli invasori disegnano sui loro cingolati e che, al di là delle loro intenzioni, è la Z di Zar ed è la Z di Zek che vuol dire "prigioniero" ma prigioniero del Gulag.

C'era dunque la resistenza al terrore nella piazza a Firenze, c'era il Pd di Letta con i suoi sindaci guidati dal padrone di casa, Dario Nardella. Ed è stato molto meglio di un congresso, delle primarie e di qualsivoglia convention o dibattito, si chiami Agorà o si chiami Leopolda. 

La piazza di Firenze ieri è stata, appunto, il prologo della Bad Godesberg, della scelta definitivamente occidentale che la sinistra italiana insegue da cinquant'anni, dai tempi dell'Eurocomunismo (1976) di Berlinguer, Marchais e Carrillo: 46 anni di mal di testa, dal "neurocomunismo" alla commozione, ieri pomeriggio, di Enrico Letta per Zelensky e con Zelensky, che ha chiesto giustizia e non pietà per i primi 79 bambini ucraini uccisi dai russi, non la carità ma la solidarietà dell'Europa all'Europa, un conforto non tra amici ma tra alleati, un prendersi per mano tra popoli minacciati della stessa guerra.

E ieri, forse per la prima volta, l'Europa è diventata davvero una bandiera di piazza, forse perché per la prima volta è la bandiera di una patria a rischio, come il giallo e il blu dell'altra bandiera della piazza di Firenze, quella dell'Ucraina. 

Eppure, nonostante la chiarezza e il vigore di Enrico Letta non suona ancora definitivo l'addio del Pd alla funesta ideologia del "K", che non è solo il famoso "fattore K" che fu evocato da Alberto Ronchey e torna come un destino, visto che nella grande Russia di Putin c'è la stessa violenza del Kommunizm russo che finanziava il Pci e c'è di nuovo il terrore del Kgb.

E forse questo K sopravvive nella sinistra italiana proprio perché nel nostro alfabeto non c'è. La K insomma esprime bene l'idea, che spiega il filoputinismo più o meno esplicito o più o meno timorato di alcuni intellettuali, che la storia nazionale venga ancora decisa altrove, la K dell'Amerikano, il film di Costa Gavras con Yves Montand nel ruolo dell'agente della Cia in Sudamerica. 

Certo, le bombe russe contro l'ospedale e quel numero 79, sul quale Zelensky ha tanto insistito, hanno un po' messo in crisi i Né Né, e non consentono con facilità quella scelta neutrale dalla quale ieri si è dissociato lo stesso Maurizio Landini, che era in piazza anche a Firenze perché «non è vero che siamo equidistanti», e però insiste sul disarmo dell'Ucraina. 

Ma non c'è da farsi illusione: la fortezza antioccidentale dei Né Né è fondata sul rimpianto dei vecchi tempi andati, sangue e codici dell'antiamericanismo d'antan, la gloriosa Cgil ridotta a una Stalingrado del «come eravamo di sinistra». Solo così si spiega che la Brigata Wagner, i mercenari scelti che Putin ha inviato a dare la caccia a Zelensky, piaccia in Italia, oltre che alle solite macchiette sopravvissute al vaffa, anche a quel gruppetto di professori, tra i quali spiccano le illustri eccellenze Luciano Canfora e Carlo Rovelli, nostalgici della Brigata Proust, che danno la caccia al tempo perduto della loro giovinezza rivoluzionaria, rivogliono la Cia, la Nato e yankee go home ma alla fine si accontentano di Putin, che sempre grande Russia è.

Ma forse, in questo terribile tempo di guerra, con la piazza contro la piazza è davvero cominciata l'ultima battaglia della sinistra italiana contro i suoi fantasmi.

Concetto Vecchio per la Repubblica il 13 marzo 2022.  

Nei giorni scorsi il fisico Carlo Rovelli, l'autore di bestseller come Sette lezioni di fisica e Helgoland, ha postato sui propri profili social le immagini di città distrutte da altre guerre: nello Yemen, in Afghanistan, nell'ex Yugoslavia; indietro nella storia fino a Hiroshima e Dresda. 

Ha usato questo testo: «Un'immagine di Kiev devastata dai russi. Ah no, scusate, ho sbagliato, questo è lo Yemen, dove le bombe che cadono vengono mandate dal mio paese in Arabia Saudita: 300mila persone uccise in quella guerra, carestia, milioni di persone che soffrono terribilmente, ma non sono bianchi come noi, quindi perché dovremmo commuoverci per loro?».

Al pari di altre figure note della cultura e dell'accademia - dalla filosofa Donatella Di Cesare al sociologo Alessandro Orsini - sostiene la tesi che è in corso «uno scontro tra potenze, non tra Russia e l'Ucraina». Un punto di vista che molti leggono semplicemente come filo Putin. 

Per questa sua posizione ha ricevuto anche delle minacce online. «Non sono cose gravi, ma le leggo come l'effetto del clima di belligeranza nel quale immersi: chi non si allinea sta dalla parte del nemico», spiega al telefono dal Canada. «Secondo me non bisogna mandare le armi. Ogni fucile inviato provoca morti ucraini in più».

E quindi, scusi, gli ucraini non devono difendersi?

«Questo lo devono decidere loro, noi non dobbiamo fomentare uno scontro. Hanno di fronte un esercito dieci volte più potente. Si rischiano lutti enormi». 

E allora cosa devono fare di fronte ad un'aggressione a casa loro?

«Mettersi a un tavolo e trattare. Intanto l'Europa deve sapere che con l'invio di aiuti militari la guerra si prolungherà. Ci pentiremo di quel che stiamo facendo. Non ho simpatie per Putin, ma ci serve un mondo multipolare».

Cosa intende, esattamente?

«Dove l'Occidente non pensa di potersi imporre militarmente sul mondo intero. Leggerlo diviso tra il bene e il male non ci aiuta per la pace. Non tutti la pensano come noi. Infatti metà del pianeta, come rivelano le astensioni alle Nazioni Unite di più di trenta Paesi, tra cui Cina, India, Pakistan, non ha condannato la Russia. Noi adesso ci indigniamo, perché vediamo la guerra vicina. Ma la guerra è orrenda sempre, lo è in Iraq, in Afghanistan, nello Yemen, in Siria. Ci sono molti altri conflitti in corso».

Su Facebook aveva scritto: «Cinque parole sono sufficienti per fermare follia ucraina: la Nato non si espanderà all'Ucraina».

«Invece - argomenta adesso - la Nato ha compiuto esercitazioni militari davanti ai confini russi». 

Per la sua posizione è stato accusato di sarcasmo e di mancata compassione verso un popolo in fuga, milioni di uomini, donne, bambini che scappano nel gelo perché non hanno più un tetto. Insistiamo: che fare?

«Tutti devono concedere realmente qualcosa. L'esempio è Cuba, 1962. l'Unione Sovietica di Krusciov rinunciava a mettere i missili in cambio del ritiro, da parte di Kennedy, dei missili americani dalla Turchia. L'Ucraina potrebbe essere neutrale, come la Svizzera», conclude Rovelli. 

È un pensiero che coltiva anche il grecista Luciano Canfora.

La sua intervista giovedì scorso alla Gazzetta del Mezzogiorno, in cui affermava che l'invasione è colpa dell'Ucraina per avere disatteso gli accordi del 1991, ha fatto molto rumore. Numerose sono state le critiche. «Ho ricevuto molta solidarietà invece», si giustifica adesso. Soprattutto è stato accusato di non spendere una parola per le vittime. 

E anche adesso al telefono dice che è più importante capire dove andrà a parare il conflitto che intervistare le persone per strada a Kiev. «Sono interviste tutte ugualmente dolorose, ma non aiutano a comprendere quello che succede».

È di fatto una guerra tra Russia e Nato, afferma. E cita, a sostegno della sua tesi, due figure diversissime tra loro, come Bernie Sanders e l'ex capo di Gladio Paolo Inzerilli, secondo i quali la Nato, con la sua espansione, ha di fatto provocato il conflitto. 

«Vorrei che ci indignassimo anche per gli altri massacri, Yemen, Libia, Siria, Irak, Afghanistan.In Ucraina se ne esce solo con una mediazione israeliana e una conferenza di pace in Europa. La Nato deve assicurare di non avanzare sotto il naso dei russi». 

C'è un aggressore e un aggredito. «Sì, ma noi dobbiamo anche capire come siamo arrivati a questo punto». Professore Canfora, alla fine, lei moralmente non sta dalla parte di Putin? «No, né con Putin, né con la Nato».

Né con Putin né con la Nato, il terrapiattismo della sinistra antagonista. Stefano Cappellini su La Repubblica l'11 marzo 2022. 

Ecco perché non bisogna scambiare il diritto d'opinione con il diritto alla stupidità. Questo è il numero di venerdì 11 marzo 2022 della newsletter Hanno tutti ragione, firmata da Stefano Cappellini.  

Qualche anno fa, quando nella striscia di Gaza fu ucciso da terroristi islamici un giovane attivista italiano, Vittorio Arrigoni, che era lì per prestare volontariato e aiuto alla popolazione locale, in alcuni quartieri di Roma comparvero dei manifesti - area sinistra antagonista - su cui c'era scritto: "Vittorio, un'altra vittima del terrorismo sionista". Era una menzogna così plateale, assurda, incredibile da suscitare forti dubbi sulla sanità mentale di chi l'aveva partorita e ritenuta degna d'essere pubblicamente affissa.

Il presidente e l’assassino. Cinque motivi per cui gli europei devono chiedere scusa a Joe Biden. Vittorino Ferla su L'Inkiesta l'8 Marzo 2022.

La Casa Bianca aveva ragione quando si sgolava contro il pericolo rappresentato da Putin e dalla sua Russia, con cui invece altri facevano affari.

Ridotta all’osso, la manifestazione di San Giovanni dei cosiddetti pacifisti è stata una protesta contro la Nato. Che, tradotto, significa contro gli Stati Uniti d’America. Ma a questo pacifismo ideologico – antiamericano, antioccidentale, antiliberale – bisognerebbe ricordare che le uniche possibilità di risolvere la crisi in Ucraina e di stoppare l’imperialismo nazionalbolscevico di Vladimir Putin dipendono proprio dagli Stati Uniti e dalla Nato (e dal risveglio di un’Europa che riconferma la sua scelta del campo occidentale). E che se c’è, oggi, un leader mondiale da ringraziare per i suoi appelli e al quale chiedere scusa per non averlo ascoltato abbastanza, beh, quel leader è proprio Joe Biden. Almeno per cinque motivi.

1– Quando l’estate scorsa gli americani lasciarono l’Afghanistan gliene abbiamo dette di tutti i colori. Ma oggi sappiamo che Joe Biden ha fatto la cosa giusta. Il ritiro delle truppe americane aveva una giustificazione strategica fondamentale: lo scenario mediorientale è meno rilevante rispetto all’emersione di nuovi focolai di crisi in giro per il mondo e, soprattutto, rispetto alla radicale trasformazione degli equilibri geopolitici. Biden ha già chiaro da tempo che l’esplosione economica della Cina – che si appresta a diventare, secondo alcuni osservatori, la prima economia mondiale, superando proprio gli Stati Uniti – cambia profondamente l’assetto delle relazioni internazionali, spostando il baricentro verso l’Oriente. Diventa necessario pertanto vigilare l’emisfero che va dal Pacifico agli Urali. Partendo da Pechino, che sarà sempre più protagonista economica e tecnologica nello scacchiere globale, per finire a Mosca, che conserva il secondo arsenale militare e nucleare del pianeta.

2 – Dall’inizio del suo mandato, Biden si sgola sulla necessità di rafforzare e unire le democrazie contro l’emersione di nuove minacce autoritarie. Finora, il suo invito è stato declassato all’ossessione senile di un presidente alla disperata ricerca di un ruolo per sé e per l’America dopo gli anni dell’amministrazione repubblicana. Donald Trump aveva cercato sistematicamente il disimpegno dagli affari del mondo puntando sul rilancio dell’isolazionismo economico e del nazionalismo politico dell’America.

Per raggiungere questo obiettivo, Trump ha sabotato l’unità della Nato e ha approfondito le divisioni interne all’Unione europea, vittima delle convulsioni della Brexit, dei litigi tra i paesi frugali e i paesi mediterranei e della frammentazione della politica estera. Una strategia che lo ha legato a Vladimir Putin – e ad altri autocrati in giro per il mondo – accettando l’hackeraggio digitale del leader russo sulle elezioni americane e sposandone gli eccessi.

L’utopia di una alleanza mondiale dei populismi nazionalisti ispirata da Steve Bannon, il consigliere di Trump, sembrava vicina a realizzarsi. Durante la presidenza del magnate americano, Putin ha così goduto della progressiva distanza tra Europa e Stati Uniti, ha consolidato il suo potere interno e la sua influenza internazionale senza alcun tipo di ostacolo e si è messo alla testa di una iniziativa politica e strategica basata sull’esaurimento del ciclo storico delle democrazie liberali, dichiarato più volte e apertamente. Con gli Usa isolati e l’Europa litigiosa, Joe Biden ha ricominciato tra le macerie del fronte occidentale. Oggi, la guerra della Russia in Ucraina, rende ragione alla intuizione del presidente americano: ricostruire il blocco delle democrazie diventa sempre più necessario per difendere la libertà, la pace e il progresso contro la minaccia dell’autoritarismo.

3 – Esattamente un anno fa, rispondendo a una domanda durante un’intervista al canale televisivo statunitense ABC News, Joe Biden ha ammesso di ritenere il presidente russo Vladimir Putin «un assassino». Una risposta brutale, se giudicata secondo i canoni del linguaggio diplomatico, ma empiricamente indiscutibile. Ricordiamo gli assassini in serie dei dissidenti e dei critici del regime – da Anna Politkovskaja ad Aleksandr Litvinenko – alcuni dei quali eliminati anche fuori dalla Russia, secondo modalità tipicamente mafiose. Oppure gli stermini compiuti in alcune regioni vittime dei suoi appetiti: dalla Cecenia all’Ossezia, dalla Georgia alla Crimea. Tutto questo nel silenzio complice dei Paesi europei che, fino ad oggi, hanno continuato a tenere legami strettissimi con la Russia, a partire dalla Germania di Angela Merkel. Proprio in questi giorni, l’intelligence americana è all’opera per monitorare lo stato di salute del tiranno russo, nel timore che il suo narcisismo patologico e il suo delirio di onnipotenza possano condurlo a una deriva distruttiva sempre più drammatica.

4 – Negli ultimi mesi nessuno aveva immaginato che la Russia potesse davvero attaccare l’Ucraina. Potremmo raccogliere chilometri e chilometri di dichiarazioni di intellettuali, docenti, analisti e osservatori impegnati a garantire e a giurare che no, era impossibile che Vladimir Putin potesse portare la guerra nel cuore dell’Europa. Salvo attivare il piagnisteo sui ritardi e sulla miopia dell’Occidente, immediatamente dopo il lancio delle prime bombe. Qual è stato il primo e unico leader mondiale a lanciare l’allarme sulla minaccia russa e sulla probabile invasione dell’Ucraina, prontamente accusato di isteria da Putin (cosa che non stupisce) ma anche da buona parte del mondo occidentale (cosa che stupisce un po’ di più)? Il suo nome è, ancora una volta, Joe Biden.

5 – Last but not least. In anni recenti, Mosca ha adottato una strategia di infiltrazione sistematica nell’infosfera dei paesi occidentali. Basti pensare alla capacità di influenzare la stessa campagna presidenziale ed elettorale americana, con l’avallo di Donald Trump. Ma qualcosa di simile è accaduto anche in Italia dove è ormai acclarato il coinvolgimento del Cremlino nel successo dei partiti populisti italiani e nella ramificazione della protesta No Vax e No Pass. Sul versante economico, il governo russo ha anche conquistato posizioni sul piano delle forniture energetiche e delle relazioni commerciali approfittando del lassismo di alcuni governi europei, come quello tedesco, e dell’adesione idiota ed entusiasta dei governi gialloverde e giallorosso in Italia.

Anche in queste situazioni, l’impegno di Joe Biden è stato totale. Nel suo paese ha fatto di tutto per smascherare l’ingerenza digitale di Mosca nella politica americana e l’intreccio di interessi esistente tra Putin e Trump. In Europa, mentre cresceva la minaccia di Putin verso l’Ucraina, nel timore di interruzioni nelle forniture di gas da parte della Russia, Joe Biden ha messo a disposizione le riserve americane e ha mobilitato altri paesi per garantire forniture sostitutive per i paesi alleati.

Ecco perché oggi, mentre le città dell’Ucraina sono bombardate dai cannoni russi e l’Occidente si ritrova all’improvviso riunito contro il nazionalismo risorgente, bisognerebbe riconoscere a Biden quella lungimiranza che nessun altro ha avuto. Con buona pace del pacifismo ideologico antiamericano.

Il conflitto in Ucraina. Gli effetti della guerra sulla geopolitica, perché l’Occidente non può non reagire. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022. 

Dopo l’invasione dell’esercito di Putin in Ucraina, solo due settimane fa, la vita politica del nostro pianeta ha cambiato completamente volto. Le tensioni che erano forti sulle due sponde del Pacifico, fra gli Stati Uniti e la Cina, si sono spostate, a causa dell’impiego della violenza, nel vecchio continente, stanco di guerre e illuso dall’idea di un ritorno perenne della pace. Oggi noi europei ci siamo confrontati a qualcosa di più di un conflitto come quello che ha dilaniato la Jugoslavia negli anni 90 del secolo scorso. Un primo provvisorio bilancio della guerra può essere steso. Le perdite maggiori sono certamente quelle per la popolazione civile ucraina, assediata e sotto le bombe. Ma la resistenza guidata dal presidente Zelensky sta infliggendo costi anche al paese invasore e rende difficile l’azione russa.

La guerra lampo, grazie alla quale Putin sperava di piegare Kiev e ottenere la resa, non è riuscita e la conquista delle maggiori città appare più complessa. Lo zar post-comunista e forse nostalgico dell’impero è forzato ad una sorta di vietnamizzazione del conflitto, che rischia di creare un deserto che chiameranno pace, ma anche un danno difficilmente riparabile per la Russia di Putin e anche, forse, per i suoi successori. Economico, culturale e reputazionale. Perché Putin ha perso anche – specialmente – sul piano della comunicazione. Che nell’epoca della globalizzazione e di internet, rappresenta un asset fondamentale, dal quale difficilmente di può prescindere. Per non parlare dell’odio che buona parte degli abitanti dell’Ucraina nutrirà per generazioni nei confronti dell’invasore. Non sappiamo oggi né quanto né come finirà il conflitto nel centro dell’Europa dell’Est, sostanzialmente punita per volersi avvicinare alle democrazie costituzionali dell’occidente.

Ma possiamo guardare agli aspetti che vanno sotto il capitolo del bilancio: ex malo bonum. La Nato era stata dichiarata in condizioni comatose – con qualche buona ragione – solo un paio di anni fa e si è svegliata e risorge come un elemento decisivo, anche se non unico e forse non sufficiente, della difesa dell’Europa. Il novello Hannibal ante portas ha fatto fare un sussulto anche alla pacifista Germania che dalla fine della Seconda guerra mondiale si era addormentata sotto l’ombrello protettivo della potenza militare americana e ha finalmente deciso di spendere in modo massiccio per la difesa. Il vecchio progetto di un esercito europeo e di una difesa strategica comune sono di colpo usciti dal dimenticatoio, dal quale gli intellettuali ed i politici più attenti avevano cercato di tirarlo fuori. L’Unione Europea da questa crisi violenta troverà ulteriori energie per una closer union. Senza parlare del significativo avvicinamento fra l’Europa e gli Stati Uniti che dopo la sconfitta di Trump la violenza russa ha fortemente consolidato.

Ma tutto ciò non avverrà senza costi anche importanti, come sempre accade quando si spezza uno status quo. L’Unione europea ha fatto molti errori. Non quello di minacciare la Russia, ma sicuramente quello di credere che il pacifismo unilaterale produca di per sé la pace e, specialmente, quello di rendersi dipendente per il 40% del suo bisogno energetico dalla Russia di Putin. Le statistiche, sempre utilissime, vanno lette con attenzione e oggi sappiamo bene che ci sono in particolare due paesi che dipendono in modo massiccio dal gas russo: la Germania e l’Italia. Sono paesi che hanno rinunciato all’energia nucleare (a differenza della Francia), senza sviluppare sufficientemente le energie alternative, necessarie in ogni caso per provare a impedire un disastro ecologico irreversibile.

L’occidente non può non reagire alla violenza che viene fatta all’Ucraina. Se non reagisse porgerebbe semplicemente l’altra guancia. Certo per il bene dell’umanità non può entrare in guerra contro una potenza nucleare come la Russia. L’unica opzione, oltre a tutti i possibili aiuti al paese attaccato ed ai suoi abitanti, che ormai cominciano a fuggire le bombe e che faranno crescere lo sforzo non facile di assistenza e per alcuni di integrazione degli immigrati, consiste nell’imporre al paese invasore pesanti sanzioni. Come ha scritto Lucrezia Reichlin sul Corriere della Sera queste ultime avranno effetti, ma solo a condizione di essere massicce, e avranno costi non solo per la Russia, ma anche per noi, soprattutto per i paesi più dipendenti dal gas di Putin. Costui che ragiona come nel secolo scorso e per certi versi come nel diciannovesimo non ha capito che la Russia – che fa ormai parte del capitalismo finanziario internazionale – può essere isolata anche senza l’uso delle armi.

Ci vorrà tempo, ma l’occidente può forse condizionare la Russia a divenire uno stato in qualche modo anche dipendente della Cina, la quale con l’occidente preferisce fare business piuttosto che guerre. Noi dovremmo il prima possibile (che non sarà domani) renderci indipendenti dalle forniture che vengono dalla Russia e accettare almeno per un periodo restrizioni energetiche. Questi costi non saranno facili da accettare e spingono a qualche considerazione sull’impatto per ora ancora da definire dell’aggressione nei confronti dell’Ucraina sulla politica italiana. Che è profonda e variegata. Perché, se è vero che siamo tutti (93%, dati Demos) preoccupati per la guerra, è vero anche che non tutti condannano nella stessa misura l’attacco della Russia. Si tratta, beninteso, anche in questo caso della maggioranza (77%) ma c’è comunque una minoranza consistente che afferma che “la Russia ha delle ragioni” (18%, con il 21% tra gli elettori della Lega e 23% in FdI) o, che, addirittura, “la Russia ha fatto bene a intervenire” (2%, ma 5% tra il Leghisti, sempre dati Demos).

Altre questioni più specifiche provocano fratture ancora più intense. Ad esempio, l’invio di armi ai resistenti ucraini, Anche in questo caso, la maggioranza lo approva. Ma si tratta, questa volta, di una maggioranza relativa, il 45% (fonte Eumetra). Più di un terzo, il 35%, lo disapprova e ci sono molte risposte “non so” (20%). Sono più favorevoli i giovani e i possessori di titoli di studio elevati. Ma le posizioni critiche diventano la maggioranza, seppur di lieve entità, tra gli elettori M5s e Fratelli d’Italia. Insomma, malgrado i partiti politici si siano schierati tutti dalla parte dell’Ucraina, il conflitto divide l’elettorato del nostro e, beninteso, di altri paesi. Ciò che avrà effetti dirompenti anche sulla politica interna quando si intensificheranno le conseguenze economiche e sociali della crisi che stiamo vivendo.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Vittime go home. La resistenza ucraina non piace alla sinistra radicale perché non combatte contro l’America. Mario Lavia su L'Inkiesta il 12 marzo 2022.

Intellettuali, giornalisti e militanti che un tempo tifavano per Tupamaros o Hezbollah non riescono a solidarizzare con gli aggrediti perché non rientra nel loro schema rigido terzinternazionalista. Vogliono la resa di un popolo martoriato dalle bombe per farla finita con questa seccante deviazione della Storia.

Ma basta armi all’Ucraina, scrive scandalizzato Tommaso Di Francesco sul Manifesto, basta, ne ha già tante! «Nei tre mesi dell’ammassamento di truppe russe alla frontiera, ogni paese occidentale ha inviato tonnellate di armi e istruttori a quel paese», dice il giornalista del quotidiano fondato da Pintor e Rossanda, ricordando poi che è pieno di foreign fighters e soprattutto che «il paese che le invia diventa cobelligerante» (quello che sostiene Lavrov, per capirci): e che vogliamo entrare in guerra?

C’è da stropicciarsi gli occhi davanti alla sinistra estrema che per decenni non ha certo disdegnato le armi quando si è trattato di Tupamaros o Hezbollah (e lasciamo perdere qui certe pagine del ’77 italiano) e che oggi sembra travestirsi da Aldo Capitini e bellamente sostituire Gandhi a Che Guevara.

Pacifisti questi antichi teorizzatori, se del caso, della guerriglia?

È un’illusione ottica che deriva dal fatto che, a differenza del pacifismo integrale (che è una cosa seria, infusa persino di un anelito religioso), questi hanno intesta il solito binario: Stati Uniti contro resto del mondo.

Dunque soprattutto bisogna essere contro l’America, e se l’America (di Donald Trump o di John Fitzgerald Kennedy è la stessa cosa) oggi è con Kiev allora che Kiev cada, qualche colpa ce la deve avere per forza, altrimenti nello schema terzinternazionalista che non ha mai abbandonato questo modo di pensare, i conti non tornerebbero.

È la logica di Donatella Di Cesare, fin troppo bersagliata per insistere qui, che si rifugia nel caro vecchio schermo della complessità pur di non ammettere che tutto il mondo civile sta giustamente con l’Ucraina, pur di non sottoscrivere gli appelli a sostenere Kiev con tutti i mezzi che vengono da Joe Biden, Emmanuel Macron, Mario Draghi e tanti altri; e se la metti alle strette, facendo semplicemente osservare che qui c’è un Paese invasore e un altro che è vittima dell’invasione, allora la professoressa di filosofia teoretica (ma che hanno i filosofi da un po’ di tempo?) la butta un po’ dalemianamente in tribuna: «Ma dov’è la politica?».

La politica è momentaneamente sospesa a causa delle bombe, cara professoressa: non è complesso, questo.

Insomma, presso intellettuali, giornalisti e militanti della super-sinistra c’è come un fastidio per una guerra condotta dagli ucraini per quello che è, una guerra di libertà: fastidio per non averlo previsto – loro che hanno categorie forti alle spalle, dal materialismo storico in giù -, fastidio per un popolo “non nostro” – gli ucraini non sono i vietcong né i campesinos né i palestinesi – persino, anzi, in odore di nazismo (come dice Putin), fastidio soprattutto perché pone nuovamente dalla parte giusta della Storia lo Zio Sam, il banchiere italiano, il bonapartista di Parigi, insomma i capi della classe avversa, i cattivi (la cricca avrebbe detto Marx) che faranno pagare l’economia di guerra agli operai.

Ma di quale resistenza si parla? – si scandalizzano – non capite che le armi prolungano i conflitti e dunque fanno più morti? Li ha dialetticamente distrutti un intellettuale certo non amerikano come Luigi Manconi, sostenendo che «con questa logica, si sarebbe dovuto rinunciare a gran parte delle azioni armate della Resistenza, con l’inevitabile mortificazione di qualunque ruolo dell’Italia nella guerra di liberazione e di qualunque successiva ambizione all’indipendenza e alla sovranità nazionale».

Bisogna capire, ma cosa bisogna capire? Dice a sproposito Nadia Urbinati scomodando Norberto Bobbio che lei si rifà al pensiero antidogmatico. Più che antidogmatico è un pensiero contro i fatti, quindi dogmatico nel senso che è pregiudiziale e ideologico: e fanno pure le vittime, loro, presenti in tutti i talk show e su tutti i giornali.

Questa sinistra vuole la resa di un popolo offeso, invaso e martoriato dalle bombe per farla finita con questa deviazione della Storia, questo improvviso protagonismo di masse mai prima prese in considerazione, questo ritorno di internazionalismo non nel senso di Lenin o Trotskij ma in quello della religione universale della libertà, questa sinistra che non vede l’ora di smetterla con pandemie e guerre – un po’ signora mia, si – e non vede l’ora di rituffare il naso nei piattini di caviale su qualche terrazza romana per criticare il riformismo e la libera America, proprio quel caviale di cui Biden ha vietato l’importazione negli Usa e che dà l’imperituro nome – gauche caviar – agli innamorati del Secolo breve che fuggono a gambe levate davanti a un tempo che non capiscono più.

La Babilonia dei pacifisti rossi. Alessio Mannino l'11 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il mondo pacifista di sinistra si è spaccato sul conflitto in Ucraina: ecco perché. Sul modo di tradurre in pratica la parola magica “pace”, la sinistra italiana è spaccata in due come una mela. Da una parte la sinistra moderata, di fede atlantista; dall’altra la sinistra radicale, ossia i pacifisti di stretta osservanza. Sai che novità, si dirà. Ma la guerra in Ucraina non rappresenta che l’ultimo baco di un groviglio di contraddizioni, autoinganni e rimozioni che in realtà ne minano la tenuta politica, e anche psicologica, almeno da un paio di decenni. I fatti nudi e crudi forniscono una guida. Domani sabato 12 marzo il Partito Democratico, con il segretario Enrico Letta in testa, sfilerà compatto in una manifestazione a Firenze “in solidarietà con l’Ucraina e contro la guerra di Putin”, come ha twittato la responsabile esteri Lia Quartapelle. In collegamento video appariranno il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e il sindaco di Kiev, Vitalij Klye’ko. Una sfilata tutta in proprio per marcare le differenze dal corteo di Roma del 5 marzo, che aveva radunato tutte le anime del serpentone arcobaleno (naturalmente divise fra loro, ci mancherebbe). Letta, infatti, ha l’urgenza di far sapere al mondo che in Italia la piazza non è monopolio di chi invoca la pace intesa come retorica “neutralità attiva”, a metà strada fra Nato e Russia.

Il Pd, e con esso tutto ciò che sta alla sua destra (Italia Viva di Renzi, Azione di Calenda, Più Europa), si schiera a fianco di Zelensky sostenendo convintamente l’invio di armamenti deciso dal governo Draghi, altro che equidistanze. E fin qui, tutto pacifico. Ma allora come si spiega la presenza della Cgil di Maurizio Landini in entrambe le adunate? Mentre la Cisl si era sfilata da quella di sabato scorso, giudicata troppo ambigua da Luigi Sbarra, il sindacato rosso è ubiqua. Il motivo è semplice: la Cgil è ormai da tempo la vera struttura portante, in termini di radicamento organizzativo, potenza numerica e capillarità di diffusione, di quell’entità eterogenea che è la sinistra italiana. Senza la sua adesione, nessuna adunata può aspirare a diventare oceanica. Fra i suoi iscritti non mancano tesserati del Pd, per lo meno della sua parte minoritaria erede alla lontana dei Ds (che non a caso, con Gianni Cuperlo e Peppe Provenzano, presenziavano accanto ad Alex Zanotelli e i pacifisti duri e puri). Ed è qua che veniamo a un primo nodo: oggi sul fronte bellico, come ieri sulle tensioni sociali e dei diritti del lavoro, l’uomo medio di sinistra convive in una scissione interiore permanente. La testa (e i compromessi) con i partiti moderati, il cuore e la pancia con il sindacatone baluardo di quel che resta della tradizione. A conti fatti, però, è in parlamento e a Palazzo Chigi che si decidono le sorti dei dossier. E lì, oggi, è Letta a tener banco. Semmai, dovendo tenere a bada uno spregiudicato Renzi, che una sua pattuglia di peones può manovrarla, più che impensierirsi per le parole d’ordine care al “popolo di sinistra”. In questo senso Leu, con il suo unico ministro Roberto Speranza, la piccola Leu che i rumors danno avviata all’inglobamento nel Pd, è la cartina di tornasole dell’impotenza di fatto di quella sinistra-sinistra ridotta pressocchè totalmente al movimentismo extraparlamentare.

Ma andando ancora più a fondo, è l’autosilenziamento dell’Anpi, l’associazione partigiana, a dare la misura della divisione ideologica profonda che ribolle sotto la superficie. All’indomani dello scoppio delle ostilità, il comunicato ufficiale della sigla più totemica a sinistra è stato uno schiaffo in piena faccia a chi vorrebbe darle una ben lucidata immagine di rassicurante occidentalismo, europeismo, americanismo. La colpa dell’invasione russa è da spartire con l’Alleanza Atlantica, è il succo della posizione dei guardiani della Resistenza. E guai a chiamare così la lotta dell’esercito e del popolo ucraino contro l’invasor, hanno puntualizzato via via altre voci molto ascoltate nell’area, come quella, molto seccata, della filosofa Donatella Di Cesare. Mentre la Cgil è il moloch che dà corpo alla sinistra, l’Anpi ne costituisce la giubba da sfoderare il 25 aprile e ogni qual volta il fantasma del fascismo eterno fa da garante e copertura a tutti, dai piddini ai neo-comunisti, così da ritrovare nelle memorie di ottant’anni fa una romantica identità minimale che altrimenti non ci sarebbe, da quando anche il metalmeccanico Cipputi di Altan ha dovuto abbracciare la flessibilità liberale. Cantare “Bella ciao” a squarciagola non basterà più, a chi pensa pace ma tambureggia guerra. Infine, se mai può esservi fine a questo caos, la caduta dei miti.

Uno era Massimo Cacciari, l’intellettuale per antonomasia per gli eredi del Pci e della sinistra Dc. Supponente ma con sostanza, cane sciolto quanto basta per arrischiarsi a unirsi ai No Green Pass (e anche qualche No Vax) nella Commissione Dubbio e Precauzione di Giorgio Agamben, Ugo Mattei e Carlo Freccero, il filosofo più amato dai talk è finito in una black list di presunti filo-putiniani stilata da un giornalista di prima linea nel campo di sinistra atlantica, Gianni Riotta. In realtà, Cacciari è reo di asserire tesi non dissimili da quelle dell’Anpi (e non solo, intendiamoci: sempre per stare sul versante compagni, dalle parti del Manifesto si fanno notare i reporter Andrea Negri e Manlio Dinucci, anche se quest’ultimo ha denunciato la censura di un suo articolo pure lì).

Il cortocircuito regna sovrano. Passando alla zona “artisti e star impegnate”, di norma e regola bastione di quella sedicente superiorità morale con cui certa sinistra copre le proprie vergogne, non si registrano invece dissonanze di nota. Addirittura Alessandro Gassmann, dalla sua trincea casalinga, tiene a far sapere che contribuisce alla sfida fra il Bene e il Male con il termostato appena sopra la tacca del raffreddore. Poi, per carità, a meno di non voler citare l’epico scontro a colpi di tweet fra Chef Rubio, della corrente pugno chiuso e tatuaggi, con David Parenzo, opinionista in permanente servizio radiotelevisivo: “patetico e imbarazzante”, “pirla Chef RUBLO”. Livelli altissimi. Parafrasando un vecchio film sul sinistrismo radical-chic, a che ora si fa la pace? Si deve venire già mangiati?

Pravda quotidiana. La militanza del pacifista italiano nel credere alla propaganda di Putin. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 12 marzo 2022.

Le fonti di Mosca, la narrazione del Cremlino e quelli che danno la colpa agli ucraini perché non si arrendono se piovono bombe sui bambini.

Nell’esercitare la sua professione, il pacifista sorvegli tuttavia quel che gli succede attorno. Butti un occhio alla redazione democratica impegnata a spiegare che laggiù, con le operazioni speciali, si sta tentando di non spaventare la gente.

Non si perda lo spettacolo del giornalista che copre la notizia dell’ospedale bombardato avvisando che bisogna andarci cauti, perché c’è tanta disinformazione e vai a sapere se davvero volevano bombardarlo, magari l’hanno colpito per sbaglio. Si gusti l’impassibilità della conduttora, che a quello sproposito non replica il dovuto, e cioè «Scusa, vuol dire che l’invasione è okay se non bombardano volontariamente gli ospedali?», e invece gli ammolla che «Sì, è vero, bisogna essere prudenti».

Gradisca, il pacifista, la segnalazione – fatta solo per completezza, per carità! – secondo cui da fonte russa si fa sapere che lì dentro c’erano milizie neonaziste, altro che donne incinte e neonati.

Apprezzi, il pacifista, il professionismo rigoroso del corrispondente che a lui mica gliela raccontano, perché di guerre ne ha viste tante e gli hanno “imparato” che il bene e il male li trovi da tutte le parti, e anche le mezze stagioni dice che non ci stanno più.

Non sfugga al pacifista la scena dell’Italia intramontabile, il Paese profondo e influente, comunista e fascista fin nelle midolla, vigliacco, sporco, che ha preso a manifestarsi non quando uno ha cominciato la guerra, ma quando l’altro ha osato resistervi, e ha lavorato incessantemente per perfezionarsi nell’ignominia prima cauta e ora finalmente sbrigliata per cui è colpa degli ucraini che non si arrendono se piovono bombe sui bambini.

Poi, se a fine giornata non avrà fatto nulla per prendere le distanze da quel bel milieu – che, spiace tanto, ma è il suo – tenga gli occhi abbassati mentre fa le abluzioni prima del letto, perché c’è lo specchio. E dorma tranquillo, perché l’Italia pacifista protegge il suo sonno e mai avrà un presidente criminale che non si arrende.

L’UOMO DI PUTIN SI ALLEÒ CON IL M5S PER CANCELLARE LE SANZIONI UE. Il viaggio a Mosca nel giugno del 2019 con l’ex capogruppo Ferrara e il senatore di Forza Italia Aimi era servito per stringere un’alleanza. CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano del Sud il 5 marzo 2022.

La Russia tentò di condizionare il governo di Giuseppe Conte alleandosi con il M5S. L’obiettivo era far schierare l’Italia contro le sanzioni scattate dopo l’invasione della Crimea.

Lo prova un documento che fu controfirmato dal presidente della Commissione Esteri del Senato, Vito Petrocelli, e dal presidente del Comitato per gli Affari internazionali della Federazione dell’Assemblea Federale Russa, Konstantin Kosachev.

Un protocollo firmato a Mosca il 19 giugno del 2019, formato da sette articoli, nel quale le parti si promettevano «reciproca collaborazione». Alla missione parteciparono anche l’ex capogruppo al Senato, Gianluca Ferrara, membro della Commissione Esteri, e il senatore Enrico Aimi, esponente di Forza Italia, che al tempo era rappresentante dell’opposizione.

La notizia – completamente ignorata dai media italiani – fu invece ripresa da Sputnik-news, l’agenzia governativa russa che riportò anche il tweet di Petrocelli: «In partenza per Mosca con i colleghi Ferrara e Aimi, bilaterale con la Commissione esteri del Consiglio della Federazione russa e firma del protocollo di cooperazione».

Petrocelli, che ha votato contro le sanzioni che furono comminate dall’Unione europea e dal Parlamento italiano alla Russia, non ha mai fatto nulla per nascondere le sue simpatie in politica estera. All’epoca era vicinissimo all’attuale ministro degli Esteri. Luigi Di Maio. Ha sempre avuto un rapporto personale con Beppe Grillo. I suoi rapporti con la Cina, ha riferito lui stesso più volte, esulano dalle relazioni diplomatiche: «Sono personali».

IL PRIMO INCONTRO A NEW YORK

«L’idea di firmare un protocollo di cooperazione – dichiarò Petrocelli a Sputnik – è nata durante il nostro incontro con Kosachev lo scorso settembre a New York, in una sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Allora avevamo parlato dell’importanza di discutere insieme le questioni che sono di reciproco interesse per i nostri parlamentari».

Nel Protocollo si parla di una cooperazione a tutto campo. «Le parti – si legge infatti all’articolo 2 – si scambiano opinioni su questioni di reciproco interesse, in particolare su temi come la situazione internazionale, la cooperazione economica, la cooperazione nel settore della sicurezza e della lotta contro il terrorismo e il traffico internazionale di essere umani, in particolare in Europa e nel Medio Oriente, le sfide ambientali, la cultura e le migrazioni».

RIUNIONI STRATEGICHE AD ALTO LIVELLO

Il dialogo bilaterale prevedeva incontri periodici, «riunioni strategiche ad alto livello» tra le delegazioni. I russi avrebbero dovuto ricambiare la visita ma questo – secondo Gianluca Ferrara – non è avvenuto causa Covid. L’articolo 5 del documento prevedeva rapporti di partenariato con l’organizzazione di conferenze, seminari, colloqui, sessioni di lavoro, scambi di funzionari tra le parti «al fine di condividere esperienze professionali».

Non osiamo pensare ai “funzionari” che dall’intelligence russa sarebbero arrivati da noi in virtù di questa reciprocità. Fermo restando – e il dubbio francamente ci inquieta – che non sappiamo se questa clausola dell’accordo sia stata messa in pratica o no. È un dato di fatto, però, che il tema principale della comunicazione tra i membri della commissione e i colleghi del Consiglio della Federazione furono proprio le sanzioni. Ad ammetterlo fu lo stesso Petrocelli.

«Il nostro governo – disse all’agenzia governativa russa – deve trovare alleanze all’interno dell’Unione europea per superare le sanzioni. Siamo consapevoli di non poterlo fare da soli, quindi dobbiamo trovare dei modi, dobbiamo trovare alleati in questo campo, prima di tutto chi soffre del calo dello scambio commerciale con la Russia per revocare queste sanzioni».

Giuseppe Conte non poteva non sapere. Idem Beppe Grillo (che da 8 giorni, cioè dall’inizio della guerra in Ucraina, tace). La diplomazia russa si muoveva su due fronti. Da una parte il M5S, lusingato a Mosca, dall’altra la Lega. Le cene di Gianluca Savoini, ex presidente dell’Associazione Lombardia-Russia, al Metropol, le operazioni segnalate dalle unità antiriciclaggio della Guardia di finanza e i presunti legami con la sparizione dei 49 milioni di rimborsi elettorali. Un’operazione a tenaglia, quella dei funzionari e diplomatici russi, avviata nel 2019.

LA PROMESSA AI RUSSI: PREPAREREMO UNA RISOLUZIONE SPECIALE

Nel protocollo – va detto – non c’è nessun diretto riferimento diretto alle sanzioni. E del resto non avrebbe potuto esserci: qualsiasi posizione diversa da quella ufficiale del nostro governo sarebbe stata in aperto conflitto con le decisioni dell’Unione europea. Ci saremmo collocati fuori.

Petrocelli, però, ai giornalisti russi lo disse espressamente. «Vogliamo lavorare proprio in questa direzione (togliere le sanzioni, ndr)». E dopo la visita promise: «Prepareremo una risoluzione speciale. In questo documento intendiamo proporre di trovare le alleanze necessarie all’interno dell’Unione europea per superare le sanzioni antirusse. È ciò che noi come Senato e come Parlamento intendiamo proporre al governo nazionale».

Sputnik in versione spagnola si spinse più avanti: arrivò a scrivere che l’Italia avrebbe incontrato gli alleati europei per sollecitare la cancellazione delle sanzioni antirusse che impediscono la cooperazione economica.

E aggiunse che questa era anche la posizione del primo ministro Giuseppe Conte: «Italia busca hacer todo para cancelar ese método cuanto antes, le sanciones no deben dañar a los ciudadanos».

Conte filorusso a sua insaputa, insomma.

IL PRESIDENTE SUPER PARTES

Ma dicevamo di Petrocelli, 58 anni, tarantino, un cuore che prima di consegnarsi a Grillo batteva a sinistra, contrario a inviare equipaggiamenti militari all’Ucraina. Un caso che ha creato molto imbarazzo tra i grillini e che probabilmente costringerà il senatore a lasciare la poltrona della Commissione di Palazzo Madama. La sua simpatia per i Paesi non allineati è stata minimizzata da Conte («Non avviamo una caccia alle streghe») e da altri colleghi pentastellati, molti dei quali assenti al momento della votazione della risoluzione unitaria sulla guerra ucraina approvata dal Senato il 1°marzo con 244 sì, 13 no e 3 astenuti. Malattie diplomatiche? Amici del Cremlino?

Ieri l’altro all’audizione congiunta con le commissioni Difesa di entrambi i rami del Parlamento il senatore pugliese non ha preso parte. Assente «per motivi familiari», è stata la motivazione ufficiale. L’unico che lo ha difeso è stato proprio Ferrara: «Vito è super partes, rimanga alla guida della Commissione». Meno conciliante Paola Taverna: «Petrocelli deve fare una profonda riflessione, sono ruoli che esulano da appartenenza alla componente politica, farà lui una riflessione».

CHI È KOSACHEV L’AMICO DI PUTIN

Di certo i rapporti con Mosca sono sempre stati molto cordiali. Prima interprete, poi segretario dell’ambasciata russa in Svezia, Kosachev intrattiene rapporti ad alto livello nelle maggiori capitali europee. Più volte premiato da Putin, è stato eletto nella Duma nel 1999, lo stesso anno in cui l’ex capo del Kgb si affacciava in politica . Quattro anni dopo era già presidente della commissione Affari internazionali, carica che ha ricoperto fino al 2011, anno in cui iniziò a occuparsi dell’Agenzia generale per gli Affari e soprattutto del Commonwealth degli Stati indipendenti.

Vice presidente del Consiglio della Federazione Russa, Konstantin Kosachev nella scala gerarchica della diplomazia russa è un uomo di primo piano. È a lui che Putin si è affidato quando nel gennaio scorso sono state represse le proteste nel Kazakistan. Scontri violenti che rischiavano di destabilizzare il governo del presidente kazako Qaym-Jomart Togaev. A scatenare gli scontri, motivazioni politiche e soprattutto il raddoppio del prezzo del gas.

Kosachev riunì l’Organizzazione delle «repubbliche amiche», Armenia, Bielorussia, Tagikistan e Kazakistan per preparare una «missione di pace», missione che si concluse con oltre duemila arresti e un numero imprecisato di feriti tra i manifestanti. Negli scontri furono uccisi 12 agenti delle forze dell’ordine e – secondo fonti locali – anche decine di assalitori che non furono identificati. Da qui l’accusa lanciata da Kosachev che a guidare la sollevazione a Taraz, “la città della vodka”, siano stati infiltrati stranieri, “terroristi” e “nazisti”. Le stesse motivazioni utilizzate 9 giorni fa per invadere l’Ucraina.

Uno vale Putin. Il pacifismo egoista dei grillini per cui la guerra in Ucraina non ci riguarda. Mario Lavia su L'Inkiesta l'11 Marzo 2022.

Le posizioni nel movimento sono diverse e comprendono istinti filorussi insieme all’atlantismo di Di Maio. In mezzo c’è quella dell’avvocato del popolo, che per schivare i contrasti interni sembra sempre più ostile a Zelensky e alla resistenza, in un nome di un neutralismo cinico e disinteressato.

Firenze? No, Napoli. Sono strani questi grillini. Invece di partecipare alla manifestazione fiorentina convocata dal sindaco Dario Nardella per l’Ucraina, sabato prossimo andranno a Napoli per una manifestazione “gemella”, una catena umana convocata dal sindaco Gaetano Manfredi. Così la faccia è salva.

Peccato che sarebbe stata l’occasione per farsi vedere nell’appuntamento di gran lunga principale contro l’aggressione di Putin, là dove saranno presenti i gruppi dirigenti e militanti di Pd, LeU, Azione, Italia viva. Invece la scelta è stata quella di scappare a Napoli, dove ancora resiste un nucleo di militanti grillini organizzati, ci andrà Roberto Fico, è la città di Di Maio, e Manfredi è un buon amico (i grillini lo considerano un sindaco “nostro”).

La questione ovviamente non è logistica ma politica. La scelta napoletana riflette la voglia di distinguersi da tutti quelli che sulla guerra hanno una posizione netta – sostegno all’Ucraina con tutti i mezzi, anche militari – perché è noto che nel Movimento convivono opinioni diversissime che vanno dall’estremismo filoputiniano di Vito Petrocelli, il presidente della commissione Esteri del Senato imbullonato alla sua poltrona malgrado il dissenso con la posizione espressa dal Parlamento, alla posizione ufficiale anti-Putin seguita dal ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

È chiaro che quest’ultimo ha un’influenza molto molto relativa sui parlamentari grillini, come al solito sfrangiati ma forse in prevalenza attestati su una posizione che giorno dopo giorno da equidistante sta diventando persino contraria alla battaglia condotta da Zelensky, per timore di un’escalation del conflitto che come tale coinvolgerebbe anche il nostro Paese. È una posizione falsamente “pacifista” ma che sembra intrisa di quell’egoismo di chi ritiene che, tutto sommato, la guerra di Putin non è affar nostro e che, una volta espressa una solidarietà di prammatica agli ucraini, la cosa finisce qui, trovassero loro il modo di far finire il conflitto prima di guai peggiori.

È la linea di Giuseppe Conte, peraltro evanescente sulla scena politica, che evidentemente affronta questa tragedia con la logica dell’avvocato in cerca di un compromesso e che è clamorosamente “apparsa” sulle chat grilline, dove si è scatenata un’opposizione all’idea di una seduta della Camera in ascolto del presidente ucraino, così com’è avvenuto ai Comuni a Londra e all’Europarlamento di Bruxelles.

La notizia rivelata dal collega dell’Adn Kronos Antonio Atte è veramente impressionante: nella chat anonimi parlamentari grillini criticano «una sovraesposizione insensata del Parlamento italiano», e si ironizza sul segretario del Pd: «Se poi facciamo parlare Letta ciao, andiamo in guerra domani…». Si tratta evidentemente di una fronda che ha messo nel mirino Roberto Fico, che sta appunto organizzando la seduta con Zelensky: «Questo (Zelensky, ndr) verrà a chiedere di fare una guerra mondiale e noi applaudiremo. Dopo il super green pass per i parlamentari, un altro modo per farsi ricordare come il peggior presidente della Camera della storia repubblicana».

È la stessa linea di Virginia Raggi che si era lamentata del fatto che l’Italia ha più attenzione per i cittadini ucraini rifugiati che per i non vaccinati: una posizione demenziale che evidenzia la totale mancanza di solidarietà per le vittime del Cremlino. Mentre la guerra infuria sulla popolazione ucraina e il mondo condanna Mosca, il primo partito del Parlamento italiano scappa.

Una risposta all'appello per la pace. È giusto fermare la guerra in Ucraina, ma come si fa? Valter Vecellio su Il Riformista il 10 Marzo 2022. 

Come si fa a non essere d’accordo con monsignor Vincenzo Paglia, il suo accorato e appassionato “Attento Occidente, non si fa la pace a colpi d’arma da fuoco” (Il Riformista, 9 marzo). Solo (purtroppo c’è sempre un “solo”), che il problema non è tanto fare “noi” la pace a colpi d’arma da fuoco, quanto impedire che “loro” facciano la guerra. Ci sono le classiche cinque domande: chi? Dove? Quando? Come? Perché? Per quattro interrogativi la risposta c’è, a volerla vedere. È il “come” che non si sa bene come attuare. Un presidente americano, insignito, per quello che vale, del premio Nobel per la pace (Theodor “T.R” Roosevelt, quello dell’orsacchiotto), era solito raccomandare: “Speak sofly and carry a big stick; you will go far”, “Parla piano e porta un grosso bastone, andrai lontano”. Significa, al di là del “bonario” motteggio: cercare di far uso di una intelligente previdenza, e nel caso un’azione decisa in anticipo a una probabile, possibile crisi.

Monsignore: certo che il conflitto in atto va “chiuso. Subito. Immediatamente”. Certo: per un’esigenza “etica, umana, storica, strategica”. Certo: non si deve cadere nella possibile trappola. Come? Monsignore: si domanda, e ci domanda, se non sia in atto un tentativo “davvero diabolico di assuefazione alla guerra”… Monsignore, lasci stare il diavolo dove sta: siamo capaci di fare tutto da soli, noi umani. Nessun tentativo, ci siamo assuefatti: dov’era la nostra angoscia e preoccupazione quando sempre Putin radeva al suolo Groznjy, e massacrava i civili ceceni? Quando occupava la Crimea? Quando massacrava i civili siriani? Quelle guerre si trascinano da anni, come in Africa, come in molte parti dell’Asia. A gennaio, dov’eravamo quando Putin, con i suoi Specnaz puntellava il regime fantoccio di Qasym-Jomart Kemelūly Toqaev in Kazakistan? Eppure un generale (ogni tanto, cum grano salis, vanno pure loro ascoltati), Wesley Clark, comandante della Nato al tempo dell’intervento in Kosovo, a gennaio ci ha messo in guardia: «L’ambizione di Putin è ristabilire il predominio sull’Eurasia che aveva l’Unione Sovietica. Finora non è stato capace di farlo, ma sfrutta ogni occasione per provarci. Perciò ha assalito l’Ucraina, allo scopo di ricostruire la sfera d’influenza di Mosca. In Kazakistan ha reagito con forza e rapidità per tenere in piedi il regime amico e riaffermare il controllo sui territori dell’ex impero sovietico nell’Asia centrale. Un’azione militare molto violenta, condotta insieme da forze speciali e non convenzionali: la caduta di Tokayev sarebbe un segnale molto negativo non solo per le ambizioni imperiali di Putin, ma anche per la sua stessa presa sulla Russia».

Certo, Monsignore, la guerra “è sempre una follia”; anche se non è sempre vero, purtroppo, che non ci sia un conflitto che si possa giustificare. Ce ne sono che si giustificano eccome, ed è proprio qui la gravità, la tragicità della situazione. Contro i nazi-fascisti, la giustificazione c’era eccome! E non credo sia da dirlo in Israele, che certi conflitti del passato contro le nazioni arabe non si giustificavano. C’è chi si domanda che cosa avrebbe detto e fatto un campione della nonviolenza come Marco Pannella; ovvio che non c’è risposta. Però quando ci fu l’invasione della Cecoslovacchia da parte sovietica e delle truppe dell’allora Patto di Varsavia, con Silvana Leonardi, Antonio Azzolini, Marcello Baraghini, si fece arrestare a Sofia, in Bulgaria; e pur gravemente malato, fu l’unico parlamentare europeo che partecipò a Mosca al funerale di Anna Stepanovna Politkovskaja, la giornalista assassinata dai killer di Putin. È dunque chiaro da che parte si sarebbe schierato. So che non si stancava di ripetere che «è vergognoso, come diceva Gandhi, che quando bisogna lottare in difesa dei diritti di vita, devi scegliere tra il non farlo e il farlo con le armi; e che a questo punto, meglio il violento che difende il nonviolento sui diritti negati contro l’oppressione, che non il codardo che non fa nulla».

Peccato, Monsignore, che il suo articolo/invocazione sia pubblicato in italiano. In lingua russa, andrebbe tradotto; sarebbe cosa buona e giusta distribuirlo là, in Russia: nella piazza Rossa di Mosca, davanti al Cremlino; nella Dvorcovaja Ploščad di San Pietroburgo; a sostegno e conforto di quanti, in queste ore manifestano non tanto “per” una generica pace, quanto “contro” una specifica guerra; e per questo vengono picchiati, minacciati, arrestati. È vero, Monsignore: «Dobbiamo scegliere la pace. La giustizia si fa con la pace e nella pace, non si genera a colpi di armi da fuoco». Ma chi parla di “denazificazione”, di “drogati” da sterminare; di guerra santa contro gli omosessuali? Monsignore: è bella l’immagine di Santo Francesco che parla e ammansisce il lupo; ma la nuova Gubbio terrorizzata è l’Ucraina; e la tana del lupo è a Mosca. Sommessamente, Monsignore, direi che è da lì che occorre cominciare.

Per parte mia, rivolgo un grazie a Ezio Mauro; su Repubblica scrive: “Quando cantiamo in corteo “Bella Ciao”, noi rinnoviamo l’impegno per la libertà e per la democrazia”. Ora forse capisco perché nei “nostri” cortei Bella ciao non viene cantata. La cantano invece in Ucraina. Continuo però a non capire perché chi non aveva remora a urlare “Yankee go home”, oggi non se la sente di sussurrare “Putin idi domoy”. Putin dice che chi resiste in Ucraina è un drogato; il patriarca ortodosso Kirill benedice la guerra, perché è contro gli omosessuali. Manca il complotto giudaico dei “Savi di Sion”; ci si arriverà: o si comincia con gli ebrei, o si finisce con gli ebrei, ma degli ebrei non ci si dimentica mai. Del resto, il presidente Volodymyr Oleksandrovyč Zelens’kyj, cos’è se non un “perfido giudeo”? Valter Vecellio

La pentola di Freud e il paternalismo sulla resistenza ucraina. Da eroe a ingombro, la parabola di Zelensky nel dibattito sull’invio di armi. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 10 marzo 2022.

Dice Yassin al Haj Saleh, scrittore siriano, in un articolo su «Internazionale» del 9 marzo – Perché l’Ucraina è una causa siriana: «Questa aggressione si basa su tre pretesti contraddittori. Primo, “denazificare” l’Ucraina, un obiettivo che renderebbe questa guerra una continuazione della Grande guerra patriottica dell’Unione Sovietica contro Hitler, piuttosto che delle guerre espansionistiche di Putin in Cecenia, Georgia, Crimea e Siria. Secondo, “smilitarizzare” l’Ucraina, o distruggere le sue forze armate e impedire che possa mai entrare nella Nato. E terzo l’idea che l’Ucraina non sia una “vera nazione”, come sostiene Putin, bensì una parte della Russia. Viene in mente la storia della “pentola” di Freud, nella quale un uomo che aveva preso a prestito una pentola dal suo vicino la restituisce danneggiata. Per assolvere se stesso, fornisce tre argomentazioni: la pentola non era danneggiata al momento della restituzione; era già danneggiata quando l’aveva presa in prestito; non aveva mai preso in prestito la pentola».

Queste argomentazioni sulla “pentola” si ritrovano nelle parole di chi, pur augurandosi che presto si instauri una trattativa, si oppone all’invio di armi alla resistenza ucraina. In questo caso, le tre argomentazioni sono: primo, l’Ucraina ha già perso, nel momento stesso in cui i russi sono entrati, e quindi che senso ha inviare armi; secondo, l’Ucraina non può mai vincere contro un esercito estremamente più forte e meglio equipaggiato, nonostante le armi che possiamo inviare; e terzo, l’Ucraina non avrebbe mai dovuto resistere. Ovviamente, in tutta l’argomentazione non viene tenuta in alcuna considerazione quello che dice la “pentola” stessa, ovvero gli ucraini, che chiedono di essere armati per poter resistere e che oppongono un argomento semplice eppure incontrovertibile: meno siamo armati e meno possiamo resistere.

C’è anche chi non si avviluppa in pretesti contraddittori, ma mira dritto al sodo. È il caso di Pablo Iglesias di Podemos, Spagna, che in un breve testo “schietto” pone la domanda: Quale è il dibattito che dovremmo affrontare? E il dibattito che dovremmo affrontare non è se gli ucraini hanno diritto a difendersi, perché ne hanno diritto. Iglesias si è rivolto a un amico generale – un “esperto”, insomma – per sapere come militarmente gli ucraini potrebbero sconfiggere l’esercito russo e la risposta è stata: «Una missione militare internazionale guidata dagli USA con altri paesi NATO, e soldati spagnoli, francesi, tedeschi». Perciò, la domanda da porsi, dice Iglesias, è la seguente: «Quello di cui si deve discutere è se siamo disposti a entrare in guerra con la Russia». E la risposta è: «Il discorso qui non è mandare armi; il discorso è se dobbiamo accettare di entrare in guerra con una potenza nucleare: inviando armi non si cambiano i rapporti di forza. Quello di cui stiamo parlando è entrare in guerra con una potenza nucleare».

E chi mai potrebbe volere entrare in guerra con una potenza nucleare? Soprattutto, chi lo vorrebbe fare per gli ucraini? Sfugge a qualunque lettore il nesso stretto che Iglesias pone tra l’invio di armi e la guerra nucleare: gli ucraini hanno chiesto una “no fly zone” applicata dalla Nato, che impedirebbe ai russi di bombardare le città dal cielo, ma significherebbe un conflitto aperto, e gli è stato risposto di no, in tutte le salse. Gli americani si sono anche opposti al transito di vecchi aerei MIG, in possesso della Polonia, verso i piloti ucraini. La stessa Polonia e l’Ungheria, che avevano dato una prima disponibilità aerea, si sono poi tirati indietro. Il cielo, insomma, resta prerogativa russa e della non proprio potentissima contraerea ucraina. Ma tutto questo c’entra relativamente con “l’invio di armi” che, in una definizione via via più ristretta, si limitano alla guerra convenzionale tra il fango e la neve, nelle strade, casa per casa. Che c’entra la guerra nucleare? C’entra solo perché è l’argomento “definitivo”, quello di fronte al quale tutti si ritraggono spaventati e intimiditi. Per spegnere il dibattito sull’invio di armi convenzionali, Iglesias usa il terrore della bomba atomica. Anche qui, nessuno sta a ascoltare cosa dice la “pentola” medesima, ovvero gli ucraini. Peraltro, c’è una leggera inquietudine, diciamo così, che ci prende in proposito: sappiamo che l’unica deterrenza alla guerra nucleare è il fatto che chiunque la scateni sa di “ricevere” la stessa apocalisse che può provocare.

Ma se noi siamo terrorizzati dalla guerra nucleare di Putin, dov’è più la deterrenza? Si ha insomma l’impressione che qui si parli di due guerre differenti, la guerra degli ucraini e la guerra che pensiamo noi. E che queste “due guerre” rimangano distanti senza trovare modo di capirsi. Lo stesso, purtroppo, accade per la pace. L’argomento “potente” di chi si oppone all’invio di armi agli ucraini che ce le chiedono, oltre all’argomento degli argomenti – la bomba nucleare – è che bisogna a tutti i costi percorrere la diplomazia e la trattativa. Eppure, non è che non si sia mosso nessuno – Macron è andato a Mosca per assieparsi a un tavolo con una distanza di sei metri dal suo interlocutore, Putin: niente. È andato Scholz – portando con sé la “garanzia politica” che l’ingresso dell’Ucraina nella Nato non era in nessuna agenda: niente. È andato Bennett, primo ministro israeliano, in buoni rapporti con Zelensky e con Putin, per tentare una qualche mediazione: niente. Si muove Xi, pur con passo felpato: niente. Si muove Erdogan, che un qualche interesse diretto ce l’ha, peraltro, anche “geografico” con il Bosforo e i Dardanelli: niente. Quale altra diplomazia andrebbe percorsa? Possiamo ricominciare daccapo il tour, ma – è noto – tutti i giorni i “potenti” si parlano con Putin. Chi dobbiamo chiamare: Domineddio?

E sulla trattativa siamo lì: Putin dice: voglio la Crimea, il Donbass e un cambio nella costituzione ucraina che scriva a lettere di fuoco che non entreranno mai nella Nato. Ora, a parte che è bizzarro che uno Stato intervenga sulla forma e il dettato costituzionale di un altro Stato, benché abbia con questo una “continuità territoriale” (diciamo come se noi interferissimo con la Carta costituzionale della Svizzera o dell’Austria, nei punti che non ci garbano, perché siamo “vicini”), l’Unione europea ha sanzionato Polonia e Ungheria per alcune rilevanti leggi che limitavano i diritti e l’equilibrio dei poteri, ma l’Ungheria e la Polonia fanno parte dell’Unione e con essa condividono trattati e disposizioni, cosa che non è tra l’Ucraina e la Russia, che non stanno insieme né in un Patto, né in un’Alleanza, né in una Federazione, né in una Unione. Però, in certe “frange” – che ora potremmo definire quelli dell’argomentazione della “pentola” di Freud – i punti della trattativa di Putin sono stati accolti come la prova provata che la Russia ha in animo la pace e è costretta alla guerra, mentre invece l’Ucraina – che per bocca di Zelensky si è dichiarata disponibile a trattare una qualche forma sui territori e anche sulla questione della Nato, ma non a arrendersi – avrebbe in animo la guerra e va costretta alla pace.

In un pugno di giorni, che sono stati peraltro i giorni in cui l’Ucraina è riuscita a resistere all’impeto del primo assalto russo sorprendendo tutti, la “conversazione ucraina” in questo paese è passata da “bisogna trovare una via d’uscita per Putin, perché salvi la faccia” a “bisogna trovare una via d’uscita per Zelensky, perché si tolga di mezzo”. Zelensky insomma, da eroe a ingombro. C’è anche un risvolto “caritatevole” al ragionamento economicista – di costi e benefici – che con crudezza fa Iglesias, e che rinforza il diniego all’invio di quelle armi che l’Ucraina ci chiede. E cioè, che con le nostre armi, resistere più a lungo significa solo morire di più – e se invece di diecimila, mettiamo, ucraini, da qui a dieci giorni ne morissero centomila, starebbero poi tutti sulla “nostra” coscienza. Non su quella dei russi, eh. No, sulla nostra e su quella di quell’irresponsabile di Zelensky. Che dire – coperchi per le pentole, ne abbiamo? 

Pietro Salvatori per huffingtonpost.it il 10 marzo 2022.

Furio Colombo, storico direttore de l’Unità, pensatore insieme di sinistra e atlantista, guarda oggi l’Ucraina e il pensiero gli corre veloce ai suoi anni dell’infanzia, gli anni bui della Seconda guerra mondiale. 

È anche in ragione di questo non può non dirsi favorevole ad armarne la difesa: “Di fronte agli ucraini bombardati non posso che dirmi in favore di aiutarli per metterli in condizioni di difendere se stessi, le loro famiglie, la loro terra.

"Il Kgb, le cimici, Putin: vi dico tutto sulla Russia". Francesco Curridori il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.

Antonio Caprarica non ha dubbi: Putin vuole essere lo zar del nuovo millennio e vuole restituire alla Russia i confini di Pietro il Grande. 

"La Russia è una tirannia temperata dall’omicidio". Antonio Caprarica, noto ex inviato Rai e corrispondente da Mosca negli anni immediatamente successivi al crollo del muro di Berlino, prende in prestito una frase del francese Astolphe de Custine per descrivere la situazione politica della super potenza guidata da Vladimir Putin.

Lei è stato corrispondente da Mosca nei primi anni '90. Com'era la Russia di quel periodo, guidata da Boris Eltsin?

"La Russia dei primi anni '90, con tutti i limiti che aveva, ha conosciuto la prima e unica stagione di libertà nella sua intera storia. Per i critici, il periodo eltsiniano, fu un periodo di anarchia e disordine. Per gli storici più oggettivi, fu il periodo in cui la Russia tentò con molta difficoltà di costruire delle istituzioni democratiche e, per la prima volta nella sua storia, assaporò il gusto della libertà sotto ogni punto di vista. Non parlo solo i diritti politici, ma anche del fatto che nelle estati del '94 e del '95 ben 10 milioni di russi poterono viaggiare liberamente in Occidente, semplicemente con un visto. Non dimentichiamo che Eltsin fu l'uomo che, nel '91, salì sui carri armati dei golpisti, fermandoli con il suo coraggio e con la sua fede in un futuro diverso. Era una Russia che aveva la speranza di costruire un Paese più aperto e moderno, collegato con l'Occidente da vincoli d'amicizia. Fu un fallimento".

Perché?

"Fu un fallimento per i limiti di Eltsin che, dopo la fase eroica del '91-'95, accentuò le sue tendenze autoritarie e lasciò nascere un regime corrotto degno della peggiore cleptocrazia africana. Responsabilità condivisa con la classe imprenditoriale dell'epoca, i cosiddetti oligarchi, che non puntava alla creazione di ricchezza, ma solo alla rapina delle ricchezze naturali della Russia".

E, invece, come vede la Russia di oggi?

"Pochi giorni prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, alla conferenza di Monaco sulla sicurezza, la Russia è stata paragonata a una stazione di servizio dotata di missili nucleari. Questo dice tutto della Russia di oggi. Economicamente, è un Paese da terzo mondo che vive della rendita petrolifera. Tagliatela, e sarà come recidergli la giugulare. Politicamente, é un Paese in cui la libertà non è nemmeno una speranza. La Russia di oggi è tornata ai tempi degli Zar: i diritti umani e i diritti civili sono stracciati. Chiunque osa protestare o manifestare, finisce in galera. E, attorno a Putin, gli oligarchi di epoca eltsiniana sono stati sostituiti da una cerchia di cleptocrati che provengono dagli apparati di sicurezza , e sono ora non solo padroni della forza ma anche dei più grandi konglomerat industriali-estrattivi del Paese. Ora, il problema è che una vasta parte dell'opinione pubblica sente che questa autocrazia putiniana gli ha restituito una qualche forma di orgoglio nazionale".

Oggi, quindi, c'è la stessa censura che c'era prima che arrivasse al potere Eltsin?

"Assolutamente sì. Quando io sono arrivato a Mosca da corrispondente RAI, all'inizio degli anni '90, i miei due operatori russi entrarono nel mio ufficio e mi confessarono che erano entrambi stipendiati dal Kgb. Io li guardai e dissi loro: 'miei cari, se non lo foste, non sareste qui a lavorare con me'. Dopo di che feci bonificare il mio studio e trovai due bellissime “cimici” che registravano ogni mio respiro. Oggi, invece, la preoccupazione principale di Putin non è tanto che gli occidentali abbiano un'informazione corretta. Questo non può evitarlo. La sua legge appena varata, grazie alla quale quasi tutti i media stranieri hanno dovuto lasciare la Russia, punta a impedire che anche solo un briciolo di informazione libera raggiunga il suo popolo. Le ultime voci di informazione non conformista sono state spente, tranne la Novaya Gazeta. Per il resto non ci sono più organi d'informazione autonomi e la censura si è estesa ai social tanto che la prospettiva è che la Russia si stacchi da internet. Ci sarà un'alternativa autarchica di internet per gli utenti russi".

Negli ultimi anni la Russia è stata accusata di aver manipolato le elezioni americane diffondendo fake news. Ora tutto questo sparisce? Si torna alla guerra fredda e la globalizzazione diventa solo un ricordo?

“Una stagione si è chiusa per sempre. È finita l’età della pace. Ci eravamo illusi che la globalizzazione dei commerci avrebbe di per sé cancellato la “convenienza” della guerra. Scopriamo, con atroce disillusione, che non era così. E che vale sempre, purtroppo, la massima latina: si vis pacem, para bellum. Dobbiamo cambiare totalmente i nostri parametri mentali , evitare di metterci economicamente alla mercè di Paesi che sfruttano quest’arma per ricattarci. Prima la pandemia, ora la guerra minacciano di portare un colpo mortale alla globalizzazione. Appartengo alla prima generazione che non aveva mai conosciuto la guerra in Europa. Finora. Adess questo fantasma è tornato , e per lungo tempo niente sarà più come prima".

Lei, cosa pensa di Putin?

"Per farsi un'idea basta guardare la vasta letteratura che ha prodotto in questi anni il mondo anglosassone sul personaggio. Noi europei, a quanto pare, non abbiamo voluto sapere nulla di Putin. A noi italiani bastava che il suo regime offrisse spazio ai miliardari con cui facevamo affari. Perché Biden lo ha chiamato killer? Basta leggere il libro 'Gli uomini di Putin' della corrispondente del Financial Times , Catherine Belton, che offre una ricostruzione dettagliata della rete di cleptocrati che sono attorno a Putin e i legami con la mafia russa. Putin è un uomo del Kgb che, grazie all'uso spregiudicato del suo potere, è diventato uno degli uomini più ricchi del mondo, se non il più ricco. Dal punto di vista politico, ha l'ambizione di restituire alla Russia i confini di Pietro il Grande che arrivava fino al Dnepr, cioè fin dove le truppe russe attualmente stanno portando distruzione e morte. Pur di rincorrrere questo sogno non esita a esporre il suo Paese a una catastrofe economica".

In questi giorni il segretario del Pd, Enrico Letta, è stato criticato dai pacifisti per aver acconsentito all'invio di armi in sostegno all'Ucraina. Lei cosa ne pensa?

"Non voglio polemizzare con nessuno né pensare che le ragioni dei pacifisti italiani non siano nobili, però, deve essere chiaro che quanti vogliono aiutare l’Ucraina a resistere all’invasione non sono guerrafondai. Qualcuno pensa davvero che basti invocare la pace per fermare Putin? Se pensa che questo sia sufficiente, spero che i fatti lo provino. Ma finora Putin fa parlare solo i cannoni. Lo dico da uomo di sinistra : la cosiddetta sinistra pacifista non ha il monopolio del desiderio della pace. La questione vera è come raggiungere questa pace. Se pensano che basti invocarla per farsi ascoltare da Putin, mi auguro che abbiano ragione. Nel frattempo, però, il nostro dovere di europei e di amanti della democrazia e della libertà è di rispondere al grido d'aiuto degli ucraini. Non è la Nato che dice loro "combattete", sono gli ucraini che combattono per difendere la propria terra. Come fecero i nostri partigiani contro i nazisti. È doveroso aiutarli e questo passerà ai libri di storia come la cosa giusta. Dare le armi agli ucraini è il minimo sindacale che possono fare dei democratici che la mattina vogliono guardarsi allo specchio con rispetto per sé stessi".

Anacronismi speculari. Le idee zombie di chi confonde Putin con Che Guevara e la sinistra con i populisti. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 10 marzo 2022.

Tanto il fronte anti-imperialista schierato a favore dell’imperialismo russo quanto il fronte liberale che attribuisce a Putin la leadership della sinistra, anziché dell’estrema destra, parlano di cose che non esistono, come se fossimo ancora nel mondo della guerra fredda

È anacronistico e grottesco il riflesso pavloviano di una parte della sinistra, fortunatamente minoritaria, che identifica oggi negli Stati Uniti e nella Nato il fronte delle potenze imperialiste e nella Russia di Vladimir Putin l’ultimo bastione dei popoli oppressi. Ed è altrettanto anacronistico e grottesco che avversari politici e commentatori ostili attribuiscano una simile posizione alla sinistra italiana tout court, o anche solo a una sua larga parte. Sono in realtà due anacronismi che si alimentano e si confermano reciprocamente, distorcendo il dibattito pubblico, come ce ne fosse bisogno, con valanghe di false analogie e paragoni fallaci.

Il punto non sta tanto nel fatto che Viktor Yanukovich, l’ultimo presidente filo-russo cacciato dagli ucraini nel 2014, evidentemente non è Salvador Allende. Il punto è che il ruolo di Putin oggi non è né quello di Lenin né quello di Ernesto Che Guevara, ma semmai quello di Augusto Pinochet, volendo restare all’esempio cileno, o meglio ancora di Francisco Franco, se pensiamo al modo in cui la scelta di sovvertire con la forza delle armi il risultato di libere elezioni divise allora il mondo e segnò il confine tra fascismo e antifascismo.

Il punto, soprattutto, è che da anni ormai, e non per caso, Putin è l’eroe e il punto di riferimento non della sinistra, ma dell’estrema destra di mezzo mondo: da Donald Trump negli Stati Uniti a Viktor Orbán in Ungheria, passando per entrambi i leader della destra radicale francese, Marine Le Pen ed Eric Zemmour, e anche, almeno fino a ieri, come ci ha recentemente ricordato un sindaco polacco, per Matteo Salvini in Italia.

All’elenco, che potrebbe continuare per pagine e pagine, bisognerebbe poi aggiungere il Movimento 5 stelle, che nel frattempo ha in parte cambiato posizione (sia nel senso che una parte non l’ha cambiata affatto, sia nel senso che molti l’hanno cambiata fino a un certo punto), e se questa sia l’eccezione che conferma la regola, o semplicemente la regola, ognuno giudichi da sé.

Quello che conta è che tanto il fronte anti-imperialista schierato a favore dell’imperialismo russo quanto il fronte liberale che attribuisce a Putin la leadership della sinistra, anziché dell’estrema destra, parlano di cose che non esistono, come se fossimo ancora nel mondo della guerra fredda. Solo che in politica, purtroppo, i fantasmi del passato hanno una considerevole capacità di incasinare le vicende del presente. Una capacità che non andrebbe mai sottovalutata.

In economia si parla spesso, a questo proposito, di idee zombie. John Maynard Keynes diceva che «gli uomini pratici, che si ritengono completamente liberi da ogni influenza intellettuale, sono generalmente schiavi di qualche economista defunto». Del resto, come tutti abbiamo potuto vedere grazie a Youtube e social network, i manifestanti che in Russia Putin sta facendo arrestare a migliaia, e che spero nessuno in Italia avrà il coraggio di chiamare controrivoluzionari o servi dell’imperialismo, mentre vengono portati via dalla polizia cantano una canzone dei Cranberries che si intitola proprio così: «Zombie».

La storia si ripete. Il pacifismo radicale e gli errori del passato che non dobbiamo commettere più. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.

Chi sostiene che Putin sia colpevole tanto quanto la Nato e gli Stati Uniti per la crisi ucraina dimostra di non aver imparato nulla dalla Seconda guerra mondiale. Anche allora le società democratiche non vollero vedere e adottarono a una serie di compromessi che si rivelarono catastrofici. 

Il professor Antonello Ciccozzi, docente associato in Discipline demo-etno-antropologiche presso l’università dell’Aquila, sembra un ottimo esempio per spiegare le ragioni e le contraddizioni di ciò che chiamiamo pacifismo radicale, una vasta galassia coi suoi miti e i suoi slogan che abbiamo visto sfilare per tanti anni sempre contro le guerre dell’Occidente.

Peraltro, non ho memoria di grandi manifestazioni di segno contrario, dalla Cecoslavacchia nel ’68 alla Polonia nel ‘70 e nell’81, fino a Kabul nel ’79. Oggi siamo al paradosso delle piazze che inveiscono contro la Nato, che non ha mai invaso alcun Paese, e sorvolano sull’aggressione russa.

In un’intervista rilasciata a Selvaggia Lucarelli su Radio Capital, Ciccozzi ha avuto modo di esprimere il suo pensiero sul presente. Dice che il vero pericolo oggi non è Putin che, secondo lui, sta usando i profughi per bombardare l’Europa. Bombardare è un mezzo, è strategia militare. Il vero pericolo sarebbe «il suo antagonista Zelensky», che Ciccozzi raffigura come il simbolo di un «pacifismo interventista che sventola la bandiera di un nazionalismo che rimanda a un’idea identitaria del confine che è quella che ha portato guai in Europa nel secolo scorso e di cui ci dovremmo liberare».

Lungi da me l’idea di avventurarmi nella complessità della geopolitica, ma ho avuto modo di leggere i libri del professore e valutare la sua attività di consulente della Pubblica accusa nel processo sulla tragedia del Terremoto dell’Aquila – che ha riassunto nel libro “Parola di scienza. Il terremoto dell’Aquila e la Commissione Grandi Rischi. Un’analisi antropologica”.

Nel libro ha avuto modo di spiegare, con una certa coerenza, che la vera colpa dei 309 morti del terremoto era dei membri scientifici della commissione che l’allora capo della Protezione Civile Guido Bertolaso portò nel capoluogo abruzzese con lo scopo di rassicurare la popolazione colpita da una lunga serie di sciami sismici.

Ciccozzi diede copertura scientifica alle tesi dell’accusa addebitando una condotta “rassicurazionista” agli esperti della Commissione, che a suo dire non erano stati abbastanza allarmisti pur convenendo che i terremoti non siano prevedibili (infatti prima di quello del 2009 la precedente catastrofe sismica in zona era avvenuta 400 anni prima).

Un libro interessante e istruttivo che mi ha portato a studiare da vicino il cosiddetto principio di precauzione, elaborazione giuridica assai intricata mediante la quale una certa dottrina catastrofista originatasi in particolare sulla scia dei tragici eventi dell’11 settembre ha posto l’obbligo penale, per politica e scienza, di prevenire ogni genere di calamità, prevista ma anche imprevedibile.

Secondo tale corrente di pensiero l’umanità, per evitare le grandi sciagure – belliche, naturali, epidemiologiche – ha l’obbligo di immaginare il peggio, quasi un commosso tributo alla famosa legge di Murphy: dal nome del suo inventore, un ingegnere missilistico americano secondo cui «se ci sono due o più modi di fare una cosa, e uno di questi modi può condurre a una catastrofe, allora qualcuno la farà in quel modo». Infatti Ciccozzi ha ritenuto troppo blande le misure di prevenzione del Covid.

Ebbene, il fil rouge che sembra tenere insieme i vari momenti pacifisti nostrani sembra proprio quello di rimproverare all’Occidente un eccesso di trionfalismo rassicurazionista, di aver spacciato la favola della fine della Storia, della pax americana, e di non aver immaginato, anzi previsto la logica militare (o come direbbe il professor Ciccozzi «la strategia») per la quale un dittatore ex Kgb avrebbe invaso un Paese limitrofo anche etnicamente.

In filigrana la tesi è che dunque le colpe di Russia e Occidente si equivalgano.

Il rassicurazionismo non ha alcun fondamento scientifico, al pari degli eccessi originati dalla maniacale applicazione del principio di precauzione. È invece provato che la mente umana – a partire dagli studi del premio Nobel Daniel Kanheman – tende a ripetere gli stessi errori sotto forma di bias, di fallacie argomentative apparentemente logiche che in realtà sono reazioni cognitive istintive e fuorvianti.

Il rimedio a questo tipo di errori è l’osservazione empirica, la statistica delle ripetizioni meccaniche ed errate, da cui trarre gli opportuni insegnamenti. Ad esempio cessare di credere nella fallacia pacifista che non ha mai evitato le guerre, come tutte le fedi irrazionali serve a lenire e sperare, ma non a risolvere.

Quello che noi stiamo vedendo oggi lo ha visto l’Europa un secolo fa, quando la Germania umiliata dalla Prima guerra mondiale e dalle sanzioni inflitte dai vincitori fu marginalizzata e messa al bando. Del risentimento del popolo tedesco Hitler fece la leva formidabile di una politica estera aggressiva, fino alla guerra che le democrazie non vollero accettare, come gran parte dell’opinione pubblica ha negato a se stessa l’invasione dell’Ucraina sino all’ultimo – invasione invece data per certa da inglesi e americani, i guerrafondai di oggi.

La Seconda guerra mondiale fu preceduta dal conflitto civile spagnolo, ma le società democratiche non vollero vedere. E spinte dalla comprensibile voglia di pace dei propri popoli si adattarono a una serie di compromessi che portarono allo smembramento della Cecoslovacchia per favorire il ritorno alla madrepatria della minoranza tedesca dei Sudeti, a detta del Fürher vittima di genocidio (ricorda qualcosa? Il Donbass?).

L’unica voce dissonante era quella di un eccentrico politico inglese, affetto da sindrome bipolare, con tendenza ad alzare il gomito: solo lui ebbe il coraggio di dire a un’opinione pubblica entusiasta per il vergognoso Trattato di Monaco che il leader Neville Chamberlain tra il disonore e la guerra aveva scelto inutilmente il primo e avrebbe avuto comunque la seconda.

Del resto perché un criminale che ha messo una pistola sul tavolo dovrebbe riporla senza scopo quando ha constatato di incutere terrore paralizzante? Il resto è storia nota. A partire dal fatto che comincia a serpeggiare una certa sensazione di insofferenza per le ragioni dei deboli (ma perché continuano a combattere e non si arrendono che così la finiamo?). Non è rassicurante, lo ammetto, ma è storia, appunto.

Ucraina, Casini: "Dico di no al pacifismo equidistante. L’Occidente è a rischio". Francesco Bei su La Repubblica il 10 Marzo 2022.

Pier Ferdinando Casini, senatore dei Centristi per l’Europa.

L'ex presidente della Camera ora senatore dei Centristi per l’Europa: "Sabato sarò in piazza a Firenze. In queste ore dobbiamo esser grati agli ucraini che ci ricordano chi siamo, chi siamo stati e chi dovremmo essere". 

"Gli ucraini ci stanno mandando un grido disperato, che è non soltanto "salvateci" ma qualcosa di più importante. Ci chiedono di salvare l'Occidente. Dobbiamo esser loro riconoscenti perché, in queste ore drammatiche, ci ricordano chi siamo, chi siamo stati e chi dovremmo essere". Pier Ferdinando Casini parteciperà sabato alla manifestazione fiorentina delle città europee a sostegno dell'Ucraina.

Perché la resistenza armata è etica. Luigi Manconi su La Repubblica il 10 Marzo 2022.

Dalla lezione dei partigiani all'articolo 11 della Costituzione, tutte le ragioni per non considerare un errore irreparabile l'invio di mezzi militari agli ucraini per contrastare l'invasione russa

Chi abbia letto i racconti partigiani di Beppe Fenoglio ricorderà con quanta ansia le diverse formazioni della resistenza attendessero e, poi, con quanto sollievo accogliessero i lanci dei rifornimenti (armi, attrezzature, tabacco) da parte degli aerei degli eserciti alleati. E quanto quelle provviste che piovevano dal cielo contribuissero a determinare il morale dei combattenti, la loro capacità militare e l’equilibrio dei rapporti di forza sul campo.

Guerra in Ucraina, Anpi e Movimento Nonviolento rispondono a Luigi Manconi. Il commento uscito su Repubblica sulla necessità di inviare armi alla resistenza di Kiev ha aperto un acceso dibattito. La Repubblica il 9 Marzo 2022.

Su Repubblica è uscito un commento di Luigi Manconi che, pur dichiarandosi pacifista, spiegava perché l'invio di armi alla resistenza ucraina non sia da considerare eticamente riprovevole. Il Movimento Nonviolento e l'Anpi hanno replicato con due lettere. Eccole.

Mao Valpiana, Presidente del Movimento Nonviolento Esecutivo di Rete Pace e Disarmo

“La Russia ha un dittatore che sogna la pace e crede di riuscire ad ottenerla versando fiumi di sangue. Nessuno può dire quali effetti avrà sul mondo la dittatura russa”. Lo scriveva Gandhi nel 1938. E ancora, nel pieno della seconda guerra mondiale: “la causa della libertà diventa una beffa se il prezzo che si deve pagare per la sua vittoria è la completa distruzione di coloro che devono godere della libertà”. Propone alle nazioni occupate da Hitler di ottenere la vittoria con la resistenza nonviolenta: “l’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo”. Questo è il punto decisivo della nostra discussione, caro Luigi Manconi.

Il pensiero del Mahatma è complesso, non si può isolarne un piccolo pezzo per giustificare l’invio delle armi verso una guerra. Sul piatto tragico della storia c’è la questione di una “difesa” a tutto tondo, l’urgenza di salvare quante più vite possibili con la necessità di fermare l’esercito invasore. Gli ucraini invasi e bombardati stanno usando gli strumenti che hanno a disposizione; noi non possiamo dare lezioni morali, ma dobbiamo perseguire le vie più efficaci per un vero “cessate il fuoco” e spazio alle trattative. L’invio delle armi non sposta nulla sul piano militare, ed è ipocrita perché configura una delega senza assunzione di responsabilità. I quasi 500 milioni di euro che l’UE ha inviato in armi (con alto rischio di finire in mani inadeguate) avrebbero impatto migliore se impiegati per dotarsi della “polizia internazionale” che ancora manca, per attuare la difesa civile internazionale, organizzare almeno una parte del volontariato europeo in corpo civile di pace, e sostenere ogni tentativo di isolare l’aggressore anche con aiuti finanziari a quella parte di popolo russo che sta costruendo l’alternativa a Putin con l’obiezione di coscienza e la diserzione dall’arruolamento bellicista. La nonviolenza ha due imperativi: l’etica e l’efficacia. Il nostro comune amico Alexander Langer ci ha insegnato a lavorare “con” le vittime della guerra, non “per”. Prima dell’escalation nucleare. Come dice Papa Francesco bisogna “fare di tutto” per fermare la guerra, anche l’impossibile. 

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi

Mi sento in dovere di rispondere alle considerazioni di Luigi Manconi pubblicate su Repubblica del 9 marzo che contesta, in buona sostanza, la preoccupazione e il dissenso espressi dall’Anpi sull’invio di armamenti in Ucraina ed insiste sul paragone fra la resistenza italiana e la resistenza ucraina chiedendosi quale sia la differenza tra l’invio di armi ai partigiani da parte degli Alleati e l’invio di armi alla resistenza ucraina dal nostro Paese. La differenza è molto semplice: mentre gli Alleati erano in guerra da anni col blocco nazifascista, e quindi con la Germania occupante, l’Italia non è in guerra con la Russia. Ciò non cambia di una virgola la legittimità e – aggiungo – la necessità della resistenza ucraina, ma rende questo paragone pericolosissimo perché l’invio di armi in Ucraina potrebbe essere letto come un atto di cobelligeranza. Qualcuno (non Manconi) potrebbe sostenere che il paragone regge perché di fatto siamo in guerra contro la Russia. Troverei questa, francamente, un’affermazione irresponsabile. La domanda da porsi, nell’ambito degli aiuti da inviare ai resistenti ucraini, è quale sia la linea rossa da non superare, oltre la quale c’è il rischio di un’espansione della guerra. Può essere l’invio di armamenti, perché le sanzioni parlano il linguaggio dell’economia, ma le armi parlano solo il linguaggio della guerra. Ne dobbiamo avere consapevolezza. In sostanza pensiamo che non si possa mettere in pericolo la sicurezza dell’Italia (e dell’Europa). Devo dire che l’Anpi non è sola in questa ed in altre preoccupazioni, non solo per le opinioni di vari autorevoli commentatori, non solo perché l’Anpi è parte di un ben più grande movimento per la pace, ma anche perché da un recente sondaggio sembra che il 76% degli italiani sia abbastanza o molto d’accordo sul non inviare armi all’Ucraina.

Manconi poi polemizza con coloro che precisano che “Putin non è Hitler”. Putin è il responsabile dell’invasione violenta e sanguinosa di un Paese incommensurabilmente più debole dal punto di vista militare, è portatore di una politica imperiale con vaghe ascendenze zariste; è un autocrate all’interno di un sistema correttamente definito di “democratura” caratterizzato da repressioni, autoritarismi polizieschi e quant’altro. Ma, per favore, non banalizziamo la storia: l’unicità di Hitler consiste non solo nell’aver invaso l’intera Europa, fra cui l’Unione sovietica, ma anche e specialmente nell’essere stato il consapevole responsabile della Shoah, dello sterminio degli oppositori politici, dei prigionieri di guerra, dei rom, dei diversamente abili, delle minoranze religiose, degli omosessuali. Questi paragoni sono francamente propagandistici e fuorvianti.

Citando Recalcati, Manconi afferma che “l’inconscio di una certa sinistra detesta la democrazia”. Può essere, anche se francamente non saprei di chi Manconi stia parlando. So invece per certo che l’inconscio di una certa destra, e spesso anche il conscio, detesta la democrazia e la cosa ci preoccupa al punto che l’asse della nostra discussione congressuale che porteremo a compimento fra due settimane col Congresso nazionale dell’Anpi è esattamente quello della difesa e dell’espansione della democrazia nella preoccupante situazione in cui versa il nostro Paese e l’intera Unione Europea, per la presenza di forze esplicitamente oscurantiste, irrazionalistiche o propriamente nazifasciste e per la presenza di partiti nazionalisti che spesso civettano con tali forze o che ne assumono, in parte o in tutto, la cultura politica.

Manconi infine salva l’urgenza di provare tutte le vie diplomatiche ed aggiunge: “tentato tutto questo, perché mai non dovremmo sostenere anche attraverso la fornitura di armi gli ucraini?”. Per un motivo solare: perché non è stato tentato affatto. La via negoziale è sostanzialmente in mano a Putin e Zelensky, con meritori tentativi diplomatici di Macron e Scholz. Ma non c’è la voce in quanto tale dell’Unione Europea, il cui unico impegno fino ad oggi è stato quello, giusto, di imporre sanzioni e quello, a nostro avviso pericolosissimo, di inviare armi. Biden ha recentemente affermato che o si risolve il dramma ucraino con le sanzioni oppure si va a una guerra molto più ampia. Noi pensiamo che l’avvio di un negoziato con un ruolo positivo anche dell’Unione Europea sia l’unica strada per arrivare alla pace e per sventare il rischio esistente di una guerra ben più ampia.

Conclusione: credo che nel dramma che attraversa oggi l’Ucraina e nel pericolo che scoppi – parliamoci chiaro – la terza guerra mondiale, dovremmo avere cuore caldo e mente fredda, e dovremmo chiedere a tutti il massimo di responsabilità e di ragionevolezza e il minimo di propaganda. Per memoria, ricordo che siamo nell’era atomica. Lo dico a tutti. Lo dico in particolare a Manconi di cui ho sempre avuto stima per il suo impegno per la pace, per diritti umani e per i diritti civili. Ma questa volta no, con serenità e rispetto (che mi auguro sia reciproco) non sono d’accordo.

La pace non è scontata. L’infantile presunzione dei pacifisti di non voler essere più coinvolti in una guerra. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 9 Marzo 2022.

Il concetto di neutralismo attivo affascina sia la sinistra antagonista sia la destra nazionalista. Entrambi dipingono l’invasione dell’Ucraina come un incidente da evitare e non come una sfida che ci riguarda. Pensano di aver ottenuto il diritto acquisito alla serenità, dimenticando che a garantirla in questi anni è stata la presenza della Nato 

Di fronte a qualunque emergenza, la reazione cognitiva naturale è quella di affidarsi ai pregiudizi e a tutto ciò che li conferma, cioè a non selezionare le teorie che spiegano meglio la realtà che dobbiamo affrontare, ma a selezionare le realtà che giustificano meglio la teoria che non vogliamo abbandonare. 

Che i bias siano naturali, cioè meccanismi propri del modo di funzionare della mente umana, non significa però che non proteggano un contenuto essenzialmente ideologico. Abbiamo dei bias perché abbiamo delle idee, non semplicemente perché abbiamo paure o rabbie da gestire.

Lo abbiamo visto recentemente davanti alla pandemia, che ha svelato quanta superstizione ci sia tanto nella diffidenza, quanto nella fiducia religiosa verso la scienza, e davanti alle crisi economiche pre e post pandemiche, che da oltre un decennio rivelano l’inconsapevolezza dell’opinione pubblica italiana delle ragioni e della fragilità della prosperità occidentale. 

Adesso davanti alla guerra si manifesta in tutta la sua forza questo stesso fenomeno, nel connubio esplosivo tra l’alienazione cognitiva e il fanatismo politico.

L’Italia è contro la guerra – e ci mancherebbe. Ma, testimoniano alcuni sondaggi, confermati dal grande abbraccio pacifista tra Gianfranco Pagliarulo e Matteo Salvini e tra Donatella Di Cesare e Diego Fusaro, è contro la guerra in modo così radicalmente trasversale non solo da non volerla combattere, ma da non volerla neppure ammettere come fatto della storia e quindi, eventualmente, come crimine che sia doveroso perseguire o come aggressione a cui sia legittimo resistere. 

L’Italia è contro la guerra come categoria dello spirito e quindi è contro l’idea di riconoscerne la realtà politica, senza destituirla con un esorcismo verbale. La guerra come non essere, che non può essere se non ci si compromette con esso. Se nella tradizione capitiniana e pannelliana, la violenza suscita la reazione del nonviolento, che contrappone a diversi fini diversi mezzi nel sostegno alla causa dell’aggredito, ma non si sottrae alla provocazione del fatto compiuto e non vi si sottomette, nel pacifismo neutralista (attivamente neutralista, ça va sans dire) la reazione morale obbligata è la dissociazione dalla guerra in sé, dall’aggressore come dall’aggredito; non solo, quindi, la non collaborazione e la resistenza passiva con il violento, ma contestualmente l’auto-distanziamento dal violentato. Dixi et salvavi animam meam, immacolata dagli schizzi del sangue.

Ma come è possibile un pacifismo che sia pura istigazione alla resa e quindi riconoscimento della legge della violenza? Come è possibile che questo neutralismo non solo affascini ampi settori della sinistra super-antagonista e della destra super-nazionalista, ma rappresenti il senso comune di una classe dirigente e di un’opinione pubblica, che continua a vedere l’invasione dell’Ucraina come un incidente che si doveva evitare e non come una sfida che ci riguarda, anche se continuiamo a giurare di non volerla raccogliere e di volere solo essere lasciati fuori da questo regolamento di conti post-sovietico?

La prima ragione è che in Italia (e in buona parte dell’Europa) abbiamo per decenni confuso la pace e i suoi costi, economici e politici, con la rendita di cui abbiamo goduto per una protezione Nato ampiamente esorbitante il contributo, che siamo stati tenuti ad assicurare. Quella pace di cui abbiamo goduto era il risultato di una guerra – quella non guerreggiata, fatta di una escalation militare e di una sfida strategica, che alla fine ha schiantato l’Urss – di cui avevamo il lusso di non sentirci parte.

Ma nessuna pace è gratis. Invece noi abbiamo creduto di avere ormai ottenuto il diritto acquisito alla pace (rectius: di non essere coinvolti nelle guerre, che si sarebbero comunque svolte altrove), come il diritto acquisito di andare in pensione a cinquant’anni e ci ribelliamo sdegnosamente alla realtà, quando si incarica di dimostrare che quei diritti non erano acquisiti per niente. E che entrambe queste ribellioni passino dai palchi della CGIL non è affatto casuale.

La seconda ragione è che in Italia il pacifismo è stato in tutte le sue forme un sottoprodotto dell’anti-atlantismo e dell’anti-europeismo e dunque non contempla guerre, cioè nemici a cui opporsi, che non siano americani o loro alleati. È grottesca tutta la sinistra anpista, quando maledice l’uso delle armi resistenziali in Ucraina, dopo avere fatto (e mai rinnegato) l’epopea di quelle rivoluzionarie in Vietnam. Lo stesso può dirsi della destra antimondialista, che ha maledetto nella pax americana dell’Europa il segno di un perdurante dominio imperiale.

Però, al di là degli opposti estremismi, c’è una debolezza congenita di tutta la politica italiana che ha attraversato la Guerra Fredda in equilibrio tra la lealtà atlantica, l’amicizia sovietica e l’equidistanza tra tutti e con tutti. Un’Italia perfettamente rappresentata dal Lodo Moro degli anni ’70, il patto con Olp, che garantiva ai terroristi palestinesi ampia libertà di manovra, anche in Italia, in cambio dell’immunità dagli attentati sul territorio nazionale. Ecco come abbiamo imparato che si può fare una pace. Negoziando con il violento che ammazzi un po’ più in là.

Infine c’è una terza ragione, ancora più fortemente ideologica: la perdita della coscienza dell’identità tra pace e libertà. Nel momento in cui il valore della pace, come quello dell’autodeterminazione dei popoli, sono assolutizzati e perdono qualunque riferimento ai valori politici delle libertà individuali, dello stato di diritto e della democrazia, la condiscendenza verso regimi assolutistici diventa una conseguenza inevitabile di questa devozione malata a parole feticcio.

Fino agli esiti mostruosi di questi giorni, con italiani illustri che fanno in tv la morale agli ucraini collegati da città sotto le bombe, dicendo loro di accontentarsi della pace di Putin: sempre meglio che essere morti. La pace dei cimiteri per uomini vivi, predicata da uomini liberi, che non vogliono pagare alcun prezzo per una libertà comune.

In 50mila alla manifestazione “Europe for peace” di Roma. Oltre a Cgil anche Arci, Amnesty e decine di associazioni, che aderiscono al movimento pacifista, si dicono contrarie all'invio di armi a sostegno dell'Ucraina e spingono perché l'intervento dell'Italia e dell'Europa punti tutto sulla diplomazia. Il Dubbio il 5 marzo 2022.

Una lunga bandiera con l’arcobaleno della pace, retta dai partecipanti al corteo  organizzato dalla Rete Pace e Disarmo, contro la guerra e l’invasione russa in Ucraina a Roma. Il corteo partito da piazza della Repubblica è arrivato in piazza San Giovanni per dare il via alla manifestazione pacifista. La manifestazione per la pace è stata organizzata da associazioni pacifiste, ong, Cgil e Rete italiana pace e disarmo. Aderiscono anche, tra gli altri, Arci, Acli, Libera, Emergency, Legambiente, Movimento nonviolento, Un ponte per, archivio Disarmo,  Anpi, Greenpeace, Save the children. Assente, come preannunciato, la Cisl che non condivide la posizione degli organizzatori della manifestazione, come ha spiegato il segretario generale Luigi Sbarra. Migliaia di persone, tra cui giovani, famiglie e bambini avvolti dai colori dell’Ucraina sfilano  pacificamente contro il conflitto alle porte dell’Europa. Presenti, tra gli altri, anche alcuni movimenti come Usb e Potere al Popolo.

C’è anche l’Anei, associazione  internati nei lager nazisti nel corteo “No War”  «Dove c’è guerra non può mancare la nostra presenza. Siamo qui per condannare in maniera ferma e totale l’invasione russa in Ucraina», spiega uno degli associati.

Un minuto di silenzio e poi in un lungo applauso: così in piazza San Giovanni è stata fatta idealmente partire, dopo il corteo, la manifestazione pacifista. «Siamo tantissimi a manifestare contro l’aggressione, per la pace e chiediamo: cessate fuoco»,  ha detto Francesca Farruggia, di Archivio e Disarmo, intervenendo per prima dal palco. «Senza distinzione di luoghi e culture – ha aggiunto – dobbiamo aiutare tutti perché non ci sono profughi di serie A e di serie B. L’Onu deve condurre il negoziato tra le parti. No alle armi ma dobbiamo costruire i ponti per la solidarietà tra i popoli».

Il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, dal palco della manifestazione nazionale contro la guerra “Cessate il fuoco. Europe for peace”, davanti ai cinquantamila che, secondo gli organizzatori, hanno partecipato alla manifestazione, ha detto: «Noi esprimiamo con forza la nostra solidarietà dalla parte del popolo ucraino, che oggi è sotto una aggressione criminale. La decisione di Putin dimostra che è un nemico della democrazia e della libertà. Ma la nostra solidarietà va anche al popolo russo, che in questo momento si sta mobilitando per dire che la posizione di Putin non è quella della Russia». «Penso a Gino Strada, oggi è qui con noi, sta manifestando qui con noi. Gino ci ha insegnato cosa significa essere coerenti e dedicare una vita alla lotta contro la guerra». «È un successo che una piazza gremita come questa dica no alla guerra. Non siamo di fronte ad un passaggio normale: siamo di fronte al rischio di tornare indietro di settant’anni, con la guerra che torna ad essere uno strumento di regolazione dei rapporti. Noi non possiamo permetterlo», tuona Landini al microfono, verso le bandiere della pace che sventolano a centinaia. Ed esprime «con forza» solidarietà al popolo ucraino, «vittima di un’aggressione criminale» e anche al «popolo russo che continua a resistere nonostante manifestare per la libertà sia un crimine in Russia». Putin, continua il segretario, «ha dimostrato di essere nemico della democrazia».

Pierpaolo Bombardieri, segretario generale della Uil, a margine dell’evento per i 72 anni della Uil a Roma, sulla vicenda ucraina ha chiarito la posizione del suo sindacato: «Le sanzioni sono uno strumento importante perché colpiscono gli interessi economici non del popolo russo ma dichi ha grandi liquidità e utili. Bisogna continuare sulla strada delle sanzioni ma riteniamo anche che sia arrivato il momento di discutere di un livello di difesa europeo. In questi momenti si affronta tutto es i risolvono i problemi con più Europa e non meno Europa».

Migliaia di persone sono scese nelle strade anche di Londra e Parigi per dire no all’invasione russa dell’ Ucraina. Nella capitale britannica l’appuntamento è stato dato a Trafalgar Square. Al grido “Fermate Putin, fermate la guerra”, i manifestanti hanno innalzato cartelli sui quali erano scritti slogan come “Putin uccide” e “Embargo totale per la Russia”. Alla protesta ha preso parte anche il Nunzio apostolico in Gran Bretagna, arcivescovo Claudio Gugerotti, il quale ha letto una preghiera sottolineando che «oggi siamo tutti ucraini». A Parigi il raduno è nella solita place de la Republique. Ma sono previste manifestazioni in tutta la Francia, con circa 25mila partecipanti, ha anticipato una fonte della polizia. Alcune associazioni come Sos Racisme e diversi partiti, fra cui La Republique En Marche del presidente Emmanuel Macron,  hanno invitato i cittadini a partecipare all’evento parigino.

Ecco perché noi della Cisl oggi non saremo in piazza. La Cisl è per la pace e con il popolo Ucraino, senza se e senza ma. Una pace che non basta declamare, ma che va costruita. Luigi Sbarra Il Dubbio il 5 marzo 2022.

La folle aggressione russa all’Ucraina porta nel cuore dell’Europa una guerra imperialista con potenziali esiti catastrofici. Sono migliaia i caduti civili sotto le bombe di Putin, tra cui tante donne e tanti bambini. Centinaia di migliaia i profughi che si ammassano ai confini del Paese. La Cisl è per la pace e con il popolo Ucraino, senza se e senza ma. Una pace che non basta declamare, ma che va costruita supportando i lavoratori, gli studenti, i pensionati, le donne e gli uomini vittime di chi vorrebbe negare l’identità di un popolo, spezzarne l’unità e privarlo della libertà.

L’Europa stessa è sotto attacco, con i suoi valori di libertà e di democrazia. Ecco perché’ al punto in cui siamo la testimonianza da sola non può bastare.

Tanto più se rischia di essere inquinata da pregiudizi che sottintendono una sostanziale equidistanza tra le parti in guerra.

La Cisl non può riconoscersi in una parola d’ordine come ‘ neutralità attiva’, che in tutta la sua ambiguità rischia di mettere sullo stesso piano vittime e carnefici, oppressi e oppressori. Per questo, nostro malgrado, oggi non saremo a piazza San Giovanni con le nostre bandiere. La Cisl sostiene le azioni e le sanzioni messe in campo dall’Europa e dal nostro Governo in aiuto dei rifugiati e della popolazione civile. Chiediamo unità e determinazione da parte di tutta la comunità internazionale perché si arrivi al cessate il fuoco, al ritiro delle truppe di Mosca, restituendo pieno ruolo alle diplomazie. Una solidarietà vera, tangibile, richiede non certo la neutralità, ma la militanza e la partecipazione attiva delle articolazioni sociali per aiutare concretamente uomini, donne, uomini e soprattutto bambini che in questo momento hanno bisogno di un supporto urgente e tangibile.

È la ragione per cui la Cisl sta attivando un fondo di solidarietà che permetta ai lavoratori italiani, alle nostre imprese, a tutti i cittadini di dare il proprio contributo per la realizzazione di programmi umanitari e di aiuti a profughi e famiglie vittime di questo conflitto. Un primo passo di un cammino a cui vorremmo si unissero Cgil, Uil e tutte le associazioni datoriali. È tempo di stringere le maglie della cooperazione e della concertazione, valorizzando il ruolo e il protagonismo di parti sociali capaci di esprimere responsabilità e progettualità vera e di contribuire alla buona battaglia per un’Europa pacifica, democratica, inclusiva.

Sinistra e 5S in piazza senza big. Provenzano: "Qui per la pace senza imbarazzi". Giovanna Casadio su La Repubblica il 6 Marzo 2022.

La sinistra di governo non rinuncia alla manifestazione di ieri a Roma. Ma con alcuni distinguo. Il vicesegretario Pd: "Partecipiamo con le nostre parole d'ordine". 

Era il 2003, la manifestazione contro la guerra in Iraq: c'erano i leader della sinistra: D'Alema, Fassino, Franceschini. Si calcolarono oltre 2 milioni di pacifisti in corteo a Roma. Il ricordo di quella giornata riecheggia tra chi sfila verso piazza San Giovanni nel lunghissimo corteo contro la guerra di Putin in Ucraina. Perché in mezzo a decine di migliaia di pacifisti, che chiedono con il segretario della Cgil Maurizio Landini di abrogare la guerra e non mandare armi agli ucraini perché "non si arma la pace", i politici della sinistra ci sono sì, ma defilati.

E i "pacifisti" assediano la base della Nato. Antonio Borrelli il 7 Marzo 2022 su Il Giornale.

Bandiere con falce e martello. "L'Italia va denunciata per le armi alla Ue".

C'erano l'organizzazione comunista internazionalista, il partito di alternativa comunista, i No Tav, persino «compagne e compagni contro il green pass». Davanti alla base militare della Nato a Ghedi, nel Bresciano, era un pullulare di bandiere rosse come non si vedeva da più di un decennio. Quelle stesse bandiere con falce e martello che la scorsa settimana avevano fatto infuriare gli ucraini presenti in un'altra manifestazione, ben più affollata, proprio nel centro di Brescia. La concitazione era palpabile già nelle ore precedenti, dopo la chiamata a protestare «contro la guerra», ma tra i circa 300 manifestanti fuori dai cancelli e le forze dell'ordine a presidio dell'ingresso non ci sono stati veri e propri momenti di tensione.

Il leitmotiv è lo stesso che ha riecheggiato 24 ore prima a Roma: «Fuori l'Italia dalla Nato, fuori la Nato dall'Italia». D'altronde, il luogo scelto dai manifestanti della sinistra antagonista non è certo casuale: negli anni la base bresciana che ospita anche il 6° Stormo, l'unico reparto di volo in Italia equipaggiato con i Tornado è diventato il teatro di frequenti proteste contro gli armamenti del nostro Paese. E come da previsioni dopo l'escalation in Ucraina è arrivato il nuovo appello. Dal presidio risuona di tutto: da «la Russia non ha alcun diritto sull'Ucraina» alla richiesta di scioglimento della Nato, dal «diritto di autodeterminazione del popolo ucraino» alla «riduzione drastica delle spese militari». Ma chi parla a nome dei «proletari di tutto il mondo» spiega anche che «da anni Stati Uniti e Unione Europea finanziano, armano e addestrano non solo l'esercito regolare ucraino ma anche quelle milizie mercenarie ucraine neonaziste che costituiscono un importante puntello del governo filo-occidentale di Kiev».

Alcuni membri dei centri sociali gridano invece all'«imperialismo statunitense ed europeo», sostenendo addirittura che «l'Italia deve essere denunciata per aver fornito armi all'Unione Europea». Mentre nella base Nato di Ghedi c'è calma piatta, fuori gli ultimi sopravvissuti del blocco sovietico elencano il proprio ricettario per la pace, che non può non prevedere l'opposizione alla costruzione di un esercito europeo. Ma il presidio pacifista sembra perdere ogni credibilità quando nel proprio appello inserisce una clausola: «Bisogna cancellare l'obbligo vaccinale».

La guerra Russia-Ucraina. Nemico, nemico, nemico: non sapete dire altro? Lea Melandri su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

La guerra coglie sempre di sorpresa, perché è ciò “a cui non si vuol credere” (Freud). Ma, superato l’iniziale effetto di annichilimento, si fanno immediatamente chiari i legami con la società che la prepara, si vedono le ragioni contingenti che la fanno apparire ogni volta “necessaria”, ma anche i tratti che la contraddistinguono, al di là di ogni tempo e luogo, e che hanno indotto a pensarla come parte immutabile della “natura umana”. In questo connubio paradossale di “permanenze” e di modificazioni storiche, la guerra assomiglia, non casualmente, al dominio maschile. Ciò che la rende anche solo pensabile è l’eclissarsi, nel giudizio e nella percezione che abbiamo di noi stessi e degli altri, dell’individuo visto nella sua singolarità di corpo vivente e senziente. Oggi, uccidere in guerra grandi quantità di civili non ha più l’effetto sconcertante che poteva avere all’inizio del ‘900 per Freud, nonostante che la potenza delle armi sia aumentata e così pure le crisi umanitarie e l’esodo dei profughi, che ne sono le inevitabili conseguenze.

“È anche vero che si poteva constatare che all’interno di queste nazioni civili erano qua e là frammischiate minoranze etniche quasi sempre non gradite (…) Ma gli stessi grandi popoli, si pensava, dovevano aver acquistata tanta comprensione per ciò che fra loro vi è di comune, e tanta tolleranza per quanto vi è di diverso, da non dover più, come ancora avveniva nell’antichità classica, confondere in un unico concetto lo straniero e il nemico”. (Freud, La delusione della guerra, 1915). L’indifferenza ai massacri sembra essere andata paradossalmente di pari passo con la crescente promiscuità di etnie, lingue e religioni, effetto della globalizzazione economica e dei mezzi di comunicazione, una realtà che oggi interessa l’intero pianeta. Non potendo più affidare la propria unità, identità e appartenenza al confronto col “diverso”, né misurare la propria superiorità su “nature inferiori”, le nazioni umane conoscono per la prima volta l’insicurezza e i pericoli di una progressiva indistinzione. Perciò, se c’è un “nemico”, non può che annidarsi nelle maglie del sistema dominante, da cui esce imprevedibile e subdolo, come sono stati in tempi recenti il Covid e la pandemia.

È per questo che il riarmo dell’Europa, salutato con grande enfasi di applausi e standing ovation anche dal nostro parlamento, ha dovuto far ricorso, per ottenere il necessario compattamento tra Stati e partiti in perenne conflitto e competizione, a un accorpamento fondato sulla logica più arcaica del patriarcato, quella che contrappone l’“amico” al “nemico”, il “civile” e il “barbaro”? Come mai si è passati con tanta rapidità da “Più Europa” – che avrebbe significato riconoscere che anche la Russia ne fa parte come l’Ucraina -, alla “russofobia” della guerra fredda, che oggi rischia di incendiare un mondo già segnato da crisi di vario genere? Imperituro, al di là dei mutevoli contesti storici e politici, sembra essere ancora una volta l’ideale di “virilità guerriera” sulla cui costruzione mancano ancora consapevolezze e conoscenze adeguate, nonostante un secolo e oltre di femminismo; rassicurante, al di là dei massacri di civili e delle devastazioni, il fatto che la guerra riporta un ordine sempre più minacciato: quello dei ruoli, considerati ancora “naturali” del maschio e della femmina, l’uomo in armi, le donne alla cura dei figli e della quotidianità minacciata.

“Noi, forse, non ci siamo mai amati – scrive Franco Matacotta, il giovane amante di Sibilla Aleramo, della nostra lunga storia si salvano soltanto due stagioni, una mia una tua (…) la mia, quando tornai tra la mia gente che combatteva contro i tedeschi, mi unii loro, fui uno di loro (…) la tua, quando nell’inverno di Roma occupata, sei rimasta finalmente senza di me, dotata solo della tua forza e della sofferenza di migliaia e migliaia di altre donne intorno a te, uguali a te. Gli uomini in lotta, le donne e le madri che si angustiavano per i due chilogrammi di pane da dare ai loro figli nelle case romane…” (Sibilla Aleramo e il suo tempo, a cura di Alba Morino e Bruna Conti, Feltrinelli 1981). La facilità con cui i conflitti tra i popoli – ma oggi dovremmo dire anche nei rapporti più intimi tra uomini e donne – precipitano in aggressioni armate, fa pensare alla “ripetizione cieca” di un passato intramontabile della storia umana, anziché a quella che Elvio Fachinelli, nel suo saggio Il paradosso della ripetizione (1974), chiamava “ripresa”: un ricominciamento aperto verso l’avanti. Il passato che torna e che spinge per essere rivissuto, si trova ogni volta costretto a cercare la sua conferma in una realtà che nel frattempo è mutata e che potrebbe perciò portarlo a “riaprire il gioco”.

Mi sono chiesta, nei giorni in cui le città del mondo, comprese quelle della Russia, sono state invase da masse di manifestanti contrari all’uso delle armi, tappezzate di appelli per un “No alla guerra senza se e senza ma”, se poteva essere il segnale di una modificazione possibile rispetto a quel residuo duraturo di barbarie che ha visto, all’origine, un sesso imporre il proprio dominio all’altro: la donna vista come “l’estraneo”, il “diverso”, il nemico potenziale. Forse non è un caso che la parola “autodeterminazione” venga usata sia quando si tratta del diritto dei popoli, sia quando si fa riferimento alla libertà delle donne di decidere dei loro corpi, della loro vite. Se si vuole che la scelta più radicale dei movimenti pacifisti – “Fuori la guerra dalla storia” – abbia una qualche possibilità di radicarsi nelle coscienze e nelle pratiche politiche, è necessario riattraversare con la consapevolezza di oggi ciò che resta “inattuale” dentro a un contesto che muta rapidamente, ricostruire legami tra forme diverse di dominio, accomunate dall’idea della superiorità del “principio paterno”, del maschile come “naturalmente” destinato alla “mobilità”, all’ “attacco”, alla “competizione”, alla “gioia della conquista” (Erik H.Erikson, Infanzia e società, Armando Editore, 1966). Lea Melandri

La guerra Russia-Ucraina. Come può finire la guerra in Ucraina: l’unica alternativa possibile è integrale politica di pace. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 4 Marzo 2022. 

La guerra, tanto più quanto si fa prossima, genera insieme alla tragedia prima, quella della produzione di morte e di distruzione dell’umanità, un trauma che investe tutta la dimensione pubblica. Esso può indurre a riflettere anche sulle cause più profonde, nelle quali va individuata la genesi della tragedia. Così sta accadendo anche da noi, nell’intellettualità più pensosa, sugli attuali destini dell’umanità e della civiltà, mentre il partito della guerra recluta anche nuove forze nella stessa intellettualità e nella politica, come nelle comunicazioni di massa, dando luogo a un coro spesso opprimente e inarticolato.

Della prima meritoria tendenza ne è stato un esempio l’intervento di Biagio De Giovanni su queste colonne. Due sono i campi di indagine che la guerra della Russia di Putin in Ucraina ci propone in termini stringenti, quello della globalizzazione, cioè dell’ultima modernizzazione, e quello dell’Occidente, cioè di una più lunga e complessa storia. Le letture apologetiche della globalizzazione che ne hanno accompagnato l’ascesa vengono ormai diffusamente considerate, com’erano di fatti, sbagliate, mentre viene di conseguenza sollecitata giustamente un’altra idea della globalità del mondo. Per muoverla però bisognerà andare alla radice della ragione per cui la globalizzazione ha tradito tutte le sue promesse, a partire dall’omissione colpevole, in chi l’ha analizzata, di un’aggettivazione della stessa che avrebbe potuto far avanzare dall’inizio, e per tutta la sua scena, l’opzione critica necessaria.

L’aggettivazione necessaria è tanto classica quanto pertinente, è vitalistica, l’aveva annunciata il movimento altermondista e poi, in sequenza, la mobilitazione nel mondo di cento milioni di persone (sembra oggi incredibile) nello stesso giorno contro la guerra. Essi indicavano la connessione della globalizzazione con la politica dello Stato guida di quel processo, gli Usa, che erano arrivati a teorizzare in quel quadro la guerra preventiva, denunciata come guerra permanente secondo la spirale guerra-terrorismo-guerra. Il crollo dei Paesi a socialismo reale, la fine della guerra fredda con la dissoluzione di uno dei due blocchi contrapposti, non aveva affatto dato vita alla fine della storia, bensì all’avvento di una nuova storia, tutt’altro che pacificata. Una gigantesca evoluzione tecno-scientifica è stata messa al servizio dell’accumulazione, del mercato, della concorrenza, della massimizzazione del profitto, mentre la politica e gli Stati venivano sospinti fuori dall’economia e dalla società, regolante e pervase dalla competitività delle merci e della mercificazione delle relazioni alienate da un nuovo imponente macchinismo e dall’invasione del virtuale nella vita concreta delle persone.

L’unificazione dei mercati mondiali, la scomparsa della politica nelle grandi scelte pubbliche, la scomparsa dell’alternativa di società non è riuscita a unificare il mondo, men che meno nella democrazia. Si sono susseguite crisi di diversa natura: politiche ed economiche, e si sono moltiplicate nel mondo le linee di faglia. La stessa globalizzazione ne è stata per rimbalzo investita, dando luogo a dure competizioni per grandi aree economiche e a contese tra gli Stati risucchiati essi stessi nella competizione e nella crisi. Nel teatro sconnesso è entrata tragicamente la guerra. La promessa tradita ha lasciato il campo all’incertezza, all’instabilità e al ripetuto riprodursi delle crisi. La crisi pandemica ha enfatizzato e ingigantito il processo. È a questo punto che i ragionamenti critici sulla globalizzazione e sull’Occidente tendono a congiungersi. È vero che già Spengler all’inizio del secolo scorso scriveva del “tramonto dell’Occidente”, ed è vero che il tema della sua crisi è assai ricorrente, ma questa che viviamo è la crisi del suo ultimo tentativo di ricostruzione, o almeno del tentativo di realizzarne l’impresa.

L’Occidente certo trascende la sua collocazione nella globalizzazione capitalistica, ma non vi può prescindere. Su di essa ha investito infatti per l’uscita dal Novecento, per l’oltrepassamento della grande contesa storica tra capitalismo e socialismo, e nella sua traduzione storico-statuale realizzatasi dopo la vittoria contro il nazifascismo, cioè quella tra il mondo del socialismo reale e il mondo a guida americano armato nell’alleanza atlantica. Nello sviluppo della globalizzazione, durante le sue crisi interne, i suoi avanzamenti e i suoi ripiegamenti, ha preso corpo nell’instabilità generale una competizione mondiale aspra e inedita e nuove dure criticità: la competizione tra Cina e Urss si è affermata sino a oscurare l’emersione di altre polarità di primo ordine, in Asia, in Africa, nell’America latina.

Ma essa non ha potuto occultare quei drammatici contrasti che, nell’indifferenza dei protagonisti principali mondiali, il Papa ha saputo definire come la terza guerra mondiale a pezzi. In alto, nuove potenze tecno-finanziarie hanno superato persino nei bilanci i grandi Stati e su campi decisivi ne hanno preso il posto. In basso, la globalizzazione ha eroso la democrazia politica facendo della crescita delle diseguaglianze un suo connotato strutturale e di fondo.  L’Occidente statuale ha legittimato l’intero processo sottraendo ai parlamenti, alla politica e ai governi il compito di combattere, o almeno correggere, questo iniquo processo di modernizzazione e lo ha fatto alzando la bandiera della governabilità e della competitività. Le due nuove bandiere della povera politica.

Così è venuto il tempo della crisi anche della democrazia e della politica stessa. Sono queste le basi dell’attuale crisi dell’Occidente e in esso dell’Europa. Perciò esse sono proprio la crisi di questa storia contemporanea dell’Europa, prodotta dal trascinamento del crollo della presunzione di un unico modello di civilizzazione da diffondere nel mondo. È in essa che sono nati i mostri che ora sospingono in avanti la guerra dentro la stessa Europa. Quello di oggi non è uno scontro tra un mondo illiberale e dispotico (che tuttavia esiste ed è grande e potente) e le società democratiche che, come tali, non hanno più alcuna forza di attrazione e sono erose al loro interno dalla crescente mancanza di consenso popolare.

I mostri prendono la forma dei fantasmi del passato, li fanno rivivere dando loro nuovo vigore. Il più grande e pericoloso di essi, sia nel rapporto tra gli Stati che nel rapporto tra gli Stati e i popoli, è la rinascita dei nazionalismi e della logica di potenza. Proprio ciò di cui ci parla la guerra della Russia in Ucraina. È come se l’intero secolo breve, e soprattutto il lungo dopoguerra, nato dalla volontà di costruire la pace universale, volesse essere travolto per tornare alla guerra per la terra, per la patria, contro un’altra patria, contro il nemico che la Storia ti consegna. Come se si dovesse tornare nei dintorni delle culture del tempo che ha preceduto la Prima guerra mondiale.

L’alternativa politica è allora una sola: mettere in campo un’integrale politica di pace, mettere in campo una forza mondiale di pace. C’è più futuro in quel ripudio della guerra della Costituzione repubblicana che in tutto il moderno e postmoderno della globalizzazione capitalistica, come delle ultime potenze statuali dell’ultimo occidente. L’Europa è proprio in questo quadro che si è svuotata della sua vocazione ed è finita in una ridotta pressoché scomparsa politica. La neutralità, suggerita da padri lontani nel tempo ma vicini proprio a questa necessità storica dell’oggi, può essere l’involucro di cui si riveste un grande protagonista sovranazionale, per diventare tale e per farne la divisa della propria collocazione internazionale. A farlo potrebbe essere se lo volesse l’Europa, per rinascere. Ciò che accade solleva più di un dubbio di questa sua possibilità e capacità.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Il minimo sindacale. Il Landini neutralista alla ricerca della sinistra perduta. Mario Lavia su L'Inkiesta il 7 Marzo 2022.

Il segretario della Cgil prova a mettersi a capo di un’aggregazione che, di fatto, si rivela antiamericana e anti-Nato. Non è la prima volta e non è una sorpresa. Ma se queste posizioni rientrano nel “campo largo” che Letta immagina per governare il Paese, ecco, allora abbiamo un problema. 

Ci risiamo: Maurizio Landini si è posto alla testa del movimento pacifista-neutralista che sabato è sceso in piazza a Roma con partecipazione buona ma non certo oceanica. La scelta, probabilmente richiesta dalla Cgil, di far concludere i comizi al suo segretario generale segnala l’intenzione di Landini di assumere la leadership dei pacifisti-neutralisti.

Non è certo la prima volta che il protagonismo del segretario generale della Cgil – che in questa fase stenta a manifestarsi nella sua dimensione più propria, quella sindacale – lo mette in rotta di collisione con la Cisl (che sabato non c’era per un ovvio dissenso sulla piattaforma “neutralista”) e finanche con il segretario del Pd Enrico Letta, attestato con coraggio su una posizione che distingue nettamente aggressori e aggrediti e sostiene l’appoggio all’Ucraina in ogni modo, compreso quello militare.

È un vecchio tic del capo della Cgil quello di collocare il suo sindacato alla ricerca della sinistra perduta, su tutti i temi, dal lavoro al Covid alla pace. La politicizzazione del sindacato più grande, però, non solo incappa nella contrarietà della Cisl ma rischia di diventare un problema per la sinistra di governo, cioè il Pd, che sull’aggressione russa ha fissato una linea molto chiara: «Siamo al fianco dell’Ucraina», taglia corto Piero Fassino, che con Letta, Enzo Amendola e Lia Quartapelle ha del tutto svincolato il Pd dalle ambiguità del pacifismo che non sceglie da che parte stare.

Non sappiamo quanti iscritti alla Cgil preferiscano la posizione di Letta a quella di Landini: sta di fatto che quest’ultimo ha di fatto sequestrato la Cgil ponendola alla testa di un’aggregazione di sinistra-sinistra, antiamericana e anti-Nato (non vogliamo dire che sia perciò filo-Putin), e cioè della sinistra antiamericana di Nicola Fratoianni, di Massimo D’Alema, dell’Anpi (il cui presidente Gianfranco Pagliarulo, già cossuttiano, dal palco di San Giovanni ha dettato la sua linea: «Deponiamo le armi, apriamo una grande discussione nel Paese»), oltre alle tradizionali organizzazioni genuinamente pacifiste e però equidistanti, attestate sulla “neutralità attiva” che mette sullo stesso piano, se le parole hanno un senso, Mosca e Kiev.

Se questo aggregato è parte del “campo largo” che Letta immagina per governare il Paese, è chiaro che Houston, abbiamo un problema: come si potrebbe tenere una decente politica internazionale se al governo vi fossero Sinistra italiana e compagni? Con questo pacifismo, che comunque parla al cuore di tanti suoi militanti, il Pd non ha certo intenzione di rompere. Di qui la scelta di non aderire ma senza sabotare, anzi “inviando” in piazza il leader della sinistra interna Peppe Provenzano con al seguito Laura Boldrini e il boldriniano Marco Furfaro, più Gianni Cuperlo che non appartiene a nessuna corrente e ha spiegato con una certa sofferenza la sua presenza al corteo.

È un salvataggio di capre e cavoli discutibile, essendo evidente come la piattaforma di sabato fosse contraria alla linea fissata da Letta. Se ne deve essere accorto anche quest’ultimo, o forse lo stesso Provenzano che ieri ha sterzato: «Quando ci sono un aggredito e un aggressore, e una sproporzione di forze infame, quando da un lato c’è un popolo che difende la sua libertà e chiede aiuto e dall’altro un tiranno come Putin, prendere parte è necessario».

Non sono esattamente le parole degli striscioni e dei cartelli del corteo di sabato e non è esattamente nemmeno il pensiero di Landini, che tra l’altro ha pensato di cavarsela chiamando alla mediazione l’Onu, cioè un consesso che la Russia può bloccare quando vuole poiché dispone del diritto di veto. Conoscerà a menadito i contratti di lavoro, ma sulla politica internazionale il segretario della Cgil difetta alquanto. Ed è un problema anche questo.

Letta si giustifica: "Pacifisti divisi? Putin vuole spaccature". Francesco Curridori il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

Enrico Letta ribatte alle polemiche sulla sua assenza alla manifestazione pacifista organizzata ieri dalla Cgil e dall'Anpi.

"La cosa peggiore che possa capitare sono divisioni e spaccature. È esattamente quello che vuole Putin". Enrico Letta, a margine del sit-in organizzato dalla comunità ucraina risponde così alle polemiche nate dopo la sua assenza alla manifestazione per la pace di ieri a Roma.

"Per questo non sentirete da me nessuna parola che aiuti questo volere di Putin", aggiunge il segretario del Pd che, ieri, è stato fortemente contestato per la sua vicinanza alla Nato e per aver sostenuto l'invio delle armi in sostegno degli ucraini. La manifestazione per la pace di ieri, a San Giovanni, voluta dall'Anpi e dalla Cgil (e a cui non ha partecipato la Cisl), ha assunto toni assai diversi da quelli tenuti finora dal segretario Letta. Le varie associazioni pacifiste e l'estrema sinistra hanno preso una posizione di assoluta 'terzietà', ossia equidistanza netta sia da Putin sia dall'Occidente. Oggi, però, Letta non è voluto entrare nella polemica e si limitato a dire: "Noi in questi giorni stiamo partecipando a tutte le iniziative per chiedere la pace e la fine della guerra". Insieme a lui, erano presenti anche il vicesegretario Giuseppe Provenzano, la responsabile Esteri del partito Lia Quartapelle e il deputato Sensi.

Solita piazza pacifista: un buffetto a Putin e insulti a Usa e Nato

Di fronte alla richiesta della comunità ucraina in Italia di dar vita a una 'no fly zone', il leader del Pd ha chiarito: "Solo la diplomazia ci può aiutare. Il nostro governo e la Ue continuano a lavorare con tutti gli argomenti possibili". Letta, parlando da piazza della Repubblica, non ha usato mezzi termini: "Ucraina libera vuol dire Europa libera. Ucraina, Europa e Italia sono tutti dalla stessa parte, la parte della libertà e della democrazia". Letta ha, quindi, espresso la solidarietà di tutti gli italiani e dell'Italia alla comunità ucraina assicurando che quella che stanno combattendo è "una battaglia comune che durerà fino a che l'Ucraina non sarà liberata". E ha concluso:"Siamo al vostro fianco con le parole, i gesti e azioni, piangendo con voi i morti e le persone che, in questo momento, stanno soffrendo per questa drammatica situazione. Voi sapete che qui siete e casa vostra. L'Italia è casa vostra e noi siamo con voi".

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 6 marzo 2022.

Mettete dei fiori nei vostri cannoni. L'ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris è intervenuto nel dibattito sulla guerra in Ucraina, puntando il dito contro le decisioni del governo Draghi, succube, a suo dire, della Nato e degli Usa: «All'escalation di Putin non si risponde con un'altra, seppur diversa, escalation». 

C'è una sinistra radicale che vuole la pace ma non si dà pace. La narrazione è unilaterale: ogni guerra è colpa dell'imperialismo (del neoliberismo, nella versione aggiornata), le colpe dell'Europa sono equiparate alla brutale invasione di Putin, il presidente Draghi, in versione «peace & love», dovrebbe trasformarsi in un «partigiano della pace» o in un teorico dell'appeasement , magari promuovere una svolta a «mani nude» contro i carri armati, sventolando le bandiere arcobaleno.

E pazienza se l'Ucraina farà la fine dell'Ungheria e della Cecoslovacchia nel 1956 e nel 1968. De Magistris è in buona compagnia. L'ex deputato Oliviero Diliberto è stato intervistato dalla tv cinese per attaccare la Nato e parlare di «arroganza dell'Occidente». Arroganza di fronte a un invasore così spietato e così incline alle nostalgie imperiali di uno zar di tutte le Russie? Stupisce che l'ex magistrato e l'ex ministro della Giustizia facciano finta di non sapere chi ha violato la legge. Della democrazia.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 6 marzo 2022.

La guerra nel suo orrore ha anche il potere di allontanarci da tutto ciò che parrebbe essenziale e forse non lo è: e infatti le immagini che ci vengono dall'Ucraina sono di donne e uomini ritornati alla loro funzione primaria, primitiva, preistorica, le femmine intente a partorire, a proteggere i figli, a mettere in salvo la prole, i maschi a combattere per difendere il suolo, il rifugio, il futuro del gruppo. 

Al primo apparire di quelle mostruose macchine di sterminio che costano probabilmente come un ospedale, la realtà si è ribaltata, e persino il nostro corpo è tornato ad essere solo natura, e i nostri pensieri solo sopravvivenza.

Dentro quegli enormi fantocci piegati sotto il peso delle armi e di divise falsamente protettive, ci sono tutti: forse anche qualche femmina, ma soprattutto chi è genericamente maschio, binario o no, fluido o casto, sino a ieri truccato come Achille Lauro o abbigliato come i Maneskin o palestrato virilmente. La guerra, nel sangue, obbliga a una tregua dalla smania di catalogazione, dal chiacchiericcio senza soluzione, a un ritorno, si spera molto breve, all'essenziale. Non so certo immaginare cosa faranno i trans, ma penso che anche contro sé stessi sceglieranno di essere uomini, perché sono gli uomini ad avere l'istinto, e la forza, per la lotta. Perché alla fine siamo prima di tutto semplicemente umani. 

Di colpo tutto pare solo guerra, anche qui da noi, in Europa, in Italia, le immagini sono quelle, i suoni sono quelli, il dolore, la morte, la paura, la perdita, la fame, sono lì, vicino, troppo vicino: e chi ha in casa una lavoratrice ucraina, cioè più di 200mila famiglie italiane, ne sa lo sperdimento, ne sente le telefonate ai figli, ai nipoti, laggiù, che rischiano la vita nell'estremo disagio, i maschi armati, le femmine coi bambini nelle cantine, nei tunnel, nei sotterranei della metropolitana.

La pandemia non è estinta, si soffre e si muore ancora di virus ma pazienza, le notizie sono frettolose; il solito uomo ha ammazzato la solita compagna, che orrore ma che dire? Tiziano Ferro e il suo partner sono diventati papà, auguri, ma non c'è tempo per sociologie o sgridate; gli opinionisti si sono subito riciclati con improvvisate sapienze geopolitiche, e meno male almeno i talk show, pur tutti quanti concentrati solo sulla guerra come prima solo sulla pandemia, non ci privano del costante arruffio litigioso, perché Putin ma pure l'Ucraina ecc. e resta solo la speranza che tra un po' nelle piazze i No Vax disoccupati non si riciclino in No Zelenskyj.

Gli influencer sono sconcertati, come conciliare il no alla guerra coi nuovi rossetti fosforescenti? A livelli alti non si demorde dal chiedersi se la guerra sia femmina o maschio, se merita lo schwa oppure no. Partiam Partiam dice il moderatamente coraggioso Salvini: per il fronte? No, meglio in un Paese vicino, per raccogliere piccoli fuggitivi e far bella figura col Papa senza innervosire l'amico innominabile. Il nostro modo di vivere impigrito e incattivito ci sta sfuggendo, i giorni passano sempre più spaventosi e oscuri, per gli altri, e vuoti per noi. 

E il catasto? E il Csm? Conteranno ancora qualcosa? Se Putin ha un'idea ben precisa di cosa sia uno sterminio, ed è quello che vuole, lei signora cosa farà questa estate? E se al mare non ci sarà l'aria condizionata? I governi europei sono uniti nel fare tutto il possibile per trovare una soluzione, e pare quasi impossibile.

Anche perché quello là ha già chiarito con l'attacco alla centrale nucleare che dell'Europa e dei suoi musi non gliene frega niente. Ma noi divaghiamo anche perché nessuno ci spiega come si ferma una guerra se davvero ancora non hai capito perché è stata scatenata e quindi cosa si dovrebbe fare perché finisca. Noi confusi, impotenti, accerchiati da nuove paure imprevedibili, chiamati da eventi che ci imporrebbero sacrifici se non addirittura eroismi, siamo sicuri di volerli affrontare, e non solo dopo quelli della pandemia, ma così, perché sarebbe nostro dovere?

Basterà esporre la bandiera ucraina, raccogliere denaro, cacciare gli artisti russi che non si schierano contro l'invasione, suonare le campane e spegnere le luci tutti insieme, tingersi la faccia di giallo e azzurro, perché a Kiev si sentano protetti? Un po' di imbarazzo, persino commozione, lo proviamo in tanti a vedere la faccia stanca di quel giovane presidente in maglietta militare che ci inchioda, uno per uno, chiedendoci aiuto, uno per uno, aiuto vero: ma quale?

Alessandro Sallusti: Landini e la sinistra arcobaleno "utili idioti" di Putin in Italia. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 07 marzo 2022.

Come ai tempi del terrorismo, la sinistra politica e sindacale italiana ci mette un po’ a scegliere da che parte stare della storia. Allora era «né con le Brigate Rosse né con lo Stato», oggi è «né con Putin né conla Nato», come ha detto chiaramente la maggior parte dei partecipanti alla manifestazione indetta ieri a Roma dalla Cgil di Landini, in un tripudio di bandiere rosse e della pace, che non sono esattamente il vessillo dell’Ucraina, nazione aggredita e martoriata. Agli amici di Landini, utili idioti di Putin in Occidente, vogliamo dire chiaro che noi siamo per la pace quanto e più di loro, ma visto che oggi non per nostra volontà c’è una guerra in Europa che ci coinvolge fin sopra i  capelli, la politica del né-né diventa un’arma micidiale offerta al nemico Putin, che ancora ieri ha equiparatole sanzioni economiche sottoscritte dall’Italia a un’aggressione militare. Viene in mente la celebre frase che Winston Churchill pronunciò all’indomani della neutralità che nel 1938, alla conferenza di Monaco, Inghilterra e Francia scelsero nei confronti delle ambizioni della Germania di Hitler sulla Cecoslovacchia: «Potevano scegliere tra il disonore e la guerra: hanno scelto il disonore e avranno la guerra».

Se oggi Landini e la sinistra possono protestare in piazza contro la Nato, e quindi a difesa delle ragioni di Putin, lo si deve solo al fatto che le forze armate occidentali ci hanno liberato dal nazifascismo prima e hanno difeso le nostre libertà fondamentali poi, anche quelle potenzialmente pericolose, come è poter esprimere sempre e comunque il proprio pensiero. Non è un caso se, dopo aver scatenato l’inferno in Ucraina, il primo atto di Putin è stato silenziare con la forza la stampa e l’opinione pubblica (ieri per la prima volta nella sua storia la Rai ha evacuato la sede di Mosca per ragioni di sicurezza ma anche di dignità). In Russia i Landini, i cortei e le bandiere della pace non sono graditi. No, non è il momento del né-né. A chi spara su bambini, donne e anziani inermi non si può concedere neppure un minimo spiraglio di credibilità, e se questo purtroppo avviene è perché non tutta la sinistra italiana ha fatto fino in fondo i conti con la storia criminale e sanguinaria del comunismo dal quale proviene e che sotto sotto ancora rimpiange. Ecco, noi il comunismo ancora lo combattiamo, anche nella sua riedizione putiniana e landiniana.

Da corriere.it il 9 marzo 2022.  

Le note di «Bella ciao» sono diventate l’inno della resistenza ucraina. La popolare cantante folk ucraina, Khrystyna Soloviy, ha riadattato il canto partigiano al contesto dell’attuale conflitto con la Russia, dedicandolo - spiega sui social - «a tutte le forze armate, ai nostri eroi e a tutti coloro che in questo momento combattono per la propria terra». 

La nuova versione, dal titolo «L’ira ucraina», alla prima strofa recita: «Una mattina, in più all’alba/La terra tremò e il nostro sangue cominciò a bollire/I razzi dal cielo, le colonne dei carri armati/E il vecchio Dnipro urlò».

La voce angelica della giovane Soloviy, accompagnata dalla chitarra di Olexii Morosov, canta ancora: «Nessuno ci pensava, nessuno sapeva/Quale fosse l’ira ucraina/Uccideremo i boia maledetti senza pietà/Coloro che stanno invadendo la nostra terra». 

«Nella Difesa territoriale ci sono dei ragazzi migliori/Nelle nostre forze armate combattono veri eroi/E i javelin e i bayraktar/Uccidono i russi per l’Ucraina/E il nostro popolo, gli ucraini/Hanno già unito il mondo intero contro i russi/E molto presto li sconfiggeremo/E ci sarà la pace su tutta la Terra», conclude la nuova versione di «Bella ciao».

Luigi Lupo per true-news.it il 14 marzo 2022.

Il video sta facendo il giro del web, numerosi sono i consensi e le condivisioni da parte dei sostenitori della resistenza Ucraina, impegnati nel conflitto con la Russia. Ma è probabile che “Bella Ciao”, cantata dalla famosa 29enne ucraina Khrystyna Soloviy, sia la spia di un paradosso.

La canzone della resistenza partigiana è intonata da un’artista che solo qualche settimana fa, il 26 febbraio, pubblicava su Twitter una foto dei suoi stivali con parole di sostegno a Stepan Bandera, personaggio controverso della storia ucraina. Bandera fu leader dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN) e fondatore dell’Esercito Insurrezionale Ucraino (UPA) oltre che collaboratore del Terzo Reich. 

L’inno dei partigiani rivisitato in ucraino

Insomma sembra proprio che “Bella Ciao”, inno della resistenza partigiana, simbolo canoro delle sinistre, e brand internazionale dopo l’uscita della serie Netflix “La Casa di Carta”, sia intonata e rivisitata da una cantante che, secondo alcuni, potrebbe aver sostenuto posizioni filonaziste o quantomeno sarebbe supporter di un personaggio con cui l’Ucraina non ha ancora fatto i conti. 

Nella descrizione che accompagna il video dell’esibizione, in cui Soloviy è affiancata dalla chitarra del musicista Olexii Morosov, la cantante scrive: “La mia versione di una canzone popolare italiana. La dedico ai nostri eroi, alle forze armate e a tutti coloro che ora stanno combattendo per la loro patria”.

Stepan Bandera, eroe ucraino o nazista?

Il sostegno a Bandera è abbastanza sentito tra gli ucraini perché l’ex Comandante, morto a Monaco di Baviera il 15 ottobre 1959 per mano di un agente del KGB, è considerato un eroe, il fautore dell’indipendenza ucraina. 

Nel gennaio 2010 Stepan Bandera fu insignito, postumo, dell’onorificenza di Eroe dell’Ucraina dal presidente Viktor Jušcenko, alla presenza del nipote Stepan Bandera jr.

Una consacrazione che scatenò la condanna del Parlamento europeo: nella risoluzione del 25 febbraio 2010 sulla situazione del paese, Strasburgo deplorava “profondamente la decisione del Presidente uscente dell’Ucraina, Viktor Jušcenko, di attribuire a Stepan Bandera, uno dei leader dell’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini (OUN2) che ha collaborato con la Germania nazista, il titolo postumo di “Eroe nazionale dell’Ucraina”.

E auspicava “che la nuova dirigenza ucraina rivedesse tali decisioni e mantenesse il suo impegno nei confronti dei valori europei”. Migliaia di ucraini avevano replicato al PE con una petizione in cui affermavano che la sua decisione era “storicamente infondata e basata sulla disinformazione” e costituiva “un insulto ai milioni di ucraini che erano stati uccisi o erano stati vittime di repressione per il loro attaccamento alla libertà e all’indipendenza” e “creditava l’idea stessa di integrazione europea tra i suoi sostenitori ucraini”. 

La confusione è ancora tanta. Non c’è un accordo preciso tra gli storici ma sembrerebbe, secondo alcune stime, che Stepan Bandera avrebbe portato avanti una pianificata pulizia etnica in Galizia e Volinia uccidendo 60mila polacchi.

Durante l’alleanza con i nazisti, il movimento potrebbe aver contribuito, almeno indirettamente, allo sterminio della popolazione ebraica di quelle regioni. 

Forse cantare “Bella Ciao” e sostenere Stepan Bandera, come ha fatto Khrystyna Soloviy, non pare proprio una scelta coerente.

LA CISL SI DISSOCIA. La piazza pacifista è contro Putin ma anche contro le armi agli ucraini. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 05 marzo 2022

In 50mila, dicono gli organizzatori, tantissimi giovani, tutti contro gli aiuti militari dall’Italia: «Con la mitraglietta in guerra ci vada Letta». Non si canta Bella Ciao, la diffidenza per la Nato prevale sul mito della Resistenza armata.

Landini alla piazza: «La guerra  si ferma inviando in Ucraina l’Onu. È il momento delle trattative diplomatiche e del disarmo». E l’Anpi: «La Russia può interpretare l’invio di materiale bellico all’Ucraina come un atto di belligeranza dell’Italia. Non aiutiamo così il popolo ucraino».

In piazza c’è Provenzano, il vicesegretario del Pd. Il quale a sua volta viene sfottuto dai pacifisti.

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Marcello Sorgi per “la Stampa” il 6 marzo 2022.  

C'erano tante bandiere arcobaleno e poche ucraine alla manifestazione pacifista di ieri a Piazza San Giovanni a Roma. E si avvertiva imbarazzo, perché stavolta il movimento non può prendersela con la Nato (anche se qualcuno ci ha provato lo stesso) né con gli americani, bersagli abituali di chi in Italia si batte per la pace, e non riesce a prendersela con Putin, anche se è chiaro che è lui l'aggressore.

In questa difficile narrazione della più grave crisi apertasi sul territorio europeo è stato Landini a mettere sullo stesso piano l'Unione europea che manda armi all'Ucraina per aiutarla a difendersi e l'autocrate russo che l'ha invasa. Inviare armi non vuol dire cercare la pace, gridava Landini, circondato da tutte le diverse anime del pacifismo italiano. 

Tra le file della manifestazione c'era anche chi ripeteva la ricostruzione secondo cui sono i trent' anni di allargamento della Nato verso Est ad aver spinto Putin ad invadere l'Ucraina. Come se la progressiva adesione delle repubbliche ex-sovietiche all'Alleanza atlantica non fosse avvenuta su precisa richiesta dei singoli Paesi.

Come se l'invasione unilaterale di un Paese libero, dopo quelle della Georgia e della Crimea, non rappresenti una rottura degli oltre settant' anni di convivenza pacifica seguiti alla seconda guerra mondiale. Ma si sa: lo strabismo del Movimento pacifista è iscritto nel suo Dna. Ai tempi del Kosovo, un pezzo di centrosinistra manifestava contro il governo presieduto dal primo post-comunista, D'Alema, che aveva messo a disposizione le basi Nato. Oggi l'accusa contro l'Europa è di non aver tentato di interloquire con Putin, anche se il leader russo ha ricevuto uno dopo l'altro Macron e Scholz (e stava per ricevere Draghi), senza aprire al negoziato. Naturalmente tra i manifestanti di ieri la gran parte era animata da sinceri sentimenti pacifisti. E questo ha fatto sì che quasi tutti i partiti del centrosinistra inviassero delegazioni ad alto livello. Sarebbe stata l'occasione per fare chiarezza, invece di alimentare l'equivoco che Europa, Nato e Putin pari sono.

"Occasione persa", "Fuoco amico": è guerra nel fronte della Pace. Alessio Mannino il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il conflitto in Ucraina riapre le ferite nel mondo dei pacifisti italiani: "Assurdo predicare la pace se prima non facciamo pace tra di noi".

“La pace è una cosa troppo seria per lasciarla ai pacifisti”. La battuta non è di qualche dottor Stranamore militarista ma di Mao Valpiana, memoria storica del pacifismo italiano. Presidente del Movimento Nonviolento, è uno degli organizzatori della Rete Pace e Disarmo che ha indetto la marcia di oggi a Roma delle 13.30 da Piazza della Repubblica a San Giovanni, luogo storico dei raduni di sinistra. Una manifestazione che ha diviso le anime del serpentone arcobaleno: da un lato la Cisl che si è sfilata, in disaccordo sulla condanna all’invio delle armi all’Ucraina stabilita quasi unanimamente dal Parlamento; dall’altro voci di primo piano come padre Alex Zanotelli, che all’opposto denuncia la mancanza di “riferimenti chiari” ed esporrà “un cartellone tutto suo”.

Secondo Valpiana è “tutta una fake news: è stata fatta circolare una griglia di frasi che non era nemmeno una bozza. In realtà il no alle armi all’Ucraina non è mai stato in discussione”. In una comunicazione interna di due giorni fa, il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, ha sostenuto che la manifestazione rischiava di “essere inquinata da pesanti pregiudizi e derive ideologiche che sottintendono una sostanziale equidistanza tra le parti in guerra”. Valpiana allarga le braccia: “Considero una sconfitta personale l’uscita della Cisl, dopo tutti gli sforzi fatti per tener dentro le componenti cattoliche. Ma proprio per questo la considero un’occasione persa da parte loro”. Quanto alle critiche di Zanotelli, per Valpiana si tratta di “considerazioni non all’ordine del giorno”. Esiste da sempre, aggiunge, “il fuoco amico dei duri e puri”.

Il comboniano, un mito per i pacifisti nostrani, non ci sta: “Il movimento è diviso da parecchi anni, almeno da quando è avvenuta la spaccatura fra Pace e Disarmo e il Tavolo della Pace. Con don Luigi Ciotti abbiamo fatto di tutto per ricomporla, ma ad ostacolare l’unità ci si mettono personalismi, dissensi ideologici, lotte locali”. Zanotelli denuncia con precisione “l’incoerenza fra chi dice no e chi dice sì all’invio di armamenti”, che equivale a “gettare benzina sul fuoco della guerra”, e trova "assurdo che predichiamo la pace se prima non facciamo pace fra noi”.

Cerca di smorzare la polemica Flavio Lotti, coordinatore del Tavolo della Pace al quale si deve l’ormai abituale marcia omonima da Perugia ad Assisi. “Non c’è mai stato un solo movimento, semmai c’è sempre stata pluralità”, puntualizza un po’ seccato. Ma subito sottolinea che “è una sciocchezza pensare debba esserci un comitato centrale che decida una linea unica”. E rivendica: “Noi il 10 ottobre scorso abbiamo sfilato ad Assisi nel menefreghismo di molti. Un conto è la differenza di approcci, un altro è la frammentazione, cioè far prevalere il proprio punto di vista e basta. Non posso che applaudire alla manifestazione di domani, sperando che sempre più punti di vista si facciano sentire”.

La discussione interna al variegatissimo puzzle di sigle pacifiste viene dopo un periodo di stanca, pur nel lavoro più o meno sottotraccia rispetto ai riflettori dei media. La ricercatrice dell’ateneo di Perugia Romina Perni, assieme al giornalista Roberto Vicaretti, ci ha dedicato un libro, significativamente intitolato “Non c’è pace” (2020): “Rispetto ai primi anni 2000, il mondo del pacifismo in Italia ha subìto un ridimensionamento”, sostiene. I motivi, secondo Perni, sono principalmente tre: “Il terrorismo, che ha cambiato la percezione del nemico e della conflittualità bellica; la crisi economica, che ha sconvolto l’agenda di priorità; infine, i soggetti politici di sinistra, che hanno mostrato meno attenzione alla questione della pace, considerata come un valore immateriale quando invece sottintende un intero sistema di sviluppo basato sulle disuguaglianze”. L’attività, di conseguenza, da politica è diventata “più sociale e culturale”. Valpiana conferma: “Rispetto al pacifismo diciamo ideologico di un tempo, già dagli anni Novanta ha assunto una fisionomia legata anche al soccorso umanitario. Ma abbiamo continuato a produrre documenti, analisi e proposte di legge”. Può aver influito anche una sensibilità diversa per guerre in cui le vittime appartenevano a popoli con regimi o formazioni di guerriglia considerati il Male, come i siriani fedeli ad Assad o i talebani. Valpiana nega: “Non è vero, è che ci sono situazioni più difficili da spiegare all’opinione pubblica”.

La tragedia in Ucraina pone un dilemma politico per chi si schiera idealmente contro ogni guerra: come tradurre in concreto l’aiuto al popolo ucraino? Zanotelli non ha dubbi: “La base di partenza per mettere intorno a un tavolo i contendenti è la neutralità dell’Ucraina”. Per Valpiana, a fare da paciere dovrebbero essere “l’Onu ma anche il Vaticano e la Cina”. Lotti chiama in causa l’Unione europea: “Manifestare oggi dovrebbe servire a far cambiare impostazione all’Europa, che dovrebbe diventare parte terza”. Il problema è come porsi di fronte alla dittatura di Vladimir Putin. “Qui c’è un aggressore e un aggredito”, dice Valpiana per spazzar via ogni ambiguità, “il resto sono considerazioni geopolitiche non c’entrano con l’immediato”. E invece proprio da queste bisognerebbe partire ad avviso di Lotti: “La premessa dovrebbe essere che la Nato, guidata dagli Usa, accetti il fatto che la Russia deve avere un ruolo nella sicurezza comune. L’Ucraina è solo la vittima finita in mezzo al gigantesco, irrisolto problema del riordino strategico globale”.

Resta il fatto che la posizione “né con la Nato né con la Russia” può prestarsi a equivoci. “Gli ucraini hanno tutto il diritto di difendersi come meglio credono”, replica Valpiana, “ma ci sono modi alternativi all’uso delle armi: i disertori di entrambi le parti, ad esempio, già lo dimostrano, così come la resistenza civile degli ucraini che scappano”. Lecito far osservare che così si spiana la strada alla resa di fatto all’esercito russo. “Si può fare poco, è vero, ma quel che è sicuro è che intraprendere la via militare, fra l’altro comoda e ipocrita di mandare armi senza truppe sul campo, ci porta al baratro, al punto di non ritorno”. Zanotelli, è il caso di dirlo, non si dà pace: “Una pazzia collettiva e un cinismo puro, ecco dove siamo arrivati. L’anno scorso l’Italia finanziava già con 30 miliardi le spese militari, adesso il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, che io chiamo ministro della Guerra, ne ha aggiunti altri tre. Ma sono vent’anni che vendiamo armi all’Arabia Saudita per la guerra in Yemen, e il risultato è stato il disastro”.

C’è chi, come lo storico dell’arte e opinionista molto seguito a sinistra come Tomaso Montanari, pensa che l’obiettivo finale debba consistere nel rovesciare il regime putiniano. Il che rimanda alla corrente di pensiero secondo cui saremmo già dentro uno scontro di civiltà tra democrazia e autocrazia. Lotti dissente nettamente: “Non possiamo pensare di scalzare Putin, perché non ne abbiamo il potere. Non c’è dubbio che siamo contro il suo regime, ma fargli la guerra significa andare verso la guerra mondiale con una potenza nucleare. Non si capisce perché ora debba essere diventato pazzo mentre fino a non molto tempo fa c’era chi ipotizzava perfino l’ingresso della Russia nella Nato”. Per molto meno, facciamo notare, si passa per filo-russi. “In Russia si arresta, in Italia si silenzia”, ribatte Lotti. “In piazza bisogna andare per la pace, perché non sono meno dittature quelle in Arabia Saudita o un Turchia, o no?”, è la pietra tombale di Zanotelli. Chissà se lo è anche sulle polemiche fra pacifisti senza pace.

Cofferati: “La pace si difende anche inviando le armi”. Giovanna Casadio su La Repubblica il 7 marzo 2022.  

Intervista all'ex leader della Cgil: "Ce lo insegna la nostra storia. No all’equidistanza tra aggressori e aggrediti". "Prendere parte è necessario. Non può esserci equidistanza e neutralità, perché in campo in questa guerra si fronteggiano l'aggressore Putin e gli aggrediti, il popolo ucraino. E la pace si difende anche inviando armi agli ucraini". Sergio Cofferati, l'ex segretario della Cgil che di piazze se ne intende (a difesa dello statuto dei lavoratori chiamò milioni di manifestanti al Circo Massimo), ex sindaco di Bologna, ex eurodeputato del Pd, non ha dubbi.

Il realismo di Kant su pace e democrazia. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 6 marzo 2022.  

Con il saggio «Per la pace perpetua» nasce l’idea che ci sia un nesso tra il regime politico negli Stati e i conflitti tra gli Stati, come prova il fatto che di solito le democrazie non si fanno la guerra tra di loro.

Dal movimento pacifista è stato evocato in questi giorni un celebre scritto di Kant, «Per la pace perpetua», saggio filosofico-politico baciato da un secolare successo. Ma questo testo, per quanto scritto nel 1795 e inevitabilmente utopico, è scevro di ogni ingenuo irenismo, e anzi è intriso di un grande e profetico realismo, che vale la pena rileggere oggi.

Uno degli articoli preliminari di questo Trattato recitava infatti: «Nessuno Stato deve intromettersi con la forza nella costituzione e nel governo di un altro Stato», poiché l’intervento di «potenze straniere sarebbe violazione dei diritti di un popolo indipendente».

Mentre il «primo articolo definitivo» poneva una precisa condizione per ottenere una pace davvero duratura: «La Costituzione civile di ogni Stato deve essere repubblicana». Dove per «costituzione repubblicana» Kant intendeva, come spiega lui stesso, una forma di governo diversa dal «dispotismo». Infatti un regime rappresentativo, basato sulla divisione dei poteri e sul dominio della legge, in cui sia richiesto «l’assenso dei cittadini per decidere se la guerra debba o non debba essere fatta», rifletterà «a lungo prima di iniziare un così cattivo gioco». Mentre in un regime in cui invece «il suddito non è cittadino», e «il sovrano non è membro dello Stato ma ne è il proprietario», «la guerra diventa la cosa più facile del mondo».

Proviene da qui, dal pensiero di Kant, l’idea che ci sia un nesso tra il regime politico negli Stati e i conflitti tra gli Stati, come prova il fatto che di solito le democrazie non si fanno la guerra tra di loro. Ma, sopratutto, il filosofo di Koenisberg fondava l’unica speranza di pace perpetua sul diritto, perché «la violazione del diritto avvenuta in un punto della Terra è avvertita in tutti i punti». L’idea che si possa ottenerla invece accettando il sopruso e la sopraffazione era estranea a lui come dovrebbe essere oggi a tutti noi. 

Solita piazza pacifista: un buffetto a Putin e insulti a Usa e Nato. Laura Cesaretti il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

La manifestazione «per la pace» si chiude, le truppe Cgil e satelliti sfollano da piazza San Giovanni, e dagli altoparlanti parte una canzone dei Nomadi. Le parole dicono: «Contro le inique sanzioni, contro le crociate americane».

Basta questa scelta musicale (che sarebbe ridicola se non fosse profondamente infelice, visto il momento) per inquadrare lo spirito della manifestazione, voluta dal sindacato di Landini - con la Cisl che si è clamorosamente sfilata - e da svariate associazioni pacifiste e della sinistra estrema, inclusa l'Anpi.

Il succo della manifestazione è: né con Putin, né con le democrazie occidentali. La guerra è brutta, la pace è bella e gli ucraini si devono arrangiare. Quanto a Europa, Nato e governo italiano hanno - ovviamente - sbagliato tutto, l'invasione di Putin è colpa loro e mandare le armi ai partigiani ucraini che cercano di resistere all'invasore è un peccato mortale contro «la pace» e «il dialogo». Quale e con chi, non è dato sapere, e certo non ne hanno idea i rappresentanti delle diverse sigle promotrici che sfilano sul palco, dando vita ad un happening che spesso raggiunge livelli (involontariamente) comici da Alto Gradimento.

«L'obiettivo deve essere quello di abrogare la guerra», annuncia Landini alla piazza. Vaste programme, avrebbe detto il generale De Gaulle, ma Landini non teme certo le sfide difficili: non a caso è stato fiancheggiatore del governo che ha annunciato di aver «abolito la povertà». E infatti il prode condottiero di una Cgil sempre più ripiegata sulle bandiere rosse del passato non si fa sfuggire l'occasione: «Essere contro la guerra, per il sindacato, vuol dire anche essere per un nuovo modello di sviluppo che metta al centro la qualità del lavoro e che superi la precarietà». Attacca Draghi e il Pd, colpevoli di avere (con la Ue) deciso l'invio di armi alla resistenza ucraina perché «le armi non portano la pace» (Putin invece sì, si immagina). Poi invoca l'intervento dell'Onu che va «inviato in Ucraina». Dimostrando di non sapere neppure che la Russia (e la Cina) hanno diritto di veto nel Consiglio di sicurezza Onu. Dopo l'intervento del capo Cgil inizia la sfilata surreale degli oratori. La rappresentante di Libera (alias Don Ciotti) invita a «costruire ponti dove danzi la pace, perché i bambini che abbassano lo sguardo non vedano armi ma solo matite colorate e aquiloni». Maura Cossutta annuncia che «tra uccidere e morire c'è una terza via: vivere» e spiega che «non serve la guerra, violenza del patriarcato, ma una rivoluzione della cura che ribalti il paradigma del profitto». In un crescendo rossiniano, salgono al podio due studenti del «movimento La Lupa». Quella di Putin, annunciano, è «la diretta reazione alla campagna di aggressiva espansione della Nato». Gridano che i giovani in Italia sono «oppressi, sfruttati, violentati per strada», altro che ucraini. Poi proclamano lo «sciopero transfemminista contro la guerra». Sale al microfono l'oratrice di «Un Ponte per»: «I conflitti vanno curati - esorta - e questa guerra è figlia della ricerca di supremazia della Nato che non ha voluto riconoscere le sorelle russe». Se sia un riferimento alle «Tre sorelle» di Checov non è chiaro. A Mosca, a Mosca! Il successivo oratore lancia un grido di sfida: «Ma davvero il governo non capisce che l'alternativa alla guerra è la pace?». Poi ne arriva uno che sventola un fazzoletto bianco: «Lo ho portato per segnalare da che parte voglio stare. Portatelo anche voi», dice, con sprezzo del ridicolo. Chiude Pagliarulo dell'Anpi che se la prende con la Ue che «finanzia le armi invece di mediare», suggerisce agli ucraini di «provare la pace che è meglio della guerra», difende la Russia che «non si è mai allargata, mentre la Nato sì» e - mentre i partigiani si rigirano nella tomba - lancia il suo appello: «Deponiamo le armi, apriamo una grande discussione nel paese, pensiamo positivo». E bella ciao, ciao, ciao.

La Cgil non sventola bandiera dell'Ucraina, Pietro Senaldi: in piazza "per la pace", ma non condanna gli invasori. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 05 marzo 2022.

Il comunismo è una brutta bestia, una malattia incurabile che, una volta contratta, lascia i suoi segni per sempre e ti rende immune da ogni ragionevolezza. Lo sta dimostrando in questi giorni l'ex capo del Kgb, Vladimir Putin. Lo testimoniano anche i compagni di casa nostra, dall'ex parlamentare Paolo Ferrero, che gira i salotti televisivi spiegando che il presidente russo è un criminale ma che Bush è come lui e le colpe del conflitto ucraino sono della Nato, ai sindacalisti rossi della Cgil e della Uil, che sfilano in piazza senza la bandiera di Kiev, come se essere invasi fosse una colpa. C'è del surreale nelle manifestazioni per la pace di oggi. Un esercito di cretinetti sfoggianti vessilli arcobaleno che un minuto prima sostenevano che Putin fosse il novello Hitler e il minuto dopo condannavano l'invio delle armi da parte dell'Occidente ai partigiani ucraini, sostenendo che l'unica via sia la trattativa. Come se con un dittatore si potesse venire a patti senza mostrare i muscoli ma così, per galateo, perché lo suggeriscono la sensibilità del momento e i trattati internazionali. Peccato che Putin non voglia trattare con gli ucraini, e tantomeno con i pacifisti nostrani, e la sola via per poter ottenere qualcosa sia far capire all'autocrate russo che, se va avanti, rischia di fare male al suo popolo, di schiantare economicamente la Russia e forse di perdere anche il posto, allontanato in maniera poco simpatica e definitiva.

LE RAGIONI DELLA GUERRA

Se prima l'Ucraina non combatte e l'Occidente non mostra compattezza, l'unica soluzione possibile è una resa incondizionata all'invasore; il quale, la storia insegna, poi difficilmente si accontenterebbe, perché per chi vince facile il premio alla vittoria non è mai bastante. L'Occidente non è entrato in guerra per divertimento, e forse neppure per difendere la democrazia e la popolazione ucraina, visto che tollera almeno una ventina di altre guerre sanguinose e liberticide in giro per il mondo. Semplicemente, non possiamo permetterci che un Paese importante come la Russia faccia quel che crede nel cuore dell'Europa, a discapito di una nazione con oltre quaranta milioni di abitanti e grande due volte l'Italia. Quanto ai pacifisti, riflettano. Questa guerra, dove non inviamo soldati e continuiamo imperterriti a pagare il nemico per non abbassare i caloriferi neppure di 4-5 gradi malgrado la primavera alle porte e il termometro ampiamente sopra la media stagionale, è già abbastanza insolita. Se si protrarrà ancora a lungo, come ormai sembra sempre più evidente, non sarà per i mitragliatori che mandiamo in Ucraina, dove già c'è un kalashnikov in ogni famiglia, ma perché finanziamo l'invasore con oltre 140 carri armati al giorno pur di starcene con il sedere al caldo.

LE IDIOZIE DEI PACIFISTI

I piazzaioli di ieri sostengono che la guerra si sarebbe potuta evitare se gli Usa non avessero avuto un atteggiamento espansionistico, ventilando lo sbarco della Nato nei territori dell'ex Urss. Certo, più di una fesseria le amministrazioni americane in questi anni l'hanno fatta, soprattutto quelle che i pacifisti hanno benedetto maggiormente, insignendole perfino del premio Nobel. Però pensare che un leader che sta bombardando quello che dichiara sentire come il suo popolo, avvelena i rivali politici e minaccia una guerra atomica si sarebbe rivelato un campione di democrazia se solo lo avessimo trattato con i guanti è una idiozia che non era immaginabile ipotizzare neppure da dei pacifisti di sinistra. Se Putin ha una speranza di vittoria, è tutta nell'ottusità ipocrita, buonista, ignorante e vigliacca di chi è in piazza oggi senza la bandiera ucraina. 

Ucraina, quelli che non scelgono: «Né con Putin, né con la Nato». Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 4 Marzo 2022.  

Da Landini a Donatella Di Cesare e Rifondazione, chi ripete: «Non si risponde alla guerra con la guerra». Le posizioni neutraliste mettono sullo stesso piano aggredito e aggressore. Il corteo dei pacifisti con la Cgil. 

In ogni talk show ce n’è uno. Quello che dice: più gli ucraini combattono e più dura la guerra. Siccome alla fine vincerà comunque Putin, prima Putin vince e prima ci sarà la pace. Elementare, Watson. Dunque, per il bene degli ucraini, non aiutiamoli a resistere, né con le sanzioni né con l’invio di armi. Questa inversione dell’onere della pace, per cui dovremmo essere noi, Occidente, a «cessare» una guerra avviata da Putin, evitando di farlo arrabbiare e fingendo di non sentire — ovviamente per il loro bene — gli ucraini che ci chiedono aiuto, può avere effetti paradossali.

Libertà e guerra

L’altra sera, per esempio, una valente filosofa, Donatella Di Cesare, cercava di convincere in tv una esterrefatta profuga ucraina, con i familiari sotto le bombe, che «non si conquista la libertà attraverso la guerra» e che «la pace è anche pensare di poter avere torto». Ma gli ucraini la libertà ce l’avevano già, e pure la pace. E tornerebbero volentieri al 23 febbraio, a prima dell’invasione. La guerra non l’hanno cominciata loro. E anche se, adesso che sono stati invasi, combattono per la libertà, negargli questo diritto ci costringerebbe a riscrivere tutti i libri di storia delle nostre scuole, e condannare Mazzini e Garibaldi e le tre guerre di indipendenza, e pure il poeta Byron che andò a battersi e morire per la libertà della Grecia, e strappare centinaia di pagine sulla autodeterminazione dei popoli.

Un esempio dalla storia

La frase chiave di questo argomento dice: «La pace è più importante di tutto, anche della libertà». È più o meno ciò che pensava la folla plaudente che accompagnò nel 1938 Neville Chamberlain, premier britannico, alla partenza per la conferenza di Monaco; dove, per salvare la pace, cedette a Hitler la regione cecoslovacca dei Sudeti, che venne annessa al Reich (le minoranze linguistiche sono sempre state un potente afrodisiaco dei tiranni). Si sa come finì: con la guerra mondiale un anno dopo. Winston Churchill, che era un grande giornalista e farebbe un figurone nei talk show dei nostri giorni, spiegò icasticamente che cosa era successo ai governanti inglesi: «Potevano scegliere tra la guerra e il disonore. Hanno scelto il disonore, avranno la guerra». Perché non c’è pace basata sul sopruso.

Aggredito e aggressore

Ma quel che più preoccupa è che il tentativo di invertire l’onere della pace non si limita ai talk show. Se ne sente per esempio l’eco anche nel movimento che oggi scende in piazza a Roma con la Cgil. L’altra sera abbiamo ascoltato Maurizio Landini a Tg2Post sostenere, con la sua abituale foga, che «noi dobbiamo cessare questa guerra», ed «evitare la Terza guerra mondiale che dice Biden», e che perciò invece di mandare le armi, perché «non si risponde alla guerra con la guerra», «bisogna che scenda in campo l’Onu». Intendiamoci: ottima idea, e lodevoli intenti. Ma chi è che impedisce all’Onu di scendere in campo, se non la Russia che ha posto il veto in Consiglio di sicurezza sul cessate il fuoco? E giustamente, dal suo punto di vista, visto che è il Paese aggressore. Il difetto di queste posizioni «neutraliste», che hanno portato la Cisl a non aderire alla manifestazione, sta proprio nel mettere sullo stesso piano aggredito e aggressore.

Vecchi slogan

La riedizione di un vecchio e famigerato slogan degli anni di piombo, «né con lo Stato né con le Br», conclude il documento con cui Rifondazione comunista ha aderito al corteo di oggi: «Né con Putin né con la Nato». Vi si condanna sì, in due parole, «l’invasione russa dell’Ucraina». E però anche «l’espansionismo della Nato che ha deliberatamente prodotto un’escalation irresponsabile alimentando il nazionalismo ucraino e l’attacco contro le repubbliche del Donbass». Ora, si possono avere tante e legittime opinioni su che cosa sia successo in quella parte dell’Europa fino al 23 febbraio: ma non si può negare che oggi in Ucraina ci siano i carri armati e i missili russi, non la Nato. E se si è contro la guerra, è contro chi la fa che bisogna manifestare.

La resistenza ucraina

Questo fronte contesta spesso al governo e al Parlamento italiano, e all’Europa tutta, di non avere una strategia: a che serve — chiedono — aiutare la resistenza ucraina? Si possono dare due risposte. La prima: a impedire o ritardare la vittoria dell’aggressore, o a mutilarla nel caso che la ottenga sul campo con migliaia di vittime innocenti, facendogli pagare un tale prezzo politico, economico e morale, da chiedersi se ne sia valsa la pena. La seconda: per evitare che lo rifaccia, lui o il suo successore. Perché dopo la Georgia siamo stati zitti, dopo la Crimea quasi zitti, e se tacciamo anche ora, dopo l’Ucraina — statene certi, cari pacifisti — la guerra toccherà anche alla Moldavia, e di nuovo alla Georgia, e magari anche ai Paesi Baltici.

Aiutiamo dunque chi resiste perché è giusto. Ma anche perché amiamo la pace.

La polemica contro gli anti-guerra. Polito, il Corriere e il termine “panciafichismo” che piaceva tanto a Mussolini. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Marzo 2022. 

Dicono che si sia aperto un «fronte interno». Cioè ci sarebbe un fronte “italiano” della guerra di Ucraina. Su questo fronte, da una parte c’è il tricolore dall’altra i pacifisti. I pacifisti stanno con Putin. Sono, cioè, traditori? Si, la parola giusta è quella: disfattisti e traditori. Per fortuna, se non mi sbaglio, la pena di morte è stata cancellata anche dai codici militari, qualche anno fa. Non li fucileranno. Non ci fucileranno. Guardate che un po’ sto scherzando, ma mica tanto. Quel titolo – fronte interno – che è apparso sulla prima pagina del più importante giornale italiano e che presentava un articolo di uno dei più prestigiosi giornalisti italiani, non era molto ambiguo. Era netto. La parola «fronte», quando si discute di guerra, non lascia spazio a metafore: sul fronte da una parte ci sono gli amici, dall’altra i nemici. Da sconfiggere, da annientare. Si parlava di fronte interno ai tempi della grande guerra. Allora fu inventata la parola “panciafichisti”.

Si diceva “panciafichisti”, invece che pacifisti, per indicare la debosciaggine di questi figuri alleati col nemico. Vili e infidi. Era una parola che piaceva molto a Mussolini. Il giornale al quale mi riferisco è nientemeno che il Corriere. E il giornalista è Antonio Polito. Che è anche mio amico da anni innumerevoli, e che io stimo molto, e che è sempre stato un tipo tagliente ma misurato. Per questo ho fatto un salto sulla sedia. Potevo aspettarmi un tono di questo genere dal ventre profondo del populismo italiano, non da parte dell’espressione più seria e colta della borghesia. Se una forma di linciaggio, sebbene lieve e poco dolorosa, viene da quei settori, i più avanzati, della vita pubblica, non si può stare allegri.

Su questo giornale abbiamo recentemente – con un molto suggestivo articolo del magistrato Alberto Cisterna – accennato al dovere della resa da parte degli ucraini. E dunque dell’apertura di una seria trattativa. Nella convinzione che una resa condizionata, e una trattativa nella quale gli ucraini non siano lasciati soli ma appoggiati dalle grandi potenze (Europa, Usa e anche Cina) sia la soluzione migliore e la meno sanguinosa. Su questo giornale scrivono personalità con le idee più diverse. Un po’ su tutto, ma specialmente sulla guerra. Noi siamo convinti che esista una base comune di giudizio, che è molto semplice: ci troviamo di fronte a una guerra di aggressione, che viola le convenzioni internazionali e il buonsenso, questa guerra deve essere fermata al più presto e con il numero più basso possibile di vittime. Poi ci si divide sul come. Esiste un schieramento pacifista – seppure decisamente minoritario, e anche diviso al suo interno – che ritiene o per ragioni di realpolitik o per una idealità non negoziabile, che la scelta non violenta sia la più forte e l’unica possibile, perché l’unica alternativa alla nonviolenza è la guerra. Ma la guerra vera, la guerra mondiale. Poi c’è un altro schieramento, molto più vasto, che al contrario pensa che il problema essenziale sia dare sostegno e forza all’esercito ucraino per resistere il più possibile ai russi, e per infliggere ai russi perdite ingenti.

L’Esercito italiano si prepara al combattimento: limitare congedi e addestramento specifico, la circolare che fa discutere

Io sono convinto che queste due posizioni siano entrambe legittime. Molti nostri collaboratori e una parte della redazione – io stesso – sono sulla prima posizione. Altrettanti sulla seconda. Quel che mi pare pericolosissimo è la ricerca della criminalizzazione di chi dissente. L’uso di un linguaggio d’altri tempi, l’insolenza. Tutto qui. Non mi scandalizza neppure la militarizzazione di alcuni grandi giornali, dove ormai nessuna voce di dissenso è ammessa. Succede. Era così anche tanti anni fa, al tempo delle Brigate rosse e della lotta armata in Italia. L’unica eccezione, in questi giorni, è stato l’articolo di Donatella Di Cesare sulla Stampa. Un articolo molto bello, che la Stampa giustamente ha pubblicato. Anche se – lo scrivo sorridendo – con un titolo un po’ particolare: “Pace, Putin e Occidente: il mio diverso parere”. Un titolo che serve, direi, a delegittimare l’articolo. Non si fa cenno al merito delle argomentazioni della Di Cesare, solo al fatto che il suo non è un parere. E’ un “diverso” parere.

Nel 1956 un giovane intellettuale comunista, Fabrizio Onofri, redattore di Rinascita, portò al direttore un articolo nel quale condannava l’invasione russa dell’Ungheria. Il direttore portò l’articolo a Togliatti, e chiese indicazioni. Togliatti fece una smorfia gli disse di pubblicare l’articolo. Poi gli dettò il titolo. Il titolo era questo: “Un inammissibile attacco alla linea del Pci…”. Uscì così in edicola. Fantastico. Ma quello era Togliatti, Giannini, era Togliatti!

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Free riders. Il pacifismo filo-russo sull’Ucraina e il nazionalismo anti-europeo. Olivier Dupuis, Carmelo Palma su L'Inkiesta il 19 Febbraio 2022

Oggi la crisi diplomatica con Mosca viene interpretata come una possibile guerra americana e non come la volontà di un Paese di ricongiungersi al mondo della libertà e dello stato di diritto. Questa mentalità è la vera debolezza euro-atlantica nella sfida con il Cremlino.

A dire nel 1939 che non si poteva «morire per Danzica» fu un pacifista e socialista francese, Marcel Déat, che finì la sua carriera da collaborazionista dei nazisti e ministro del governo di Vichy. La sua vicenda dimostra in modo quasi emblematico la relazione intrinseca tra pacifismo e nazionalismo, che corre come un filo rosso lungo tutto il corso della storia europea del ‘900.

L’unilateralismo nazionalista ha due facce apparentemente opposte, ma sostanzialmente fungibili, quella pacifista e quella militarista, collegate allo stesso principio di sovranità, che ricorre in termini diversi sia nella retorica anti-interventista – come non ingerenza – sia in quella imperialistica, come autodeterminazione e difesa dell’interesse nazionale.

Neppure la creazione dell’Unione europea, che ha ancorato la ricostruzione economica e civile del continente a una dimensione e a istituzioni sovranazionali, è riuscita davvero a dissolvere l’equivoco della necessaria equivalenza tra ordine politico e stato nazionale. Equivalenza che ritorna prepotentemente proprio sulle materie storicamente escluse dalla sovranità condivisa dell’Unione.

Difesa e sicurezza, in particolare, non sono diventate competenze europee, ma hanno anche cessato di essere effettive responsabilità nazionali, perché a provvedere a proteggere gli Stati membri, la loro libertà politica e la loro integrità territoriale è stata la Nato, ovvero gli Stati Uniti. Nel contempo, se non la responsabilità, almeno la competenza formale su questi temi è rimasta in capo a stati nazionali, che non erano in grado di esercitarla autonomamente e che, nella stragrande maggioranza dei casi, erano anche refrattari a condividere il costo economico e politico dell’impegno americano.

Anche dopo la fine della Guerra Fredda è continuato il free riding europeo e la riluttanza con cui gli Stati dell’Unione europea sembrano seguire Stati Uniti e Nato nella sfida con la Russia sull’Ucraina è la conseguenza di questo stato di volontaria minorità strategica, coltivata come una forma di prosecuzione onirica della stagione di Yalta.

Così il paradosso adesso è che alla Nato e agli Stati Uniti allo stesso tempo si imputa un espansionismo nel vicinato europeo, che mette a repentaglio la sicurezza degli Stati dell’Unione, e si rimprovera un riposizionamento sull’asse del Pacifico (il cosiddetto pivot to Asia), che scopre il fianco all’Europa proprio sul lato più minaccioso, quello est europeo.

Rimane però il fatto che la classe politica e l’opinione pubblica degli Stati membri ha totalmente disimparato a considerare quella della difesa come una responsabilità politica e ora usa gli interessi nazionali e le urgenze domestiche come un modo per sottrarsene.

Così dopo mezzo secolo di free riding della guerra, passati a incassare i vantaggi della sfida militare tra Stati Uniti e Unione sovietica, da decenni l’Europa tenta di lucrare i vantaggi di un free riding della pace, disimpegnandosi, salvo eccezioni, dalle cosiddette guerre americane e provando a usare questo disimpegno come polizza di sicurezza rispetto ai nemici più minacciosi.

L’impressione è che oggi anche la questione Ucraina venga incredibilmente interpretata come una guerra americana e non come la volontà di un Paese, massacrato prima, durante e dopo il comunismo da Mosca, di ricongiungersi all’Europa della libertà e dello stato di diritto e di godere della stessa protezione degli Stati dell’Unione, cioè quella della Nato. La verità, tragica e umiliante, è che ci sono più europeisti a Kiev che in molte capitali europee e certamente a Roma. Non manca chi prova razionalmente e realisticamente a spiegare che l’integrazione euro-atlantica dell’Ucraina è anche in difesa degli interessi degli attuali Paesi dell’Unione europea.

Ma la realtà è che, ad esempio in Italia, non c’è un solo partito, anche lasciando tra parentesi la questione Nato, favorevole all’inizio immediato dei negoziati per l’adesione dell’Ucraina all’Unione. E neppure in Francia e in Germania. Per le esigenze della “pace” sono tutti più o meno persuasi che l’Ucraina debba rimanere sospesa a tempo indeterminato tra speranze europee e minacce russe.

Non solo la disponibilità a morire per Kiev, che nessuno in Europa ha mai considerato neppure astrattamente un’opzione, ma anche quella a incrinare il business as usual con Mosca sono per lo più considerate contrarie all’interesse nazionale da parte di chi continua a venerare nello stato nazione il simulacro di una sovranità di cartapesta. Il pacifismo filo-russo sull’Ucraina è infatti l’immancabile e comune bandiera di tutti i nazionalisti anti-europei, di destra e di sinistra, che pensano di difendere la propria libertà con il servaggio altrui.

Come appunto Déat nel 1939. E come Déat a Vichy anche questi “pacifisti” non si farebbero troppi scrupoli a diventare scherani di Putin per salvare l’onore della patria, se la ricerca di spazio vitale del Cremlino provasse a puntare più a ovest e davvero la Nato e gli Stati Uniti togliessero il disturbo, lasciando gli stati europei in “pace” con la Russia.

Domenico Quirico per "La Stampa" il 17 febbraio 2022.

Ma dove sono finiti i pacifisti, i fustigatori, sacrosanti, delle fandonie di politici e stati maggiori (e non si può dire che nel caso Ucraina siano mancate, anzi), le grida e i furori e le elevazioni giustamente evangeliche di quelli che proclamavano all'infinito che la pace è bene e la guerra è male, così il problema è risolto ancor prima di porlo? 

Che il puro impiego della forza non dà né vincitori né vinti. Spariti, liquefatti, scomparsi, impalpabili questi Ingenui, meravigliosi e indispensabili. Eppure nel congelato scacchiere del Donbass si affrontano e minacciano non i soliti trabiccoli meccanici e tecnologici delle piccole guerre, che pure bastano a ben pianificate apocalissi.

Sono in campo, abbaianti, i due maggiori detentori della Bomba e dei missili che la trasportano, i due fuoriclasse dell'arte di annientare, Stati Uniti e Russia. Insomma: una svista, un provocatore di malevolo ingegno, una smemoratezza per vedere nel centro dell'Europa i mille soli della ultima alba nucleare e palpare l'Assoluto.

Fantascienza? D'accordo: ma non sottovalutiamo che per un'ecatombe bastano anche mezzi più banali. Il machete recentemente ha dimostrato di essere sufficiente per battere tutti i record di genocidio. Insomma tra il migliore dei mondi possibili, il nostro, e il cimitero corre solo lo spazio che divide una terra innevata e congelata.

Eppure: niente, silenzio, strade vuote, slogan e marce virtuose neppure abbozzate in qualche vicolo. Una possibile Hiroshima due evidentemente non interessa, la controprova che nel 2021 la coesistenza pacifica è a pezzettini non basta a smuovere, se non le coscienze, almeno la paura. 

Li ricordate i cortei infervorati e oceanici contro la guerra che è sempre e comunque un errore? Gli studenti che marciavano per la pace con gli slogan ritmati le canzoni gli striscioni immaginifici e irriverenti contro i politicanti ottusi e irresponsabili? Qualche corteo di giovani in questi giorni si è dipanato, per un attimo ci siamo illusi. Ma erano contro la seconda materia scritta agli esami di maturità.

Ucraina? Noi non abbiamo visto niente noi non c'entriamo per niente. E le veglie di preghiera per la pace, le sere delle parrocchie di paese e delle cattedrali illuminate dalle candele, San Francesco La Pira la pacem in terris eccetera eccetera? Qualche parola del Papa, una iniziativa di Sant'Egidio: bene ma pochino, una volta si sarebbe detto il minimo sindacale. 

Ci vuol ben altro per chi ha proclamato santamente che la guerra è fuori dalla morale. E gli intellettuali, gli scrittori, i poeti? I manifesti contro la guerra con le firme talmente fitte che diventavano lenzuolo terapeutico: per la ragione, il diritto contro la follia dei litigiosi, degli attaccabrighe intossicati da vecchi veleni nazionalismi imperialismo? Neanche una firma, eppure c'era tempo, i giochi di guerra durano da settimane.

Non uno di costoro che ponesse domande socratiche e inaggirabili: tu che cosa hai da difendere? E tu cosa pretendi? Cosa c'è di non negoziabile che vale più di una vita? Compito esaltante degli intellettuali non è forse estrarre da ogni cosa il suo valore? E che cosa lo impone più del rischio di una guerra? Gli artisti, poi che delusione! Attori, registi, il pop e il rock in servizio permanente effettivo per tutte le Buone Cause, carestie, violazioni di diritti delle minoranze, le differenze calpestate, i bambini soldato, le donne afghane, il pianeta ucciso e derelitto da avidità e riscaldamenti? Non si è visto nessuno. Una canzone un remake anni Sessanta...

Nemmeno a Sanremo, assurto a ricapitolazione kantiana di tutto il Bene della terra, uno spazietto per deprecare la possibile guerra ucraina. Un influencer pacifista: ecco, confessiamolo, ci abbiamo sperato. Con i milioni di contatti avrebbe allestito, in un attimo, un movimento per la distensione che nemmeno partiti sindacati perfino Martin Luther King e Madre Teresa di Calcutta... Distratti, fuori sede, assenti. 

Silenti anche i politici italiani dal fiuto fine, quelli che sanno che una dichiarazione responsabile, invitare «quelli che decidono» ad abbassare i toni bellicosi, vale un titolo di giornale e fa curriculum. Uno, uno solo che gridasse: viva la pace. Semmai si registrano quelli che spaziando in voli geopolitici e spiegando questo e quello dell'ex impero sovietico come se amministrassero loro Karchov o Sebastopoli suggeriscono un mediocre paralogismo compensatorio: lasciateci in pace.

Non hanno nemmeno giocato, e questo sorprende ancor più, il nostro vecchio gioco italiano, quello della «politica interna mondiale» per cui ogni crisi planetaria diventa un pretesto per perdersi in conti da azzeccagarbugli nostrani. Tutti hanno tergiversato. Come se la guerra alla pandemia (audace metafora che ci ha imbottito i cervelli da due anni) impedisse di vedere altri guai e tragedie. E no! Scusate una guerra per volta ci basta, non possiamo accollarci anche il problema delle frontiere della Nato e dove vuole andare l'Ucraina.

Marce tafferugli guerriglia urbana da Parigi a Catanzaro ci sono stati ma non erano pacifisti esasperati, erano gli ottusi stregoni del no vax, gli unici ormai in Europa a saper montare un corteo. Mettono nostalgia i pacefondai degli euromissili e, per venire a tempi più recenti, della guerra irachena. 

Adesso si preferisce di fronte al pericolo chiudere gli occhi, tapparsi le orecchie, trattenere il respiro, far finta di niente: tutto finirà bene tanto sono solo animazioni per controllare le reazioni dell'avversario quelli giocano a risiko... e avanti con i racconti delle fate geopolitiche e le profezie degli analisti Nostradamus: Putin ha paura e cerca un modo di scamparla... Biden era già vecchio ai tempi di Breznev, sa che con i missili bisogna non farsi male perché non c'è rimedio.

Con un po' di malizia si potrebbe dire che hanno dichiarato forfait nel frattempo gli annunciatori di apocalissi, gli ayatollah della pace che scendevano in strada soprattutto se aggressioni e missili capaci di lanciare megatoni all'ingrosso si potevano metter sul conto del «grande satana americano», gli altri erano «difensivi» e «rivoluzionari». Si viveva insomma con una morale di rendita: «Usa go home». 

Dopo Bush, mettendo Trump tra parentesi, a Washington son tutti buoni. Con la fine della Guerra fredda anche la pace sembra diventata una causa scaduta come uno yogurt. E a quelli che un tempo contro-gridavano che l'orso sovietico voleva inghiottire il mondo, beh quelli trovano affascinante il sogghigno enigmatico di Putin.

"Solo oggi siete pacifisti e ipocriti e questa cosa è ancora peggiore". Lo sfogo del reporter italiano: “Nel Donbass l’Ucraina bombarda da 8 anni, dove eravate?” Redazione su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

“Questo è il centro di Donetsk che in questo momento viene bombardato e non dalla Russia, non da Putin ma dall’esercito ucraino“. E’ lo sfogo del reporter italiano Vittorio Rangeloni che dal 2015 vive nel Donbass. “In questi giorni sono tante le persone che scendono nelle piazza d’Italia e non solo nel mondo e invocano la pace, condannano la Russia, manifestano contro la guerra. Tutto questo è fantastico, è giusto, la guerra è qualcosa di sbagliato, di ingiusto ma è altrettanto sbagliata l’ipocrisia di chi se ne fotte del fatto che…”.

Originario di Lecco, Rangeloni attacca: “Non è una cosa che accade in questi giorni ma sono 8 anni che tutti i giorni sparano contro queste città e a voi non ve n’è fregato assolutamente niente, solo oggi siete pacifisti e ipocriti e questa cosa è ancora peggiore. Scusate lo sfogo…“. Raggiunto anche dall’Adnkronos, il reporter parla di “bagno di sangue” a Mariupol, nel sud dell’Ucraina, accerchiata oggi dalle truppe russe e dalle milizie popolari di Donetsk, nel Donbass. ”Ci saranno enormi perdite, scorrerà molto sangue da entrambi le parti” e a pagare ”saranno anche i civili”, perché ”le milizie popolari hanno creato due corridoi umanitari dando alla popolazione la possibilità di uscire da Mariupol e andare a Donetsk o nella Federazione russa, ma i soldati ucraini glielo stanno impedendo facendo da scudo con i loro corpi”.

Poi aggiunge: “Domani o dopodomani andrò a Mariupol, o almeno lì vicino, per capire quello che succede”. Per ora dice di ricevere ”messaggi dalla popolazione di Mariupol che dicono di stare attenti, che sono stati minati i ponti, le strade e che i militari ucraini hanno creato posizioni nel centro della città, nei parchi gioco e negli asili”. Secondo Rangeloni “da domani inizieranno le operazioni di bonifica della città”, ovvero ”si cercherà in modo molto difficile di avanzare o di far deporre le armi all’esercito ucraino, o di colpirlo dove si trova”. Ma sarà ”una battaglia molto difficile”. Anche perché a Mariupol ha la sua base il reggimento Azov, reparto militare ultranazionalista ucraino, e la 36esima brigata della Marina militare ucraina. ”Si sono trincerati in città e la città ora è assediata. Purtroppo ci sono tutte le premesse per una battaglia pesante”, afferma.

Non c’è pace fra pacifisti, si litiga sull’invio di armi. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 03 marzo 2022.

Non c’è pace fra i pacifisti italiani, ed evitare le battute facili non è semplice. La manifestazione di domani a Roma, quella nazionale indetta dalla Rete italiana pace e disarmo, partirà alle 13.30 da piazza della Repubblica e punterà a riempire la storica piazza San Giovanni.

Una parte degli organizzatori, anzi per la precisione una parte dei sindacati, teme che se le piazze in tutto il mondo si mobilitano contro Putin, quella di Roma finisca di fatto contro Mario Draghi e contro la sinistra di governo.

In serata la Cisl, fra le prime a lanciare la piazza, strappa. E accusa i compagni di marcia di non essere abbastanza anti Putin.

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Letta invia le armi ma prova a far pace con i pacifisti. DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 02 marzo 2022

Il leader Pd è stato il primo a chiedere gli aiuti militari per Kiev ma ora non vuole rompere con il popolo del disarmo «Agli ucraini serve la nostra unità. Nessuno strappo con i movimenti». La rete degli incontri con le associazioni. Si parte dall’Anpi.

Alla fine restano le divergenze sul ruolo della Nato, ma c’è «un impegno e un obiettivo comune» per la pace in Ucraina, «nella reciproca autonomia e nei diversi ruoli, opinioni diverse che seguitano a confrontarsi nel rispetto reciproco».

Sabato il corteo a Roma scandirà i grandi classici: «Per il cessate il fuoco, contro l’allargamento della Nato, per la sicurezza condivisa». E perché «dall’Europa e dell’Italia» arrivino «soluzioni politiche». E non militari.

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Manifestazioni pacifiste in tutta Italia. Guerra in Ucraina, diamo alla pace una possibilità. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Marzo 2022. 

John Lennon si stava godendo una lunga luna di miele con Yoko Ono. Erano due ragazzi. John non aveva ancora 30 anni. Era accusato di avere fatto un guaio sciogliendo i Beatles per amore. Un giornalista americano lo incrociò, una sera di settembre del 1969, e gli chiese a bruciapelo: “Ora cosa pensate di fare, o di dire, tu e Yoko?”. Lui sorrise e rispose lui a bruciapelo: “ All we are saying is give peace a chance”. L’unica cosa che abbiamo da dire è questa: diamo una possibilità alla pace”.

John poi ripensò a quella frase e ne fece una cantilena. Anzi una canzone bellissima. E famosissima. Che diventò l’inno dei pacifisti. Fece anche da colonna sonora a un film cult della mia generazione di baby boomers: “fragole e sangue”. Fu ripetuta milioni di volte da centinaia di artisti, e da milioni e milioni di manifestanti. Nei giorni scorsi è risuonata in decine di radio europee. Oggi l’abbiamo stampata sotto la testata del nostro giornale. Con una certa emozione, con una certa paura. Siamo convinti di questo: non c’è altra via. Bisogna che la protesta contro l’invasione russa dilaghi in tutti i paesi del mondo. Si sollevi dalle strade, dalle Chiese, dai partiti, dai giornali, dalle Tv, anche dalle discoteche. Ma deve essere un urlo pacifico, come quello di John Lennon, senza effetti collaterali. Quali sono gli effetti collaterali? Il fondamentalismo. La ricerca spasmodica del nemico. Del mostro. La fobia, la paura che si fa odio, odio odio.

In questi giorni il Cio ha deciso di cacciare dalla para olimpiadi gli atleti russi. Ecco, questo è un effetto collaterale. Di odio, di caccia allo straniero. Ha un sapore di legge razziale. Davvero qualcuno pensa che gli atleti russi disabili debbano essere puniti da noi occidentali puri e sani e atletici? È una infamia, cari amici: è una infamia.

Give peace a chance. Speriamo che le manifestazioni pacifiste che si svolgeranno oggi in Italia siano come le immaginava John lennon. E come le realizzavano Luther King, e Gandhi, e il nostro Capitini. Leviamoci dalla testa che la pace la si fa coi bazooka. I bazooka sanno fare una sola cosa: uccidere. Cerchiamo di non farci trascinare della follia putiniana. Non contrasteremo mai Putin diventando dei Putin un po’ più buoni.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La guerra in Ucraina. Il pacifismo non si negozia, sbagliato inviare armi italiane in Ucraina. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Marzo 2022. 

Tanti anni fa, quando i miei amici di gioventù Veltroni e D’Alema, che erano anche dirigenti del partito al quale ero iscritto, guidarono l’Italia alla guerra contro la Serbia e poi all’invasione militare, io ero contrario. Era la primavera dell’ultimo anno del secolo scorso. Andai a Belgrado per l’Unità e assistetti alla violenza militare, ai missili che distrussero un ospedale, alle bombe a grappolo, alla morte di alcuni bambini, ai missili sulla tv e sul palazzo della stampa. Poi si seppe che erano state usate anche bombe all’uranio impoverito. Quando tornai a Roma partecipai a molte manifestazioni pacifiste, che chiedevano la fine dell’azione militare.

L’attacco alla Serbia fu realizzato dalla Nato, che dunque, a occhio, non è solo una organizzazione militare difensiva, come sento dire in questi giorni. Per la prima volta dalla fine della guerra mondiale una grande capitale europea, Belgrado, fu bombardata a tappeto dagli aerei alleati. E poi invasa. Esattamente nello stesso modo, oggi, mi indigno per l’invasione di un paese libero e indipendente come l’Ucraina. Mi indigno per ragioni di principio, che sovrastano le questioni specifiche che sono alla base dello scontro. Io sono pacifista. Esattamente come sono garantista. E sono convinto che come il garantismo esiste solo se è integrale, cioè non conosce eccezioni, così il pacifismo esiste solo se è integrale. Non esiste un garantista che ammette la persecuzione dei suoi nemici politici. Nello stesso modo non può esistere un pacifista che fa eccezioni. Sono convinto, da molti anni, che non esista la guerra giusta. La guerra è solo l’impazzimento della politica, la sua crisi, la sua fine, la sua negazione. Non è affatto la prosecuzione della politica. La politica è l’esatto opposto della guerra.

È vero che la guerra è sempre tra due avversari, uno dei quali, in modo più o meno evidente, ha maggiori responsabilità nello scatenamento del conflitto. L’aggressione occidentale all’Iraq, 20 anni fa, fu una guerra nella quale la maggior responsabilità fu americana. E che si concluse con l’orrore del filmato dell’impiccagione di Saddam. Un atto incivile. Stavolta è del tutto chiaro che il responsabile numero uno della guerra è la Russia, che ha invaso l’Ucraina. Quasi tutte le responsabilità sono di Mosca. Il problema è quale possa essere la risposta. E come la politica possa sostituirsi alla guerra. Certamente la risposta giusta non è l’invio di armi. Di questo sono certo. Ogni arma che inviamo in Ucraina servirà esclusivamente a uccidere delle persone. È utile? Aiuterà la libertà degli ucraini? Sarà uno strumento per costruire un livello superiore di pace?

Pensate a tutte le guerre portare dall’Occidente nel mondo arabo e nell’Islam negli ultimi vent’anni. Hanno aiutato in qualche modo la pace o hanno acuito i conflitti e aumentato moltissimo il livello di insicurezza nei paesi occidentali? L’impresa di Afghanistan, durata 20 anni, ha lasciato agli afghani in dote un paese migliore? Sì, sì, la conosco l’obiezione: Hitler. Beh, vi dico un po’ bruscamente quel che penso: che dovremmo smetterla di continuare a paragonare a Hitler ogni nostro nemico. Hitler era unico. È stato un caso a sé nella storia. L’Olocausto non è paragonabile a nessun altro evento della civiltà umana. A nessun crimine contro l’umanità. Il nazismo non è ripetibile. Per invocare la guerra giusta non ci si può riferire all’Olocausto. Se dovete spiegarmi che una guerra è giusta bisogna che mi convinciate che uccidere la gente sia una nobile attività umana. il nazismo non c’entra niente.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La pavida neutralità della Cgil e la contraddizione dei pacifisti. Mario Lavia su L'Inkiesta il 5 marzo 2022.

Nei giorni della spietata guerra di Putin chiedere un blando cessate il fuoco e organizzare una generica manifestazione anti violenza è una offesa alla resistenza ucraina. Arrendersi a un dittatore significa consentirgli altre aggressioni.

La Cgil prende parte alla manifestazione per la pace di oggi a Roma indetta dalla Rete per il disarmo (Maurizio Landini la concluderà dal palco) mentre la Cisl non aderisce. Nella piattaforma della manifestazione si leggono tante cose: «Bisogna fermare la guerra in Ucraina. Bisogna fermare tutte le guerre del mondo. Condanniamo l’aggressione e la guerra scatenata dalla Russia in Ucraina. Vogliamo il “cessate il fuoco”, chiediamo il ritiro delle truppe. Ci vuole l’azione dell’ONU che con autorevolezza e legittimità conduca il negoziato tra le parti. Chiediamo una politica di disarmo e di neutralità attiva». 

Più generici di così è difficile essere. Certo, c’è la frasetta di condanna della Russia. Ma è del tutto assente l’appello ad appoggiare politicamente, idealmente e con ogni mezzo la resistenza ucraina, cioè manca l’indicazione sul da che parte stare, l’individuazione di chi ha ragione e chi ha torto: e non essendoci il qui e ora con una chiara contestualizzazione dell’iniziativa, la piattaforma diventa una mozione retorica, una melassa buona per tutte le stagioni. 

Per non dire che, in questa situazione, si potrebbe discutere a lungo del disarmo (non la pensa così la sinistra europea, a partire dal Cancelliere tedesco Olaf Scholz) e della neutralità attiva: ma quale neutralità, dinanzi al nuovo fascismo di Mosca? 

Si tratta della rimescolatura della retorica pacifista degli anni Ottanta che per carità fu un elemento di contrasto alle tendenze aggressive di Ronald Reagan intrecciate con quelle della fase finale dell’Urss ma che conteneva anch’essa un bel grumo di ambiguità. Oggi, fallito da decenni il Dio del comunismo, ogni reticenza è fuori dal mondo. 

La notizia è che la Cisl non è scivolata in questa melassa. Lo ha scritto chiaramente Luigi Sbarra, di cui riportiamo solo una frase: «Non possiamo certo riconoscerci in parole d’ordine come neutralità attiva. Una solidarietà vera, tangibile, richiede piuttosto l’attivazione delle articolazioni sociali per aiutare concretamente donne, uomini, bambini che in questo momento hanno bisogno di un supporto urgente e tangibile». 

In una giusta manifestazione per la pace bisognerebbe che ci fosse scritto chiaramente che fanno bene i paesi europei, uniti come non mai, a fornire ogni forma di assistenza all’Ucraina, inclusa quella militare e che Putin va ostacolato e indebolito in tutti i modi, il più possibile. Questo serve, alla pace. Altro che neutralità. Da tutto questo si evince che il pacifismo è davanti a un dilemma di non poco conto. 

Ieri a Roma duemila studenti hanno manifestato per la pace con le bandiere arcobaleno e con dei fazzoletti bianchi. Inconsapevolmente questi ragazzi hanno esposto in modo plastico il problema di fondo del pacifismo nei giorni della guerra di Vladimir Putin: il rischio concretissimo che i colori della bandiera arcobaleno si stingano nella bandiera bianca della resa. 

La resa non è pace. È una pausa tra una guerra e un’altra. Così il pacifismo incappa in una contraddizione persino filosofica: se mi arrendo, non sto facendo la pace, sto creando le promesse per una nuova guerra (oltre a mandare al macello gli sconfitti). 

Naturalmente ci sono i pacifisti veri e quelli finti come quelli che imperversano nei mille talk show – dove si sta ripetendo la spettacolarizzazione di una nuova tragedia dopo quella della pandemia tra sì vax e no vax adesso sostituiti tra anti-Putin e filo-Putin – pacifisti a chiacchiere che dopo alcuni giorni di silenzio ora sostengono la brillante exit strategy della resa del popolo ucraino dato che Putin ha già vinto e quindi si possono risparmiare molte vite umane. 

Ragionamento che ha una sua presa, come tutte le asserzioni demagogiche, ma che si fonda sulla vigliaccheria di far finta di non sapere che sempre nella Storia arrendersi a un dittatore – lasciandogli quello che vuole, ieri i Sudeti oggi l’Ucraina – significa dargli altra mano libera, consentendo altre aggressioni, facendo altre vittime. 

Quelli che come il professor Alessandro Orsini e la professoressa Donatella Di Cesare (che  a sprezzo del ridicolo già rimproverò a Draghi di fare una guerra senza essere stato eletto) invitano gli ucraini ad arrendersi e a capire le ragioni di Mosca in realtà stanno accettando la legge del più forte che consente al primo malato di mente di cambiare a suo piacimento le carte geopolitiche. 

Costoro si nascondono, come detto, in un presunto pacifismo chiacchierone che non distingue (o se lo fa, lo fa en passant) tra aggressore e aggredito, non prende parte, non si schiera, imbelli come Édouard Daladier e Neville Chamberlain che nel settembre del 1938 firmarono l’accordo di Monaco con Adolf Hitler e Benito Mussolini. 

Tutti siamo per la pace, manco a dirlo. Il punto è definirla: è pace un’occupazione militare come quella che il Cremlino immagina per l’Ucraina? È pace assistere a una carneficina senza muovere un dito? Evidentemente no. 

E dunque chiedere la pace significa prendere nettamente posizione, senza indugi e ambiguità: servono manifestazioni contro Putin e per l’Ucraina. Peccato che un grande sindacato coma la Cgil non lo capisca e che questa volta non combatta.

Ucraina, la vergogna dei pacifisti rossi: come sfilano in piazza a Milano contro la guerra, è l'effetto Anpi. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 27 febbraio 2022.

C’è una destra che sino a qualche tempofaapprezzava Vladimir Putin e c’è una sinistra che attribuisce la colpadi ognimale delmondo agli Stati Uniti e alle democrazie occidentali, colpevoli di non essersi convertite al comunismo. E se la prima ha cambiato idea, la seconda non cambia mai. Non è la sinistra estrema dei centri sociali e degli antagonisti: non solo quella, almeno. È la sinistra che si proclama erede dei partigiani rossi, politicamente apprezzata e integrata nelle istituzioni, tanto da essere mantenuta col denaro del contribuente. L'ultima è di questi giorni: un appello firmato dalla segreteria nazionale dell'Anpi, oggi presieduta da Gianfranco Pagliarulo (tra poco vedremo chi è), nel quale si legge che il vero colpevole della guerra non è l'invasore russo, ma l'imperialista americano. La conferma che certi riflessi pavloviani non finiscono, resistono alla realtà dei fatti e al tempo che passa. Da quel documento datato 22 febbraio, meritoriamente portato alla pubblica attenzione dal giornalista Luciano Capone, si apprende che il riconoscimento dell'indipendenza del Donbass da parte della Russia, ossia l'evento che ha segnato l'inizio della guerra, è solo l'ultimo di una sequenza di atti «innescata dal continuo allargamento della Nato ad est, vissuto legittimamente da Mosca come una crescente minaccia». La passeggiata nel delirio prosegue spiegando che la causa dell'instabilità nell'area è la «politica di potenza» della Nato, e chiedendo a Joe Biden (il quale, se ha una colpa, è quella di essere inesistente), di far «cessare immediatamente sia le clamorose ingerenze nella vita interna dell'Ucraina, iniziate quando nel governo ucraino entrò la statunitense Natalia Jaresco, sia le sue dichiarazioni belliciste e le sue ininterrotte minacce nei confronti della Russia».

LA DENUNCIA DI RENZI

Uno solo, a sinistra, trova la cosa indecente e ha il coraggio di dirlo: Matteo Renzi. «Le dichiarazioni dell'Anpi sul conflitto ucraino sono vergognose», denuncia il senatore toscano. «I partigiani di settant' anni fa avrebbero saputo da che parte stare, attaccare il filoimperialismo americano significa essere indietro con l'orologio della storia». Per tutti gli altri, va benissimo così. Molti, incluso il vicesegretario del Pd Peppe Provenzano, hanno partecipato alle manifestazioni organizzate ieri dalla stessa Anpi, dalla Cgil, dalle organizzazioni pacifiste e dai collettivi di sinistra. In piazza sotto le bandiere rosse con falce e martello per gridare «Né con Putin né con la Nato», come hanno fatto il segretario di Rifondazione Comunista, Maurizio Acerbo, e migliaia di compagni. Bene attenti a mettere l'aggressore dell'Ucraina sullo stesso piano dell'alleanza cui appartiene l'Italia. Ma questa è l'Anpi. Pagliarulo fu senatore del Partito dei comunisti italiani, affiliato all'Ulivo di Romano Prodi, dal 2001 al 2006, anni nei quali si distinse soprattutto per le invettive utili a finire sui giornali. Di Oriana Fallaci disse che era «una povera donna fondamentalista, alimentata dall'odio, dalla volontà di sopraffare il nemico. Le contumelie rivolte a tutti ne immiseriscono definitivamente la figura». Mica come lui, che definì George W. Bush, in visita a Roma, il «capo di una gerarchia criminale». Chiamato in causa da Renzi, Pagliarulo ha risposto assicurando che l'Anpi condanna l'invasione da parte della Russia. «Ma saremmo sciocchi», ha subito aggiunto, «se non vedessimo il contesto in cui tutto questo è avvenuto, quello che è successo negli ultimi decenni. Oggi Estonia e Lettonia hanno le basi Nato ai confini della Russia, sarebbe strano immaginare che Mosca non avrebbe reagito». 

UN BONIFICO DA 350MILA EURO

In cambio di queste e delle altre attività svolte, che includono la propaganda al negazionismo delle foibe, l'Anpi riceve ogni anno un bonifico dallo Stato. Nel 2021 è ammontato a 350mila euro: 240.961 derivanti dalle scelte dei contribuenti sul "5 per mille", ai quali vanno aggiunti i 99mila euro versati dal ministero della Difesa, che la premia in quanto «associazione combattentistica». Il criterio di spartizione di quest' ultimo contributo, basato sui «progetti di attività assistenziali, promozionali e divulgative» presentati e sul numero degli iscritti, ne fa la sigla più remunerata. Per capirsi: all'Associazione nazionale alpini, lo scorso anno, sono andati 58.396 euro; a quella dei carabinieri, appena 4.246. Sventolare la bandiera rossa in piazza, difendere gli aggressori e insultare gli alleati dell'Italia rende più che servire lo Stato. 

Armi italiane in Ucraina: è giusto o no? Come Gramsci odio gli indifferenti…Valter Vecellio su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

Da nonviolento radicale che marciava da Trieste ad Aviano negli anni in cui al nostro fianco ci si trovava solo il vecchio Vittorio Vidali (pensa un po’!) e Loris Fortuna. Come “medaglietta” posso esibire l’essere stato obiettore di coscienza integrale (rifiutato anche il servizio civile), nei tempi in cui questo comportava la galera. Con tutto ciò ho sempre nutrito una qualche diffidenza nei confronti di Gandhi. Non riesco a dimenticare che la sua nonviolenza è giunta a livelli che non trovo accettabili. Il 26 novembre del 1938 su “Harijian” giunge a scrivere: «…Gli ebrei possono stabilirsi in Palestina solo con il consenso degli arabi. Devono tentare di convertire il cuore degli arabi: è governato dallo stesso Dio che governa il cuore degli ebrei. Gli ebrei devono ricorrere al satyagraha nei confronti degli arabi e lasciare che questi li uccidano o li gettino nel Mar Morto senza alzare un sol dito contro di loro. Troveranno l’opinione pubblica mondiale solidale con la loro aspirazione religiosa…».

Fatte salve le legittime opinioni e divergenze sulle modalità di insediamento in Palestina, l’invito a lasciarsi uccidere, gettare nel Mar Morto «senza alzare un sol dito», confidando nella solidarietà del mondo, proprio no. Un mite come Romano Prodi l’altro giorno ci ammoniva: «Chi pecora si fa, il lupo se la mangia». Diciamo che la mia nonviolenza non è mistica, ma pragmatica: alla Henry David Thoreau; o alla Bertrand Russell, per riferirci a personalità a noi più vicine. Sgomberato il campo da questo, vengo ai tuoi “argomenti”. Proprio il Riformista ha ascoltato lo storico Marcello Flores: «I giustificazionisti battono sul fatto che la Nato, l’Occidente o Biden individualmente, avrebbero le loro colpe, più o meno grosse, per qualcuno addirittura quelle prevalenti nel computo delle responsabilità di ciò che sta avvenendo. Queste considerazioni sono le stesse addotte da Putin per autogiustificare la sua aggressione militare. Chi continua a riportarle, di fatto, si comporta, al di là delle motivazioni individuali che l’ispirano, come un agente di Putin all’interno dell’opinione pubblica europea. Io questo lo voglio dire con estrema chiarezza».

Credo che il professor Flores individui con lucidità l’essenza della questione, e il vero timore, la paura di cui è preda Putin: «La minaccia è la democrazia che si stava costruendo, sia pur lentamente e in modo contraddittorio, in Ucraina. È la paura del diffondersi della democrazia, della possibilità che un regime democratico e in futuro sempre più strutturato in Ucraina, potesse collegarsi con le spinte democratiche che sono presenti, anche se minoritarie, in Russia». La democrazia non si esporta; ma si può e si deve nutrirla e sostenerla, aiutando i democratici nelle loro lotte per l’affermazione della libertà, del diritto, della conoscenza: gli eroi che resistono a Kiev e in Ucraina; e gli eroi che in Russia sfidano repressioni, arresti, violenze: eredi, senza neppure forse saperlo di Solženicyn, e Salamov, di Jurij Daniel e Andrej Sinyansky, di Andrej Sacharov e sua moglie Elena Bonner, in favore dei quali pochi, a suo tempo si mobilitarono… Cerco di rifuggire dai luoghi comuni. A suo tempo mai pensato, neppure per un istante, “meglio rossi che morti”: non foss’altro perché l’affermazione sottende che peggio della morte ci sia solo l’essere “rossi”.

Ben vero che la storia, insegna molto poco; e come diceva un filosofo barbone (e barboso) che qualcuna l’ha imbroccata, «si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa» (in questo caso però c’è poco di che ridere). Era il 1982. La giunta militare del generale argentino Leopoldo Galtieri instaura una sanguinosa dittatura, dopo aver spodestato i non meno feroci Jorge Rafael Videla e Roberto Eduardo Viola; anche per “distrarre” dalla paurosa crisi economica in cui il paese è precipitano, Galtieri dà il via all’”Operación Rosario”: l’invasione delle vicine isole britanniche Falkland, che considera territorio argentino e chiama Malvinas. Galtieri non fa i conti con l’allora primo ministro britannico Margaret Thatcher: che non esita un istante a inviare i soldati, e riconquista le isole. La sconfitta militare dell’Argentina segna anche l’inizio della fine della dittatura.

Alla fermezza di Margaret Thatcher si può attribuire buona parte del merito della caduta del regime, e l’affermarsi di una pur zoppicante democrazia in quel Paese (non è vero, insomma, che non ci sia conflitto armato che non si traduca in un qualcosa di “positivo”, nonostante la indubbia sua tragicità). Certo: diversi, oggi, i contesti, le situazioni, i personaggi. Tuttavia, chissà che da una tragedia che ancora non si è completamente consumata (e che può avere esiti più gravi di quelli immaginabili), alla fine non venga qualcosa di “positivo”: per l’Ucraina, la Russia, e il mondo intero. Questo non significa invocare e auspicare la guerra. Si dice che i dittatori a volte sbagliano i loro calcoli: si auto-ingannano; le politiche alla Chamberlain e alla Daladier, sono come quegli struzzi che nel pericolo nascondono la testa sotto la sabbia, illudendosi che altre parti “delicate” siano al riparo. Se usata con flessibilità e intelligenza, la “fermezza” può pagare.

C’è chi non vuole arruolarsi. In situazioni come queste, chi non si schiera, chi non si fa partigiano è complice. E’ un po’ paradossale che sia un radicale-liberale a ricordare (non a te, ma ai tanti “ma” e “se”) quello che Antonio Gramsci scriveva su “La Città Futura” l’11 febbraio del 1917: «Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita…Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo? Odio gli indifferenti anche per questo: perché mi dà fastidio il loro piagnisteo da eterni innocenti. Chiedo conto a ognuno di loro del come ha svolto il compito che la vita gli ha posto e gli pone quotidianamente, di ciò che ha fatto e specialmente di ciò che non ha fatto…Vivo, sono partigiano. Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti». Per tornare a Putin: è colpevole, non da ora, di crimini contro l’umanità. Invito tutti a firmare l’appello del Partito Radicale perché i responsabili di questa aggressione siano chiamati a risponderne davanti alle giurisdizioni deputate. È un criminale colpevole delle stesse colpe di un Milosevic, di un Mladic, di un Karadzic. Il Riformista ci dà una mano? Valter Vecellio

Il vizio del pacifismo che rallenta la pace. Gabriele Barberis il 4 Marzo 2022 su Il Giornale.  

D a Biden che si intromette negli affari dell'Ucraina all'Unione europea che finisce per finanziare le milizie neonaziste del paese invaso dai russi. Appena parte un colpo, a sinistra scatta il riflesso di Pavlov del pacifismo, una delle più nobili dottrine della storia moderna ma purtroppo distorta da un'ideologia che l'ha resa uno strumento deleterio nel cogliere il suo scopo: la pace.

C'è sempre uno più progressista di un liberal aperto ed evoluto, ed è appunto il pacifista medio che si scaglia contro la «sedicente sinistra». Copyright di un senatore della Repubblica, Mattia Crucioli, portabandiera di Alternativa. La «sedicente sinistra», vista dai puristi gandhiani, in questo caso è quella di un governo chiamato a fronteggiare una crisi politico-militare che potrebbe sfociare in un conflitto globale. Per i Crucioli rientrati sulla scena con la guerra ucraina, non può che suscitare orrore un ministro della Difesa come Lorenzo Guerini (Pd) che sollecita responsabilmente un aumento delle spese militari. Misura necessaria, a sua volta mutuata da un altro governo di sinistra, anzi sinistra-sinistra, quello tedesco guidato da Scholz che ha appena stanziato 100 miliardi di euro per le forze armate.

La pace è un valore supremo, pari al benessere individuale e alla dignità dell'essere umano. Brandirla strumentalmente come spartiacque tra anime virtuose e guerrafondai di ritorno è soltanto l'ennesimo rigurgito di una componente massimalista che continua a giudicare il riformismo come l'anticamera del fascismo. L'annosa questione dell'esercito comune europeo, spaventosamente in ritardo, è stata frenata negli anni proprio da un oltranzismo pacifista presente nei principali paesi Ue che ha impedito il compiersi di un processo coerente con il progetto degli Stati Uniti d'Europa. Una visione, guarda caso, che è sempre piaciuta più a sinistra che a destra. È bello vivere di emozioni e di parole di condanna: chi non sogna un mondo dove i conflitti possano essere risolti da marce, sit-in e giri di chitarra?

Il mondo è il nostro paradiso terrestre, ma purtroppo resta un luogo pericoloso dove vivere, anche se mille volte più sicuro rispetto all'antichità. Ogni tanto spunta un Putin che organizza invasioni di stati sovrani limitrofi, con buona pace di chi vedeva la Terza guerra mondiale come uno scontro virtuale tra server, super computer e cyber boicottaggi da remoto. La nuova guerra sono i vecchi tank, i vecchi bunker anti aereo, i vecchi missili terra-aria chirurgici come la mannaia di un macellaio sfinito dal cinquantesimo colpo della giornata.

Intralciare le risposte militari, previste dal diritto internazionale, non è la ricetta giusta per replicare alle aggressioni. La dottrina della deterrenza insegna ancora che arsenali pieni e non inferiori al nemico sono il miglior fattore per un equilibrio di potenza che, tradotto in quattro lettere, si chiama pace. Per la Ue la crisi ucraina è il banco di prova per dimostrarsi una potenza militare sovranazionale, temuta e rispettata dal folle invasore di turno. Oggi potrà salvare l'Ucraina, domani qualsiasi Paese bersaglio di un'invasione che sembrava cancellata dai manuali storici e militari. È sempre l'ora della pace. Ma costa più soldi che parole.

Proposte disarmanti. Serra, Barca, Montanari e la facile posa del pacifista con la pelle degli altri. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 4 Marzo 2022.

Schierarsi a mani nude contro gli invasori è un atto di eroismo, invitare altri a farlo è assai meno eroico. Chi in queste ore combatte per difendere la propria vita e quella dei propri cari non ci chiede gesti simbolici.

Michele Serra formulava ieri su Repubblica una domanda retorica: cosa succederebbe se l’Unione europea decidesse di tenere il suo prossimo vertice a Kiev, sotto le bombe? Se cioè «i ventisette ministri degli Esteri, o meglio ancora i ventisette premier, facessero della propria presenza fisica un’arma, anzi una testimonianza ben più forte di un’arma: che effetto farebbe, sulla scena del pianeta?».

Qualche giorno fa Tomaso Montanari scriveva sul Fatto quotidiano (28 febbraio) e poi ripeteva su La7 (2 marzo) che a Kiev «dovrebbe riunirsi la stessa Commissione europea in carne e ossa, con i capi di Stato e di governo: come segno potente di vicinanza e di interposizione simbolica».

Tre giorni fa Fabrizio Barca twittava: «“Fermare l’aggressore” è certo l’obiettivo ed è ciò che può ridare pace e vita civile agli ucraini. Ma come farlo? Mettendo armi nelle loro mani standosene a casa o affiancandoli sul campo a mani nude per acquisire l’autorevolezza per trattare?».

L’elenco potrebbe continuare, ma non penso ce ne sia bisogno. Prima di andare al merito delle proposte, che definirei letteralmente disarmanti, mi permetto solo un paio di notazioni, diciamo così, psicologiche.

Anzitutto, cosa spinge Barca a ritenere che chi in questo stesso momento sta ammazzando centinaia di civili inermi dovrebbe fermarsi davanti alle nostre «mani nude», anzi restarne talmente ammirato da posare subito il fucile e riconoscerci pure l’«autorevolezza per trattare»? Forse ritiene che a guidare gli attacchi contro la popolazione ucraina sia Immanuel Kant, ma basterebbe accendere la tv per vedere che non è così. E mi pare anche discutibile il tono di sufficienza, forse anche vagamente paternalistico, con cui Barca parla degli ucraini e della decisione europea di mettere armi «nelle loro mani standosene a casa».

Ci sarebbe poi da dire qualcosa sull’involontaria ironia del passaggio in cui Serra parla dei pacifisti «il cui svantaggio politico, in tempo di guerra, è di cruda evidenza», che mi sembra un po’ come lamentare lo svantaggio dei vegetariani all’ora di pranzo. Per non parlare di quando invoca «il coraggio, la tenacia, la fantasia che servono per sovvertire lo stato delle cose (a vantaggio del quale, va sottolineato, non gioca la presente situazione di guerra)». I problemi del mondo hanno effettivamente questa dispettosa inclinazione a non giocare a favore delle nostre idee. Ma questo dovrebbe essere semmai un motivo per riconsiderare le nostre idee, non per prendersela col mondo, non vi pare?

Si tratta di contraddizioni indicative, prima che di un modo di pensare, di un modo di sentire. Mi domando insomma con quale spirito, proprio nel momento in cui i governi europei compiono un passo significativo come la scelta di inviare armi all’Ucraina, tanti autorevoli intellettuali progressisti si sentano di invitarli a ripensarci, e ad andarci di persona, piuttosto, a Kiev.

Mi domando se al fondo questi discorsi non somiglino a quelli di chi, quando si parla di accoglienza e diritti dei profughi, invita i politici a prenderseli in casa loro. Come se il compito di chi guida un governo fosse quello di compiere gesti simbolici, anziché cercare soluzioni realistiche a problemi concreti (avvertenza ai futuri commentatori eventualmente tentati di rispondermi con un temino su quale sia il vero «realismo»: mentre migliaia di persone sono sotto le bombe, realistico è quel che ha maggiori chance di salvarne il più alto numero nel tempo più breve, irrealistico è tutto il resto).

Ciò detto, resta la questione morale. Per farla breve, io la vedo così: schierarsi a mani nude contro gli invasori è un atto di eroismo; invitare altri a farlo è assai meno eroico. Ma fare questi discorsi nel momento in cui si discute di come aiutare chi sta combattendo per difendere la propria vita e quella dei propri cari – e non ci chiede disperatamente belle parole, come aiuto – è anche peggio.

Agli intellettuali di sinistra che invitano i leader europei a sfilare sotto le bombe vorrei infine segnalare una notizia, che evidentemente dev’essere loro sfuggita. E cioè che il primo politico italiano a proporre una marcia disarmata a Kiev è stato Matteo Salvini. Con una piccola differenza, va detto, a onore di Salvini: che almeno lui ha avuto il buon gusto di dire «andiamo», non «andate».

I GUERRAFONDAI.

Camelot, ovvero l’arte del colpo di stato. Emanuel Pietrobon il 23 Ottobre 2022 su Inside Over.    

I libri di storia sono un susseguirsi di pagine che raccontano di popoli in rivolta contro l’iniquità al potere, rivoluzioni per la terra e il pane e  regicidi in pubblica piazza. Se la storia dell’Uomo insegna qualcosa, in effetti, è che fame, rancore e paura sono i grandi motori del cambiamento ab immemorabili.

Quello che i manuali scolastici – e persino universitari – non insegnano, anche se dovrebbero, è che nulla è più strumentalizzabile della fame, del rancore e della paura. Una conoscenza di cui i decisori dei decisori, cioè i Richelieu di ogni epoca, hanno sempre avuto piena cognizione e che ha fatto la loro fortuna. Una conoscenza che è stata l’inchiostro della storia. Una conoscenza che gli Stati Uniti, durante la Guerra fredda, provarono ad ampliare e a raffinare dando vita all’ambizioso progetto Camelot.

Il contesto storico e geopolitico

La mente è destinata a giocare un ruolo crescentemente importante nelle scienze strategiche, perché gli avanzamenti nelle neuroscienze e l’aggravamento della competizione tra grandi potenze hanno accelerato l’inevitabile ascesa dell’era delle guerre cognitive, ma la verità è che irrilevante non lo è stata mai.

È da quando Sigmund Freud ha inventato la psicoanalisi che gli strateghi al servizio di Casa Bianca, Langley e Pentagono arruolano esperti della mente nei loro dipartimenti – come (di)mostrato dalla composizione del Comitato di Informazione Pubblica istituito dalla presidenza Wilson durante la Grande guerra. E la storia del progetto Camelot, in effetti, non è che una storia (avvincente) di psicologi reclutati dagli Stati Uniti in uno dei loro periodi più complicati e sensibili: la guerra fredda. 

Charles Douglas Jackson, lo psico-guerriero della Casa Bianca

Edward Bernays, il pubblicitario capace di manipolare le masse

Era dagli anni Quaranta che il governo federale finanziava progetti in materia di guerra psicologica, propaganda e osservazione del comportamento umano, ma il confronto con l’Unione Sovietica aveva persuaso gli Stati Uniti che fosse necessario fare qualcosa di più. E fu così che, dalle ceneri dell’ambizioso progetto Troy – una ricerca del MIT sulla creazione artificiale di instabilità sociopolitica – e del Gruppo dello Smithsonian – un gruppo variegato di think tank e associazioni di psicologi accomunati dall’obiettivo di predire il comportamento delle masse –, nacque Camelot.

Se al nebuloso Camelot può essere affibbiata una data di nascita, questa è certamente il 1956. L’anno in cui presso l’American University, su iniziativa dell’Ufficio di guerra psicologica dell’Esercito, fu fondato l’Ufficio di ricerca sulle operazioni speciali (SORO, Special Operations Research Office). Un ente che, inizialmente focalizzato sullo studio della controguerriglia, entro gli anni Sessanta sarebbe diventato il cuore pulsante del vibrante settore delle guerre psicologiche e il ricettore di ben due milioni di dollari l’anno di fondi federali.

Conosci il tuo nemico, studia il terreno di scontro

Al Soro, nell’estate del 1964, fu avanzata dall’Esercito la classica proposta impossibile da rifiutare: proseguire gli studi di previsione sociale e controguerriglia del progetto Troy e del Gruppo Smithsonian, i cui risultati sarebbero stati messi a piena disposizione degli psicologi dell’American University.

L’obiettivo del Soro, a mezzo della conduzione del progetto Camelot, sarebbe stato molto più elevato di quello ricercato dai due predecessori: la realizzazione di uno studio a trecentosessanta gradi sulle cause del conflitto in un insieme selezionato di casi studio, in larga parte paesi della Latinoamerica, propedeutico all’elaborazione di un modello predittivo sul collasso sociale.

Il Soro ricevette dai quattro ai sei milioni di dollari per esperire il progetto, che l’Esercito avrebbe voluto terminato entro quattro anni. Una cifra enorme. Ma, del resto, enormi erano anche le aspettative del Pentagono, che attraverso le teorie, le conoscenze e i progressi di neuroscienze, sociologia e psicologia delle masse sperava di capire se e come fosse possibile creare una rivoluzione dal nulla, anche in contesti socialmente coesi – come il Cile – ed economicamente avanzati – come la Francia.

Al richiamo di Camelot, alla luce del compenso offerto, del prestigio conseguibile e della significatività delle implicazioni pratiche, risposero alcuni dei più eminenti studiosi dell’epoca: dall’esperto di teoria dei giochi Thomas Schelling al sociologo James Samuel Coleman.

Mockingbird, obiettivo manipolazione di massa

Agli psicologi del Soro fu dato mandato di studiare nel dettaglio, di disaminare approfonditamente, ogni aspetto socioculturale dei principali teatri dell’America centromeridionale, in particolare di Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Cuba, Messico, Perù e Venezuela. Altre squadre, invece, si sarebbero occupate di altri fronti caldi, ma più lontani, come l’Africa – Nigeria –, l’Europa – Francia, Grecia –, l’islamosfera – Egitto, Iran, Turchia – e l’Estremo Oriente – Corea del Sud, Indonesia, Malesia, Tailandia.

Gli investigatori del Soro avrebbero dovuto studiare le società dei paesi indicati dal Pentagono da vicino, preferibilmente e possibilmente sul campo, erogando sondaggi, intervistando colleghi e gente comune, interessandosi alla loro letteratura e respirandone e assorbendone usi, costumi e credenze. La pratica etnografica dell’osservazione partecipante pionierizzata da Bronisław Malinowski applicata alla psicologia delle masse.

La macchina di processamento dati costruita nell’ambito del progetto Camelot era mastodontica: realizzazione di rapporti periodici da parte degli psicologi, trasmissione dei dati raccolti sul campo ad un centro computerizzato di analisi, interpretazione e smistamento, studio di rapporti e dati ai fini dell’edificazione di un maxi-database sulle società del globo e della formulazione dell’agognata teoria predittiva sull’instabilità sociale.

Con lo scorrere del tempo, secondo il sociologo Irving Louis Horowitz, Camelot sarebbe diventato il “progetto Manhattan delle scienze sociali”. Un’esperimento sociale a cielo aperto, sebbene coperto dalla fitta nebbia del segreto militare, senza equivalenti né precedenti nella storia.

La fine e l'eredità

Il coinvolgimento del Pentagono nella più vasta indagine sociale per fini militari della storia dell’umanità non sarebbe rimasto segreto a lungo. Perché alcuni accademici cileni, straniti da un’inusuale proposta di collaborazione lanciata da un antropologo proveniente dagli Stati Uniti, Hugo Nutini, riuscirono a risalire alle origini e alle ragioni di Camelot – scoperchiando il vaso di Pandora.

Con l’aiuto di Johan Galtung, un professore dell’Istituto latinoamericano di scienze sociali del Costarica che aveva intuito gli scopi militari di Camelot, l’accademia cilena esercitò un crescendo di pressioni su Nutini fino a quando quest’ultimo, esasperato dal clima venutosi a creare, vuotò il sacco sul progetto in una lettera all’editore inviata al Review of Sociology. Era il 1965.

Il caso Nutini, o meglio il caso Camelot, avrebbe avuto ripercussioni diplomatiche. Il governo cileno, peraltro politicamente e ideologicamene vicino agli Stati Uniti, protestò ufficialmente e fu aperta un’indagine allo scopo di capire se il progetto non fosse la punta di un iceberg, ovvero l’indizio di un colpo di stato in divenire.

Presto, complice il rilancio dello scandalo da parte della stampa sovietica – e, in linea di successione, dei partiti socialisti e comunisti dell’Occidente –, gli Stati Uniti annunciarono la chiusura del progetto e una revisione complessiva dei fondi dedicati alla ricerca nella politica estera. Ma la storia di Camelot non finì quell’anno.

L'ombra di Camelot sul presente

L’11 settembre 1973, a otto anni di distanza dalla fine del progetto, le forze armate cilene fecero irruzione nella Moneda, il palazzo della presidenza, dando vita ad un assedio durante il quale trovò la morte Salvador Allende e a seguito del quale fu instaurata una delle più dure e durature dittature militari dell’America meridionale.

All’epoca, a causa della disinformazione imperante, la grande stampa di mezzo mondo, con l’eccezione di quella comunista, veicolò l’idea che il colpo di stato fosse stato voluto dai cileni e che fosse stato provocato dalla malapolitica e dalle aspirazioni dittatoriali di Allende. Una menzogna.

La giustizia del tempo e le indagini del Commissione Church avrebbero portato la verità a galla, svelando il ruolo determinante giocato dagli Stati Uniti nel creare le condizioni per il golpe attraverso tre anni di operazioni psicologiche, guerre informative, polarizzazione teleguidata della società, terrorismo e guerra economica. Tre anni di operazioni di ingegneria sociale volte a distruggere l’economia più sviluppata e a dividere la società più coesa dell’America meridionale. Tre anni di applicazione pratica dei risultati emersi sul Cile dalle ricerche degli inquirenti di Camelot, i quali, nel 1965, avevano sentenziato: lo spettro di una guerra civile e la sensazione di avere una presidenza guidata da disegni autoritari avrebbero convinto i cileni a invocare un golpe militare e le forze armate a consumarlo – cosa poi accaduta.

Più di mezzo secolo è trascorso da quando il Pentagono decise di dar vita a Camelot, il più grande e ambizioso esperimento sociale per scopi militari della storia, ma il mondo sembra essersene dimenticato. Nella memoria collettiva dell’umanità non si trova ricordo del progetto Manhattan delle scienze sociali – è stato rimosso. Eppure, essendo questa l’epoca delle guerre ibride e senza limiti, dove tutto è o può essere un’arma, è più che legittimo chiedersi se e come il progetto Camelot abbia inciso sulla traiettoria dell’umanità, cambiandola per sempre, e quanto la sua eredità pesi, sebbene impercettibilmente, su tutti noi.

Programma Phoenix, fino all’ultimo Viet Cong. Emanuel Pietrobon il 23 Ottobre 2022 su Inside Over.    

La guerra del Vietnam ha rappresentato uno dei capitoli più importanti della Guerra fredda e, a latere, dell’intera storia novecentesca. Tra le giungle dell’Indocina fu combattuto il più lungo, esteso e sanguinoso conflitto per procura tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Che si concluse, come è noto, con la (sudata) vittoria di quest’ultima.

Gli Stati Uniti alla fine si ritirarono, su suggerimento di Henry Kissinger, ma soltanto dopo aver percorso ogni via ritenuta praticabile e dopo aver impiegato ogni arma. Si ritirarono, sì, ma lasciando a Ho Chi Minh l’onere di ripulire il terreno da oltre venti milioni di galloni di erbicidi e da più di 325mila tonnellate di napalm. Si ritirarono dopo aver raso al suolo il 6% dell’intero territorio boschivo vietnamita. E dopo aver sterminato buona parte dei Viet Cong nel corso del programma Phoenix.

Il contesto storico

Ho Chi Minh aveva un’armata, i cui soldati erano noti come Viet Cong, composta da un numero imprecisato di persone. Sicuramente almeno 100mila. Ma, forse, persino di più. Impossibile quantificare con esattezza il numero dei militari del Vietnam del Nord. Gli Stati Uniti sapevano soltanto una cosa: i bombardamenti a tappeto non erano sufficienti.

Oltre ai Viet Cong, poi, Ho Chi Minh poteva contare su un esercito di collaboratori civili, composto dalle 80mila alle 150mila persone, che supportava la causa nordvietnamita in vari modi: indottrinamento, intelligence, logistica, operazioni psicologiche, reclutamento e proselitismo nel Vietnam meridionale.

Erano i civili Viet Cong, più che le loro controparti militari, a rappresentare il vero problema. Si espandevano nei villaggi controllati da Saigon, convertendone gli abitanti – spediti nei campi di rieducazione – e corrompendone i capi – minacciati di morte. Poco alla volta, uno dopo l’altro, l’ala civile dei Viet Cong stava conquistando il Vietnam meridionale senza colpo ferire. Il Programma Phoenix nacque per fermarne l’avanzata.

La messa in atto

Il programma Phoenix, noto in vietnamita come Chiến dịch Phụng Hoàng, ebbe luogo tra il 1967 e il 1972 e fu portato avanti dal Civil Operations and Revolutionary Development Support della Central Intelligence Agency, in combutta coi servizi segreti australiani e con l’esercito sudvietnamita.

Descritto dalla CIA come un “insieme di programmi per attaccare e distruggere l’infrastruttura politica dei Viet Cong”, Phoenix avrebbe perseguito il duplice scopo di cui sopra seguendo una scaletta rigorosa: infiltrazione nei villaggi, cattura dell’obiettivo, interrogatorio, tortura e assassinio.

Furono create delle Unità di riconoscimento provinciale, deputate all’infiltrazione degli agenti nei villaggi, e dei centri di interrogatorio regionali, dal nome autoesplicativo. L’efficacia del programma era misurata sulla base dell’indice di neutralizzazione dei Viet Cong civili tradotti nei centri di interrogatorio. E l’efficacia, numeri alla mano, fu elevatissima: 81.740 catturati, dei quali 26.369 successivamente uccisi.

A guidare gli interrogatori, basati su una combinazione di torture e psicologia, un veterano delle forze armate degli Stati Uniti: Peer de Silva. Un uomo con alle spalle la partecipazione al progetto Manhattan, alla guerra di Corea e ad operazioni sovversive in Asia. Un uomo universale, con esperienza nella ricerca militare, nei colpi di stato, nelle guerre urbane e negli interrogatori.

Fu de Silva, un profondo conoscitore della mentalità dei popoli asiatici, a pionierizzare un nuovo metodo di interrogatorio, concepito per estrapolare il maggior numero di informazioni dai vietnamiti. E tanta fu l’intelligence raccolta dagli specialisti formati al metodo de Silva che, ad un certo punto, nell’ambito di Phoenix fu istituito il Programma di sfruttamento e coordinamento dell’intelligence (ICEX, Intelligence Coordination and Exploitation Program).

Alla fine, nonostante il dispiegamento di un piccolo esercito – più di 700 agenti Phoenix nel 1970 –, l’operazione avrebbe seguito il destino dell’intera campagna militare. Ed entro il 1972, complice la progressiva ritirata degli Stati Uniti, sarebbe stata abortita.

L'impatto

Il programma Phoenix non ribaltò le sorti della guerra, ma certamente contribuì a complicare la resistenza di Ho Chi Minh all’invasore statunitense, privandolo di componenti essenziali dell’infrastruttura civile Viet Cong.

La lista nera di Phoenix era in continua evoluzione: chiunque poteva finire nel mirino degli specialisti di de Silva. E, difatti, vi finirono quasi 100mila persone. Secondo William Colby, direttore della CIA dal 1973 al 1975, i rapporti di intelligence comprovarono l’utilità di Phoenix: il periodo più duro per i Viet Cong fu il 1968-72, cioè quello coincidente con la campagna di rapimenti e omicidi supervisionata da de Silva.

Alla fine i Viet Cong prevalsero, ma per un breve periodo ebbero paura di sporgersi eccessivamente nei villaggi del Sud, divenuti dei veri e propri campi minati dove chiunque poteva essere un agente sul libropaga della CIA. Fare ritorno alla base dopo un interrogatorio col metodo de Silva, poi, non assicurava la fiducia dei capi e il ritorno alla normalità. I Viet Cong non si fidavano dei superstiti, perché consapevoli del fatto che il metodo de Silva implicava stupri, elettroshock, waterboarding, utilizzo di animali – dai serpenti ai cani. Il superstite era, per forza di cose, una persona che aveva parlato – probabilmente tanto. La sua eliminazione, per mano dei Viet Cong, un’inevitabilità.

La storia del programma Phoenix, una macchia indelebile per la reputazione degli Stati Uniti, emerse per la prima volta nel 1970. A portarla a galla, nonostante il silenzio stampa imposto da Kissinger, Ed Murphy e Frances Fitzgerald. Un anno dopo, a operazione ancora in corso, il duo sarebbe riuscito a portare l’argomento al Congresso – con l’aiuto di testimoni diretti dell’accaduto.

K. Barton Osborne, un operativo di Phoenix, scioccò il Congresso raccontando di non aver visto un solo vietnamita sopravvivere ad uno degli interrogatori col metodo de Silva. Ma Phoenix, del resto, era stata concepita come “un programma di assassinii, sterilizzazioni e spoliazione dell’identità”. Due i risultati ammessi: la morte dell’interrogato o la sua spersonalizzazione. Un formato successivamente entrato a far parte dell’armamentario della CIA e mai più abbandonato, come hanno dimostrato i vari scandali sulle violazioni dei diritti dei detenuti esplosi durante la Guerra al Terrore.

Chaos, alle origini della sorveglianza di massa. Emanuel Pietrobon il 23 Ottobre 2022 su Inside Over.    

Sorvegliare per punire. Sorvegliare per prevenire. Sorvegliare per controllare. Sorvegliare per comandare. La sorveglianza di massa accompagna l’Uomo dalla notte dei tempi e morirà insieme a lui. Impossibile scinderne i destini. Impossibile invertire la rotta tracciata dal progresso tecnologico.

La sorveglianza di massa esiste dall’antichità, come ricordano i circuiti di raccolta di intelligence dell’Impero romano, perciò le società tecnologiche ed industriali non hanno inventato nulla di nuovo. Hanno ampliato e rafforzato, indubbiamente, ma non creato. Occhi robotici al posto di occhi umani. Orecchie artificiali in luogo di orecchie umane.

Si suole identificare le origini della sorveglianza di massa nell’età tecnologico-industriale con la Guerra fredda, epoca della costruzione di abnormi regimi polizieschi dalla Germania Est della Stasi alla Romania della Securitate, ma la realtà è (molto) più complessa delle ricostruzioni superficiali della storia mainstream.

La realtà è che i semi della sorveglianza di massa della contemporaneità, emblematizzata dalle città delle telecamere e dalle leggi in stile Patriot Act, sono stati piantati nel corso dell’intero Novecento da una costellazione variegata di attori, dall’Unione Sovietica del periodo interguerra – musa ispiratrice di George Orwell – agli Stati Uniti in lotta col comunismo e paranoicamente sospettosi della loro cittadinanza. Gli Stati Uniti delle operazioni SHAMROCK, MINARET, CHAOS e COINTELPRO.

Le origini e il contesto storico

Scrivere dell’operazione CHAOS è raccontare degli Stati Uniti in lotta con l’Unione Sovietica, e con la loro stessa cittadinanza, nel corso di quello scontro egemonico epocale per l’egemonia globale che fu la Guerra fredda. Erano gli anni delle proteste dei movimenti per i diritti civili, della resurrezione del Ku Klux Klan, delle maxi-mobilitazioni dei pacifisti, e la Casa Bianca aveva un pessimo sentore: che dietro quel fermento potesse esserci la longa manus degli agenti del caos del Cremlino.

La presidenza Johnson, allo scopo di appurare le reali origini delle dimostrazioni e di capire se alcuni movimenti sociali e politici fossero legati in qualche modo a Mosca, nel 1967 diede mandato a Richard Helms, l’allora direttore della Central Intelligence Agency, di realizzare una piattaforma per la raccolta dati su individui ed entità in odore di collaborazionismo con l’Unione Sovietica. Piattaforma che avrebbe assunto il nome di CHAOS.

L’operazione fu esperita tra il 1967 e il 1973, sopravvivendo all’amministrazione Johnson e venendo potenziata da Richard Nixon, risultando particolarmente utile perché svolta in concomitanza con COINTELPRO del Federal Bureau of Investigations. Gemelli separati alla nascita, ma uniti da un comune destino: il controllo della cittadinanza.

Nomen omen

Tra il 1967 e il 1969, nel corso della fase Johnson, agli 007 della CIA fu dato ordine di monitorare i movimenti internazionali, fisici e bancari, degli attivisti antiguerra. Johnson voleva sapere dove si recavano, con chi parlavano e quali cifre si trovavano sui loro conti correnti.

Gli attivisti venivano seguiti a distanza ravvicinata, tramite forme di pedinamento classico, e da remoto, ossia con dispositivi elettronici, ignari di essere osservati e ascoltati da uno stuolo di spie in grado di agire mondialmente. Le stazioni della CIA all’estero ritrasformate a tale scopo. Gli 007, in precedenza addestrati per scovare controparti del KGB, chiamati ad utilizzare le loro conoscenze e competenze nel camuffamento per infiltrare i movimenti del pacifismo del paese e persino alcuni all’estero. Obiettivo: capire se esistesse una cospirazione internazionale volta a gettare nel caos gli Stati Uniti.

Gradualmente, sul finire dell’era Johnson e l’inizio dell’amministrazione Nixon, gli obiettivi nel mirino dei microfoni e delle telecamere di Chaos sarebbero stati aumentati. Non soltanto gli attivisti dei movimenti contro la guerra, ma anche i comitati del femminismo – Women Strike for Peace –, le ambasciate – come quella di Israele – e gli estremismi religiosi – come B’nai B’rith – e razziali – le Pantere Nere.

La fine

L’operazione CHAOS fu tra le vittime collaterali del Watergate, tra gli scandali politici più gravi della storia degli Stati Uniti, che incoraggiò la presidenza Nixon a chiederne la conclusione nel 1973. Conclusione avvenuta nel più totale silenzio, si intende, perché se oggi il mondo è a conoscenza del programma è solo grazie a delle gole profonde che, nel 1974, si rivolsero al giornalista investigativo Seymour Hersh per denunciare quanto accaduto negli anni precedenti.

Le rivelazioni delle gole profonde, condensate da Hersh nello storico Huge CIA Operation Reported in US Against Antiwar Forces, Other Dissidents in Nixon Years, pubblicato per il New York Times, avrebbero scoperchiato un vaso di Pandora, contribuendo in maniera determinante all’istituzione della Commissione sulle attività della CIA negli Stati Uniti, altresì nota come la Commissione Rockefeller.

Nel complesso, secondo gli inquirenti della commissione Rockefeller, l’impianto di sorveglianza aveva portato alla costruzione di un database con all’interno informazioni su circa trecentomila cittadini, più di settemila dei quali schedati in maniera dettagliata, e mille gruppi. Database parallelo, ma complementare, a quello eretto nell’ambito di COINTELPRO, sorella gemella di CHAOS, entrambi rivelatisi fondamentali nell’annichilimento delle varie minacce per l’alto provenienti dal basso, in particolare le Pantere Nere.

Gian Micalessin per “il Giornale” l'8 luglio 2022.  

«Noi non gli piacciamo molto, ma nemmeno lui piace molto a noi». Le parole con cui il portavoce del Cremlino Dmitri Peskov commenta la metamorfosi di Boris Johnson trasformatosi da portabandiera dell'«atlantismo» in «anatra zoppa» di Downing Street la dice lunga sul ruolo di BoJo nel conflitto ucraino. E sulle conseguenze che il suo ridimensionamento può avere per Kiev e Volodymyr Zelensky.

Perché se Boris non avesse dato carta bianca alla propria «intelligence» e alle proprie «forze speciali», Zelensky non sarebbe certo sopravvissuto al «pronunciamento» dei generali ucraini che il 24 febbraio scorso doveva garantire - nelle previsioni (sbagliate) dell'Fsb - l'instaurazione di un governo filo russo. E se non fosse stato per Boris il presidente ucraino avrebbe probabilmente dato ascolto a chi da Washington suggeriva di portarlo via dalla capitale. 

Grazie all'insistenza di un BoJo convinto di essere un novello Churchill, il presidente-comico non solo respinse le profferte Usa restando al proprio posto, ma si trasformò in un leader-guerriero capace di galvanizzare i propri combattenti. Non a caso, ieri, uno dei primi a farsi sentire è stato proprio Zelensky ricordando l'amico e l'alleato dei «momenti più difficili».

Un alleato impareggiabile nel pretendere non solo dall'Europa, ma anche dalla Casa Bianca, un atteggiamento inflessibile nei confronti di Mosca. Ed infatti, in questi mesi, è stato proprio il furore anti-russo di Johnson a trasformare la Nato in un’alleanza bicefala dominata da una parte dalle strategie degli 007 britannici e, dall'altra, dalle forniture militari per oltre 5 miliardi e 300 milioni di dollari garantite dalla Casa Bianca. Ora però Zelensky e i suoi si chiedono se tutto ciò sopravvivrà non solo a BoJo, ma anche ai «mal di pancia» di Joe Biden e degli alleati europei alle prese con gli effetti boomerang delle sanzioni.

Più s' avvicinano le elezioni di «mid-term» di novembre e più le preoccupazioni dell'opinione pubblica Usa per il prezzo del carburante e il peso dell'inflazione promettono di trascinare il presidente americano lontano dal solco tracciato con Downing Street. E in Europa va anche peggio. Le trincee della fermezza disegnate durante il summit di Madrid potrebbero venir ben presto abbandonate. Anche perché se BoJo è un'«anatra zoppa» i suoi omologhi europei non sono né scattanti centometristi, né campioni di resistenza.

Per capirlo bastano le agitate cronache dei loro parlamenti. Mario Draghi, presentatosi a Madrid come il più convinto sostenitore della linea anglo-americana, è costretto a vedersela con le resipiscenze di Conte e dei Cinque Stelle da una parte e con quelle della Lega dall'altra. Ma se Roma piange, Parigi non ride. Emmanuel Macron, un presidente già assai distante dalla linea della fermezza pretesa da Londra e Washington, fa i conti con la nuova dimensione dell'Assemblea Nazionale. Un'Assemblea in cui i banchi, assai affollati, dell'«Union Populaire» di Jean-Luc Mélenchon a sinistra e del «Rassemblement National» di Marine Le Pen a destra, minacciano di travolgere un «governo del presidente» privo di una maggioranza assoluta.

Tutti elementi che promettono di ammorbidire ancor di più la determinazione di Macron. Anche perché già a settembre dovrà vedersela con il malessere di una piazza francese dove l'eterna diffidenza nei confronti degli Usa unita al malcontento per crisi energetica ed inflazione minaccia d'innescare miscele esplosive. 

A Berlino l'esitante cancelliere tedesco Olaf Scholz non ha davanti mesi migliori. Costretto a riaprire le centrali a carbone e quelle nucleari per fronteggiare il prevedibile blocco delle forniture di gas russo, il Cancelliere rischia di fare i conti con l'uscita dalla coalizione di governo dei Verdi del ministro degli esteri Annalena Baerbock.

La caduta di Boris rischia insomma di essere soltanto il prologo di un ciclone capace di travolgere tutte le capitali europee e lasciare assai isolata l'Ucraina di Zelensky. Un Zelensky che, non a caso, vorrebbe chiudere la guerra prima di dicembre. Ma l'unico modo per farlo, come continua a ripetere il 99enne veterano della diplomazia Henry Kissinger, è aprire un tavolo negoziale con Mosca. Peccato che fin qui nessuno si sia premurato di ascoltarlo. Né a Kiev, né a Londra, né nel resto d'Europa.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 3 giugno 2022.

Giovedì ho seguito su Rai1 la parata militare del 2 giugno ai Fori imperiali avendo nel cuore e nella mente le parole pronunciate dal capo della Stato prima del concerto offerto in occasione della festa della Repubblica. Ha detto Sergio Mattarella che ci troviamo «nuovamente immersi in una guerra di stampo ottocentesco, che sta generando morte e distruzioni, che richiama subito alla responsabilità». 

E, fedele al principio costituzionale del ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali, ha aggiunto che l'Italia è «convintamente impegnata nella ricerca di vie d'uscita che portino al ritiro delle truppe occupanti e alla ricostruzione dell'Ucraina». 

Mentre la banda militare suonava l'inno pensavo a tutti quelli che esordiscono così: «È la Russia che ha aggredito, Putin che ha invaso l'Ucraina ma». «Disgraziatamente, nella vita dei burattini c'è sempre un ma, che sciupa ogni cosa» scrive Collodi in Pinocchio . Non solo nella vita dei burattini: «La Russia ha aggredito ma bisogna smettere di fornire armi all'Ucraina».

Mentre, dopo sindaci, medici, personale sanitario e atleti paralimpici, sfilavano corpi dell'Esercito, della Marina Militare, dell'Aeronautica Militare, dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, pensavo a tutti quelli che ragionano così: «Intendiamoci, sono per la pace, per questo l'Ucraina deve trattare, non può continuare a combattere contro un esercito più forte». Sono in molti quelli che si aggrappano al «ma» pinocchiesco: «Non bisogna inviare ulteriori armi che provocano un'escalation del conflitto ma sostenere la parte di popolazione che sta resistendo senza recare danni ulteriori. L'unico intervento possibile, oggi, è il peacekeeping».

Ma a mani nude, verrebbe da aggiungere. Che il presidente Mattarella sia un pericoloso guerrafondaio, un nemico della pace, un sabotatore della nostra Costituzione? Viva il 2 Giugno!

La parata del 2 giugno. Festa della Repubblica, discorso di Mattarella: “Vicini all’Ucraina, la pace si conquista”. Claudia Fusani su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

L’Italia ripudia la guerra “come mezzo per la risoluzione delle controversie internazionali”. Ma gli italiani, almeno i circa diecimila che ieri mattina a Roma hanno sfilato e affollato – nonostante i 36 gradi e il sole a picco – i viali dei Fori Imperiali amano la Repubblica e le forze armate e i corpi civili che la difendono e la proteggono. E a giudicare dagli applausi, queste migliaia di italiani si sentono ben rappresentati da questa terna di arbitri che li governa in questo momento difficile e pieno di incognite.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che non credeva di poter essere di nuovo al centro della tribuna d’onore a rendere omaggio alla bandiera e ai corpi militari e civili che sfilano con i vari reparti e invece è qui, sorridente e compiaciuto. Il Presidente del Consiglio Mario Draghi, al suo debutto nella stessa tribuna, che batte le mani e anche lui sorride. Il presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato che più volte in questi tre mesi ha spiegato perché l’invio di armi all’Ucraina non solo è legittimo ma anzi è previsto dall’insieme di ben tre articoli – 11, 52 e 78 – della nostra carta costituzionale. I pacifisti sono a un chilometro in linea d’aria, in Largo Argentina. Sono un centinaio e non di più a manifestare contro il governo, le armi, la Nato e l’Unione europea.

Dopo due anni di assenza, il destino ha voluto che la parata militare per festeggiare i 76 anni di Repubblica capitasse nel cuore di una guerra assurda, “di stampo ottocentesco” come l’ha definita lo stesso Mattarella, combattuta sul campo, casa per casa, trincea per trincea, “che sta generando morte e distruzione” soprattutto tra i civili. Il ministro della Difesa Lorenzo Guerini, e con lui il governo e il Quirinale, hanno accettato il rischio di una parata che avrebbe potuto sembrare una provocazione nel mezzo di un dibattito politico, in Italia e in Europa, che vede le sacrosante ragioni del pacifismo spesso al servizio di strumentalizzazioni di parte e di consenso. Un rischio però vinto a mani basse, sempre a giudicare dal gradimento del pubblico e dei curiosi. Una cerimonia che poteva risultare divisiva e che invece ha saputo unire.

L’onore dell’apertura è stato riservato a un esercito di trecento sindaci, uomini e donne con la fascia tricolore, che hanno camminato in ordine sparso tra ali di folla plaudente e commossa. Sono stati gli amministratori che negli anni della pandemia, durante i lockdown, la battaglie contro le chiusure e quelle contro la solitudine hanno saputo dare voce e ascolto ai cittadini. «È stata una giornata importante e significativa, soprattutto emozionante», ha detto il sindaco di Bari Antonio De Caro che guida l’Anci e che ieri mattina camminava un po’ a zig zag salutando a destra e a sinistra e fermandosi commosso davanti a Mattarella e Draghi. «Ci siamo sentiti circondati dall’affetto e dalla simpatia di centinaia di cittadini per i quali ogni giorno lavoriamo con impegno e passione nelle nostre città».

Prima il Covid. Ora la guerra: sono sempre i sindaci i primi a dare l’assistenza ai profughi, a trovare una casa e una scuola a intere famiglie scappate via senza nulla. L’onore della prima fila è tutto meritato. Vedendoli camminare lungo i Fori, sembrava di vedere il “Quarto Stato”, il quadro di Pellizza da Volpedo, improvvisamente animato e vivo. Così come è meritata e anche questa emozionante la seconda fila per i medici e gli infermieri, “gli eroi del Covid”, l’esercito di camici bianchi che ha rischiato la propria vita e ne ha salvate tante. Qui è parso di cogliere qualche ombra negli sguardi e nei saluti: l’onore è certamente importante, ma il riconoscimento per quello che è stato si deve misurare con posti di lavoro sicuri, personale adeguato nei numeri, nella preparazione e negli stipendi. Dopo i civili, hanno sfilato i reparti militari di tutte le quattro forze armate, quelli speciali, quelli ordinari, le eccellenze, i professionisti della Difesa. Poi la polizia, i vigili del fuoco, la Protezione civile, tutti i tasselli della nostra sicurezza.

La parata ai Fori imperiali ha sembrato unire anche la politica. In Tribuna autorità c’erano tutti i partiti presenti in Parlamento. Non c’erano Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Giuseppe Conte – ma il cerimoniale non prevede la presenza di leader di partito – ma c’erano la maggior parte dei ministri in carica di tutte le forze di maggioranza come se i dubbi che alimentano le polemiche sull’invio delle armi in Ucraina e sulla linea atlantista ed europeista del governo Draghi fossero cancellati. Almeno per qualche ora. Vedremo da qui al 21 giugno, quando l’informativa del premier prima del nuovo Consiglio europeo sarà messa ai voti, cosa succederà. Se e come Lega e 5Stelle daranno seguito a minacce e presunti malumori. Ieri mattina Giorgetti (Lega) sedeva accanto a Gianni Letta, Mariastella Gelmini (Fi) era vicino a Di Maio e D’Incà (M5s), a Ignazio La Russa (Fdi) e Maurizio Gasparri (Fi) e Simona Malpezzi (Pd). Tutti insieme appassionatamente. E anche sorridenti. Come Draghi e Mattarella. Titolo scelto per la cerimonia: “Insieme a difesa della pace”.

Per il secondo giorno di fila il Presidente della Repubblica ha ribadito quale debba essere il ruolo dell’Italia dopo cento giorni di guerra: lavorare per la pace, insieme alla comunità internazionale, restando uniti. «Lo ribadiamo oggi mentre siamo a fianco dell’aggredita Ucraina: la Repubblica è impegnata a costruire condizioni di pace e le sue Forze Armate, sulla base dei mandati affidati da Governo e Parlamento, concorrono a questo compito», ha scritto il capo dello Stato in un messaggio inviato al Capo di Stato Maggiore della Difesa Giuseppe Cavo Dragone. La pace, ha aggiunto, «non si impone da sola ma è frutto della volontà e dell’impegno concreto degli uomini e degli Stati». Una pace che si conquista e si difende anche con le armi e «basata sul rispetto delle persone e della loro dignità, dei confini territoriali, dello stato di diritto, della sovranità democratica».

Parlando alla comunità di ambasciatori, il giorno prima, Mattarella aveva detto che la Repubblica italiana è «convintamente impegnata nella ricerca di vie di uscita dal conflitto che portino al ritiro delle truppe occupanti e alla ricostruzione dell’Ucraina». Ieri, rivolto alla Forze armate, ha ricordato come in questi 76 anni di Repubblica il contributo, anche delle Forze armate, «alla causa della pace e della cooperazione internazionale si è caratterizzato con l’adesione al Trattato del Nord-Atlantico sottoscritto fra Paesi amanti della libertà, con la costruzione graduale e crescente della unità europea, con la partecipazione all’Onu e alle sue iniziative». Mettendo insieme i discorsi di Mattarella, Draghi e il suo governo ottengono la massima copertura istituzionale rispetto alle scelte fatte. Chi le metterà in forse per giochi elettorali e di consenso politico, sfiderà anche il Quirinale.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

La comunità religiosa spacca le tifoserie. Parte della Chiesa si spacca e non segue Papa Francesco: “La guerra è giusta”. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista l'11 Maggio 2022. 

Papa Francesco, smettila di venire strumentalizzato dai politici russi e dalla chiesa ortodossa russa! Lo chiedono a gran voce, in italiano ed inglese, quattro teologi e docenti universitari: Thomas Bremer (Münster), Regina Elsner (Berlino), Massimo Faggioli, (Philadelphia) e Kristina Stoeckl (Innsbruck). La loro analisi è stata pubblicata in italiano da Il Regno e negli Usa dal sito del progressista National Catholic Reporter. In Italia la posizione è avallata da un editoriale di Gianfranco Brunelli (direttore de Il Regno) secondo cui nell’intervista al Corriere della sera della settimana scorsa, papa Francesco “ha scelto l’imprudenza in un quadro che gli appare realisticamente pessimistico”.

Il riferimento è all’espressione “abbaiare” della Nato ai confini con la Russia, utilizzata dal Pontefice per riferirsi alle posizioni russe. In ogni caso i quattro firmatari dell’appello hanno un approccio che vale la pena considerare. Notano, sul tema della strumentalizzazione delle posizioni del Vaticano, che «in oltre due mesi dall’inizio dell’invasione russa, la Chiesa ortodossa russa non ha perso una sola occasione per affermare che il Vaticano è al suo fianco nella situazione in Ucraina. Mentre la diplomazia vaticana e papa Francesco cercano di scegliere le parole e i simboli per affrontare una guerra che sembrano interpretare come il risultato di un conflitto geopolitico di interessi tra Russia e Stati Uniti, il Patriarcato di Mosca è rimasto fermo nella sua determinazione a presentare il Vaticano come alleato e ignorare le evidenze del contrario». Le prove di queste affermazioni sono nei modi con cui i media russi hanno presentato le azioni del Papa.

Pertanto la visita all’ambasciatore russo del 25 febbraio non era per sostenere la pace (media vaticani e occidentali) ma per conoscere la situazione del Donbass (media russi). Gli appelli del Papa alla pace non sono appelli per la pace (media vaticani e occidentali) ma supporto alla giustificazione della guerra (media ortodossi russi).

La base delle argomentazioni dei quattro docenti si trova in una pubblicazione dell’Accademia delle Scienze della Russia, che analizza le posizioni occidentali verso la guerra e inserisce la Chiesa cattolica tra le parti in causa. Così con la loro analisi e il loro appello al Papa, i quattro intendono esprimere una preoccupazione. «Un Vaticano – spiegano – che continua a dialogare con questa gerarchia (ortodossa russa ufficiale, per spiegarci, nota mia), ignorando tutte le altre articolazioni della Chiesa ortodossa russa dentro e fuori i confini della Federazione russa e ignorando la Chiesa ortodossa autocefala ucraina rischia un danno enorme al progetto ecumenico.

L’ecumenismo è guidato anche dall’idea che tutte le Chiese cristiane condividano punti di vista simili sulla pace, il valore della vita umana e la verità. Già da molti anni il Patriarcato di Mosca ha interpretato unilateralmente questi valori in modo restrittivo ed esclusivo in termini di valori cristiani tradizionali. A metà degli anni 2010 il Patriarcato di Mosca, così come i neoconservatori negli Stati Uniti qualche anno prima, aveva sognato una «santa alleanza» delle forze cristiane conservatrici con il Vaticano, un sogno interrotto dal papato di Francesco. Conclusione: «Comprendiamo e rispettiamo l’impegno a lungo termine di papa Francesco per la pace e contro la corsa alle armi. Per quanto riguarda la situazione in Ucraina, invece, questo impegno da solo non è sufficiente, perché evidentemente fa il gioco di chi sostiene la guerra. Per questi motivi è necessario da parte di papa Francesco un chiarimento della posizione della Chiesa cattolica sull’Ucraina».

Che dire? L’analisi ha qualche fondamento però non è completa. Certamente esiste una saldatura geopolitica globale dei neoconservatori: dagli Usa alla Russia passando per Spagna, Francia, Germania, Italia, Stati Uniti, esistono gruppi ben finanziati che usano la religione per fini politici (del resto gli attacchi al pontificato vengono da questi elementi) ed hanno sostenitori in larghe fette della Chiesa. E questo spiega perché molti episcopati occidentali (italiano compreso) si esprimano poco sul tema della guerra e comunque non seguono i pronunciamenti quasi quotidiani del Papa – con l’eccezione della Comece (la rappresentanza dei vescovi presso le istituzioni europee). Però sulla “strumentalizzazione” di cui sarebbe vittima la posizione del Pontefice qualcosa si può dire. Per restare sul puro piano della logica, se la Russia è un paese dove non c’è libertà di stampa, come può fare il Papa (e la Santa Sede) a far conoscere direttamente la posizione che ha? Non si capisce. Ed anche dove c’è libertà di stampa (vedi gli Usa), le posizioni di papa Francesco vengono sistematicamente manipolate quando non piacciono, per opera degli stessi media conservatori cattolici e non c’è possibilità di replica, grazie a ben note e collaudate tecniche di “hate speech” ed “echo chambers”, in un contesto di disordine informativo che comprende una convergenza di modalità: disinformazione, malainformazione, misinformazione – e non sono sinonimi! Quindi l’osservazione dei quattro docenti sembra abbastanza non attinente e non utile, invalidando così tutto il resto delle argomentazioni che sembrano anti-papali più che costruttive.

Cosa potrebbe fare papa Francesco che non sta già facendo? Più che parlare di continuo, più che cercare di avere rilievo sui media vaticani (in più lingue) ed internazionali, cosa può fare il Papa se a volte neanche gli episcopati lo seguono? Il meccanismo del disordine informativo è molto attivo, forte, gode di finanziamenti rilevanti e contrastarlo non è facile. Tra l’altro la manipolazione sistematica non colpisce solo il Papa ma anche enti vaticani (la Pontificia Accademia per la Vita e mons. Vincenzo Paglia lo sanno bene e sanno quanto è difficile intervenire!) e semmai servirebbe una strategia coordinata all’interno, per contrastare il disordine informativo (finora non c’è!). Secondo e più importante aspetto. Le preoccupazioni sul venire manipolati sono legittime. Però dovrebbe esserci una preoccupazione ancora più forte e riguarda la poca accettazione o comprensione del messaggio del Papa. Che non è pacifista nel senso politico del termine. È pacifista nel senso “illuministico”, considerando la pace l’unica soluzione ragionevole, perché la guerra è distruzione totale e nulla risolve, soprattutto oggi con le armi a disposizione. E infatti si combatte una guerra di eserciti perché l’uso del nucleare distruggerebbe il pianeta e sarebbero sconfitti anche i presunti vincitori.

La globalizzazione delle economie e del commercio fa sì che la guerra abbia effetti devastanti in tutto il mondo (4,5 milioni di tonnellate di cereali bloccate in Ucraina vogliono dire aumento della fame globale e delle migrazioni: vedere i dati della Fao). La pace è logica, razionale e non ha alternative. Porta più benefici economici che non la produzione e la vendita delle armi. Stupisce che persone di fede (di tutte le confessioni religiose, ma proprio tutte e non solo quelle cristiane), teologi, episcopati, politici laici, atei, cristiani, credenti e non credenti, non lo capiscano e si ostinino a spolverare giustificazioni teologiche alla guerra di difesa come nel Medioevo o nel 1914 e non nell’era più tecnologica e distruttiva della storia. La preoccupazione dovrebbe essere su questo assopimento (eufemismo) del pensiero e sulla supina accettazione di una barbarie inaccettabile. Papa Francesco denuncia continuamente che la guerra giusta non esiste: lo dice da oltre due mesi e lo ha scritto nella “Fratelli Tutti” facendo fare al Magistero un passo avanti.

Chi dice al Papa cosa dovrebbe fare rientra in una categoria storico-teologica precisa: è pelagiano, eresia sempre pronta a spuntare fuori, che vuol dire contare sulle proprie forze per agire, prescindendo dal Vangelo e dal Magistero, anzi con la pretesa di dire al Papa come sarebbe giusto andare avanti. Basta leggere i documenti del Magistero dell’ultimo secolo per capire che la guerra non si può proprio fare. Il Catechismo, tanto spesso citato a spropositato, parla sì di “guerra di difesa” ma la collega a una serie precisa di condizioni che la rendono di fatto inaccettabile, come tutte le guerre, come ripetono Giovanni XXIII, Paolo VI, Benedetto XVI. E senza contare Giovanni Paolo II. Bastano? Piuttosto nell’era del disordine informativo, bisognerebbe porsi davvero il problema di individuare strategie informative migliori. Anche all’interno della Chiesa (esempio di ‘pelagianesimo’ positivo!).

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Nuovi valori cospirano contro quelli costituzionali. Chi vuole la guerra, chi sono i potenti che fanno il tifo per il conflitto in Ucraina. Alberto Cisterna su Il Riformista il 6 Maggio 2022. 

Dopo oltre due mesi di morti e devastazioni. Dopo settimane di sangue e di una pace che nessuno vuole e per la quale nessuno si spende davvero, la riflessione dovrebbe forse abbandonare gli scenari globali, le mappe militari, i filmati dei droni e assumere una dimensione interiore, forse intima. Questo dovrebbe valere per gli uomini e per le nazioni che in bilico verso un ignoto del tutto imprevedibile e, forse, addirittura apocalittico, dovrebbero fermarsi per comprendere bene dove la guerra si sia collocata nel Terzo millennio tra il complesso dei valori e degli interessi che tengono insieme e salda una collettività.

Le Carte costituzionali servirebbero a questo, a cristallizzare in modo stabile e duraturo il nucleo duro dei principi che cementano una società e ne fanno una nazione. La nostra contiene parole chiare sul ripudio della guerra, ma è del tutto evidente che non basta. Studiosi dell’uno (pacifista) e dell’altro (belligerante) campo si sono affrontati e si contendono aspramente la migliore interpretazione della Costituzione e questo basta per rendere ogni posizione precaria, ogni punto di vista accettabile; in un relativismo non solo ermeneutico, ma in certa misura anche etico. L’Italia ripudia la guerra era la regola chiara cui è stato aggiunto un codicillo: almeno che la guerra non possa giustificarsi in nome di altri ideali, di altre opzioni, di altri interessi.

Spezzoni decisivi della classe dirigente di questo paese e, con essi, la maggioranza dei mezzi di informazione ha dato credito e sostegno a questo approccio combinatorio e già questo, da solo, lascia intravedere quanto la globalizzazione, le alleanze militari, le unioni politiche, il consumismo edonistico degli ultimi decenni abbiano profondamente incrinato la moral suasion che promanava dalla Costituzione. Si è consumata una corrosione dei valori di fondo su cui si era costruita la Repubblica nel 1947 e questo deterioramento imporrebbe, di per sé, il coraggio leale di una profonda revisione del nesso di enunciazioni che si leggono sulla Carta.

Una volta si parlava di una Costituzione materiale per segnare uno scarto da quella formale enunciata dal testo fondamentale. Oggi è da discutere se la Carta, le sue regole siano ancora lo specchio di una società divenuta nel frattempo – in modo anche tumultuoso e imprevisto – multirazziale, agnostica, relativista, tollerante ai limiti dell’indifferenza, sospettosa, predatoria in molti suoi segmenti (verso l’ambiente, verso le risorse pubbliche o con l’evasione fiscale). La pandemia, probabilmente, ha assestato un colpo definitivo in questa direzione, con i suoi squilibri, le sue paure, le sue nuove povertà, lo scetticismo di milioni di persone sul governo sanitario. La guerra in modo ancora più radicale dovrebbe spingere lo sguardo non verso il nemico – quello scontato, inguardabile, impresentabile – ma piuttosto verso quanti possono patirne le conseguenze. Bisognerebbe guardarsi intorno e indietro.

In questo sconvolgimento di valori e dei interessi nuovi che tutti insieme cospirano contro l’uguaglianza, la solidarietà, la mitezza, la redistribuzione, la pace – ossia contro le radici profonde che i costituenti avevano posto a fondamento della Repubblica e dell’ homo novus che essa pretendeva di modellare – occorre necessariamente inchinarsi verso gli ultimi. In questi anni in cui l’implosione o anche solo il mutamento etico della nazione sta diventando evidente e una nuova morale collettiva stenta a trovare spazio stritolata com’è da corporazioni robuste, sono costoro quelli che tendono a pagare il prezzo della guerra. Sono i poveri, i marginali economici e sociali, gli “scarti” direbbe la Chiesa, sono questi quelli che tutti i giorni e dappertutto appaiono spaventati dal conflitto e dalle sue conseguenze. Quanti sono in bilico tra un piccolo benessere e una sofferta sopravvivenza scrutano il cielo mediatico dei belligeranti nostrani e si chiedono quale bene porterà loro questa guerra.

Quali costi imporrà loro, se la linea rossa della povertà sarà di nuovo strappata e nessun reddito di cittadinanza potrà rammendarla. Con il passare dei giorni si coglie sempre più forte la sensazione che i “protetti” – si sarebbe detto una volta con una dose di noioso populismo i “forti” e i “potenti” – assistono allo scempio delle armi con una sorta di partecipato senso agonistico, quasi che l’arena mediatica restituisca loro una dose di maggiore tranquillità e di migliore di sicurezza. Sono sereni al solo cospetto del fatto che, sotto lo schermo nobile della libertà e della democrazia, gli Stati siano disponibili a spargere tutto il sangue necessario perché le società opulente dell’Occidente non perdano un’oncia del loro benessere. Gli “scarti” pensano ai loro nonni in trincea sul Carso o sulla Somme o sulle Ardenne o a Stalingrado o a Omaha; pensano ai body bag dei soldati americani in Vietnam o a quelli spediti a morire in Iraq, in Afghanistan e altrove.

Pensano che la guerra non ha mai portato niente di buono per gli ultimi, se non il rischio di finire accoppati nei campi di battaglia o di vivere di stenti. Ecco il dibattito su quel che sta accadendo nel mondo in queste settimane dovrebbe misurare l’entità di questa separazione, il costo di questa profonda scissione tra chi trae ogni beneficio dalla difesa dei cosiddetti valori occidentali – in cui si è trascolorata e annacquata l’etica costituzionale – e chi vede dissolversi l’ombrello protettivo di una società solidale e inclusiva in cui sperava di poter trovare riparo. Alberto Cisterna

L'Aria che Tira, Francesco Borgonovo colpevolizza gli Usa: “Hanno seminato guerra e morte, tranne che con Trump”. Il Tempo il 30 aprile 2022.

Francesco Borgonovo alza un muro difensivo nei confronti di Donald Trump. Il vice-direttore de La Verità è ospite della puntata del 30 aprile de L’Aria che Tira, talk show mattutino di La7 condotto da Myrta Merlino, e si scaglia contro i presidenti Usa democratici: “Ricordo che Donald Trump non ha fatto alcuna guerra, si è seduto al tavolo con Kim Jong-un e ha fermato questa guerra con la Corea del Nord. Vladimir Putin non si aspettava affatto che dall’altra parte non ci fossero reazioni, perché quelli che hanno seminato guerra e morte da ogni parte sono i democratici americani, a partire da Bill Clinton e dai bombardamenti nell’ex Jugoslavia, che hanno colpito l’ambasciata cinese, rivendicate da Joe Biden come le bombe su Belgrado. Hillary Clinton che ha spinto anche per l’Ucraina… Se noi ci troviamo in questa situazione è a causa dei democratici americani, non è a causa di Trump”.

Ma che cosa ha scatenato la reazione di Borgonovo? La reazione è nata dopo le parole di Furio Colombo, ex deputato e senatore, che in collegamento con la trasmissione della Merlino ha incolpato Trump: “Il ruolo dell'America oggi risente della frantumazione che un presidente americano per disgrazia ha portato agli Stati Uniti. Trump è l'inventore della bugia assoluta, dell'aggressione libera se sei in grado di farla. La cosiddetta 'realtà parallela' ha funzionato. Biden è a capo di un paese fortemente colpito dall'immoralità e dall'aggressività del precedente presidente. Per fortuna Trump non è più presidente degli Stati Uniti ma la sua eredità è molto forte”.

Il conflitto in Europa. Le Carré non s’è inventato niente, ecco perché. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Aprile 2022. 

Siamo sempre lì: quando ci troviamo di fronte alle azioni spregiudicate, la mano corre veloce alla fondina in cui c’è una pistola con un solo colpo in canna: quella con su scritto “pazzia”. Tutti pazzi: Putin è matto da legare, Biden con una fedina sanitaria e mentale lunga così. E poi erano pazzi i giapponesi, Hitler non ne parliamo e di sicuro Stalin che è stato il più fecondo assassino della storia di tutti i tempi non aveva tutte le rotelle a posto, e poi Pol Pot che collezionava piramidi di teschi dei suoi nemici e qui ci fermiamo. Troppo facile. quel Boris Johnson, il biondo scapigliato primo ministro inglese, quello sotto inchiesta per aver partecipato a feste durante il lockdown e che manda in Ucraina migliaia, milioni di missili, munizioni, armi sofisticatissime “Made in the UK” che neanche gli americani ce l’hanno, non è forse il prototipo di pazzo scatenato? Ma che cosa vuole? Fare la guerra tutto da solo al colosso planetario che si chiama Russia?

La risposta è: sì, Boris Johnson, come quasi tutti i primi ministri inglesi, quando si tratta delle prepotenze russe, ha una reazione molto violenta. Si dirà: ma questo dipende soltanto dal fatto che Johnson è un conservatore rissoso e nazionalista. Ma sarebbe una scorciatoia che porta in un vicolo cieco. Il primo che in tempi recenti e putiniani si fece saltare i nervi fu il socialista Tony Blair quando i russi ammazzarono l’esule Alexander Litvinenko, detto Sasha, il quale viveva a Londra con moglie e figlio. Purtroppo, Litvinenko morì proprio il giorno in cui diventò cittadino britannico, motivo per cui il primo ministro dichiarò: “Oggi un cittadino inglese su suolo inglese è stato ucciso con un’arma nucleare portata su suolo inglese da una potenza straniera”. L’arma nucleare in quel caso fu la famosa tazza di tè corretto con una buona dose di un isotopo radioattivo del Polonio che lo uccise dopo tre settimane di atroce agonia, senza che alcun ospedale potesse riconoscere il veleno usato e che fu identificato soltanto con una analisi postuma dai laboratori nucleari britannici.

E allora accaddero due cose che in Italia furono dai giornali deliberatamente ignorate: Tony Blair fece levare in volo uno squadrone di Harrier e li mandò ai limiti dello spazio aereo russo e Putin fece levare dei vecchi bombardieri arrugginiti, con a bordo vecchie bombe atomiche, anch’esse arrugginite. Poi i casi si moltiplicarono e i dissidenti russi cominciarono a morire o a rasentare il coma per avvelenanti, come nel caso Sergei Skripal e tanti altri. Tuttavia, il semplice lungo elenco di questi fatti non è sufficiente per rendere comprensibile la rigidità reattiva dei britannici, che pure l’hanno sperimentata con la Prima Ministra Theresa May che fece scaldare i motori un paio di volte, per non dire di Margareth Thatcher che riuscì a sottrare ai sovietici il loro capozona del Kgb in Gran Bretagna, il vecchio Oleg Gordievsky che rischiò la pelle, ma riuscì a far avere ai britannici tutte le carte segrete del dossier con cui Gorbaciov si apprestava a trattare con americani e inglesi.

Qualcuno obietterà che si tratta comunque di guerra di spie, che le spie sono in tutto il mondo, eccetera. Sarebbe una obiezione inefficace. La guerra di spie nel Regno Unito è considerata un casus belli da quando a Londra scoppiò il tremendo ed indimenticabile caso dei Cinque di Cambridge e di Kim Pylby che mori in miseria a Mosca, dopo aver però ristrutturato personalmente il vecchio servizio staliniano alla maniera di un servizio moderno come l’M16 di James Bond. Non fu una cosa da poco ed accadde ormai molto tempo fa. Ma ancora brucia e bercerà per sempre: i “cinque” erano dei giovani aristocratici studenti di Cambridge che diventarono comunisti fra le due guerre mondiali e che formarono una prima rete di insospettabili al servizio del Cremlino. Essendo degli aristocratici puri, snob e blasonati, figli e nipoti di ministri ed eminenti conservatori, ebbero accesso ai tesori più segreti dell’intelligence del loro Paese che trasmettevano a Mosca.

Quando lo scandalo scoppiò, nell’immediato dopoguerra, si vide che i servizi britannici erano stati profondamente compromessi e che la loro rete era piena di agenti doppi e spioni al soldo di Mosca. Questi fatti ispirarono gran parte della produzione letteraria dell’agente britannico che si nascondeva come romanziere sotto lo pseudonimo di John Le Carré, il più famoso dei quali fu “La spia che venne dal freddo”. Liquidato negli anni Sessanta, lo scandalo dei Cinque di Cambridge, il governo inglese autorizzò la costruzione della vistosa fortezza del M16, che troneggia sul Tamigi come un palazzo di cristallo. E fu dichiarata guerra alle spie russe e a tutti coloro che avessero dato manforte ai russi su suolo britannico. Grazie all’azione congiunta della Thatcher (addestrata da Oleg Gordievsky) e di Ronald Reagan, l’ultimo segretario del Pcus sovietico Michail Gorbaciov dovette prendere atto che l’Urss era arrivata al capolinea. E si arrese in cambio di un pacchetto di aiuti che avrebbero tenuto ancora in vita l’Urss dopo aver mollato i Paesi satelliti cominciando dai tedeschi abbattendo il famoso muro di Berlino.

Gorbaciov era affascinato ma anche umiliato da Margaret Thatcher che lo trattava sia come il figliol prodigo che come un sospetto delinquente che castigava con umilianti barzellette antisovietiche. La sua favorita: “Per comprare una automobile in Unione Sovietica occorrono dici anni, come lei sa. Un giorno, un tizio va a pagare la macchina che riceverà dopo dieci anni e completate le pratiche burocratiche chiede: quando mi verrà consegnata la macchina fra dieci anni, di mattina o pomeriggio? Che differenza fa? gli chiese l’impiegato. Be’ disse il tizio che aveva comprato la macchina, quel giorno al mattino aspetto l’idraulico”. Anche Obama mandò subito a male i rapporti con Putin, raccontando ai giornalisti che il presidente russo gli era sembrato il classico bulletto dell’ultimo banco che ti aspetta per strada per menarti.

Vladimir Putin non è noto per il senso dell’umorismo mentre invece è noto per essere permaloso come lo è culturalmente l’intera Russia asiatica, che noi frettolosamente ignoriamo e che è la vera Russia e che avverte – almeno nel suo ventre più molle – tutto ciò che è occidentale come una offesa diretta ai valori della Santa madre Russia, così come la vedono anche la maggior parte degli arabi musulmani e la totalità della dirigenza cinese che ha ideologicamente annunciato una crociata contro lo stile di vita occidentale, sia americano che europeo. Gli inglesi hanno dato armi “anti” carro, aereo, drone, uomo e sono decisi a svuotare i loro arsenali per fornire ai combattenti ucraini tutto ciò di cui hanno bisogno compresi i blindati superiori a quelli russi. E poi con fair play e faccia tosta, come se giocasse una partita di cricket con un avversario che sta alle regole del gioco, ieri Boris Johnson ha chiesto con tono cordiale a Putin di “non andare pesante con i prigionieri inglesi in mano ai russi” lasciando intendere che un gesto di cortesia non sarebbe stato dimenticato nel momento del bisogno. Quindi, per Boris Johnson, la guerra d’Ucraina è una guerra britannica. E la maggior parte del suo popolo, un popolo che pratica molti sport in cui si perdono molti denti con un calcio in bocca senza fare una piega, più o meno concorda.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

La guerra Russia-Ucraina. Intervista a Sabino Cassese: “L’articolo 11 va letto tutto, l’Italia non può astenersi”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 23 Aprile 2022. 

La guerra in Ucraina, il rapporto tra Europa e Nato. Temi scottanti, come per altro quello sollevato dal movimento pacifista sulla congruità o meno rispetto al nostro ordinamento costituzionale, della decisione del Governo, sostenuta da un voto parlamentare, di inviare armamenti all’Ucraina. Il Riformista ne discute con un’autorità assoluta in materia: il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa, nonché professore di “Global governance” al “Master of Public Affairs” dell’”Institut d’Etudes Politiques” di Parigi.

A due mesi dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, è ancora “integra” l’alleanza Stati Uniti-Europa o si sono manifestate incrinature che rischiano di aggravarsi col prolungamento della guerra?

L’aggressione russa all’Ucraina ha avuto l’effetto di produrre la maggiore unità nel mondo occidentale. D’altra parte, chi abbia letto il discorso fatto dal presidente della Federazione russa all’Onu nel 2015, quando si festeggiavano i settant’anni delle Nazioni unite, sa che il progetto russo è quello di fermare l’espansione della rivoluzione democratica. Quindi, il mondo democratico non poteva che essere unito nell’opporsi ai disegni dell’autocrate russo.

Anche all’interno dell’Europa quell’unità d’intenti che aveva segnato l’inizio delle ostilità appare ora meno solida. Soprattutto su una questione cruciale come è quella “energetica”. L’Italia guarda alla sponda sud del Mediterraneo, Algeria ed Egitto, ma gli accordi raggiunti possono soddisfare solo il 30% del nostro fabbisogno di gas. A garantire il resto ci penserebbe l’America, a un prezzo quattro volte superiore al gas russo. Non c’è da riflettere?

Quello che mi pare interessante nella questione energetica è il progressivo allineamento dei Paesi europei, nonostante la diversità degli interessi nazionali, che sono divergenti, a causa del maggiore o minore ricorso fatto dai singoli Paesi alle risorse energetiche provenienti dalla Russia.

All’escalation militare si è accompagnata, specie nelle ultime settimane, quella “verbale”. Con il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, come protagonista assoluto. Ma se la pace si fa col nemico, bollare il suo omologo russo come “macellaio” e mandante di genocidio, che senso ha?

La politica non si giudica sulla base delle parole pronunciate, ma sulla base delle azioni intraprese e svolte. Il presidente degli Stati Uniti non ha mai consultato tanto frequentemente i leader europei come in questo periodo.

Professor Cassese, se il dibattito tra idee, visioni, diverse è il sale di una democrazia, l’affermarsi, almeno mediaticamente, di un pensiero unico “interventista” non le pare un brutto segnale?

Il dibattito arricchisce la democrazia, ma questo non vuol dire che ci si debba dividere programmaticamente: la diversità delle opinioni non può essere imposta, per così dire, dall’esterno.

In Italia si è aperto un dibattito a sinistra particolarmente acceso. C’è chi, come la professoressa Di Cesare ha sostenuto, dalle colonne di questo giornale, che votando il “decreto Ucraina” e l’aumento delle spese militari, la sinistra, e in essa il Pd, ha negato se stessa, la propria identità originaria. Da attento osservatore esterno, lei come la vede?

Dubito che si possa parlare della sinistra al singolare; di sinistre ne esistono parecchie e questa domanda dovrebbe essere rivolta alle diverse sinistre. Comunque, quello che importa è l’evoluzione della realtà, non il modo in cui ci si atteggia rispetto al cambiamento dei dati reali. I dati reali più rilevanti in questo momento sono i seguenti. Un Paese aggressore, più di tre volte più grande dell’aggredito, invade un altro Paese, indipendente da trent’anni. Il Paese aggredito non ha una lunga tradizione statale ma, come mettono in luce alcuni studi recenti, una forte tradizione comunitaria; questo è dimostrato dal fatto che la reazione all’aggressione ha mobilitato un’intera nazione. Vi è una nazione in armi che si sta difendendo nei confronti dell’esercito dell’aggressore. Il secondo elemento fondamentale, al di là degli atteggiamenti delle forze politiche, è costituito dalla condanna che questo comportamento della Federazione russa ha avuto. Si sono espressi diversi organi. L’assemblea delle Nazioni unite. La Corte internazionale di giustizia. Il Consiglio d’Europa. La Corte penale internazionale. Il Parlamento europeo. Eurojust (l’agenzia dell’Unione europea per la cooperazione giudiziaria penale). L’Assemblea delle Nazioni unite, con una forte maggioranza di 141 voti a favore su 193 Paesi, ha duramente condannato l’invasione. Altrettanto ha fatto il Parlamento europeo. La Corte internazionale di giustizia ha avviato una procedura, su iniziativa della Stato ucraino, per violazione della convenzione del 1948 che proibisce e sanziona il genocidio, ordinando l’interruzione delle operazioni militari. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha adottato anch’essa un provvedimento cautelare. La Corte penale internazionale, ad opera del suo procuratore, ha aperto un’inchiesta. Eurojust sta raccogliendo gli elementi che possono servire a definire le violazioni del diritto…

E per quanto riguarda il nostro ordinamento?

Quanto al diritto interno, l’intervento italiano ha il suo fondamento nella legge del 2000 che regola le gravi crisi internazionali e stabilisce le azioni dello Stato italiano in quanto appartenente ad organizzazioni internazionali. L’intervento specifico è legittimato dal decreto legge 14 del 2022, convertito in legge dal Parlamento. Non bisogna dimenticare le norme del 1990 e del 2016, che prevedono la partecipazione a missioni internazionali e l’invio di “assetti militari”. Se si legge tutto l’articolo 11 della Costituzione, ci si rende conto che la partecipazione a organizzazioni internazionali che mirano ad assicurare la pace richiede allo Stato italiano di non astenersi, ma di partecipare alle operazioni militari, che possono essere di vario tipo: basta pensare a quelle di “peace-keeping”, di “peace-building” e di “peace-enforcing”. I precedenti sono quelli relativi alla prima guerra del Golfo del 1990, all’intervento in Afghanistan nel 2001 e in Libia del 2011. Ci si deve rammaricare della cessazione della missione Osce, cioè dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione europea, iniziata nel 2014 e finita il 31 Marzo del 2022, perché i Paesi parte dell’Osce non si sono messi d’accordo sulla prosecuzione della missione che sarebbe stata importante come osservatorio sul terreno.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Mario Platero per “la Repubblica” il 10 maggio 2022.

Oggi durante gli incontri con il presidente Usa Joe Biden alla Casa Bianca, Mario Draghi potrà discutere di Italia, di vie d'uscita per la guerra russa in Ucraina e soprattutto del processo di integrazione in Europa, con un obiettivo, quello di accelerare alcune delle dinamiche sia politiche che militari già in discussione nel dialogo transatlantico.

C'è infatti un punto su cui non possono esserci differenze su Mario Draghi: nessuno tra i leader europei conosce a fondo l'America e la mentalità e la cultura americana come le conosce lui. 

Per aver studiato con i due premi Nobel Franco Modigliani e Bob Solow all'Mit e vissuto a Boston tra il 1971 e il 1976; per il periodo che ha passato a Washington, come Direttore esecutivo della Banca Mondiale a partire dal 1986, un momento chiave per la trasformazione del paese.

Si era ancora nel pieno della rivoluzione reaganiana e in piena guerra Fredda. Quando ha lasciato, nel 1990, il muro di Berlino era già caduto, stava per cadere l'Unione Sovietica e da lì a poco sarebbe partita l'era Clinton. Un'epoca centrista basata sul dialogo piuttosto che sulla polarizzazione, un'epoca caratterizzata da grandi innovazioni tecnologiche che avrebbero cambiato il mondo e dato all'America uno dei periodi migliori della sua storia. 

Draghi ha vissuto quel periodo dall'Italia, durante i dieci anni alla direzione generale del Tesoro. Ha avuto come controparte leader economici del calibro di Larry Summers, che conosceva da sempre, e alcune delle più importanti istituzioni finanziarie americane in un periodo chiave in cui anche l'Italia, con le privatizzazioni, guardava in avanti. Poi, finito il suo mandato al Tesoro nel 2001, Draghi ha stabilito un rapporto diretto con una delle grandi istituzioni americane, Goldman Sachs, tra il 2002 e il 2005.

Aveva responsabilità europee, ma veniva spesso in America per esplorare possibili alleanze o acquisti per conto di clienti. Una banchiera di Goldman mi raccontava allora quanto piacevole fosse lavorare con Draghi: «A volte si andava in giro in macchina per la provincia americana a visitare fabbriche e immaginare alleanze. Mi colpì quanto non si tirasse indietro, dialogava con executive di fabbriche di dimensioni anche piccole, senza mai metterli in soggezione».

Poi il lungo periodo alla guida della Banca d'Italia prima e della Bce dopo, con un'altra responsabilità, la presidenza del Consiglio per la Stabilità finanziaria, un consiglio multilaterale che aveva come numero due un vice chairman della Fed. In quel periodo, nel contesto G7 o G20 Draghi capitò più volte alla Casa Bianca, C'è una sua foto con George W. Bush, altre con Barack Obama: ha lavorato, nelle sue funzioni, con amministrazioni repubblicane e democratiche. E dopo la morte di Tommaso Padoa Schioppa entrò anche nel gruppo dei Trenta una non profit americana con respiro globale e trenta membri globali per discutere nel modo più libero possibile delle sfide economiche.

Oggi a Washington Draghi rappresenta l'Italia, ma le lezioni importanti nella vita non si dimenticano. Nel discorso programmatico al Senato per l'insediamento del governo del febbraio 2021 il presidente del Consiglio italiano stabilisce due capisaldi: riposiziona saldamente l'Italia in campo Atlantico e nel rapporto con gli Stati Uniti d'America e riafferma l'irrinunciabile appartenenza all'Unione europea. Non erano solo parole di circostanza. 

Quelle posizioni erano piuttosto il risultato di decenni di lavoro fianco a fianco con colleghi, amici, con personaggi di calibro intellettuale, ma di grandissima carica umana come Bob Solow o Modigliani o Stanley Fischer; di negoziati e riflessioni con decine di esponenti del mondo della finanza, di quello aziendale, della politica coi quali, in situazioni drammatiche e in nome dell'interesse comune si raggiungevano accordi e si superavano momenti difficili. 

Con giganti come Janet Yellen, collega banchiera centrale, oggi segretario al Tesoro, Draghi ha lavorato recentemente in prima persona per mettere a punto le sanzioni finanziarie contro la Russia. Sono risultati questi che non passano inosservati. Come non passa inosservata la dedizione assoluta di Draghi all'Europa.

Uno dei più importanti protagonisti di Wall Street, poco dopo un incontro dell'Economic Club a New York nel 2015 e dopo un discorso davanti a mille persone venute ad ascoltare il governatore della Banca centrale europea mi disse: «Draghi è l'unico europeo che ho conosciuto e visto in azione prima di tutto per l'interesse dell'Europa intera e non per tutelare per primo un interesse nazionale».

Non possono esserci dubbi che quando Draghi parlerà d'Europa con Joe Biden lo farà con lo stesso spirito, pensando già a come accelerare, in questo tempo di accelerazioni, la fase di integrazione. Per queste ragioni, per la profonda conoscenza dell'America e per la sua sintonia con alcuni valori centrali per la libertà, sappiamo che il presidente americano ascolterà Draghi con attenzione. Anche quando gli parlerà della necessità di un'autonomia strategica europea, spiegandogli che nel nuovo contesto geopolitico questo futuro è importante innanzitutto per gli Stati Uniti d'America.

Intervista a Draghi: «Il governo ha fatto tanto, ora avanti senza dividerci. Giusto mandare armi all’Ucraina, la pace vale sacrifici». Luciano Fontana su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2022.  

Il premier al Corriere: «Ho provato a convincere Putin a fermarsi. Ora basta con la dipendenza energetica». E poi: «Dai partiti prova di unità. Non sono stanco. Il futuro? Non intendo candidarmi» 

Il presidente del Consiglio Mario Draghi, 74 anni

«In un momento pieno di incertezze, di potenziali instabilità, di fragilità interne ed esterne questo governo di unità nazionale continua a voler governare. Abbiamo fatto molto, e lo abbiamo fatto insieme. Dovremmo tutti avere la forza di dire agli italiani: guardate cosa avete realizzato in questi quattordici mesi. Penso alle vaccinazioni, alla crescita economica che abbiamo raggiunto nel 2021, al conseguimento degli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Merito dei cittadini, ma anche delle forze politiche». 

È un Mario Draghi che non nasconde il momento drammatico, i compiti difficili che ha di fronte. Che non sfugge alla consapevolezza che spesso la guida del governo è un percorso a ostacoli in cui ogni pezzo della sua larga maggioranza pianta i suoi paletti. Ai suoi compagni di viaggio chiede di rivendicare quello che stanno facendo, di non farsi prendere dall’insicurezza, perché l’insicurezza genera instabilità. 

Nella sua prima intervista da quando il 13 febbraio 2021 prese la guida di un governo d’emergenza su indicazione di Sergio Mattarella , il premier cerca di fare un bilancio e di indicare gli obiettivi dei prossimi mesi, fino al termine della legislatura. Perché il «governo va avanti» fino in fondo se riesce a fare le cose che servono al Paese. «In un’azione che tranquillizza l’Italia, che non crea ansia», è la frase che ripete spesso durante la conversazione. E la tranquillità, secondo Draghi, può arrivare da un bilancio in tre punti: «Stiamo superando la pandemia; sul fronte internazionale, l’Italia è tornata a pesare come è giusto che sia: sosteniamo l’Ucraina, lavoriamo per la pace; sul piano economico usciamo da un anno in cui abbiamo avuto una crescita del prodotto interno lordo del 6,6%. C’è ora un rallentamento, dovuto alla guerra . Il compito del governo è quello di sostenere lavoratori e imprese e rendere l’Italia più moderna, vivibile, giusta». 

Il suo governo è nato per fronteggiare la pandemia. Vaccini e ripresa economica i due compiti su cui unire una larga maggioranza dalla Lega alla sinistra. Poi la guerra è tornata nel cuore dell’Europa. Si aspettava una scelta così dirompente da parte di Putin?

«Ho sperato fino all’ultimo che non lo facesse. Ci siamo telefonati con il presidente Putin prima dell’inizio della guerra: ci siamo lasciati con l’intesa che ci saremmo risentiti. Alcune settimane dopo però Putin ha lanciato l’offensiva. Ho provato fino alla fine a parlargli. Detto questo, l’invasione non mi ha sorpreso: quasi 200 mila uomini in pieno assetto da guerra erano stati portati al confine dell’Ucraina. C’erano inoltre i precedenti di quello che l’Unione Sovietica aveva fatto in Polonia, in Ungheria, in Cecoslovacchia. Ricordo che si parlava nella mia famiglia delle atrocità commesse a Budapest nel 1956. Finora l’obiettivo di Putin non è stato la ricerca della pace, ma il tentativo di annientare la resistenza ucraina, occupare il Paese e affidarlo a un governo amico. Noi resteremo accanto ai nostri amici ucraini: la riapertura della nostra ambasciata a Kiev è una buona notizia. Ieri ho sentito il nostro ambasciatore Zazo per felicitarmi direttamente con lui». 

Il piano di Putin al momento non è andato in porto...

«Come tanti altri, all’inizio del conflitto ritenevo probabile una rapida vittoria dei russi, che avrebbe messo a rischio anche gli Stati vicini. Questo non è accaduto: la vittoria non è arrivata e non sappiamo se mai arriverà. La resistenza ucraina è eroica. Come dice il presidente Zelensky, il popolo è diventato l’esercito dell’Ucraina. Quello che ci aspetta è una guerra di resistenza, una violenza prolungata con distruzioni che continueranno. Non c’è alcun segnale che il popolo ucraino possa accettare l’occupazione russa». 

Europa, Stati Uniti e Paesi occidentali sono sempre più impegnati nel sostegno a Kiev. Svezia e Finlandia chiedono di entrare rapidamente nella Nato. Non c’è il rischio di escalation?

«La linea di tutti gli alleati resta quella di evitare un coinvolgimento diretto dell’Europa nella guerra. Uno dei punti fermi di questo conflitto è l’affermazione da parte di tutti i leader della Nato, a cominciare dal presidente degli Stati Uniti Biden, che non vi sarà un coinvolgimento diretto dell’Alleanza. Comprendo le ragioni che spingono Svezia e Finlandia a pensare di entrare nella Nato ».

Quanto è condizionato il governo dagli esponenti della maggioranza che tendono a giustificare Putin con l’allargamento della Nato e le colpe dell’Occidente nelle guerre passate?

«Non c’è stato alcun condizionamento. Tutte le decisioni cruciali sono state prese con vastissimo consenso parlamentare. Fin dal primo dibattito sulla guerra, alcuni parlamentari hanno cercato di rimproverare ad altri le antiche amicizie e mi è stato chiesto di dire cosa ne pensassi. Io ho replicato: questo non è il momento di rimproverarsi le simpatie e gli affari di un tempo. È il momento di stare tutti insieme. E continuo a ripeterlo. Tra l’altro, questo è un dibattito che appassiona soprattutto alcuni politici. Non mi sembra che tra la maggior parte dei cittadini ci sia ora voglia di fare processi al passato». 

Alcuni nel Movimento 5 Stelle e molti italiani fanno fatica ad accettare il bisogno di armare l’Ucraina .

«La decisione di inviare le armi è stata presa quasi all’unanimità in Parlamento. I termini della questione sono chiari: da una parte c’è un popolo che è stato aggredito, dall’altra parte c’è un esercito aggressore. Qual è il modo migliore per aiutare il popolo aggredito? Le sanzioni sono essenziali per indebolire l’aggressore, ma non riescono a fermare le truppe nel breve periodo. Per farlo, bisogna aiutare direttamente gli ucraini, ed è quello che stiamo facendo. Non farlo equivarrebbe a dire loro: arrendetevi, accettate schiavitù e sottomissione — un messaggio contrario ai nostri valori europei di solidarietà. Invece vogliamo permettere agli ucraini di difendersi. Il tema delle armi è serio e non lo sottovaluto: coinvolge scelte etiche personali. La decisione non può dunque essere presa con leggerezza, ma i termini sono quelli che ho appena descritto». 

Il presidente americano Biden sta usando toni durissimi verso Putin, in Europa si avverte che molti leader non li condividono. È anche lei preoccupato?

«Come vogliamo chiamare l’orrore di Bucha se non crimini di guerra? Ma capisco che termini come “genocidio” o “crimini di guerra” hanno un significato giuridico preciso. Ci sarà modo e tempo per verificare quali parole meglio si confacciano agli atti disumani dell’esercito russo. Ciò detto, dobbiamo riconoscere che nei mesi scorsi, prima e durante l’invasione, l’intelligence americana aveva le informazioni che si sono rivelate più accurate». 

Lei ha parlato con Putin pochi giorni fa. Impossibile convincerlo a fermarsi?

«Nella telefonata gli ho detto che lo chiamavo per parlare di pace. Gli ho chiesto: “Quando vi vedete con Zelensky? Solo voi due potete sciogliere i nodi”. Mi ha risposto: “I tempi non sono maturi”. Ho insistito: “Decidete un cessate il fuoco”. Ancora “No: i tempi non sono maturi”. Dopo di che mi ha spiegato tutto sul pagamento del gas in rubli, che allora non era ancora stato introdotto. Ci siamo salutati con l’impegno di risentirci entro pochi giorni. Poi è arrivato l’orrore di Bucha. Comincio a pensare che abbiano ragione coloro che dicono: è inutile che gli parliate, si perde solo tempo. Io ho sempre difeso Macron e continuo a sostenere che come presidente di turno della Ue faccia bene a tentare ogni possibile strada di dialogo. Ma ho l’impressione che l’orrore della guerra con le sue carneficine, con quello che hanno fatto ai bambini e alle donne, sia completamente indipendente dalle parole e dalle telefonate che si fanno».

Sulle sanzioni al gas vinceranno, come in passato, i singoli interessi nazionali?

«Finora c’è stata grande unità in Europa e in Occidente, e questa è un’altra delle cose inattese: certamente Putin non si aspettava l’unità della Nato e dell’Unione Europea. Tra l’essere soddisfatti per la determinazione e l’unità che si sono mostrate finora e l’essere preoccupati per il futuro io penso che debba prevalere il primo aspetto. Guardando avanti, la proposta italiana di un tetto al prezzo del gas russo sta guadagnando consensi e sarà discussa al prossimo Consiglio europeo sulla base di un documento generale preparato dalla Commissione. L’Europa compra più di metà del gas esportato dalla Russia. Il potere di mercato che l’Unione Europea ha nei confronti di Mosca è un’arma da usare. Un tetto al prezzo del gas riduce il finanziamento che diamo ogni giorno alla Russia». 

Non c’è il rischio che le sanzioni facciano più danno a chi le ha imposte?

«La Commissione europea e tutti gli alleati sono convinti dell’efficacia delle sanzioni . I russi stessi lo ammettono quando dicono che non riescono più a pagare le obbligazioni in scadenza perché una parte significativa delle loro riserve valutarie sono congelate. Questo vuol dire che stanno andando verso la bancarotta. Ora ci stiamo chiedendo se dobbiamo fare di più: l’Europa continua a finanziare la Russia acquistando petrolio e gas, tra l’altro ad un prezzo che non ha alcuna relazione con valori storici e costi di produzione. Imporre un tetto al prezzo del gas russo, come proposto dall’Italia, è un modo per rafforzare le sanzioni e al tempo stesso minimizzare i costi per noi che le imponiamo. Non vogliamo più dipendere dal gas russo, perché la dipendenza economica non deve diventare sudditanza politica. Per farlo, bisogna diversificare le fonti di energia e trovare nuovi fornitori. Sono appena stato in Algeria dove l’Eni ha stretto un accordo per la fornitura di 9 miliardi di metri cubi di gas naturale in più — circa un terzo di quanti ne importiamo dalla Russia. Seguiranno altri Paesi. La diversificazione è possibile e attuabile in tempi relativamente brevi, più brevi di quanto immaginassimo solo un mese fa». 

Non dobbiamo preoccuparci per l’inverno e per il rischio di frenata della produzione industriale?

«Siamo ben posizionati. Abbiamo gas negli stoccaggi e avremo nuovo gas da altri fornitori. Se anche dovessero essere prese misure di contenimento, queste sarebbero miti. Stiamo parlando di una riduzione di 1-2 gradi delle temperature del riscaldamento e di variazioni analoghe per i condizionatori».  

Non sarebbe più facile far partire gli impianti bloccati dalla burocrazia e dai veti?

«Questo è fondamentale. Il governo ha già approvato norme per sbloccare gli investimenti nelle energie rinnovabili. Ne faremo altre a breve. L’obiettivo è assicurare la massima celerità negli investimenti nelle rinnovabili. Finora l’ostacolo è stato essenzialmente di tipo burocratico e autorizzativo. Non possiamo più permetterci questi veti». 

La sua frase sul dilemma tra pace e condizionatori le ha provocato molte risposte polemiche…

«Volevo mandare due messaggi che ritengo importanti. Il primo, simbolico: la pace vale dei sacrifici. Il secondo, più fattuale: il sacrificio, in questo caso, è contenuto, pari a qualche grado di temperatura in più o in meno. La pace è il valore più importante, indipendentemente dal sacrificio, ma in questo caso il sacrificio è anche piccolo». 

Riuscirete a intervenire ancora per abbassare il costo delle bollette?

«Abbiamo già speso 20 miliardi ed è nostra intenzione fare di più per proteggere imprese e cittadini, soprattutto i più vulnerabili . Il nostro obiettivo economico è preservare la crescita e l’occupazione. Non siamo in recessione, ma c’è un rallentamento nei primi due trimestri di quest’anno. Molto dipenderà dall’andamento della guerra, ma proprio per questo la determinazione del governo è massima. La ricerca di approvvigionamenti di gas e di altre fonti di energia oggi è come la campagna vaccinale l’anno scorso: saremo altrettanto determinati».

Il Covid-19 è la seconda grande emergenza ancora in corso. Siamo davvero sulla via d’uscita?

«Lo dicono i numeri. Le morti e le ospedalizzazioni si sono ridotte moltissimo, perché si è ridotta l’intensità dei sintomi. Allo stesso tempo, abbiamo riaperto le scuole, l’economia è ripartita, siamo tornati alla nostra socialità. Con questo virus è molto difficile fare previsioni, ma possiamo affermare con certezza che la campagna di vaccinazione è stata un grande successo: secondo un recente studio dell’Istituto superiore di sanità la campagna vaccinale, dal suo inizio a gennaio 2022, ha evitato circa 150 mila decessi — un numero enorme. Grazie all’impegno del personale medico, della Protezione civile, dell’Esercito, di tutti i cittadini siamo passati da essere uno dei Paesi più colpiti a un esempio virtuoso di ripresa. Inoltre, se ci dovesse essere un nuovo peggioramento, siamo molto più preparati che in passato — una preparazione che è culturale e sociale, oltre che degli ospedali e delle istituzioni. Le strutture che abbiamo creato durante l’emergenza rimangono in piedi e continueremo a investire nella sanità proprio per essere pronti a qualsiasi evenienza». 

La guerra ha un po’ oscurato la discussione sulla realizzazione del Piano di ripresa finanziato dall’Europa. A che punto siamo?

«Nel 2021 abbiamo realizzato tutti gli obiettivi previsti dal Pnrr . Pochi giorni fa sono arrivati i primi 21 miliardi, che si aggiungono ai quasi 25 che abbiamo ricevuto l’anno scorso. C’è stata una visita della Commissione europea sugli obiettivi di questo semestre e le sue conclusioni sono state positive. Ci sono alcune riforme che dobbiamo ancora realizzare: concorrenza, codice degli appalti, fisco e giustizia. Sul codice degli appalti, che è in commissione, mi pare che la strada sia spianata. Sarà poi il Consiglio di Stato a scrivere i decreti delegati in tempi molto rapidi — e anche questa è una buona notizia. Le altre riforme sono in Parlamento e sono ancora fiducioso che possano essere approvate tutte abbastanza rapidamente. Sulla giustizia c’è la promessa di non mettere la fiducia e vale ancora. Sulla concorrenza restano pochi nodi. Sul fisco, l’atmosfera con il centrodestra, nell’incontro che abbiamo avuto, mi è sembrata positiva. Il centrodestra voleva confermare il sostegno al governo e da parte del governo si voleva ribadire che c’è qualche margine di trattativa, anche se gli elementi caratterizzanti della riforma restano. Ovviamente qualsiasi modifica dovrà andare bene anche al centrosinistra». 

Nelle prossime settimane il Parlamento voterà la legge delega sul fisco e quella sulla giustizia. Reggerà la sua maggioranza?

«Sì, come ha dimostrato al Senato la scorsa settimana il voto sulla riforma della giustizia. Sono riforme necessarie e di buon senso. Le norme sulla concorrenza sono parte degli impegni presi con il Pnrr. Hanno lo scopo di rendere più semplice la vita dei cittadini e di abbassare i prezzi, per esempio di alcuni medicinali. La delega fiscale è uno strumento di lotta all’evasione e alle diseguaglianze e non aumenta le tasse — anzi, il contrario. La parte già attuata in legge di bilancio, con la revisione delle aliquote dell’Irpef, ha ridotto le tasse di circa 8 miliardi. Le norme sul catasto aggiornano valori degli immobili che riflettono i prezzi di molti decenni fa e faranno emergere tutti gli immobili abusivi. Come ho detto più volte, questi aggiornamenti non cambieranno le tasse sulla casa oggi pagate dai cittadini che le pagano». 

Le molte dissociazioni di Salvini, Conte, Renzi. I distinguo degli altri partiti. Questa strana maggioranza sembra una camicia di forza per i partiti.

«Sarà pure una camicia di forza, ma quello che abbiamo realizzato insieme è moltissimo. Penso sia meglio concentrare l’analisi politica su ciò che è stato fatto e ciò che occorrerà fare. Il mio messaggio ai partiti è questo: non sentitevi in una gabbia, progettate il futuro con ottimismo e fiducia non con antagonismo e avversità. Guardate ai successi che avete ottenuto in una situazione molto difficile. Ci sono tutte le ragioni per essere fiduciosi. Lo stesso incoraggiamento rivolgo anche a tutti gli italiani». 

Non teme che le continue fibrillazioni e le contrapposizioni possano portare al voto anticipato?

«Il governo è a disposizione delle forze politiche per consolidare l’unità nazionale, per fare ciò che è bene per le famiglie e per le imprese. Non serve preoccuparsi. L’occhio del governo è fisso su quello che c’è da fare, su tutto quello che può permettere a questa coalizione di raggiungere i suoi obiettivi». 

Sa che circola una voce insistente che lei non ne possa più, sia stanco delle liti nella maggioranza e possa dire addio?

«Non sono stanco e non ho alcuna intenzione del genere. Ho però l’intenzione di governare, affrontare le emergenze secondo il mandato che il presidente della Repubblica mi ha dato lo scorso febbraio. Questo è decisivo. Non bisogna governare per il potere fine a sé stesso. Tra l’altro, chi lo fa perde potere. Bisogna governare per fare le cose che servono all’Italia». 

Mi sembra che lei abbia stabilito con un buon rapporto con la leader dell’opposizione Giorgia Meloni, soprattutto nella vicenda della guerra?

«Un rapporto rispettoso, consapevole che in alcuni passaggi fondamentali l’opposizione si è schierata con il resto del Parlamento. Allo stesso tempo, sono anche consapevole delle diversità che ci sono e della franchezza che è necessaria sempre. La franchezza fa parte del rispetto». 

Dove si immagina il prossimo anno alla fine di questa esperienza?

«Non l’ho proprio immaginato, non è nel mio carattere». 

Continuano però a proporle molti ruoli...

«Come ho già detto quel giorno in conferenza stampa? È escluso. E poi ho aggiunto: “Chiaro?”». 

Quando era alla guida della Bce era più facile trovare il pulsante per risolvere un problema?

«No, il pulsante nemmeno lì si trovava facilmente. Anche in quel caso la situazione era molto complessa, e le decisioni erano comunque di un collettivo. Qui i fronti sono però di una varietà straordinaria e il numero delle sfide è maggiore. È tutto un altro lavoro, dove però l’esperienza che ho acquisito in passato aiuta tanto». 

Alla Banca centrale mancava completamente il rapporto con la gente, un rimprovero che si fa spesso ai supertecnici.

«Quando ho la possibilità di girare per l’Italia, e intendo continuare a farlo nei prossimi mesi, incontro tante persone che mi incoraggiano. Il rapporto con i cittadini è l’aspetto migliore di questo lavoro — è molto bello, confortante, affettuoso». 

All’inizio si diceva…

«Sì, che ero distante. Non so, ora ho la sensazione di esserlo meno e io stesso ne ricavo gran conforto». 

Dall’emergenza del Covid-19 alla guerra. Il momento più difficile di questi quindici mesi?

«L’inizio. La situazione alla fine di febbraio dello scorso anno era davvero preoccupante. Mi sosteneva la consapevolezza che se non fosse stato così non ci sarebbe stato di un governo di unità nazionale, guidato da un primo ministro esterno alla politica. Ma questo posto è per una persona scelta dagli italiani. Bisognerebbe che i presidenti del Consiglio fossero tutti eletti. Queste sono situazioni d’emergenza, è bene essere consapevoli che sono situazioni particolari». 

Le piacerebbe essere eletto?

«No. È estraneo alla mia formazione e alla mia esperienza. Ho molto rispetto per chi si impegna in politica e spero che molti giovani scelgano di farlo alle prossime elezioni, alle quali intendo tuttavia partecipare come ho sempre fatto: da semplice elettore».

Domenico Quirico per “la Stampa” il 12 aprile 2022.  

In un mese abbiamo visto e sentito tanto, troppo. Il fango e la crudeltà della guerra, migliaia di caduti, invano perché non si intravedono soluzioni, le torture e le bugie, a pioggia, a raffica, elementari e futuriste, di facile consumo e impenetrabili, una propaganda da circo. Abbiamo capito, con la vista resa forse più acuta dall'orrore, che per l'ennesima volta per il Potere l'uomo è solo un chiodino, una vite, un mezzo meccanico, universale e di facile uso, che per di più costa pochissimo. 

Sarà per questo che nascono i dubbi: più attaccaticci delle zanzare. I dubbi sull'attività funesta di quelli che un tempo si chiamavano guerrafondai, militaristi, falchi, i gradassi che cercano di trasformare anche le guerre necessarie per resistere ai prepotenti in esaltanti cavalcate delle walkirie, in soluzioni finali, in regolamenti di conti senza appello, in ordalie che possono diventare infinite. Quelli pericolosi tra loro sono i leader politici e i militari. Perché considerano ogni avvenimento, qualunque esso sia, come una occasione. Spesso, purtroppo, sono ben distribuiti nei due campi.

Per questo mi hanno colpito la immagini di una recente passeggiata, che ha sfiorato l'Assurdo, per le vie di Kiev; città appena svincolatasi, a caro prezzo, dall'essere trincea, prima linea. Ne senti il silenzio, Kiev sembra imbalsamata. 

I due passeggiatori: un individuo corpulento, evidentemente fuori forma, ma in elegante giacca e cravatta come per un consiglio di amministrazione o un appuntamento dal notaio, e un altro, asciutto, in abbigliamento militare, ma un po' "casual". Camminano di buon passo parlando fitto, il signore sovrappeso molto infervorato, gesticolante. Quello in mimetica sembra ascoltarlo con prudenza, quasi per educazione, leggermente perplesso.

Alle loro spalle una città disegnata da De Chirico, deserta, vagamente spettrale, dalle strade interminabili. 

Ha un bel brillare nell'eleganza dei suoi edifici neoclassici. Si sente l'oppressione e la fragilità dell'ora. Li seguono energumeni armati fino ai denti, al progredire della strana coppia si muovono come lucertole svegliate dall'avvicinarsi degli uomini. Puntano i fucili verso gli angoli come se dovesse spuntare ad ogni momento un carro armato o un manipolo di kamikaze; guizzano, spariscono, ricompaiono.

I due passeggiatori erano il premier inglese Boris Johnson e il presidente ucraino Zelensky. L'erede di un impero defunto, il leader di una isola che alimenta la economia facendo ponti d'oro agli oligarchi di tutti i continenti senza guardar troppo per il sottile, illustrava al leader che si difende con gran successo dall'aggressione russa, le meraviglie che si potevano estrarre dalla sua prossima donazione: un mastodontico carico di armi britanniche dell'ultima generazione, le armi non più per la resistenza eroica ma per la vittoria finale. 

Johnson fin dall'inizio del conflitto si è ritagliato una parte nel copione: essere sempre davanti a tutti nella coalizione occidentale, anzi distanziarla nel trincerismo. Quelli da cui ci tiene di più a distinguersi sono gli europei, i soliti tentennoni, i "sì ma" a cui John Bull deve dare come sempre la sveglia a pedate. Preferirebbe non averli di nuovo accanto questi relitti della Brexit, per marciare su Mosca nel ruolo di avanguardia della guerra totale gli bastano sul continente i fidi polacchi che han tirato fuori dal museo Pilsudski. E naturalmente gli americani.

Lui prepara il terreno agli americani come è tradizione del Regno Unito dalla crisi di Suez del 1956, ultimo rantolo imperiale e avvio dell'era meno scintillante di maggiordomo fidato dei cugini anglosassoni. Ufficio a cui si sono dedicati, per necessità si intende, anche altri leader britannici come Blair nella sciagurata guerra del Golfo. 

Qualche volta Johnson sembra sopravanzare nella ossessione della guerra a oltranza persino il ben più giustificato Zelensky. L'inglese parla solo di guerra, la vuole a ogni costo, grande, rumorosa, invadente, stravincente. Fermare l'invasore non gli basta. Esige entusiasmo, la vittoria con grida. Putin per il primo ministro è già isolato, cancellato dalla geopolitica del globo.

Un colpetto e...Zelensky invece ogni tanto fa riferimenti cauti ma giudiziosi e tenaci alla necessità di arrivare, prima o poi, ristabilita la situazione militare, a una discussione con Putin sul dopo. Parrebbe di scorgervi l'omeopatico tentativo di convincere i suoi clan, anche i più oltranzisti, quelli che, a questo punto, esigono niente di meno che la vittoria, sulla necessità di una coesistenza. 

Johnson sa di non poter essere, con il made in England così striminzito, il nuovo Churchill, come ambirebbe la sua vanità. Si contenta di metter la divisa addosso a un altro, a Zelensky, ne disegna le somiglianze con il leone britannico che fermò Hitler, gli chiede di ruggire, vuole essere il suo suggeritore e regista.

Johnson non è solo. È il capofila nello schieramento occidentale degli entusiasti della guerra, di quelli che intravedono la possibilità, constatato il marciume dell'esercito putiniano affondato nella fanghiglia ucraina, di marciare su Mosca. Per andare ad arrestare Putin e i gerarchi: una ripetizione europea della marcia su Baghdad nella seconda guerra del Golfo. 

Con annessa instaurazione di una democrazia da esportazione, e il processo ai criminali di guerra, organizzato, si spera, un po' meglio di quello sgangherato a Saddam Hussein. Il precedente indurrebbe ad esser cauti. Ma l'autentico nerbo motore di queste grandiose mobilitazioni belliche, il nucleo inamovibile, è sempre l'ambizione. Non il timore del pericolo preciso di cui si possono soppesare i rischi e le possibilità di frenarlo in altro modo. 

Fantasie a Downing street? Ci sono leader che hanno sempre più la febbre della guerra. È una malattia contagiosa. Ubriaca a poco a poco. Vogliono con il dogma dell'avanzata produrre credenze egemoni. Sopprimere il male. Con l'unico metodo che trionfando lo abolisce. Quaranta giorni fa dopo l'attacco di Putin, chi si illudeva che non esistesse la possibilità di sviluppi pericolosi? Ma ancor meno si pensava fossero così vasti e profondi. Forse Putin si proponeva di accendere un fuoco e invece ha suscitato un incendio. Ha creduto di risolvere una delle questioni e invece ha offerto agli altri la possibilità di tirar fuori e di risolverle tutte. Anche quella della sua ventennale presenza al potere. Era certo che il mondo si stesse abituando alla sua presenza, anzi non ne potesse fare a meno. Tutti si rivolgevano a lui, il diavolo. Una conferenza sugli equilibri del mondo senza il diavolo infatti perderebbe molto. Forse ha scoperto che il diavolo non è mai solo.

L’Italia è sempre stata atlantista. Fabrizio Cicchitto, Umberto Ranieri su Il Riformista il 12 Aprile 2022. 

Per Michele Prospero (Il Riformista del 9 aprile) Enrico Letta è prigioniero di una impostazione atlantista, fautore di una linea di inasprimento dello scontro tra Ucraina e Russia, il suo è il linguaggio del “segretario in pectore” della Nato più che del “leader del Pd partito chiamato alla sintesi dinamica dei diversi riformismi repubblicani”. Non basta. Enrico Letta, secondo Prospero, «recupera l’immaginario della guerra fredda, dimentica l’anima pacifista-irenica della Dc, mette in soffitta il Craxi di Sigonella, ignora la lezione di De Michelis». E tutto ciò lo fa per scegliere la tradizione di Andreatta e Spadolini, un duo di guerrafondai legati mani e piedi all’imperialismo americano. Questa, l’analisi raffinata di Prospero.

Poche osservazioni sui caratteri assunti dalla politica estera italiana nel corso del dopoguerra. Non mancarono velleitarismi destinati a scontrarsi con la durezza dei rapporti di forza sulla scena internazionale. Tuttavia l’ambizione nutrita da una parte del mondo politico ed economico italiano a marcare una maggiore autonomia della nostra politica estera e a condurre con una azione diplomatica più aperta il dialogo con il mondo arabo dell’area mediterranea e medio-orientale, non mise mai in discussione l’ancoraggio italiano all’atlantismo e all’europeismo che restarono i cardini della nostra politica estera da De Gasperi a Fanfani, da Aldo Moro ad Andreatta, da Saragat a Nenni, da Craxi a De Michelis. A proposito poi di “autonomia combattente fornita da Craxi” andrebbe ricordata la decisione cruciale compiuta a metà degli anni Ottanta dal suo governo. Nel 1983 senza tenere in alcun conto le proteste dei comunisti e dei pacifisti Craxi autorizzò la installazione dei missili americani Pershing e Cruise nelle basi italiane della Nato, installazione che Washington aveva voluto per far fronte alla schiacciante superiorità dei missili SS20 sovietici dislocati nell’Europa orientale.

Quella decisione del governo italiano rese possibile il dispiegamento dei missili anche in Germania, fronte estremo dell’Occidente negli anni della Guerra fredda. I sovietici avvertirono che l’equilibrio strategico stava cambiando a loro sfavore. Dopo poco più di un anno sarebbe giunto Gorbaciov. Torniamo alla questione di fondo: la posizione italiana sul conflitto tra Ucraina e Russia. Quella di Prospero è la posizione di coloro che da settimane contestano la scelta dell’Italia e degli Stati membri della Unione europea di inviare armi a Kiev per consentire agli ucraini di difendersi dall’aggressione russa, decisione che costituirebbe per costoro una “forzatura del dettato costituzionale”. L’articolo 51 dello Statuto delle Nazioni Unite richiama “il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite”. La legittima difesa è consentita fino a quando il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza. Il Consiglio, nel caso in questione, è bloccato dal veto della Russia, paese aggressore che riduce l’Onu all’impotenza. Per l’art. 11 della Costituzione l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.

Ma per l’art. 10 “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”, non è dubbio che tra quelle rientri la legittima difesa, norma consuetudinaria richiamata dagli articoli sopra citati. Insomma, la Costituzione non condanna chi resiste in armi all’aggressore esercitando il diritto alla difesa legittima. L’aggressore opera un abuso, l’aggredito esercita un diritto. E dunque il sostegno con l’invio di armi all’aggredito che ha dimostrato di essere in grado di esercitare il diritto di difendersi è consentito. Ricordiamo infine quanto scriveva Norberto Bobbio, un maestro di filosofia della pace: «Rimango convinto che non si possa e non si debba lasciare impunita una aggressione ad uno Stato sovrano….quando esiste una violazione del diritto internazionale e se la violazione è avvenuta con la forza è legittimo usare la forza… un punto deve restare ben fermo: rinunciare alla forza in certi casi non significa mettere la forza fuori gioco ma unicamente favorire la forza del prepotente».

Michele Prospero tuttavia non è d’accordo nemmeno con l’adozione di sanzioni: «Si rischierebbe con l’azzoppamento delle fonti della ricchezza russa anche la distruzione della economia europea». La “cura della follia strategica putiniana” dovrebbe avvenire secondo il lessico di Prospero svolgendo un “ruolo attivo di carattere politico”. Nel tentativo di attutire il carattere vago e indefinito di una tale formula Prospero al contrario ne accresce la vaghezza sostenendo che occorrerebbe “il coinvolgimento attivo dei grandi attori mondali”. In attesa che ciò accada né invio di armi né sanzioni. Se si inviano armi si intende radicalizzare lo scontro, se si adottano le sanzioni non si tiene conto degli interessi economici. Il voto a due piccoli autocrati quali Orban in Ungheria e Vucic in Serbia, putinisti della prima ora, in attesa del voto a Le Pen, confermerebbe la necessità di lasciar perdere le sanzioni. Andiamo al sodo. La linea sostenuta da Michele Prospero è quella che chiede la resa degli ucraini. Del tutto assente nel suo ragionamento un giudizio sulla politica della Russia di Putin, una riflessione sui rischi di natura geopolitica che si stanno palesando per l’Europa di fronte alla strategia imperialista di Putin.

Nel 2014, con la annessione della Crimea, tramonta l’idea che, stabilizzati i Balcani, l’Europa sia ormai pacificata e priva di minacce serie alla sua sicurezza. Si produce un mutamento nella situazione geopolitica europea di cui mancherà consapevolezza nella classe politica dirigente in Europa. Il prolungarsi della dipendenza energetica dalla Russia lo dimostra. Nell’ultimo decennio Mosca si è mossa in modo spregiudicato per ampliare la propria sfera di influenza, addirittura i propri confini territoriali. Non si era mai visto nel dopoguerra che, con l’uso della forza militare, uno Stato giungesse ad annettere il territorio di uno Stato vicino. Lo avevano tentato la Serbia di Milosevic e l’Iraq di Saddam Hussein e ricordiamo quanto pesantemente vennero sanzionati dalla Comunità internazionale. Sia l’Unione europea che gli Stati Uniti sottovalutarono la portata di quanto accaduto con l’occupazione e l’annessione della Crimea alla Russia. Poi venne Trump che considerava Putin un genio! Otto anni dopo l’Unione europea sarà colta di sorpresa dalla aggressione all’Ucraina.

La verità è che Mosca trovò difficile accettare fin dal 1991 una Ucraina indipendente. L’Ucraina, malgrado le sofferenze per la criminosa politica agraria staliniana che produsse una strage di contadini nelle campagne ucraine negli anni trenta, per la affinità etnica e culturale con la Russia avrebbe potuto mantenere con questa rapporti di buon vicinato se fosse stata rispettata la sua sovranità e integrità. Il pesante intervento russo con l’annessione della Crimea e il sostegno al separatismo nel Donbass, atti giuridicamente riprovevoli, inasprirono i rapporti tra Mosca e Kiev. Poi l’arbitrio irrazionale: l’Ucraina aggredita senza una giustificazione. Quando la prospettiva dell’ingresso della Ucraina nella Nato si era del tutto allontanata. Si dica la verità una buona volta: non c’è alcun rischio che la Nato attacchi la Russia. Probabile è che le idee e i valori democratici europei indeboliscano la presa di Putin sul potere. Il vero problema è la vulnerabilità della Russia di fronte alla contaminazione politica democratica.

Putin non ha paura della Nato, ha paura della democrazia. Come finirà l’avventura in cui Putin ha cacciato la Russia? Probabilmente l’avventura si risolverà in una brutale annessione di territori, produrrà una insanabile frattura tra due paesi slavi legati per secoli da complessi ma intensi rapporti. La macchia della guerra in Ucraina segnerà la politica e la vita della Russia a lungo. Un conflitto insensato condannerà la Russia all’isolamento, alla perdita di affidabilità e di prestigio. Prevarrà la strategia di avvicinamento e collaborazione con Pechino? Un accordo per sfidare l’Occidente e difendere il proprio regime. L’antiamericanismo e l’antioccidentalismo saranno le bandiere di una alleanza fondata sulla convinzione che “il pensiero liberale sia diventato obsoleto”? Prospettiva inquietante ma gravida di contraddizioni. Xi Jinping si allineerà a Putin sulla via dell’avventurismo? Grottesca la campagna orchestrata da Putin contro il “nichilismo liberale” dell’Occidente così come pura propaganda la denuncia di una presunta “russofobia” del mondo occidentale.

Stati Uniti ed Europa dovranno raccogliere la sfida rafforzando l’alleanza atlantica, portando avanti la costruzione dell’Europa come un soggetto politico, lavorando alla costruzione di un nuovo ordine internazionale più giusto ed equilibrato. Un ordine in cui una Russia che si emancipi dalla guida di un ex capo dello spionaggio, si liberi da un autocrate che mette in galera o ammazza chi intende sfidarlo politicamente, non potrà che avere un ruolo di protagonista. Questa la prova per l’Occidente. Un’ultima considerazione. E’ stata una manifestazione di viltà intellettuale sostenere che gli ucraini avrebbero fatto meglio ad arrendersi e il loro presidente Zelensky a darsi per vinto lasciando ai russi campo libero e la ricerca di un Quisling. Gli americani che, al contrario di quanto sostengono i pacifisti della domenica, si auguravano che la guerra terminasse rapidamente, avevano invitato Zelensky a tagliare la corda insieme ai suoi familiari.

Ciò ha voluto dire non aver compreso che il senso di identità nazionale ucraina è molto più forte dopo la indipendenza del 1991, che sono stati gli ucraini a resistere, a combattere, malgrado lo squilibrio delle forze in campo, contro i tanks russi. Non è retorica sostenere che hanno lottato e lottano per tutti gli europei. Forse a Mosca qualcuno avrà capito che è stata una avventura, un azzardo l’aggressione alla Ucraina, un grave errore strategico. Al negoziato che speriamo si apra al più presto giungerà una Ucraina consapevole della propria identità nazionale e dei propri diritti, che non intende lasciarsi russificare. Una Ucraina aperta a trovare la via del compromesso onorevole forte del fatto che non si è arresa alla prepotenza ma ha combattuto per il proprio avvenire. Un compromesso onorevole, certo, ma Putin lo vuole? Questo il vero problema.

Fabrizio Cicchitto, Umberto Ranieri

Andrea Marinelli e Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” l'8 aprile 2022.

Sembra ieri. Dal campo dicevano che agli ucraini restavano munizioni per appena una settimana e i russi avevano viveri per tre giorni. Calcoli avventurosi, notizie uscite dalla nebbia di guerra e rivelatesi infondate: non erano fake news, ma proiettili di propaganda. Dopo un mese, il tema dei rifornimenti è ancora al centro della strategia Nato, con posizioni non sempre uniformi.

I Paesi baltici, Londra e un'ala dell'amministrazione Usa si sono espressi in favore di equipaggiamenti pesanti, soprattutto tank e artiglieria. Francia, Turchia, Germania sono apparse più prudenti.

Le posizioni, però, fluttuano influenzate dalle notizie che arrivano dai fronti. Siamo partiti dalle armi «difensive» - che non esistono - per poi passare ai sistemi missilistici fino ad arrivare ai carri armati indispensabili ai «difensori» per tenere e avanzare. È stata la Slovacchia a mandare un «lotto» iniziale di carri T72 e blindo. Tuttavia non sappiamo ciò che non sappiamo, come disse l'ex segretario alla Difesa Donald Rumsfeld: il materiale potrebbe arrivare ma nessuno lo ammette. La Polonia è stata spesso indicata pronta a dare i propri carri.

Ci sono pezzi sufficienti per alimentare la resistenza? C'è chi ha avanzato dubbi, in particolare sui missili anti-aereo Stinger e perfino sui Javelin anti-carro. Il generale Mark Milley, capo di Stato Maggiore ha assicurato che le forniture non mettono a rischio le scorte e il responsabile della logistica, Doug Bush, aveva assicurato che la produzione andava avanti con grande ritmo. Infatti, sempre mercoledì, è stato annunciato un altro «pacchetto».

La Gran Bretagna sta considerando l'invio di blindati, Mastiff o Jackal. I turchi, a marzo, hanno venduto invece altri 16 droni Tb2, confermatisi efficaci. I bulgari, per ora, se lo sono cavata con 2.000 elmetti e altrettanti giubbotti anti-proiettile per assicurare «la protezione dei civili». Cipro, che ha apparati compatibili con quelli di Kiev, ha detto no ad un sollecito di Washington.

Ci vogliono fra i 4 e i 6 giorni per consegnare armi in Ucraina, ha confermato mercoledì il portavoce del Pentagono John Kirby. La filiera funziona come per l'e-commerce, ha spiegato su Npr Vince Castillo, ex addetto alla logistica dell'Us Army in Iraq, e si divide in primo miglio, miglio centrale e ultimo. Il primo è quello che va dal fornitore al produttore: in questo caso è l'esercito americano che «prende» nelle sue basi dislocate in tutta Europa (o in America) e trasferisce il tutto in Polonia, Romania o Slovacchia.

Questa tratta può essere lunga anche 1.000 chilometri. Da lì parte il miglio centrale, ovvero l'attraversamento del confine - generalmente via terra - per arrivare nelle città ucraine vicine alle zone di combattimento: in questo caso tutte le informazioni delle spedizioni restano riservate fin tanto che nessuno lo scopre. Questi convogli possono essere obiettivi facilmente identificabili dai russi, quindi vengono frazionati in spedizioni piccole. Per lo più si muovono di notte, quando non ci sono civili, magari in strade protette da soldati pronti a rispondere a minacce multiple.

L'ultimo miglio è il più complicato, porta al fronte: le spedizioni vengono divise in convogli ancora più piccoli che necessitano di ulteriore protezione, e ci si affida all'intelligence per capire cosa spedire e in quale area. Infine c'è la distribuzione alle singole unità, dell'esercito e della Territoriale.

Per la prima volta, il segretario alla Difesa Lloyd Austin ha ammesso martedì in un'audizione alla Camera che il Pentagono addestra soldati sul territorio americano, per insegnare loro a usare lo Switchblade, il drone-kamikaze. Gli Stati Uniti hanno sempre negato di essere attivamente impegnati nell'addestramento della resistenza: l'unica informazione pubblica, finora, era il programma di addestramento che la Cia ha portato avanti in Ucraina dal 2015 fino all'invasione russa, evacuando poi - almeno ufficialmente - tutto il personale americano.

Durante il viaggio in Polonia di fine marzo, però, Joe Biden aveva commesso una gaffe lasciando intendere che i soldati della 82nd Airborne di stanza nel Paese stessero per andare in Ucraina. 

«Stiamo parlando di aiutare nell'addestramento di truppe ucraine che si trovano in Polonia», aveva detto ai giornalisti che gli chiedevano conto di quell'affermazione. Poteva essersi sbagliato di nuovo, oppure aver involontariamente rivelato l'attività. Ora la nuova indicazione sul team presente in terra statunitense. Per il portavoce Kirby «un militare può imparare a usare il drone in due giorni». Il programma di addestramento è cominciato in autunno ed è tuttora in corso in una non meglio identificata - per motivi di sicurezza - base americana nel Sud degli Stati Uniti. 

Mario Draghi come Benito Mussolini: a L'Aria che Tira il paragone choc. Giorgio Cremaschi: ipocrisia e terza guerra mondiale. Giada Oricchio su Il Tempo l'08 aprile 2022.

“Così ci portano alla terza guerra mondiale”. E’ questo il timore e al tempo stesso l’allarme di Giorgio Cremaschi. In collegamento con l’Aria che Tira, il programma del mattino di LA7, venerdì 8 aprile, l’esponente di Potere al Popolo si è associato alla condanna per le atrocità di Bucha e Irpin definite “orrori e crimini di guerra per i quali gli autori dovranno essere processati”. Ma, c’è un ma. Cremaschi, infatti, ha precisato: “Ci deve essere una condizione per arrivare alle condanne cioè la pace. I crimini di guerra seguono i crimini di guerra, la discussione di fondo è su come si arriva alla pace, per impedire che muoiano altri civili in questa sporca guerra”.

Come il filosofo Massimo Cacciari, anche Cremaschi etichetta le parole in conferenza stampa del presidente del Consiglio, Mario Draghi (“preferiamo la pace o i condizionatori accesi?”) come “orribili, riecheggiano il burro e i cannoni di Benito Mussolini” senza che alcuno stia lavorando veramente alla pace, a mettere insieme Russia e Ucraina. Myrta Merlino lo ha contraddetto decisa: “Il negoziato c’era, Volodymyr Zelensky aveva aperto su Crimea e Donbass, ma ha visto Vladimir Putin sedersi al tavolo? Non c’è mai stato un cessate il fuoco o un corridoio umanitario non violato. E’ vero che crimine chiama crimine da entrambe le parti, ma le nuove forniture di armi sono arrivate dopo Bucha”.

Secondo Cremaschi i negoziati devono essere favoriti da Paesi terzi o dall’Unione Europea che invece segue a ruota gli Stati Uniti d'America: “In questo mese di guerra la Russia non ha perso consensi, anzi li ha conquistati. C’è la rappresentazione di due blocchi e ci portano alla terza guerra mondiale. C’è un’ipocrisia di chi ci sta portando alla terza guerra mondiale senza dircelo. Se non si ferma l’escalation lì arriviamo e dell’Ucraina non si ricorderà più nessuno”.

Estratto dell’articolo di Francesca Sforza per “la Stampa” l'8 aprile 2022.

«Indecenti le sanzioni? Indecenti sono soltanto i massacri che vediamo ogni giorno». Mario Draghi ha risposto con durezza alle accuse rivolte ieri all'Italia dalla portavoce del ministero degli esteri russo Maria Zakharova, che ha definito, per l'appunto, «indecente» la posizione dell'Italia nei confronti delle sanzioni, «dopo la solidarietà mostrata da Mosca in occasione della pandemia».

Le affermazioni di Zakharova si inquadrano in una giornata in cui il Cremlino è passato alla controffensiva mediatica, mandando avanti le sue voci più riconoscibili, in un incastro di messaggi che merita di venire analizzato. 

Mentre la Zakharova attaccava l'Italia (…) il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha rilasciato un'intervista video a Mark Austin di Sky News, la prima con un media occidentale.

«Stiamo vivendo giorni di "fakes and lies", falsi e bugie - ha detto in linea con quanto già detto dalla stessa Zakharova - Neghiamo con fermezza che le truppe russe abbiano qualcosa a che fare con le atrocità commesse e con quei corpi che sono stati mostrati nelle strade di Bucha». (…) «È stato un atto volto ad alleviare la tensione da quelle regioni e dimostrare che la Russia è davvero pronta a creare condizioni favorevoli per continuare i negoziati».

E di negoziati ha parlato ieri in un commento video anche il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, con l'intenzione evidentemente di spostare il fuoco dallo scenario dei massacri a quello dei tavoli di trattativa (operazione comprensibile, ma certo di difficile digestione in questi giorni).  Secondo Lavrov il problema, al solito, sono gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali, «che stanno spingendo la leadership ucraina a continuare le ostilità».

(…) A cercare una soluzione realistica, di nuovo, sono scesi in campo i turchi, che ieri si sono mossi sia con i russi, sia con altri attori internazionali. In serata c'è stato un incontro tra i due ministri della difesa, il turco Akar e il russo Shoigu, dove Akar ha manifestato l'importanza di raggiungere urgentemente un cessate il fuoco per aiutare i civili e facilitare una soluzione diplomatica (finché si spara non si tratta, è una regola che vale per tutti). (...)

Estratto dell’articolo di Anna Zafesova per “la Stampa” l'8 aprile 2022.  

«Ho ucciso un ciclista». La frase, buttata con indifferenza da un soldato russo ai suoi commilitoni, è stata pronunciata in una località imprecisata a nord di Kiev, e chi l'ha sentita, in registrazione, dice che è stata pronunciata con la disinvoltura di chi comunica qualcosa di ordinario, quotidiano, normale.

Il servizio di spionaggio estero tedesco, Bnd (Bundesnachrichtendienst), ha fatto ascoltare ad alcuni parlamentari della Germania le intercettazioni delle comunicazioni tra i militari russi nei territori occupati intorno a Kiev. Gli esperti dell'intelligence di Berlino hanno anche analizzato le conversazioni intercettate, localizzando i luoghi menzionati e i riferimenti fatti: pensavano che il riferimento al ciclista ucciso corrispondesse all'uomo con la bici color smeraldo colpito in via Yablonskaya di Bucha, una foto che ha fatto il giro del mondo.

Ma un'indagine più approfondita ha dimostrato che queste conversazioni si sono svolte in un'altra cittadina della regione a nord della capitale ucraina, confermando così quello che già si sapeva e si temeva: Bucha non è stata un'eccezione, una combinazione unica di fattori, è stata la manifestazione di una regola. 

(…) Era un metodo. «Prima interroga i soldati, poi sparagli», sono le istruzioni fornite da un comandante ai suoi sottoposti che gli riferivano di aver catturato degli ucraini. Una tecnica confermata anche da Roman Svitan, ex pilota dell'aviazione ucraina catturato e gambizzato dai russi nel Donbass nel 2014: «Si tratta di tattiche normali dei corpi speciali russi dell'esercito e dello spionaggio militare, Gru», ha raccontato alla giornalista russa in esilio Yulia Latynina.

Le fonti di Spiegel parlano di omicidi dei civili come «elemento standard dell'azione militare russa», ma anche il canale televisivo dell'esercito russo Zvezda parla senza remore di «zachistke», pulizie, rastrellamenti dei villaggi con cattura, tortura e uccisioni soprattutto degli uomini, sospettati di essere partigiani o collaborazionisti. 

(…) L'intelligence tedesca conferma che a Bucha e dintorni hanno avuto un ruolo particolare i Wagner, i contractor che la Russia ha già usato in Siria e Libia, e forse anche gruppi di ceceni. Anche la popolazione locale ha riferito ai giornalisti che le violenze sono diventate più atroci con l'uscita da Bucha dei «soldati giovani» e l'arrivo di reparti professionisti, incaricati di reprimere qualunque resistenza e terrorizzare gli abitanti.

Una «messinscena» e una «provocazione», insistono contro ogni evidenza le autorità di Mosca, che invece chiedono indagini sul filmato in cui si vedono i militari ucraini (per la precisione, la «legione georgiana» dei volontari dal Caucaso) giustiziare dei militari russi, che chiamano «orchi» e «mostri». Il New York Times ha verificato il video come autentico, e il consigliere della presidenza ucraina Mikhailo Podolyak, uno dei negoziatori con la Russia, non ha negato la responsabilità, promettendo un'indagine: «L'escalation dell'odio sta portando anche a violare le regole della guerra, puniremo i responsabili». 

Niccolò Carratelli per “la Stampa” l'8 aprile 2022.

«L'Italia è a fianco dell'Ucraina», ha ripetuto più volte il premier Mario Draghi. Di certo lo è il governo, al netto dei mal di pancia di Matteo Salvini. Ma, a quanto pare, non lo sono tutti i cittadini. Secondo l'ultimo monitoraggio del "sentiment" della nostra opinione pubblica curato da Ipsos, solo sei italiani su dieci (57%) dicono apertamente di stare con l'Ucraina, mentre c'è un 5% che non si fa problemi ad ammettere di parteggiare per la Russia. In mezzo troviamo un 38% di intervistati che non prende posizione, scegliendo l'equidistanza tra gli aggressori e gli aggrediti: «Esiste la percezione che i filorussi siano molti di più», spiegano i ricercatori dell'Ipsos. Non tutti hanno voglia di dichiararsi ammiratori di Putin, ma lo lasciano intendere.

Un italiano su tre, ad esempio, sostiene che Mosca abbia ragione a sentirsi minacciata dall'allargamento della Nato, anche se quasi tutti ritengono comunque ingiustificata l'invasione dell'Ucraina, a parte un 6% completamente allineato sulle mosse del Cremlino.

Numeri finiti sul tavolo del segretario del Partito democratico, Enrico Letta, che non nasconde la preoccupazione per la fotografia che ne emerge.

In un quadro di questo tipo, non sorprende che solo la metà del campione si dica favorevole a mantenere le sanzioni nei confronti della Russia, anche a fronte di un aumento dei prezzi: un terzo (32%) è, invece, poco o per niente d'accordo, un'opinione in crescita rispetto alle prime settimane di guerra.

La volontà che prevale è quella di cercare di restarne fuori, il più possibile. Metà degli italiani (48%) preferirebbe evitare qualsiasi coinvolgimento nel conflitto, astenendosi anche dall'inviare armi all'Ucraina, un'azione sostenuta solo dal 29% degli intervistati. 

Se per uno su quattro (28%) il governo fa bene a insistere con le sanzioni, c'è una percentuale analoga che chiede di scegliere la neutralità: il nostro Paese dovrebbe ritirare le sanzioni e proporsi come mediatore, anche a costo di creare contrasti con gli Stati Uniti e gli alleati europei. A proposito, sul fronte diplomatico è la Francia di Macron a emergere come l'attore internazionale che più sta contribuendo alla ricerca di una soluzione al conflitto. Seguita dalla stessa Unione europea, dal Vaticano e da Israele.

L'avvio dei negoziati ha ridotto i timori di un allargamento della guerra su scala globale: per oltre il 50% resterà una questione tra Russia e Ucraina o, al massimo, si estenderà ad altri Paesi dell'Est Europa. Allo stesso modo, per il 45% è poco o per niente probabile il ricorso ad armi nucleari. Tuttavia, l'85% degli italiani resta molto o abbastanza preoccupato delle conseguenze di questo conflitto. In particolare di quelle economiche, sia per la propria famiglia che per il Paese in generale: rincari di beni e servizi, rischi per i risparmi, peggioramento dei conti pubblici, rallentamento dell'export e della produzione industriale.

Ma è in aumento, fino al 30%, anche il timore di un coinvolgimento diretto dell'Italia nelle operazioni militari. Decisiva, poi, per farsi un'opinione circostanziata, è l'offerta di informazione garantita dai media italiani, che solo tre intervistati su dieci giudicano neutrale e oggettiva. Per il 37% del campione, invece, è troppo sbilanciata a favore dell'Ucraina e del presidente Zelensky. In generale, il 28% si considera poco o per nulla informato, confuso rispetto allo scenario bellico, mentre il 42% si ritiene informato solo in parte.

Un terzo degli italiani ritiene che le nostre aziende debbano prendere una posizione pubblica sul conflitto, mentre un 43% auspica che restino distanti e neutrali, per evitare di compromettere gli affari. La maggioranza (58%), comunque, sostiene che le aziende dovrebbero partecipare alle sanzioni nei confronti della Russia, ritirando i loro prodotti dal mercato di Mosca e chiudendo eventuali fabbriche ed uffici. Ma c'è anche un 40% che ritiene giusto non penalizzare i cittadini russi, assicurando loro i prodotti cui sono abituati. Per quanto riguarda le azioni a sostegno dell'Ucraina, per l'85% degli intervistati le aziende dovrebbero innanzitutto inviare aiuti materiali ai profughi, mentre il 72% vorrebbe che arrivassero a donare parte dei loro ricavi a beneficio di chi è scappato dalla guerra.

Amato: «L’Italia può fare la guerra, lo dice la Carta». Il presidente della Corte Costituzionale interviene sulla questione nel corso della relazione annuale sull'attività della Consulta. E precisa: l’articolo 78 lascia la decisione al Parlamento. Il Dubbio l'8 aprile 2022.

L’invio di armi all’esercito ucraino viola gli articoli 11 e 52 della nostra Costituzione come hanno scritto alcuni nei giorni scorsi? Il presidente della Consulta Giuliano Amato, che ieri è intervenuto sulla questione presentando la relazione annuale sulle attività della Corte Costituzionale, ha spiegato che non è così, che l’aiuto militare alla resistenza di Kiev non è per nulla un atto illegale o illegittimo. E lo ha fatto in punta di diritto, citando l’articolo 78 della Costituzione che conferisce a Camera e Senato la decisione di un nostro impegno militare.

«Vale più l’articolo 11 o l’articolo 52 della Costituzione? Valgono entrambi gli articoli. Però c’è un terzo articolo che va ricordato, l’articolo 78 il quale evidenzia che Parlamento delibera lo stato di guerra e conferisce al governo i poteri necessari, ciò implica inesorabilmente che l’Italia possa trovarsi in guerra». Amato precisa che quindi non esiste nessuna contraddizione nella linea scelta dal governo italiano di supporto attivo all’esercito ucraino e prova allo stesso tempo a mettere fine alle polemiche sulla presunta violazione della Carta da parte dell’esecutivo guidato da Mario Draghi.

«Questo risponde al dibattito che c’è stato nelle scorse settimane: se il ripudio della guerra sia assoluto o se la guerra difensiva sia consentita o meno dalla nostra Costituzione. Mettendo insieme i tre articoli si ottiene la risposta alla domanda». Rispondendo alla questione se l’Italia possa partecipare alla guerra di un paese aggredito. In tal senso Amato non sembra nutrire molti dubbi e prova a fare chiarezza chiamando in causa altri trattati internazionali di cui il nostro paese è firmatario: «Ci tengo a sottolineare che se all’Italia non fosse consentito per Costituzione di partecipare alla difesa di paesi terzi sarebbero illegittimi sia l’articolo 5 del Trattato della Nato sia, e non lo ricorda mai nessuno e mi dispiace, anche l’articolo 42 del trattato sull’Unione europea che dice che qualora uno stato membro subisce pressione sul suo territorio, gli altri stati membri sono tenuti a prestare aiuto e attuare assistenza con tutti i mezzi in loro possesso e in conformità all’articolo 51 della Carta dell’Onu che considera come diritto naturale l’autotutela a difendersi da un attacco armato».

Il presidente della Consulta è poi intervenuto su un’eventuale incriminazione di Vladimir Putin e della sua cerchia per crimini di guerra e contro l’umanità in merito ai massacri nella città di Bucha, alle esecuzioni di civili e alle fosse comuni, orrori documentati da centinaia di testimonianze. Anche in questo caso la partecipazione attiva dell’Italia a un’azione penale nei confronti del presidente russo rientrerebbe nelle prerogative costituzionali. «Non è certo la nostra Costituzione a creare ostacoli. Gli ostacoli sono altri. Ad esempio la Russia non ha ratificato il trattato, mentre i primi a non volerne saperne sono stati proprio gli Usa, negli anni in cui avevano i marine in missione in vari paesi del mondo e temevano accuse. Neanche l’Ucraina lo ha fatto, ma ha accettato lo statuto e quindi rientra in questa giurisdizione».

Amato è poi entrato nei dettagli giuridici su una possibile istruttoria della Corte penale dell’Aja, ricordando quanto sia difficile vincolare gli stati sovrani a norme sovranazionali, e al contempo omaggiando l’impegno del segretario e fondatore del partito radicale Marco Pannella, probabilmente il più grande fautore in Italia dell’istituzione di un tribunale che giudicasse le atrocità delle guerre: «La situazione è tale che una istruttoria può essere avviata soprattutto perché le prove si trovano in Ucraina che ha accettato lo statuto della Corte. E poi si vedrà quello che succede. Mi sono occupato a lungo del tribunale internazionale per i crimini di guerra, creato nel 1998 -puntualizza ancora il presidente della Consulta – Lo debbo al mio rapporto con Marco Pannella, che mi spinse ad occuparmene in un tempo in cui l’unico che se ne interessava era lui. Ma il mondo, nonostante le Nazioni Unite, è ancora nelle mani delle sovranità nazionali. Quindi la giurisdizione del tribunale internazionale sarà effettiva solo nei confronti degli stati che la accetteranno. L’aspirazione a trasformare in legge il fatto che chiunque abbia commesso un crimine venga processato non è universale».

L'invio di armi in Ucraina. “Amato sbaglia, secondo Costituzione non possiamo inviare armi all’Ucraina”, intervista al professor Gaetano Azzariti. Angela Nocioni su Il Riformista il 9 Aprile 2022. 

Il professor Gaetano Azzariti è titolare della cattedra di diritto costituzionale alla Sapienza di Roma. Gli chiediamo: L’articolo 11 della Costituzione è violato o non è violato dall’invio di armi all’esercito ucraino?

L’articolo 11 della Costituzione parla d’altro, parla di pace, non parla di guerra. È invocato invano per quanto riguarda l’invio delle armi perché prescrive la pace. Si tratta eventualmente di capire se, e a me non sembra, la questione possa riguardare altri articoli – l’art 10, l’art 52, l’art 87, l’art 78 e l’art 60 – che cercano di regolare il rapporto tra pace e guerra. La Costituzione certo non legittima l’invio delle armi. Impone il ripudio della guerra.

Non legittimandolo, lo vieta?

In gioco non c’è proprio l’articolo 11. La Costituzione impone il ripudio della guerra. Bisogna ragionare sull’insieme delle disposizioni costituzionali. Nella parte dei princìpi fondamentali affermano il ripudio della guerra. Neppure l’articolo 52 è a favore della guerra perché legittima solo la guerra di difesa del nostro territorio. Non lo si può considerare un articolo che consente una legittimazione dell’invio delle armi. Qualcuno ha anche evocato il fatto che nella nostra Costituzione è il Parlamento che può dichiarare la guerra, ma – a parte che la guerra non è stata dichiarata – anche la dichiarazione di guerra e i poteri necessari da dare al governo sono tutti strumenti di difesa del nostro territorio. Quindi non c’è nessuna disposizione costituzionale che in qualche modo obbliga alla difesa di patrie altrui. L’imposizione viene in caso da vincoli internazionali. Le vere disposizioni in gioco oggi sono le disposizioni legate all’Onu e legate alla Nato. Si tratta di chiedersi se gli obblighi Nato si possono porre al di sopra delle disposizioni costituzionali. A mio parere no.

Non ci sono disposizioni costituzionali a imporre la difesa di patrie altrui. Ma il fatto che non la impongono ci interessa relativamente, il punto è: la impediscono?

La Costituzione non lo prevede. È il vincolo internazionale che è in gioco, la Costituzione non prevede invio di armi.

Il presidente della Consulta, Giuliano Amato, dice: esiste l’articolo 78, evidenzia che il Parlamento delibera lo stato di guerra e conferisce al governo i poteri necessari. Ciò implica inesorabilmente che l’Italia possa trovarsi in guerra.

Entra inesorabilmente in guerra, ove fossimo aggrediti. Ove fossimo aggrediti, certo. Gli impegni che abbiamo assunto, e ci hanno portato più volte nella nostra storia a inviare anche i nostri militari in situazioni di guerra, sono state determinate da vincoli internazionali, essenzialmente dal vincolo Nato che noi abbiamo. La Costituzione non prevedeva nulla di tutto questo anche perché nel ’48 le uniche guerre prese in considerazione erano guerre dirette, di aggressione o difesa, non guerre per conto terzi .

Dice Amato: se all’Italia non fosse consentito per Costituzione partecipare alla difesa di paesi terzi, sarebbero illegittimi sia l’articolo 5 del Trattato della Nato sia l’articolo 42 del trattato dell’Unione europea che prevede che gli altri stati membri sono tenuti a prestare aiuto con tutti i mezzi in loro possesso e in conformità all’articolo 51 della carta dell’Onu. Questa frase risolve il problema della legittimità del nostro invio di armi all’Ucraina, armi che servono a difendere l’Ucraina da un’aggressione russa compiuta non verso l’Italia ma verso l’Ucraina che al momento non è né nell’Unione europea né nella Nato?

L’Ucraina non fa parte né della Nato, né dell’Unione europea, quindi l’art 5 della Nato non è evocabile, questo è il problema. Amato cita un articolo che tutela i membri Nato, ma oggi l’invio delle armi non è un obbligo internazionale dell’Italia legato a queste disposizioni, lo stesso articolo 51 dell’Onu legittima la resistenza in armi del popolo ucraino. Qui siamo in un’ipotesi diversa. Che ci sia un vincolo internazionale e un obbligo di inviare armi all’Ucraina credo che non possa sostenersi. Questa è una scelta politica assunta a livello europeo, da parte di tutti gli Stati membri, tant’è vero che la fonte di legittimazione della scelta italiana è stata la risoluzione della Camera in cui il Parlamento a grandissima maggioranza, non solo la maggioranza Draghi ma anche Fratelli di’Italia, ha delegato al governo gli strumenti di contrasto alla guerra. Alla luce di quella amplissima risoluzione il governo ha emanato due decreti legge, il 14 e il 16. Il Governo con decreto legge ha derogato alla normativa vigente.

La legge 185 del 1990 impone di non cedere armi a paesi belligeranti. Quindi c’era fino a ieri un divieto assoluto di invio di armi, non avremmo potuto inviare armi all’Ucraina. In più questo decreto ha fatto sostanzialmente sparire un ruolo di controllo del Parlamento perché ha delegato ai ministri competenti, esteri e difesa, tutte le attività riguardanti la cessione delle armi. Noi oggi in Italia a differenza di quel che accade in altri Paesi europei, non sappiamo, perché il Parlamento non lo sa, quanti e quali armi stiamo cedendo all’Ucraina. Io sono a disagio quando mi si chiede se è costituzionale o non è costituzionale l’invio di armi all’Ucraina. È una scelta politica certamente non dovuta e contraria alla lettera della Costituzione. È l’idea politica che la pace si fa con la guerra. Questo è il punto, un punto culturale più che costituzionale.

Ma è una scelta che con la Costituzione stride?

Non c’è dubbio. La Costituzione e anche la Carta dell’Onu, in combinato disposto, imporrebbero ai non belligeranti l’obbligo di far cessare la guerra. Io credo che ci sia solo un modo per dare seguito allo spirito pacifista della Costituzione, al ripudio della guerra e alla carta dell’Onu: indire una conferenza istituzionale di tutti gli Stati, come fu fatta ad Helsinky, per imporre la pace. Quel che a me non convince è che la trattativa di pace sia lasciata ai belligeranti. Come possono le trattative essere lasciate all’aggredito e all’aggressore? Andare in aiuto degli aggrediti vuol dire non lasciarli soli a trattare la pace o la resa. Di fronte a stragi di quel tipo noi pensiamo che loro possano trattare gli equilibri di pace? Questa è una follia, è la comunità internazionale che deve farsi carico della pace.

Una volta convertiti in legge i decreti, si potrebbe sollevare il problema di costituzionalità?

Sì, ma a babbo morto, quando ormai le armi le abbiamo cedute.

Se il presidente della Corte dice preventivamente che l’invio di armi è costituzionalmente impeccabile di fatto non inibisce la possibilità che venga sollevato il dubbio di costituzionalità?

No. Una dichiarazione del presidente della Corte non inibisce nessuno. Chi vorrà sollevare la questione di costituzionalità lo potrà fare. Il problema vero è che non verrà sollevato perché le armi ormai le abbiamo cedute. Probabilmente Amato ha fatto quest’affermazione proprio perché crede che non ci sarà materia del contendere. Se la guerra dovesse procedere e dovesse procedere questa cosa terribile del cedere le armi, in teoria si potrebbe arrivare alla Corte. Dopo la legge di conversione se qualcuno dovesse ritenere che è incostituzionale la legge di deroga lo potrà fare, ma il problema è che passano nove mesi. Le cessioni saranno state effettuate. Il percorso per arrivare alla Corte è troppo lento.

Se il Parlamento non può sapere che tipo di armi stiamo vendendo non può sapere nemmeno a chi arrivano, non può chiedere nelle mani di chi finiscono.

Qui più che un problema di costituzionalità c’è un problema di gravissima debolezza e confusione dei soggetti politici. Qui c’è il Parlamento che si sta suicidando, che rinuncia al suo ruolo. Non sto ponendo la questione in termini di illegittimità costituzionale. La questione è: come ci si deve ispirare alla Costituzione quando pensava a una guerra di tipo diverso? È l’articolo 78 che dice che è il Parlamento a dover concedere al governo i poteri necessari. In caso di guerra. E noi non siamo “in caso di guerra”. Dovendo ispirarci a questa disposizione, anche in caso di guerra dichiarata, di difesa, che evidentemente non è questa, la logica rimarrebbe la centralità del Parlamento. È il Parlamento a dotare di poteri altri il governo. Qui invece c’è un Parlamento che si spoglia dei suoi poteri. Questa è una risoluzione parlamentare. È il Parlamento che dice al governo: fai tu e io non voglio vedere. Questa è la cosa sconcertante. Angela Nocioni

“Stoltenberg alla Nato solo per curare interessi degli Usa”, intervista al generale Giuseppe Cucchi. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 9 Aprile 2022. 

“Stoltenberg? Cosa ci si può aspettare da un ventriloquo degli americani”. La perentoria affermazione non viene da un pacifista incallito ma da un uomo che ha trascorso buona parte della sua vita in divisa: il generale Giuseppe Cucchi. Generale della riserva dell’Esercito, già direttore del Centro militare di studi strategici, consigliere militare del presidente del Consiglio, rappresentante militare permanente dell’Italia presso Nato e Ue, consigliere scientifico di Limes. Una intervista “esplosiva”, la sua.

Generale Cucchi, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha affermato che la guerra in Ucraina potrebbe durare ancora a lungo, mesi, se non anni. Come interpreta questa uscita?

Le rispondo senza giri di parole. Stoltenberg è un segretario della Nato debolissimo, che è stato messo lì unicamente perché era prono ai voleri americani. E infatti, non solo l’hanno tenuto lì per un lungo periodo, ma gli han dato prima un rinnovo di due anni, poi hanno approfittato di questa occasione per dargli un ulteriore rinnovo di un anno. Quando parla Stoltenberg, è l’America che sta parlando, non è la Nato, in realtà.

Con l’uscita di cui sopra, Stoltenberg interpreta dunque un desiderata degli americani?

Esattamente. Anche perché fino al momento in cui noi non costruiremo un pilastro di difesa europeo che possa bilanciare il pilastro americano all’interno della Nato, le cose nella sostanza non cambieranno. Vede, la Nato ufficialmente è una struttura di parecchi Paesi che agiscono tutti a parità, in cui ognuno ha un diritto di veto. Ma tutto questo è solo sulla carta. Più o meno dall’anno 2000 in poi, la Nato si è trasformata profondamente. È diventata una specie di stella che ha gli americani al centro, dove ci sono solo dei rapporti bilaterali, oltretutto con ognuno di noi in concorrenza con tutti gli altri, per affermare che il mio rapporto bilaterale con gli americani è più forte del tuo. Sono gli americani che decidono sostanzialmente tutto all’interno di questa struttura.

In tanti, forse troppi, in queste settimane si sono avventurati nel definire che guerra sia quella che dal 24 febbraio è in corso in Ucraina. Lei che di guerre se n’intende, come la definirebbe quella in corso ad Est?

Come una guerra dispari. Una guerra che viene combattuta con sistemi e una mentalità di questo secolo dall’Ucraina e da noi, che siamo sia pur indirettamente già coinvolti fino al collo dietro l’Ucraina, e che viene combattuta con sistemi del secolo scorso dalla Russia. Ma sa, ognuno picchia il chiodo col “martello” che ha. Noi abbiamo un “martello” di un determinato tipo, estremamente tecnologico, supportato da una civiltà che dà un grande valore alla vita umana, al punto tale che diamo valore alla vita umana dei nostri soldati ma anche a quelli dei nostri nemici: cerchiamo di fare tra i nostri nemici, in ogni azione, meno morti possibile, il minor danno possibile. Dall’altra parte no. Dall’altra parte c’è l’idea che se non si riesce con le buone, diciamo così, poi parte il rullo compressore e non importa quante perdite abbiamo, non importa che cosa succede, tanto una guerra è comunque una cosa atroce, e prima o poi finisce sempre così da tutte le parti. È una guerra dispari in questo senso. Spaventosamente dispari in cui qualsiasi atrocità diventa possibile, come è già successo.

C’è una domanda che tutti si fanno da quando è iniziata l’invasione dell’Ucraina: qual è il vero obiettivo di Putin?

L’obiettivo è duplice, e poi credo che ce ne sia anche un terzo che non viene mai dichiarato ma che ormai diventa sempre più chiaro all’orizzonte.

Andiamo con ordine…

Il primo obiettivo è quello di amputare l’Ucraina di tutte le zone a maggioranza russa, e tagliarla fuori dal mare, completamente. Il secondo obiettivo è quello d’instaurare in quello che rimane dell’Ucraina, un governo fantoccio, guidato da un Quisling del posto, obbediente a quelli che possono essere i voleri della Russia. Ma questo è un obiettivo a cui, una volta sistemato bene il primo, Putin potrebbe anche rinunciare. Poi c’è un terzo discorso, importantissimo…

Vale a dire, generale Cucchi?

Putin, da persona intelligente qual è, ha individuato il fatto che questo conflitto ha accelerato la fine del potere degli Stati Uniti-Europa, quello, per dirla altrimenti, dei secoli dell’uomo bianco. Lui li ha fatti finir prima. Per cui dopo la guerra, noi ci troveremo con un mondo diviso in due, che vedrà noi Europa, gli Stati Uniti, l’Australia, la Nuova Zelanda e qualche altro raro Paese schierato dalla parte nostra, mentre tutto il resto sarà con la Cina, con l’India…Tenga poi presente un’altra cosa: noi andiamo incontro ad un periodo di terribili crisi in tutto il mondo arabo, ad esempio, in tutto il Maghreb e in Africa. La Russia ha ancora la capacità di “sfamare”. L’Ucraina non ce l’ha più. Quanto all’Europa, non ce l’ha ormai da cinquant’anni, da quando l’agricoltura europea è stata messa nelle condizioni, negative, di non poter più esportare cereali.

È la geopolitica dei cereali…

Non meno importante di quella del gas. La Tunisia il 45% dei cereali l’importa dalla Russia. L’Egitto credo che ne importi il 70%. Hanno un’arma di pressione che è fortissima verso tutto il cosiddetto Terzo mondo. Se il Terzo mondo vuole evitare la fame, deve schierarsi con la Russia. Anche se non si schiera ufficialmente, come l’Eritrea o come ha fatto la Corea del Nord, basta che si astenga. E l’astensione è qualcosa di molto chiaro. L’astensione è l’assenza di condanna. E allora si va verso un mondo di un tipo completamente differente, in cui la democrazia diventa un tesoro rarissimo da cercare disperatamente di difendere. E la si potrà difendere soltanto se si riesce a dimostrare che con la democrazia si ottengono risultati migliori di quelli che si ottengono con la democratura. Cosa molto difficile, visto come siamo messi.

Di Putin abbiamo detto. E Biden? Gli americani che obiettivi hanno?

Ne hanno uno che è fondamentale: tener sotto la Russia e non permetterle di riuscire a tornare sulla scena mondiale come un protagonista indiscusso. E poi c’è ancora dell’altro che ci riguarda direttamente come Europa…

A cosa si riferisce?

Della Russia ho detto. Ma se c’è qualcosa che gli americani temono, oltre la Cina, è il fatto che l’Unione Europea, che è complementare con la Russia, possa raggiungere con la Russia, in tempi di pace e in condizioni molto diverse, un accordo tale per cui l’insieme dei due diventa qualcosa di più forte addirittura della Cina, qualcosa che possa insidiare l’America first. Se lei guarda tutte le misure che vengono prese: l’embargo? Finisce che lo paghiamo noi, soprattutto Germania e Italia. I profughi? Noi ne prendiamo dei milioni, gli americani 80mila. E l’hanno venduto come un atto di somma generosità da parte loro. Ci vendono il gas liquido? Costa 5 volte il gas che compriamo dalla Russia. E non hanno intenzione di farci alcuna riduzione, anche perché questo rende le nostre industrie non più competitive con le loro. Gli americani uccidono due uccelli con una sola pietra. Facendo la guerra alla Russia, addomesticano l’Europa e le impediscono di crescere.

Da questo punto di vista, l’ipotetica difesa comune europea…

Intanto rinforzerebbe la Nato enormemente. Perché avere uno strumento comune significa potere utilizzare con maggiore efficacia i mezzi che noi abbiamo a disposizione. Che sono mezzi considerevoli. Se guardiamo ai bilanci, i bilanci riuniti dei Paesi dell’Unione Europea per la difesa, portano la spesa dell’UE per la difesa al secondo posto al mondo, più o meno in concorrenza con la Cina. Dal punto di vista finanziario, ci saremmo. Abbiamo una tecnologia che è pari o superiore a tutte le altre tecnologie del mondo. Il 90% del personale Nato già schierato in operazioni dell’Alleanza è europeo. È stato così, ad esempio, nella ex Jugoslavia. Non è stato così in Afghanistan, operazione in cui siamo stati tirati dentro in maniera surrettizia. O in quella dell’Iraq, in cui la gran parte dell’Europa non ha voluto partecipare, a parte gli inglesi che sono tutto un discorso differente, e che io non ho mai considerato europei. Un sistema di difesa comune europeo porterebbe a poter esprimere un parere con forza. E porterebbe ad avere il coraggio di gettare sul tavolo, quando è necessario, la “carta rossa”.

Di che carta si tratta, generale Cucchi?

La “carta rossa” è il dire “No”, metto il veto. In teoria qualsiasi Paese Nato ha il diritto di porre il veto a qualsiasi azione dell’Alleanza. Noi non abbiamo avuto il coraggio di farlo. E abbiamo finito col combattere due guerre contro noi stessi. La prima è stata la guerra del Kosovo, in cui ce la siamo presa con i serbi che per centinaia di anni erano stati nostri alleati per impedire che l’influenza tedesca nei Balcani scendesse al di sotto della Croazia. Noi e la Francia avevamo i serbi per fermare i tedeschi. Quella volta gli siamo saltati addosso, li abbiamo distrutti, e il risultato è che sono arrivati fino ad Ankara. L’altra guerra che abbiamo fatto contro di noi, è quando abbiamo partecipato a quella in Libia. Guardi quel che è successo dopo: abbiamo perso un’area d’influenza italiana, regalandola da un lato alla Turchia, gliel’abbiamo restituita, e dall’altro lato ai russi e agli egiziani.

Per ultimo. Il presidente dell’Ucraina, Zelensky, intervenendo all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, ha invocato una “Norimberga” con Putin sul banco degli imputati…

Zelensky gioca il suo ruolo, lo fa molto bene, da attore consumato com’è. Lui deve chiedere che Putin venga incriminato. Ma Putin è anche la persona con cui trattare la pace. Ci sono parole, giudizi, a volte insulti, che non possono essere utilizzati in un altro contesto, soprattutto da Paesi che avrebbero l’aspirazione di fungere da mediatori. Io sono rimasto inorridito quando il ministro degli Esteri italiano, sia pur indirettamente, in una risposta ha accettato che si qualificasse Putin come un cane rabbioso. Forse così ci si accredita agli occhi di Biden, ma non si favorisce certo una soluzione di pace.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Stoltenberg, prepararsi a lungo scontro con la Russia.

 (ANSA il 6 aprile 2022) - "Dobbiamo essere pronti ad un lungo confronto con la Russia, per questo dobbiamo mantenere le sanzioni e rafforzare la nostra difesa". Lo ha detto Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato, aprendo il Consiglio atlantico al livello dei ministri degli Esteri. 

Stoltenberg, all'Ucraina serve urgente aiuto militare.

(ANSA il 6 aprile 2022) - "L'Ucraina ha bisogno urgente di sostegno militare, sia armi pesanti che armi leggere. Ecco perché è necessario che gli alleati concordino su che aiuto fornire". Lo ha detto Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato, aprendo il consiglio atlantico al livello dei ministri degli Esteri. 

Stoltenberg, Bucha mostra la natura della guerra di Putin

(ANSA il 6 aprile 2022) - "Le atrocità di Bucha mostrano la vera natura della guerra di Putin. Uccidere i civili è un crimine di guerra e la Nato chiede che tutti i fatti siano stabiliti e i responsabili siano processati". Lo ha detto Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato, aprendo il consiglio atlantico al livello dei ministri degli Esteri. 

DAGONEWS il 6 aprile 2022.

Come mai in questa fase concitata di crisi internazionale ci ritroviamo al vertice della Nato l’acciuga lessa del norvegese Jens Stoltenberg? Per capirlo, bisogna ritornare alla fine di febbraio del 2014. 

Da principali finanziatori dell’alleanza atlantica gli Stati Uniti hanno sempre fatto valere la legge del famoso articolo quinto (chi ha i soldi ha vinto), ovvero di scegliere in autonomia il segretario generale della Nato, anche in barba alla consuetudine dell’alternanza tra paesi del Nord e del Sud.  

All’epoca, la congiuntura storica era favorevole all’Italia e avevamo l’opportunità di piazzare uno dei nostri. Il candidato di Enrico Letta, allora a Palazzo Chigi, era Franco Frattini, oggi presidente del Consiglio di Stato. Poi Letta finì rottamato dallo “stai sereno” di Renzi, il 14 febbraio rassegnò le sue dimissioni irrevocabili al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e a Palazzo Chigi arrivò Matteuccio da Rignano.

Nei giorni successivi Barack Obama alza la cornetta e chiama il neo-Presidente del Consiglio. In quel primo colloquio, dei molti che avranno nel corso degli anni, il “commander-in-chief” disse a Renzi di aver pensato all’ex primo ministro norvegese come successore di Rasmussen alla guida della NATO.

Matteuccio, che all’epoca parlava inglese con le mani, forse preso dall’entusiasmo di parlare con il suo idolo, forse imbarazzato per cotanta attenzione, riuscendo a decodificare vagamente quanto gli veniva proposto, balbettò un deferente “Ok, oh yes!” e trangugiò in blocco i desiderata di Washington. E il povero Frattini se la prese in saccoccia.

L'intreccio tra interventismo e lobby d'affari. Il militarismo occidentale nasconde interessi commerciali: il ruolo delle lobby dietro il bagno di sangue degli ucraini. Alberto Cisterna su Il Riformista il 3 Aprile 2022. 

La storiella del partito di Putin che inquina le acque della discussione sulla posizione dell’Italia nella guerra in Ucraina continua a circolare sui media come quei pettegolezzi che non si esauriscono sino a quando non abbiano compiuto tutto il loro ciclo vitale. A molti di quelli che si oppongono all’invio delle armi all’Ucraina, che ritengono la resistenza ucraina una sorta di «inutile carneficina», che sostengono che l’Occidente abbia responsabilità enormi nell’errore di valutazione compiuto sulle intenzioni del Cremlino, a tutti questi di Putin e delle sue sorti non interessa praticamente nulla. Si è creata, non certo in buona fede, una cortina invalicabile, una separazione che – secondo un modello classico della discussione politica del secolo scorso – non pone al centro le idee altrui, ma i retropensieri, la loro matrice, privando a monte l’interlocutore di una qualsiasi legittimazione. È un modo di procedere nel dibattito talmente scontato da destare meraviglia che funzioni ancora, se non fosse per l’aura bellicista che avvolge il paese che la rende pienamente giustificata ed efficiente per evitar di far di conto con la realtà. Si sa con i nemici non si dialoga di certo, si combatte e basta.

È un abbaglio non causale e che si muove sulla scorta di interessi e scopi non sempre legittimi o moralmente edificanti. La guerra sembra volgere verso un estenuante bagno di sangue dai tempi incerti. Persino Zelensky nota segni di stanchezza e di crescente distacco verso le cronache di guerra nelle pubbliche opinioni degli alleati. Per quanto sanguinolente e drammatiche siano immagini e racconti, le società occidentali metabolizzano ogni cosa e la guerra, prima o poi, finirà nei ritagli dei telegiornali e nelle pagine interne dei giornali. Purtroppo. Resteranno gli sconvolgimenti economici e finanziari che il conflitto avrà prodotto. Resteranno i lutti e i dolori e gli esiti di guerra ingiusta per il popolo ucraino. I più attendibili analisti valutano già oggi in centinaia di miliardi di euro il costo della ricostruzione dell’Ucraina, ci sono da gestire milioni di rifugiati che non potranno rientrare chissà per quanto tempo nel loro paese desertificato dai bombardamenti, ci sarà un dialogo da ricostruire in Europa dopo l’asprezza di questi tempi. Naturalmente nessun paese, neppure gli Stati uniti, può affrontare i costi della ricostruzione a Est. Né c’è da pensare a un altro recovery plan in favore dell’Ucraina; i soldi Bruxelles a stento li ha dati a noi, pensate se li presterà mai a un paese sfigurato e quasi fallito.

«Compra quando scorre il sangue nelle strade», era la perfetta sintesi del cinismo capitalista raccomandata da John D. Rockfeller (guarda caso un petroliere) e anche questa guerra consentirà vantaggi enormi cui potrebbero partecipare proprio i gruppi industriali che sostengono più fermamente, da dietro le quinte, i mastini della guerra dei salotti sedicenti atlantisti. L’industria bellica, le compagnie di combustibili fossili minacciati dalla conversione energetica – i petrolieri americani e mediorientali per intendersi – la lobby dell’industria pesante hanno sempre considerato la guerra e le ricostruzioni un’immancabile occasione per enormi profitti. L’autoesclusione della Russia, se dura, dal mercato del gas, del petrolio e dell’agricoltura di base lascia spazio ai suoi competitor che, a prezzi di molto più alti, sono pronti a incassare gli extraprofitti. Certamente, la critica sibila già alle orecchie: il solito pregiudizio anticapitalista; peccato però che l’argomento provenga dal presidente Biden che solo due giorni or sono ha attaccato i petrolieri americani per le loro speculazioni e dal ministro Cingolani non certo sospetto di pregiudizi antioccidentali.

Sulla guerra in Ucraina ci sono almeno tre diverse traiettorie di approccio: quella etico religiosa che trova la massima espressione nel papato di Roma; quella retorica che ha dalla sua il popolo dei cultori della resistenza ucraina di fronte all’invasore; quella politico-economica che guarda ai nuovi equilibri e cerca di ragionare sulle probabili conseguenze del conflitto. Per ognuna di queste prospettive sono possibili più opinioni e diverse convinzioni. A esempio, sicuramente si dovrà tornare sulle parole pronunciate dal cardinale Parolin a proposito della guerra giusta, totalmente disallineate dalla posizione del pontefice e per questo ridotto al silenzio da tempo. Per il momento valga la considerazione che i signori della guerra che alimentano, in questa fase, la tesi della (altrui) resistenza a oltranza e del supporto militare occidentale («aiutiamoli a casa loro») stanno, di fatto, agevolando un profondo e radicale riassetto non del potere russo, quanto delle stesse società occidentali e di quelle più fragili ed esposte come quella italiana. Può darsi che Putin ci rimetta le penne, ma questo non porterà alcuna sostanziale novità negli equilibri geopolitici di medio termine. Chiunque sia seduto al Cremlino o a Pechino è certo della fragilità atlantica dopo la fuga ingloriosa da Kabul, con un popolo abbandonato in mano a dei tagliagole, e pensa che ora gli occidentali vogliano solo rifarsi il trucco a spese di un popolo inerme.

Il nostro paese, piuttosto, rischia un’inflazione a due cifre, cose da anni 70 per capirci, e teme il conseguente default sul debito pubblico; vede il proprio approvvigionamento di materie prime reso radicalmente più oneroso, si accinge ad accompagnare definitivamente al collasso settori commerciali, turistici, manifatturieri già messi in ginocchio dalla crisi; scorge lo spettro di una recessione cattiva e socialmente discriminante. Senza considerare il disallineamento dagli obiettivi del Pnrr, ormai difficili da raggiungere se le cose vanno avanti in questo modo. Tutto avrebbe dovuto fare la fragile Italia fuorché allinearsi su posizioni bellicistiche e insensatamente guerrafondaie. Incrementare il bilancio del ministero della Difesa in questi giorni di fuoco e rendersi cobelligerante con l’Ucraina, fornendo per canali ufficiali le armi, sono scelte insensatamente contrarie all’interesse nazionale e della popolazione italiana che, infatti, in grande maggioranza è contraria a queste opzioni. La circostanza stupisce tutti i giorni il partito dell’elmetto che non si spiega come mai la resilienza pacifista della nazione non sia stata ancora piegata dall’urto mediatico di queste settimane.

Non si vuole ammettere semplicemente che la saggezza di un popolo che ha patito una guerra anche fratricida rende la scelta da fare del tutto chiara innanzi agli occhi dei più. Servizi di intelligence, ambasciate, analisti hanno – forse in buona fede – completamente errato nella valutazione delle decisioni di Putin, impedendo un’azione diplomatica che potesse evitare la guerra. Hanno reso ciechi i governi, ammesso che non ciechi non abbiano voluto essere: gli americani la chiamano willful blindness (la cecità colpevole). Magari si sarebbero adottate prima le sanzioni che – come lamenta il presidente Zelensky – sono oggi in gran parte sulla carta se si esclude lo spot pubblicitario di qualche yacht e di qualche appartamento. Evitare la guerra sarebbe stato il primo dovere dell’Occidente che, invece, ha preferito o scelto di cullarsi nella convinzione che nulla sarebbe successo. Poi ci sono quelli che hanno sperato che tutto succedesse e che il sangue scorresse per le strade per regolare i propri affari. Il nemico non solo è fuori dai confini della patria, ma opera alacremente anche al suo interno.

Alberto Cisterna

Guerra in Ucraina, Francesco Borgonovo svela le bugie dei politici agli italiani. Il Tempo il 29 marzo 2022.

Guerra in Ucraina, i politici italiani ci stanno raccontando un sacco di bugie. Non ha dubbi Francesco Borgonovo, vicedirettore de La Verità che martedì 29 è stato ospite di Fuori dal Coro su Rete4. Le ragioni per cui la guerra tra Russia e Ucraina sta andando avanti sarebbero da ricercare altrove. E nessuno sta dicendo la verità agli italiani. 

"I politici stanno raccontando agli italiani una serie di balle - dichiara Francesco Borgonovo, vicedirettore de La Verità - Stanno mettendo su un piano morale, di lotta per la libertà e per la democrazia una questione che in realtà è energetica, economica e ha a che fare con il gas liquefatto americano che ci vogliono vendere a un costo maggiore. Tutto questo serve a incartare i cittadini italiani e a dirgli guarda come siamo bravi noi che andiamo lì a combattere. E' un bel suppostone con un bel po' di vaselina intorno. Non è casuale che la Russia stia continuando a dare gas all'Ucraina. Al contrario quando anni fa ci fu la rivoluzione arancione i rubinetti del gas li chiusero perché in quel caso volevano trattare. A novembre hanno proposto di trattare ma gli è stata chiusa la porta in faccia da una parte degli americani.

Il direttore del Corriere Luciano Fontana racconta i motivi che ci hanno portato a creare uno speciale per aiutare i più giovani a comprendere ciò che sta succedendo in Ucraina. Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.

«Proprio nei periodi più drammatici, quando sono in gioco le nostre vita e la nostra libertà, che il valore dell’informazione diventa fondamentale». Non tutta l’informazione è uguale, sui social troviamo contenuti spesso superficiali, a volte completamente falsi. Il valore della correttezza è «da sempre nella storia del Corriere della Sera e nella sua identità». Così il direttore Luciano Fondana racconta i motivi che ci hanno portato a creare uno speciale che ha l’obiettivo di aiutare i più giovani a comprendere ciò che sta succedendo in Ucraina. Come si racconta la guerra in famiglia? Come la si spiega nelle scuole? Abbiamo provato a raccogliere gli strumenti più vicini al linguaggio dei ragazzi - video, podcast, “spiegoni” su Instagram - e a creare articoli pensati ad hoc, per illustrare la complessa storia che sta dietro a questo conflitto. Li trovate a questo indirizzo.

 In Onda, Federico Rampini: "Stanno lottando anche per noi", gli ucraini sul campo? Ecco cosa succede davvero. Libero Quotidiano il 27 marzo 2022.

Protagonista del dibattito a In Onda su La7 il ministro della Cultura ucraino Oleksandr Tkachenko. Che, sulla scia del presidente Volodymyr Zelensky, ha chiesto aiuto all'Occidente per combattere fino alla fine contro la Russia. "Chi vi ha aiutato di più?", gli ha chiesto a un certo punto Federico Rampini, anche lui ospite del talk, facendo riferimento agli ultimi vertici Nato ed europei. "L'Italia non è in prima linea per quanto riguarda la fornitura di armi, noi chiediamo armi per la difesa, che ci permetteranno di salvare la vita dei civili. Noi ne abbiamo bisogno".

Il ministro ha poi rivolto un appello accorato a tutto l'Occidente: "Perché voi avete paura di Putin se noi non ne abbiamo?". Parole che hanno fatto calare il silenzio nello studio per un attimo. Finito il collegamento con Tkachenko, David Parenzo ha chiesto un commento al suo ospite, il giornalista del Corriere della Sera, il quale ha detto: "In questo discorso ho notato un forte richiamo all'Occidente perché non tradisca i propri principi e i propri valori".

Rampini, poi, ha sottolineato un dettaglio da non trascurare: "L'idea degli ucraini è che loro stanno lottando anche per noi, per le nostre libertà, per una certa idea di Occidente". Questo stesso concetto in effetti è arrivato più volte da Kiev. Lo stesso Zelensky, parlando al Congresso americano qualche giorno fa, aveva detto: "Lottiamo per liberare il mondo".

Massimo Cacciari smaschera il Pd: "Obbediscono agli ordini di Joe Biden". Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

Massimo Cacciari ancora contro il Partito democratico. Il filosofo ai dem non le manda di certo a dire. In particolare quando di parla dell'aumento delle spese militari. Una crescita che peserà il 2 per cento del Pil. Tra i tifosi della misura proprio quel Pd, che secondo Caccairi "ha portato il cervello all'ammasso". In un'intervista ad Affaritaliani.it l'ex sindaco di Venezia spiega che quella di Enrico Letta è "la forza più atlantista e filo-americana del panorama politico italiano e ubbidisce agli ordini di Washington. Siamo di fronte all'eterogenesi dei fini. Questi vengono dal PCI, è la vendetta della storia. C'è anche viene dalla tradizione socialista e sappiamo bene quanto Bettino Craxi fosse autonomo in politica estera".

Non solo, "anche la sinistra della DC aveva posizioni molto particolari e chiare sulla crisi tra israeliani e palestinesi. Invece oggi il Pd è il partito più filo-Usa, sottoscrivono tutto quello che dicono in America immediately". Quando basta a Cacciari per perdere le staffe: "Tutto ciò è allucinante, totale perdita di memoria storica. Le forze che hanno dato vita al Pd dovrebbero dire 'abbiamo sbagliato tutto per tutta la nostra vita'. Ci siamo dimenticati l'Europa ponte tra Ovest e Est? Qui a prescindere si accetta tutto ciò che dicono a Washington".

Una stoccata a sorpresa quella del filosofo, soprattutto se si considera che - come da lui ammesso - "io non sono mai stato pacifista, so che all'Europa serve l'esercito e bisogna anche spendere soldi. Ma non buttarli via". Più chiaro di così.

Paolo Valentino per il “Corriere della Sera” il 28 marzo 2022.

È stata una «voce dal sen fuggita», quella di Joe Biden a proposito di Vladimir Putin che non può più rimanere al potere. Un'altra delle tante gaffe, che hanno costellato la carriera politica dell'attuale capo della Casa Bianca. Come quando nel 2009, alla cerimonia in cui Barack Obama firmò la legge sulla riforma sanitaria, l'allora vicepresidente, trascinato dall'entusiasmo, si lasciò scappare la frase: «Questo è un fottutissimo grande risultato».

Ma questa volta non c'è solo la tendenza incontrollata all'anarchia verbale, che da sempre caratterizza Joe Biden.

E per quanto da ventiquattrore gli «spin doctor» americani si affannino a spiegare che il presidente non intendeva invocare un «regime change» a Mosca, in realtà la frase con cui ha chiuso il discorso di Varsavia sembra piuttosto confermare cosa sperino in cuor loro Biden e la sua l'amministrazione. È una speranza realistica? 

Non per il momento, Putin è ancora molto solido, è la risposta che danno esperti e osservatori. Ma quali sono gli scenari possibili per un'eventuale uscita di scena dello Zar? Qui ne analizziamo tre, valutandone dinamiche e probabilità.

Per quanto possa sembrare paradossale in un Paese dove il potere del moderno Zar è quasi assoluto, la Russia è una Repubblica federale presidenziale, con una Costituzione che prevede perfino una procedura di impeachment. Gli articoli 92 e 93 della legge fondamentale russa prevedono infatti che il presidente possa essere rimosso per «alto tradimento o altro crimine grave». 

Dovrebbe essere la Duma, la Camera Bassa del parlamento, a iniziare la procedura, che poi andrebbe confermata e conclusa dalla Corte Suprema. Sarebbe infine il Consiglio della Federazione a decidere entro tre mesi se approvare la rimozione o respingerla. «Ma la Duma non lo farà, perché è sotto il pieno dominio di Putin», spiega Christopher Tremoglie, del Washington Examiner , esperto del sistema costituzionale russo.

Le cose però potrebbero cambiare, secondo lo studioso, se l'insoddisfazione popolare crescesse e alcune formazioni parlamentari decidessero di sfruttare il malcontento, trovando una sponda dentro lo stesso Cremlino.

Lo scenario del golpe di palazzo è scritto nella storia russa e sovietica. Dagli Zar a Krusciov, a Gorbaciov, quando la Russia entra in uno smutnoe vremya , un periodo dei torbidi, sono i boiardi che finiscono per sbarazzarsi del sovrano. Brian Taylor, docente alla Syracuse University, è convinto che «con la guerra e soprattutto con il suo andamento catastrofico, le possibilità di un golpe contro Putin siano aumentate». 

Ma la quadratura del cerchio è difficile. «Occorre il coordinamento dell'élite politica, dell'esercito e del Fsb, i servizi, che al momento non vedo», ha detto a Repubblica Mark Galeotti. In realtà, il controllo di Putin sui siloviki , gli uomini della forza, buona parte dei quali suoi compagni d'armi dai tempi di San Pietroburgo, è per il momento solido e a prova di tutto.

La fedeltà degli apparati di sicurezza non è in discussione: «Egli sarebbe in pericolo se le élite percepissero che non ha più l'appoggio dei servizi e allo stesso tempo si verificassero proteste di massa della popolazione scontenta», dice Abbas Gallyanov, un analista che ha fatto lo speechwriter per Putin e adesso lavora come consulente politico indipendente. E aggiunge: «Se lo vedessero abbastanza indebolito e si convincessero che possono farlo senza rischi, allora le élite potrebbero tradire Putin. Ma non è per domani».

Qualcuno evoca in proposito perfino lo scenario della «tabacchiera», quella con cui fu avvelenato lo Zar Paolo I, il figlio di Caterina la Grande: quando propose di attaccare le Indie britanniche insieme ai francesi, l'aristocrazia pensò che non fosse più sano di mente e fece scattare il tranello.

«In questi casi ci possono essere accelerazioni improvvise - ha spiegato il Premio Pulitzer Tom Friedman al nostro giornale -. Cifre prudenti dicono che almeno diecimila soldati russi sono stati uccisi. 

Dovranno pure restituirne le salme alle famiglie. Oppure non li riporteranno mai a casa, il che è anche peggio. Cosa succederebbe se fra dieci giorni, un mese centinaia di migliaia di persone scendessero in piazza e la polizia non riuscisse a contenerli?».

Lo scenario della strada che costringe il tiranno ad andarsene, modello Ucraina 2014, non è plausibile. Ma gli scricchiolii, nella forma di proteste diffuse e prese di posizioni contro la guerra, si sentono già ora e il proseguimento della campagna militare, combinato con il crescente peggioramento delle condizioni di vita potrebbero fare da catalizzatore. 

Dopotutto, ricorda l'economista Sergei Guriev, che lavorò nel team di Putin prima di andare in esilio a Parigi, citando un vecchio adagio russo, «alla fine il frigorifero batte il televisore». E il presidente russo, con i soldi per tenere contenta la popolazione sembra aver ormai esaurito anche gli altri filoni della raccolta del consenso.

E se lasciasse lui... Ammesso che Putin lasciasse di sua sponte, chi potrebbe prenderne il posto? La lista degli usual suspect è nota: il premier Michail Mishustin, il sindaco di Mosca Sergeij Sobjanin. E poi c'è il nome in pectore, quello di Alexeij Djumin, attuale governatore di Tula, ex capo della sicurezza di Putin, che lo considera più di un fedelissimo. Ma di lui parleremo un'altra volta.

Le opinioni di mister Joe. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 29 marzo 2022.

Joe Biden non ritratta e non chiede scusa. Continua a pensare che Putin sia un « macellaio» (e chi non lo pensa? Probabilmente anche Putin, che lo prenderà per un complimento). Ribadisce che lo ritiene «moralmente » di guidare una nazione civile, ma si premura di aggiungere che il suo disprezzo per Putin non influirà sulle relazioni diplomatiche perché «la mia è solo una opinione personale». Cioè, il presidente in carica degli Stati Uniti rivendica il diritto di dire la sua come un pensionato di Miami davanti alla tv. All’improvviso l’abito non fa più il monaco, ma è il monaco che fa a pezzi l’abito e si consegna in pigiama allo sguardo stupefatto del mondo. Come in una rissa tra scolaretti, il piccolo Joe disprezza il piccolo Vladimir e non intende fare finta di volergli bene mai più. Sarebbe forse un po’ troppo arzigogolato considerare la sortita di Biden una lucida provocazione per allungare il conflitto ucraino che sta logorando il suo avversario. Ma sarebbe anche troppo semplice ridurla a una gaffe o attribuirla a un allentamento dei freni inibitori. L’ipotesi più plausibile è che, proprio mentre il politicamente corretto pervade ogni aspetto della comunicazione, il linguaggio della politica si sia messo ad esaltare la schiettezza brutale in quanto testimonianza di sincerità. Ormai è tale il bisogno dei presidenti di essere anzitutto «sé stessi» che per trovarne uno che si comporti da Presidente bisogna rivolgersi agli attori. E non alludo a Will Smith.

"Declino cognitivo". Il giallo sul foglietto di Biden. Francesca Galici su Il Giornale il 29 marzo 2022.  

Nelle ultime settimane i leader di governo sono ancora di più sotto la lente di ingrandimento dell'opinione pubblica. A finire sempre più spesso nel mirino degli analisti è il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, che in una delle ultime conferenze stampa si è presentato davanti ai giornalisti con in mano un misterioso foglietto. Spinti dalla curiosità di capire cosa ci fosse di tanto importante in quel pezzo di carta che il presidente stringeva tra le mani, in molti hanno ingrandito l'immagine, scoprendo che quel foglietto non conteneva altro che le risposte alle domande concordate, come ha rivelato il sito Dagospia.

Si potrebbe aprire un ampio capitolo sul fatto che il presidente degli Stati Uniti, in un momento così delicato, si presenti in conferenza stampa per rispondere alle domande concordate. Qualcuno, però, potrebbe far notare che dopo la gaffe di Joe Biden con Vladimir Putin durante uno dei suoi interventi dalla Polonia, il suo entourage potrebbe aver preferito tutelare l'immagine del presidente ma anche i fragili equilibri diplomatici interni ed esterni. Durante la conferenza, infatti, Joe Biden ha guardato incessantemente quel foglietto mentre i giornalisti in sala gli ponevano domande sulla questione ucraina. Esemplificativo il momento in cui un giornalista in sala ha posto a Joe Biden la domanda sulla sua affermazione "Putin non può rimanere al potere". Anche in quel momento in presidente degli Stati Uniti ha controllato cosa ci fosse scritto nel pezzo di carta tra le sue mani.

Tutto questo lascia aperti molto interrogativi sull'effettiva capacità di Joe Biden di tenere le redini di un Paese come gli Stati Uniti, soprattutto in un momento storicamente complicato come questo. In tanti hanno notato questo particolare nel presidente degli Stati Uniti e si sono domandati se ci fossero altre necessità, oltre alla tutela diplomatica, per avere un foglio con su scritte le domande e le risposte di una conferenza stampa per lo più concordata. L'attacco più violento a Joe Biden è arrivato dal senatore repubblicano Rand Paul, che a seguito della conferenza stampa si è scatenato contro il presidente: "Come vedere qualcuno in declino cognitivo". Per il momento dalla Casa Bianca non vengono date risposte alle tante domande sul fatto, né vengono fatti commenti in merito.

Dottrina gaffe. Le incaute ma sincere parole di Biden cominciano a buttare giù il muro di Putin. Christian Rocca su L'Inkiesta il 28 Marzo 2022.

È molto probabile che al presidente americano sia scappata la frase sul dittatore russo che non può più stare al potere. I rischi sono evidenti e gli esiti imprevedibili, ma un’altra frase controversa pronunciata da un altro presidente americano, nel 1987 a Berlino, avviò invece la demolizione del totalitarismo sovietico. 

Da sempre Joe Biden è un gaffeur seriale, tanto che su questa sua maldestra ma sincera capacità di parlare fuori dagli schemi ingessati della politica professionale ci ha giocato spesso, fino a farla diventare non solo un marchio di fabbrica ma anche un modo per far passare messaggi che altrimenti avrebbe faticato a veicolare.

La frase di Biden secondo cui Putin, «santo Dio, non può più restare al potere», pronunciata a braccio in Polonia alla fine di un discorso ben sorvegliato, probabilmente gli è davvero scappata e non è la codificazione di una nuova dottrina favorevole al cambio di regime a Mosca, ma allo stesso tempo è la conseguenza diretta e veritiera delle parole pronunciate fino a quel momento non solo dal presidente americano, ma da tutti i leader occidentali, e dalle relative opinioni pubbliche, di fronte alle atrocità commesse dall’esercito russo in Ucraina.

Che sia stata una gaffe è pressoché certo, almeno così hanno provato a farla passare gli uomini di Biden. La Casa Bianca è corsa a contestualizzare la frase e il Segretario di Stato Antony Blinken ha precisato che «spetta al popolo russo» decidere chi governa a Mosca, pur elencando in un comunicato del Dipartimento di Stato tutti i crimini di guerra, definiti proprio così: «crimini di guerra», imputabili a Putin, segnando quindi un punto di non ritorno nel rapporto futuro tra la leadership russa e il resto del mondo. 

La preoccupazione generalizzata per la frase pronunciata da Biden si basa su due possibili conseguenze negative: la prima è che possa diventare un argomento propagandistico per la cosca del Cremlino in grado di mobilitare le masse russe; la seconda è che non lascia nessuna via d’uscita a Putin, con cui invece si sta provando a negoziare una pace (invero con risultati al momento inesistenti).

Insomma, dopo il discorso in Polonia, i critici di Biden sostengono sia aumentato il rischio di allargare il conflitto in Ucraina e sia diminuite le possibilità di un negoziato.

Ovviamente c’è anche chi, con qualche ragione, sostiene che quella frase in realtà sia ininfluente perché Putin è impegnato da anni con le sue fake news nell’opera di lavaggio del cervello dell’opinione pubblica non solo russa a proposito di un imminente attacco della Nato alla Russia, e certo non ha bisogno di una frase di Biden per alimentare la propaganda. Le immagini delle città ucraine rase al suolo e le posizioni ufficiali di tutti gli organismi multilaterali, poi, hanno già messo Putin ai margini del consesso civile, per cui il destino di Putin appare segnato anche senza la frase di Biden.

È anche possibile che una minaccia diretta come quella lanciata per caso da Biden possa invece aver colpito in pieno il bersaglio, visto che è stata rivolta a un despota che fino a un mese fa era convinto che gli ucraini lo avrebbero accolto con rose e fiori e che gli occidentali non avrebbero mai reagito con la veemenza che hanno dimostrato in questo mese. Far capire a Putin che il mondo libero in fondo non è così molle come credeva, al punto che ora invoca la sua rimozione, magari potrebbe convincerlo a ricalibrare l’offensiva.

Poi c’è un’altra teoria, quella secondo cui dire che Putin, «santo Dio, non può più restare al potere» è una gaffe che ricorda quella di un altro presidente americano, pronunciata il 12 giugno 1987 durante un discorso a Berlino davanti alla Porta di Brandeburgo.

In quell’occasione, mentre cinquantamila tedeschi occidentali protestavano per la presenza provocatoria del presidente americano, Ronald Reagan fece aggiungere al discorso una frase che il suo staff e il Dipartimento di Stato non avrebbero voluto che pronunciasse. Ci fu una gran discussione interna sull’opportunità di dire quella frase, ma alla fine quel suo «Mister Gorbachev, butti giù questo Muro» è diventato il simbolo della vittoria del mondo libero e l’avvio dello sbriciolamento del regime totalitario sovietico.

Oggi è impossibile immaginare se l’invocazione di Biden a buttare giù Putin dal Cremlino inasprirà la pulizia etnica dei russi in Ucraina o se, al contrario, sarà ricordata come l’inizio della fine della mafia putiniana.

Eppure è evidente che ci si senta più sicuri sotto l’ombrello di un presidente americano cui scappa di dire la verità incontrovertibile e inesorabile su un dittatore criminale, anziché sotto il predecessore che ammirava e ammira ancora oggi il suo pugno di ferro e gli deve in parte il successo elettorale del 2016 e chissà cos’altro.

Questo, infine, è il momento in cui va ricordato che lo stratega della campagna elettorale di Donald Trump, Paul Manafort, è stato condannato (e poi graziato da Trump) per aver occultato svariati milioni di dollari ricevuti dal giro di Viktor Janukovyč, il presidente fantoccio dei russi piazzato da Putin in Ucraina, cui Manafort aveva guidato tre diverse campagne elettorali fino a quando, con un voto unanime del Parlamento di Kiev, Janukovyč è stato cacciato a pedate nel sedere verso la grande madre Russia.

Guerra Ucraina, Biden a Varsavia insulta Putin: "È un macellaio". La reazione durissima del Cremlino, salta tutto. Il Tempo il 26 marzo 2022.

Vladimir Putin "è un macellaio". Joe Biden a Varsavia insulta lo zar mentre risponde alla domanda di un giornalista che gli chiede cosa pensi di Vladimir Putin. Il presidente americano parla durante l'incontro con i rifugiati ucraini a Varsavia in Polonia e non abbassa i toni ma li alza: dopo aver definito nei giorni scorsi Putin "criminale di guerra" e "dittatore assassino" torna all'attacco e lo chiama macellaio.

Poi Biden afferma - parlando del conflitto in Ucraina - di non essere sicuro che la Russia abbia cambiato strategia. Ieri il ministro della Difesa russo aveva affermato che l'obiettivo su cui si concentreranno le forze si Mosca è la "liberazione" del Donbass, suggerendo che l'attacco non sarebbe stato ulteriormente intensificato nelle altre aree del Paese. 

La reazione del Cremlino dopo la dichiarazione del presidente Usa non è tardata ad arrivare ed è stata durissima: "I nuovi insulti di Biden a Putin restringono ulteriormente la finestra di opportunità per ricucire i rapporti tra Russia e Stati Uniti – ha dichiarato il portavoce di Mosca Dmitry Peskov, citato dalla Tass – È strano sentire accuse contro Putin da Biden, che ha invitato a bombardare la Jugoslavia e uccidere le persone".

(ANSA il 27 marzo 2022) - I funzionari della Casa Bianca sono stati colti di sorpresa da Joe Biden: nel discorso pronunciato a Varsavia non c'era nessun riferimento al fatto che Vladimir Putin non potesse restare al potere. Il presidente americano lo ha detto a braccio.

Lo riporta il Washington Post citando alcune fonti. Non è comunque la prima volta che Biden decide di lanciare un messaggio autonomamente. Lo ha fatto nei giorni scorsi parlando di Putin come un criminale di guerra e lo ha fatto molte volte in passato.

JENA per “La Stampa” il 27 marzo 2022.

Parafrasando Vegezio "Se vuoi la pace, fai tacere Biden"

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2022.

Lo scatto arriva proprio all'ultima riga: «Per l'amore del cielo, questo uomo non può rimanere al potere». È la prima volta che Joe Biden lo dice apertamente: «Vladimir Putin deve lasciare la guida della Russia». Ed è anche l'unica vera e importante novità dell'atteso discorso di Varsavia.

Ma, pochi minuti dopo la conclusione, mentre praticamente tutti i siti dei giornali e le tv titolavano su questa frase, un consigliere della Casa Bianca faceva sapere al pool dei reporter: «Il presidente voleva dire che Putin non può esercitare il suo potere sui Paesi vicini o nella regione. Non stava mettendo in discussione il potere di Putin in Russia, né stava evocando la possibilità di un cambiamento di regime a Mosca».

È una spiegazione che non convince nessuno. L'ipotesi più probabile, invece, è che Biden abbia aggiunto spontaneamente l'esclamazione al testo preparato nei dettagli dal suo staff. Impossibile una verifica diretta, perché la copia originale non è stata distribuita prima dell'intervento. In ogni caso questo è il passaggio che è destinato a rimanere nella memoria.

E in fondo è la logica conclusione di un percorso che è logico ed emotivo nello stesso tempo. Qualche giorno fa Biden aveva definito il leader russo «un criminale di guerra». Ieri pomeriggio, dopo aver visitato un centro di accoglienza per i profughi ucraini insieme con il sindaco di Varsavia, ha commentato seccamente: «Putin è un macellaio».

La replica

Può un «criminale di guerra», un «macellaio» restare legittimamente al potere? A Washington, e non da ora, pensano di no. Putin, come era prevedibile, ha subito colto l'occasione per ribaltare sul presidente americano la responsabilità del conflitto. Ecco la nota del Cremlino: «I nuovi insulti di Biden restringono ulteriormente la finestra di opportunità per ricucire i rapporti tra Russia e Stati Uniti».

Nei prossimi giorni i portavoce dello Studio Ovale saranno chiamati a precisare e a cercare di recuperare il messaggio su cui era stato costruito lo «speech» che ha concluso il tour europeo del leader Usa. «Sarà un intervento di grande portata», aveva detto alla vigilia il Consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan.

Tutto preparato con cura, a cominciare dalla scelta: il Castello reale, nella città vecchia, lo scrigno dell'identità polacca, ricostruito dopo la Seconda Guerra mondiale e oggi «patrimonio dell'umanità» per l'Unesco. Biden comincia con quella che sarebbe dovuta essere la frase chiave della giornata: «Non abbiate paura», citazione tra le più note di Giovanni Paolo II. 

Era il 1978, l'anno in cui il papa polacco si presentò al mondo, cambiando anche la storia politica dell'Europa. Ecco qual era il senso originario del discorso: collocare la guerra dell'Ucraina nel percorso di lotte e sofferenze che sono finite con «la vittoria della democrazia» e con «il fallimento» del comunismo, della dittatura. Un tracciato iniziato anni prima, «in Ungheria e in Polonia nel 1956, poi in Cecoslovacchia nel 1968 e ancora in Polonia nel 1981, fino alla caduta del Muro nel 1989». 

«Non abbiate paura», ripete Biden, anche se «anche questa battaglia sarà lunga». Putin viene raffigurato come l'erede di fatto dell'Unione Sovietica, l'antica nemica della democrazia, della libertà. Segue un'altra citazione, l'immancabile Abraham Lincoln: «è il diritto la base del potere» (in inglese suona meglio: « Right makes might »). Per una decina di minuti Biden resta ad alta quota: «la missione storica di questa generazione è sconfiggere le autocrazie».

Tutti aspettano che atterri sulle questioni urgenti. Per esempio, Andriy Yermak, capo di gabinetto del presidente Volodymyr Zelensky, fa sapere: «Siamo delusi, ci aspettavamo più coraggio, decisioni più forti dai vertici della Nato e della Ue». Ma ora, qui a Varsavia, mentre è ormai buio e fa molto freddo, Biden conclude ripetendo concetti sentiti più volte negli ultimi giorni.

«Questa guerra è già un fallimento strategico per Putin. Voleva dividere l'Occidente e invece si ritrova con un'Alleanza atlantica che non è mai stata così unita e così determinata». «Putin non osi neanche pensare a occupare un centimetro del territorio Nato». «Voglio dire ai cittadini russi: non siete voi il nostro nemico». Sembra finita, con qualche emozione e nessuna novità di rilievo. Invece, pochi secondi prima di lasciare il palco, Biden ribalta tutto: Putin se ne deve andare.

(ANSA-AFP il 27 marzo 2022) -  Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto che "non utilizzerebbe" nei confronti di Vladimir Putin la definizione di "macellaio", usato per il presidente russo da quello americano Joe Biden. Macron ha aggiunto che non bisogna alimentare "una escalation né di parole né di azioni" in merito alla guerra in Ucraina.

Il presidente francese ha fatto sapere che "domani o dopodomani" parlerà al telefono con Putin per organizzare un'operazione di evacuazione di civili dalla città di Mariupol.

(askanews il 27 marzo 2022) – Gli Stati Uniti non ambiscono a un cambio di regime in Russia, ha detto oggi il segretario di Stato Antony Blinken dopo che il presidente Joe Biden ha spiegato ieri che il leader del Cremlino Vladimir Putin “non può rimanere al potere”.

“Penso che il presidente, la Casa Bianca, ieri sera abbia sottolineato che, semplicemente, al presidente Putin non può essere conferito il potere di fare una guerra o impegnarsi in un’aggressione contro l’Ucraina o chiunque altro”, ha detto Blinken durante una visita a Gerusalemme. “Come sapete, e come ci avete sentito dire ripetutamente, non abbiamo una strategia di cambio di regime in Russia o altrove”, ha insistito.

Biden e le parole anti-Putin. Anche l'Europa in imbarazzo. Macron: "Non le avrei dette". Valeria Robecco su Il Giornale il 28 marzo 2022.

Nove parole dette a braccio hanno scatenato un putiferio globale e rischiano di aggravare ulteriormente la situazione in Ucraina. «Per l'amor di Dio, quest'uomo non può rimanere al potere», ha affermato Joe Biden riferendosi a Vladimir Putin (dopo averlo definito un «macellaio») al termine del suo discorso a Varsavia, costringendo prima la Casa Bianca e poi il segretario di stato Usa Antony Blinken a una immediata marcia indietro per tentare di limitare i danni.

«Il punto del presidente era che a Putin non può essere concesso di esercitare potere sui vicini e sulla regione. Non stava parlando di Putin al potere in Russia o di un cambio di regime», ha spiegato subito un funzionario di Pennsylvania Avenue. E ieri il titolare di Foggy Bottom ha voluto ribadire che «come ci avete sentito dire ripetutamente, non abbiamo una strategia per un cambio di regime a Mosca». «Credo che il presidente e la Casa Bianca abbiano sottolineato semplicemente che Putin non può avere il potere di fare una guerra o impegnarsi in un'aggressione contro l'Ucraina o contro chiunque altro», ha sottolineato il capo della diplomazia americana nel corso della sua visita in Israele, affermando che la posizione del leader del Cremlino «in questo caso, come in ogni caso, dipende dal popolo russo». Il Washington Post, citando alcune fonti, ha fatto sapere che anche i funzionari della Casa Bianca sono stati colti di sorpresa da Biden, poiché nel discorso preparato per Biden a Varsavia non c'era nessun riferimento al fatto che il leader di Mosca non potesse restare al potere, ma il presidente Usa lo ha detto a braccio. Secondo Richard Haass, importante diplomatico americano già responsabile per la pianificazione della politica del Dipartimento di Stato, coordinatore per l'Afghanistan, e attualmente presidente del Council on Foreign Relations, le parole di Biden hanno reso «una situazione difficile più difficile, e una situazione pericolosa più pericolosa. Sostanzialmente scoraggia Putin da qualsiasi compromesso». Non sarà semplice «rimediare al danno provocato - ha precisato con la Bbc - ma suggerisco ai collaboratori del presidente di mettersi in contatto con le controparti e chiarire che gli Usa sono pronti a relazionarsi con il governo russo in carica».

Sul tema è intervenuta anche l'ambasciatrice americana alla Nato, Julianne Smith: a suo parere quella del Comandante in Capo è stata «una reazione umana dopo quello che aveva visto nel corso della giornata» incontrando i rifugiati ucraini, ma «gli Stati Uniti non hanno una politica di cambio di regime in Russia». Pure oltreoceano le parole del Comandate in Capo hanno suscitato diverse critiche. «Non ho sentito direttamente cosa ha detto Biden ma ho visto la posizione della Casa Bianca, come Ue non stiamo cercando un cambio di regime, spetta ai cittadini russi decidere se lo vogliono. Quello che vogliamo nel caso della Russia è impedire che l'aggressione continui e questo è il nostro obiettivo: fermare la guerra di Putin contro l'Ucraina», ha affermato l'Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell'Ue Josep Borrell. E il presidente francese Emmanuel Macron ha preso le distanze dal collega di Washington dicendo che «non utilizzerebbe» nei confronti di Putin la parola «macellaio» e che non bisogna alimentare «una escalation né di parole né di azioni» in merito alla guerra in Ucraina. E ha fatto sapere che oggi o domani parlerà al telefono con Putin per organizzare un'operazione di evacuazione di civili dalla città di Mariupol. Anche da Londra il segretario all'Istruzione, Nadhim Zahawi, ha spiegato che «sta al popolo russo decidere da chi essere governato», mentre la Turchia tramite il portavoce presidenziale Ibrahim Kalin ha detto che il dialogo con Mosca deve continuare per aiutare a porre fine al conflitto: «Se tutti bruciano i ponti con la Russia, chi parlerà con loro alla fine della giornata?».

In Italia, Matteo Renzi si è discostato indirettamente da Biden commentando «bravo Emmanuel Macron», e il leader di Azione Carlo Calenda ha twittato: «Mi pare che anche i più filo atlantici (come me) debbano ammettere che il modo in cui Biden parla della Russia è pericoloso e irresponsabile. Passa da una gaffe all'altra senza soluzione di continuità da prima dell'inizio del conflitto in Ucraina».

La parabola politica di Jake Sullivan. Francesca Salvatore su Inside Over il 28 marzo 2022.

Mentre il lavorio della diplomazia prosegue, sia in forma esplicita che sommersa, tra gli Stati Uniti e l’Europa splende sempre più la figura di Jake Sullivan, Consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Joe Biden. Il giovane advisor occupa un posto di prim’ordine nella macchina presidenziale, ruolo che fu occupato da personaggi del calibro di Henry Kissinger, Colin Powell e Condoleeza Rice: Sullivan è, ad oggi, il più giovane nel suo ruolo dagli anni Sessanta. Pur possedendo credenziali da diplomatico navigato, l’uscita rocambolesca dall’Afghanistan ha fatto vacillare la sua aura da enfant prodige a stelle e strisce: sono bastati pochi mesi, però, per tornare sulla cresta dell’onda a causa dello scoppio del conflitto in Ucraina. In queste settimane, infatti, è lui l’uomo di Washington che siede al tavolo con i cinesi, nonostante sia da sempre un falco dichiarato nei confronti di Pechino.

Chi è

Classe 1976, Sullivan è un prodotto di Yale con una breve parentesi post-laurea come avvocato e cancelliere. Ma è nel 2008 che avviene il suo debutto nella politica nazionale con il suo arruolamento nella campagna elettorale di Hillary Clinton, che lo vuole con sé per via dell’ottimo lavoro svolto presso l’ufficio della senatrice Amy Klobuchar come consulente politico senior. Pertanto, il giovane Sullivan diventa il giovane vicedirettore politico nella corsa alle primarie tra la ex first lady e l’outsider Barack Obama. Ed è proprio sul carrozzone di quest’ultimo che viene arruolato quando Clinton perde la corsa alle primarie: assieme alla grande squadra per le presidenziali 2008, Sullivan è uno degli uomini che tiene le fila, a soli 32 anni, di una campagna elettorale che resterà nella storia. Con Obama alla Casa Bianca, segue il destino di Hillary Clinton a Dipartimento di Stato. Riconquistata la Casa Bianca, l’allora Vicepresidente Biden lo nomina come Consigliere per la sicurezza nazionale personale succedendo a Anthony Blinken.

Quell’anno incoronava così quest’astro nascente delle relazioni estere americane: “Sullivan era il punto di contatto affidabile tra la Casa Bianca e il settimo piano [l’ufficio del Segretario di Stato presso il Truman Building a Washington N.d.R.] anche quando gli altri membri dello staff della Casa Bianca e dello Stato erano alla gola l’uno dell’altro”. Gli elogi in quei mesi si sprecavano, e in molti, nell’entourage democratico, erano pronti a scommettere di essere al cospetto di un futuro Presidente.

Il Jcpoa: la consacrazione

I risultati raggiunti nel sancta sanctorum della politica americana, fanno di Sullivan l’uomo del negoziato segreto con l’Iran che sfociò nel compianto Joint Comprehensive Plan of Action. L’accordo sul programma nucleare iraniano venne reso possibile da mesi di negoziati segreti tra funzionari statunitensi e iraniani, svoltisi contemporaneamente agli incontri ufficiali con le altre cinque potenze mondiali. Dal marzo 2013, Sullivan fu protagonista di almeno cinque incontri segreti, guidando un piccolo gruppo di funzionari statunitensi assieme al vicesegretario di Stato William Burns. Fu durante questo primo incontro ad alto livello in un luogo sicuro nella capitale dell’Oman, Mascate, che l’amministrazione Obama iniziò a gettare le basi per l’accordo nucleare. Inizialmente, l’obiettivo da parte di Sullivan era sondare se gli Stati Uniti e l’Iran potessero organizzare con successo un processo per il proseguimento dei colloqui bilaterali. Lo stesso canale dell’Oman era stato alimentato dal Segretario di Stato americano John Kerry, che, in qualità di presidente della Commissione per le relazioni estere del Senato degli Stati Uniti prima di assumere la carica di Segretario di Stato, fece un viaggio senza preavviso nello stato del Golfo per incontrare i funzionari dell’Oman.

Il 27 settembre 2013 il presidente Barack Obama avrebbe effettuato una telefonata storica al presidente iraniano, una conversazione che avrebbe dato il via alla fase pubblica dei colloqui sul nucleare tra due avversari di lunga data. Sullivan era l’uomo che “passò il numero di telefono” al presidente, dopo mesi di diplomazia segreta. Un goal anche per il suo ex mentore politico, Clinton, che per prima lo aveva assegnato a quel dossier.

Il disastro afgano

Dopo il successo iraniano Sullivan lascia i ruoli ufficiali per il suo primo amore, Yale. Nonostante ciò, continua a prendere parte ai colloqui sul nucleare, in via informale. Nell’aprile 2015, Clinton ingaggia nuovamente Sullivan come consulente politico senior: vuole il suo “analista dalla mente fredda” di sempre. Ma è Trump ad andare alla Casa Bianca. Dopo quattro anni, all’indomani della sua rocambolesca e tormentata elezione, Joe Biden riporta Sullivan nella Camelot presidenziale con il ruolo attuale. Ma nel giro di pochi mesi, come se la pandemia e l’eco di Capitol Hill non bastassero, arriva il pasticciato ritiro dall’Afganistan. Con una differenza: se Blinken era stato una presenza costante al fianco di Biden dal 2002, prima del 2020 Sullivan aveva lavorato per Biden per soli 18 mesi, sei anni prima.

La telefonata del 30 agosto al Segretario della Difesa Austin al fianco del presidente, al termine di due decenni di guerra, diventa l’unzione a closer man di Biden. L’investitura, tuttavia, si trasforma in un’arma a doppio taglio: è toccato a Sullivan, infatti, spiegare in interviste e conferenze stampa perché si stava fuggendo dall’Afghanistan e in quel modo. Quanto basta per finire sotto il fuoco incrociato dei detrattori e dell’opinione pubblica internazionale: sono in molti a chiedere la sua testa, anche fra i Dem. Il suo senior lo difende, confermandolo nel suo ruolo, dichiarando a destra e a manca che nessuno a Washington poteva prevedere che l’esercito afgano si sarebbe sciolto come neve al sole, lodando Sullivan per il coordinamento dell’evacuazione di 124.000 civili, il più grande ponte aereo civile nella storia degli Stati Uniti. Nonostante ciò, il giovane profeta del “credo che un mondo guidato dall’America sia un mondo in cui tutti finiscono per stare meglio” finisce nella polvere.

Sullivan goes to Rome

Ma dalla polvere all’altare -nuovamente-, il passo è breve. Del resto, come racconta Mark Leibovich dalle pagine del New York Times, l’America ha una passione innata per le “stelle cadute”, come questo good guy in grisaglia che suscita tra i suoi compatrioti un mix di empatia e schadenfreude. Sullivan, ormai quarantacinquenne, è l’uomo che dovrà compiere il miracolo con la Cina. Realista fin dall’inizio delle tensioni tra Ucraina e Russia, è stato profondamente convinto delle concrete possibilità che il conflitto avvenisse. Ora è a quest’uomo che tocca un ingrato doppio compito: il primo, non abbandonare l’aria da falco con Pechino. A Sullivan, convinto che la Cina fosse al corrente dei piani di Putin, è toccato ribadire ai cinesi che ci saranno gravi conseguenze per un eventuale supporto militare alla Russia o per l’aver offerto un’ancora di salvezza a Mosca dalle sanzioni economiche. Allo stesso tempo, però, è l’uomo che a Roma, il 14 marzo scorso, ha incontrato il suo omologo Yang Jiechi in un meeting durato ben sette ore. Così, sotto il sole della Caput Mundi, Sullivan viene riabilitato come giovane Kissinger che potrà sbloccare le acredini tra Stati Uniti e Cina, fiaccate dai toni di Anchorage. Di quell’incontro, ad oggi, si sa poco: se questo sia un buon segno o meno, solo le prossime settimane, o mesi, potranno dircelo. E mentre Pechino tace, su Sullivan pende un nuovo verdetto della storia.

L'escalation verbale del presidente Usa che bacchetta anche la Cina. Biden vuole la terza guerra mondiale? Minacce e offese a Putin spiazzano Alleati e Casa Bianca. Giovanni Pisano su Il Riformista il 27 Marzo 2022. 

Vladimir Putin “criminale di guerra“, “macellaio“, “quest’uomo non può rimanere al potere“. Nel giro di pochi giorni l’escalation verbale del presidente Usa Joe Biden rischia solo di peggiorare la situazione e far uscire il conflitto dai confini dell’Ucraina. Le dichiarazioni del presidente statunitense hanno colto tutti di sorpresa, dalla stessa Casa Bianca ai leader europei, che con Putin provano a dialogare quotidianamente, anche per la vicinanza geografica (problema quest’ultimo che a Biden interesserà poco).

Si parla di minaccia nucleare, della possibilità di un conflitto che coinvolga l’Europa stessa e alcuni Paesi della Nato. Una situazione delicatissima che Biden prova a risolvere con continue minacce e offese, probabilmente dimenticando i crimini di guerra commessi dagli stessi americani in passato, partendo dal presupposto che già provocare una guerra è un crimine. Minacce e offese a Putin, minacce alla Cina in caso di appoggio militare a Mosca. Solo minacce. Non è ancora chiara la strategia del leader americano che continua a spiazzare tutti: vuole la terza guerra mondiale?

Dopo aver definito “macellaio” Putin, rispondendo a una domanda di un giornalista a Varsavia su quanto sta accadendo in Ucraina, la reazione del Cremlino non si è lasciata attendere. Gli insulti personali “restringono la finestra di opportunità per migliorare le relazioni tra Mosca e Washington” ha detto il portavoce Dmitry Peskov. Ma Biden non contento in serata ha rincarato la dose. Nel suo discorso in Polonia ha citato prima Giovanni Paolo II (un uomo di pace), poi su Putin ha chiosato: “Per l’amor di Dio, quest’uomo non può rimanere al potere”. Apriti cielo. La Russia ha risposto in pochi minuti: “Non spetta a Biden decidere chi governa in Russia”. Poi la precisazione della Casa Bianca che prova a sgonfiare le parole del suo presidente: “Non stava parlando di un cambio di regime in Russia. Il punto del presidente era che a Putin non può essere concesso di esercitare potere sui vicini e sulla regione. Non stava parlando di Putin al potere in Russia, o di un cambio di regime”.

La stessa Casa Bianca, secondo il Washington Post, è stata colta di sorpresa. La dichiarazione di Biden è stata “improvvisata” e si è trattato di una dichiarazione “fuori copione” giunta al termine del suo discorso di circa 30 minuti, come se il presidente Usa sia stato “preso dalla forza della sua retorica” e abbia “cavalcato l’onda della sua orazione con una dichiarazione di nove parole che i suoi collaboratori non avrebbero voluto pronunciasse”. Dichiarazione a braccio insomma.

“Nei minuti successivi al discorso, funzionari dell’amministrazione Biden – che da tempo si sono impegnati per non chiedere un cambio di regime in Russia – si sono affrettati a chiarire i commenti di Biden”, scrive ancora il Washington Post. La Casa Bianca ha rilasciato una dichiarazione in cui provava a chiarire così: “Il punto per il presidente era che a Putin non può essere consentito di esercitare il potere sui suoi vicini o sulla regione” ma “non discuteva del potere di Putin in Russia o di un cambio di regime”.

Prova a metterci una pezza anche il segretario di Stato Antony Blinken che da Gerusalemme ‘corregge’ le parole pronunciate da Biden: “Credo che il presidente e la Casa Bianca ieri sera abbiano affermato che, molto semplicemente, il presidente Putin non può essere autorizzato a scatenare una guerra o ad aggredire l’Ucraina o chiunque altro. Come sapete, e come ci avete sentito dire più volte, non abbiamo una strategia per un cambio di regime in Russia, o in qualunque altro posto”.

Anche dal presidente francese Emmanuel Macron arriva una ferma condanna alle offese del leader Usa. Macron ha fatto sapere che “non userebbe” i termini utilizzati da Biden, che ieri a Varsavia ha definito Putin un “macellaio”. Secondo il presidente francese non si dovrebbe procedere “nell’escalation” della guerra in Ucraina “né con parole né con azioni”. Il presidente francese ha fatto poi sapere che parlerà con il presidente russo “domani o dopodomani” per organizzare un’operazione di evacuazione dalla città di Mariupol, nell’Ucraina orientale.

“Non ho sentito direttamente cosa ha detto Biden ma ho visto la posizione della Casa Bianca. Come Ue non stiamo cercando un cambio di regime, spetta ai cittadini russi decidere se lo vogliono. Quello che vogliamo nel caso della Russia è impedire che l’aggressione continui e questo è il nostro obiettivo: fermare la guerra di Putin contro l’Ucraina”. Parole dell’alto rappresentante Ue Josep Borrell citato da Sky News Arabia.

Le parole di Biden hanno reso la situazione “più pericolosa”. È quanto sostiene Richard Haass, uno dei veterani della diplomazia Usa, che in un tweet pubblicato oggi spiega che i commenti su Vladimir Putin, che “non può rimanere al potere”, “hanno reso una situazione difficile più difficile e una situazione pericolosa più pericolosa”.

Anche dalla Gran Bretagna prendono le distanze. Il segretario all’Istruzione, Nadhim Zahawi, ha spiegato ai media che “sta al popolo russo decidere da chi essere governato”. “Penso tuttavia – ha aggiunto Zahawi – che la gente in Russia sia piuttosto stufa di quello che succede in Ucraina: l’invasione illegale, la distruzione delle loro stesse fonti di sostentamento. La loro economia sta collassando attorno a loro e credo quindi che i russi decideranno loro della sorte di Putin e dei suoi accoliti”.

Con Biden si schiara invece il campione di scacchi russo Garry Kasparov che esalta le sue parole e lo esorta a non fare “marcia indietro” sulla necessita’ di un cambio di regime nella Federazione. “Quando un regime è repressivo, omicida, dittatoriale e guidato da qualcuno che ha commesso crimini di guerra in più Paesi, incluso il proprio, cos’altro si dovrebbe sperare e per cui lavorare se non un cambio di regime?”, ha scritto su Twitter Kasparov, voce critica contro il presidente russo Vladimir Putin. “Quando il presidente ha ragione, la Casa Bianca dovrebbe restare con lui invece di armeggiare per scusarsi con un dittatore assassino per aver detto la verità. E’ patetico“, ha aggiunto.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Joe Biden contro Putin, Antonio Socci: "Gli interessi Usa divergenti da quelli europei". Antonio Socci su Libero Quotidiano il 28 marzo 2022.

Oggi - a proposito della guerra in Ucraina- il famoso "elefante nella stanza", cioè la clamorosa verità che si finge di non vedere, è rappresentato dalla contrapposizione fra gran parte degli italiani e il Palazzo della politica e dei media. Il Parlamento, quasi all'unanimità, ha deciso di inviare armi in Ucraina, con il sostegno del sistema mediatico. Angelo Panebianco, in un editoriale sul Corriere della sera, ha rilevato che su questo invio di armi c'è «l'opposizione di alcuni, pochi ma forse non del tutto isolati nella pubblica opinione». In realtà l'acuto analista non vede l'elefante, perché, con buona pace sua e del Corriere, la gran maggioranza dell'opinione pubblica ha espresso un clamoroso e sorprendente "no". È incredibile che sia stata snobbata sia dalla politica che dai media. Il primo sondaggio, uscito su Domani all'inizio di marzo, ha svelato che per il 76 per cento degli italiani non si deve dare «nessun sostegno militare alla guerra». A metà del mese EMG per Agorà ha chiesto: «Lei è d'accordo con l'invio all'Ucraina di armi da parte dell'Italia?». Il 33 per cento ha detto sì, il 12 per cento non risponde e il 55 per cento ha risposto no.

LA VOCE DEL POPOLO - Sono risultati impressionanti perché contrapposti alla sostanziale unanimità del Parlamento sull'invio di armi. Ancor più straordinari se si considera il "bombardamento" mediatico molto emotivo di queste settimane. Cosa significa questo orientamento degli italiani? Certamente tutti condannano Putin e sono solidali con le sofferenze degli ucraini (a cui va dato ogni aiuto umanitario possibile). Ma la nostra gente intuisce, istintivamente, che la guerra sta portando devastazioni anche qua (dopo due annidi pandemia) e che bisognerebbe attivarsi per spegnere l'incendio (la politica e la diplomazia esistono per questo) anziché alimentarlo con secchi di benzina. Lo conferma un altro sondaggio, stavolta di Ipsos per DiMartedì, in cui si chiedeva: «Nelle relazioni con la Russia, quale sarebbe la posizione più giusta per l'Italia?». Ecco l'esito: il 10 per cento non sa rispondere, il 21 per cento risponde «l'Italia deve opporsi alla Russia» e ben il 69 per cento risponde «l'Italia deve negoziare con la Russia». Evidentemente gli italiani non sono travolti dall'emotività e hanno le idee chiare su qual è il bene dell'Ucraina, sui compiti della politica e sui propri interessi nazionali. Sono più saggi e lungimiranti di intellettuali e politici. Tutto questo li porta a ritenere che inviare armi non sia la risposta giusta. Come ha spiegato il professor Alessandro Orsini, mandando armi «Biden ambisce a "sirianizzare" la guerra in Ucraina, prolungarla indefinitamente. Il fine è impantanare la Russia per dissanguarla», ma ciò «comporta anche il dissanguamento dell'Europa... È questo che vuole l'Europa?». In effetti la vera domanda da porsi è: quale scopo perseguiamo? Gli italiani hanno capito che, in questa vicenda, gli interessi e gli scopi degli americani (sono loro a spingere per l'invio di armi) sono del tutto divergenti dai nostri.

INTERESSI - L'Occidente non si divide, ovviamente, sulla condanna della scellerata invasione russa, che è unanime, ma sul "che fare?". Le risposte sono diverse in base allo scopo che si perse gue e in base all'interesse che si intende tutelare. L'amministrazione Biden persegue lo scopo di abbattere Putin (sebbene questo comporti un prezzo durissimo per l'Ucraina e per gli europei). Mentre l'interesse dell'Europa e dell'Italia (oltreché degli ucraini), che pagano più salatamente il conflitto, è la pace: giungere quanto prima ad un cessate il fuoco e alla trattativa che metta fine alla guerra. Questi due obiettivi non sono soltanto diversi: sono opposti. Oggi l'uno esclude l'altro. Per questo non si può parlare dell'Occidente come se fosse una cosa sola. Biden è venuto in Europa in questi giorni per serrare le fila e cercare di tenere legati ai suoi voleri - com' è stato finora - i governi europei. Ma nelle cancellerie europee si comincia a rendersi conto che continuare ad appiattirsi sull'obiettivo dell'attuale amministrazione americana, invece di difendere gli interessi dell'Europa, è già ora devastante e, per il prossimo futuro, si annuncia quasi apocalittico. CANTORI ENTUSIASTI Infatti ieri curiosamente uno dei cantori più entusiasti della Ue, Federico Fubini, ha firmato un editoriale sul Corriere della sera dove, incredibilmente, si scaglia proprio sull'Europa e la Germania, non disposta a scatenare la guerra totale dell'economia contro la Russia: «L'Europa esita, prende tempo» lamenta Fubini, «la Germania frena su tutto». Fubini vorrebbe «sanzioni durissime al più presto che puntino a sgretolare il regime del Cremlino», anche se - lo riconosce a mezza bocca - il costo enorme di questa «guerra» lo pagheremmo noi: «Ci sarà qualche costo anche per le persone comuni e i leader europei dovranno saper spiegare perché va affrontato». Come vedete pare che tutto debba essere deciso sulla testa della gente, a cui, al massimo, si spiegherà perché dovranno sopportare lacrime e sangue. Ma su queste cose fondamentali non deve decidere il popolo. La sovranità da difendere (almeno in apparenza, a parole) è quella degli ucraini, non è certo quella degli italiani e degli altri popoli europei. Del resto Biden si è già portato avanti col lavoro spiegando che «il prezzo delle sanzioni» sarà anche «la scarsità di cibo in molti Paesi, incluso i paesi europei». Macron prevede «una carestia ineluttabile tra 12-18 mesi». Carlo De Benedetti dice che la prosecuzione della guerra comporta choc energetico, recessione, crollo delle Borse e fame. Bisognerebbe chiedere agli italiani se sono disposti a pagare questo prezzo per permettere a Biden di abbattere Putin e magari far precipitare la Russia in un caos libico. Oltretutto con la prospettiva di una nuova guerra mondiale, magari atomica come venerdì ha ipotizzato Biden. 

Da Wojtyla a Kennedy, il discorso più duro. L'America è tornata (ma ci chiede sacrifici). Vittorio Macioce il 27 Marzo 2022 su Il Giornale.

"Sleepy Joe" fa il duro e si rivolge ai russi: "Non siete i nemici". Le citazioni dal Papa polacco a Kierkegaard, con la stoccata su Tienanmen. La sfida sul gas russo e i costi a nostro carico.

Il confine è segnato, netto, profondo, senza lasciare spazio al compromesso. È un solco destinato a restare, perché ci vorrà tempo prima che questa storia trovi una soluzione. «Questa non è una battaglia che si vincerà nel giro di pochi giorni o mesi, dobbiamo prepararci al fatto che durerà a lungo». John Biden parla dalla frontiera dell'Occidente, nel Palazzo Reale distrutto dai nazisti nel 1944, in una Varsavia che sente il respiro di Putin troppo vicino e invoca più di qualsiasi altro la presenza degli Stati Uniti. La risposta arriva da un Biden che quasi non ti aspetti, perché va giù duro, parlando di tiranni e democrazie, citando i santi e scomodando Dio.

«Non abbiate paura». Biden apre e chiude con le parole di Karol Wojtyla, il Papa di Solidarnosh, che cambia la storia e segna il destino della guerra fredda. «Non abbiate paura» sono le parole con cui Giovanni Paolo II battezza il suo pontificato. Era il 22 ottobre del 1978 e in una San Pietro stracolma di fedeli che non sapevano cosa aspettarsi il Papa polacco chiede coraggio a una Chiesa in crisi di identità. Qualcuno interpretò quella frase come un ritorno al mondo, un invito a prendere in mano il proprio destino, un messaggio a chi si aveva perso la speranza della libertà. È da lì che Biden sembra voler ricominciare. È per dire: ci siamo. Ci siamo perché questo è uno scontro di civiltà. È libertà contro oppressione. È l'America che promette all'Europa che non sarà abbandonata. È un «obbligo sacro» come quello di J. F. Kennedy nel 1963, su un'altra frontiera, quella di Berlino, una capitale divisa in due da un muro. «Non date per scontata la democrazia. È stato un lungo percorso. Noi abbiamo ben chiara la differenza tra democrazia e autocrazia. Ucraini e polacchi sono in prima linea per difendere i valori democratici. Noi siamo al vostro fianco».

È il discorso di chi questa volta non prevede il ritiro e avverte tutti che l'America non è in dismissione. Non è in fuga dal mondo. È qui che Putin sta sbagliando la sua scommessa. La sua, non quella della Russia. La sua, non quella del suo popolo. Biden infatti si rivolge direttamente ai russi. «Il popolo russo non è nostro nemico, rifiuto di credere che accettiate l'uccisione di bambini innocenti e nonni o che accettiate i bombardamenti su ospedali, scuole, reparti, asili. Voi non siete questo». Qui Biden va oltre e invoca di fatto il dovere di ribellarsi al tiranno. «Putin non può restare al potere». È uno degli eventi che il capo del Cremlino teme di più. È l'ingerenza occidentale nel suo regno. È il motivo del suo arrocco sempre più diffidente e solitario. Mosca replica, con le parole di Dmitry Peskov, il portavoce: «Non è qualcosa che decide Biden. È solo una scelta dei cittadini russi». Washington chiarisce che non è un invito al colpo di Stato. Non è facile però cancellare quelle parole: «Per l'amor di Dio, quest'uomo non può rimanere al potere».

È il passaggio più delicato del discorso del presidente degli Stati Uniti. È il momento in cui va oltre la pura difesa. Il resto invece è la ricostruzione di un'idea di Occidente, qualcosa che negli ultimi decenni della politica americana stava diventando evanescente, lontano, poco centrale rispetto agli interessi americani. L'Europa stava diventando sempre di più un'appendice, fragile e costosa. «Questo è il banco di prova più importante di tutti i tempi. Il Cremlino vuole dipingere la Nato come una minaccia, ma la Nato è un'alleanza difensiva e non ha mai cercato di indebolire la Russia».

Biden invita però l'Europa a liberarsi della sua dipendenza energetica. Come? Anche qui un'altra promessa. «Noi vi aiuteremo». Bisogna solo capire i costi e non sono affatto scontati. Tutto questo però senza rinunciare al progetto di un'energia alternativa, perché tra le tante sciagure di questo tempo resta il destino della madre terra.

Quello che è certo è che l'ora dell'Europa è tornata drammatica, improvvisamente al centro delle sorti del mondo.

(ANSA il 27 marzo 2022) - I funzionari della Casa Bianca sono stati colti di sorpresa da Joe Biden: nel discorso pronunciato a Varsavia non c'era nessun riferimento al fatto che Vladimir Putin non potesse restare al potere. Il presidente americano lo ha detto a braccio.

Lo riporta il Washington Post citando alcune fonti. Non è comunque la prima volta che Biden decide di lanciare un messaggio autonomamente. Lo ha fatto nei giorni scorsi parlando di Putin come un criminale di guerra e lo ha fatto molte volte in passato.

JENA per “La Stampa” il 27 Marzo 2022. Parafrasando Vegezio "Se vuoi la pace, fai tacere Biden"

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 27 Marzo 2022.

Lo scatto arriva proprio all'ultima riga: «Per l'amore del cielo, questo uomo non può rimanere al potere». È la prima volta che Joe Biden lo dice apertamente: «Vladimir Putin deve lasciare la guida della Russia». Ed è anche l'unica vera e importante novità dell'atteso discorso di Varsavia.

Ma, pochi minuti dopo la conclusione, mentre praticamente tutti i siti dei giornali e le tv titolavano su questa frase, un consigliere della Casa Bianca faceva sapere al pool dei reporter: «Il presidente voleva dire che Putin non può esercitare il suo potere sui Paesi vicini o nella regione. Non stava mettendo in discussione il potere di Putin in Russia, né stava evocando la possibilità di un cambiamento di regime a Mosca».

È una spiegazione che non convince nessuno. L'ipotesi più probabile, invece, è che Biden abbia aggiunto spontaneamente l'esclamazione al testo preparato nei dettagli dal suo staff. Impossibile una verifica diretta, perché la copia originale non è stata distribuita prima dell'intervento. In ogni caso questo è il passaggio che è destinato a rimanere nella memoria.

E in fondo è la logica conclusione di un percorso che è logico ed emotivo nello stesso tempo. Qualche giorno fa Biden aveva definito il leader russo «un criminale di guerra». Ieri pomeriggio, dopo aver visitato un centro di accoglienza per i profughi ucraini insieme con il sindaco di Varsavia, ha commentato seccamente: «Putin è un macellaio».

La replica

Può un «criminale di guerra», un «macellaio» restare legittimamente al potere? A Washington, e non da ora, pensano di no. Putin, come era prevedibile, ha subito colto l'occasione per ribaltare sul presidente americano la responsabilità del conflitto. Ecco la nota del Cremlino: «I nuovi insulti di Biden restringono ulteriormente la finestra di opportunità per ricucire i rapporti tra Russia e Stati Uniti».

Nei prossimi giorni i portavoce dello Studio Ovale saranno chiamati a precisare e a cercare di recuperare il messaggio su cui era stato costruito lo «speech» che ha concluso il tour europeo del leader Usa. «Sarà un intervento di grande portata», aveva detto alla vigilia il Consigliere per la sicurezza nazionale, Jake Sullivan.

Tutto preparato con cura, a cominciare dalla scelta: il Castello reale, nella città vecchia, lo scrigno dell'identità polacca, ricostruito dopo la Seconda Guerra mondiale e oggi «patrimonio dell'umanità» per l'Unesco. Biden comincia con quella che sarebbe dovuta essere la frase chiave della giornata: «Non abbiate paura», citazione tra le più note di Giovanni Paolo II. 

Era il 1978, l'anno in cui il papa polacco si presentò al mondo, cambiando anche la storia politica dell'Europa. Ecco qual era il senso originario del discorso: collocare la guerra dell'Ucraina nel percorso di lotte e sofferenze che sono finite con «la vittoria della democrazia» e con «il fallimento» del comunismo, della dittatura. Un tracciato iniziato anni prima, «in Ungheria e in Polonia nel 1956, poi in Cecoslovacchia nel 1968 e ancora in Polonia nel 1981, fino alla caduta del Muro nel 1989».

«Non abbiate paura», ripete Biden, anche se «anche questa battaglia sarà lunga». Putin viene raffigurato come l'erede di fatto dell'Unione Sovietica, l'antica nemica della democrazia, della libertà. Segue un'altra citazione, l'immancabile Abraham Lincoln: «è il diritto la base del potere» (in inglese suona meglio: « Right makes might »). Per una decina di minuti Biden resta ad alta quota: «la missione storica di questa generazione è sconfiggere le autocrazie».

Tutti aspettano che atterri sulle questioni urgenti. Per esempio, Andriy Yermak, capo di gabinetto del presidente Volodymyr Zelensky, fa sapere: «Siamo delusi, ci aspettavamo più coraggio, decisioni più forti dai vertici della Nato e della Ue». Ma ora, qui a Varsavia, mentre è ormai buio e fa molto freddo, Biden conclude ripetendo concetti sentiti più volte negli ultimi giorni.

«Questa guerra è già un fallimento strategico per Putin. Voleva dividere l'Occidente e invece si ritrova con un'Alleanza atlantica che non è mai stata così unita e così determinata». «Putin non osi neanche pensare a occupare un centimetro del territorio Nato». «Voglio dire ai cittadini russi: non siete voi il nostro nemico». Sembra finita, con qualche emozione e nessuna novità di rilievo. Invece, pochi secondi prima di lasciare il palco, Biden ribalta tutto: Putin se ne deve andare.

«Italiani brava gente, grazie»: Zelensky non ci ha arruolato. Nessuna richiesta di “no fly zone”, nessun riferimento alla Nato o agli aiuti militari. Solo la denuncia della guerra di Putin e l’omaggio alla nostra solidarietà concreta nel discorso del presidente ucraino al Parlamento italiano.  Daniele Zaccaria su Il dubbio il 22 marzo 2022.

Nessuna richiesta di no-fly zone, nessun riferimento alla Nato, all’allargamento del conflitto o a un impegno militare diretto del nostro paese nello scenario ucraino. Ma neanche alla nostra resistenza armata contro il nazifascismo di 80 anni fa come molti si attendevano. La tappa italiana di Volodymyr Zelesky che ieri ha parlato davanti ai deputati e senatori riuniti a Montecitorio è stata senz’altro la meno “bellicosa” e probabilmente la meno ispirata.

Di sicuro un intervento moderato tutto giocato sul registro della pace e della compassione. Paradossalmente il successivo discorso di Mario Draghi è stato molto più duro e risoluto nei confronti della Russia, rivendicando «l’indipendenza energetica da Mosca» e annunciando l’invio di nuove armi all’esercito ucraino. Parlando alle Assemblee di Germania, Inghilterra, Stati Uniti, Canada e Israele Zelensky aveva citato capitoli e personaggi importanti della Storia di quelle nazioni, pescando nella simbologia patriottica e nei “valori condivisi” della democrazia e chiedendo un coinvolgimento attivo per contrastare Vladimir Putin sul piano militare ed economico, lo avevano accusato di flirtare con l’apocalisse, di nichilismo di lavorare per lo scoppio della Terza guerra mondiale.

Stavolta i toni sono decisamente più tranquilli. Anche di fronte alla Camera italiana Zelensky denuncia il capo del Cremlino e la sua guerra d’aggressione: «Questa è una guerra voluta da una sola persona che deve essere fermata, Putin vuole entrare in Europa, bisogna chiudergli quella porta». Ma con l’Italia decide di toccare altre corde, forse per via della nostra tradizione poco guerresca o semplicemente per il ridotto peso strategico delle nostre forze armate rispetto a paesi che dispongono di arsenali atomici come la Gran Bretagna, la Francia o gli Stati Uniti. Anche il ruolo del nostro governo all’interno dell’Ue, dall’inizio della crisi, è stato ridimensionato; lo stesso Draghi è uno stimato gestore di affari economici in tempo di pace ma non ha certo il profilo del condottiero militare.

Da noi Zelensky vuole ottenere altro. Così nel suo discorso salutato dalla standig ovation di Montecitorio Zelensky ha messo al centro il dramma dei civili ucraini assediati e martellati dall’artiglieria russa in tante località, nei villaggi, negli agglomerati urbani; la città martire di questa guerra, come fu Sarayevo per la Bosnia, Grozny per la Cecenia, Aleppo per la Siria, è Mariupol, dove fin dall’inizio infuriano le battaglie più sanguinose con centinaia di migliaia di persone in trappola, i palazzi sventrati, i crateri nell’asfalto e sparatorie casa per casa: «A Mariupol non c’è più niente, solo rovine. Immaginate la vostra Genova completamente bruciata, dove gli spari non smettono neppure un minuto; immaginate da Genova la fuga di persone che scappano in pullman per stare al sicuro. Il prezzo della guerra è questo: 117 bambini uccisi».

Perché Genova? Per la sua popolazione praticamente identica a quella di Mariupol (600mila abitantientrambe) per la sua posizione marina, una sul mar ligure l’altra sul mar di Azov e perché anche Genova venne bombardata durante la Seconda guerra mondiale. Zelensky ricorda di aver visitato diverse volte l’Italia e cita la nostra cultura dell’accoglienza, le migliaia di suoi concittadini oggi rifugioati qui i da noi, i nostri valori religiosi e il senso della comunità familiare simili a quelli ucraini: «Avete condiviso con noi il nostro dolore e aiutate di cuore gli ucraini che oggi si sono rifugiati da voi, con decine di bambini che ricevono cure nei vostri ospedali, gli ucraini lo ricorderanno sempre, il vostro calore, il vostro coinvolgimento e la vostra forza».

E siccome fin dal medioevo noi italiani non siamo dei grandi soldati ma in compenso abbiamo fama di ottimi mercanti e la bottega ci si confà molto più della spada, Zelensky chiede al governo Draghi di inasprire le sanzioni contro la Russia di «chiudere i porti italiani agli yacht degli oligarchi che vengono in vacanza» e di «congelare i beni» come le ville che i tanti milionari russi possiedono in Italia. Richieste tutt’altro che estreme e che dimostrano quanto il presidente ucraino sappia sempre con chi ha a che fare.

Simone Canettieri per “il Foglio” il 26 marzo 2022.

"E' dissonante". Dalle parti della diplomazia americana chiosano così la posizione di Giuseppe Conte sul dibattito che il M5s ha aperto sulla Nato e sull'incremento delle spese militari fino al 2 per cento del pil. 

I commenti che trapelano da fonti Usa nella capitale sono molto felpati rispetto alla politica italiana. Quasi impalpabili.

Le accuse di ingerenze sono dietro l'angolo. Di fatto, da quando è scattata l'invasione russa in Ucraina l'incaricato d'affari Thomas Smitham ha ricevuto in ambasciata tutti i principali leader. 

L'ultimo, martedì scorso, è stato Matteo Salvini. L'unico a non avere avuto una photo opportunity. Dettagli? No.

L'ambasciata americana, con il presidente Biden in Europa, continua a essere più che mai attiva. 

Ma al momento l'agenda di Via Veneto non prevede altre consultazioni ufficiali, anche se gli sviluppi parlamentari della prossima settimana sono seguiti con molta attenzione.

Conte è stato ricevuto - con tanto di foto diffusa dai profili social dell'ambasciata - lo scorso 10 marzo. Quando il tema dell'incremento della spesa per la difesa militare non era ancora centralissimo.

L'ex premier del M5s ha fatto parte di una lunga serie di incontri che si sono registrati in ambasciata: iniziati con Giorgia Meloni, proseguiti con Enrico Letta, Antonio Tajani e terminati con Matteo Salvini (ma senza testimonianza fotografica da condividere, appunto). 

In mezzo: i presidenti delle commissioni parlamentari di Difesa ed Esteri, ma anche Nicola Zingaretti, governatore del Lazio ed ex segretario del Pd. Gli americani vogliono capire cosa ne pensi la politica italiana di quanto sta accadendo praticamente in Europa.

Allo stesso tempo, fonti Usa fanno capire di essere rassicurati da "due fari": Mario Draghi e Sergio Mattarella. L'ordine di citazione è alfabetico. Inoltre, con l'approccio di chi è costretto a mettere le mani nelle alchimie nostrane, sempre dalle parti di Via Veneto hanno notato, osservando la vita dei partiti, come Lega e M5s siano allo stesso tempo attraversati da posizioni diverse sulla politica estera.

Non è la scoperta dell'America: ecco dunque il link che unisce gli atlantisti Giancarlo Giorgetti (con il quale "le interlocuzioni sono assidue, anche in presenza") e Luigi Di Maio, titolare della Farnesina. Sono i due ministri verdegialli che provano a bilanciare certe pulsioni che sembrano accomunare Salvini e Conte. 

Il capo del M5s - che ieri ha telefonato al direttore della Stampa Massimo Giannini per esprimergli solidarietà dopo gli attacchi di Sergey Razov - continua a insistere: "Siamo a ridosso di una severa recessione. Non è stato fatto uno scostamento di bilancio sul caro energia e ora ci ingegniamo a realizzare un sostanzioso incremento delle spese militari? Il governo sia responsabile di fronte al Paese e ci ascolti". Dunque: giammai.

A dire il vero però, proprio l'allora premier Conte nel dicembre 2019, in occasione del vertice Nato a Londra, sottoscrisse con gli altri leader l'impegno "ad aumentare investimenti per rispettare le soglie del 2 per cento investendo in nuove capacità e fornendo più forze per missioni e operazioni". La situazione dei grillini, e questa non è una notizia, è abbastanza tesa. 

I sondaggi non aiutano e nemmeno le pastoie dei tribunali in cui si è ficcato il Movimento. La settimana prossima il dl Ucraina approderà in Senato, bunker del contismo. C'è l'odg di Fratelli d'Italia che dice di aumentare la spesa militare fino al 2 per cento. Una mina per la maggioranza. Non a caso lunedì sera alle 20 il ministro per i Rapporti con il Parlamento convocherà i capigruppo per cercare "il dialogo".

Altrimenti il governo porrà la fiducia, e buona notte. Intanto, gli ex grillini che ora formano il gruppo duro e puro L'Alternativa c'è sono pronti a presentare un odg in senso opposto a quello del partito di Meloni: stop all'aumento della spesa per le armi. Alla Camera il M5s si è astenuto. "Vedremo se Conte farà il Ponzio Pilato - dice Mattia Crucioli - finora i veri valori grillini li stiamo portando avanti noi. Conte a volte ci segue e altre meno". Ora spiegate agli americani queste dinamiche, please. 

Estratto dell’articolo di Carlo Tecce per espresso.repubblica.it il 26 marzo 2022.

«Non bastano 25 miliardi di euro in spese militari». «Va raggiunto il 2 per cento del pil». «Ce lo chiede l’alleanza atlantica Nato». «Sorpresa: ci sono altri 60 miliardi per il futuro». «Il nostro obiettivo sono 35 miliardi». 

Al banco italiano delle armi c’è molta confusione. La guerra russa in Ucraina ha rinvigorito le baionette. I generali in divisa e in licenza sfogliano i cataloghi di vendita e quelli che generali non sono, né in divisa né in licenza, scrutano le cartine geografiche. Così la propaganda sui numeri degli uffici stampa non incontra resistenza. Per capire dove andare bisogna capire dove siamo.

La spesa militare autorizzata per il 2022, si legge nel documento di metà febbraio del centro studi della Camera, è di 30,421 miliardi di euro. Questo dato riassume il cosiddetto «bilancio integrato» che contempla i fondi in capo al ministero della Difesa (25,956 miliardi), al ministero dello Sviluppo economico (3,067) e al ministero del Tesoro (1,397). Già siamo ben oltre i 24 miliardi protagonisti innocenti del dibattito politico.

I 30,421 miliardi di euro rappresentano l’1,7 per cento del prodotto interno lordo registrato nel 2021 e il 3,75 per cento del bilancio dello Stato. Su quest’ultimo parametro, alcuni confronti fra i ministeri: la giustizia impegna l’1,2 per cento, l’interno il 3,8; l’istruzione il 6,2. 

Allora perché ci si agita. L’Italia è una florida potenza da guerra. Falso. Mica ogni euro dei 30,421 miliardi finisce in cannoni, missili, blindati. I miliardi vanno scomposti. Il ministero della Difesa ne dispone 25,956 distribuiti su tre missioni: la principale è per la «sicurezza», 24,201 miliardi; «tutela di ambiente e territorio» (Corpo forestale), 475,6 milioni; «servizi istituzionali delle amministrazioni pubbliche», 1,279 miliardi.

Un terzo circa dei 24,201 miliardi della missione «sicurezza», cioè 6,8 miliardi, è destinato ai Carabinieri, 5,5 miliardi all’Esercito, 2,8 all’Aeronautica, 2,2 alla Marina. Il consistente “resto” viene utilizzato per pianificazioni e acquisti (5,95 miliardi) e per la gestione interforze (774 milioni).

Compattezza militare, solidarietà, unità. Vertice di Bruxelles: Biden pronto alla guerra, Draghi frena e pensa all’economia. Claudia Fusani su Il Riformista il 25 Marzo 2022.  Non andiamo in guerra. Ma facciamo la guerra. Non autorizziamo la no-fly zone. Ma riforniamo la resistenza ucraina con i migliori sistema d’arma antiaerea e anticarro. Con droni-bomba e missili Stinger e Javellin. Questo ed altro pur di fermare Putin. Ed essere pronti “a reagire”. A cosa? Amnesty documenta l’uso – da parte dei russi – di bombe a grappolo e al fosforo che sono vietate dagli accordi internazionali. “Stati Uniti e i paesi Nato si preparano al rischio di incidenti nucleari” ammettono funzionari dell’amministrazione Biden mentre il presidente Usa calca l’ingresso austero e possente, acciaio e vetro, del quartier generale della Nato.

Il Piano Marshall di Joe Biden per la Ue

La prima tappa del viaggio di Joe Biden in Europa – il primo, al netto di un G7 in Gran Bretagna nel 2021 – è al quartier generale della Nato, ettari e ettari di verde e palazzi di vetro e acciaio, tra la città e l’aeroporto. Perché è dalla casa dell’alleanza atlantica che il Presidente Usa, soprattutto, e i grandi della terra e d’Europa vogliono dare al mondo la prova di “essere uniti contro l’attacco deciso unilateralmente da Putin e compatti in difesa della democrazia come non lo siamo mai stati”. Mario Draghi aggiunge anche “solidali” , tre parole chiave contro la minaccia e contro la crisi economica provocate dalla guerra scatenata dalla Russia in Ucraina. L’Europa saprà sottrarsi al ricatto energetico di Mosca. E intanto Biden porta in dote una sorta di piano Marshall energetico. Sarà il tema delle riunioni della sera al Consiglio europeo: come portare e distribuire in Europa il gas liquido made in Usa. La presidente von der Leyen, quando arriva intorno alle 17 al palazzo Justus Lipsius dopo la riunione del G7 che si è protratta novanta minuti oltre il previsto, annuncia che gli Stati Uniti “faranno arrivare entro in Europa entro il 2022 ben 15 miliardi di mc di gas”. Poco cosa rispetto ai 150 miliardi che sono l’import europeo di gas ogni anno. E se Putin sfida il resto del mondo e soprattutto l’Europa imponendo di pagare il gas russo con il rublo, Draghi liquida così quella che non è solo una provocazione: “Siamo di fronte alla violazione dei contratti”. Perchè i contratti, almeno quelli italiani, prevedono il pagamento in euro. E non in rubli.

Mano tesa alla Cina

Si riscrive la storia, la geopolitica e la geoeconomia in queste 48 ore a Bruxelles. La guerra sta cancellando rapporti consolidati, parnership strategiche, alleanze commerciali che sembravano intramontabili. I tre vertici quasi in contemporanea con la presenza del Presidente degli Stati Uniti – Nato, G7 e Consiglio d’Europa – cercano di riscrivere un ordine mondiale prima che sfugga di mano. La presidente Ursula von der Leyen può dire orgogliosa entrando nella sede del Consiglio che “Bruxelles in questi giorni è la capitale del mondo libero e democratico”. In questa guerra così mediatica, la prima combattuta nell’era social, Joe Biden voleva, doveva dare al nemico Putin un messaggio potente di “unità e compattezza”. E tendere anche una mano alla Cina il cui “futuro economico è più legato all’Occidente che non alla Russia”. La Cina è il convitato di pietra dei tre vertici. Ritorna in molte domande nei momenti i cui i leader incontrano telecamere e giornalisti. “Nessuna condanna della Cina – chiarisce Draghi entrando al Consiglio alle 17 dopo il vertice Nato e il G7 – c’è però la speranza che Pechino contribuisca al processo di pace. Perchè è la pace che tutti noi e prima di tutto cerchiamo, Tanto dobbiamo essere fermi e proattivi con le sanzioni tanto dobbiamo cercare assolutamente la pace. L’Italia, come tuti gli altri paesi europei, si muove su questi due binari”.

Tre vertici, tre parole chiave

Tre vertici e tre parole chiave. A Biden piace soprattutto la “compattezza”. Che vuol dire compattezza militare. Per questo ha scelto la Nato come suo quartier generale della missione a Bruxelles. Con la riunione dei trenta paesi alleati si è collegato anche il presidente Zelensky. Con una richiesta drammatica e precisa: “Oggi è un mese di guerra, le città sono distrutte, la gente muore. Mosca sta usando bombe al fosforo. Non volete la no fly zone? Dateci però tutte le armi di cui abbiano bisogno per difenderci, sopravvivere e tutelare il nostro diritto di popolo”. La Nato quindi rafforzerà la presenza militare lungo il confine est, dalle repubblica baltiche alla Moldavia. E invierà ancora armi, missili anticarro e antiaereo. Solo uomini e mezzi in più. “Nessun impiego diretto della Nato in Ucraina e meno che mai nel territorio russo” ha ribadito il segretario generale Stoltenberg che ha “guadagnati” la proroga di una anno al vertice dell’alleanza. Nei bilaterali alla Nato e tra i funzionari delle varie delegazioni si parla di “un salto di qualità nel dispositivo dell’Alleanza”.

“Attivata la difesa radiologica e chimica”

Essere pronti ad ogni eventualità. Il rischio di incidenti nucleari c’è, esiste ed è stato oggetto di alcuni colloqui. La Casa Bianca ha creato una squadra di funzionari – Tiger team – per la sicurezza nazionale incaricata di delineare le risposte di Stati Uniti e alleati se si dovessero creare le situazioni più critiche. Se, ad esempio, il presidente russo Vladimir Putin usasse armi chimiche, biologiche o nucleari. Se Putin dovesse raggiungere il territorio della Nato per attaccare i convogli che portano armi e aiuti all’Ucraina. Se, ancora, cercasse di estendere la guerra alle nazioni vicine, comprese Moldova e Georgia (dove da anni Mosca ha piazzato propri militari per difendere le minoranze russe). “Qualsiasi utilizzo di armi chimiche e biologiche in Ucraina sarebbe una chiara violazione e creerebbe ampie conseguenze perchè non colpirebbe solo la popolazione ucraina, ma avrebbe effetti anche sulle popolazioni dei Paesi della Nato a causa della contaminazione per la diffusione degli agenti chimici” ha detto Stoltenberg. Da qui l’impegno Nato a supportare “l’Ucraina nel difendersi contro le minacce chimiche, biologiche e nucleari con sistemi di diagnosi, equipaggiamento e supporto medico”. La minaccia sembra seria e non va sottovalutata. “Il comando militare della Nato ha attivato i suoi elementi di difesa radiologico, chimico e nucleare e provvederà a istituire ulteriore difesa”. Washington ha stanziato due miliardi di aiuti militari per l’Ucraina.

Solidarietà

E’ la seconda parola chiave che ricorre nei tre vertici. Solidarietà per l’emergenza umanitaria. Biden, entrando ieri sera al Consiglio Ue con il presidente Michel a fargli gli onori di casa, ha detto che gli Stati Uniti ospiteranno 100 mila profughi ucraini. Il budget per gli aiuti umanitari è al momento pari ad un miliardo. L’ambasciatore polacco alla Nato Tomasz Szatowski ha spiegato che “Putin sta usando anche la pressione dei profughi per creare pressione sull’Occidente”. La Polonia ha gestito oltre due milioni di profughi in un mese. Un afflusso “senza precedenti”. E uno sforzo “senza precedenti”. La Polonia non respingerà nessuno “ma se questo afflusso continuerà immutato nelle settimane a venire la situazione diventerà difficile per il Paese”. Insieme alla propaganda e alla censura, la bomba umanitaria dei profughi è una delle armi ibride che Mosca ha messo in campo per aggravare la crisi.

Unità, la terza parola chiave

E’ forse il concetto a cui tiene di più il premier Draghi. Unità nella reazione – quindi ben venga l’invio di armi all’Ucraina, l’esercito europeo e l’aumento del budget annuale per la difesa al 2% in linea con le richieste Nato – e unità nella gestione della crisi economica e umanitaria che sta investendo tutta Europa. L’Europa deve continuare a gestire unitariamente le sanzioni economiche “che sono straordinariamente efficaci” e aumentarle se serve. Gestione unitaria della crisi umanitaria che, ha detto Draghi “va affrontata a livello mondiale con il coinvolgimento pieno delle Nazioni Unite”. E gestione unitaria della crisi energetica e delle altre materie prime, dal grano al ferro. “Canada, Stati Uniti, il resto del mondo deve aiutare l’Europa” ha detto Draghi. L’Europa che nel frattempo, imparata la lezione, “deve subito diversificare le proprie fonti ed aumentare la propria autonomia”. Draghi ha parlato alle 17, dopo la Nato e il G7. Prima del Consiglio europeo, quello vero, su energia e materie prime che è iniziato praticamente all’ora di cena. Parole che nascondono il timore che invece proprio questa unità potrebbe essere quella che mancherà ai 27 paesi europei. Alla Nato alla fine è andato tutto bene, tutti più o meno d’accordo. Al Consiglio europeo è da vedere.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Anna Lombardi per “la Repubblica” il 25 marzo 2022.

Le "tigri" di Biden impegnate a disegnare tutti i possibili sviluppi della guerra in Ucraina, studiando le risposte per americani e alleati. Sì, c'è un'intera squadra di addetti alla sicurezza nazionale dietro alle proposte statunitensi approdate sul tavolo della riunione straordinaria Nato di ieri a Bruxelles. 

Un "Tiger Team", come si dice qui in gergo, per definire un determinato tipo di esperti: definizione usata la prima volta nel 1964 per la squadra di ingegneri spaziali impegnati nella creazione di nuovi razzi: «Specialisti e tecnici non addomesticati e disinibiti, selezionati per la loro esperienza, energia e immaginazione, incaricati di rintracciare senza sosta ogni possibile fonte di fallimento», li si descrisse allora. 

A formalizzare la nascita del nuovo team, composto da specialisti in questioni russe e dell'Europa Orientale, ma anche esperti di diritto internazionale e scienziati che studiano gli effetti di armi non convenzionali, è stato il consigliere alla Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, lo scorso 28 febbraio, quattro giorni dopo l'invasione. Pescando pure fra i tecnici che nei mesi scorsi avevano preparato il governo americano alla possibilità dell'invasione russa dell'Ucraina, studiando in anticipo le sanzioni poi messe celermente in atto e preoccupandosi di armare Kiev per tempo.

Le azioni cioè, che hanno frenato l'avanzata russa e messo l'economia di Mosca in difficoltà. Chi siano queste persone è top secret. Così come le sintesi delle loro riunioni, tre volte alla settimana, considerate materiale classificato. Una fonte interna racconta però al New York Times che le loro analisi sono concentrate su quegli scenari fino a un mese fa considerati fantapolitici, che oggi rischiano di trasformarsi in tragica realtà. 

Ovvero, le risposte da dare agli atti più estremi che un esasperato Vladimir Putin potrebbe compiere. Stabilendo, per dire, come reagire in caso di uso, da parta russa, di armi chimiche o "mini" ordigni nucleari, quelli di nuova generazione la cui potenza è limitata ma pur sempre importante. Biden finora si è mostrato riluttante ad agire anche in quel caso limitandosi a parlare di «conseguenze severe », ma se le radiazioni dovessero raggiungere un paese alleato la reazione dovrebbe essere ben calcolata.

Così come nel caso di un tentativo russi di aggredire nazioni come Moldavia e Georgia. O attaccare i convogli che trasportano armi occidentali a Kiev. Preparando poi gli europei nell'affrontare l'onda di rifugiati in arrivo. Insomma, proprio le circostanze discusse dai leader Nato incontratisi ieri per la prima volta dall'inizio dell'invasione in un meeting così riservato da proibire i cellulari personali e l'accesso dei consiglieri. All'opera, svela ancora il NYT, c'è d'altronde anche un secondo "Tiger Team", creato sempre il 28 febbraio, per elaborare scenari ancor più ipotetici ma a questo punto possibili. Impegnato a studiare il miglioramento della posizione geopolitica americana in vista di un indebolimento di Putin, immaginando nuove alleanze e cambi di postura.

Dagospia il 25 marzo 2022. Dall’account twitter di Michele Anzaldi

Ieri il Tg1 ha censurato Papa Francesco: nessuno spazio né alle 13.30 né alle 20 alle sue dure parole contro le armi e la guerra. Un caso senza precedenti, mai il tg di Rai1 aveva negato spazio addirittura al Santo Padre. Che succede al tg della rete ammiraglia Rai? 

Domenico Agasso per “La Stampa” il 25 marzo 2022.

Il Papa la definisce letteralmente «una pazzia». E rincara la dose, dicendo di essersi «vergognato» quando ha saputo che alcuni Stati «si sono compromessi a spendere il 2 per cento del Pil per l'acquisto di armi» come risposta a ciò che sta accadendo in Ucraina.

Francesco lancia il suo monito dopo che la Germania ha comunicato l'obiettivo del 2% per la difesa, e anche l'Italia appare allineata in questa direzione. Così come il Belgio, l'Austria, i Paesi baltici, la Finlandia.

E mentre al vertice della Nato a Bruxelles la questione dell'incremento dei budget militari è all'ordine del giorno. Durante l'udienza al Centro femminile italiano il Pontefice indica che la «vera» replica da attuare non sono altri armamenti, «altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un'altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato - non facendo vedere i denti, come adesso - un modo diverso di impostare le relazioni internazionali».

Per il Vescovo di Roma è «ormai evidente che la buona politica non può venire dalla cultura del potere inteso come dominio e sopraffazione», ma solo da una «cultura della cura, della persona e della sua dignità e della nostra casa comune». Lo prova, «purtroppo negativamente, la guerra vergognosa a cui stiamo assistendo». 

Il modello della «cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare». Da anni Bergoglio sostiene che non si può continuare a fabbricare e trafficare armi togliendo risorse che potrebbero essere utili per salvare vite in vari modi; e da giorni ribadisce con forza la necessità di non puntare su ulteriori bombe e missili per affrontare la crisi provocata dall'invasione russa nell'est Europa.

Il Vescovo di Roma descrive come «insopportabile» quello che sta succedendo a Kiev, «frutto della vecchia logica di potere che ancora domina la cosiddetta geopolitica». La storia degli ultimi settant'anni «lo dimostra: guerre regionali non sono mai mancate; per questo io ho detto che eravamo nella terza guerra mondiale a pezzetti, un po' dappertutto». 

Fino ad arrivare «a questa, che ha una dimensione maggiore e minaccia il mondo intero». Francesco non ha dubbi: «Il problema di base è lo stesso: si continua a governare il mondo come uno "scacchiere", dove i potenti studiano le mosse per estendere il predominio a danno degli altri».

La stampa con l'elmetto. Papa Francesco ignorato dai giornali, tutti devono essere per la guerra: sospesa la libertà di stampa. Piero Sansonetti su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

“Pazzi Pazzi”, ha gridato il papa ai governi europei che hanno portato al 2 per cento le spese militari. I direttori dei giornali, immagino, hanno immediatamente dato l’ordine di mettere il silenziatore. Ieri mattina e ieri pomeriggio ho cercato disperatamente questa notizia sulle home-page dei grandi quotidiani, del Corriere della Sera, di Repubblica. Sarà colpa mia che non mi districo bene con queste tecnologie moderne, però io la notizia non l’ho trovata. Ho chiesto a degli amici più esperti di aiutarmi. Non l’hanno trovata neanche loro.

L’informazione ormai in Italia è completamente militarizzata. Ai personal computer, nelle scrivanie dei giornalisti, hanno messo la tuta mimetica. Non è ammessa neppure la più piccola deviazione. La linea è la linea e la fermezza è la fermezza. Già, magari quelli vecchi come me si ricordano gli anni della fermezza. Me li ricordava ieri Paolo Liguori. In particolare mi ricordava i giorni tremendi del sequestro Moro. Allora nei giornali passò quella linea lì: “Non si tratta con le Brigate rosse, se Moro deve morire muoia, ma la Repubblica sarà salva”. Moro Morì, la Repubblica fu salva fino a un certo punto, perché in realtà da quel momento iniziò il declino che nel giro di poco più di dieci anni portò la Repubblica a cadere sotto i colpi della magistratura. E lì, di nuovo la fermezza: nei giornali era proibito provare a criticare i magistrati. Erano eroi. Andavano acclamati, amati, venerati. Non era ammesso il dissenso.

In realtà sia durante il sequestro Moro sia durante Mani pulite (meno) qualche dissenso c’era e si manifestava. I socialisti in tutte e due le occasioni si dissociarono. Chiesero la trattativa per salvare Moro e poi tentarono disperatamente di resistere all’ondata populista e giustizialista del pool di Borrelli. Erano convinti di poter resistere alla forza d’urto delle Procure, in particolare della Procura di Milano. Forse avevano anche ragione. Non calcolarono però l’entrata in campo del bulldozer: la stampa. la stampa si comportò come una falange. Stravinse. E i giustizialisti dissero così a Craxi, sorridendo e sommergendolo di monetine a qualche sassata: “è la stampa, bellezza”. Lui dovette riparare all’estero, dove morì abbandonato da tutti. Anche al papa ora stanno sorridendo. Divertiti e beffardi. Lui grida. “Pazzi, pazzi”. E poi dice di essersi vergognato quando ha saputo che i Parlamenti votavano l’aumento delle pese militari. Che da oggi il cittadino medio, ogni anno, versa una cifra che oscilla tra i 500 e i 1000 euro all’anno per comprare cannoni e caccia. I giornali e le Tv, salvo rare eccezioni, lo ignorano, il Papa. Lasciatelo gridare questo signor Bergoglio – dicono i direttori – e poi chiamano Bruxelles e spostano i soldatini che hanno sulla scrivania per cercare di capire meglio come si fa la guerra.

Successe a un altro papa. A Benedetto XV. Quando si comportò in modo analogo al modo nel quale si sta comportando Bergoglio. Nel 1917, mentre infuriava la prima guerra mondiale, e quasi tutti i partiti la sostenevano, e i governi pompavano risorse e armi con lo scopo di uccidere quanti più nemici possibile, Benedetto scrisse una lettera ai capi di Stato e definì la guerra “un’inutile strage”, contrapponendosi allo spirito pubblico, come spesso accade ai cristiani coerenti. Lo ignorarono. Lo censurarono, lo travolsero con il tuono dei cannoni e le bombe dagli aerei, e gli assalti alla baionetta nelle trincee. Non so se recentemente la Chiesa abbia corretto le sue scelte, mi risulta che quantomeno fino a qualche anno fa di tutti i papi del ‘900 Benedetto fu l’unico a non essere santificato. La Chiesa preferì santificare i papi che avevano accettato il nazifascismo ma non quel sovversivo che condannava la guerra. Succederà così, probabilmente, anche con Bergoglio.

Mi pare che gli Stati si siano rifiutati di ascoltarlo – in questi anni – quando ha parlato di migranti e di profughi. E ha chiesto accoglienza. Gli hanno fatto un sorriso beffardo anche in quell’occasione e sono corsi in Libia per firmare qualche accordo che permettesse di sterminare i profughi nei campi di concentramento, evitando che potessero arrivare in Italia. Figuratevi se lo ascolteranno ora. Il papa è l’unica voce autorevole che ha rotto la catena blindata interventista. Che sembra ormai impossibile da spezzare. E io sono convinto che questo atteggiamento da regime avrà conseguenze incalcolabili sul nostro futuro. Lo vedete bene, in queste settimane la stampa funziona proprio come funzionava durante la seconda guerra mondiale. Allora c’era il ministero addetto a controllare e governare l’informazione. Si chiamava Minculpop, lo guidava – almeno lo guidò per un lungo periodo – un giornalista serio e colto come Alessandro Pavolini. Era lui che dava la linea ai direttori.

Era inflessibile. Oggi no. I direttori sono più scaltri, più veloci, sono ragazzi dell’epoca del web, e obbediscono anche prima che arrivi l’ordine. Mi chiedo: ma quando tutto questo sarà finito (io immagino che alla fine prevarrà la ragione, la trattativa, finiranno fuorigioco i colonnelli che hanno preso la guida degli Stati democratici, e si arriverà a una pace, giusta o ingiusta, o giusta solo un po’, ma comunque qualunque pace è sempre più giusta della guerra) in Italia tornerà la libertà di stampa che è stata sospesa? Anche il Corriere della Sera potrà tornare alla stagione di Albertini e aprire le sue pagine al dissenso? Può darsi. Ma non sarà facile. Non è detto che questo succederà. La nuova generazione, che ha preso possesso delle leve dell’informazione, difficilmente si farà scalzare.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Papa Francesco, Vittorio Feltri: "Lui il macellaio Putin non lo cita nemmeno". Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 05 aprile 2022.

La mattanza di Bucha, come correttamente l'ha definita Libero nell'edizione di ieri, certificata da varie fotografie, dimostra fino a prova contraria che l'esercito russo oltre a invadere l'Ucraina, compie degli orrendi massacri di povera gente. Ha voglia Mosca di dire che si tratta di una montatura propagandistica tesa a sputtanare il Cremlino. I cadaveri trovati con le mani legate alla schiena, gente trucidata in maniera barbara, sono ritratti in immagini che non lasciano dubbi. Non si può certamente parlare di uomini e donne che si sono soppressi volontariamente, visto che ammazzarsi con i polsi stretti dalla corda è un'impresa impossibile. E allora si può tranquillamente dire che se Putin non è un macellaio, sicuramente è il proprietario di una macelleria instancabile.

Non siamo in grado di applaudirlo, forse aveva ragione Biden, pur con tutta la sua antipatia, quando allo Zar in un discorso pubblico gliene disse di ogni colore. Il presidente americano fu accusato di aver usato contro il leader di Mosca espressioni volgari e troppo dure, ma alla luce di quanto accaduto a Bucha, bisogna rivedere certi giudizi verso il Capo della Casa Bianca, il quale in definitiva si attenne alla realtà, descrisse un uomo assetato di sangue e implacabile. Le stragi di civili inermi non si giustificano neanche durante una guerra dura quanto quella a cui assistiamo impotenti. Ma la cosa più assurda che si registra in questi giorni è un'altra: anche il Papa, poveretto, è stato criticato ferocemente perché a differenza di Biden, che ha definito Putin gestore di un mattatoio, si è astenuto dall'aggredire il citato despota. 

In sostanza il numero uno degli Usa è stato malmenato per aver bacchettato Vladimir, mentre Francesco è stato malmenato per l'esatto contrario, cioè non averlo messo alla berlina. Non so quale dei due abbia ragione e quale torto, però siamo di fronte a una contraddizione stridente. Segno che l'opinione pubblica ha tutto il diritto di essere sconcertata e dubbiosa: non sa più da che parte pendere. Sta di fatto che le battaglie continuano a infuriare mentre il popolo seguita a crepare senza sapere perché. L'Ucraina miracolosamente resiste e l'armata ex sovietica non smette di premere il grilletto. Si sostiene che chi tiene duro la vince. Ma la nostra impressione è che se si va avanti così non avremo un grande cimitero, ma due grandi cimiteri. E non sapremo neanche per chi pregare se non per noi stessi, condannati a fidarci di un'informazione piuttosto disinformata. 

Lo spacciano per guerrafondaio. Papa Francesco è contro la guerra, Corriere e co. si devono arrendere. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 5 Aprile 2022. 

Papa Francesco è contro la guerra: non questa guerra ma proprio contro ogni guerra. Lo ha ribadito in questi giorni con estrema, ulteriore fermezza. Ad esempio nell’Angelus di domenica 27 marzo: «È passato più di un mese dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, dall’inizio di questa guerra crudele e insensata che, come ogni guerra, rappresenta una sconfitta per tutti, per tutti noi. C’è bisogno di ripudiare la guerra, luogo di morte dove i padri e le madri seppelliscono i figli, dove gli uomini uccidono i loro fratelli senza averli nemmeno visti, dove i potenti decidono e i poveri muoiono». L’espressione-chiave è l’ultima: “i potenti decidono e i poveri muoiono”, interpretata soltanto in chiave anti-Putin. Sagacemente, qualcuno (leggi Corriere della Sera) all’inizio del viaggio a Malta ha interpretato una frase del Papa come un attacco a Putin “senza citarlo”.

La frase è questa: «Mentre ancora una volta qualche potente, tristemente rinchiuso nelle anacronistiche pretese di interessi nazionalisti, provoca e fomenta conflitti, la gente comune avverte il bisogno di costruire un futuro che, o sarà insieme, o non sarà. Ora, nella notte della guerra che è calata sull’umanità, non facciamo svanire il sogno della pace». Frase che messa insieme alla precedente, delinea un Papa contro “i potenti” ed anche “il potente di turno” o “qualche potente” implica che ce ne siano più di uno. Forse farebbe piacere avere soltanto un cattivo, ma in una visione non manichea del mondo, le analisi prevedono una maggiore complessità di situazioni. Perché i potenti decidono, i poveri muoiono; e la denuncia deve far riflettere e imporre azioni per la pace. Ma c’è di più. In questo impegno continuo contro la guerra, papa Francesco ha superato il concetto di “guerra giusta” che ha imperversato nella dottrina cattolica. E ancora qualche teologo moralista stenta a credere di doversi aggiornare. Il 18 marzo il Papa ha definitivamente affossato il concetto di “guerra giusta”: “Non esistono le guerre giuste: non esistono!”, ha spiegato parlando ai partecipanti al Congresso Internazionale “Educare alla democrazia in un mondo frammentato”.

Ecco, qui è il punto. C’è qualche teologo che ancora non ha capito. Per esempio Mauro Cozzoli, teologo moralista, noto a un pubblico più vasto per le diverse apparizioni al programma televisivo Forum condotto da Barbara Palombelli. Ogni volta che si discute di famiglia, corriamo il rischio di trovare Cozzoli a commentare. E così forse gli è sfuggita la frase del Papa sul superamento dell’idea di “guerra giusta”. Perché in un’intervista all’agenzia Ansa, Cozzoli discetta di “guerre giuste”, appunto. Nota che «una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento», nel caso di un’aggressione «non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa». E la responsabilità di tale legittima difesa «può indurre anche altre nazioni a sostenere e aiutare la resistenza del popolo aggredito». La distanza con il Papa è abbastanza rilevante. Da parte mia preferisco seguire quest’ultimo. Si tratterà ora di aggiornare la Dottrina Sociale e il Catechismo, che parla di “guerra giusta” solo nel contesto di una “legittima difesa” contro un’aggressione e secondo condizioni stringenti. In ogni caso il Catechismo stesso non giustifica mai l’uccisione o gli atti violenti contro una popolazione civile (paragrafi 2307-2317) e chiede che si faccia tutto il possibile, sempre, per non ricorrere alle armi. Così come è cambiata la visione dottrinale (ed il Catechismo) sulla pena di morte (oggi sempre non giustificata né giustificabile), la guerra in corso e soprattutto le tecnologie sofisticate a servizio dei conflitti armati stanno suscitando una revisione della dottrina sociale sulla guerra giusta.

Tornando da Malta, domenica sera, papa Francesco ha alzato l’asticella ancora un po’ di più, articolando un ragionamento complesso, che vale la pena di seguire per intero. Ha detto esattamente così: «Ogni guerra nasce da un’ingiustizia, sempre. Perché è lo schema di guerra, non è lo schema di pace. Per esempio, fare investimenti per comprare le armi. Mi dicono: ma ne abbiamo bisogno per difenderci. E questo è lo schema di guerra. Quando finì la Seconda Guerra Mondiale, tutti hanno respirato e detto ‘mai più la guerra: la pace!’, ed è incominciata un’ondata di lavoro per la pace, anche con la buona volontà di non fare le armi, tutte, anche le armi atomiche, in quel momento, dopo Hiroshima e Nagasaki. Era una grande buona volontà». Stabilito questo primo punto, ha poi proseguito: «Settant’anni dopo, ottant’anni dopo abbiamo dimenticato tutto questo. È così: lo schema della guerra si impone. Tante speranze nel lavoro delle Nazioni Unite, in quel momento. Ma lo schema della guerra si è imposto un’altra volta. Noi non possiamo, non siamo capaci di pensare un altro schema, perché non siamo più abituati a pensare con lo schema della pace.

Ci sono stati dei grandi: Gandhi e tanti altri, che menziono alla fine dell’Enciclica Fratelli tutti, che hanno scommesso sullo schema della pace. Ma noi siamo testardi! Siamo testardi come umanità. Siamo innamorati delle guerre, dello spirito di Caino. Non a caso all’inizio della Bibbia c’è questo problema: lo spirito “cainista” di uccidere, invece dello spirito di pace. Vi dico una cosa personale: quando sono andato nel 2014 a Redipuglia e ho visto i nomi, ho pianto. Davvero, ho pianto, con amarezza. Uno o due anni dopo, per il giorno dei Defunti sono andato a celebrare ad Anzio, e anche lì ho visto i ragazzi che nello sbarco di Anzio sono caduti: c’erano i nomi, tutti giovani. E anche lì ho pianto. Davvero. Non capivo. Bisogna piangere sulle tombe. Io rispetto, perché c’è un problema politico, ma quando c’è stata la commemorazione dello sbarco in Normandia i Capi di governo si sono riuniti per commemorarlo; ma non ricordo che qualcuno abbia parlato dei trentamila soldati giovani che sono rimasti sulle spiagge. Si aprivano le barche, uscivano ed erano mitragliati lì, sulle spiagge. La gioventù non importa? Questo mi fa pensare e mi fa dolore. Io sono addolorato per questo che succede oggi. Non impariamo. Che il Signore abbia pietà di noi, di tutti noi. Tutti siamo colpevoli!»,

Eccolo qui papa Francesco, netto e per intero. Allora la domanda è: la Chiesa tutta (quella cattolica, ovviamente, 1,2 miliardi nel mondo) avrà il coraggio di prenderlo sul serio? I politici che al Papa dicono di ispirarsi e fanno la fila per andare in udienza (pensiamo a Biden, cattolico) prenderanno queste frasi con la dovuta attenzione? In effetti il messaggio è decisivo: la guerra è sempre ingiusta, le armi sempre sbagliate. L’unica strada da percorrere è il dialogo. In questo senso vanno le due notizie che hanno fatto capolino durante il viaggio a Malta: l’ipotesi di una visita in Ucraina, la possibilità di un nuovo incontro con il Patriarca di Mosca Kirill (appuntamento peraltro già in agenda prima del conflitto).

Il conflitto in Ucraina ha spostato tutto il baricentro geopolitico dell’Europa e delle Chiese cristiane cioè i cattolici, gli ortodossi, il mondo protestante. Dal canto loro i media hanno un grande lavoro per mettere la sordina alla richiesta incessante di pace. E forse, almeno in Italia, si dimentica un interessante articolo della Costituzione. L’art. 11 dice, precisamente, che «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Non si parla di guerra con definizioni – tipo “giusta” oppure “ingiusta” o di aggressione e difesa – ma proprio di tutta la guerra. Forse sarebbe il momento di fare tutti un passo avanti verso l’asticella di papa Francesco.

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

Presentat’arm! Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 30 marzo 2022.

Inconsolabile perché c’è almeno un leader contrario al riarmo, quello del partito di maggioranza relativa nato il giorno di San Francesco del 2009, Paolo Mieli lacrima sulla “nostra commedia” di rammolliti e panciafichisti, insensibili al presentat’arm! di Joe Biden e di altri virili commander in chief che non riescono a deglutire un boccone di pizza

Toni Capuozzo asfalta Beppe Severgnini: "Cosa capisco da questo titolo". La pagina che imbarazza il "Corriere". Libero Quotidiano il 13 aprile 2022.

Toni Capuozzo contro Beppe Severgnini. Succede su Facebook dove l'ex vicedirettore del Tg5 tira in ballo la firma del Corriere della Sera. Il dibattito ancora una volta è legato alla guerra in Ucraina e, più in particolare, agli interrogativi posti da Capuozzo su Bucha. Interrogativi che nei giorni scorsi hanno sollevato parecchio clamore, al quale si aggiunge la critica di Severgnini. Questa è stata prontamente pubblicata da Capuozzo con tanto di risposta al vetriolo. "Mettere in dubbio il massacro di Bucha - come ha fatto Toni Capuozzo in altre sedi - è profondamente sbagliato: ci sono centinaia di giornalisti sul posto, e tutte - sottolineo tutte - le grandi testate internazionali hanno confermato le esecuzioni e le fosse comuni. Certo, bisogna ragionare su tutto: ma questi interventi, mentre le truppe russe avanzano e le stragi aumentano, mostrano un errore grave di prospettiva'", sono state le parole di Severgni. 

Poi la risposta del diretto interessato, che ha portato come prova la prima pagina del Corriere.it: "Non so quale sia la prospettiva di Beppe Severgnini (che comunque si guarda bene dal rispondere alle mie domande) - scrive -. Però posso intuirlo dalla domanda retorica (quelle cui non puoi rispondere NO) che il suo Corriere della Sera, dopo aver raccontato l'eroica resistenza di Azov a Mariupol, pone ai lettori: basteranno le armi?". 

La posizione di Capuozzo sugli aiuti militari non è nuova. L'inviato di guerra a Sarajevo ha più volte espresso tutta la sua contrarietà nei confronti di Europa e Occidente e della loro "follia". "Quelle armi non cambiano la sorte del conflitto. E poi ci siamo bruciati la possibilità di svolgere un ruolo di mediazione", è il ragionamento che a distanza di giorni dall'inizio del conflitto non cambia. 

Dilaga la nuova dottrina: il Mielitarismo. Che cosa è il Mielitarismo, la nuova dottrina del giornalismo italiano. Michele Prospero su Il Riformista il 18 Marzo 2022. 

Nel dibattito pubblico italiano si addensa sempre più la nebbia deformante di una bolla ideologica. La situazione effettiva del conflitto è trasparente. L’imputazione delle responsabilità giuridiche è chiara. E però, invece che su come superare i dilemmi strategici della “operazione speciale” russa, si discorre nei media ad una sola dimensione soprattutto sulla veltroniana “guerra metafisica contro la libertà”. Paolo Mieli, sempre attento alle sfumature linguistiche, stavolta ha rotto gli ormeggi delle mediazioni concettuali per lanciarsi in reiterate polemiche con immagini insolitamente aspre. Un sociologo, che ebbe già il suo quarto d’ora di celebrità quando proprio il Corriere e Repubblica lanciarono un suo libro contenente vere e proprie bestialità concettuali su Gramsci, adesso diventa la testa di turco che con comodità è possibile sfruttare per denunciare il cinismo, le esagerazioni sgrammaticate di chi nell’accademia esce in maniera scomposta dal coro bello (di stampo gentiliano) della comunità ritrovata e omogenea.

Nella grande stampa trionfa una sorta di “Mielitarismo” culturale che prevede azzardati paragoni con gli anni Trenta, denuncia del dissenso pacifista come tradimento dell’occidente, demonizzazione del leader nemico come despota folle alla conquista armata dell’Europa. Proprio gli opinionisti che, sedotti da Salvini e Meloni, avevano combattuto l’ideologia perniciosa dell’antifascismo ora recuperano il mito della Resistenza. Non manca chi accenna l’inno della eticità delle sofisticate armi regalate al popolo ucraino. E tutti i media affascinati dall’estetica del fucile hanno ricamato sull’immagine della bambina con il mitragliatore e il lecca lecca come simbolo della nuova sensibilità morale di un occidente ritrovato nei valori ultimi. Quando si dice guerra metafisica. Persino Angelo Panebianco, dopo una rigorosa indicazione dei risvolti più generali della crisi ucraina (ruolo della Nato e difesa europea, ridefinizione dei bilanci in considerazione dei temi della sicurezza), accantona il sobrio linguaggio del realismo per adottare quello dell’ideologia (la narrazione di una santa guerra tra società aperta e autocrazia). E’ possibile stigmatizzare la strategia aggressiva di Putin senza scomodare le affinità con i baffetti del caporale austriaco?

Charles Tilly (La democrazia, Il Mulino) ha colto il carattere complesso dell’autocrate russo che nel suo dominio “rafforzò la capacità statale a scapito della democrazia”. Per un verso Putin ha inaugurato un processo di “de-democratizzazione” che restringe gli spazi di libertà persino rispetto ai canoni russi (trucchi elettorali, repressione di forze non governative, contrazione del potere dei media), per un altro, se da un regime parzialmente libero egli passò ad un regime non libero, “è riuscito a neutralizzare e a riportare sotto il controllo dello Stato l’oligarchia capitalista che aveva acquisito una straordinaria autonomia”. La dottrina del ministro Di Maio (sanzioni-povertà indotta come leva della insurrezione di popolo indispensabile per deporre il despota) contiene elementi di forte rischio. Imponderabili sono sempre le conseguenze dell’acefalia conseguente alla traumatica sconfitta di una potenza nucleare. Il fallimento militare ed economico della Russia decapitata nel suo centro di comando non è un evento così tranquillo come suppongono Di Maio e il vicedirettore dell’Huffington Post: solleva seri problemi geopolitici, dilemmi strategici paralizzanti. Poco meditate sono anche le prediche di De Rita sull’ingresso nell’economia di guerra come una straordinaria occasione per la ricucitura di autentici legami comunitari.

Il regime di Putin non è quello di un “democratico cristallino”, come lo dipingeva Schröder. Neppure è un epigono di Hitler. Il sistema di Mosca è “totalmente nuovo e ha un carattere complesso e multistrato grazie alla combinazione di bonapartismo, fascismo classico e moderno populismo berlusconiano. Il fatto che il putinismo contenga elementi di questi tre sistemi non significa che Putin abbia consapevolmente costruito il suo sistema a partire da questi elementi, anche se l’influenza diretta di Berlusconi su alcuni aspetti del suo sistema non può essere ignorata” (Marcel Van Herpen, Putinism, p. 203). A parte l’accostamento affrettato a Berlusconi, coglie elementi di verità la descrizione del regime russo come “fascist minimum” che non accarezza una ideologia razzista e non arma una milizia di partito. Accanto a chiusure autocratiche contempla la tolleranza per un pluralismo limitato nei media e nella rappresentanza. Per la sussistenza di una investitura elettorale sia pure manipolata si può parlare di un neo-bonapartismo in salsa orientale che persegue una funzione di modernizzazione dall’alto.

Alla componente militare che insegue il sogno di una potenza smarrita si è venuta sempre più ad aggiungere una esaltazione dei valori religiosi nel segno del neo-conservatorismo che saluta la Russia come centro del movimento globale anti-gender e custode della bella tradizione del sacro. Putin si presenta come il salvatore della nazione, l’uomo del destino che mitizza la grande Russia e con la “Unione eurasiatica” si scontra con le minoranze colte, secolarizzare e metropolitane, le Ztl russe con il sogno di occidente. Dal 2015 le “operazioni belliche” (la parola “guerra” è bandita dal lessico) vengono giustificate dalla necessità di portare soccorso all’etnia locale oppressa da odiose milizie naziste. Ricorrendo alle tecniche della post-verità, Putin lancia continue accuse di una penetrazione di gruppi con ideologia nazista che insieme ad “un granello di verità” contengono “vere e proprie invenzioni” come gli attacchi armati antisemiti (Moisés Naím, The Revenge of Power).             

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L’Ucraina va appoggiata, ma come paese sovrano aggredito, non come la culla della società aperta. Tutti gli indicatori istituzionali e culturali invitano alla cautela sui tempi di una integrazione nel laboratorio europeo di un sistema politico contraddittorio, con miglioramenti parziali e fasi di regressione. Rispetto al quadro del 2013 di Andreas Schedler (The Politics of Uncertainty. Sustaining and Subverting Electoral Authoritarianism, Oxford University Press), l’Ucraina non è del tutto uscita dal novero delle “autocrazie competitive” con un incerto ordinamento costituzionale definito con il passaggio dal partito unico al presidenzialismo assoluto sfuggente a limiti e controlli. Il disarcionamento dei vertici del regime oltre che al voto viene affidato alla insubordinazione di piazza, all’impeachment e agli arresti, con l’irruzione di “guardiani dell’integrità pubblica” che rimuovono gli avversari con pretesti legali e la messa fuori legge dei partiti sgraditi. Il sistema di governo “assolutistico-competitivo” solo parzialmente è stato corretto negli anni più recenti.

Il rapporto annuale “Freedom in the World 2021” segnala la rilevanza dello scontro istituzionale tra il presidente Zelensky e la Corte costituzionale nel corso del quale il capo dello Stato ha tentato di sciogliere la Corte dopo alcune sue sentenze in materia di leggi anticorruzione. Taluni membri della Corte sono stati perseguiti penalmente con l’accusa di sedizione. La politicizzazione di organi tecnici e istituzionali, oltre che dei servizi di sicurezza, rende ancora debole la cornice dello Stato di diritto e molto significative sono le discriminazioni varate contro rom, gay, minoranze di lingua russa. Il ruolo degli oligarchi incide nel funzionamento delle istituzioni, nella contesa elettorale, nella restrizione dei diritti sindacali. Il radicamento della destra radicale e delle formazioni paramilitari è indubbio anche se non nelle dimensioni denunciate dai russi, che nel 2014, dinanzi a 37 deputati e 3 ministri (compreso il vicepremier) espressi da Svoboda, parlarono di una deriva nazista. Roger Griffin (Faschismus, 2020) nomina Svoboda come segno di “un’importante sottocultura neofascista e populista di destra radicale”. Nondimeno “l’ascesa del paramilitarismo nazionalista”, accolto tra le file dell’esercito ufficiale e sottoposto agli addestramenti esteri, è stata poi orientata verso istanze che “funzionano più come temi dei movimenti della destra radicale populista, e talvolta solo della destra populista, piuttosto che come movimenti di nazionalismo rivoluzionario”.

Come spiega la politologa Lenka Bustikova (Extreme Reactions. Radical Right Mobilization in Eastern Europe, Cambridge University Press), “i valori anti-establishment, omofobi, etno-centrici, antisemiti e xenofobi della destra sovranista sono evaporati perché in gran parte riassorbiti dalle forze più grandi che si sono radicalizzate (nelle elezioni del 2014 Svoboda ha perso metà dei voti e va al di sotto del 5%). Poiché i potenti partiti mainstream adottano politiche simboliche, linguistiche e redistributive ostili al segmento russo della popolazione e si ribellano alla inversione di status per la nazionalità dominante la polarizzazione ridimensiona Svoboda quale partito anti-occidentale, anti-liberale e anti-UE” (p. 161). Non c’è una deriva nazista anche se proprio da esponenti di questa area (il presidente della camera) viene l’impulso per la riforma costituzionale del 2019 che stabilisce l’ingresso nella Nato. E però, quanto alla suggestione di Bernard-Henri Lévy di nominare sul campo Zelensky come il padre della nuova Europa, la cautela sarebbe necessaria.

Un fresco volume di Olga Baysha (Democracy, Populism, and Neoliberalism in Ukraine) analizza l’ascesa del comico Zelensky ovvero come un capo di stato televisivo si trasforma in presidente reale. L’oligarca proprietario dei media registra come partito il nome della serie televisiva “Servitore del popolo” e destina ingenti risorse per la campagna elettorale. Il comico, il 31 dicembre del 2018, annuncia la candidatura e nell’aprile del 2019 trionfa al secondo turno come profeta dell’antipolitica e vendicatore della società contro i corrotti. Subito dopo ottiene anche la maggioranza dei seggi con facce nuove, senza alcuna esperienza politica e per questo educate in fretta in un corso celere di formazione tenuto entro un complesso alberghiero. Avvalendosi della serie tv come una solida piattaforma, il comico sostituisce lo scarno programma di 1601 parole per uno “Stato smartphone”: i 51 episodi che lo vedono protagonista sono il suo vero programma dettagliato, oscillando così tra reale e virtuale nel pervasivo linguaggio dell’odio che mette in scena la caduta di Putin e la sparatoria contro la classe politica. La trovata più eclatante della comunicazione con allegorie armate si ha quando nello show “il presidente Holoborodko non avendo più fiducia nella possibilità di riforme anti-corruzione all’interno del sistema di potere esistente, scatena la sua furia con le mitragliatrici, massacrando i deputati proprio nella sala del palazzo parlamentare. Non tutti gli spettatori hanno visto la sparatoria come una semplice fantasia” (p. 57). Michele Prospero

L’irresponsabile canea dei tifosi della guerra. Gli ultrà guerrafondai sono cinici: vedono la guerra come un reality da sofà. Alberto Cisterna su Il Riformista il 25 Marzo 2022.  

Un mese di guerra. Migliaia di morti. Milioni di profughi. Città distrutte. Analisti militari e strateghi da pianerottolo che, per rassicurare una pubblica opinione attonita e allo sbando, lanciano il mantra secondo cui Putin starebbe utilizzando armi sempre più letali sol perché, badate bene, si troverebbe in grave difficoltà. Senza che a nessuno venga in mente di obiettare che qualunque assassino preferisce strangolare la vittima in silenzio, senza clamore e che solo quando resiste la massacra a coltellate o a colpi di pistola. L’autocrate russo sperava in una morte silenziosa del governo ucraino e aveva mandato al fronte mezzi obsoleti e soldati di leva pensando che bastassero allo scopo. Man mano che la resistenza ucraina ha accresciuto il proprio impeto si è deciso di sfoderare il top dell’arsenale e lo stanno puntando alla tempia di un popolo.

Dire che questo sia il segno di una debolezza è ai limiti della colpevole disinformazione; Putin ha sbagliato i calcoli e per rimediare farà una strage; ecco, questo ci avvicina alla realtà con minore approssimazione e sicuramente meglio di qualunque enfatica esaltazione del grande coraggio, degli altri per giustificare quel che stiamo facendo nel cosiddetto mondo libero. È una propaganda militarista, quella occidentale, che nuoce ancor di più al popolo ucraino: più il Cremlino vede messa in discussione la forza del proprio esercito e sbeffeggiati i propri soldati, tanto più reagisce con ferocia distruttiva per ristabilire agli occhi del mondo il proprio cupo prestigio. È una gigantesca arena in cui – al sicuro sugli spalti – gli spettatori incitano il più debole e minuto dei gladiatori a tirare qualche fendente al leone che è comunque pronto a sbranarlo. Assistiamo a una carneficina comodamente seduti nei nostri salotti, facciamo il tifo per questo o per quello, poi spegniamo la tv, riponiamo i giornali e tutto prosegue sino alle venationes del giorno successivo, quando altri uomini e altre bestie si scontreranno all’ultimo sangue.

La simpatia, l’empatia, la vicinanza al popolo ucraino non si possono misurare inviando armi perché la lotta prosegua, perché abbiamo interesse che prosegua. «Ma lo hanno chiesto loro, sono loro che vogliono difendersi» è l’ultima linea del fronte interventista con cui bisogna far di conto. Il popolo ucraino ha tutto il diritto di difendersi, ha tutto il diritto di opporsi all’invasione; quale vittima dell’arena non avrebbe chiesto una spada, un pugnale, uno scudo per tentare nella disperazione di salvarsi la vita. L’Occidente, invece che far di tutto per tirar fuori la gente innocente di Ucraina dall’arena di sangue in cui è finita, entusiasticamente pensa di inviare armi che non serviranno a vincere e che, al più, stanno ferendo la fiera, sempre più incattivita dal dolore. Siamo tutti d’accordo sul male, è sulla medicina che non c’è intesa alcuna. Non è sostituendo il coltello con una spada che l’uomo ucciderà la belva e avrà salva la vita.

Il dibattito in Italia, e non solo, si è polarizzato sulla questione dell’invio delle armi ai resistenti e non a caso. Non vogliamo saperne di guerre che minaccerebbero davvero il nostro habitat civilizzato, non vogliamo saperne di aumenti del carburante, guai se solo accennano ad abbassare la temperatura dei termosifoni, non ne parliamo se dovessero razionare grano, mais e altre materie prime. Ma che vogliamo scherzare? Molti tra noi sono solo un pigro popolo da stadio, da campionati del mondo, da Sanremo, da wrestling per finta, da videogiochi alla Playstation. Guardiamo da lontano, ci piace fare il tifo, prendere le parti a distanza però, solidarizzare con il portafoglio in mano, commuoverci ogni tanto, marciare se c’è bel tempo, essere empatici con i deboli senza mai abbracciarli, adorare il Mel Gibson in Braveheart o il Tom Hanks in Salvate il soldato Ryan. In fondo siamo solo l’homo videns di cui parlava Giovanni Sartori.

L’uomo cinico e satollo, pronto a distrarsi, disponibile a intraprendere un’altra intrepida battaglia a colpi di telecomando, insofferente verso i barconi pieni di neri che affogano, distratto verso i mendicanti per strada, cieco per lo sfruttamento dei raiders che ci sfamano nella nostra indolenza. E in questo acquitrino c’è chi pensa di poter profittare per risolvere partite d’interesse enormi cavalcando emozioni, manipolando l’odio (come ha splendidamente scritto Domenico Quirico su La Stampa), al punto da essere disponibili ad aiutare un popolo fino all’annientamento in nome di una libertà di cui non conosciamo più la prima declinazione che è la vita. Non saremo a caso a parlare di eutanasia nel paese con la più alta decrescita demografica al mondo: it’s not dark yet but it’s gettin’ there (“non è ancora buio, ma sta arrivando”) cantava un premio Nobel. Alberto Cisterna

Ucraina, Belpietro: siamo sul crinale della guerra mondiale. E scatta la rissa con Caprarica. Il Tempo il 24 marzo 2022.

Confronto significativo quello andato in scena giovedì 24 marzo a Dritto e rovescio. Nel programma condotto da Paolo Del Debbio su Rete 4 si sono visti due punti di osservazione opposti, quello del giornalista russo Vsevolod Gnetii, direttore dell'agenzia “New Day Italia”, e dell'ucraina Katerina Sadilova, ex del servizio di sicurezza di Kiev. 

Il russo si è detto contrario all'invio di armi a Kiev per una motivazione particolare, "perché dal 2014 in poi ci sono stati numerosi casi di contrabbando di armi in dotazione dell'esercito ucraino che sono finite in altri Paesi d'Europa o in Medio oriente", dice Gnetii che parla di missili terra-aria Stinger finiti in Siria e fucili di precisione passati dall'esercito ucraino ad altri teatri di guerra.  Del Debbio è sorpreso, ma allora tutte le armi che mandiamo all'Ucraina finiscono nel contrabbando? "Esatto" risponde il russo che cita giudizi analoghi a riguardo di Roberto Saviano e del criminologo americano Vincenzo Musacchio. 

La parola passa alla Sadilova, che rigetta la ricostruzione del giornalista: "Stiamo ricevendo le armi, contesto assolutamente" che finiscano al mercato nero. L'ex dei servizi poi dà una diversa lettura delle notizie arrivate dal campo: le truppe russe che hanno circondato i sobborghi di Kiev, spiega, sono state a loro volta concordate dalle forze armate ucraine "al 95 per cento". L'ucraina parla di un vicolo cieco, e cita Al Jazeera che parla di "10-12mila soldati russi circondati". Insomma, l'Ucraina sta vincendo, almeno intorno a Kiev?

La palla torna a Gnetii che cita, riguardo alle armi che da Kiev finirebbero altrove, un episodio controverso, quello del drone armato finito su Zagabria: "Se questo non è un atto di guerra da parte dell'Ucraina alla Croazia..." Ma Zagabria non ha confermato, sbotta l'ucraina. 

I retroscena sul Vaticano. Il Corriere prova ad arruolare il Papa contro Putin, ma Francesco fa già parte dell’esercito della pace. Fabrizio Mastrofini su Il Riformista il 24 Marzo 2022. 

Il Corriere ha provato ad arruolare il Papa, a mettergli l’elmetto, ma il Papa è decisamente già “arruolato” nell’esercito della pace. La fantasiosa ricostruzione di un Francesco bellicista proposta dal quotidiano di via Solferino, per quanto sia fantasiosa, è decisamente priva di fondamento. Certo la situazione è inedita per l’Europa, con la guerra in corso, in cui è molto chiaro che c’è un aggressore e un aggredito. È chiaro alla diplomazia vaticana (ma non solo…) che con il cardinale Parolin il 18 marzo si è spinta avanti, offrendo una disponibilità in prima persona a mediare tra le parti.

Nelle ultime settimane è papa Francesco il capofila avanzato di un no alla guerra senza eccezione e senza eccezioni, su cui torna in tutti i modi, in tutte le udienze in cui può inserire il tema del conflitto. È una linea che non ha punti di debolezza. Per il resto la diplomazia della Santa Sede rispetta una seconda regola ferrea: il Papa quando chiama, dialoga, telefona (nei colloqui con gli ambasciatori russo e ucraino, in quelli con il presidente Zelensky), non fa divulgare il contenuto della conversazione. Sono gli interlocutori, semmai, a cercare di tirare dalla loro parte papa Francesco, perché a tutti fanno gola le “divisioni” del Papa (come le chiamava Stalin), vale a dire far vedere che hanno l’appoggio morale del pontefice. Appoggio morale che ogni governante vorrebbe incassare per farlo risaltare come appoggio politico. Ma papa Francesco lo sa e infatti tace. Ha lasciato al presidente Zelensky dare per primo a Camera e Senato, martedì 22, la notizia dell’ennesima telefonata. La Santa Sede ha confermato solo in seguito. Ma niente indiscrezioni sui contenuti.

Del resto, oltre agli Angelus, alle udienze generali (come ieri), ai discorsi, cosa dovrebbe dire di più Papa Francesco? Ieri ad esempio: «Lo Spirito del Signore ci liberi tutti da questo bisogno di auto-distruzione, che si manifesta facendo la guerra. Preghiamo anche perché i governanti capiscano che comprare armi e fare armi non è la soluzione del problema». Ed oggi ci sarà l’atto solenne di consacrazione della Russia e del mondo a Maria. Evento religioso dal trasparentissimo significato socio-politico. Che dire di più? Lasciamo al Papa il suo mestiere: indicare la via del dialogo e della pace e fare un’azione decisa di pungolo etico e morale verso il resto del mondo (politici compresi, anzi soprattutto i politici). Altro non gli si deve chiedere. Certamente il conflitto in corso avrà degli effetti sul piano dei rapporti ecumenici tra cattolici e mondo ortodosso. Ma solo in un secondo momento si capirà come riannodare il filo del dialogo.

Per il momento è urgente far terminare il conflitto. Poi dopo si vedranno anche le conseguenze del conflitto stesso su quella parte di establishment religioso ortodosso (vedi Kirill) troppo apertamente schierati con il governo russo. Per quanti volessero capire meglio la situazione sul campo della Chiesa cattolica e degli ortodossi ucraini (due chiese: quella legata a Kiev e quella legata a Mosca) – tipo i giornalisti presenti a Leopoli – potrebbero rivolgersi all’arcivescovo greco-cattolico della città, Svjatoslav Ševčuk, che ogni giorno con il suo staff realizza e invia dei video, con i sottotitoli in italiano, inglese, spagnolo. Di suo l’arcivescovo non si sottrae ai giornalisti ed è un poliglotta (parla ucraino, russo, italiano, spagnolo, inglese, o sono queste almeno le lingue che gli ho sentito parlare dal vivo). Ed è un’autorità morale di primo piano. Forse per questo i giornalisti (italiani) inviati a Leopoli lo ignorano?

Fabrizio Mastrofini. Giornalista e saggista specializzato su temi etici, politici, religiosi, vive e lavora a Roma. Ha pubblicato, tra l’altro, Geopolitica della Chiesa cattolica (Laterza 2006), Ratzinger per non credenti (Laterza 2007), Preti sul lettino (Giunti, 2010), 7 Regole per una parrocchia felice (Edb 2016).

La crociata interventista non ammette dissidenti. Il militarismo italiano è la fase finale del populismo di Lega e Movimento 5 Stelle. Piero Sansonetti su Il Riformista il 24 Marzo 2022. 

Vi stupisce la compattezza del fronte interventista? E la durezza martellante delle posizioni di questo fronte? Vi colpisce – per esempio – che un giornale moderno e tradizionalmente aperto, come il “Corriere della Sera”, oggi sia trasformato in un monolite dove non è ammesso neppure un sussurro gentile di dissenso? Vi stupisce che – sulla grande stampa e praticamente, con rarissime eccezioni, in tutte le reti Tv – chi prova a emettere qualche suono di obiezione alla linea ufficiale della Nazione sia indicato come nemico della patria e persona al soldo di Putin?

Si, un po’ mi stupisce, un po’ no. Io credo che questa nuova forma di pensiero militarizzato non nasca dal nulla. Sia piuttosto il precipitare di un fenomeno di lunga lena che io, semplificando appena un po’, chiamo populismo. Può sembrare un paradosso. La nuova spinta patriottarda e interventista, intollerante di ogni distinguo, viene proprio da quelle forze intellettuali e politiche che sono sempre state, o sembrate, il bersaglio del populismo. In Italia il populismo ha due padri: Beppe Grillo e Umberto Bossi. In forme diverse, con intensità diverse, con diversi retroterra culturali, ma nella sostanza simili. Bossi fu il primo a indicare nella politica dei partiti – cioè nella forma di democrazia fino a quel momento sperimentata nel nostro paese – il male dell’Italia. E fu il primo a cambiare radicalmente il linguaggio della politica e dei giornali. Dai sofismi di Moro e di Piazzesi alle invettive e ai gesti e ai rumori (buhhh, bongo bongo, il gesto dell’ombrello, il cappio sventolato in aula contro i socialisti) dei ragazzi della Lega.

Grillo arrivò circa 15 anni dopo. Usando lo stesso linguaggio e le stesse suggestioni, ma rivolgendosi, con successo, non all’elettorato conservatore del Nord, sul quale aveva fatto breccia la Lega, ma a strati molto ampi di popolo di sinistra, soprattutto ex Pci, che erano stati spostati su posizioni vagamente qualunquiste prima dai magistrati guidati da Borrelli poi dal fenomeno originalissimo e clamoroso dei Girotondi, quelli di Nanni Moretti e di Paolo Flores, che irruppero nella politica italiana in un baleno, imprevisti, indebolendo la sinistra tradizionale, indebolendo soprattutto la sinistra radicale e no global e pacifista, e favorendo un ritorno del centrodestra che si presentò al paese come unico garante della stabilità e della democrazia politica.

Da quel momento in poi il populismo è cresciuto. A sinistra e a destra. Sicuramente più a sinistra che a destra. Penetrando nel profondo nei partiti, nei giornali, nelle Tv. Radendo al suolo quello che era rimasto dell’intellettualità pensante, che – con tutti i suoi difetti – era stata per decenni uno dei punti di forza della prima Repubblica e in particolare della sinistra (ma anche, largamente, della Democrazia cristiana, che tra l’altro aveva grandi intellettuali tra i suoi dirigenti). Noi, probabilmente, non ci siamo accorti di quanto il populismo stava corrodendo tutto il sistema Italia,. Lo stava penetrando, irradiando. Io credo che oggi sia arrivato al suo ultimo passo, cioè al trionfo. Con la conquista dell’establishment e l’affermazione del pensiero autoritario che si presenta ora come pensiero ufficiale e indiscutibile delle classi dirigenti e come pensiero sicuro ed affidabile.

Così si arriva al “Corriere di Guerra”. Dico il Corriere semplicemente perché Il “Corriere della Sera” è sempre stato, e continua ad essere, il luogo nel quale si concentra lo spirito pubblico della grande e della migliore borghesia italiana. È il giornale che quasi sessant’anni fa capì il ‘68, e senza farsi inglobare riuscì ad entrare in sintonia con quella generazione e con la sua spinta ribelle e sovvertitrice di valori. È il giornale che ha saputo accompagnare la svolta liberista degli anni ‘80, senza rompere con la sinistra. È il giornale che quando Berlusconi ha spaccato, nella borghesia, la monoliticità del potere dei torinesi e degli Agnelli, è riuscito a restare agnellista senza farsi trascinare dall’antiberlusconismo che stava travolgendo quel pezzo di vecchia borghesia. È il giornale che ha sempre saputo difendere, anche nei momenti di massimo sbandamento, l’unità della borghesia italiana. Persino quando, con grande scaltrezza, riuscì a mettersi alla testa di Mani Pulite senza farsi fagocitare e restando sulla cresta dell’onda.

Oggi il Corriere è la massima espressione dello spirito guerresco. Perché? Perché ha deciso di cedere al populismo. Di sconfiggere i ceti dirigenti debolissimi e reazionari del vecchio populismo leghista e grillino, sostituendoli con nuovi gruppi dirigenti e un nuovo strato intellettuale, capaci di trasformare il populismo in ”armismo”, in “americanismo” persino, se serve, in zelenskismo. E capace di guidare una lotta senza quartiere alle frange dissidenti, per annientarle. Così come nel 93 e nel 94 Il Corriere guidò l’annientamento di quel poco che restava a difesa della prima Repubblica. Niente di nuovo, allora? No, no, molto di nuovo. E inaspettato. Non ci aspettavamo che il populismo trionfasse. Ora è lì. Ha piantato la bandiera anche su palazzo Chigi.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La chiamata alle armi dei mansueti e l’insopportabile “taci il nemico ti ascolta”… La chiamata alle armi dei mansueti ha il goffo entusiasmo dei marmittoni al CAR, anfibi troppo nuovi, basco troppo largo, fucile mai imbracciato prima. E intanto la guerra, con i suoi orrori inanella giorni. Toni Capuozzo su Il Dubbio il 25 marzo 2022.

Non so come la racconterà la grande informazione italiana. Ma ieri al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite la Russia e la Cina hanno presentato una proposta di risoluzione per un cessate il fuoco per ragioni umanitarie. Trucco, mossa furbesca? Quello che volete, ma era l’occasione per prenderli in parola, no? Voti favorevoli, quelli dei due presentatori. Voti contrari tredici. Vedremo come ce lo spiegano: parlava di crisi umanitaria ma non menzionava le colpe dell’aggressore, bisognava spezzare il fronte russo- cinese, occorreva evitare che l’aggressore se ne approfittasse per riorganizzarsi, sono in difficoltà e vogliono la tregua è il momento di punirli. Domani ci mostreranno altri orrori, la medicina amara di ogni interventismo.

Sotto la grande ala di Biden non sembra essere uno stormo di colombe quello dei leader europei. E’ come se una classe politica democratica e moderata avesse preso a modello i democratici americani, che in nome dei buoni principi e di un mondo migliore, hanno avviato guerre e creato vuoti paurosi in giro per il mondo. In Italia il panorama è ancora più modesto, perché si aggiunge una specie di “taci il nemico ti ascolta” per cui ogni dubbio viene affrontato con un aggettivo definitivo: filoputiniano. La chiamata alle armi dei mansueti ha il goffo entusiasmo dei marmittoni al CAR, anfibi troppo nuovi, basco troppo largo, fucile mai imbracciato prima. E intanto la guerra, con i suoi orrori inanella giorni. Sembra di capire che la Russia abbia rinunciato non solo alla presa, ma persino all’assedio di Kiev, che non è mai iniziato. Hanno scavato trincee, subiscono contrattacchi importanti per il morale dei difensori, ma intanto tengono bloccata la capitale, le sue armi, le sue energie. E si concentrano sull’est del paese. Quando ci si siederà a un tavolo delle trattative, farlo con la costa, tranne Odessa, nelle proprie mani è avere un buon gioco: puoi ritirarti da Kiev, puoi restituire Kherson, ma il resto l’hai portato a casa. Non sarà mai trattato di pace, perché Zelenskj non può accettare la mutilazione della patria. Sarà un cessate il fuoco. E poi?

Daremo armi agli ucraini per partire all’attacco delle terre irredente? Faremo guerra per l’Ucraina una e indivisibile? Staremo a vedere, come stiamo facendo per Mariupol, il bunker berlinese o l’ultima Salò del battaglione Azov, con gli assedianti che non sembrano del tipo propenso a fare prigionieri. A meno che la Russia e Putin non crollino, cosa che ingolosisce. E dopo? Abbiamo qualche esperienza a riguardo di quello che pudicamente viene chiamato “regime change”. In Iraq, in Libia, in Afghanistan, Siria e via dicendo. Scarseggiano grandi leader fermi ma capaci di colpi d’ala, di mosse inaspettate, di mani tese a disarmare l’avversario, di soluzioni che fermino l’inerzia della guerra. Volano solo aerei e, nel loro piccolo, falchi. Occhi fissi a scrutare il terreno, mai uno sguardo al futuro.

Putin invade e massacra gli ucraini, che c’entrano gli americani? Paolo Guzzanti su Il Riformista il 24 Marzo 2022. 

Tutti i paesi del mondo sono stati costretti a definirsi davanti all’invasione dell’Ucraina e a tutto ciò cui stiamo assistendo sgomenti da quasi un mese e credo che soltanto l’Italia abbia avuto reazioni ideologiche, psicologiche, emotive, di rigetto o di entusiasmo, come nessun altro paese al mondo. Quando lessi alcuni anni fa la riedizione del Discorso sul Carattere degli Italiani di Giacomo Leopardi sociologo e giornalista, restai folgorato da ciò che sapeva su di noi due secoli e rotti prima. Come lo sapeva il Manzoni della Colonna infame e dell’assalto ai forni e poi il vero Pinocchio come lo scrisse Collodi e lo lesse Paolo Poli per i bambini degli anni Sessanta. Aggiungerei Giamburrasca, garbato eversore da salotto in una famiglia borghese con sorella fidanzata e non eviterei la saga di Guareschi col prete da scomunica ai comunisti e del pacioso caposezione del Pci. In mezzo a queste saghe c’era stato il fascismo che non era diverso dal nazionalismo esaltato che confinava nell’anarchismo dinamitardo.

Come esperienza tangibile non ho che quella mia personale e ricordo perfettamente come giovane di estrema sinistra, di cui conosco e so ancora riprodurre e persino provare tutta la gamma dei sentimenti, risentimenti, idiosincrasie e una ben addestrata capacità di negare il vero, affermare il falso, cambiare le carte in tavola e – quando esistevano ancora i partiti di sinistra – chiedere non che cosa fosse meglio per il tuo Paese, ma quale fosse la linea del partito. Una volta accertata la linea, bastava comportarsi come prescritto. E allora, la Russia che invade l’Ucraina come ha già invaso la Crimea e prima ancora la Georgia e ora il Donbass e la Crimea, e che col nome di Urss aveva già invaso tutto quel che le capitava partendo dalla Polonia a quattro mani con Hitler, la Finlandia, le Repubbliche baltiche, la Bessarabia e poi, dopo la guerra vinta la Germania dell’Est, l’Ungheria sotto la pressione del Pci italiano e di quello cinese di Mao, e che occupava Romania, Bulgaria e tutto ciò che capitava a tiro, sempre invocando un diritto storico, planetario perché non dobbiamo dimenticare mai ciò che vi può confermare qualsiasi mappamondo e cioè che la Russia comincia in Polonia e arriva in Giappone costeggiando Cina e Mongolia.

E noi? Noi che abbiamo il nostro bel carattere degli italiani così come descritto dai citati autori della memoria? Sarò sincero: vedo la menzogna a vele spiegate e sono sicuro soltanto della genuina onestà di poche persone che si sono sempre schierate contro le armi, contro la giustizia come punizione – retribution in inglese per dire proprio castigo come compenso per il male fatto. Lì vedo coerenza, ma agli altri credo meno perché fiuto cinismo, anni spesi a spegnere il rispetto per la verità.

Quando Hitler attaccò la Polonia, che cosa credete? Che il mondo si schierasse con i polacchi? Macché. Si scatenò contro inglesi e francesi che avevano formalmente – solo formalmente senza sparare un colpo – dichiarato “guerra all’invasore”. E ogni invasione russa ha avuto in Italia i suoi “carristi” coloro che stavano dalla parte dei carri armati russi a Potsdam, Budapest. Ricordo il mio tentennamento morale per Budapest e avevo sedici anni. Però l’ho avuto e so che sapore ha. Poi, millenni dopo, nel nostro millennio, è intervenuta la classe equestre degli affaristi, i businessmen per i quali l’importante è fare affari: les affairs sont les affairs, scriveva il poeta Jacques Prévert. E anche gli yacht sono pur sempre yacht.

E allora, noi italiani? Noi italiani, in genere, non abbiamo una tradizionale e consolidata indipendenza germogliata dalla verità perché la verità è un trastullo per servi sciocchi. Che cosa sarebbe, poi, questa verità? Non siamo forse tutti figli di Pirandello, uno mille e centomila, la verità dello sfruttatore e dello sfruttato, e giù! tutto il predicozzo sulla verità che non è mai quel che sembra perché non appartiene al mondo apparente, essendo l’Italia neoplatonica dove si detesta l’apparente, che tutto sommato è soltanto copia della copia di una fotocopia. Non raccontiamoci balle con la verità: non siamo nati ieri e siamo molto più preparati nello smascherare la verità per trovare il nocciolo della menzogna (Leopardi). E poi, comunque, non ci sono sempre gli americani? Putin invade, mette a ferro e fuoco, infligge la morte e la pena a chi andava a scuola, o a lavorare o al mercato e con un giocattolo subsonico fa un hamburger di un Paese i cui cittadini hanno il torto infame di desiderare Parigi o Roma e non Mosca, e dài, sinceramente, ma vi pare possibile che dietro questo inferno ci siano gli americani? Altro non ho come prova o indizio, che me stesso. Quando misi piede per la prima volta a New York e non parlavo inglese ma solo spagnolo per aver passato anni a frequentare il Cile di Pinochet, la Colombia dei narcos, il Messico del Comandante Zero dalla camicia impeccabilmente stirata, e per essermi sperduto nelle foreste del Salvador con i bambini orfani di Peter Pan e fiutavo come tutti gli americani, sempre stupidi e grassi, i loro soldati neri mandati al macello e sbarcai a New York City. E li capii che i conti non tornavano. Rimasi folgorato. L’uso della logica e la schiettezza feroce di stampa e televisione sempre furiose contro il potere.

E il nostro mondo riversato lì, in America. Lo so, non fa lo stesso effetto. E queste parole non hanno alcun valore politico ma è ovvio che negli Stati Uniti come in Inghilterra tu appartieni anche a una patria, magari sei irlandese e appartieni all’Irlanda come James Joyce. E sei in guerra con gli inglesi perché la storia della tua gente ti appartiene e tu non sei nazionalista, ma sei patriota come si dicevano patrioti i nostri partigiani della Julia che cantavano Pietà l’è morta dopo essere tornati dalla spedizione in Russia. E adesso non dovrei restare folgorato da quelle bambine ucraine che insieme alle loro nonne preparano armi per difendersi? Bottiglie incendiarie con lo stoppaccio, acqua bollente contro i barbari che poi sono ragazzini come i miei figli, che piangono bevendo il tè bollente delle madri del nemico con un cellulare in cui dire “Mamma, sono vivo”. Quando John Kennedy e poi Lyndon Johnson e il primo Nixon fecero la maledetta guerra del Vietnam, tutti gli americani vedevano in televisione quel che succedeva. E Bob Dylan e Joan Baez cantavano e noi, milioni e miliardi in tutto il mondo in piazza cantavamo We shall overcome.

E quando questi ragazzi russi di un mondo più separato dell’Alabama, provenendo dal mondo profondo e lontano, sapranno? Mai. Mai perché nessuno vuole che sappiano. E noi siamo differenti da coloro che hanno un cuore che batte in petto e troviamo ridicoli i ragazzi che a domanda rispondono (tutti, senza una sola eccezione, quale che sia la televisione satellitare compresa al-Jazeera e persino dalla Cina): «No, signore, mio padre e mio fratello stanno combattendo per il nostro futuro contro gli invasori e noi non vogliamo scappare, ho tredici anni e voglio combattere, vincere questa guerra che ci hanno portato in casa nostra». Davvero il primo sentimento che viene è che tutte le armi sono armi mostruose e che questa guerra sta durando sin troppo, ma che si arrendano, che depongano le loro di armi, e smettano di fare i gradassi. E che chi ha la casa sventrata da trenta tonnellate di acciaio e cingoli non meriti un lanciarazzi per ridurre quel mostro in un rottame.

Avevamo un inno orecchiabile che dice così: una mattina mi sono svegliato e ho trovato l’invasor e dovrete scrivere sulla mia tomba che da combattente sono morto per la libertà. Mi pare si chiamasse Bella ciao, un inno – credo – di provocatori ucraini i quali ogni notte stavano a naso per aria in attesa che i piloti americani e inglesi lanciassero loro col paracadute armi, Armi per combattere. Dice Manzoni che chi non ha coraggio non può darselo e Pinocchio chiede inutilmente giustizia al giudice Scimmia, mentre don Camillo e Peppone si riconoscono nel Sangiovese cantando “chi ha avuto ha avuto”.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L’Unione europea spende tanto per la difesa ma non è una potenza militare. DANIELE MARTINI su Il Domani il 25 marzo 2022

Se si dovesse tener conto solo dei numeri si arriverebbe alla conclusione che spendendo tre volte più della Russia l’Europa è un gigante militare, ma non è così perché le spese sono sì ingenti, ma molto frammentate 

Fin dai tempi del trattato di Maastricht di 30 anni fa si parla dell’esigenza di costituire una forza armata comune, ma i ritardi accumulati sono enormi. 

Le iniziative europee appaiono timide, la presidente della Commisione Ursula von der Leyen ha parlato di una forza di pronto intervento rapido formata da cinquemila uomini, ma la difesa comune europea è un’altra cosa.

DANIELE MARTINI. Ha lavorato 15 anni all’Unità e 23 a Panorama. Ha collaborato con Il Fatto Quotidiano. Ha scritto 5 libri: le biografie di Gianfranco Fini e Massimo D’Alema e tre inchieste sulla casta, le raccomandazioni e il nepotismo

Spese militari, ecco i veri numeri: 30,4 miliardi di euro in un anno (ma non tutti per armi e soldati). Oggi i costi sono superiori rispetto ai dati di cui discutono partiti e programmi tv. Perché si ignorano gli investimenti e si generalizza (nel computo ci sono anche i Forestali). Milione per milione, quanto spende l’Italia e quanto denaro ha impegnato già nei prossimi anni. Carlo Tecce su L'Espresso il 25 Marzo 2022.

«Non bastano 25 miliardi di euro in spese militari». «Va raggiunto il 2 per cento del pil». «Ce lo chiede l’alleanza atlantica Nato». «Sorpresa: ci sono altri 60 miliardi per il futuro». «Il nostro obiettivo sono 35 miliardi». Al banco italiano delle armi c’è molta confusione. La guerra russa in Ucraina ha rinvigorito le baionette. I generali in divisa e in licenza sfogliano i cataloghi di vendita e quelli che generali non sono, né in divisa né in licenza, scrutano le cartine geografiche.

La svolta epocale della Nato. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 25 Marzo 2022.  

L’incontro del 24 marzo, guidato da Biden, segna una svolta per gli equilibri in Europa: si discute sull’«ambiguità costruttiva» (cioè una maggiore flessibilità sul non intervento), ovunque gli Stati investiranno nel riarmo. Per ora, come dice il presidente francese Emmanuel Macron, «la linea non cambia». La Nato, però, ha avviato una svolta epocale, o, forse addirittura una mutazione genetica. L’organizzazione prematuramente liquidata nel 2017 da Donald Trump («è inutile») e poi da Emmanuel Macron nel 2019 («morte cerebrale») diventa improvvisamente il modello di una nuova costruzione occidentale.

Il vertice di Bruxelles è stato molto diverso dagli altri. Certo, il risultato più concreto è la costituzione di quattro battaglioni (da 300 a 1000 soldati) da inviare in Romania, Slovacchia, Ungheria e Bulgaria. Ma è un elemento di un approccio decisamente più largo. La guerra in Ucraina ha dato all’Alleanza un inedito ruolo politico, destinato a gonfiarsi fin tanto che la Russia sarà guidata da Vladimir Putin. La prova? Basta osservare la discussione che si è sviluppata sul messaggio da trasmettere al Cremlino. Un gruppo di Paesi, guidato da Regno Unito e Polonia, ha proposto di adottare una strategia di «ambiguità costruttiva». Vale a dire: l’Alleanza atlantica non interviene direttamente nel conflitto, ma potrebbe cambiare idea se Putin dovesse scatenare un attacco chimico, biologico o nucleare.

Il piano: La Nato rafforzerà l’assistenza militare dell’Ucraina con armi anti carro, difese anti missile e droni oltre all’invio di materiale di protezione in caso di attacchi chimici, nucleari e biologici

Sistemi di difesa aerea: batterie a lungo raggio SA 8 (nella foto) e S300 di fabbricazione sovietica e russa: gli ucraini li sanno usare, permetterebbero a Kiev di imporre una no-fly zone di fatto per i russi

Missile anti carro Javelin: di fabbricazione americana, a guida infrarossi, pensato per eliminare i carri armati nemici

Drone switchblade: un drone kamikaze di produzione Usa, pesa sui 3 kg, trasportabile in uno zaino e composto da un tubo lanciatore dal quale «esce» il drone esplosivo. Il loro invio in Ucraina è al vaglio degli alleati. Finora l’esercito ucraino è riuscito a contrastare l’avanzata dei russi anche grazie ai Bayraktar turchi

La spinta è stata bloccata da un largo schieramento in cui si sono ritrovati Stati Uniti, Francia, Germania, Italia e molti altri. Come confida al Corriere, il primo ministro della Norvegia, Jonas Gahr Store, «avrei preferito che l’espressione “ambiguità costruttiva” entrasse nel comunicato, ma la discussione resta aperta». Come dire: Biden e gli altri hanno solo guadagnato tempo, forse giorni, forse settimane. Finora avevamo ascoltato ragionamenti del genere nei vertici del G7 o del G20, non in un summit della Nato.

Le conseguenze di tutto ciò saranno di grande impatto. Innanzitutto c’è una questione di leadership. Ieri Joe Biden si è comportato come il leader di fatto . Il comunicato finale del vertice sembra una fotocopia della dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca qualche ora prima: «Se la Russia usa le armi di distruzione di massa, ci saranno severe conseguenze». 

La Nato sarà la piattaforma che coordinerà gli aiuti militari all’Ucraina. Insieme a un altro massiccio flusso di missili anti-tank , anti-aerei, droni e, forse di batterie anti-navali, a Kiev arriveranno anche le indicazioni messe a punto a Washington. Vero, le altre capitali potranno sempre dire «sì» o «no». L’iniziativa, però, toccherà agli americani: è l’eredità che la «vecchia» Nato passerà alla «nuova». Potrebbero sorgere, presto, anche delle complicazioni. Sono nette, per esempio, le differenze di opinione sul ruolo della Cina. Biden diffida di Xi Jinping. Macron, invece, confida nella mediazione di Pechino.

L’epicentro degli equilibri geo-politici si sposta dalla Germania al fianco Est dell’Europa. A sorpresa aumenta il peso specifico di Polonia, Romania, Bulgaria, dei Paesi baltici; mentre Germania, Italia, Spagna dovranno correre, insieme ad altri 16 partner, per raggiungere l’obiettivo della spesa per la difesa, fissato al 2% nel vertice di Galles del 2014. Ciò significa un massiccio trasferimento di spesa pubblica verso il riarmo. Da dove arriveranno queste risorse? Nuove imposte? Tagli agli investimenti o al welfare?

RESA O CARNEFICINA? 

Il pericolo del pensiero unico omologato e conformato.

La vittima, dico vittima, ha sempre ragione?

Cosa noi proviamo, guardando un film, nel vedere un criminale omicida braccato dalla polizia che si para dietro una vittima indifesa, usandola come scudo umano, e minacciata con un'arma a mo di ritorsione? Credo che molti di noi provino odio profondo.

E che dire di chi fa crollare i ponti prima che la gente possa fuggire dalle città?

Come considerare i carri armati ucraini nascosti tra i palazzi delle loro città? E come considerare i resistenti tra i civili?

Non la resa in una lotta impari, ma si pretende l'aiuto diretto delle nazioni occidentali, nonostante si preveda il loro coinvolgimento in una guerra totale con la morte di gente estranea al conflitto in corso. Quella gente sono i nostri figli o noi stessi.

Non la resa, ma la pretesa accoglienza di profughi ucraini, negata, però da loro stessi, ad afgani, siriani, ecc. ecc.

Quando qualcuno al mare, nonostante l'avviso che è pericoloso fare il bagno, chiede aiuto perchè sta affogando, tu altruista ti tuffi senza analizzare le conseguenze. Quando ti trovi al suo cospetto, la reazione dell'affogando è salvarsi a tutti i costi, aggrappandosi a te, tanto da attentare alla tua sicurezza pur di stare a galla.

I media palesemente anti Putin che per propaganda ci inondano di immagini di bambini profughi e ripetutamente ci raccontano di bambini morti e che inneggiano alla resistenza degli occupati, ci vogliono far entrare in una guerra fratricida e nazionalista non nostra?

Più che filo ucraino sono filo italiano, senza dimenticare, però, che, nelle guerre, solo per la povera gente tutto si perde e nulla si guadagna. 

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 12 luglio 2022.

C'è una verità che nessuno ha il coraggio di dire: la guerra in Ucraina va finita il prima possibile. Non so come, con quali concessioni o penalizzazioni nei confronti di Mosca, ma ormai è evidente per chiunque voglia guardare in faccia la realtà: a questo conflitto si deve porre fine perché nessuno è disposto a subirne le conseguenze. 

La Germania è alla canna del gas e noi pure. I tedeschi non sanno più come uscire dalla situazione in cui ci siamo infilati, cioè come aggirare le sanzioni. Adottate per costringere Putin a cedere e suonare la ritirata dell'armata rossa, si stanno rivelando un boomerang per chi le ha imposte, in quanto stanno mettendo in difficoltà l'economia dell'intera Europa. 

Infatti, il governo di Olaf Scholz, dopo aver chiesto al Canada di ignorare l'embargo e restituire una turbina a Gazprom, per evitare che la compagnia russa abbia un pretesto per ridurre le forniture di metano, sta ritardando l'erogazione dei miliardi promessi a Kiev. Un segno per ingraziarsi Putin? 

Forse solo per evitare ritorsioni che metterebbero in ginocchio l'industria di Berlino. Non va meglio in Italia, dove da ieri è ufficiale il possibile razionamento dell'energia. Fino a qualche settimane fa il governo si diceva sicuro di poter trovare un'alternativa al gas russo, grazie all'Algeria e all'Azerbaigian, ma oggi i fatti non lasciano speranze.

Senza il metano di Putin, l'Italia non ha scorte sufficienti per superare l'inverno: dovrebbe ridurre il riscaldamento, fermare alcune produzioni e spegnere i lampioni delle strade. Ancora nessuno ha il coraggio di dire che parte della popolazione resterà al freddo e molte industrie non saranno in grado di produrre, sia per i costi troppo elevati dell'energia che per i distacchi che potrebbero verificarsi. 

In altri Paesi se ne discute sui giornali quasi come un dato di fatto, da noi si preferisce glissare per non preoccupare l'opinione pubblica. Una situazione che, a differenza dei primi mesi di guerra, quando la solidarietà nei confronti dell'Ucraina era ai massimi, sta facendo aumentare l'insofferenza nei confronti di un conflitto che, a differenza dei vertici della Ue, nessuno sente davvero come proprio.

Che il sentimento sia cambiato se ne sono resi conto anche gli ucraini. Ieri, in un'intervista al Corriere della Sera, il ministro dell'Economia, Serhiy Marchenko non ha usato mezze parole: «Se penso a marzo o aprile mi rendo conto che ora l'atteggiamento e il desiderio di sostenerci sono molto diversi. Certo, riceviamo armi e aiuti militari, ma non bastano a vincere. È un chiaro segno che l'Unione europea e il mondo intorno all'Ucraina sono un po' stanchi di questa guerra».

Scendendo nel dettaglio di ciò che l'Ucraina si aspetterebbe da coloro che le hanno giurato solidarietà eterna, Marchenko ha spiegato che la Ue aveva promesso assistenza finanziaria per 9 miliardi di euro, ma finora si sono visti solo gli spiccioli. 

«Forse 1 miliardo arriverà questo mese, poi potrebbe esserci una pausa». Sì, ma Kiev per non dichiarare fallimento ha bisogno di 5 miliardi al mese e come li trova? Stampando moneta, dice il ministro dell'Economia, ma sa perfettamente che la conseguenza sarebbe un'iperinflazione. Soprattutto non gli sfugge che, senza i finanziamenti europei, la possibilità di resistere ed evitare il default è ridotta al lumicino.

Insomma, combattere costa, perché la solidarietà non è gratis. Certo, da una parte c'è il sentimento, la voglia di aiutare un popolo che lotta per la propria libertà. Gli occidentali solidarizzano con gli ucraini, non certo con i russi. 

Ma fino a quando? E soprattutto, fino a che punto sono disposti a sostenerne le conseguenze? Se si parla con gli industriali non se ne trova uno che in via riservata non riconosca l'urgenza di un negoziato. Imprenditori grandi e piccoli, finanzieri noti e meno noti la pensano tutti alla stessa maniera: facciamola finita, perché questa guerra ci sta portando sull'orlo del precipizio.

Il riferimento non è solo ai pericoli che potrebbero innescarsi con l'uso di armi nucleari tattiche, né si guarda alla piega che hanno preso gli eventi, con una lenta ma inesorabile avanzata delle truppe russe che lascia poco spazio all'idea di una riscossa ucraina. 

No, quando parlano di pericoli, i capi delle aziende e degli istituti di credito italiani alludono al rischio di una recessione. L'inflazione viaggia ormai spedita oltre l'8 per cento, ma è un 8 per cento medio, che non tiene conto dei consumi quotidiani, i quali incidono in maniera pesante sulle famiglie a più basso reddito. È la crisi a spaventare di più. Il solo che ha il coraggio di metterci la faccia è il proprietario della Giessegi, un marchio noto dell'arredamento.

Per Gabriele Miccini ci vuole subito la pace e la revoca delle sanzioni alla Russia. Se no avremo milioni di disoccupati. «Draghi, Macron e Scholz», ha detto a Cronache maceratesi, «dovrebbero andare da Putin e capire che cosa serve per arrivare alla pace, cercando di avvicinare la Russia all'Europa, invece di lasciarla avvicinarsi a Cina e India». Sì, ci vuole un po' di coraggio a parlare chiaro, perché il politicamente corretto impedisce di guardare la realtà e di dire la verità. Ma quella gli italiani la scopriranno presto.

"Ora fermatevi". La vittoria sui russi non ci sarà mai, bisogna smettere con la guerra. Paolo Liguori su Il Riformista il 7 Novembre 2022

Il Papa ha riguadagnato le prime pagine di giornali italiani. E come ha fatto? Ha parlato di migranti. Ha detto che sì, dobbiamo accogliere i migranti, ma anche l’Europa deve dare una mano all’Italia, non si può pensare che il nostro Paese faccia da solo l’accoglienza ai migranti. Questa cosa piace agli editori dei giornali italiani, piace la forza del Papa che spiega ai paesi europei che bisogna essere più generosi.

Ma quando diceva che se continuiamo a dare armi all’Ucraina ci saranno milioni di morti lo tacitavano, lo mettevano in seconda pagina. Quando parlava di cose sgradite, fastidiose, allora il Papa diventava un personaggio secondario, anzi un po’ fastidioso. Questa cosa è tipica dell’Europa. L’Europa ha una guerra in corso. Noi stiamo parlando di ricucire gli strappi sull’economia. Ma quali strappi vogliamo ricucire se siamo a brandelli perché c’è una guerra? Il primo strappo da ricucire è fare la pace.

Come si può uscire dalla guerra? Ci sono solo due modi. C’è chi pensa che si possa uscire dalla guerra solo con la vittoria. Queste persone si devono curare. E noi come Europa le dovremmo curare. E’ una concezione arcaica che si possa uscire dalla guerra con la vittoria. Dalla seconda guerra mondiale in poi, le guerre non le vince più nessuno. Perdono tutti. Solo noi sui giornali diciamo “noi dobbiamo vincere contro Putin“. La guerra finisce solo interrompendo la guerra. Come si fa a far smettere l’aggressore? Senza buttare benzina sul fuoco della guerra (che non stiamo facendo noi).

Se tornassero i morti a casa italiani, piangeremo tutti i giorni. Siccome a casa tornano i profughi ucraini noi quei profughi lì li consideriamo un male necessario, mentre quelli che arrivano con le barche sono il male assoluto e vanno respinti, oppure devono prenderli gli altri paesi d’Europa. Questa è una farsa assoluta, un’idea sbagliatissima. Cosa stiamo insegnando? Che la guerra finisce quando si ottiene la vittoria sui russi? Ma la vittoria sui russi non ci sarà mai, come non ci sarò mai la vittoria sui cinesi o sugli Stati Uniti. Questi paesi non devono essere sconfitti ma devono smettere di combattere. E noi dovremmo dire fermatevi.

Invece adesso fanno le manifestazioni per la pace non per fermare la guerra, ma per candidare un’assessora di Milano che forse può diventare candidata del Terzo Polo alle prossime regionali. Queste sono soluzioni beffa, che prendono in giro chi crede davvero che la guerra debba finire con la pace, che ci si debba fermare. Già, ma fermare su quali confini? Ma sui confini più accettabili possibili, com’è sempre stato quando bisogna smetterla. E ora bisogna smetterla, anzi, è già troppo tardi. Paolo Liguori

Toni Capuozzo, "come lo hanno costretto". Il dubbio atroce su Zelensky e il rischio guerra cronica. Giada Oricchio su Il Tempo l'11 luglio 2022

Toni Capuozzo ferisce con la penna almeno quanto farebbe con un colpo di mortaio e trasforma “Good morning Vietnam” in “Good morning Italia”. L’ex inviato di guerra ha postato sul suo profilo Facebook un frame dello storico film in cui Robin Williams salutava in radio i giovani americani che stavano perdendo la guerra in Vietnam per raccontare la “cronicizzazione” dell’invasione in Ucraina e dunque il suo declassamento dall’informazione.

“Bisognerebbe dire Good morning a tutti quelli che hanno fatto proclami, e sparso illusioni. Non Zelensky (cos’altro poteva fare, dopo il 24 febbraio ? Prima sì, qualcosa di diverso da ritenere irrinunciabile la Nato avrebbe potuto farlo, ma forse non glielo hanno concesso) ma gli altri sì” fa notare Capuozzo prima di criticare il comportamento di Von der Leyen (L’Ucraina deve vincere) e Josip Borrell (E’ una guerra che si vince sul terreno) e tutti quelli che parlando a nome dell’Europa ne hanno fatto una battaglia delle democrazie contro i regimi autoritari. Il buongiorno è ironico, l’accusa è precisa: “Bisognerebbe augurare buongiorno a tutta l’orchestra della propaganda, trombe e tamburini, analisti e odiatori. Talk show ed emozioni stanno chiudendo per ferie, si riapre a settembre, come una bottega di centro città. Non è una guerra di logoramento, è un’avanzata lenta e metodica dei russi fin dall’inizio. La guerra è diventata cronica, non è colpa nostra se vi ci siamo abituati e ci occupiamo di Marmolada o di Giappone o di Sharm El Sheik”.

Una visione a cui Capuozzo si ribella: “No, mi spiace, ma non è così. I russi, per quando sbagliati li si possa ritenere, hanno piani abbastanza chiari, adesso: riprendersi il Donbass, e dichiarare un cessate il fuoco unilaterale: se non ci attaccate, non vi attacchiamo. È Kiev, e dietro a Kiev tutto l’occidente che li ha spinti e adesso fa il democratico e dice “È Kiev che deve decidere”, è l’Occidente che non sa più che fare, e perfino le armi, sempre più armi, sembrano il mantra di un gruppo di monaci incantati e distanti dal mondo. Come si può vincere ? Come si può almeno non perdere?”.

Lo scrittore e giornalista punge anche il premier Draghi ricordandogli che “un tempo aveva definito Erdogan un dittatore e adesso gli stringe la mano sul feretro delle invasioni in Siria e dei diritti dei curdi”. E intanto gli orrori della guerra con centinaia di civili, donne e bambini che muoiono, sembrano non suscitare più alcuna indignata levata di scudi internazionale. “Non è un conflitto cronico”, scrive Capuozzo, “è una guerra che può solo finire presto e male - Ucraina a pezzi - o andare avanti e peggio”.

Good morning...Guerra in Ucraina come in Afghanistan, i talk show vanno in ferie e non esiste una strategia d’uscita per l’Europa. Tony Capuozzo su Il Riformista l'11 Luglio 2022 

Good morning Vietnam era il saluto di Robin Williams che si inspirava alla figura dallo speaker radiofonico Adrian Cronauer che intratteneva i soldati americani che combattevano e perdevano in Vietnam, che con le sue battute, le sue freddure, le sue intuizioni paradossali diceva molte più verità di quante non dicessero gli Stati maggiori. Good morning ucraina si dovrebbe dire oggi e certo non salutare così i soldati che si stanno battendo e stanno però cedendo terreno, non così i russi che stanno conquistando lentamente una località del Donbass dopo l’altra e dunque non stanno perdendo.

Bisognerebbe dire Good morning ucraina a Zelensky ma sarebbe ingiusto, cos’altro poteva fare dopo il 24 febbraio? Forse l’iscrizione alla Nato. Bisognerebbe dire Good morning Europa a Ursula von der Leyen, a Borrell, allo stesso Draghi, a tutti i leader che ne hanno fatto una battaglia essenziale per i valori della democrazia e dell’Occidente e invece non una guerra civile nella quale Mosca ha cercato di inzuppare i suoi rimpianti coloniali. Bisognerebbe dire Good Morning Italia a tutti gli analisti e osservatori che ci hanno spiegato che la Russia aveva pochi giorni di autonomia, che sarebbe crollata sotto le sanzioni, che la macchina militare era rotta.

Bisognerebbe dire Good Morning Italia a tutti quelli che poi hanno cominciato a raccontarci di una guerra che, finiti i colpi di scena (quello più evidente è stato quello di Mariupol a vantaggio dei russi) è diventata un conflitto di logoramento. Non è così perché c’è stato e c’è un avanzamento evidente dei russi. Questa non è una guerra che può permettersi di diventare cronica, perpetua: o finisce e finisce male o continua e peggiora, diventa qualcosa di peggio, più grande e più complesso.

Ci fanno la cronaca della guerra cronica, la cronaca che sempre vede solo una faccia della luna perché i bombardamenti russi fanno vittime civili ma le fanno anche i bombardamenti ucraini, tra l’altro con proiettili forniti dall’Occidente, dall’altra parte, ovvero nelle città come Donetsk che non vogliono essere più ucraine.

E allora buongiorno a tutti noi per dirci che mentre i talk show vanno in ferie, mentre si chiude la serranda agostana, mentre si rinviano a settembre analisi e commenti, bisognerebbe dire di svegliarci e di porci una domanda: esiste una strategia d’uscita per l’Occidente? Esiste un modo per considerare come si può far perdere Putin e come si può far vincere l’Ucraina? Esiste una strategia per come si può non perderla noi questa guerra sconsiderata in cui ci siamo trovati in mezzo senza saperlo? Si chiama strategia d’uscita e la sua assenza sappiamo quanto è costata in Afghanistan. Tony Capuozzo

Questa non è dietrologia. È ‘futorologia’. La favoletta della guerra e dei buoni e cattivi: gli equilibri del mondo stanno cambiando, chi pagherà le spese? Paolo Liguori su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Caro Piero, da 138 giorni c’è la guerra in Ucraina. Per quanto riguarda noi due, dopo otto giorni, avevamo già pensato che dovesse finire in qualche modo ma subito. 130 giorni di più sono veramente troppo. Ci hanno però raccontato una favoletta per bambini: di là c’è il male, di qua c’è il bene. Tutto l’Occidente è vicino al bene. Basta stare uniti. Finanziare gli ucraini che combattono al nostro posto, mantenuti e sostenuti da noi per procura degli Stati Uniti. Tutto finirà bene perché se non riusciremo a prendere Putin fisicamente, il suo regime si sfalderà.

Io mi fermo qua: non voglio essere né dietrologo, né complottista. Ti racconto però cosa è successo l’ultima settimana. Primo, è saltato per aria il potere di Scholz, il grande cancelliere tedesco perché è venuto fuori uno scandalo che riguarda il suo partito, SPD. con ragazze e droga in un ambiente istituzionale, ovvero in una festa istituzionale dell’SPD. Secondo, sta saltando per aria il potere di Macron. Tra l’altro un giornale inglese il The Guardian fa lo scandalo, legato a quando ancora ministro tanto tempo fa per un suo presunto conflitto d’interessi con Uber contro i tassisti.

Terzo, il premier britannico Johnson è stato mandato a casa. All’inizio è stato un po’ sfiduciato. Ma non è bastato. Allora, gli hanno fatto capire facendo dimettere ministri su ministri che era il caso che se ne andasse. La prossima tappa sarebbe stata cambiare la serratura della toppa di Downing Street. Non avrebbe potuto fare a meno di capirlo. Anche in questo caso si dice sia stato il grande alleato americano, infastidito dai toni e dai modi che aveva preso.

Con Johnson, Scholz e Macron sterminata l’intera parte occidentale della Nato, la parte più forte. Non basta. Sapete tutti quanti che è stato ucciso in una maniera funambolica Shinzo Abe, il grande politico giapponese. Non era premier ma lo sarebbe diventato perché il suo partito avrebbe vinto le elezioni. Era destinato a diventare nuovo premier del Giappone, uomo di fiducia degli Stati Uniti che gli avrebbero permesso di riarmare il Giappone. Insieme a Corea del Sud e Australia avrebbe affiancato gli Stati Uniti nell’opposizione alla Cina.

Naturalmente queste cose non sono venute dalla stessa mano. La questione di Abe magari favorisce i cinesi. La questione di Johnson non favorisce nessuno, sebbene fosse diventato ingombrante. Gli altri due leader che sono Scholz e Macron avevano vecchi scandali che sono venuti fuori all’unisono, nella stessa settimana.

Non sono complottista ma non mi sono mai fidato di quando vengono fuori le cose vecchie nel momento opportuno. Io credo che la guerra in Ucraina da 138 giorni c’entri. Molti hanno detto ‘non vi preoccupate, finirà’. Questa è una guerra che sta incidendo profondamente negli equilibri e nei rapporti del mondo. Non solo per una questione geopolitica, ma energetica, per il cambiamento dei rapporti tra chi produce e chi consuma l’energia.

Ora siamo ad un momento chiave per il gas. Mi si potrebbe dire Draghi, ultimo leader occidentale, importante alleato di Washington, se la passa bene. Non tanto, perché il suo governo ha barcollato in questi stessi dieci giorni. Certo, l’uscita di una parte minima ma sufficiente a sorreggere il governo, guidata da Di Maio, lo ha puntellato. Per un miracolo però. Non sappiamo neppure se un miracolo aiutato da chi.

Qualcuno vorrà fare i conti con questi fatti. Semplicemente con questi fatti, senza nessuna dietrologia. Sono fatti straordinari, che non succedono tutti assieme, in una settimana o dieci giorni. Ma che sono successi questa volta sotto i nostri occhi. Nessuno si rende conto che nel frattempo la situazione economica, per esempio l’andamento dell’inflazione sta mangiando i risparmi, i salari e anche le pensioni degli italiani concretamente in una forma ancora più violenta di quello che avrebbe fatto una tassa patrimoniale, che se fosse stata proposta avrebbe scatenato l’inferno. Invece, in questa maniera abbiamo addosso uno scarico dell’inflazione che viene dagli Stati Uniti che stampa dollari per fornire armi al di là delle riserve auree. In poco tempo, in due mesi, il dollaro è arrivato alla parità con l’euro: 1 a 1. Soltanto qualche tempo il rapporto era di 1 a 4.

Qualcuno farà i conti di quanto ci costa questa situazione non in termini economici, e non solo in termini politici, ma in termini di futuro, di come saremo collocati e dove saremo messi? Questa non è dietrologia. È ‘futorologia’. A te affido queste mie riflessioni. 

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Da iltempo.it il 23 aprile 2022.

«Zelensky è un uomo coraggioso malato di irresponsabilità. Chiede due cose: la copertura aerea dalla Nato che significa terza guerra mondiale e il blocco delle forniture energetiche e cioè la messa in ginocchio dei paesi dell’occidente e in particolare di Germania e Italia». 

Lo dice il presidente della Campania Vincenzo De Luca in apertura del suo consueto appuntamento social con la diretta Facebook del venerdì pomeriggio. Il governatore dedica un abbondante spezzone per commentare gli sviluppi del conflitto tra Russia e Ucraina. «Andiamo a rotta di collo verso un allargamento del conflitto», dice De Luca che poi si interroga chiedendosi «cosa è successo in questo anno per determinare la fine del mondo a cui stiamo assistendo?».

È lui stesso a fornire la risposta: «Una sola cosa è cambiata - spiega -. Da settembre-ottobre l’Ucraina ha avviato il percorso per entrare nella Nato. Questo è l’unico elemento che sulla base dei fatti, non delle ideologie, ha cambiato la scena internazionale. Noi abbiamo risposto che l’Ucraina è un paese libero e poteva entrare come e quando voleva nella Nato», dice l’inquilino di Palazzo Santa Lucia ,che riferendosi all’Ucraina parla di «democrazia calpestata» quattro anni prima dell’elezione di Zelensky quando un «colpo di stato ha rovesciato il governo del presidente Janukovich regolarmente eletto». 

E secondo De Luca anche oggi le cose non sono migliorate: «Il capo dell’opposizione ora è arrestato perché non la pensa come il governo» affonda il Presidente della Campania prima di scagliarsi anche contro l’alleanza atlantica: «La Nato non è un’alleanza difensiva, è a corrente alternata. 

Sono innumerevoli le iniziative militari prese dalla Nato in totale illegalità internazionale. La guerra contro la Libia, l’uccisione di Gheddafi, la seconda invasione dell’Iraq. La Russia è colpevole ma nessuno è innocente - prosegue quindi De Luca -. La Russia è colpevole per aver dato vita alla guerra preventiva. Come Bush in Iraq, Putin ha fatto la stessa cosa. Ma l’occidente non è innocente - sottolinea -E l’Ucraina ha violato gli accordi di Minsk garantiti da Merkel e Hollande. C’era Putin e i presidenti di Bielorussia e Ucraina, si stabilì una modifica costituzionale per garantire l’autonomia del Donbass. Ma questa modifica non è stata mai fatta: il mondo è estremamente complesso e innocenti non ce ne sono».

«Eravamo partiti con la consegna di armi difensive per l’Ucraina. Ora ci sono droni, carri armati e missili. Questa è un’altra cosa. È la scelta degli Usa per mettere in ginocchio la Russia e il regime russo. Questo può essere un interesse degli Stati Uniti ma sicuro non lo è dell’Europa. 

Gli Stati Uniti non hanno problemi di sicurezza, problemi energetici e problemi alimentari. L’Europa li ha, abbiamo interessi diversi e non è un delitto sottolinearlo. Sarebbe meglio quindi che l’Europa desse segni di vita, ma non ho molte speranze. Quando sento parlare un elemento come Michel - dice De Luca riferendosi al presidente del Consiglio Europeo Charles Michel.- questo soggetto politico improbabile che va girando dicendo stupidaggini. Questo è uno che va affidato ai servizi sociali, altro che rappresentare l’Europa non si capisce a che titolo». 

«Per quanto riguarda il Covid - conclude il governatore campano - manteniamoci prudenti e manteniamo l’uso della mascherina. Lo dico soprattutto alle ragazze e ai ragazzi: non vi fate condizionare dalla logica di branco, non è che se non portate la mascherina siete più “maschi”, siete più stupidi».

Domenico Quirico per “La Stampa” il 24 aprile 2022.

Platone giudiziosamente raccomandava di proibire nello stato ideale la lettura dei poemi di Omero; perché trasmettevano ai cittadini «idee false riguardo alle questioni umane e divine», una di queste idee false e pericolose era la concezione dell'eroe che combatte fino alla morte per il desiderio della gloria e dell'onore. Che preferisce perire piuttosto che arrendersi anche quando la sua morte appare inutile. 

Mark Twain accusava Walter Scott di essere tra i responsabili del macello della guerra civile americana. I suoi romanzi cavallereschi avrebbero modellato le genti del Sud spingendole a una guerra gloriosa fino all'inutile sacrificio.

Questo mi è venuto in mente attendendo, invano, ogni giorno, da settimane la notizia della resa dei difensori della acciaieria Azovstal a Mariupol dove la battaglia divora vite tra le rovine di una città che ha gli edifici rotti come gusci. Invece loro sembrano decisi a immolarsi, temo purtroppo trascinando nel proprio destino anche i civili rinchiusi nei sotterranei del complesso industriale e che non hanno più alcuna possibilità di modificare il corso della battaglia o di ricevere aiuti dagli ucraini. 

Questo fazzoletto di undici chilometri quadrati sporchi di tutti i sudiciumi della guerra si abbranca alla grandezza della volontà di non alzare bandiera bianca. Aleggia la puzza di imbalsamazione eroica, di sepolcri che rimettono in piedi i vecchi miti dei combattenti martiri. I difensori di Mariupol, nazisti o non nazisti che siano, sono in preda alla chimera della eternità, della bella morte.

C'è in questo feroce frammento della guerra qualcosa di cui aver paura. Sognatori e saturi di notte tengono insieme la loro vita e quella a cui costringono civili, donne, bambini. Anche loro lì, sottoterra, con le onde sonore che penetrano nelle orecchie negli occhi, nel cervello e sbatacchiano i corpi in un violento tremore.

Loro che obbligo hanno di diventare semidei, martiri morti in battaglia? Chi ha chiesto a questi sventurati nel misterioso mondo del campo di battaglia di convincere, sacrificandosi, gli altri che la loro causa è sacrosanta e quindi è onorevole morire in suo nome? La grandezza dei miliziani di Azovstal semmai non sarebbe proprio nell'arrendersi per dare ai civili, almeno a loro, qualche possibilità di salvarsi?

Speravamo di essere entrati in un età finalmente anti eroica. Eppure l'onore militare riveste ancora un ruolo importate negli eserciti, soprattutto tra le forze speciali. Il codice di condotta dei marines che risale agli Anni Settanta detta: «Non capitolerò mai volontariamente. Quando sarò al comando non capitolerò mai per i miei uomini se essi avranno ancora la possibilità di opporre resistenza».

Non so se i miliziani ultranazionalisti abbiano mai letto l'avvertenza di Omero, (mi pare che il loro comandante abbia affermato semmai di frequentare le pagine di Kant!), e che questa ostinata volontà di non capitolare sia davvero legata alla ricerca omerica della fama, perché solo il coraggioso avrà la consacrazione del ricordo e non tornerà nel nulla inghiottito dal buio eterno dell'oblio. 

O non sia piuttosto la loro una non scelta, un eroismo obbligatorio: perché nella tragedia grande della guerra ucraina Mariupol sembra essere una scaglia che custodisce in sé un frammento particolare di odio e di veleni. Che insomma sia anche guerra civile, il regolamento di conti tra gli uomini della Azov, nazisti forse non soltanto per la propaganda russa, e gli abitanti del Donbass che hanno scelto il campo russo, altrettanto spietati.

Sono stati otto anni di feroce guerra civile, dove la pietà viene dopo e la prima cosa che conta è uccidere e vendicarsi, cancellare il nemico. E quindi per loro non esiste quell'arte della resa, capitolare, consegnarsi al nemico, che nel corso dei secoli ha modellato o cercato di disciplinare quello che è stato definito non a caso l'atto archidemico della guerra. 

Sanno cioè che il loro destino non è quello di prigionieri ma di esser giustiziati, massacrati in nome della vendetta. Questo è Mariupol, un luogo che esisterà in un lungo istante di violenza che va al di là di qualsiasi immaginazione. 

Quindi ad Azovstal niente prigionieri che ridono felici di esser sfuggiti alla sgherraglia e laceri, pallidi domandano per prima cosa a chi li ha catturati un pezzo di pane dal momento che è sospeso l'obbligo reciproco di uccidersi. In costoro di colpo è come se non ci fosse più nessuna traccia di forza. 

Ho assistito in Siria alla resa di una decina di soldati di Assad. Stavano per entrare in una prigione di cui non riuscivano a immaginare fino in fondo la legge; l'impotenza era in loro, speravano di abituarsi a una docile schiavitù: che cosa ci succederà? Che cosa non ci succederà?

Non so se siano sopravvissuti, forse appena sono partito sono stati giustiziati. Anche lì una guerra civile. Come quella in Ucraina per le brutalità di cui esistono già ampie testimonianze non siamo più in quelle che sono le guerre «sistemiche» ovvero combattute secondo alcune regole ma entriamo nel buio del conflitti, in cui come si diceva nel Medioevo, non si dava quartiere al nemico, lo si sterminava. Siamo nel modo della violenza assoluta.

Eppure non dimentichiamo che in quei secoli che definiamo bui gli eserciti che intendevano non fare prigionieri usavano alzare un labaro rosso prima della battaglia.

Siete avvertiti, non perderemo tempo a raccogliervi, quindi combattete anche voi fino all'ultimo respiro 

Non credo alla teoria secondo cui la ostinazione dei difensori della acciaieria sia legata alla consapevolezza di obiettivi politici della loro guerra estrema, che farsi uccidere offrirebbe ai loro commilitoni il tempo per allestire nuove difese e priverebbe Putin dell'esibirli come trofeo nella città conquistata.

I soldati combattono o si arrendono per una considerazione molto più elementare: il calcolo delle probabilità di perdere o conservare la vita. Nel momento in cui getta le armi il vinto è in totale balia del vincitore, la sua vita è affidata alla sua clemenza e non dipende più da se stesso. Allora come esser sicuri che dopo la capitolazione tutto si svolgerà pietosamente, hai perso poteva toccare a me...? 

Nei diari dei soldati anche di eserciti molto disciplinati come inglesi e americani in Iraq non mancano certo i casi in cui non si sono fatti prigionieri. Perché un minuto prima quelli che ora ti guardano con le braccia alzate e sono nelle tue mani, hanno ucciso il tuo miglior amico o hanno tentato di ucciderti. Perché non vendicarsi, subito mentre è ancora possibile? Tutto finirà nel calderone della guerra.

A pagare sono i più fragili. “Gli ucraini vogliono resistere”: vale anche per anziani, donne e bambini? Astolfo Di Amato su Il Riformista il 26 Aprile 2022. 

Appena l’argomento dell’invio delle armi alla Resistenza Ucraina si affaccia alla mente riaffiorano le emozioni provate durante la lettura delle pagine sul Risorgimento e sulla Resistenza. Non fu tutto oro, ma certamente siamo figli di quelle vicende. Sembra, allora, che contro l’invio di armi agli Ucraini non vi siano argomenti che tengano. Ma basta vedere le immagini della guerra per ricadere nel dubbio: una umanità dolente, fatta soprattutto di vecchi, di donne e di bambini, alla mercè delle esplosioni e delle violenze. E non possono non tornare in mente le parole di Gino Strada, il quale denunciava che le guerre le patisce soprattutto la povera gente. Coloro per i quali è indifferente chi le vince e chi le perde, tanto la loro condizione resta sempre la stessa.

Ma in questo caso, si ribatte, è tutto un popolo che vuole combattere per la sua indipendenza. Anche i vecchi e i bambini? Diventa, comunque, per chi vuole decidere da che parte stare un ginepraio, nel quale domina l’angoscia di vedere che tutte le posizioni sono strade lastricate di dolore. Beati i lettori di quei giornali, che offrono granitiche certezze sulla ineluttabilità del conflitto armato! Ci sono, tuttavia, alcuni aspetti di questa carneficina, rispetto ai quali è certamente più agevole prendere una posizione netta. In primo luogo, e non può esservi alcun dubbio, va messo sul banco degli imputati Putin. È l’aggressore. Per giunta un aggressore di inaudita barbarie, che non ha esitato a macchiarsi di crimini orrendi pur di perseguire i suoi disegni di potenza. I crimini di guerra commessi sul suolo ucraino lo condannano a restare confinato per sempre in una delle pagine più nere della storia.

In secondo luogo, vi è Biden e, con lui, tutto il partito democratico americano, che va messo sotto accusa. L’enorme sostegno militare e finanziario che gli Stati Uniti stanno dando al governo legittimo di Kiev appare condizionato, in modo decisivo, dall’esigenza di invertire le attuali tendenze elettorali, che preannunciano una sonora sconfitta per il partito democratico alle elezioni di medio termine. Dopo la disastrosa ritirata dall’Afghanistan, che ha fatto crollare ai minimi termini la popolarità di Biden e con lui dei democratici, la guerra in Ucraina è apparsa una opportunità troppo ghiotta per non essere sfruttata per recuperare il consenso perduto. Si è così passati da un sostegno meramente difensivo all’esercito ucraino ad un sostegno offensivo per poter ribattere colpo su colpo e, oggi, ad un sostegno diretto a portarlo addirittura alla vittoria. Costi quel che costi, sia in termini di vite umane e sia in termini di rischio di escalation del conflitto. Del resto, anche Johnson in Inghilterra ha trovato, nella guerra in Ucraina, una inaspettata occasione per distogliere l’attenzione degli elettori dai suoi scandali.

Ma qui sta il punto! È mai concepibile, e per giunta da parte di chi si dichiara “democratico”, che la vita e la morte di intere popolazioni dipendano da meschini calcoli elettoralistici? È mai possibile che negli anni 2000, dopo i massacri insensati del ‘900, nelle democrazie liberali sia ancora consentito che siano inflitte sofferenze agli altri popoli al solo scopo di conquistare consenso in patria? Dalla guerra in Iraq, dichiarata sulla base di un falso, alla aggressione della Libia di Gheddafi, si è assistito negli ultimi decenni ad un uso della guerra assolutamente spregiudicato, basato sulla pretesa di poter infliggere sofferenze agli altri popoli per meri volgari calcoli elettorali interni. Non è, anche questo, un crimine contro l’umanità?

In terzo luogo, vi è l’Europa. Che ha la colpa di non essere ancora venuta ad esistenza, nonostante i decenni ormai passati da quando il progetto europeo ha iniziato a prendere forma. In un mondo, nel quale la globalizzazione ha reso le nazioni più piccole sempre più irrilevanti, le nazioni che compongono l’Europa continuano a vivere una sindrome campanilistica paragonabile solo alla frantumazione in mille staterelli, che rese l’Italia, dopo la dissoluzione dell’Impero Romano, terra di conquista per le grandi potenze europee. Si è gridato al miracolo per la tempestività con cui sarebbero state adottate, dall’Unione Europea, le sanzioni contro la Russia. Ma non si è considerato che si è trattato di un atteggiamento gregario verso gli Stati Uniti, certamente insufficiente a coprire il vuoto di iniziativa politica delle istituzioni europee. D’altra parte, quale iniziativa avrebbe mai potuto prendere una Europa, nella quale gli egoismi nazionali continuano largamente a prevalere?

Infine, la guerra in Ucraina solleva il velo su di una questione che troppo a lungo è stata tenuta colpevolmente sottotraccia. Quella del rapporto tra populismo e regimi illiberali. Ora che i paesi occidentali si trovano a dover fronteggiare la Russia di Putin, sorge inevitabilmente il problema di quale sia la posizione di quegli spezzoni di tanti paesi che hanno stretto rapporti di collaborazione o addirittura di solidarietà con quel regime. Si è, così, constatato che i regimi illiberali hanno individuato nei movimenti populisti che hanno attraversato e attraversano le società occidentali, un alleato formidabile, capace di erodere dal di dentro le democrazie liberali, sfruttandone la tolleranza e la libertà di espressione. Di qui un sostegno che non è stato solo finanziario: si pensi all’utilizzo dei social per condizionare e orientare l’opinione pubblica. Emblematico è quanto è emerso relativamente alla Brexit.

A questo punto deve essere chiaro che per un partito o un movimento politico, operante in un paese di democrazia liberale, accettare il sostegno, sia esso finanziario o di qualsiasi altro tipo, di un regime illiberale è una forma di tradimento. Significa accettare di essere, consapevolmente, strumento di attuazione della politica di una potenza, che ha una visione della libertà e dei diritti dell’individuo totalmente diversa da quella del paese di appartenenza. In definitiva, la guerra in Ucraina è capace, da un lato, di far esplodere, in ciascuno, dubbi e contraddizioni anche laceranti, ai quali è difficile dare soluzione. Dall’altro, tuttavia, offre l’occasione di fare chiarezza su di una serie di punti fondamentali per il futuro delle società occidentali. Astolfo Di Amato

Francesca Mannocchi per “La Stampa” il 25 aprile 2022.

«Dobbiamo preservare la vita e la salute dei nostri soldati e dei nostri ufficiali. Non c'è bisogno di addentrarci in quelle catacombe e strisciare sottoterra. Ma bloccare la zona industriale in modo che nemmeno una mosca possa entrare o uscire da lì», queste le parole con cui il 21 aprile il presidente russo Putin, ha comunicato al suo ministro della difesa Sergej Shoigu, il cambio di strategia sulla battaglia finale alle acciaierie Azovstal di Mariupol, dove secondo la vicepremier ucraina Iryna Vereshcuk ci sarebbero ancora mille civili e circa 500 soldati feriti. Congelato l'assalto finale, dicono le parole di Putin a Shoigu, chi è dentro ci resti fino alla fine.

O la resa o la morte. «Che non entri e non esca nemmeno una mosca» non è solo la nuova pagina della battaglia di Mariupol, nell'Azovstal, è anche la sintesi della modalità con cui il Presidente russo da due mesi sta fiaccando la popolazione civile in Ucraina: la strategia dell'assedio, la guerra che affama. 

Lo grida Zelesnky dalle prime settimane del conflitto, accusando i russi di fare di tutto «per rovinare il potenziale agricolo» dell'Ucraina per «provocare una crisi alimentare nel paese e nel mondo».

Gli ha fatto eco il mese scorso il segretario di Stato statunitense Antony Blinken «è vergognoso - ha detto - il mondo continua a dire a Putin di far entrare cibo e medicine, lasciare evacuare i civili mentre lui fa morire di fame le città accerchiate e assediate». 

Osservando a ritroso le otto settimane di guerra gli elementi per ritenere che assedi e fame siano tasselli di una precisa strategia ci sono tutti: le truppe russe hanno devastato terreni agricoli, distrutto attrezzature, minato i terreni fertili dove dovrebbero crescere i raccolti, danneggiato le rotte di rifornimento e bloccato i porti, hanno tagliato l'elettricità e distrutto le centrali elettriche.

Poi interrotto le forniture di acqua e di gas. I colpi di artiglieria russi hanno distrutto magazzini di cibo, depositi alimentari. A Chernihiv, il 16 marzo, è stata colpita una coda di persone che aspettavano la distribuzione del pane davanti a una bottega di generi alimentari. Sono morti dieci civili.

E ancora, nelle aeree assediate, i russi hanno ostacolato i corridoi umanitari in uscita, per evacuare i civili, e quelli in entrata per sfamarli e curarli. È per questo che 170 mila persone a Mariupol vivono di stenti: non escono, e per loro non entra cibo né medicine dall’Ucraina.

Pratiche che i vertici del Wfp descrivono come «tattiche medievali di assedio». Affamare i civili è un'arma antica come la guerra. Era così nelle guerre medievali, è così in guerre recenti. Basti pensare all'assedio della Ghouta, in Siria. Ai bambini scheletrici dello Yemen.

A quelli del Tigray.

È stata un'arma anche nella storia recente tra la Russia e l'Ucraina, quando all'inizio degli anni Trenta l'holodomor (letteralmente «infliggere la morte con la fame»), uccise quasi quattro milioni di persone. Fu la carestia intenzionale che provocò il regime sovietico di Stalin imponendo la collettivizzazione del 70% dei terreni agricoli ucraini, applicando politiche di requisizione del grano per sedare i movimenti autonomisti ucraini e annientare le aspirazioni nazionali.

Quando i contadini provarono a opporsi, a nascondere le derrate alimentari, a proteggere il bestiame e la terra, furono puniti con politiche di requisizione di terre e beni e fu loro vietato di fuggire dalla regione. Non entrava e non usciva una mosca. 

Così tra il 1932 e il 1933 morirono milioni di persone (sui numeri non c'è certezza, alcuni studiosi ritengono 4 milioni, alcuni 7). Il 23 marzo scorso, il commissario all'Agricoltura dell'Unione Europea, Janusz Wojciechowski ha detto «Pensiamo che i russi vogliano creare la fame e utilizzare questo metodo come metodo di aggressione, come quello utilizzato negli anni Trenta dal regime sovietico contro il popolo ucraino».

L'Holodomor, appunto. La tragedia che ha segnato la memoria ucraina e che fa leggere gli eventi di queste settimane di guerra sotto un'altra luce. Il timore è che calcolati male gli esiti della sua «operazione militare speciale» e bloccata l'invasione russa dell'Ucraina sul campo di battaglia, Putin abbia rispolverato dal passato e dall'intervento recente nella guerra di Siria la spietata arma della fame.

Fallita la guerra lampo ora il Cremlino sembra giocare a lungo termine devastando l'economia ucraina che si basa sulle esportazioni agricole: 27 miliardi di dollari all'anno, il 10% del Pil, il 41% delle esportazioni complessive e minacciando il mondo che dipende dalle esportazioni di grano del Paese, dalla sua fertile terra nera, granaio d'Europa. 

L'articolo 8 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale recita: «si intende per "crimini di guerra": affamare intenzionalmente i civili, come metodo di guerra, privandoli dei beni indispensabili alla loro sopravvivenza, ed in particolare impedire volontariamente l'arrivo dei soccorsi previsti dalle Convenzioni di Ginevra».

Bloccare il cibo, assediare i civili, è un'arma di aggressione distruttiva al pari delle bombe. Per Putin è uno strumento di pressione esterno e interno. È un messaggio per la comunità internazionale che deve far fronte all'aumento dei prezzI di beni di prima necessità e alla crisi per le razioni di cibo nei Paesi in via di sviluppo.

È la ritorsione contro l'Ucraina che non si è piegata. Bloccare l'agricoltura significa danneggiare pesantemente l'economia del Paese sul breve e lungo periodo. Provocare la fame significa uccidere chi viene lasciato morire stenti ma anche fiaccare chi sopravvive. 

Significa umiliare gli esseri umani per piegarne la resistenza, avvilire la capacità di ribellione e infine dominarli. Significa dire, a quegli esseri umani: valete meno di noi. Così tanto meno da poter morire di stenti. O accerchiati dalle nostre truppe o costretti sottoterra, nei rifugi, braccati come nell'Azovstal. Da cui non entra e non esce una mosca.

La retorica dei guerrafondai. I civili bloccati a Mariupol hanno diritto alla resa, invece attendono solo la morte. Alberto Cisterna su Il Riformista il 23 Aprile 2022. 

Non si sa nulla di preciso. Quanti civili, quante donne e quanti bambini si trovino nei sotterranei dell’acciaieria di Mariupol assediata dai russi è un incomprensibile mistero. Nella guerra, tutta mediatica, che rilancia trionfalisticamente i numeri dei soldati uccisi, dei mezzi distrutti, delle città spianate, nessuno che abbia voglia di far sapere al mondo quanti innocenti si trovino in mezzo agli scontri, in balia delle milizie e dei soldati che si stanno fronteggiando in un bagno di sangue. Eppure, eppure ci vorrebbe ben poco; basterebbe chiederlo a quanti comandano le truppe ucraine asserragliate o al presidente Zelensky che pur tutti i giorni tiene aggiornato il mondo sull’andamento del conflitto e sulla barbarie degli invasori. La domanda è scomoda.

È evidente che quelle persone, quelle donne e quei bambini, avrebbero tutto il diritto di arrendersi; avrebbero il pieno diritto di consegnare le proprie vite a un futuro; avrebbero tutto il diritto di sottrarsi alla fame, alla paura, all’odio, al pericolo della morte. Nessuno li interpella, e forse a nessuno interessa veramente la loro sorte. Sotto sotto il partito del moschetto che si è impossessato dei maitre a penser europei li considera un danno collaterale che non si può evitare e che, tutto sommato, si deve anche sopportare per rendere più brutale e insopportabile il volto sanguinario di Putin e del suo esercito. Un cinismo freddo e calcolatore sembra tracimare da alcune Cancellerie atlantiche e riversarsi sui media e sulle pubbliche opinioni europee. Come è inevitabile accada dopo due mesi di guerra, quando ai massacri ci si abitua e le morti si contano a decine. Un cinismo ciclico nelle guerre di tutti i tempi.

Lo ricordava bene su Libero di ieri un editoriale che riprendeva passi di una lettera di Togliatti a Vincenzo Bianco, suo braccio destro per i rapporti con l’Urss che gli chiedeva, nel luglio del 1943, di intercedere con Stalin per salvare la vita a migliaia di alpini italiani che stavano morendo di stenti nei campi di prigionia sovietici. Togliatti ricordava che “se un buon numero dei prigionieri morirà, in conseguenza delle dure condizioni di fatto, non ci trovo assolutamente niente da dire, anzi e ti spiego il perché… Il fatto che per migliaia e migliaia di famiglie la guerra di Mussolini … si concluda con una tragedia. con un lutto personale, è il migliore, è il più efficace degli antidoti … tanto meglio sarà per l’avvenire d’Italia”. Nei calcoli di una certa politica non c’è tempo per riflettere sulle vite in bilico. Si devono documentare le stragi, si devono censire le fosse comuni, non perché via sia la speranza di un giusto processo per i criminali di guerra innanzi ai tribunali internazionali, ma solo perché si deve rafforzare il fronte oltranzista. Non si parla di pace, di trattative da settimane ormai; sono scomparse persino le immagini delle delegazioni intorno a un tavolo. La guerra è l’unica opzione di cui si declinano i tempi, le modalità, le prospettive, la contabilità.

La scelta chiara è imbottire di armi gli ucraini per, poi, celebrarne l’imperituro coraggio, come ha detto ieri il premier inglese in India. L’idea condivisa è diventata quella di impantanare Putin in una guerra di logoramento, come in Afghanistan, per spezzarne la leadership e distruggere quei brandelli di credibilità rimastagli come capo di una superpotenza. Per farlo il costo da pagare è il martirio di un popolo; la lunga agonia di una nazione fatta a pezzi, con sette milioni di sfollati di cui quattro milioni di profughi fuggiti all’estero, con città rase al suolo, con la prospettiva di trasformare l’Ucraina in un lungo Vietnam fatto di scontri a media e alta intensità lungo un’incerta linea di confine. E’ innegabile che Putin si sia preso molto di più di quanto, almeno a parole, pretendeva prima della guerra; ha sbagliato parecchie mosse, ma in un tavolo di trattative difficilmente avrebbe pensato di potersi impossessare di un pezzo così vasto dell’Ucraina come quello che ha occupato sino a oggi.

Occidente, Ucraina e Russia hanno sbagliato tutti i conti. Otto Von Bismarck soleva dire che «nessun piano sopravvive al contatto con il nemico» e questo è successo sia nei campi di battaglia che nelle strategie delle cancellerie. In mezzo la povera gente che, come nello splendido manifesto della Marcia per la pace di Assisi di oggi, vede le pallottole arrivare da tutte le parti senza possibilità di scampo. Non si è capito secondo quale calcolo gli occidentali possano far credere che le tonnellate di armi fornite agli ucraini non siano anche la causa di morti tra i civili; come possano dire che bombe, razzi, proiettili selezionino accuratamente i propri bersagli lasciando indenne la gente che nelle città e per le strade vive. La propaganda bellica che si è impadronita di molti media celebra le immagini della precisione chirurgica dei missili, esalta la millimetrica accuratezza delle esplosioni, ma la guerra non è tutta lì, anzi quasi per nulla la battaglia è asettica distruzione del nemico.

Si sta combattendo tra le strade, si uccide casa per casa. Nei sotterranei dell’acciaieria Azovstal persone innocenti attendono la morte per mano dei carnefici privi di scrupoli che li stanno assediando. Ma nessuno oggi ne reclama la vita, chiede conto della loro mancata resa, esige che siano lasciati andare. La solita retorica li vuole parenti di soldati che combattono o che sono stati uccisi; così li conteggia facilmente tra quelli che hanno deciso eroicamente di morire e computerà i loro cadaveri tra i crimini di guerra russi. Avrebbero il diritto alla resa, ma le loro morti sono più preziose delle loro vite, forse. Alberto Cisterna

Da Sebastopoli a Giarabub, quando i soldati si arrendono (con o senza onore). Dino Messina su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.

La resistenza degli italiani nell’oasi libica divenne leggendaria e fu raccontata in una canzone e in un film con Alberto Sordi. 

Arrendersi in guerra non è di per sé un’ignominia (qui l’articolo sull’acciaieria di Mariupol). Una delle rese più famose e onorevoli della seconda guerra mondiale fu quella di Sebastopoli, l’assedio da parte dell’undicesima divisione della Wehrmacht, comandata dal generale Erich von Manstein, durò oltre otto mesi, dal 30 ottobre 1941 al 4 luglio 1942. Alla fine i russi si arresero ma soltanto dopo aver perso oltre centomila soldati (95mila catturati, 11mila uccisi) e aver inferto notevoli ferite al nemico. La perdita della piazzaforte non impedì infatti alla propaganda sovietica di presentare la battaglia di Sebastopoli come uno degli episodi gloriosi della seconda guerra mondiale.

Ricordiamo per inciso che poco meno di un secolo prima ci fu un altro assedio di Sebastopoli conclusosi con la resa e la vittoria delle forze assedianti, Gran Bretagna, Francia, Impero Ottomano e Regno di Sardegna. È l’episodio centrale della guerra di Crimea che durò circa un anno dal settembre 1854 al settembre 1855, che vide la partecipazione come ufficiale di artiglieria dello scrittore russo Lev Tolstoj. Indimenticabile il suo racconto sul lungo assedio, durante il quale persero la vita almeno quattromila russi.

Restando sul fronte orientale della seconda guerra mondiale, c’è un episodio che determinò la sconfitta della maggiore Armata tedesca, la Sesta, e la resa personale del suo generale, uno dei militari più preparati, Friedrich von Paulus, che nell’inverno 1941-42 condusse una serie di brillanti operazioni fino ad arrivare al 13 settembre, quando scatenò l’offensiva contro Stalingrado. I tedeschi in due mesi riuscirono a conquistare buona parte della città, ma dal 19 novembre con l’operazione Urano cominciò il riscatto dei sovietici che il 2 febbraio imposero la cessazione dei combattimenti con la distruzione quasi totale delle truppe tedesche. Von Paulus rifiutò più volte di arrendersi, alla fine ammise soltanto una «resa personale».

Una delle rese onorevoli, che ispirarono la famosa canzone interpretata da Carlo Buti, «la sagra di Giarabub» («colonnello non voglio pane, dammi piombo pel mio moschetto…»), fu quella imposta a un reparto italiano assediato nell’oasi libica di Giarabub. La battaglia, che si svolse tra il 10 dicembre 1940 e il 21 marzo 1941, fu vinta dal sesto reggimento di cavalleria australiano, che riuscì a isolare il contingente italiano agli ordini del tenente colonnello Salvatore Castagna, che si arrese soltanto dopo una durissima e lunga battaglia. I 1350 italiani erano completamente isolati e vennero traditi da quasi tutti i collaboratori libici: oltre seicento fuggirono e si consegnarono al nemico. Castagna, ferito, fu catturato e finì prigioniero in un campo inglese in India. Al ritorno in Italia apprese che la sua resistenza era diventata leggendaria e la battaglia di Giarabub era stata cantata non soltanto da Carlo Buti ma era diventata il soggetto di un film diretto nel 1942 da Goffredo Alessandrini, con la partecipazione di un giovane e pallido Alberto Sordi.

La seconda guerra mondiale vista dalla parte italiana è peraltro costellata di rese poco onorevoli, firmate quasi senza combattere. Una delle più note fu la resa di Pantelleria, che Mussolini aveva definito la nostra Gibilterra, la sentinella dell’impero e che invece cadde in mano alleata l’11 giugno 1943 dopo soltanto due giorni di assedio. Gli oltre undicimila soldati italiani comandati dal generale Gino Pavesi, quasi non combatterono. Secondo il generale Pavesi la resa fu determinata dalla mancanza di acqua e dall’impossibilità di approvvigionarsi sotto il fuoco dei cannoni di lunga gittata della marina britannica.

Per restare al terribile 1943, furono numerosi gli episodi italiani di resa senza combattere dopo l’armistizio dell’8 settembre e il cambio di fronte. Tanti episodi riguardarono la difficile regione dei Balcani. Ne citiamo uno su tutti, di cui fu protagonista il generale Gastone Gambara, che il 5 settembre era stato convocato a Roma per ricevere l’incarico di organizzare una grande unità mobile che si avvalesse delle forze della II e della VIII armata per contrastare i nuovi nemici, i tedeschi. Il 9 Gambara giunse in aereo a Fiume, dove si rese conto della situazione di disfacimento. Il suo capo, Mario Robotti, dopo averlo ascoltato, partì con un panfilo per Lussimpiccolo lasciandolo a sbrigarsela da solo. Gambara a quel punto decise arrendersi senza combattere e consegnò la città di Fiume, dove erano presenti 40mila soldati italiani, a un ufficiale della Wermacht scortato da due motociclisti. I tedeschi arrivarono in forze soltanto il 14. Gambara si rifugiò a Venezia e aderì alla Repubblica Sociale. Restando nella seconda guerra mondiale, ma nel lontano teatro del Pacifico, non si può ignorare la drammatica resa di Hong Kong, firmata il 26 dicembre 1941 dal governatore britannico Mark Aitchison Young. Le truppe britanniche, con l’aiuto di canadesi e indiani, nulla poterono contro la furia e l’organizzazione dei giapponesi che in dieci giorni riuscirono a conquistare la città (attraversarono il Ponte Victoria il 18 dicembre). A quel punto si rivelò inutile l’intervento cinese in soccorso dei britannici, che avevano già perso il controllo della città.

Il Natale 1941 viene ricordato nella storia cittadina come il Natale nero. Durissime le condizioni degli oltre settemila prigionieri sotto la sorveglianza dei giapponesi. Finora abbiamo parlato di seconda guerra mondiale, ma vorrei concludere questa breve rassegna con un episodio di storia italiana dell’Ottocento, cioè con il lungo assedio di Gaeta, durato dal 5 novembre 1860 al 13 febbraio 1861. In quei tre mesi e mezzo Francesco II riuscì a riscattare almeno l’onore in una campagna che aveva visto sfaldarsi l’esercito del Regno delle Due Sicilie contro i volontari di Giuseppe Garibaldi. L’ultimo e debole sovrano borbonico fronteggiò con coraggio le truppe preponderanti e meglio armate del generale Enrico Cialdini, che disponeva di 180 cannoni a canna rigata e a lunga gittata con cui bombardava la fortezza da terra. Francesco II ne aveva soltanto 4, gli altri erano ferri vecchi a canna liscia. I francesi di Napoleone III avevano impedito che l’assedio si svolgesse anche dal mare, ma anche per impedire la carneficina (i cannoni di Cladini non colpivano soltanto obiettivi militari ma anche civili, compresi gli ospedali) abbandonarono la rada di Gaeta. Il 14 febbraio Francesco II e la coraggiosa consorte Maria Sofia di Baviera abbandonarono la roccaforte di Gaeta a bordo della nave da guerra francese Mouette, che salpò alla volta di Civitavecchia. Francesco II si stabilì con la famiglia a Roma, prima ospite del Papa Pio IX al Quirinale, quindi a Palazzo Farnese, che divenne sede del governo provvisorio in esilio.

Lasciamo stare la discussione sulle sanzioni. La vita viene prima della libertà e dell’indipendenza, mi sembra una banalità. Piero Sansonetti su Il Riformista il 20 Aprile 2022. 

In un paio di trasmissioni televisive ho provato a dire una eresia, ma sono stato rintuzzato. L’eresia è questa: nella mia scala di valori ci sono tre valori sopra tutti gli altri, e questi tre valori sono il fondamento di ogni mia scelta e di ogni mio giudizio politico. In quest’ordine: La vita, prima di tutto, poi la libertà, e poi l’uguaglianza. La vita, per me, è un valore assoluto e sovraordinato rispetto a tutti gli altri. Mi sembrava una banalità. Invece mi dicono che è una idea codarda. Che la libertà è il primo dei valori e che l’indipendenza è il principio essenziale sul quale si fonda il valore della libertà. E mi dicono che se i martiri cristiani, e quelli del Risorgimento, e gli eroi della Resistenza avessero ragionato come me, non avremmo avuto il cristianesimo, non avremmo avuto l’Italia unita, non avremmo avuto la cacciata dei nazisti.

A me però questo ragionamento non convince. Io penso naturalmente che ciascuno di noi abbia il diritto di spendere ed eventualmente sacrificare la sua vita nel modo che ritiene migliore. E se la sacrifica per il bene della sua famiglia, del suo popolo, della sua patria compie un gesto molto nobile (anche se a me il concetto di patria non è mai stato chiarissimo). Io dico una cosa diversa. Dico che la vita del popolo, forse, non è giusto che sia sacrificata nel nome dei diritti di indipendenza del popolo. Quando c’è una guerra, e quando in questa guerra cadono migliaia e migliaia di civili, non c’è una scelta da parte dei civili. Non sono loro che si offrono in cambio della possibilità, talvolta remota, di conquistare l’indipendenza, o la libertà. Sono i governanti che scelgono tra due opzioni: trattare e barattare con il nemico, cedendogli qualcosa di quello che lui vuole in cambio della pace; oppure rifiutare questa via è alzare un muro di combattenti, mettendo in conto migliaia e forse decine di migliaia di morti, e colossali danni economici, e la distruzione di gigantesche quantità di risorse, e anche di intere città.

Perché dovrebbe essere uno scandalo se qualcuno chiede di mettersi un attimo ad un tavolo e con realismo valutare la situazione. Siamo sicuri che in certe condizioni la parola “resa”, naturalmente “resa” parziale e “resa” negoziata, sia una bestemmia? E non sia invece una bestemmia accettare di pagare un prezzo immenso in vite umane? Cioè siamo sicuri che il valore della vita sia negoziabile, e quello dell’indipendenza di parti del territorio invece non lo sia? A me non pare un’eresia. E qui non c’entra molto neanche il pacifismo. O il cristianesimo di Bergoglio (diceva Gesù: “o sono la via, la vita e la verità”, non diceva io sono l’indipendenza e l’identità nazionale…”). C’entra il buonsenso, la realpolitik. E il rispetto per la collettività e il bene comune. Quanta retorica c’è nella difesa della vita? A me sembra zero retorica. E quanta retorica c’è nella difesa dell’indipendenza e della patria? Spesso c’è parecchia retorica.

Di solito in questi casi si usa ricordare il passato. Era giusto o no morire per Danzica? E allora non è giusto, forse, morire per il Donbass? Ci sono moltissime cose che sono cambiate da allora. Sul piano della politica, degli Stati, della potenza militare, del rapporto tra guerra e popolazione civile. Ma soprattutto è cambiata una circostanza essenziale: la globalizzazione. Da almeno trent’anni la globalizzazione è avviata e inarrestabile. Si oppongono alla globalizzazione le dittature e le frange politiche reazionarie che vorrebbero fermare le migrazioni delle persone. Ma si oppongono senza la possibilità di vincere. La globalizzazione tende a ridurre il mondo a uno. Unico e interdipendente. A travolgere i confini, le piccole e grandi patrie, le nazionalità e i nazionalismi. Nessuna potenza può vivere più senza accettarne le regole.

Per questo è più facile anche il negoziato. Lasciamo stare la discussione sulle sanzioni. Secondo voi se le grandi potenze si fossero riunite a un tavolo per decidere il destino del Donbass e della Crimea, e si fossero radunate senza intenti punitivi neanche nei confronti della Russia, la guerra ci sarebbe stata o no? E secondo voi la globalizzazione permette o no di condizionare e controllare i comportamenti delle nazioni, anche delle più aggressive? Io penso di sì. Per questo credo che l’indipendenza oggi valga poco. Abbia poco a che fare con i diritti e le libertà. Non riesco proprio a immaginare una bilancia a due piatti, dove il piatto con su il Donbass pesi più del piatto della vita.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il pacifismo è il partito della resa altrui. Giancristiano Desiderio su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2022.

Al tempo della guerra in Vietnam, i pacifisti chiedevano agli americani di andarsene non certo ai vietnamiti di arrendersi.

Quando si discute di pace e di pacifismo non bisognerebbe mai dimenticare che gli stessi pacifisti, vuoi ingenuamente vuoi consapevolmente, sono stati usati nella storia del Novecento come delle armi per delegittimare il nemico. Non è un mistero per nessuno — o almeno non dovrebbe esserlo — che il movimento pacifista fu strumentalizzato dal Pci che era attentissimo nel mostrare le guerre in atto e in potenza degli Stati Uniti ma era distratto sulle azioni e intenzioni belliche dell’Unione Sovietica. Vi è nel pacifismo un’ambiguità di fondo, colta molto bene anni fa da Gabriella Mecucci nel libro Le ambiguità del pacifismo , che andrebbe sempre dissolta per evitare che il giusto sentimento di pace degli uomini pacifici e di buona volontà sia trasformato in un’arma di propaganda dal pacifismo ideologico. Purtroppo, dimenticando o ignorando la tragica storia totalitaria del Novecento, il pacifismo dei nostri giorni è riuscito persino a passare dalla propaganda alla caricatura.

Infatti, chiedere agli ucraini di arrendersi per avere la pace, che sarebbe una sottomissione, è ridicolo e immorale ossia grottesco. Al tempo della guerra in Vietnam, i pacifisti non chiedevano ai vietnamiti di arrendersi ma agli americani di andarsene. Oggi perché non si chiede alla Russia di Putin di abbandonare l’Ucraina? Perché si incontrano due tabù: da una parte gli Usa e dall’altro la Russia che per molti pacifisti italiani, tanto di sinistra quanto di destra, sono nient’altro che i loro fantasmi mentali che non hanno superato. Purtroppo, non è solo un problema privato. È anche una grande questione pubblica: è la fragilità della nostra democrazia vista dal lato della politica estera. Quella più importante. Il pacifismo italiano è, allora, una sorta di partito della resa altrui che vive con risentimento ancora nella politica dei due blocchi e desidera la pace come sconfitta del mondo che ha vinto la «guerra fredda»: le democrazie occidentali, noi stessi.

L. Cr. Per “il Corriere della Sera” il 18 Aprile 2022.

«Resa? Non ne abbiamo mai neppure parlato. I russi possono tranquillamente fare a meno dei loro ultimatum. Gli eroi combattenti di Mariupol si batteranno sino all'ultimo uomo, non cercano il martirio ma sono pronti a morire. Ma i rinforzi arriveranno prima».

Resta quasi interdetto il comandante Michail Pirog quando gli si chiede dell'eventualità che gli ucraini accerchiati da quasi due mesi scelgano di arrendersi per avere salva la vita: «Non è un'opzione contemplata», spiega calmo. A 55 anni, Pirog guida il quarto Battaglione dei volontari della formazione nazionalista Azov, circa mille uomini nel distretto di Zaporizhzhia, la città del Centro-Sud più prossima a Mariupol. 

Quanti sono gli ucraini accerchiati che ancora combattono?

«Sono dati riservati. Posso dirle che ci sono Marine della 36esima e 503esima Brigata, soldati della Guardia nazionale e tanti volontari della Azov. Sono unità ancora operative, siamo riusciti a inviare loro rinforzi di armi e munizioni sino a poche settimane fa.

Possono ancora resistere per settimane, ma gli mancano cibo e acqua come ai civili». 

Qui negli ambienti militari si parla di circa mille soldati ucraini accerchiati contro 10.000 russi. Ha senso?

«Sì, direi che la proporzione è quella. Non so però dire con precisione quali quartieri siano ancora nelle loro mani oltre alla zona delle acciaierie Azovstal, anche perché le posizioni cambiano di continuo: stiamo parlando di una battaglia tra le vie di una grande zona urbana. I posti di resistenza sono parecchi e rendono complicata l'avanzata russa». 

Una classica guerriglia urbana con bombe molotov e cecchini?

«Direi più di così. I nostri posseggono ancora razzi, armi anticarro, mortai leggeri.

Sono soldati di un esercito, non guerriglieri urbani».

Cosa risponde a chi, anche tra i Paesi europei alleati dell'Ucraina, accusa la Azov di essere una formazione neonazista e razzista?

«Noi siamo patrioti che combattono per la libertà e la democrazia. La propaganda russa falsifica la realtà e ci accusa di nazismo, mentre sono proprio i soldati russi a uccidere civili, a rubare e violentare. Sono loro i nuovi hitleriani. Noi ci battiamo anche per difendere le democrazie europee contro il fascismo espansionista di Putin». 

E le vostre origini cosacche? Siete figli delle stesse unità che stavano a fianco delle SS durante la Seconda guerra mondiale.

«Lo sa che c'erano un mucchio di russi collaborazionisti tra le guardie dei lager nazisti? Ma l'Armata Rossa era un'altra cosa. Per noi l'anima cosacca è oggi sinonimo di libertà contro la dittatura oppressiva di Putin. Altro che razzisti! Con noi ci sono ebrei, azeri, tartari di Crimea, armeni, cattolici, musulmani». 

Chi vi critica menziona la svastica sulle vostre uniformi e bandiere.

«La svastica è un antico simbolo slavo, pan-europeo, persino indiano. Per noi non ha alcun rapporto col nazismo. Accusereste mai gli indiani per le svastiche antiche millenni? Ma sono discorsi che davvero oggi non hanno senso. La realtà è che ci stiamo difendendo da un'aggressione violenta e fanatica. Abbiamo bisogno di tutto il vostro aiuto».

Il problema non è capire chi è colpevole. Parlare di resa è folle, minacciare la guerra atomica è ok: cari intellettuali, così fate il gioco di Biden. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Aprile 2022. 

Circa un mese fa abbiamo pubblicato su questo giornale un titolo che ha indignato molti, e ci ha guadagnato l’ostracismo e il linciaggio del partito interventista (per altro rispettabilissimo partito, al quale noi diamo ampio spazio su queste pagine perché consideriamo quella voce una voce da ascoltare e da valutare sempre). Il titolo parlava del dovere della resa, e gli articoli collegati a quel titolo raccontavano di come tanti eroici combattenti, nella storia umana – vista sfumare ogni possibilità di vittoria – scelsero la resa e non la resistenza disperata, e fecero questa scelta non per viltà ma per proteggere il proprio popolo.

Resa vuol dire trattativa. Negoziato. Naturalmente se sei solo, isolato, come successe, ad esempio, ai nativi americani dei Sioux e dei Cheyenne, la trattativa diventa molto faticosa e ottiene poco. Se invece sei protetto da un formidabile sistema di alleanze, che ha una gigantesca potenzialità economica e militare, e poi di controllo, la trattativa può ottenere risultati molto migliori e la resa può essere una scelta largamente conveniente. Ci è stato rinfacciato di essere gente senza valori e piena di vigliaccheria. Perché purtroppo questa guerra ha riesumato valori e doti che noi credevamo dispersi nel tempo, come il coraggio, l’eroismo, la potenza o l’astuzia militare. I russi esaltano le qualità dei loro combattenti, che vanno a morire a migliaia, forse per la patria. L’Occidente esalta il coraggio e la capacità di resistenza dell’esercito ucraino, anche perché quella è l’unica condizione richiesta agli ucraini per ottenere il rifornimento di armi dall’Europa e dall’America. Gli è richiesto eroismo.

Il coraggio del popolo ucraino e il sacrificio dei soldati russi sono fuori discussione. L’uno e l’altro sono doti che appartengono a loro e solo a loro, ma invece sono sussunte, sfacciatamente e in una operazione di magia, da chi li sostiene da casa, o dalla tastiera, o da qualche cancelleria. Il coraggio di noi italiani che sosteniamo gli ucraini a dispetto di qualche mollaccione pacifista, anzi, panciafichista come Mussolini chiamava quelli che si opponevano alla guerra contro gli imperi centrali.  Va bene. Incassiamo la definizione di folli e vigliacchi, estesa – immagino – a papa Francesco. Il pontefice è stato ignorato per più di un mese dalla grande stampa e ora, a fatica, viene preso in considerazione, ma solo per farlo diventare il bersaglio delle critiche e degli anatemi (con due sole eccezioni, mi pare, che citerò alla fine di questo faticoso articolo).

Vorrei capire però come è possibile considerare un folle chi parla di resa e poi tranquillamente discutere dell’ipotesi di una guerra nucleare come situazione molto sgradevole ma forse inevitabile per le regole della realpolitik. Naturalmente io non credo che nessun leader del mondo pensi seriamente alla possibilità di usare le bombe atomiche. Perché non servono particolari capacità di analista o di futurologo per capire che l’uso anche di due sole bombe atomiche (una per parte) porterebbe ad anni di declino della civiltà umana, sul piano economico, su quello sociale, su quello del rapporto tra Stati e sul piano del senso comune e della cultura dominante. Però anche se escludo la possibilità che qualcuno seriamente prenda in considerazione l’uso dell’atomica, la cosa mi angoscia ugualmente. Perché comunque i capi di Stato e i grandi opinionisti ne parlano con leggerezza. Ipotizzano che Putin sia costretto ad usarla (e si muovono per spingerlo in quella direzione) e ragionano su quale possa essere la risposta più efficace. Immaginano che se lo zar esagererà, pagherà con l’annientamento della Russia. E in questo modo introducono un linguaggio, e dei parametri di riferimento per il dibattito pubblico, che fino a qualche mese fa erano inimmaginabili.

La logica della guerra come condizione naturale di gestione delle crisi politiche ormai si è largamente affermata. L’annientamento è un termine in voga e un’opzione. E in tutte le discussioni il binomio amico-nemico, nel senso più crudo di questa espressione, è diventato il protagonista. I giornali sono militarizzati. La censura o autocensura è diventata la norma ed è considerato sacrificio eticamente giusto. La maledizione del dissenso è praticata in tutti i momenti e gustata come la prova della superiorità morale di un campo sull’altro. Voi credete che, se e quando la guerra finirà, e se non ne comincerà un’altra, questa ferita profondissima alla civiltà libera e liberale sarà recuperabile? Forse si. Occorreranno anni, decenni. Non sono sicuro che l’idea – forse imbelle, ma ragionevolissima della resa – possa danneggiare il senso comune. Possa offendere la dignità, o lo spirito della libertà. Penso invece il contrario: l’allegria con la quale si parla di bomba atomica, dopo 60 anni dall’ultima vera crisi (quella di Cuba, che si svolse a parti inverse: con l’Occidente che minacciava la Russia perché la Russia stava armando uno Stato vicino agli Usa) questa può mettere in cantina gran parte della libertà economica e politica e di pensiero che ci eravamo guadagnati negli ultimi 75 anni.

Ascolto giornalisti e intellettuali di sicuro livello, rintuzzare questi ragionamenti miei, contorti e addolorati, con argomenti che apparentemente sono la quintessenza della logica e della semplicità. Ma che a me sembrano solo semplificatori. Ha avuto un gran successo, per esempio, l’intervento a Cartabianca del mio amico Antonio Caprarica, al quale mi lega un antichissimo sentimento di vago ma incancellabile affetto (siamo cresciuti insieme, professionalmente, tra i rampolli post-sessantottini dell’Unità, lui comunista di destra, io comunista di sinistra, tutti e due innamorati del giornalismo moderno e non della propaganda). Cosa ha detto? In sostanza una cosa semplicissima e inattaccabile: l’aggressore è Putin l’aggredito e Zelensky. Che senso ha dare le colpe a Biden?

Ha senso, Antonio, per questa ragione: non è con la ricerca del colpevole che si trova la pace, ma è con la ricerca della pace che, forse, si inchioda anche il colpevole. A noi interessa la pace o il colpevole? A me la pace. Credo anche a te. Il colpevole è Putin, nessuno ne dubita. Ma i responsabili dell’allungarsi e incrudirsi della guerra sono tanti. Biden in testa. Noi non siamo chiamati a dire bianco e nero, ma ad analizzare e a cercare le vie d’uscita e a scansare chi le ostruisce. È stato un gesto lungimirante, per esempio, da parte degli inglesi, silurare o contribuire al siluramento dell’incrociatore russo? Non ne sono tanto sicuro. Poi c’è Umberto Galimberti , che non conosco ma so essere un filosofo di valore, il quale però anche lui si fa trascinare nelle analisi da stadio. E si scaglia contro il Papa che ha chiesto a una madre russa e a una madre ucraina di tenere insieme la croce. Un’idea bellissima. Un momento esaltante quello scambio tragico di sguardi tra le due signore. Un inno vero alla pace, e un inno ai popoli, che non sono mai responsabili delle guerre. Ne sono vittime.

Domanda, iroso, Galimberti: e se Pio XII avesse chiesto a un partigiano di marciare con un tedesco nella Roma occupata? Professor Galimberti, Pio XII, per la verità, incontrò molti ufficiali tedeschi e nessun partigiano, innanzitutto. E poi immagino che lei conosca la differenza tra persona del popolo e capo militare, no? Se una donna italiana avesse sfilato con una donna tedesca quale sarebbe stato lo scandalo? Infine un’ultima disperata osservazione: possibile che sappiate ragionare ancora solo con quelle categorie politiche che hanno sciaguratamente deturpato il novecento? Nazificazione, denazificazione, invasione, guerra, guerriglia, deportazione? Diosanto, non vedete che abisso intellettuale c’è tra il modo di ragionare di Francesco e il vostro rinchiudervi in schemini piccoli piccoli e imparati a memoria?

P.S. Le due eccezioni della quali parlavo sono il solito Altan, che ha pubblicato su Repubblica (diventato ormai un giornale di propaganda militare) una vignetta fantastica, controcorrente e non descrivibile a parole. Con una sola battuta scritta: “Vincere che?”. Già, ci vuole molto per capire che perderanno tutti? E poi Massimo Giannini, che non mi è stato mai molto simpatico e che in questi cinquanta giorni non ha fatto in modo da far brillare la Stampa per ragionevolezza. Ma che il giorno di Pasqua ha pubblicato un suo editoriale molto bello, molto coraggioso, molto lucido. Chapeau.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'Aria che Tira, “l'Ucraina deve arrendersi?”. Tommaso Cerno perde la testa per la provocazione. Il Tempo il 15 aprile 2022.

“Cosa deve fare l'Ucraina, deve arrendersi? Deve smettere di combattere e arrendersi”. Tommaso Cerno perde il lume della ragione nel corso dell’edizione del 15 aprile de L’Aria che Tira. Nel corso della puntata del talk show mattutino di La7 condotto da Myrta Merlino il senatore del Partito Democratico si trasforma in una furia non appena sente la domanda, a mo di provocazione, fatta dall’economista Giuliano Cazzola, ospite come lui in collegamento: “Cazzola ascoltami bene, io ti ascolto sempre, visto che non hai idea della mia posizione di perché ho dette queste cose non buttarla in tribuna, io sono un filoucraino totale. Casomai sto dicendo il contrario, sto dicendo che il presidente degli Stati Uniti non sta parlando per imprudenza ma perché vede davanti a sé uno scenario molto più grave e serio di quello che continuiamo a raccontare noi. Questo è il punto che dico io, mi auguro che non succeda, ma tutta questa leggerezza nel parlare di Joe Biden come uno che è lì per caso io la comincerei a togliere dal dibattito italiano. Il presidente degli Usa - ammonisce Cerno - non è lì per caso”.

“Infatti - replica allora Cazzola - non è lì per caso. Ha fatto una mossa armando l’Ucraina, opportunistica ed utile, con quattro soldi mette in difficoltà i russi. Senza mettere in ballo neanche una vita di un americano. Figurati se me la prendo con te, io ho chiesto a tutti, non ho chiesto solo a te”. Si chiude la vicenda e la Merlino va in pubblicità.

Chi non vuole le trattative di pace fa il gioco di Putin. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Aprile 2022. 

Il papa è intervenuto di nuovo. Chiede pace e smonta uno a uno tutti i luoghi comuni interventisti. Non esiste la guerra giusta – dice – non esiste la guerra santa, non si può dividere in due l’umanità tra buoni e cattivi. Il papa invoca i due principali valori del cristianesimo: la vita e la fratellanza. Si scaglia contro l’aumento delle spese militari, sferzando tutti i governi occidentali. “pazzìa”, ripete: “pazzìa”.Spiega che le armi non servono mai alla pace, servono a uccidere, a sterminare a distruggere ricchezze.

Cosa dice, in fondo, il Papa? Semplicemente cose ragionevoli. Forse nel momento sbagliato. E infatti nessuno lo ascolta. Tantomeno lo ascoltano i due grandi protagonisti di questa guerra: i russi e gli americani. I russi questa guerra l’hanno avviata, con una decisione folle e temeraria. Gli americani intendono proseguirla, con una decisione temeraria e calcolata. Il Papa stavolta è intervenuto addirittura pubblicando un libro. Che uscirà oggi in libreria. Del quale vi offriamo un estratto della introduzione. Il testo di questa introduzione è anche un pochino malizioso. Francesco cita alcuni dei più clamorosi interventi pacifisti dei suoi tre principali predecessori: Giovanni XXIII, Paolo VI e Wojtyla. È logico che citi questi tre pontefici, che molte volte hanno fatto sentire la loro voce.

Però è difficile non vedere nei riferimenti a tre discorsi famosi una allusione agli americani. Francesco ricorda di quando papa Roncalli chiese a russi e americani di fermarsi, nella crisi del 62, quando i russi stavano fornendo dei missili nucleari a Cuba – cioè stavano armando Cuba – e gli americani ritenevano inaccettabile questa cosa, e minacciavano di attaccare le navi russe che stavano navigando verso i Caraibi. Kennedy ordinò di attaccare le navi mandate da Krusciov se non si fossero fermate. Krusciov fermò le navi, per fortuna, e la crisi fu scongiurata. Kennedy riteneva insopportabile che la Russia armasse un paese molto vicino agli Usa. Un po’ come Putin, che ha considerato inaccettabile il riarmo dell’Ucraina, paese confinante. In quel caso furono gli americani a minacciare la guerra atomica.

Poi Francesco ha citato la guerra del Vietnam e il grandioso discorso di Paolo VI all’Onu, nel 1965. Il Vietnam, appunto, che fu una guerra di aggressione degli americani in Indocina. Dieci anni di guerra guerreggiata, bombardamenti atroci, villaggi sterminati, il terrificante napalm, gettato dai B52, che faceva tavola rasa di esseri umani, animali e vegetazione. Due milioni di morti, tra i quali 52 mila ragazzi americani. Infine ha ricordato l’appello di Wojtyla per evitare la guerra all’Iraq. Quella degli americani contro Saddam. Erano guerre difensive? No. Erano guerre giuste, perché anche nelle guerre di invasione si deve distinguere tra guerre giuste e guerre ingiuste? No, il papa ha dichiarato il suo punto di vista: non esistono guerre ingiuste.

Non lo ascolteranno. Tranquilli, non lo ascolteranno. Il grande sistema informativo occidentale, non solo italiano – ma l’Italia è avanti a tutti su questo campo – è entrato in una condizione di vero e proprio regime. Esiste una sola verità, un solo punto di vista, una sola versione dei fatti. E questa verità, in linea di massima, è decisa dalle parti di Washington. Il sistema dell’informazione è decisivo in questa guerra. È servito già in più occasioni a bloccare ogni ipotesi di trattativa. Sul piano politico gli americani e gli inglese hanno in mano tutto, perché hanno in mano le armi che forniscono o forniranno agli ucraini e hanno nelle loro mani anche il destino di Zelensky. Negli ultimi giorni questo è stato chiarissimo. Zelensky, che prima di Bucha sembrava favorevole a una conclusione negoziata della guerra, ora ha cambiato atteggiamento. Tutte le sue mosse vanno in direzione opposta alla trattativa. Sia le dichiarazioni sia gli atti.

Il rifiuto della visita del Presidente tedesco, ieri le parole durissime contro Macron e la Francia, il giorno prima l’ordine dell’ambasciata di respingere la proposta del papa di una ucraina e una russa che guidassero la processione del venerdì santo. È chiaro che in questa condizione, e con i media trasformati in organi embedded, lo spazio per il papa è minimo. Probabilmente lui riesce ancora a parlare al suo popolo, ma gli stati maggiori non lo prendono neppure in considerazione. E i grandi mezzi di informazione sono allineati dietro l’idea che più spari, più prepari la pace, più ti armi, più ti convinci che esistono le guerre giuste, più resti in pace con la coscienza.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ucraina, all'Onu il delegato legge l'sms del soldato russo morto: "Bombardiamo i civili". Libero Quotidiano il 05 aprile 2022.

L'Ucraina chiede a gran voce armi per resistere all'invasione russa. Dopo Volodymyr Zelensky si appella all'Occidente anche Stanislav Syrokoradjuk, vescovo cattolico di Odessa. Da giorni la città ucraina inizialmente illesa, è alle prese con bombe e attacchi di ogni tipo. Per questo Syrokoradjuk ricorda che sì "la resistenza armata non è l'unica soluzione contro l'invasione, c'è anche la preghiera, ma "sostengo la giusta lotta per l'indipendenza dell'Ucraina e questa la stanno garantendo i nostri soldati. La minaccia alla vita del nostro Paese esige che dobbiamo difenderci".

Intervistato dal Giorno, il vescovo non lesina critiche neppure su Papa Francesco che avrebbe pensato di fare visita a Kiev. "Al momento - mette le mani avanti - non è all'ordine del giorno. Non c'è ancora nulla di ufficiale, per adesso le priorità da affrontare sono altre". Syrokoradjuk premette che Bergoglio sta facendo tutto il possibile, salvo poi lanciargli una frecciatina: "Ogni cosa va chiamata con il suo nome, come oggi sta facendo tutto il mondo. Perché anche il Pontefice non potrebbe farlo? La radice del male adesso va chiamata col suo nome". Il riferimento è alla decisione da parte del Pontefice di non nominare mai Vladimir Putin nelle sue numerose critiche alla guerra. "Il Papa da sempre invoca una soluzione pacifica ai problemi, non solo da oggi. Se fosse stato ascoltato, non ci sarebbe stata l'invasione russa dell'Ucraina".

E proprio in questo clima Kirill, patriarca ortodosso di Mosca, ha espresso il desiderio di incontrare Bergoglio. Un invito che il Papa, almeno per il vescovo di Odessa, dovrebbe declinare perché tra Kirill e Putin "non c'è alcuna differenza ed è chiaro come vadano trattati. Questa, però, è la mia opinione. Il Papa sa meglio come e che cosa fare. Noi abbiamo fiducia". Secondo Syrokoradjuk infatti questa guerra finirà in un solo modo: con la vittoria ucraina.

I MORTI AL BALZO. Marco Travaglio su Il Fatto Quotidiano il 5 aprile 2022.  L’unica certezza sull’orribile strage di Bucha è che 410 esseri umani sono morti. Quasi sicuramente per mano russa: sapremo tutto, forse, da un’inchiesta internazionale alla fine della guerra (e molto dipenderà da chi l’avrà vinta). Ma francamente importa poco chi li abbia uccisi, e dove, e quando: chiunque sia stato non sposta di un millimetro il giudizio sulla guerra, che è sempre sterminio e distruzione

Chi ha ucciso quei civili ucraini? A Travaglio non importa… 

A leggere tra le righe del suo editoriale, sembra che per il direttore del Fatto le vittime di Bucha siano un’occasione colta al volo dall’Occidente per alimentare il conflitto con la Russia di Putin. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 5 aprile 2022.

Tra deliri negazionisti, teorie del complotto e il cinismo ipocrita che accompagna molte “analisi” sulla mattanza di Bucha sembrava quasi impossibile far peggio dell’Anpi e dell’ incredibile comunicato di ieri in cui si chiede cosa sia «davvero successo» (sic) nella città ucraina. Ci sbagliavamo: c’è riuscito Marco Travaglio nel suo consueto editoriale.

A cominciare dal lugubre titolo, “I morti al balzo”. Sottotesto: le vittime di Bucha sono un’occasione colta al volo dall’Occidente e dal suo mainstream per alimentare il conflitto con la Russia di Putin (come se ne avessero bisogno, poi). Certo, è complicato sostenere che gli ucraini si siano sparati alla nuca da soli e smentire le centinaia di testimonianze sul massacro. Quindi bisogna essere pronti ad accettare che quell’orrore sia stato effettivamente compiuto dalle truppe di Mosca. Ma niente paura, esiste un piano b per scagionare il Cremlino.

Otto e mezzo, Marco Travaglio irride gli appelli di Volodymyr Zelensky: terza guerra mondiale per colpa sua. Il Tempo il 05 aprile 2022.

Nel suo discorso all’Onu Volodymyr Zelensky ha chiesto un processo in stile Norimberga per Vladimir Putin e ha lanciato accuse durissime alla Russia. Nella puntata del 5 aprile di Otto e mezzo, talk show di La7, Lilli Gruber chiede conto dell’intervento del presidente dell’Ucraina a Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano: “Se il mondo avesse fatto tutto quello che chiedeva lui, seguendo parola per parola le sue richieste di queste settimane, saremmo già alla terza guerra mondiale, avremmo concesso all’Ucraina la no-fly zone e avremmo avuto uno scontro aereo tra caccia Nato e caccia russi. Per fortuna l’Occidente sta dando massima solidarietà ad un popolo aggredito, ma poi fa la tara a le cose che dice Zelensky, che non sempre dice cose calcolandone le conseguenze. Il processo di Norimberga è un bellissimo esercizio di retorica, ma è semplicemente impossibile. Per processare Putin alla corte de L’Aja bisogna arrestarlo, non sono previsti processi in contumacia, poi bisognerebbe che l’Ucraina riconoscesse la corte de L’Aja, cosa che non hanno mai fatto sennò ci sarebbero finiti alcuni fiancheggiatori delle truppe ucraine, i famosi nazisti del Battaglione Azov, che si macchiarono di errori spaventosi ai danni delle popolazioni del Donbass per 8 anni contro i russofoni". 

“Anche gli americani - va avanti Travaglio - dovrebbero avvertire Joe Biden che gli Usa non riconoscono quella corte, se la riconoscessero sarebbero i primi a finirci, visto che gli americani  di crimini contro l’umanità ne hanno commessi a bizzeffe, insieme ai loro alleati. Vedi Iraq e Afghanistan. I russi ne hanno combinate di tutti i colori in Cecenia, in Georgia e in Siria… I paesi che non vogliono finire sotto processo non vogliono riconoscere quel tribunale, dove vengono processati i vinti e i paesi più sfigati che hanno perso le guerre. È un’esercitazione retorica che non porta da nessuna parte”.

“L’unica cosa che porta da qualche parte è cercare di riannodare i fili di quella trattativa complicata che si era abbozzata in Turchia, della quale nessuno parla più per l’escalation verbale seguita alla strage di Bucha”, conclude l’intervento Travaglio.

 Strage di Bucha, la frase di Travaglio che indigna: “Non importa chi ha ucciso gli ucraini”. Marta Lima martedì 5 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.

Dalle accuse di filo-putinismo a quelle di cinismo, terzietà, disprezzo dei fatti. Su Marco Travaglio, dopo l’editoriale di questa mattina sul “Fatto Quotidiano”, si abbatte una nuova polemica dopo alcune frasi considerate da molti, soprattutto sui social, particolarmente inquietanti rispetto alle dinamiche della guerra in Ucraina. All’indomani del massacro di civili consumato dai russi, Travaglio scrive: “L’unica certezza sull’orribile strage di Bucha è che 410 esseri umani sono morti. Quasi sicuramente per mano russa: sapremo tutto, forse, da un’inchiesta internazionale alla fine della guerra (e molto dipenderà da chi l’avrà vinta). Ma francamente importa poco chi li abbia uccisi, e dove, e quando: chiunque sia stato non sposta di un millimetro il giudizio sulla guerra, che è sempre sterminio e distruzione”.

Non è tanto il dubbio sugli autori del massacro a indignare, quanto l’idea che nel calderone della guerra non ci siano mai i buoni e i cattivi, neanche in presenza di un aggressore così chiaro e definito.

Travaglio prosegue poi sollevando altri dubbi. “Nemmeno se si scoprisse che la strage – come sostengono i russi e i complottisti – è opera degli ucraini, o di qualche milizia più o meno nazi o mercenaria, si ribalterebbe il capitolo delle colpe. Che sono chiarissime: dal 24 febbraio sono di Putin, mentre fino a quel giorno se le dividevano equamente la Russia, la Nato (soprattutto gli Usa) e il governo ucraino. Ne vedremo tante, di scene come Bucha, o come il video di soldati ucraini che gambizzano soldati russi imprigionati e ammanettati, se non si arriverà presto a una vera trattativa con reciproche concessioni fra i veri protagonisti della guerra per procura…”. E da qui le solite accuse agli Usa, alla Ue e al governo Draghi.

L’indignazione corre sul web e sulla pagina del giornalista

Sui social e sulla pagina Twitter di Travaglio i commenti amari non mancano. “Apprezzo molto Travaglio che non ha mai atteso una sentenza di condanna per fare nome e cognome di chi secondo lui è colpevole anche solo del furto d’un acino d’uva ma davanti ai 410 morti di Bucha ci fa sapere che “importa poco chi li abbia uccisi”. La faccia come il Putin”, scrive uno.

“Colui che ha esposto ed espone alla gogna pubblica sul Fatto persone poi risultate completamente innocenti, di fronte al martirio di bambini, donne e uomini, dice ‘francamente poco importa chi li abbia uccisi, e dove e quando'”.

Ed ancora: “Mi sono chiesto per decenni se Berlusconi fosse un genio della comunicazione o semplicemente un tizio con tanti soldi e avversari grottescamente scarsi. Vedendo le recenti performance di Travaglio, Santoro e compagnia tendo sempre più a propendere per la seconda ipotesi”. 

“Secondo voi Travaglio rilegge quello che scrive? Quasi sicuramente… importa poco… dai”, ironizza un utente. E a criticarlo arriva anche il collega del Corriere della Sera, Goffredo Buccini: “Marco, torna in te, che cazzo stai scrivendo?”.

Qual è l’obiettivo: proseguire la guerra o concludere la guerra? La strage di Bucha è orrida, vendichiamola con altri massacri! Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Aprile 2022. 

Qual è l’obiettivo: proseguire la guerra o concludere la guerra? La domanda essenziale è questa. Il resto è chiacchiera. Ogni gesto politico, ogni dichiarazione, ogni polemica, ogni atto – dei leader, dei governanti e degli opinionisti – può essere finalizzato solo a una di queste due scelte. Non sarà il destino a stabilire la durata della guerra ma saranno le decisioni e le iniziative degli uomini e degli Stati. Gli ultimi giorni e le ultime ore ci dicono che gli avvenimenti e le scelte prevalenti pesano, sul piatto della bilancia, a favore della guerra. Le voci della pace sono ormai finite sottoterra. L’unica, flebile, che non accetta il silenzio, è quella di Bergoglio, ma viene nascosta, o silenziata, o censurata, o distorta da un sistema di informazione formidabile, guidato con polso fermo, è compattamente schierato contro l’idea che le voci pacifiste possano essere qualcosa di diverso dall’espressione o di infami putiniani, o di miseri idioti, intontiti dalla propaganda nonviolenta e irrealistica.

Quali sono gli avvenimenti? Essenzialmente due. Il primo è la notizia che gli americani sono pronti a inviare carri armati agli Ucraini. Cioè hanno deciso l’escalation militare. La seconda è la spaventosa strage di Bucha – della quale sappiamo ancora pochissimo ma sappiamo che c’è stata – e sono le reazioni internazionali alla strage di Bucha. Che spingono, anche quelle, in una sola direzione: l’aumento dell’intensità della guerra, la sospensione di ogni iniziativa di pace, la realizzazione di un contesto di opinione pubblica nel quale trattare con Putin diventi impossibile. Tutto questo succede per caso, o ci sono dei disegni, o degli interessi, o delle opzioni politiche che spingono contro la prospettiva della pace? Io non credo che succeda per caso. E’ chiaro che non esiste un piano organico che stabilisce tutte le tappe e gli atti dell’escalation. Esiste però una scelta che punta verso la escalation. E questa scelta è sia da parte dei russi, che evidentemente non hanno mai pensato alla guerra lampo e non intendono in nessun modo allentare la tensione e la furia della guerra; sia da parte anglo-americana.

Pongo questa semplice domanda: avete sentito in questi quaranta giorni una parola che venisse da Washington a favore di una ipotesi di negoziato? Avete intravisto nelle molteplici dichiarazioni di Biden una spinta pacifica? Capisco la risposta, che potrebbe riassumersi in un’altra domanda: forse hai avuto l’impressione che invece da parte di Putin ci fosse un interesse per la pace? Naturalmente la risposta è no. E la strage di Bucha va esattamente nella direzione opposta alla possibilità di un armistizio. Se i russi hanno programmato questa strage, o comunque se l’hanno eseguita, senza peraltro neppure provare ad occultarla (come, in fondo, avrebbero potuto fare) è solo per questa ragione: alzare la tensione e boicottare i negoziati. E il fatto che la reazione dell’Occidente – diciamo soprattutto dell’America e della Gran Bretagna – sia stata immediatamente rivolta alla richiesta di alzare il livello delle ostilità, dimostra esattamente che la situazione è questa: c’è un convergere folle di due folli interessi opposti.

E di conseguenza le possibilità di una guerra breve si allontana sempre di più. Chi paga per queste reciproco mostrar dei denti?

Massacro di Bucha, le immagini satellitari smentiscono Mosca: “Carneficina prima del ritiro russo, cadaveri per strada”

Innanzitutto l’Ucraina, è evidente. Che sta versando litri di sangue pur avendo dinnanzi a se, comunque, una prospettiva di morte e di sconfitta. E poi l’Europa. Destabilizzata, stravolta dalle frustate belliche, consapevole della durezza della crisi economica e anche della crisi politica che nei prossimi mesi esploderà in modo devastante. L’Europa, se la guerra proseguirà per mesi, o addirittura per anni, non ha nessuna possibilità di resistere. Il sogno svanisce. Il miracolo immaginato 80 anni fa dal prigioniero Altiero Spinelli, avviato più di 70 anni fa da grandi statisti, come Adenauer, De Gasperi, Shuman, e poi proseguito da altri giganti, come De Gaulle, Brandt, Moro, Mitterrand, si accartoccia e muore. Ucciso dalla crisi economia e dalla incapacità politica. E le conseguenze della fine dell’Europa saranno enormi sia per gli assetti del mondo, sia per lo sviluppo della civiltà. Un mondo senza la forza dell’Europa cristiana liberale e socialista, è un mondo molto peggiore di quello precedente. A qualcuno conviene la fine dell’Europa? A nessuna persona saggia, ma conviene ai gruppi che oggi comandano negli Stati Uniti e in Russia. E’ paradossale ma è così. Stati Uniti e Russia, e forse anche Cina, hanno il supremo interesse a vedere l’Europa scomparire.

Possibile che le classi dirigenti europee non sappiano reagire? Non sappiano difendersi? Non capiscono che la trattativa e la pace sono l’unica speranza per l’Ucraina e per la stessa Europa? Hanno assistito impassibili alla Brexit – che rientra nel disegno antieuropeo – hanno assistito ai fendenti dei sovranisti, e ora balbettano di fronte alla tragedia della guerra, accodati agli americani, e lasciando a Erdogan o a Bennet le uniche iniziative di pace. Ignorano e sbeffeggiano le grida del papa, che invece sarebbe il loro alleato più prezioso. Abdicano al loro ruolo e assistono alla propria agonia. E’ questa la cosa più irragionevole che si sia mai vista nella nostra storia. Eppure, anche qui da noi, non si sente un fiato contro la nuova armata, che ha arruolato intellettuali, politici, giornali, lobby, poteri vari. E così la parola d’ordine che trionfa è quella che abbiamo scritto nel titolo di prima pagina. Bucha è stata una strage orrida, vendichiamola preparando altre stragi.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Volodymyr Zelensky, Germano Dottori lo smaschera: "Articolo 5", così il premier condanna l'Europa alla guerra? Libero Quotidiano il 30 marzo 2022.

Una frase che spiega tutto. "L'articolo 42, par. 7 del Trattato Ue è più stringente dell'articolo 5 del Patto Atlantico". Poche parole quelle che Germano Dottori, consigliere scientifico di Limes, affida ad un post pubblicato sul suo profilo Twitter. Poche parole appunto per dire che forse è anche per questo motivo che ormai il presidente dell'Ucraina Volodymyr Zelensky ha lasciato perdere l'idea di entrare nella Nato prediligendo l'ingresso del suo Paese in Europa. 

Recita infatti il trattato sull'Unione europea: "Qualora uno Stato membro subisca un'aggressione armata nel suo territorio, gli altri Stati membri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi in loro possesso, in conformità dell'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Ciò non pregiudica il carattere specifico della politica di sicurezza e di difesa di taluni Stati membri".

E ancora: "Gli impegni e la cooperazione in questo settore rimangono conformi agli impegni assunti nell'ambito dell'organizzazione del Trattato del Nord Atlantico che resta, per gli Stati che ne sono membri il fondamento della loro difesa collettiva e l'istanza di attuazione della stessa". 

L'articolo 5 del Patto dice che "le parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse in Europa o nell'America settentrionale sarà considerato come un attacco diretto contro tutte le parti, e di conseguenza convengono che se un tale attacco si producesse, ciascuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa, individuale o collettiva, riconosciuto dall'art. 51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'uso della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale. Ogni attacco armato di questo genere e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza".

Politica bombe papa? Strana alternativa. Evviva la coppia Cicchitto-Quirico. Fabrizio Mastrofini, Giornalista e saggista su Il Riformista il 23 Marzo 2022. Il Riformista 8 marzo 2022 pagina 6 

Cicchitto, oggi a pag. 2 de “Il Riformista” cartaceo, dedica una lunga e complessa e interessante analisi alla situazione ucraina. Tutta da leggere. Però mi soffermo su un passaggio che giudico piuttosto discutibile.

Scrive (Cicchitto): “C’è chi parla in Italia della necessità di una resa per evitare una “inutile strage” e, in nome del pacifismo, condanna l’invio di armi. Poi c’è chi come Monsignor Paglia afferma che è il tempo della politica, bisogna trattare, trattare, trattare. Ha risposto giustamente Valter Vecelio: «per trattare bisogna essere in due, Zelensky sta richiedendo la trattativa, Putin gli ha risposto con la manifestazione revanchista, perché egli non vuole trattare, ma “asfaltare” l’Ucraina». A proposito di ciò che dice monsignor Paglia, ci permettiamo di far nostro l’appello avanzato da Domenico Quirico che Papa Francesco si rechi a Kiev”.

Due osservazioni. La prima a proposito di mons. Paglia. La politica deve prevalere sulle ragioni della forza, sempre. Altrimenti che vogliamo fare?  Che propongono o insinuano Cicchitto-Vecellio: bombardare tutto e tutti e magari usare l’atomica o farla usare? Davvero di fronte all’invasione qualcuno pensa che la politica non serva? Direi semmai che questa politica non serve, perché si doveva prevenire l’invasione,  in quanto i segnali erano lì sotto il naso da anni. Ma qualcuno di questi scienziati della politica di oggi si è mai preso la briga di leggere qualcosa di Anna Politkovskaya? E’ stata uccisa nel 2006, purtroppo, non ieri e le sue analisi sono valide e pubblicate da almeno 15 anni. Tra l’altro i suoi libri sono anche inn traduzione italiana e tutti reperibili, non occorre imparare il russo per leggerla… C’è tutto: la spiegazione di quanto sta accadendo oggi ed anche del perché l’esercito russo non vincerà mai. Ma proprio mai. 

Quindi cosa propone l’articolo di Cicchitto di oggi? Putin non vuole trattare quindi bombardiamo e diamo via libera alla politica della guerra? Come si diceva una volta: e al popolo? A me (faccio parte del ‘popolo’ almeno italiano) importa che il conflitto non si allarghi e desidero intensamente ci siano dei politici capaci di prevenire e non capaci solo di fare chiacchiere.

Secondo: il Papa a Kiev secondo Quirico? Cicchitto legga prima “Il Riformista”. Sul giornale cartaceo ho scritto in merito l’8 marzo (vedi foto a inizio di questo post!), ben 15 giorni fa. Dicendo qualcosa di più: non a Kiev, il Papa ma direttamente sulla Piazza Rossa, davanti al Cremlino, insieme all’Arcivescovo Anglicano e al Patriarca Ecumenico di Costantinopoli. Altro che Kiev! Mosca, piuttosto! Prima però sarà il caso che Cicchitto legga bene lo stesso giornale su cui scrive (e Quirico prima di farsi pubblicità legga cosa scrivono gli altri…!!!!)

Domenico Quirico per “la Stampa” il 23 marzo 2022.

Lo si sente, cresce, aleggia attorno noi, guadagna terreno ogni ora, ogni giorno di guerra: l'odio. All'inizio si precisava, anche da parte degli ucraini che pure erano aggrediti e percossi: questa è la guerra di Putin, lui l'ha voluta, lui la inferocisce. Non è la guerra dei russi con cui siamo fratelli, in divisa contro di noi ci sono gli ingannati o i costretti, offriamo loro quando si arrendono un pezzo di pane. E per questo coraggio li abbiamo giudicati, gli ucraini, ancor più meritevoli, avvolti in un grande drappeggio di sventura e di pietà. Tutto è rapidamente finito in briciole come le città e le illusioni di tregue e negoziati, l'odio affligge tutto il mondo di questa guerra bruciante e brutale.

Adesso è diventata la guerra dei russi, contro i russi: primitivi, asiatici, barbari, orda che uccide, bombarda, stupra, saccheggia, lupi voraci, mostri, antiuomini. Le parole sono sempre il segno: ormai si vive nell'odio che come una soluzione satura si cristallizza. Il furore che all'inizio è arma per combattere e resistere è scivolato in altra cosa, accecato diventa a sua volta disumano. Ecco: il percorso è quasi completo. Non c'è più distinzione. L'odio non è un errore o un incidente di analisi.

È un desiderio profondo di distruggere, svela un abisso a fior di pelle, non è dietro di noi ma attorno a noi, in noi. È una negazione sovversiva che a poco a poco travolge anche chi è spettatore della guerra, e gli europei lo sono: vogliamo attraverso questa discesa agli inferi nascondere il senso di colpa per esser solo questo e in fondo esserne soddisfatti. È singolare e fa riflettere il fatto che il principale abitatore dell'occidente e dell'Europa del terzo millennio, l'odio, con la sua ancella la paura, non sia stato in fondo oggetto di ampie analisi.

Forse perché non si vuole tornare con la mente a esperienze umilianti e l'odio lo è. E poi esistono molti tipi di odio di cui ognuno richiederebbe una trattazione. Un po' come fa il botanico quando si accinge a una classificazione particolare. Ci scopriamo a parlare e pensare in modo primitivo perché siamo costretti a difenderci contro qualcosa che prima di tutto è primitivo, la guerra. Così la etichettatura animalesca che prima colpiva solo il burattinaio di questo sanguinoso disastro si estende a un popolo intero: che è colpevole, perché non si ribella, non getta le armi, non rinnega e non si rinnega, perché non sciopera rifiutandosi di cooperare con il leader.

Perché ci costringe con la sua inazione a rivestire panni che avevamo riposto in soffitta come anacronistici: la guerra le bombe combattere schierarsi resistere. Russi dannati, combattete per Putin come i tedeschi hanno combattuto per Hitler! La colpa che per il diritto è rigorosamente individuale diventa collettiva. È l'infausto meccanismo della decimazione, della vendetta. Una specialità delle tirannidi. 

È quello che Putin forse immaginava e voleva: il suo volto enigmatico sparisce a poco a poco dietro la condanna di tutto e di tutti, la volontà di linciaggio forma, anche in coloro che in Russia forse dubitavano e si astenevano, il legame sociale per eccellenza, quello che nasce dal sentirsi umiliati e vilipesi, accusati e minacciati di punizioni nel mucchio. Stiamo, temo, scivolando su questo pendio insidioso.

Il delitto dell'aggressore non ci appare più come trasgressione, come caso da imputare a un uomo e al suo delirio di potere, ma come forma esistenziale, come comportamento naturale di un popolo intero nei confronti di altri essere viventi, l'aggressione, il delitto come forma del loro mondo. Il processo ai colpevoli (teorico perché prima bisogna sconfiggerli, catturarli per applicare la giustizia, molto ambigua, dei vincitori) che prima riguardava il pugno di cortigiani e complici diretti di Putin, alcune centinaia di persone, ora si allarga: gli ufficiali, i soldati che non hanno disobbedito, quelli che nelle retrovie non hanno preso le distanze, i silenti, i non eroi: tutti. 

Punire, togliere la voglia di riprovarci, rieducare questi popoli eternamente asiatici e aggressivi verso la nostra "polis'' perfetta. Siamo al punto chiave del dialogo tra Creonte e Antigone. «Il nemico non diventerà mai un amico neppure dopo la morte» dice il dittatore che nega ai colpevoli perfino il diritto alla sepoltura. E Antigone replica: «Non sono fatta per vivere con il tuo odio».

Ecco. Questo è esattamente quello che ci deve separare dall'aggressore: porre dei limiti all'inaccettabile, mettere in guardia dal pericolo mortale che c'è nell'unificare nella colpa, annunciare il peggio che può ancora accadere senza temere di essere accusati come seminatori di zizzania, di dare una mano "oggettivamente'', terribile avverbio che ha macinato la vita di milioni di uomini, al nemico. Putin e i Califfi gettano nella mischia non solo divisioni corazzate o kamikaze; la posta in gioco è il dominio dello spirito, mobilitano l'odio, un tesoro raro e prezioso, utile al servizio del loro aggrottarsi di ciglia.

Vogliono contagiare le menti prima ancora che occupare territori, imporre l'irrimediabile: noi e loro indissolubilmente separati e nemici . Apparentemente nulla è mutato in questi venti giorni di guerra nella nostra parte del mondo, la gente si muove lavora dà esami si ama fa sport applaude gli oratori che invitano alla ennesima resistenza contro la nuova sventura.

Eppure c'è qualcosa di inafferrabile nell'atmosfera, un fluido collettivo ed è cattivo, un'aura fatta di forza e di rancore, di paralisi interiore, di furia e avversione contro "il nemico". A poco a poco le marce della pace spariranno, gli inviti a distinguere, a non farsi travolgere diventeranno eresia, Come se oppressi, impauriti ci vendicassimo dei colpevoli emettendo liquido nero come la seppia colpita. Di che diavolo ha mai bisogno l'uomo per non commettere gli stessi errori?

Il dibattito tra interventisti e pacifisti. Resa per evitare inutile strage, chi siamo noi per decidere per conto degli ucraini? Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 23 Marzo 2022.  

Una premessa, attinente alla “crisi della politica” di cui ha parlato Fausto Bertinotti nell’ultimo articolo su Il Riformista di sabato 19 marzo. Come al solito volo consapevolmente molto più basso di Bertinotti. La crisi della politica per ciò che riguarda l’Italia comincia col 1989 ed esplica interamente intorno al 92-94.

Allora i grandi gruppi finanziari editoriali, non essendo più pressati dal pericolo comunista tolsero la loro delega in primo luogo proprio alla Dc, al Psi, ai partiti laici e diedero via libera ad un circo mediatico giudiziario composto dai direttori dei più grandi giornali, dal Tg3 di Sandro Curzi e dalle reti Mediaset. Il “circo” tradusse in corruzione quel finanziamento ultra irregolare dei partiti che c’era dai tempi di De Gasperi, Togliatti, Nenni e Saragat e per di più usando due pesi e due misure.

L’antipolitica e il populismo, che ebbero molte versioni, nascono da lì. Il Pds di Occhetto, D’Alema e Veltroni scartò l’ipotesi dell’unità socialista avanzata dai miglioristi e da Craxi e scelse di omologarsi alla operazione salvando se stesso sul piano giudiziario ma diventando un partito giustizialista e neoliberista. Di qui la crisi della politica in Italia. Invece dopo il 1989 il mondo occidentale ha attraversato più di una crisi, la più grande è stata la vittoria di Trump negli Usa (non a caso favorito in molti modi da Putin). Ma nel complesso in Occidente c’è stata e c’è una aperta dialettica democratica far Democratici e Repubblicani americani (questi ultimi caratterizzati da profonde differenze), socialdemocratici, liberali, moderati popolari e destra sovranista e populista. Al di fuori dell’Occidente in Cina c’è un singolare ircocervo: un ferreo stato-comunista e un sottostante capitalismo selvaggio. La Cina è segnata da un’ambizione dell’egemonia mondiale costruita in modo graduale, da una grande forza tranquilla che lavora più attraverso l’imperialismo economico che non quello politico-militare, tranne che nel mare della Cina. In Russia l’Urss è finita male, per implosione. Finito il riformismo gorbacioviano e l’incerto liberalismo di Eltsin, il potere è stato assunto da Putin e dagli uomini del Kgb.

Paolo Guzzanti ha spiegato che il Kgb è molto di più della Cia, o del MI6. È la struttura che ha tenuto in piedi la Russia. Ma per guidare un Paese complesso e tragico occorre un progetto, tenendo conto dell’autoritarismo che è l’anima profonda di quel Paese, malgrado le minoranze liberali e socialdemocratiche, vedi i menscevichi. Putin è un “dittatore totale” (che non a caso uccide gli oppositori più pericolosi e incarcera a migliaia i dimostranti), portatore di un nazionalismo espansivo e predatorio che, armi alla mano, vuole ricostituire non l’Urss ma la Grande Russia, i suoi confini fondamentali avendo come punti di riferimento storico Pietro il Grande, Ivan il Terribile e Stalin. Da teorici come Dugin, Putin trae progetti come l’Eurasia, la terza Roma, la Grande Russia con una repulsione per un Occidente libertino, pervertito, in crisi, incapace di rispondere sull’unico terreno che Putin apprezza, quello militare, come è emerso dal ritiro disastroso dall’Afghanistan, un Occidente suscettibile di essere comprato e corrotto in mille modi. Alla luce dei fatti, riteniamo che il tentativo di mettere in piedi un dibattito tra “pacifisti” e interventisti o guerrafondai è una mistificazione.

L’Ucraina è stata aggredita, che colpe ha in questa guerra?

Sarebbe un dibattito giusto se due Stati avessero degli scontri alla frontiera o se si fosse davanti ad una guerra fra due Stati dichiarata attraverso gli ambasciatori. No, la Russia di Putin il 23 febbraio ha scatenato un attacco tuttora in corso con 150 mila soldati, bombardamenti, con morti, feriti e 3 milioni di persone in fuga. Qui ci troviamo di fronte non ad una guerra – non a caso lo stesso Putin parla di “operazione militare speciale” – ma a una aggressione. C’è o meno il diritto di resistenza da parte del popolo aggredito e non c’è una sorta di dovere da parte di tutti coloro che solidarizzano con gli aggrediti di sostenerli in tutti i modi anche con l’invio di armi da essi richieste? Per di più, Putin ha dei precedenti in materia, prima la Georgia poi nel 2014 la Crimea con una patente violazione del diritto internazionale. Allora, l’esercito ucraino non reagì e la comunità internazionale reagì con moderate sanzioni, peraltro contestate in Italia da Salvini e da Grillo e in Francia da Le Pen. Putin ha creduto che anche stavolta si sarebbe trattato di una passeggiata come nel 2014. Non è andata affatto così: da un lato Zelensky si è rivelato un grande leader, l’esercito ucraino si sta battendo con eroismo, come una larga parte del popolo, e alla fine malgrado la rete di interessi economici tutti (gli USA, l’Unione Europea, la Germania, la Francia, l’Italia e in prima fila gli Stati del patto di Visegrad) hanno capito che o Putin viene bloccato adesso, oppure passo dopo passo ci porterà ad un’altra serie di annessioni territoriali fatte armi alla mano e ciò alla fine condurrà ad una Terza Guerra Mondiale.

C’è chi parla in Italia della necessità di una resa per evitare una “inutile strage” e, in nome del pacifismo, condanna l’invio di armi. Poi c’è chi come Monsignor Paglia afferma che è il tempo della politica, bisogna trattare, trattare, trattare. Ha risposto giustamente Valter Vecellio: «per trattare bisogna essere in due, Zelensky sta richiedendo la trattativa, Putin gli ha risposto con la manifestazione revanchista, perché egli non vuole trattare, ma “asfaltare” l’Ucraina». A proposito di ciò che dice monsignor Paglia, ci permettiamo di far nostro l’appello avanzato da Domenico Quirico che Papa Francesco si rechi a Kiev. E allora, di fronte al Putin che rifiuta la trattativa e riprende i bombardamenti, come dovrebbero rispondere gli Ucraini? Paradossalmente, al punto in cui siamo, la trattativa è possibile solo attraverso una resistenza fatta armi alla mano, anche perché Putin – se gli Ucraini si arrendono – mette al potere un dittatore fantoccio come Lukashenko. Per quello che sappiamo, questa della resa è una discussione che si sta svolgendo qui in Italia e fra noi italiani per di più con attacchi e contrattacchi fra le singole personalità. Non vogliamo entrare nel merito di questa guerriglia fortunatamente solo verbale, ma, rilevarne un aspetto singolare che la rende contestabile alla radice: nella nostra infinita arroganza intellettuale riteniamo di poterci sostituire noi agli Ucraini dimenticando il piccolo particolare che ad arrendersi dovrebbero essere loro visto che sono loro a combattere e che sono loro a chiedere le armi.

Ma allora chi siamo noi (come disse Papa Francesco a proposito del giudizio sui gay) per sostituirci a chi combatte, a chi viene ferito, a chi muore, e arrivare addirittura a dire che si devono arrendere e che non devono più ricevere le armi? Allora, che Landini, la professoressa De Cesare, il dottor Cisterna si rivolgano ai combattenti ucraini, gli suggeriscano di arrendersi e vediamo quale sarà la loro risposta. Veniamo alle minacce rivolte all’Italia e all’attacco ad personam nei confronti del ministro Guerini, cosa assai singolare visti gli usi della diplomazia, ma l’ambasciatore russo Razov nella sua infinita arroganza non ci sorprende: egli è arrivato a inviare una lettera minatoria ai deputati della commissione difesa senza ancora aver ricevuto la risposta che si meriterebbe da parte della Presidenza della Camera. Ma gli attacchi all’Italia e a Guerini vanno collocati nel loro contesto generale. Nel corso di tutti questi anni c’è stato un autentico sistema-Putin fondato sugli oligarchi e su una rete di interessi, di affari, di tangenti in Germania, in Francia, in Svizzera, in Gran Bretagna, in Italia e in altri Paesi. Addirittura, in Germania, tramite Schroeder che si è totalmente venduto, e in Italia Merkel e Berlusconi hanno contribuito a costruire un sistema che ha messo la politica energetica dei due Paesi in mano alla Russia: qualcosa di molto peggio di un errore. L’Espresso e Iacoboni e Paolucci nel libro Gli Oligarchi hanno descritto il sistema-Putin in Italia. Ma su questo c’è stato un colossale equivoco fra le due parti: tutti gli amici politici, statuali ed economici di Putin (in Italia il Partito Russo è presente alla Farnesina, nei servizi, dentro Leonardo, dentro Banca Intesa, dentro l’Enel) contavano però su una sua politica estera di tipo moderato e collaborativo per cui adesso sono in grande difficoltà di fronte alla sue aggressioni a mano armata.

A sua volta Putin, che è insieme un ideologo, un dittatore estremista ma anche uno spregiudicato uomo del KGB, ha presunto che con quella rete di affari, di business, di tangenti, aveva anche costruito una rete di complicità politiche che lo avrebbero “coperto” nel momento in cui egli avesse proseguito nella sua escalation a mano armata. Putin si aspettava che i suoi amici negli USA e in Europa gli avrebbero fatto da sponda anche in questa occasione. Non si è reso conto che avendo esagerato ha messo tutti in gravissima difficoltà. In più negli USA non c’è più Trump ma Biden. E gli stessi Repubblicani, quale che sia il loro rapporto con Trump, non possono più fargli da sponda. In Europa in prima linea ci sono proprio gli Stati del Patto di Visegrad e non solo la Francia di Macron, la Germania di Scholz che è cosa diversa dalla Merkel e l’Italia di Draghi. Quanto alla Italia, non appena Putin ha invaso l’Ucraina Draghi ha assunto una netta posizione di solidarietà occidentale. Per di più da un lato Enrico Letta, dall’altro lato Giorgia Meloni, hanno reagito con grande prontezza di riflessi collocandosi ai due poli (quello democratico e quello conservatore repubblicano) dello schieramento occidentale. Poi con loro si sono schierati Renzi, Calenda, Bonino, i centristi del centrodestra.

In un contesto di questo tipo è davvero dura per Salvini, Berlusconi e a sinistra Landini, fare da sponda a Putin. Infine, quanto alla evocazione fatta dal ministero degli esteri russo, a proposito dei pretesi aiuti all’Italia siamo sul filo del grottesco. Nel 2020 arrivò in Italia una singolare brigata militare, con pochissimi sanitari, guidata da alti ufficiali provenienti dal teatro siriano che per circa un mese girarono per l’Italia del Nord mettendo in grave imbarazzo tutti coloro che nel nostro Paese ne curano la sicurezza: fu più una operazione militare spionistica che non certamente una operazione militare, la cui principale responsabilità fu dell’allora presidente Conte. Non si capisce se la sua evocazione sia una gaffe o un nervoso richiamo perché finalmente “gli amici” si facciano sentire.

Fabrizio Cicchitto

Maurizio Belpietro per la Verità il 23 marzo 2022.

Quanti morti dovremmo registrare in Ucraina prima che si guardi in faccia la realtà? Quando la smetteremo di fare gli eroi con la vita degli altri ossia con milioni di donne, uomini e bambini ucraini che da un mese muoiono o fuggono sotto le bombe russe? Fino a dove si spingerà il cinismo di chi tifa per la pace rifornendo gli ucraini di missili per fare la guerra? 

Lo so, sono domande brutali che mi costeranno la velata accusa di essere sotto sotto un sostenitore di Putin quando invece sono semplicemente un avversario dell’ipocrisia dietro cui si mascherano i buonisti, pronti al conflitto ma a casa d’altri. Fin dal primo giorno, da quando i carrarmati di Mosca hanno invaso l’Ucraina ho cercato di spiegare che per evitare una carneficina, l’unica soluzione era trattare.

Da subito quella di Kiev mi era parsa una guerra impari, seppur supportata da ideali nobili e legittimi, ovvero il diritto alla difesa del proprio territorio e della propria democrazia. Per quanto spalleggiata dall'America e dall'Europa, l'Ucraina non è nelle condizioni di sconfiggere l'armata russa, al massimo ne può ritardare l'avanzata e le può rendere la vita difficile. Ma a che prezzo? Quante vite si è disposti a sacrificare per dare del filo da torcere a Putin e fargli pagare cara l'invasione? 

L'altra sera ho sentito l'ambasciatore Giampiero Massolo dire in tv che si punta a costringere i russi a una vittoria mutilata, cioè a spingere il Cremlino verso una trattativa in condizioni meno favorevoli. Da ex segretario del ministero degli Esteri ed ex coordinatore dei servizi di intelligence italiani, Massolo è senza dubbio uomo di esperienza. Ma se parla di vittoria, per quanto mutilata, significa che dà per scontato che alla fine Putin si prenderà un pezzo di Ucraina e si tratta solo di capire quale porzione riuscirà a conquistare.

Peraltro, dopo giorni di annunci di imminenti default della Russia a causa delle sanzioni occidentali, ieri ho letto un'analisi di Federico Rampini, sul Corriere, in cui riconosce che non sempre le misure adottate contro i cosiddetti Paesi canaglia sono efficaci. In effetti, anni e anni di embargo adottato contro l'Iran non hanno piegato il governo degli ayatollah. E nemmeno hanno ridotto a più miti consigli Kim Jong Un, il dittatore nordcoreano che minaccia con i suoi missili i Paesi confinanti. Dunque, è possibile che bloccare le transazioni finanziarie, ma non gli affari che la Russia intrattiene con Cina, India, Turchia e Paesi arabi, non basti a fermare Putin. 

Qual è perciò la prospettiva? Continuare la guerra, lasciando che Mosca rada al suolo intere città, in attesa che le sanzioni facciano effetto? Inviare altre armi affinché gli ucraini continuino a combattere e farsi ammazzare? Sperare che prima o poi qualcuno in Russia levi di mezzo, con il veleno o con un colpo di pistola, il dittatore? È questa la strategia su cui confidano gli Stati Uniti e l'Europa?

Beh, se le soluzioni sono quelle appena dette, mi pare che l'Occidente, e la combriccola di giornalisti e politici che tifano per la resistenza dura e pura, sia un po' a corto di proposte. Magari scopriremo domani che lo zar del Cremlino è stato messo agli arresti, ma mi pare difficile. Se si ha un po' di buon senso e soprattutto di realismo, dunque non si può che sperare in una trattativa che fermi la guerra. Dopo un'ubriacatura guerrafondaia che ha agitato anche il principale quotidiano italiano, persino al Corriere si comincia a ragionare sulla trattativa. 

Aldo Cazzullo, rispondendo a un lettore, ha scritto che una via d'uscita andrà pur trovata. «La battaglia di Mariupol conferma che l'Ucraina non può resistere a lungo in campo aperto all'esercito russo; può pensare di logorarlo con l'imboscata e con la guerriglia. E Putin non ha interesse a farsi logorare». Dunque? La Russia «potrebbe accontentarsi di conquistare la striscia che congiunge la Crimea al Donbass, facendo del mare d'Azov un mare russo, ma lasciando Zelensky al potere. In questo modo entrambi potranno sostenere di aver vinto».

Fino a pochi giorni fa chiunque proponesse un compromesso - e quello di cui parla Cazzullo è un compromesso, che consegnerebbe più a Mosca che a Kiev la vittoria - era tacciato sul Corriere di immoralità. Paolo Mieli addirittura accusava i sostenitori della trattativa di essere pacifisti cinici, perché invitavano gli ucraini alla resa. Ma adesso, dopo un mese di guerra e svariati migliaia di morti dall'una e dall'altra parte, dopo città rese spettrali dalle bombe, dopo milioni di profughi, alla fine anche gli irriducibili bombaroli, quelli che seduti nel loro salotto sono pronti ad armare fino ai denti gli ucraini affinché combattano fino alla morte, si rendono conto che bisogna trovare una via d'uscita che salvi la faccia a tutti, ma soprattutto a loro.

All'improvviso serve un punto di equilibrio. Cioè accettare un'ingiustizia che però è «preferibile alla strage quotidiana cui assistiamo con sgomento». Beh, benvenuti nel mondo reale. Dopo aver applaudito l'ennesimo discorso di Volodymyr Zelensky, eletto a furor di popolo nuovo Che Guevara che combatte l'imperialismo, vi rendete conto che con l'imperialismo russo bisogna trattare. Vi faccio una domanda: quante vite è costata l'illusione che avete dato a Zelensky e agli ucraini che voi, quando li applaudivate, facevate sul serio e non scherzavate? 

Sansonetti e Liguori: "Hanno dato del 'putiniano' al direttore di Avvenire, giornale dei vescovi". “Zelensky vittima di Azov e di Usa e Gran Bretagna che si stanno ingrassando. L’Italia ha ‘sputato in faccia all’Europa’ e ora ha paura…” Giovanni Pisano su Il Riformista l'1 Aprile 2022. 

Nella consueta rubrica “Attenti a quei due” dei direttori Piero Sansonetti e Paolo Liguori, si fa riferimento a una lettera che l’ex ambasciatore italiano in Iraq, Marco Carmelos, ha scritto a Dagospia dicendo che “la posizione del presidente ucraino appare sempre più oltranzista sulla pelle dei propri cittadini. Che senso ha prolungare l’agonia quando tutti sanno che la neutralità verso la Nato dovrà essere concessa, che Crimea e Donbass sono perduti e probabilmente anche il sud del Paese, a cominciare da Mariupol. Zelensky è condizionato da oltranzisti interni oppure è eterodiretto da Usa e Gran Bretagna?“.

“Stiamo parlando di un diplomatico non di un giornalista del Riformista” osserva Sansonetti. Secondo Liguori “tutti e due i condizionamenti sono evidenti: quelli interni, che in molte parti del mondo, soprattutto sulla stampa italiana, vengono sottovalutati, sono fortissimi e anche in grado di impedire qualsiasi tregua che Zelensky potrebbe sottoscrivere. I termini e le condizioni di una tregua sono quelli annunciati dall’ex ambasciatore, non c’è più nulla da decidere con questa guerra se non l’uso delle armi, dei proiettili e delle munizioni. Gli oltranzisti interni – prosegue Liguori -non vogliono soccombere perché sanno che poi dovranno pagare un pezzo per le efferatezze che hanno commesso in otto anni nel Donbass e che stanno facendo anche adesso. In Italia c’è la grande predicazione dell’eroismo ucraino ma lì c’è tanta gente che è costretta a combattere e che ha alla nuca spesso le armi dal battaglione Azov che ha commesso tante atrocità“.

“L’altra questione: gli oltranzisti fuori dall’Ucraina – prosegue Liguori – quelli che vogliono che continui a combattere con le sue vite, con il suo sangue. Questi sono gli americani e gli inglesi. I media britannici titolano “non tornare indietro”, lanciando un appello all’Ucraina. Loro vogliono continuare questa guerra nella quale si stanno ingrassando vendendo armi. Gli Stati Uniti invece hanno una situazione interna legata ai guai di Biden per cui anche lui è oltranzista: non una parola di pace è stata pronunciata dal presidente Usa in questo mese”.

“L’analisi dell’ambasciatore -osserva Sansonetti – mi pare interessante e preoccupante, pongo una domanda: ma è possibile che stavolta i giornali italiani si sono militarizzati? Ti dico una cosa: un costituzionalista come Michele Ainis, uno dei più celebri, è anche editorialista di Repubblica, ha scritto che il decreto approvato ieri dalla Camera è incostituzionale perché in contrasto con l’articolo 11 della Costituzione italiana. Lo sai che non l’ha scritto su Repubblica ma su un altro giornale? Io non ho mai visto i giornali militarizzati in questo modo”.

“I giornali -prosegue Liguori – sono il prodotto di un Paese impaurito, intimidito e annichilito: l’Italia ha meno mezzi di sopravvivenza e di energia di tutti gli altri, meno sponde, se non quella dell’Alleanza Nato, di tutti gli altri, ha reciso i suoi legami europei da tempo perché veniamo da un lungo periodo, eccetto quello recente, in cui abbiamo ‘sputato in faccia’ all’Europa. Insomma siamo isolati e impauriti e lo sono anche i giornali italiani che cercano un unico referente: questo mondo bellicista anglosassone. Ma questo referente – chiede Liguori – corrisponde ai desideri della popolazione? Perché spesso da alcuni sondaggi viene fuori che molti italiani sarebbero d’accordo con le posizioni del Papa e quindi vorrebbero interrompere questa guerra”.

“Nei grandi giornali – rilancia Sansonetti – non c’è pluralismo, considerate che il discorso del Papa è stato censurato dal Corriere della Sera, da Repubblica, da La Stampa e dal Tg1″. Liguori aggiunge: “Appena uno solleva questa discussione legittima ti dicono ‘ma sei amico di Putin? Sei pagato da lui?‘”. “Ieri ho visto in tv un importante, saggio, editorialista del Corriere dare del ‘putiniano’ al direttore di Avvenire, del giornale dei vescovi italiani” ha sottolineato Sansonetti.

“Il mio timore – conclude il direttore del Riformista – è che da questa situazione non se ne esce con la fine della guerra perché la stampa, il sistema dell’informazione italiana, ha ricevuto una ferita così profonda che ci vorrà degli anni per riprendersi”.

Sottolinea infine Liguori: “La censura che c’è nella stampa italiana, che pure ha fatto inchieste su tutto, di questa forza, tradizione e storia del nazionalismo ucraino, profondamente legato a quello che fu il nazionalismo che accolse i tedeschi come liberatori da Stalin e che rimase per molti anni buone fette militari e civili legate al nazismo di allora, è un rischio e un pericolo perché è molto diverso dal nazionalismo russo, moldavo, bielorusso, lettone. E tutti i popoli circostanti, cominciando dai moldavi, lo sanno e lo dicono. Ebbene riflessioni su questo non si leggono sui giornali italiani mentre sui media americani ci sono fior di inchieste sulla pericolosità dell’ideologia del Battaglione Azov“.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

La guerra di Zelensky non è la nostra, mandiamo aiuti ma non armi. Paolo Liguori su Il Riformista il 23 Marzo 2022. 

Abbiamo convissuto qualche anno con Grillo e il suo Movimento 5 Stelle. Ora c’è Zelensky e il suo movimento che è alla testa dell’Ucraina aggredita dalla Russia. Ma c’è una bella differenza: quello dei 5 stelle è un movimento pacifico, quello di Zelensky è belligerante. Il presidente ucraino è aggredito e può dire ciò che vuole, se uno si azzarda a dire che certe cose sono esagerate viene visto male. Auguriamo a Zelensky di avere tutto l’aiuto del Signore per vincere la sua guerra, che però non è la nostra.

Noi non vogliamo partecipare alla guerra mondiale perché ci chiama Zelensky. Gli ipocriti dicono: “Noi non partecipiamo, vi diamo le armi così vi uccidete tra voi“. Io non la penso così perché non sono d’accordo. Che muoiano le persone, per cui chiunque le uccida, non va bene. Zelensky ieri ha detto al Parlamento italiano questa cosa incredibile dell’Ucraina cancello per l’Europa.

Io guarderei più al Mediterraneo. La Russia è già entrata in Libia con grandi forze, in Siria con i sommergibili atomici (tra l’altro chiamata da americani ed europei contro l’Isis e il terrorismo).

I russi si sono impadroniti da anni del Mediterraneo, quello che dice Zelensky va bene per gli aiuti economici e umanitari ma non militari.

Attenzione, mentre il presidente ucraino ha fatto un discorso sentimentale, si è trovato difronte un premier ultra combattente, Mario Draghi, che mi ha stupito. Il premier ha attaccato Putin e ha detto che manderà aiuti e armi. Oggi, però, un convoglio pieno di aiuti è stato fermato, ma mandando anche armi questo è il rischio. Noi in guerra non ci siamo ancora e non ci vorremmo entrare. Noi vogliamo una tregua, una pace, forse differente da quello che pensano gli americani. Zelensky è un fratello che è nei guai, ma tra appoggiarlo e finire in guerra ce ne passa. Viviamo in pace dalla seconda guerra mondiale a oggi e vorremmo restare in questa pace come dice la Costituzione.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom

Toni Capuozzo, bomba su Joe Biden: "Dalla Cina una proposta di pace. Ma lui...", il presidente Usa gioca sporco? Libero Quotidiano il 24 marzo 2022.

Non siamo colombe. La "pacifica" Europa, sottolinea Toni Capuozzo in un post pubblicato sul suo profilo Facebook, tanto pacifica non è. Lo dimostra il fatto che ieri 23 marzo "al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Russia e la Cina hanno presentato una proposta di risoluzione per un cessate il fuoco per ragioni umanitarie". Sarà stato pure un "trucco", una "mossa furbesca", prosegue l'inviato di guerra volto storico di Mediaset, però poteva essere una buona occasione. E invece il risultato è stato: "Voti favorevoli, quelli dei due presentatori. Voti contrari tredici. Vedremo come ce lo spiegano: parlava di crisi umanitaria ma non menzionava le colpe dell'aggressore, bisognava spezzare il fronte russo-cinese, occorreva evitare che l'aggressore se ne approfittasse per riorganizzarsi, sono in difficoltà e vogliono la tregua è il momento di punirli..." e "ci mostreranno altri orrori, la medicina amara di ogni interventismo".  

Quindi affonda Capuozzo: "Sotto la grande ala di Biden non sembra essere uno stormo di colombe quello dei leader europei. È come se una classe politica democratica e moderata avesse preso a modello i democratici americani, che in nome dei buoni principi e di un mondo migliore, hanno avviato guerre e creato vuoti paurosi in giro per il mondo". Insomma, stiamo diventando aggressivi e guerrafondai e in "Italia il panorama è ancora più modesto, perché si aggiunge una specie di 'taci il nemico ti ascolta' per cui ogni dubbio viene affrontato con un aggettivo definitivo: filoputiniano". 

E mentre la guerra continua con i suoi orrori, conclude amaro Capuozzo, "scarseggiano grandi leader fermi ma capaci di colpi d’ala, di mosse inaspettate, di mani tese a disarmare l’avversario, di soluzioni che fermino l’inerzia della guerra. Volano solo aerei e, nel loro piccolo, falchi. Occhi fissi a scrutare il terreno, mai uno sguardo al futuro".

Piani americani e pericoli europei. Zelensky è il megafono di Biden: l’Europa stia attenta al presidente americano che non vuole la fine della guerra. Michele Prospero su Il Riformista il 23 Marzo 2022. 

Quando il presidente di un paese insanguinato chiede ulteriori sanzioni e nuovi aiuti militari va compreso anche se andrebbe addomesticata la sua foga oratoria che lo porta a comparazioni troppo sbrigative con il nazismo. Battere le mani al capo della resistenza per questo non basta, serve l’intelligenza delle istituzioni anche nelle situazioni di emergenza. Rischioso è per le democrazie europee seguire Zelensky, oltre che nell’umana comprensione di un interprete della tragedia di una nazione che per trattare deve prima combattere, anche nella copertura politica generale che egli dà alla resistenza. Utilizzando le metafore di una guerra civile mondiale, con la richiesta di vietare ai russi le località di vacanza, egli evoca scenari del tutto apocalittici.

Se non si vuole imboccare la fatale strada nichilistica verso la quale conduce ogni tarda ideologia della guerra giusta, lo sforzo della comprensione degli accadimenti non può essere sospeso con una ovazione sentimentale opportunamente tributata dall’aula. Sul Foglio è stata qualche giorno fa riportata una intervista del prestigioso storico Robert Service, che la vicenda russa la conosce per davvero. La sua diagnosi è che la follia strategica di Putin, che si getta in una sciagurata impresa di annientamento, marcia insieme all’altro “enorme errore strategico” commesso il 10 novembre del 2021 quando Usa e Ucraina hanno firmato il Charter on Strategic Partnership, che Service non esita a definire “la goccia che ha fatto traboccare il vaso”. In effetti, il documento contiene passaggi molto forti, di quelli che sembrano scritti con la polvere da sparo (assistenza piena per una “solida formazione ed esercitazioni”) e destinati a scatenare nell’avversario delle risposte rabbiose che rasentano l’azzardo. In un crescendo di sfida verso il ruolo geopolitico russo, la dichiarazione congiunta richiama il comunicato del vertice Nato di Bruxelles del 14 giugno 2021 e ribadisce il sostegno alle legittime “aspirazioni dell’Ucraina a entrare nella Nato”.

Per scansare ogni equivoco interpretativo la carta scandisce: “Gli Stati Uniti sostengono gli sforzi dell’Ucraina per massimizzare il suo status di Nato Enhanced Opportunities Partner per promuovere l’interoperabilità”. Il nesso causale (che non significa in alcun modo legittimazione della guerra) tra la impresa criminogena della Russia e il reclutamento di Kiev in una alleanza militare ostile parrebbe evidente. Anche le imprese belliche non legittime devono pur trovare una soluzione politica. E Zelensky non sembra sentirci su questa dimensione della mediazione che segue il conflitto, aspirando, più che ad essere espressione di una preoccupata visione europea, a trasformarsi nel megafono di Biden, che tra le immani distruzioni non spegne l’incendio ma rincara la dose dichiarando Putin come un “dittatore omicida”. Riconosciuta la legittimità dell’eroica resistenza, come l’ha definita con una rivendicazione anche dell’efficacia dell’invio delle armi, Draghi ha usato parole di maggiore cautela e anche l’accoglimento di Kiev nell’Unione europea diventa per lui “un processo lungo fatto di riforme necessarie”. Il rischio della condotta di Biden quale “combattente non attivo”, che dopo le ricognizioni aeree elettroniche invoca nuove armi a più sofisticata elaborazione tecnologica, è quello di sbarrare il tempo della politica.

Cosa sono i droni kamikaze che gli USA potrebbero inviare in Ucraina: Switchblade, l’arma per distruggere i tank russi

Questo calcolo americano di un prolungamento delle ostilità per accompagnare la Russia in un pantano disastroso non può coincidere con gli interessi europei. Con la sua durezza Biden ottiene per l’America due vantaggi strategici. Il primo, di vedere il suo nemico strategico-militare (la Russia) strattonato con una fornitura di assistenza tecnica, di intelligence che rende sul campo assai micidiali quelle che una volta erano le sbandate truppe ucraine. Il secondo, di osservare il suo competitore economico-tecnologico (l’Europa) mentre deve sostenere l’onere di sanzioni, embarghi, spese per gli armamenti e l’accoglienza di milioni di profughi che rallentano la ripresa e la capacità competitiva nei settori dell’innovazione. Dichiarando che Putin è “un criminale di guerra” Biden non fa nulla per spegnere il fuoco e giungere ad una soluzione negoziata. L’Europa ha tutto da perdere da una condotta intransigente che nelle fiamme rischia in ogni momento di spingere la contesa in una terra di assoluta incertezza, entro cui la possibilità di un razionale controllo dei mezzi e dei fini sfugge irreversibilmente di mano agli attori.

La Russia non può vincere tra le macerie fumanti di una nazione offesa senza con ciò accrescere l’insicurezza geopolitica europea. E neppure può perdere oltre un certo limite senza che la sua catastrofe si abbatta sino a sconvolgere equilibri mondiali delicati. I vantaggi di una umiliazione dell’orso moscovita sarebbero inferiori ai costi incalcolabili conseguenti alla sua destrutturazione economico-militare che accompagna la perdita dello status di grande potenza. La pochezza strategica dei democratici americani ha una lunga tradizione e non stupisce una certa intransigenza. Inedita è invece l’afonia dell’Europa che passiva sembra assistere ad un duello tra una Russia sempre più costretta, per piegare una resistenza imprevista nella sua pervasività, ad incrementare la potenza di sterminio delle bombe ed una America che lascia che in bocca al ventriloquo di Kiev oltre alle immagini delle sofferenze entrino provocatorie parole di guerra. Le formule di Draghi sui tempi lunghi della entrata nella Ue sembrano percepire che l’Ucraina tolta alla Russia segni un colpo micidiale alle velleità neo-imperiali di Mosca, ma anche un fardello per l’Europa costretta ad accollarsi i costi politici, culturali e sociali di un’altra democratura orientale che alterando i principi fondativi restringe i diritti individuali e le conquiste del lavoro. Michele Prospero

L'Aria che Tira, Maria Giovanna Maglie suona la sveglia: “L'Ucraina sta andando alla distruzione”. Impazza il caso armi. Il Tempo il 25 marzo 2022.

Lo stesso copione da giorni: armi alla resistenza ucraina nella speranza che ad un certo punto le parti si siedano attorno ad un tavolo. Nell’edizione del 25 marzo de L’Aria che Tira, il talk show di La7 condotto nell’occasione da David Parenzo, è ospite Maria Giovanna Maglie, a cui il padrone di casa chiede conto della strategia della Nato di attendere e rifornire di armi gli uomini di Volodymyr Zelensky: “Noi con questa storia delle armi, pur dando degli strumenti, ci precostituiamo un alibi, perché non basta. Sicuramente la campagna di Ucraina non sta andando come si aspettava Putin, gli sta costando tempo, fatica e morti, ma sta costando la distruzione di quella nazione. Ha preso la mano questa guerra, che ormai ha compiuto un mese. Noi continuiamo a dare armi e sanzioni, ma questo non è risolutivo. Non dico che non sia giusto che chi chiede di difendersi venga aiutato, io sono per la legittima difesa sempre, ma c’è un’esitazione di fondo. I tedeschi hanno detto che è anche troppo quanto fatto, ma non devi mai dirlo, devi sempre agitare il pesante bastone che hai dietro la spalla, devi far capire che uno può fare molto peggio”.

“Per quanto riguarda le divisioni, sia italiane che internazionali, attenzione, perché - sottolinea ancora la Maglie - i Cinquestelle staranno anche sostenendo una posizione radicale, ma è la loro natura guai a loro se la perdono, però c’è anche il Papa. Non ce lo dimentichiamo quanto ha detto Papa Francesco dopo il discorso di Draghi, ha dato dei pazzi. Il dissidio dell’Occidente rispetto a questa guerra e all’atteggiamento da tenere con la Russia è molto forte. Non scordiamoci che oggi pomeriggio il Papa fa la consacrazione di Fatima alla Russia e all’Ucraina. In questo modo - dice chiudendo la giornalista - non c’è la massima pressione che è sempre necessaria affinché il sedersi ad un tavolo di trattativa porti un risultato utile non solo a chi sta aggredendo, ma anche a chi è aggredito”.

 Toni Capuozzo non capisce Zelensky: "Non so perché dica che la pace sia vicina". Il Tempo il 25 marzo 2022.

Toni Capuozzo di guerre se ne intende. E non riesce a capire cosa spinga in questo momento Zelensky all'ottimismo. In un lungo post su Facebook il giornalista di Mediaset analizza così lo scenario attuale: "Non so cosa ha portato Zelensky a dire “Siamo vicini alla vittoria e alla pace”. Se è stato il successo di quelle piccole controffensive attorno a Kiev. O l’aver centrato quella nave russa nel porto di Berdiansk, o il fatto che Mariupol ancora non è caduta. Magari. Non so come sarebbe la pace, e se mi immagino le strade di Kiev in festa, non riesco a credere a Donetsk, a Lugansk, alla Crimea attraversate dai russi in ritirata".

La pace, insomma, non sarebbe ancora vicina. "In più - prosegue l'esperto - mi chiedo cosa sarebbe della Russia, e cosa la sconfitta causerebbe al Cremlino, e persino negli assetti mondiali, non sono solo fatti loro. Vedo invece che si affilano i coltelli, anche quando si parla di cose buone: Draghi ha detto che bisogna pensare all’integrazione dei profughi, Biden annuncia che ne ospiteranno centomila: come se la pace fosse davvero lontana, nessuno torna a casa. Del resto non si è parlato di pace, al vertice europeo con Biden. Appena poco tempo fa nei vertici si parlava di riscaldamento globale, e Greta era la sentinella morale delle discussioni. Adesso lo è Zelensky, ascoltato, come Greta, a metà".

Capuozzo critica i leader mondiali, compreso Mario Draghi: "Niente 200 carriarmati, però droni, armi anticarro, armi antimissili. Niente no fly zone, la linea rossa diventa l’impiego di armi chimiche (era stato così anche per Obama in Siria, sappiamo com’è finita). Tranne qualche dettaglio umano del vertice, come Boris Johnson sperduto nella preparazione della foto di gruppo, hanno ragione i leader di compiacersi: la Nato, e a ruota l’Unione europea e il G7, non sono mai stati così uniti: è il miracolo alla rovescia provocato dall’invasione di Putin. Ma anche mai così incapaci di diplomazia, come se le armi costassero il silenzio, mortificassero idee, trattenessero ogni altra iniziativa, avessero espugnato cuore e cervello della vecchia Europa. Lamentavamo, davanti a certe regole, che la comunità fosse fatta da ragionieri, avesse perso lo slancio identitario degli inizi. Adesso, che ha ritrovato lo slancio dei momenti bui, sembra fatta da sergenti e caporali, un vertice come un’adunata, con un comandante della riserva un po’ diverso da Patton, un certo Joe Biden. Ah, le risoluzioni ONU: alla fine ne hanno votata una, politicamente corretta, che indica nell’invasione russa la colpa e intima alla sola Russia di sospendere il fuoco. La Russia ha votato no, la Cina si è astenuta. Rimarrà lettera morta, ma il Consiglio di Sicurezza è soddisfatto perché gliele ha mandate a dire, alla Russia. La cosa che mi ha colpito di più, ieri, è stata una frase di Draghi: “bisogna cercare disperatamente la pace”. Quell’avverbio non sembrava casuale, alla Cetto La Qualunque. Detto da Draghi, uomo concreto, era rivelatore di un vuoto di strategia, di una speranza che manca, di parole che non si osa pronunciare. Del resto in guerra si perde tutti, alla fine" conclude il giornalista.

Toni Capuozzo e Zelensky: "Perché dice che è vicino alla vittoria?" Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

Di conflitti Toni Capuozzo ne ha visti decine e decine, in ogni parte del mondo. Per questo quando su Facebook scrive che "in guerra perdono tutti", il giornalista di Mediaset è più che credibile. E per questo, spiega, "non so cosa ha portato Zelensky a dire 'siamo vicini alla vittoria e alla pace'.  Se è stato il successo di quelle piccole controffensive attorno a Kiev. O l’aver centrato quella nave russa nel porto di Berdiansk, o il fatto che Mariupol ancora non è caduta. Magari". Ma la verità, suggerisce l'inviato di guerra e fondatore di un programma di approfondimento che ha fatto storia, come Terrra! su Canale 5, è che parlare di pace oggi è praticamente impossibile.

"Mi chiedo cosa sarebbe della Russia, e cosa la sconfitta causerebbe al Cremlino, e persino negli assetti mondiali, non sono solo fatti loro. Vedo invece che si affilano i coltelli, anche quando si parla di cose buone". Il presidente ucraino è un po' come Greta Thunsberg: ascoltato da tutti, accolto come "la speranza del mondo", ammirato per il coraggio un po' incosciente. Ma proprio come la giovane attivista dell'ambiente, il presidente-comico è "ascoltato a metà" dai big del mondo.  

I membri di Ue, Nato e G7 "non sono mai stati così uniti - sottolinea Capuozzo -: è il miracolo alla rovescia provocato dall’invasione di Putin.  Ma anche mai così incapaci di diplomazia, come se le armi costassero il silenzio, mortificassero idee, trattenessero ogni altra iniziativa, avessero espugnato cuore e cervello della vecchia Europa". 

Vittorio Feltri: "Zelensky si prenderà la responsabilità di un'ecatombe mostruosa". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 25 marzo 2022.

Si dice con insistenza che la Russia, davanti alla resistenza dell'Ucraina, si stia preparando ad usare armi chimiche, le più efficaci e pericolose. Sarebbe una tragedia in quanto alla distruzione delle città si aggiungerebbe la morte di altre migliaia di persone. D'altronde Putin non è un agnellino e se ha iniziato la guerra è sicuro che la voglia finire da vincitore, essendo dotato di ordigni sofisticati. Di fronte ai quali, è arcinoto, sia quelli in dotazione dell'Ucraina, sia quelli che vengono inviati a Kiev dagli americani e dagli Stati europei, Italia inclusa, sono non dico giocattoli, ma comunque inidonei a contrastare l'esercito di Mosca. Chi non si rende conto di questa realtà oltre ad essere disinformato è talmente ingenuo da pensare che Putin non sia solo un pazzo criminale ma pure un cretino. Egli infatti fino a ora ha limitato, si fa per dire, l'uso della forza più brutale, tuttavia vi farà presto ricorso se Zelensky non cederà allo strapotere del Cremlino. Coloro che insistono nel dire che gli eroi ucraini si stiano dimostrando pressoché imbattibili grazie alla volontà di combattenti in difesa della loro terra, si illudono. È vero che le battaglie infuriano da un mese e il Paese invaso non si è piegato, però rammentiamo che gli stessi americani, 20 anni orsono, per prevalere su Saddam in Iraq impiegarono un paio di mesi. Pertanto non deve stupire che i russi non siano riusciti a mettere il tallone conclusivo sulla nazione presieduta da Zelensky. 

Il trascorrere del tempo fa gioco alla Russia, la quale agisce per sfiancare gli avversari e costringerli alla resa dopo aver utilizzato a fini bellici la chimica e missili di precisione assoluta. Tutto ciò dovrebbe far riflettere non solo il popolo aggredito ma anche il blocco occidentale, talmente superficiale da non aver valutato la carica violenta di Putin, supponendo di poterla contrastare con mezzi inadatti sotto il profilo strettamente militare. A questo punto se il leader ucraino non troverà il modo per proporre una resa onorevole e salvifica per la sua gente disperata, egli si assumerà la responsabilità di un'ecatombe mostruosa, costretto a consegnare allo zar un Paese ridotto a un cumulo di macerie, un Paese di morti insepolti e di vivi sepolti dai detriti. Non mi sembra una bella prospettiva. La guerra si combatte almeno tra due soggetti, uno dei quali prima o poi soccombe, non sarà la Russia. Per quanto riguarda la minaccia nucleare, suppongo sia soltanto ipotetica, sapendo che danneggerebbe persino coloro che la scatenassero. In questo caso non varrebbe il motto mors tua vita mea, che andrebbe aggiornato così: mors tua mors mea. A chi interessa un funerale universale?

Vittorio Feltri e la guerra: "I miei ricordi della vita sotto le bombe, ecco come si sopravvive". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 27 marzo 2022.

La guerra in Ucraina raccontata dalla tv e dai giornali ha risvegliato, in noi vecchiotti, ricordi che parevano sopiti. In certi filmati che giungono quotidianamente da Kiev e dintorni rivediamo scene che negli anni Quaranta ci erano familiari. Le sirene dell'allarme e il coprifuoco erano regole a cui eravamo avvezzi. In casa mia, come in quella di altri italiani, ai vetri delle finestre erano incollati fogli di carta blu, la stessa usata per avvolgere gli spaghetti dell'epoca, la quale aveva la funzione di oscurare, all'esterno, la luce fioca delle lampadine che avrebbe potuto indirizzare le bombe lanciate nottetempo da un aereo inglese in volo abitualmente su Bergamo ogni sera, ogni notte, denominato dalla gente Pippo, in realtà si trattava di un Piper. Nella mia abitazione abbastanza di lusso per quei tempi c'erano i caloriferi, ma erano rigorosamente freddi, spenti per mancanza di nafta, benché Putin non fosse ancora nato.

Una sera suona l'allarme e tutti gli inquilini del palazzo si precipitano giù dalle scale per correre nel rifugio ricavato dalle cantine. La fretta di trovare un riparo indusse uomini e donne a scendere saltando qualche gradino, rischiando così di inciampare e di cadere. Una folla frettolosa che non risparmiò qualche spintone alle persone più lente per guadagnare subito lo scantinato agognato. Si dà il caso che mia madre, avendo tre figli da portare con sé, non fosse particolarmente svelta a raggiungere il luogo dove stare al sicuro. Cosicché una nostra vicina, allora giovanissima, si offrì di prendere in braccio me, che ero molto piccolo, per portarmi in salvo. Lo fece con slancio, forse troppo data l'urgenza, ed essendo inciampata in un gradino, ruzzolò a terra fratturandosi un arto. Ciò nonostante, la ragazza riuscì mirabilmente, alzando le braccia che mi stringevano, a far sì che io non subissi alcun trauma. Lei fu ingessata, io incolume. La signorina si chiamava, e spero sia ancora viva, Lidia Moretti, la quale a conflitto ultimato fu la mia maestra. Le sarò grato in eterno.

Ho raccontato questo episodio marginale per dire che nel marasma della guerra si registrano anche slanci di generosità. Tra l'altro mi sembra che sotto gli attacchi bellici non sia mai cambiato niente. Oggi i russi sparano nel petto agli ucraini che non conoscono neppure, invece coloro che hanno ordinato di premere il grilletto si conoscono benissimo ma non si uccidono tra loro. Un vero peccato che muoiano dei giovani obbligati a sparare, mentre i vecchi che impongono di aggredire se ne stanno accovacciati sul divano. Mio fratello Ariel, che ha qualche anno più di me, nel 1944 frequentava la prima elementare, e aveva un compagno di classe figlio di un casellante della ferrovia. Tornando in famiglia al termine delle lezioni, fu falciato da un mitragliamento lungo la strada ferrata. Era un bimbo. Certi fatti non si digeriscono benché risalgano alla notte dei tempi. Ogni volta che lo incontro, il mio fratellone mi racconta come fosse nuova la vicenda dello scolaro amico suo e ammazzato come una lucertola, e io gli ricordo l'eroismo domestico di Lidia Moretti che non vedo da vari lustri, non so che fine abbia fatto, e pensando a lei mi si inumidiscono gli occhi. Morale. La nostra memoria ci restituisce brutte storie antiche, quelle della guerra. E adesso che abbiamo l'età per andare nella tomba siamo ancora qui a fare i conti coni cannoni. Il mondo non cambia mai, talvolta peggiora. 

Guerra Ucraina, Bruno Vespa avverte: "Il prezzo da pagare per salvarci da Putin". Pericolo alle porte. Giada Oricchio su Il Tempo il 27 marzo 2022.

Pacifisti o guerrafondai? Solidali o opportunisti? Bruno Vespa, in un editoriale per Il Giorno, spiega perché dobbiamo schierarci con l’Ucraina invasa dalla Russia. Due giorni fa, a Porta a Porta, Vespa ha mostrato un sondaggio di Alessandra Ghisleri secondo il quale la maggioranza degli italiani è contraria all’invio di armi all’Ucraina anche se teme l’allargamento del conflitto e in parte sente che sia già avvenuto.

Il nodo è l’aumento delle spese militari fino al 2% per partecipare alla difesa comune europea: risorse per 15 miliardi di euro che andrebbero a intaccare quelle stanziate sul caro bollette e caro carburante. C’è grande fibrillazione nella maggioranza e il presidente del M5s, Giuseppe Conte, sembra pronto a un clamoroso strappo con conseguente crisi di governo.

Contrario anche Matteo Salvini: il leader della Lega si è scoperto pacifista. Bruno Vespa però ha fatto notare che il premier Mario Draghi tira dritto assicurando che seguirà l’esempio cancelliere tedesco Scholz, autore di “una rivoluzione copernicana, portando immediatamente al 2%. Anche noi eravamo fermi all'1,57% e Draghi ha assicurato che ci metteremo in riga. Una vecchia regola di politica internazionale prevede che puoi sederti al tavolo di un negoziato con qualche probabilità di spuntarla se hai le spalle coperte dalle armi. Se la Nato smettesse di armare l'Ucraina, l'occupazione militare russa avverrebbe nel giro di qualche giorno”.

In pratica: l’invio di armamenti è doloroso per la coscienza, ma necessario e indispensabile. Un deterrente per costringere Vladimir Putin a un negoziato. L’editoriale di Bruno Vespa diventa un monito: “Vogliamo questo? Vogliamo stabilire il principio che un paese europeo, candidato a entrare nell'Unione, possa essere lasciato in balia di un aggressore con mire neoimperiali?”. Come molti altri analisti geopolitici, Vespa è convinto che “se oggi regaliamo l'Ucraina a Putin domani si prenderà la Georgia e poi la Moldavia e tutti i paesi confinanti saranno intimiditi dall’indifferenza della Nato e più in generale dell'Occidente”.

Per lo scrittore il presidente della Federazione russa è in difficoltà sul campo dove la guerra lampo è fallita e sul palcoscenico internazionale: credeva che Nato e UE non si compattassero e chiudessero un occhio come era stato nel 2014 per la Crimea e più recentemente con la disastrosa ritirata dall’Afghanistan. Senza contare che anche “il resto del mondo (Cina compresa) non approva il suo comportamento. Forse vale la pena di pagare un ticket perché l’uomo che tanto ci ha deluso capisca che deve fermarsi”.

Ma l’Ucraina resiste, e ora la loro resa sarebbe la nostra resa. Il presidente ucraino ha trasformato una guerra di resistenza dal vago sapore nazionalistico in una battaglia per la difesa della democrazia. Davide Varì su Il Dubbio il 19 marzo 2022.

Le truppe russe sono impantanate nel fango ucraino e Kiev resiste. Resiste più di quel che noi e Putin potessimo immaginare. E chi in questi giorni ha chiesto – o come il sottoscritto si è chiesto tra sé e sé, magari sottovoce, sussurrandolo pudicamente – se non fosse stato meglio che Kiev si fosse arresa, ora non può non prendere atto che le condizioni date sono cambiate radicalmente.

Intendiamoci, chi ha invocato la resa lo ha fatto in perfetta buona fede, convinto che quel gesto avrebbe evitato morti, sangue e sofferenze al popolo ucraino. Certo, tra i tifosi della resa di Kiev c’era e c’è ancora una buona dose di nostalgici del ’900 e chi invece non voleva e non vuole che il proprio stile di vita, le proprie comodità – le proprie “miserie quotidiane” – vengano stravolte a causa di una guerra che si combatte ai confini orientali dell’Europa. Poi c’è chi ha paura – e chi non ne ha? – dell’“escalation” e vive queste ore nel terrore del fungo atomico.

Ma tutto sommato si tratta di una minoranza che pian piano si va convincendo che Putin non ha alcuna intenzione di schiacciare il bottone atomico perché sa che il potenziale bellico della Nato è più potente di quello russo, e la reazione sarebbe molto più forte della sua azione. Le condizioni di partenza sono cambiate, dicevamo, e con loro è cambiata anche l’immagine di questa guerra. In pochi giorni l’Ucraina ha infatti trasformato una sconfitta certa in una resistenza città per città, casa per casa, quartiere per quartiere. Non solo: mentre le truppe di Kiev tenevano bloccato il potente esercito russo, Zelensky, questo ex comico divenuto eroe per caso, ha iniziato il suo tour nel cuore delle democrazie occidentali: ha citato il sogno di Martin Luther King al Congresso americano, l’incubo del muro di Berlino al Bundenstag e addirittura Shakespeare alla Camera dei Comuni del Regno Unito.

E proprio lì Zelensky ha citato il passaggio più famoso dell’Amleto, si è soffermato sul celebre “To be or not to be” e riproposto la sofferta domanda di Amleto: rinunciare alla vendetta per la morte del padre oppure impugnare la spada? “Chi sarebbe capace di sopportare le frustate e le irruzioni del secolo, i torti dell’oppressore, gli oltraggi dei superbi?”, si chiedeva infatti Amleto nei suoi deliri. Ecco, Zelensky ha trovato una risposta proprio nel cuore della democrazia inglese, e ha deciso di voler lottare per la libertà. Fino alla fine. Insomma, il presidente ucraino ha trasformato una guerra di resistenza dal vago sapore nazionalistico in una battaglia per la difesa della democrazia. E a questo punto la sua resa, sarebbe la resa di noi tutti.

Controcorrente, Zelensky va costretto a trattare. La ricetta di Padellaro per l'Ucraina: "Cosa aspetta l'Occidente?"  Il Tempo il 19 marzo 2022.

Non c'è altra soluzione per evitare altri bagni di sangue, bisogna mettere il presidente ucraino Voldymyr Zelensky a un tavolo con la Russia per trattare sulla base delle richieste di Mosca. Antonio Padellaro del Fatto quotidiano ospite di Veronica Gentili a Controcorrente spiega perché, dal suo punto di vista, non è più accettabile alimentare l'escalation della guerra in Ucraina. Il presidente russo Vladimir Putin "ha fissato i punti fondamentali, cioè vuole la Crimea che ha già occupato, vuole il Donbass e poi chiede un accordo sulla neutralità e sulla smilitarizzazione controllata dell'Ucraina, che è la cosa forse più complicata" da realizzare in questo frangente, argomenta il giornalista.

Visto che esistono già dei punti fondamentali sui quali trattare, è il ragionamento, "la domanda è: cosa aspetta l'Occidente a costringere anche Zelensky a costringerlo a trattare visto che lui comunque ha fatto sapere che è disponibile alla trattativa, evidentemente sulla base delle sue richieste?". Non ci sono alternative, "a questo punto bisogna stringere" conclude Padellaro nella puntata di sabato 19 marzo del talk show di Rete 4. 

Sul tavolo ci sono già alcuni punti di partenza per i negoziati, come rivelato dal portavoce del presidente turco Recep Tayyip Erdogan  che ha parlato al telefono con Putin. Ibrahim Kalin, questo il nome del rappresentante di Ankara, in un’intervista alla BBC ha reso note le condizioni poste dalla Russia per fermare l’offensiva: Putin chiede che l’Ucraina accetti la neutralità e non presenti domanda di adesione alla Nato. Allo stesso tempo la Russia chiede che il Paese sia sottoposto a un processo di disarmo. Il Cremlino vuole riconoscimento e protezione per la lingua russa, ma poi pretende anche la "de-nazificazione" del Paese, ostacolo importante alla luce del fatto che Zelensky stesso appartiene a una famiglia ebrea e che ha perso diversi parenti nei campi di concentramento nazisti. 

La svolta del presidente ucraino. Il passo indietro di Zelensky ci rallegra, la resa non è immorale. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Marzo 2022. 

Il Presidente ucraino Volodymyr Zelensky ieri ha fatto una dichiarazione molto importante. ha detto di essere pronto a rinunciare alla sua richiesta di aderire alla Nato. Ha detto che bisogna ammettere che non ci sono le condizioni. Ha ipotizzato una Ucraina neutrale. In sostanza ha compiuto un importantissimo passo indietro. Putin, almeno ufficialmente, non ha reagito con entusiasmo. Ha ripetuto che gli ucraini sono inaffidabili. Ma le dichiarazioni di Putin, probabilmente, in questo momento contano poco. Una cosa sono le dichiarazioni, una cosa diversa le intenzioni. È evidente che ieri Putin ha portato a casa il primo “punto” pesante di questa guerra.

Sia sul piano simbolico e anche sul piano concreto. Non può ignorarlo e non può non farne tesoro. Fino al giorno precedente Zelensky aveva insistito sulla richiesta di no fly zone, e sembrava molto lontano dall’idea di trattare. Oggi si dichiara pronto a concedere moltissimo. E dimostra anche di non essere solo un personaggio spettacolare e spavaldo. Ma di essere uno statista. Che sa misurare, fare dei calcoli, occuparsi degli interessi collettivi, considerare la realpolitik.

Su questo giornale nei giorni scorsi abbiamo usato la parola “resa“. Creando scandalo. Il Corriere della Sera da un paio di giorni sostiene che questa nostra posizione è immorale. Addirittura usa questa parola: immorale. Distinguendo, evidentemente, tra la moralità dell’interventismo e l’immoralità del pacifismo. Ognuno è padrone delle sue opinioni. Noi cerchiamo di offrirvi tutte le opinioni. Anche oggi: quella di Lea Melandri e quella del generale Del Vecchio.

Pacifismo e interventismo. Non pensiamo che sia immorale nessuno. Né chi non vuole le armi né chi le invia. Permetteteci solo di dire che il passo di Zelensky ci rallegra. Non sappiamo se dobbiamo chiamarlo o no resa, chiamatelo come vi pare: sicuramente è un passo gigantesco nella prospettiva di una trattativa seria.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Francesco Olivo per “La Stampa” il 16 marzo 2022.  

Prima di mettersi a studiare la vita di Benito Mussolini, Antonio Scurati, scrittore e saggista, ha analizzato in profondità la guerra e i suoi effetti sull'opinione pubblica. Quegli scritti, che potrebbero essere ripubblicati presto, sono tornati tragicamente di attualità con l'invasione russa. 

Scurati, lei sta scrivendo il terzo volume della sagra di M. in cui racconta lo scoppio della Seconda guerra mondiale, vede delle similitudini con il presente?

«Sono refrattario ai paragoni storici, ma ci sono dei tratti di agghiacciante simmetria tra la condotta pratica e verbale di Putin nel momento in cui invade l'Ucraina e quella di Hitler quando aggredisce prima la Cecoslovacchia e poi la Polonia». 

Dove vede queste simmetrie?

«Dall'abbandono delle politica da parte di Putin. Hitler dal '38 non ragiona in termini politici, ma escatologici, apocalittici e religiosi. Crede di andare incontro a un Armageddon con un nemico mortale che prevede. Temo che Putin stia ormai dentro questa dimensione e che ogni tentativo di comprendere le sue mosse in termini politici manchi il bersaglio». 

Ci sono altre similitudini?

«Il pretesto delle minoranze da tutelare, Hitler fece lo stesso con i sudeti e poi con Danzica. Poi c'è l'azione pervicace che Putin porta avanti: ha cominciato in Cecenia, poi ha bombardato la popolazione civile della Georgia, poi ha preso la Crimea, ha usato le armi chimiche in Siria e adesso l'Ucraina. È la stessa metodica determinazione di Hitler che annette l'Austria, poi la Cecoslovacchia, poi la Polonia. E ogni volta chi lo sta a guardare ha la tentazione di dire che non si spingerà oltre». 

Non sarà così scriteriato da allargare il conflitto a un Paese Nato?

«Messa in una prospettiva storica, la minaccia putinania porta con sé questo monito. Se non fosse fermato, e in parte già lo è stato, in Ucraina si può pensare che avrebbe proseguito con i Paese baltici». 

Il dilemma sull'invio delle armi è quello che si presentò a Danzica?

«Sì. Intendiamoci, la probabilità di un'estensione del conflitto al mondo intero non è la stessa del 1938. Ma sulla questione ucraina si potrebbe applicare la magistrale sintesi di Churchill quando dopo la Conferenza di Monaco fulminò Chamberlain dicendo "dovevate scegliere tra la vergogna e la guerra. Avete scelto la vergogna, avrete la guerra". Vale anche per le mire di Putin».

L'Occidente doveva muoversi prima?

«L'Ucraina non aveva scelto di entrare nella Nato, come dice qualche fautore del pacifismo a ogni costo, spero in buona fede. Non c'è nessuna procedura per l'ingresso. La neutralità che si invoca è scritta nella Costituzione ucraina. 

Gli ucraini aspirano a condividere i nostri valori e gli stili di vita democratici e liberali. È in quel momento che la Russia di Putin ha deciso la guerra. È tutto leggibile nella logica neozarista: qualunque cosa l'Ucraina avesse fatto che non fosse stata abdicare completamente a se stessa avrebbe avuto la guerra. Qui avremmo dovuto chiederci: l'abbandoniamo o la sosteniamo?». 

Se domani non ci fosse più Putin il problema resterebbe?

«Sono pacifista e il massimo che posso auspicare è la sua deposizione al termine di una congiura di palazzo. Anche senza Putin però, la questione russa rimarrebbe: un grande e glorioso Paese che non solo non è Europa per storia politica, ma che ne è un antagonista». 

Fino ad alcuni mesi fa alcuni sostenuto che la Russia doveva diventare un alleato dell'Italia.

«Un'idea sciagurata che alcuni leader dei partiti populisti hanno sostenuto». 

Salvini ora ha abbandonato quelle posizioni, è un fatto positivo?

«Questa forma di spregiudicato camaleontismo e questa prontezza a tradire qualsiasi principio erano le caratteristiche di Mussolini, e in fondo la sua forza. Non del Mussolini fascista, ma dell'inventore della leadership populista. In questo c'è una continuità evidente». 

 Il viaggio in Polonia è figlio di una contraddizione?

«C'è la caratteristica fondamentale del populismo: non avere idee proprie, ma solo tattiche. Riempirsi dei rancori momentanei della gente e da quelle esalazioni lasciare che venga guidata la propria linea politica. 

Oggi Putin è in disgrazia presso l'opinione pubblica italiana? Si può anche andare al confine a fingere di essere anti putiniano. C'è un tratto caricaturale, ma in realtà c'è l'arma segreta del populismo, il fatto di avvalersi di quella che Mussolini definiva "supremazia tattica del vuoto". Un vuoto che va riempito con gli umori momentanei per riscuotere il dividendo politico del momento». 

 L'opinione pubblica è impreparata alla guerra?

«Questo è sicuro. A ogni nuova guerra che lambisce l'Occidente, ci scopriamo sgomenti e impotenti». 

Perché?

«La mia tesi è che c'è stata una trasformazione nel nostro rapporto con la guerra. Dalla prima guerra del Golfo siamo diventati di fatto degli spettatori, la guerra diventa uno spettacolo per famiglia». 

Che conseguenze ha?

«Abbiamo perso la consapevolezza che le guerre esistono e questo ci impedisce di agire in termini civili e politici. E restiamo indifferenti come dei telespettatori». 

Ma la risposta delle istituzione è stata urgente.

«Questa è una novità, c'è una risposta delle istituzioni internazionali e anche di qualche grande azienda».

E l'opinione pubblica?

«Il pubblico italiano sta rispondendo in maniera emotiva. Ma non è una risposta adeguata». 

Le immagini che arrivano dall'Ucraina possono contribuire a questa presa di coscienza?

«Sono critico su questo. Usare immagini della sofferenza altrui istituisce un orizzonte mediatico all'insegna dell'oscenità e non più della tragicità». 

 Perché alcuni intellettuali dicono di andare oltre le emozioni per capire?

 «Da una parte c'è un riflesso pavloviano di antiche affiliazioni con la Russia e di avversità alla Nato, tipico della cultura comunista. Ma soprattutto c'è un autocriticismo ossessivo da parte dell'intellettuale d'Occidente, che sfocia in forme nevrotiche». 

La critica non va bene?

«Intendiamoci: la critica e l'autocritica sono il cuore stesso dell'Occidente, sono il titolo di nobiltà intellettuale. Però questo autocolpevolizzarsi in maniera smodata è una degenerazione che si iscrive all'interno della cancel culture». 

Lei si aspettava una guerra tradizionale con carri armati e truppe che invadono un Paese?

«Mi ha sorpreso la volontà di potenza che si esercita con l'invasione, la forte territorialità della strategia militare. Un altro punto è interessante: il disinteresse di Putin verso gli effetti mediatici della guerra, per cui se per vincere si deve bombardare un ospedale pediatrico, si bombarda senza problemi, potendo contare sul totale controllo dell'opinione pubblica interna. Gli Stati Uniti dal Vietnam in poi hanno fatto il contrario. Queste cose sembrano indicare un ritorno a un passato che credevamo sepolto».

Nella testa di Putin e Zelensky: "Vi dico cosa vogliono davvero..." Andrea Indini il 17 Marzo 2022 su Il Giornale.

Dall'abbigliamento all'uso del linguaggio i due leader hanno strategie di comunicazione diverse. Ne abbiamo parlato con Borzacchiello per capire cosa c'è dietro e cosa vogliono trasmettere.

Alle 03:50 del 24 febbraio Putin parla 28 minuti in tv, spiega le (sue) ragioni dell'attacco all'Ucraina e rinfaccia all’Occidente di aver assunto "sembianze imperiali". "Sono le regole base della propaganda", ci spiega Paolo Borzacchiello fra i massimi esperti di intelligenza linguistica applicata al business. "Chiama le cose con un altro nome, ben consapevole del fatto che nel farlo ne modifica anche la percezione". È sempre stato così, solo che lo Zar non tiene conto di un particolare importante: "Le regole, che funzionavano ai tempi di Goebbles, oggi sono meno efficaci coi tiktoker che riprendono tutto in diretta".

Sin dall’inizio Putin ha messo in chiaro che chiunque dovesse ostacolarlo subirà "conseguenze mai viste". Anche questa è propaganda?

"Mi auguro di sì ma temo che la minaccia sia concreta e ne stiamo già vedendo i primi effetti: basta pensare alla benzina o alle forniture di grano e di gas. Invito a riflettere sul termine 'conseguenze': il primo pensiero, per economia cognitiva, corre sicuramente a concetti come missili e guerra nucleare ma comprende anche scaffali vuoti al supermercato e prezzi della pasta triplicati."

Putin era convinto di sopraffare l’Ucraina in pochi giorni. Ora la guerra potrebbe protrarsi per i mesi. La sua comunicazione è cambiata?

"Nel complesso mi pare piuttosto lineare. Ho notato, tuttavia, nei discorsi dei suoi uomini, un progressivo incremento di parole che potrebbero far pensare a posizioni più miti. Ma, è bene precisarlo, anche questa potrebbe essere propaganda".

Come valuta, invece, la strategia comunicativa di Zelensky?

"Sta piacendo moltissimo all'opinione pubblica ed è tecnicamente perfetta per creare empatia con lo spettatore. Parlo di spettatore nel senso più ampio del termine, visto che noi occidentali, dal divano di casa nostra, assistiamo in diretta a quello che succede. La sua strategia è dunque perfetta: location, look e gestualità, tutto molto coerente. E il suo precedente mestiere si evince con chiarezza".

Oggi, davanti al congresso Usa, Zelensky ha rievocato fantasmi del passato: Pearl Harbor e l'11 settembre. Perché?

"È un'ottima strategia che trascende la razionalità. Le cause del conflitto ucraino sono diverse da quelle che hanno portato all'11 settembre e sono altrettanto evidenti le differenze fra i due eventi. È quasi inutile sottolinearlo. Ma, dal punto di vista narrativo, funziona alla grande. Nominare Pearl Harbor e 11 settembre ha una presa emotiva molto forte su chi ascolta".

Allo stesso modo oggi Putin ha rievocato i pogrom degli ebrei. Sembra quasi che i due discorsi si parlino.

"Certamente. Se lo scopo è suscitare ondate emotive e forte paura, i richiami sono perfetti e la neuroassociazione è chiara. Tuttavia Putin cita tragedie che si ricollegano alla propaganda della 'denazificazione' e portano avanti il concetto di 'non invasione' e per questo l'analogia coi pogrom non regge. In Zelensky, invece, funziona tutto molto meglio".

In foto Putin si mostra sempre lontano da tutti i collaboratori. Cosa vuole comunicare?

"Il messaggio è chiarissimo: Putin vuole comunicare assenza di empatia. È lui, e solo lui, che ha in mano le sorti della guerra. Tutto passa da lui, e deve essere chiaro il concetto: nessuno potrà convincerlo a cambiare idea. Se mai lo farà, sarà per sua volontà. Il dittatore perfetto non è empatico, è distante da tutti”.

Zelensky invece si mostra in mimetica insieme ai ministri…

“Azzerando le distanze di ruolo, lavora sull'empatia: quando esorta l'Europa a mandare aiuti e armi, lo fa dal basso, vestito come chi sta combattendo la battaglia. Questo attiva nel cervello di chi lo guarda e lo ascolta una reazione empatica molto forte. Anche lui è credibile nel suo ruolo. Se questo fosse uno spettacolo teatrale, direi che nella narrazione offerta ai media (che è una versione parziale e ristretta della storia), protagonista e antagonista sono molto ben definiti, in ogni dettaglio".

Come si inserisce l'incubo nucleare in questa dialettica?

"Nucleare è una parola potente. La maggior parte delle persone preferisce fare una TAC rispetto a una Risonanza Magnetica Nucleare, anche se la TAC è decisamente più invasiva. È un termine forte, che attiva reazioni emotive fortissime: il sistema limbico, quando si sente minacciato, attiva una reazione che possiamo riassumere in freeze, flight or fight, paralizzati, fuggi o combatti. Il primo istinto è paralizzarsi, poi casomai scappare, poi casomai combattere. Da questo punto di vista, credo che Putin abbia considerato solo l'effetto 'paralisi' e non quello 'combatti'. Potrebbe ritorcerglisi contro".

La guerra in Ucraina riporta il mondo indietro al secolo scorso. Si torna a respirare un clima da Guerra fredda. E questa passa inevitabilmente anche attraverso la propaganda. Qual è il fine ultimo della disinformazione?

"Cito il dizionario militare utilizzato dalla Nato e ripreso anche in Italia dal 28° reggimento, che si occupa di propaganda e comunicazione: 'Le operazioni psicologiche sono operazioni pianificate per veicolare informazioni ed indicatori selezionati ad un pubblico straniero, per influenzare le loro emozioni, motivazioni, ragionamenti oggettivi e, in ultimo, il comportamento dei governi stranieri, come di organizzazioni, gruppi ed individui'".

Come vanno lette informazioni che quotidianamente arrivano dal fronte mediate dai social?

"Con prudenza. Ricordandosi sempre che, da entrambe le parte, l'informazione è sempre mediata: quali immagini si scelgono, come si raccontano e così via. Pensate alla foto della ragazzina con il lecca lecca e il fucile che ha fatto il giro del mondo: era una foto di scena, scattata da un fotografo professionista a sua figlia che si è messa in posa per una foto artistica. Ha scatenato un putiferio di condivisioni e reazioni di pancia: tutte legittime, perché il concetto che esprime è sacro santo. Ma era una foto artistica".

Come legge le scelte comunicative di Pechino?

"Sono, come sempre, ambivalenti, criptiche, lasciano intendere cose che poi possono casomai essere ritrattate. Sembra che aspettino di vedere da che parte penderà l'ago della bilancia".

Durante i negoziati lo staff di Macron ha divulgato scatti del presidente visibilmente teso, con la barba sfatta e la felpa dei paracadutisti. Che messaggio hanno voluto mandare?

"Suppongo, ma è una mia supposizione, che Macron volesse dare l'idea di un presidente attivo e pronto alla battaglia. Ma il confine fra la credibilità e il ridicolo è spesso molto sottile".

Nei giorni scorsi Kamala Harris si è messa a sghignazzare quando una giornalista le ha chiesto dei profughi ucraini. Solo una gaffe?

"A certi livelli, non dovrebbero esistere certe gaffe. Punto. Anche perché, se ricordate, non è la prima volta che succede. Ridere in certi contesti, come fa anche il nostro ministro degli Esteri che sghignazza mentre si definisce animalista e definisce Putin animale è, semplicemente, inopportuno. E, mi si consenta, offensivo".

Durante la pandemia si è ricorso più volte all'uso di termini militari per descrivere quanto stava accadendo. Adesso, però, che la guerra ce l'abbiamo ai confini dell'Unione europea, quelle parole assumono un altro significato. Come cambia il paradigma della nostra quotidianità?

"Non molto, temo: si tratta di una metafora universale che ha un valore specifico e che produce effetti simili in tutti coloro che la ascoltano. Battaglia, combattere, sconfiggere e così via sono termini metaforici che attivano reazioni di stress e reazioni comportamentali molto forte. Ora, va bene: guai a pensare che tutto vada bene, che tutto andrà bene e altre sciocchezze 'positive' del genere. Serve un po' di pensiero critico, anche solo per, magari, abbassare di un grado il riscaldamento di casa. Piuttosto, rilevo che è stata usata male e a sproposito durante la Pandemia, periodo storico in cui i nostri politici, dal punto di vista anche comunicativo, hanno davvero dato il peggio di sé. Basti pensare che parlare di 'guerra' attiva nel corpo umano la produzione di cortisolo, sostanza che può provocare difficoltà respiratorie e depressione. Cosa che, in Pandemia, si sarebbe anche potuta evitare".

Da open.online il 16 marzo 2022.

Il modello di Vladimir Putin non è Adolf Hitler ma bensì Benito Mussolini. Lo spiega oggi sul Sole 24 Ore l’economista Vladislav Inozemtsev, direttore del Centro Ricerche sulle Società Post-industriali con sede a Mosca. 

Inozemtsev spiega che il primo pilastro del fascismo russo è l’esaltazione dell’irredentismo e della militarizzazione: «Nella Russia putiniana le celebrazioni della Giornata della Vittoria sul nazismo hanno surclassato tutte le altre relative agli eventi storici dell’Unione Sovietica. Il culto di un passato glorioso ha fornito la giustificazione migliore per il riarmo. Nello stesso tempo, Putin ha alimentato il sentimento antioccidentale presentando la fine della Guerra Fredda come prodotto di complotto e tradimento, causa del crollo e della scomparsa dell’Urss».

Il secondo pilastro è la statalizzazione dell’economia. La gran parte delle grandi imprese in Russia è ormai gestita da burocrati alle dipendenze di Putin, secondo un’organizzazione corporativa che ricorda quella italiana durante il Ventennio. Il terzo pilastro sono le “agenzie di controllo”, che servono allo Zar insieme alle armate paramilitari per essere sul territorio. 

Il fascismo di Putin nasce all’inizio degli anni 2000, quando ebbe a definire il tramonto dell’impero sovietico la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo. Si è poi intensificato nel tempo con l’aggressione alla Georgia e l’annessione della Crimea. Durante tutti questi anni, noti e ingenui studiosi occidentali hanno descritto la Russia come un “Paese normale”, sforzandosi di comprendere meglio e in modo più approfondito questa forma di “democrazia sovranista”. Oggi la questione del fascismo russo ha smesso di essere soltanto di interesse teorico.

Per questo, conclude l’economista, la guerra in Ucraina può essere paragonata con l’avanzata dei regimi fascisti in Europa durante la guerra civile spagnola. Dopo, è arrivata la seconda guerra mondiale.

Una guerra tra fascismi, la verità di Capuozzo sulla guerra in Ucraina. Il Tempo il 16 marzo 2022.

Una guerra tra opposti fascismi. Toni Capuozzo dà la sua personale lettura al conflitto in corso in Ucraina. Secondo il giornalista ospite di Controcorrente su Rete4, si stanno scontrando formazioni fasciste infiltrate negli schieramenti militari di entrambi gli eserciti in conflitto.

"Ci sono sicuramente formazioni non ininfluenti di tipo fascista inglobate nella struttura militare ufficiale dell'Ucraina - spiega Capuozzo - E non solo il battaglione Azov. C'è una formazione più preoccupante che si chiama Centuria e che contiene cadetti diramati in tutte le strutture dell'apparato ucraino. Ma ci sono fascisti anche dall'altra parte. Tra gli indipendentisti del Donbass, ad esempio, ci sono delle formazioni che non puoi che definire fascisti. Da questo punto di vista è una guerra tra opposti fascismi". 

I due eserciti si colpiscono tra i palazzi. Gianluca Di Feo su La Repubblica il 17 marzo 2022.

Due filmati degli eserciti rivali documentano l’intensità dei combattimenti a ridosso delle case. Il primo è stato girato a Mariupol dai miliziani ucraini della brigata Azov. Mostra undici mezzi russi parcheggiati dietro a una palazzina: autoblindo, semoventi lanciarazzi, che si ritiene appartenessero a un’unità di forze speciali Spetsnaz. Vengono centrati con precisione dai missili ucraini. Ma le esplosioni investono l’edificio, devastandolo. Il secondo video invece è stato realizzato dalle truppe di Mosca: anche in questo caso, un drone da ricognizione guida il lancio di missili contro due veicoli fermi tra le villette. I blindati ucraini vengono colpiti ed esplodono con colonne di fiamme altissime, che avvolgono le case. Ormai in tutta l’Ucraina non ci sono zone franche: è una guerra totale, dove le città sono diventate zona di combattimento.

“Popolo al massacro”. Il retroscena bomba di Andrea Purgatori a Tagadà: spaccatura nel cerchio magico di Zelensky. Il Tempo il 16 marzo 2022.

La guerra tra Russia ed Ucraina si combatte con due leader più in vista degli altri, Putin e Zelensky. Ma un peso fondamentale per far cessare il conflitto lo hanno anche gli uomini e le donne più vicini ai due presidenti e Andrea Purgatori nel corso della puntata del 16 marzo di Tagadà, talk show di La7 sotto la conduzione di Tiziana Panella, sottolinea le differenze all'interno della cerchia ristretta del presidente ucraino: “Mentre parliamo molto del cerchio magico di Vladimir Putin e del dibattito interno alla nomenclatura russa su chi è favorevole o contrario a continuare la guerra, linea dura, linea morbida, trattativa o meno, bisogna considera che anche nel cerchio magico di Volodymyr Zelensky ci sono delle differenze. C’è chi dice ‘dobbiamo far massacrare la gente e distruggere le città prima di arrivare ad un accordo, oppure no?’. Alcuni di loro - conclude il conduttore di Atlantide - si chiedono se abbia senso continuare una resistenza che produce così tanti morti”.

ISRAELE SBALORDITO DAI NEONAZISTI UCRAINI. Redazione su La Voce delle Voci l'11 Marzo 2022. Di Thierry Meyssan, voltairenet.org

La presenza di neonazisti organizzata dallo Stato in seno alle forze armate ucraine non è sporadica, sebbene non sia quantificabile in modo preciso. È invece facile contare il numero delle loro vittime. In otto anni, nell’indifferenza generale, i neonazisti hanno ucciso 14 mila ucraini. Questa è una delle cause dell’intervento militare russo in Ucraina. Israele si trova per la prima volta a fare i conti con quanto mai avrebbe immaginato di dover affrontare: il sostegno del protettore USA al suo nemico storico, il nazismo. 

Di fronte alla crisi ucraina Israele deve misurarsi con un problema inaspettato: è vero quanto sostiene Mosca, ossia che l’Ucraina è nelle mani di una «banda di neonazisti», finanziata da ebrei ucraini e statunitensi? Se la risposta fosse affermativa, Tel Aviv avrebbe il dovere morale di chiarire la propria posizione nei confronti di ebrei sostenitori di nazisti, a prescindere dalla posizione rispetto alla crisi ucraina.

Il problema è ancor più doloroso perché gli ebrei statunitensi che sostengono o strumentalizzano i gruppi nazisti ucraini sono un piccolo gruppo di un centinaio di persone, gli straussiani, oggi al potere nella cerchia più vicina al presidente Joe Biden. 

COSA RAPPRESENTANO I NEONAZISTI UCRAINI?

A febbraio 2014 la “rivoluzione della dignità”, chiamata anche “EuroMaidan” fu un cambiamento di regime sponsorizzato dalla straussiana Victoria Nuland, assistente dei segretari di Stato Hillary Clinton e John Kerry. In questo contesto, un gruppo di ultrà della squadra di calcio di Kharkiv, la “Setta 82”, occupò i locali del governatorato dell’oblast [regione] e riempì di botte i dipendenti del vecchio regime.

Diventato ministro dell’interno, Arsen Avakov, governatore di Kharkiv durante il vecchio regime e uno degli organizzatori dell’Euro 2012 [campionato europeo di calcio], autorizzò la formazione di una forza paramilitare di 12 mila uomini, attorno agli hooligan della “Setta 82”, a difesa della rivoluzione. Il 5 maggio 2014 il Battaglione Azov, o “Corpo dell’Est”, era ufficialmente costituito e posto sotto il comando di Andriy Biletsky.

Quest’ultimo, soprannominato “führer bianco”, è un teorico del nazismo. Era stato leader dei Patrioti d’Ucraina, un gruppuscolo neonazista fautore di una Grande Ucraina, nonché violentemente anticomunista.

Andriy Biletsky e Dmitro Yarosh fondarono insieme il Settore Destro, che nel 2014 fu il principale protagonista di Piazza Maidan. Questa struttura, apertamente antisemita e omofoba, era finanziata dal padrino della mafia ucraina, il miliardario ebreo Ihor Kolomoïsky. Sul piano internazionale il Settore Destro si oppone violentemente all’Unione Europea per costituire un’alleanza degli Stati dell’Europa centrale e del Baltico, l’Intermarium. Un progetto che, guarda caso, coincide con il progetto degli Straussiani che, dal rapporto Wolfowitz del 1992, considerano l’Unione Europea un rivale per gli USA più pericoloso della Russia. Vi ricorderete della telefonata intercettata tra Nuland e l’ambasciatore USA, in cui la sottosegretaria proclama che avrebbe «inculato l’Unione Europea» (sic).

Dmitro Yarosh è un agente delle reti stay-behind della Nato. Con l’emiro Doku Omarov nel 2007 organizzò un congresso anti-russo a Ternopol, sotto l’occhiuta vigilanza di Victoria Nuland, all’epoca rappresentante degli Stati Uniti alla NATO. Yarosh riunì neonazisti di tutta Europa e islamisti del Medio Oriente allo scopo di fare la jihad in Cecenia contro la Russia. Yarosh fu in seguito leader del Tridente di Stepan Bandera (detto Tryzub), gruppuscolo che glorifica la collaborazione dell’Ucraina con i nazisti. Secondo Bandera gli ucraini autentici sono di origine scandinava o proto-germanica; sfortunatamente si sono mescolati con un popolo slavo, i russi, da combattere e dominare. A fine 2013 gli uomini di Yarosh, nonché i giovani di un altro gruppo nazista, furono addestrati alla guerriglia urbana in Polonia, da istruttori della Nato. Fui molto criticato quando rivelai la vicenda perché avevo citato nelle note un giornale satirico; ciononostante il Procuratore generale della Polonia aprì un’inchiesta, che naturalmente non ebbe seguito perché non poteva mettere in causa il ministro della Difesa [1].

Nell’estate 2014 del Battaglione Azov facevano già parte questi gruppi neonazisti, ma non solo. Furono mandati a combattere i ribelli di Donetsk e Lugansk, compito che eseguirono con piacere. La loro paga fu aumentata fino al doppio di quella dei soldati regolari. Nella Repubblica Popolare autoproclamata di Donetsk, il Battaglione Azov prese la città di Mrinka, dove massacrò i “separatisti”.

A settembre 2014 il governo provvisorio affidò alla Guardia Nazionale l’incarico di assorbile il Battaglione Azov, escludendone alcuni leader nazisti.

Alle elezioni di ottobre 2014 due ex leader nazisti del Battaglione Azov, Andriy Biletsky e Oleh Petrenko furono eletti alla Rada (parlamento). Biletsky, il “führer bianco”, non si alleò con alcuno; Petrenko invece si unì al gruppo parlamentare che sosteneva il presidente Petro Porochenko. Il Battaglione Azov divenne così il Reggimento Azov della Guardia Nazionale.

A marzo 2015 il ministro dell’Interno (era in carica ancora Arsen Avakov) negoziò con il Pentagono la formazione da parte delle Forze Speciali statunitensi del Reggimento Azov, nel quadro dell’operazione Guardiani senza paura (Operation Fearless Guardian). Immediatamente i rappresentanti John Conyers Jr. (Democratici, Michigan) e Ted Yoho (Repubblicani, Florida) denunciarono l’accordo come una follia. Ricordarono che armare gli islamisti in Afghanistan aveva portato alla formazione di Al Qaeda e alla generalizzazione del terrorismo. Convinsero gli altri parlamentari che gli Stati Uniti non potevano formare neonazisti senza correre il rischio di pagarne prima o poi le conseguenze. In occasione del voto sul budget della Difesa, i parlamentari vietarono al Pentagono di attuare l’accordo e di armare il Reggimento Azov con lanciamissili (MANPAD) [2]. Il Pentagono tornò però alla carica e riuscì a far rientrare l’emendamento [3], sollevando le proteste del Centro Simon Wiesenthal.

Nello stesso periodo, il senatore John McCain (Repubblicani, Arizona), propugnatore del sostegno ai nemici della Russia, dopo aver intrattenuto legami con i capi di Al Qaeda, poi di Daesh in Libia, Libano e Siria [4], visitò un’unità del Reggimento Azov, Dnipro-1. Si congratulò calorosamente con questi bravi nazisti che sfidano la Russia, proprio come a suo tempo si era felicitato con gli jihadisti.

Fu allora che il Reggimento Azov cominciò a reclutare all’estero. Giunsero uomini da tutto l’Occidente, in particolare da Brasile, Croazia, Spagna, Stati Uniti, Francia, Grecia, Italia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Scandinavia, Regno Unito e Russia. Questo in contrasto con gli Accordi di Minsk, di cui Francia e Germania sono garanti, che vietano formalmente alle autorità di Kiev d’ingaggiare mercenari stranieri. Il Reggimento Azov ha organizzato anche campi per i giovani, frequentati da 15 mila adolescenti, nonché associazioni per i civili; sicché il Reggimento è arrivato a contare 10 mila uomini operativi e almeno il doppio di “simpatizzanti”. Andriy Biletsky poteva dichiarare che il Reggimento aveva la missione storica di unire «le razze bianche dell’intero pianeta in un’ultima crociata per la propria sopravvivenza […] una crociata contro i subumani capeggiati dagli ebrei».

Due rapporti del principe Zeid Raad al-Hussein, quale Alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti dell’uomo, attestano i crimini di guerra commessi dal Reggimento Azov [5].

Nel 2017 una delegazione ufficiale della Nato, che comprendeva ufficiali di Stati Uniti e Canada, incontrò ufficialmente il Reggimento Azov.

Numerosissimi media hanno dedicato reportage ai gruppi neonazisti ucraini. Tutti, senza eccezioni, erano orripilati dall’ideologia e dalla violenza del Reggimento Azov. Per fare un esempio, l’Huffington Post, in un articolo intitolato «Nota per l’Ucraina: basta coprire il dossier politico», metteva in guardia contro la compiacenza dei responsabili politici ucraini [6].

Nel 2018 l’FBI entrò nuovamente in conflitto con la CIA. Stavolta a proposito dei neonazisti statunitensi che, dopo essere andati ad addestrarsi presso il Reggimento Azov, erano tornati per perpetrare violenze sul suolo americano. Il Movimento per elevarsi al di sopra (Rise Above Movement, RAM), un pericolo interno per gli USA, era stato addestrato in Ucraina dalla CIA [7].

Dopo gli attentati di Christchuch (Nuova Zelanda) del 2019, che fecero 51 morti e 49 feriti, 39 membri della Camera dei Rappresentanti USA scrissero al dipartimento di Stato per chiedere che il Reggimento Azov fosse considerato “organizzazione terrorista straniera” (FTO) in quanto il terrorista neozelandese aveva frequentato l’organizzazione ucraina.

Nel 2020 il miliardario Erik Prince, fondatore dell’esercito privato Blackwater, sottoscrisse diversi contratti con l’Ucraina. Uno di questi gli dava mano libera per inquadrare il Reggimento Azov. Prince sperava di prendere il controllo dell’industria degli armamenti ucraina ereditata dall’Unione Sovietica [8].

Il 21 luglio 2021 il presidente Volodymyr Zelensky ha promulgato una legge sui «popoli autoctoni», con la quale si riconosce il godimento dei Diritti dell’uomo e del cittadino e delle Libertà fondamentali solo agli ucraini di origine scandinava o germanica, non a quelli di origine slava. È la prima legge razziale in Europa da 77 anni.

Il 2 novembre 2021, su suggerimento di Victoria Nuland, il presidente Zelensky ha nominato Dmitro Yarosh consigliere del comandante in capo delle forze armate ucraine, generale Valerii Zaluzhnyi, con l’incarico di preparare l’attacco al Donbass e alla Crimea. È importante ricordare che Yarosh è nazista, mentre Nuland e Zelensky sono ebrei ucraini (Nuland, cittadina statunitense, lo è per le proprie origini).

In otto anni, dal cambio di regime all’operazione militare russa esclusa, i neonazisti in Ucraina hanno ucciso almeno 14.000 ucraini.

LA SFIDA MORALE DI ISRAELE

Il presidente Zelensky ha risposto alla denuncia dell’omologo russo di una «banda di neonazisti» al potere a Kiev, affermando che è impossibile, dal momento che egli stesso è ebreo. Per di più, al sesto giorno di conflitto Zelensky ha accusato la Russia di aver bombardato il memoriale di Babi Yar, dove 33 mila ebrei furono massacrati dai nazisti: di certo lui non sosteneva i nazisti, i russi invece ne cancellavano i crimini.

La reazione del Memoriale Yad Vashem, istituzione israeliana che coltiva la memoria della “soluzione finale della questione ebraica” da parte dei nazisti è stata immediata: in un comunicato rabbioso ha affermato che è oltraggioso che la Russia parifichi l’estrema destra ucraina ai nazisti della Shoah, e ancor più che bombardi un luogo della memoria.

Giornalisti israeliani sono andati sul luogo incriminato e hanno constatato che non è mai stato bombardato: il presidente ucraino aveva mentito. Il portavoce del Cremlino, Dmitry Preskov, ha successivamente invitato il Memoriale Yad Vashem a mandare una delegazione in Ucraina affinché constati de visu, protetta dall’esercito russo, ciò a cui si riferisce il presidente Putin.

Silenzio assoluto: e se il Cremlino, come già il Centro Simon Wiesenthal, dicesse il vero? E se gli ebrei straussiani degli Stati Uniti, il leader ucraino ebreo Ihor Kolomoïsky, nonché il suo dipendente, il presidente ebreo Volodymyr Zelensky lavorassero davvero con veri nazisti?

Il primo ministro israeliano Naftali Bennett si recava immediatamente a Mosca e successivamente riceveva il cancelliere Scholz a Tel Aviv; poi telefonava al presidente ucraino, la cui malafede è lampante. Presentato come un ennesimo tentativo di pace, il viaggio di Bennett aveva in realtà lo scopo di appurare se gli Stati Uniti s’appoggino davvero su autentici nazisti. Disorientato da quel che ha scoperto, Bennett richiamava il presidente Putin incontrato il giorno prima. Telefonava anche a diversi capi di Stato membri della Nato.

Sarebbe auspicabile che Bennett rendesse pubblico quanto ha accertato, ma è poco probabile. Dovrebbe riaprire un dossier dimenticato, quello delle relazioni tra alcuni sionisti e i nazisti. Perché David Ben Gourion affermava che Ze’ev Jabotinski, fondatore del sionismo revisionista, era un fascista o forse un nazista? Chi sono gli ebrei che accolsero calorosamente in Palestina, prima che prendesse il potere Adolf Hitler, una delegazione ufficiale del partito nazista, il NSDAP, che praticava pogrom in Germania? Chi nel 1933 ha negoziato l’accordo per il trasferimento degli ebrei (il cosiddetto Accordo Haavara) e mantenuto una sede a Berlino fino al 1939? Domande cui gli storici solitamente non rispondono. Per tornare ai nostri giorni, è vero, come asseriscono molti testimoni, che il professor Leo Strauss insegnava agli allievi ebrei che per proteggersi da una nuova Shoah dovevano costruire la propria dittatura con gli stessi metodi dei nazisti?

Evidentemente Naftali Bennett non ha aderito alla narrazione di Ucraina e Nato. Ha dichiarato che il presidente russo non teorizzava un complotto, non era irrazionale e non era malato di mente. Invece il presidente Zelensky, interrogato sul sostegno dello Stato ebraico, ha risposto: «Ho parlato con il primo ministro di Israele. Ve lo dico francamente, e potrebbe suonare quasi offensivo, ma penso di avere il dovere di dirlo: le nostre relazioni non sono cattive, non sono affatto cattive. Ma in momenti come questo le relazioni sono messe alla prova, nei momenti più difficili, quando l’aiuto e il sostegno sono necessari. Non penso che [Bennett] sia avvolto nella nostra bandiera».

Israele dovrebbe ritirarsi dal conflitto ucraino. Se improvvisamente cambia idea su qualcos’altro e litiga con Washington, saprai perché. 

Di Thierry Meyssan, voltairenet.org

Traduzione

Rachele Marmetti

"Solo oggi siete pacifisti e ipocriti e questa cosa è ancora peggiore". Lo sfogo del reporter italiano: “Nel Donbass l’Ucraina bombarda da 8 anni, dove eravate?” Redazione su Il Riformista l'1 Marzo 2022. 

“Questo è il centro di Donetsk che in questo momento viene bombardato e non dalla Russia, non da Putin ma dall’esercito ucraino“. E’ lo sfogo del reporter italiano Vittorio Rangeloni che dal 2015 vive nel Donbass. “In questi giorni sono tante le persone che scendono nelle piazza d’Italia e non solo nel mondo e invocano la pace, condannano la Russia, manifestano contro la guerra. Tutto questo è fantastico, è giusto, la guerra è qualcosa di sbagliato, di ingiusto ma è altrettanto sbagliata l’ipocrisia di chi se ne fotte del fatto che…”.

Originario di Lecco, Rangeloni attacca: “Non è una cosa che accade in questi giorni ma sono 8 anni che tutti i giorni sparano contro queste città e a voi non ve n’è fregato assolutamente niente, solo oggi siete pacifisti e ipocriti e questa cosa è ancora peggiore. Scusate lo sfogo…“. Raggiunto anche dall’Adnkronos, il reporter parla di “bagno di sangue” a Mariupol, nel sud dell’Ucraina, accerchiata oggi dalle truppe russe e dalle milizie popolari di Donetsk, nel Donbass. ”Ci saranno enormi perdite, scorrerà molto sangue da entrambi le parti” e a pagare ”saranno anche i civili”, perché ”le milizie popolari hanno creato due corridoi umanitari dando alla popolazione la possibilità di uscire da Mariupol e andare a Donetsk o nella Federazione russa, ma i soldati ucraini glielo stanno impedendo facendo da scudo con i loro corpi”.

Poi aggiunge: “Domani o dopodomani andrò a Mariupol, o almeno lì vicino, per capire quello che succede”. Per ora dice di ricevere ”messaggi dalla popolazione di Mariupol che dicono di stare attenti, che sono stati minati i ponti, le strade e che i militari ucraini hanno creato posizioni nel centro della città, nei parchi gioco e negli asili”. Secondo Rangeloni “da domani inizieranno le operazioni di bonifica della città”, ovvero ”si cercherà in modo molto difficile di avanzare o di far deporre le armi all’esercito ucraino, o di colpirlo dove si trova”. Ma sarà ”una battaglia molto difficile”. Anche perché a Mariupol ha la sua base il reggimento Azov, reparto militare ultranazionalista ucraino, e la 36esima brigata della Marina militare ucraina. ”Si sono trincerati in città e la città ora è assediata. Purtroppo ci sono tutte le premesse per una battaglia pesante”, afferma.

Il punto del giorno del direttore del Corriere della Sera. Luciano Fontana su CorriereTv su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2022.

Dovremo per un periodo non breve avere ancora davanti agli occhi le immagini della guerra e delle distruzioni: Putin vuole ottenere il massimo possibile dal terrore che ha scatenato. A una trattativa vera prima o poi si arriverà. Determinante a questo punto la capacità di resistenza degli ucraini: ecco perché è immorale (e molto pericoloso) chiedere a loro di arrendersi a Putin.

Tagadà, scintille tra l'imprenditore e il giornalista ucraino: “Arrendetevi, non capisco la resistenza”, “Tornatene in Italia”. Il Tempo il 14 marzo 2022.

Maurizio Balzano è un imprenditore italiano che lavora a Kiev ed avendo una compagna ucraina che vuole restare in patria ha deciso di non lasciare il paese per far ritorno in Italia. Balzano è ospite della puntata del 14 marzo di Tagadà, programma di La7 condotto da Tiziana Panella, e spiega i motivi della sua scelta: “Il mio posto è qui, non intendo andar via senza di loro. Abbiamo deciso di rimanere, i suoi genitori vivono qui e non vogliono andare via, sono anziani. Paura? Molta, molta, non ho mai visto in Italia il patriottismo che c’è in questa nazione, una cosa veramente enorme, qui la gente morirebbe per la patria, io questo concetto non lo riesco a capire. Secondo me la cosa giusta sarebbe la resa, già sappiamo come può finire questa guerra, c’è un solo modo. Non possiamo giocare contro la Russia, non ci possono aiutare gli europei, non ci possono aiutare gli americani, l’unico modo è la resa ed accettare l’evidenza. E basta, non c’è modo di rimanere vivi, il presidente deve aiutare il proprio popolo, dopo deve fare altro, ma prima deve salvare il proprio popolo. Io li ammiro”.

Cazzola: «Provo tristezza per quei nostri “pacefondai” che vogliono costringere l’Ucraina alla resa». Intervista al professore Giuliano Cazzola: «L'invio di armi a Kiev è la sola vera sanzione da adottare contro la Russia». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 15 marzo 2022.

Professor Cazzola, si parla di una richiesta di aiuto militare della Russia alla Cina, con smentita di Pechino: in che modo la Cina può influenzare o meno il conflitto?

La Cina potrebbe agire da mediatore e da garante, insieme alle altre grandi potenze. È purtroppo evidente che la cessazione del conflitto comporterà delle rinunce territoriali da parte dell’Ucraina. In questo caso però la nazione aggredita non dovrebbe accollarsene da sola la responsabilità. Se la assumerebbero in solido le potenze mediatrici, garantendo nel contempo la sicurezza dell’Ucraina. Così fu col memorandum di Budapest del 1994, in cui veniva garantita l’integrità territoriale e la sicurezza della Ucraina, in cambio della riconsegna alla Russia di 1900 testate nucleari, ereditate dal crollo dell’Urss. A sottoscrivere il memorandum furono la Federazione Russa, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la neonata Repubblica Ucraina. In seguito si aggiunsero Francia e Cina.

Non c’è il rischio che far entrare la Cina nella partita generi un conflitto Oriente-Occidente?

Se la Cina accettasse di essere coinvolta nel conflitto ciò significherebbe che il mondo si troverebbe in guerra senza essersene reso conto. In ogni caso è questione di tempo, ma dobbiamo aspettarci un’aggressione di Taiwan. Nei mesi scorsi la Cina popolare ha fatto incetta di tutto sui mercati internazionali; persino delle derrate alimentari. In Occidente si è pensato che lo facesse in vista di una nuova pandemia, ma gli attuali scenari evidenziano una prospettiva diversa.

Ha ragione Cingolani a dire che gli aumenti dei carburanti sono una truffa?

Cingolani è il ministro competente ed è una persona seria. Se davvero c’è speculazione il governo deve venirne a capo con le misure necessarie in un ambito europeo.

Si dibatte sull’invio di armi a Kiev, la cui quantità può essere aumentata a dismisura. È d’accordo?

Certamente. È la sola vera sanzione da adottare. Putin verrà al tavolo del negoziato se l’Ucraina continuerà a resistere e lo zar capirà che l’aggressione comporterà costi umani e materiali superiori alle previsioni. Provo una rivolta morale nei confronti dei “pacefondai’’ di casa nostra che pur di indurre l’Ucraina alla resa lo vorrebbero disarmata. Anche lo spauracchio della guerra nucleare è frutto della nostra vigliaccheria. Putin sa bene che una guerra nucleare porterebbe morti e distruzioni anche in Russia. Il cosiddetto equilibrio del Terrore ha salvato la pace nel mondo per circa 80 anni. I “putiniani a loro insaputa’’ sostengono che Putin non è impazzito. Se è così saprà anche regolarsi.

C’è un modo, oltre alla diplomazia e alle armi, con il quale il nostro paese può contribuire a sostenere Kiev, o l’unica cosa da fare è continuare a inviare loro le armi che chiedono?

Ci sono le iniziative da concordare in sede Ue e Nato con i paesi alleati; c’è la disponibilità all’accoglienza. Le armi sono per ora l’aiuto più efficace. Poi è ora che finisca l’età dell’innocenza. Dal 24 febbraio sappiamo che – se riusciamo a scamparla – la prima cosa da fare è quella di una politica di riarmo dell’Occidente, sul modello della Germania.

Sgarbi: «Non diamo armi: un morto russo conta quanto un morto ucraino». Intervista a Vittorio Sgarbi: «Siamo tutti d’accordo che dare armi a chi resiste è qualcosa di per sé nobile, ma in questo modo non si fa altro che alimentare il conflitto». Giacomo Puletti su Il Dubbio il 15 marzo 2022.

Onorevole Sgarbi, in base al decreto approvato dieci giorni fa l’Italia potrebbe continuare a dare armi a dismisura all’Ucraina. Se la guerra dovesse continuare a lungo, dovremmo prima o poi fermarci nel sostenere Kiev?

L’Italia doveva evitare dal principio di fornire armi all’Ucraina, perché l’articolo 11 della nostra Costituzione, tanto citato di questi tempi, spiega che il nostro paese ripudia la guerra. Certo, siamo tutti d’accordo che dare armi a chi resiste contro un’aggressione è qualcosa di per sé nobile, ma in questo modo non si fa altro che alimentare il conflitto. Occorre continuare nel lavoro diplomatico così da indurre le parti a un accordo. Anche perché un morto russo conta esattamente quanto un morto ucraino, e finché continuiamo a dare armi moriranno gli uni come gli altri.

Può essere la Cina quella grande potenza che si pone da mediatore tra la Russia e il blocco occidentale rappresentato dalla NATO o Pechino è troppo vicina a Mosca perché possa dirsi equidistante?

L’intervento della Cina nella partita che si sta giocano è del tutto logica e ragionevole, ma dimostra che Putin non è affatto isolato. Pechino è un alleato di Mosca, e questo significa che il presidente russo ha vicino a sé un popolo più grande dell’Europa e un paese che è una grande potenza economica. Se la Cina dovesse entrare nel conflitto fornendo aiuti militari alla Russia, questo dimostrerebbe che il piano di Putin era chiaro fin dall’inizio e contava sull’appoggio di Pechino. L’obiettivo evidente è potenziare l’alleanza Russia-Cina in chiave anti occidentale.

A proposito di Occidente, l’arma principale usata finora è l’insieme di sanzioni economiche contro la Russia, ma questo penalizza alcuni paesi tra cui Germania e Italia: come se ne esce?

Stiamo dando sanzioni a un paese che continua a fornirci il gas e l’energia di cui abbiamo bisogno. Il che significa che se questo piano strategico dovesse continuare dovremo presto trovare alternative a quelle fonti. Per questo il nucleare di quarta generazione è l’unica soluzione. Puntare sulle rinnovabili tipo il fotovoltaico o le pale eoliche significa distruggere ulteriormente il paesaggio, senza poi ottenere i risultati sperati.

Nel frattempo però i costi aumentano e Cingolani ha parlato di una «truffa colossale». Ha ragione o in quanto ministro della Transizione ecologica dovrebbe fare di più?

Il ministro Cingolani ha totalmente ragione. Purtroppo la nostra non autosufficienza energetica è un peccato originale, ma non è irreparabile. Tuttavia mi pare evidente che nel frattempo dobbiamo continuare a comprare gas, nel breve periodo non c’è altra soluzione.

Partigiano, ucraini arrendetevi per salvare l'umanità. ANSA il 13 marzo 2022. "Ai ragazzi ucraini che stanno combattendo dico di arrendersi. Solo se loro si salveranno, potranno salvare l'umanità": a dirlo all'ANSA è Maffeo Marinelli, 97 anni, uno degli ultimi partigiani d'Italia. Parole, pronunciate al telefono dalla sua casa di Pesaro, che si portano dietro la preoccupazione di un'espansione del conflitto tra Russia e Ucraina.

"So cosa significa stare in guerra, ma non c'è territorio per cui valga la pena uccidere o morire", sostiene. Gli si chiede di Vladimir Putin e la mente lo riporta al ventennio fascista e al nazismo della Seconda Guerra Mondiale, che lo vide tra i ragazzi che organizzarono la resistenza nel nord delle Marche: "Sono sicuro - insiste - che (Putin, ndr) si eliminerà da solo. Arriverà un momento in cui sarà lui stesso a mettersi in ginocchio e chiedere di essere ammazzato. Non potrà continuare a vivere con questo fardello addosso". "Guardare il cielo e vedere cadere le bombe c'è solo da vergognarsi", sottolinea l'ex partigiano che si dice convinto che "dietro a questa guerra ci sono soprattutto tanti interessi economici". "Ma agli ucraini dico di finirla qui, smettete di combattere e fatevi da parte, ci penserà Dio alla vostra terra", aggiunge Maffeo, pensando sempre alla fine del dittatore russo. Marinelli è un uomo di pace e già in altre circostanze, ricordando la Seconda Guerra Mondiale, aveva avuto modo di dire che a distanza di tanti anni non capiva ancora "il motivo per cui fu combattuta". A maggior ragione oggi, fa ancora più fatica a comprendere il conflitto in atto: "Cosa abbia Putin nella testa non si sa, certo è che se continua così mette a rischio l'umanità". "Ma guai - conclude Maffeo - pensare di andare tutti in guerra. Putin si eliminerà da solo". (ANSA).

Resa o resistenza? La scelta agli ucraini. Vittorio Macioce il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.

Resa o resistenza? C'è questa domanda che rimbalza nei discorsi sulla guerra, quasi fosse un gioco di società, dove ognuno dispensa consigli e ricette, certezze e soluzioni, discutendo di pace o libertà.

Resa o resistenza? C'è questa domanda che rimbalza nei discorsi sulla guerra, quasi fosse un gioco di società, dove ognuno dispensa consigli e ricette, certezze e soluzioni, discutendo di pace o libertà. La speranza è che questa storia finisca, prima che l'imponderabile non lasci più vie di uscita. Solo che questa risposta non la possono dare gli altri, non spetta a chi sta fuori, a chi non vede, a chi non vive, a chi non sta là. Gli unici che possono rispondere sono gli ucraini, perché solo loro conoscono il prezzo della pace e fino a che punto sono disposti a pagarlo. Tutti gli altri parlano a costo zero.

La ragione in questi casi non basta. La guerra non è mai razionale e non si risolve con un algoritmo. È evidente che questa è una roulette russa. Ogni giorno noi umani stiamo premendo il grilletto di una pistola con il terrore che prima o poi il proiettile ti trapassi il cervello. Stiamo sfidando la sorte e già questo dovrebbe far urlare tutti, ma proprio tutti, basta, stop, fermiamoci prima che sia troppo tardi. È probabile che il destino stesso dell'Ucraina sia già scritto, come suggerisce il premier israeliano Naftali Bennett. La Russia non può che vincere, a che serve allora rimandare la resa? Sarebbe un suicidio di massa, come accadde agli zeloti chiusi nella leggendaria fortezza di Masada, nel cuore del deserto, assediata dalle legioni romane di Lucio Flavio Silla. Gli ebrei scelsero di non arrendersi e si tolsero la vita l'uno con l'altro, padri ai figli, madri alle figlie, fratello a fratello. Nessuno sopravvisse. È il mito fondante di Israele. Il giuramento che mai più il popolo di Dio si sarebbe ritrovato in quella condizione senza speranza, costretti a scegliere tra la schiavitù e la vita. «Mai più Masada cadrà».

Volodymyr Zelensky, dicono, dovrebbe accettare la resa, sfuggire al suicidio, e domani creare le condizioni per cui l'Ucraina non sarà mai più costretta con le spalle al muro. Non è viltà, ma buon senso.

È che quel domani potrebbe non arrivare mai. Come fanno gli ucraini a fidarsi di Putin? A Kiev si combatte perché l'alternativa è la sottomissione allo zar. Si combatte per qualcosa che noi, che stiamo fuori, non abbiamo paura di perdere: la libertà. Non ne conosciamo il prezzo. Non sappiamo neppure cosa voglia dire, sulla pelle, nella testa. È per questo che a noi, agli altri, ci tocca il silenzio. Solo gli ucraini oggi conoscono il peso reale della resa o della resistenza.

Conferenza di pace, a quasi 80 anni di distanza da Yalta c’è bisogno di un nuovo accordo per il prossimo secolo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Marzo 2022. 

Il negoziato e la ricerca di una intesa sono la stella polare. Penso che questo possa essere un punto fermo. Poi ciascuno indica la via che gli sembra la più realistica. la più giusta. Quella pacifica, quella militare, una combinazione tra le due. Vi ricordate di Yalta? Yalta è una città della Crimea. E lì, quasi 80 anni fa, si incontrarono tre giganti della politica novecentesca: Roosevelt, Churchill e Stalin. Due di loro erano portabandiera della democrazia. Il terzo era un dittatore. Più feroce di Putin. Però se l’Occidente ha potuto, dopo Yalta, godere di quasi ottant’anni di pace e di ricchezza, se la civiltà occidentale ha avuto un incredibile salto di sviluppo, se la stessa democrazia ha toccato limiti inauditi e impensabili allora, molti dei meriti vanno alla genialità di quei tre statisti. Non dimentichiamolo.

Yalta è ancora lì. E a me pare chiarissimo che oggi di quello c’è bisogno: una nuova grande conferenza di pace, ai livelli massimi, che coinvolga tutte le grandi potenze e che delinei una ipotesi di pacifico svolgimento delle relazioni internazionali per il prossimo secolo. Non è utopia. È una possibilità concretissima. Che richiede la rinuncia al fondamentalismo, all’arroganza, e la ricerca vera non di interessi elettorali ma del bene comune. Il bene del mondo, dico.

Gli statisti non si fanno ingabbiare dagli interessi elettorali. Churchill pagò cara Yalta. Lui, l’eroe di Inghilterra, aveva vinto la guerra, sconfitto il nazismo, liberato l’Italia e la Francia, salvato l’Inghilterra, sconfitto Hitler, definito il dopoguerra e il nuovo ordine mondiale. Quattro mesi dopo Yalta, in Gran Bretagna si votò e Churchill fu travolto dai laburisti. Alla conferenza di Potsdam, dopo la presa di Berlino, in luglio, partecipò Clement Atlee per l’Inghilterra, e non c’era più neanche Roosevelt, morto improvvisamente e sostituito da Truman.

Dire Yalta vuol dire esattamente questo. No ai fondamentalisti. Anche qui in Italia. Tra di noi c’è chi è favorevole all’uso delle armi per ostacolare l’invasione russa. E all’invio di armi a Kiev. C’è chi è contrario, e si dichiara pacifista. Io sono contrario. Sul nostro giornale, tutti i giorni, ci sforziamo di illustrare le ragioni degli uni e degli altri. Perché? Per la semplicissima ragione che siamo convinti che né gli uni né gli altri siano dei folli. Folle è solo la guerra. Di fronte alla follia della guerra si possono avere idee molto diverse su come opporsi. E non per questo si è fuori di testa.

I pacifisti hanno le loro ragioni. Anche quelli che vogliono mandare armi in Ucraina le hanno. Paolo Mieli, per esempio, ha elencato tanti precedenti di resistenza armata. Tutti grandiosi. Ha ragione Mieli. Però Aldo Capitini che durante l’occupazione nazista praticò la scelta nonviolenta, o Primo Mazzolari, non erano dei traditori venduti ai tedeschi. Giusto? E la nonviolenza è una scelta discutibile, ma nobile, Quanto imbracciare il mitra, almeno. Ecco, ripartiamo da lì. Vediamo se il governo italiano può spendersi per premere verso una conferenza di pace. Senza scambiarci accuse sanguinose. Che non hanno senso. Non hanno nessun fondamento.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

“Discutiamo”, “Russia stato terrorista”. Le due strategie di Zelensky. Il presidente ucraino apre alla discussione su Donbass, Crimea e Nato. Poi attacca Putin. Redazione su nicolaporro.it su Il Giornale l'8 Marzo 2022.

Il bastone, la carota, poi di nuovo il bastone. Volodymyr Zelensky inizia la sua giornata dando per possibile, se non scontato, un nuovo conflitto globale (“credetemi, ho parlato con molti leader occidentali. Questa guerra non finirà qui, farà scoppiare la terza guerra mondiale”). Poi fa alcune timide aperture a Putin sullo status del Donbass e della Crimea (“Possiamo discutere e trovare un compromesso su come questi territori continueranno a vivere”). E infine in serata chiude la giornata con un durissimo discorso contro la Russia, collegato in videoconferenza con la Camera dei Comuni britannica. 

Sono le due strategie del presidente in maglietta, protagonista indiscusso del tredicesimo giorno di guerra, quello in cui i corridoi umanitari si sono aperti pur con qualche crepa (denunciati bombardamenti a Sumy e Mariupol) e i combattimenti sembrano reggere il traballante cessate il fuoco. Zelensky è a Kiev, lo ha mostrato in alcuni video in barba alle notizie diffuse da Mosca di una sua fuga in Polonia. Gli americani forse lo vorrebbero lì, a guidare un “governo in esilio” da Varsavia. Ma l’ex comico diventato una sorte di eroe internazionale non ci sta. “Non ci arrenderemo e non perderemo”, dice ai deputati inglesi seduti sugli scranni di Westminster. “Combatteremo fino alla fine, in mare e in aria, lo faremo per difendere la nostra terra a qualunque costo”.

La resistenza ucraina all’invasione russa conta intanto numerose vittime. Soldati, civili bombardati (migliaia per Kiev, 474 per l’Onu), truppe russe. “Ne abbiamo uccisi 10mila, compresi alcuni ufficiali”, rivendica Zelensky. Per il Pentagono il numero è decisamente inferiore, intorno ai 2-4mila. Ma è ancora presto per tirare le somme. Ora è il momento della politica. O meglio della geopolitica. Putin ha fatto sapere a Macron e Scholz che non intende fare passi indietro: vuole l’Ucraina neutrale, la Crimea riconosciuta alla Russia e il Donbass indipendente. Gli Usa hanno deciso l’embargo al petrolio e gas russo (“difendere la libertà ha un costo”, ha detto Biden). Mentre la Nato, dal canto suo, non intende intervenire in Ucraina. Si limiterà a “garantire che il conflitto non si intensifichi e non si espanda oltre”, come spiegato dal segretario generale Stoltenberg. In pratica, il freno a mano tirato.

A dire il vero si tratta di una decisione pragmatica, volta ad evitare incidenti che potrebbero portare alla guerra nucleare, ma che ha deluso Zelensky. Soprattutto sulla mancata attuazione della no-fly-zone che richiede da giorni. Forse anche per questo, oltre all’apertura sul Donbass, il presidente ucraino pare abbia anche “raffreddato” la sua posizione su un possibile ingresso dell’Ucraina nella Nato. Stando all’agenzia russa Novosti, Zelensky avrebbe chiesto ad alcuni consulenti di elaborare le condizioni per discutere il rifiuto di ingresso del Paese nell’Alleanza Atlantica. Così da “soddisfare” una delle richieste dello Zar Putin.

Il bastone e la carota, dunque. Se da un lato Zelensky apre, dall’altro attacca verbalmente il nemico senza risparmiarsi. A Boris&co. chiede di “riconoscere” la Russia “come uno Stato terrorista. Di “rafforzare le sanzioni”. Di denunciare il decesso di 50 bambini uccisi dalle bombe di Mosca. Una di loro, a soli sei anni, sarebbe morta perché “i russi non danno cibo e acqua”. “Non abbiamo iniziato questa guerra e non l’abbiamo voluta – ha concluso il presidente – Non vogliamo perdere il nostro Paese allo stesso modo in cui voi non voleste perdere il vostro Paese quando i nazisti vi stavano combattendo. Abbiamo bisogno dell’aiuto dei Paesi occidentali. Ti siamo grati Boris, ma vi prego, incrementate la pressione delle sanzioni sulla Russia, riconoscete quel Paese come uno Stato terrorista, rendete sicuri i nostri cieli”.

Intervista a Zelensky: «Non ho paura per la vita: mi protegge la mia gente». Cathrin Gilbert su Il Corriere della Sera il 10 Marzo 2022.

Intervista, via WhatsApp, al presidente ucraino. Che sul fatto di essere l’obiettivo numero 1 del Cremlino dice: «Con l’Ucraina al tuo fianco, ti senti sicuro. Questo è un principio che molti in Occidente dovrebbero imparare. Credo che la minaccia nucleare russa sia un bluff. Una cosa è agire da criminale, un’altra scegliere il suicidio». 

Presidente Zelensky, secondo quanto riferisce l’esercito ucraino, le forze russe si preparano a lanciare l’assalto a Kiev. Tra i loro obiettivi principali c’è anche quello di far fuori lei. In quale modo si sta proteggendo?

«Vivo tra la mia gente, è la migliore protezione che ci sia. Quando la Russia preparava l’invasione, Putin non poteva immaginare che gli ucraini avrebbero difeso il loro Paese con tale determinazione. Non solo pochi individui, bensì la nazione intera. Il Cremlino non pensava certamente che questa, per noi, sarebbe stata la Grande guerra patriottica — proprio come quella che l’Unione sovietica combattè contro Hitler. I collaboratori di Putin non conoscono affatto l’Ucraina. Ma noi siamo così. Con l’Ucraina al tuo fianco, ti senti al sicuro. È un principio, questo, che servirà da lezione a molti in Occidente». 

Per quale motivo pensa di essere diventato il nemico numero uno di Putin?

«È il suo modo di leggere la realtà. Quando i suoi consiglieri guardano uno Stato, non vedono i cittadini». 

Che cosa intende dire?

«Vedono solo il capo di Stato, vedono i politici, gli imprenditori potenti. I russi sperano di riuscire a comprarseli tutti o di spaventarli tutti. Ma siccome sanno che questi metodi non hanno presa su di me, sono passati alle minacce. Non potrebbe essere più chiaro di così». 

In quali condizioni sta vivendo in questo momento?

«Può facilmente immaginarlo. Dormo pochissimo, bevo una quantità impressionante di caffè, e sono costantemente impegnato in discussioni e trattative. Sto facendo molte cose indispensabili per assicurare la difesa e la salvezza dei miei connazionali». 

Ha accettato di rispondere per iscritto alle nostre domande. Il suo ufficio stampa è raggiungibile solo tramite WhatsApp e ci ha chiesto di non provare a contattarlo telefonicamente. A quanto pare, per evitare di essere localizzati dai russi.

«La mia base è in Ucraina. Mi trovo a Kiev. Non è un segreto. I quaranta milioni dei miei concittadini lo sanno».

Gli Stati Uniti le hanno offerto un passaggio per uscire dal Paese. Ha mai preso in considerazione questa possibilità?

«No. Gli americani si sono sbagliati su di me. Io resto accanto al mio popolo».

Molti uomini ucraini stanno inviando all’estero mogli e figli. Dove si trova la sua famiglia?

«La mia famiglia è in Ucraina. Preferisco non dire altro in proposito, grazie».

Già da una settimana, una colonna di mezzi corazzati, camion e artiglieria, lunga 60 km, è in marcia verso Kiev (...). Ha paura di un accerchiamento dei russi?

«No. Non abbiamo paura. Abbiamo già dimostrato al mondo che sappiamo difenderci. Ma siccome parlate di paura, ho una cosa da dirvi: non siamo noi a doverci sentire intimoriti, bensì i politici di tutto il mondo. Voglio dire, tutti coloro che oggi guardano all’Ucraina e si chiedono: anche il mio Paese rischia l’invasione? Quello che la Russia sta facendo all’Ucraina in questo momento, altri Paesi potrebbero tentare di farlo nei confronti dei loro vicini. Ed è per questo che la difesa dell’Ucraina e il sostegno dell’Occidente, rappresentano realmente una mobilitazione globale contro la guerra. Tutti i potenziali aggressori in giro per il mondo devono sapere che cosa li aspetta, se osano scatenare una guerra».

Per quanto tempo Kiev può resistere a un assedio?

«Le forze russe dovevano occupare Kiev già nei primi giorni di guerra. A che punto sono adesso? L’Ucraina sta difendendo la sua sovranità. Stiamo combattendo per tutelare l’esistenza di Stati come l’Ucraina e mantenerla sulla mappa politica mondiale, lo Stato indipendente del popolo multiculturale ucraino».

L’Occidente sta aiutando l’Ucraina rifornendola di armi. (...) Questo materiale sta arrivando in tempo?

«Buona domanda. Vorrei aggiungere qualche particolare. Solo pochi mesi fa, la guerra non c’era ancora, ma tutti capivano che l’invasione era imminente. Le truppe russe erano già ammassate lungo le nostre frontiere. Ho chiesto di colpire la Russia con le sanzioni, in modo che Putin ci ripensasse. Ma non è stato fatto. Ho chiesto aiuti per l’Ucraina, per rafforzare le sue difese. Anche questo non è stato fatto. Adesso siamo davanti all’invasione. L’esercito russo sta annientando le nostre città e mitragliando i profughi lungo le strade. Ma lo capite? Stanno massacrando anche i civili in fuga. I loro missili colpiscono palazzi, chiese, università. Siamo alla barbarie. Sì, stiamo ricevendo forniture di armi. Ma è chiaro che ci serve ben altro. Perché la barbarie non conosce limiti».

Presidente, lei è di fede ebraica. Che cosa ha pensato quando Putin ha dichiarato che la popolazione del Donbass doveva essere salvata dal genocidio e occorreva liberare l’Ucraina dal governo di presunti nazisti?

«Sono convinto che il presidente russo ben di rado si confronta con persone oneste e sincere. Qualunque cosa gli arrivi all’orecchio o gli venga consegnato nei rapporti scritti, questo è quanto sentiamo dire da lui».

La sorprende che Putin sia tentato di andare avanti a oltranza?

«L’invasione non è stata una sorpresa, ma la brutalità sì. Quello che i soldati russi stanno facendo ai civili va al di là di ogni immaginazione. Le bombe sulle case e sui palazzi. I sistemi missilistici che stanno usando per colpire i quartieri residenziali. Questi sono crimini di guerra».

Migliaia di civili ucraini, uomini e donne, hanno deciso di andare in battaglia. Ma lei non ha lasciato la scelta agli uomini. Ha senso spedire uomini impreparati a combattere contro soldati di professione?

«Se non si tratta di difendere semplicemente una zona, ma un Paese intero, ti ingegni come puoi. Noi non disponiamo di altrettanti soldati come la Russia. Nè possiamo misurarci con i loro mezzi e i loro missili. Ma abbiamo qualcosa che loro non hanno: un popolo che ama la libertà ed è pronto a combattere per difenderla. Questa è una guerra del popolo e ogni cittadino ha un ruolo da svolgere. Specie quando si tratta della difesa del territorio».

L’Occidente ha colpito la Russia con sanzioni durissime: le ritiene sufficienti?

«Se lo fossero, l’offensiva sarebbe stata già fermata. Ma si continua a comprare petrolio e gas dalla Russia. Le imprese occidentali sono ancora attive nel mercato russo, nascondendosi dietro varie scuse. Sì, sono state imposte le sanzioni, e ve ne siamo grati. Ma noi in questo momento siamo bersaglio di un attacco che ci riporta alla mente i momenti peggiori della Seconda guerra mondiale. È per questo che le sanzioni devono essere ulteriormente inasprite».

Quali altre sanzioni servirebbero?

«Quando parliamo di sanzioni, occorre innanzitutto bloccare l’esportazione di gas e prodotti petroliferi. Chiudere i porti di tutto il mondo alle navi russe. I trasportatori devono rifiutarsi di inviare e ricevere merci da o per la Russia. Escludere tutte le banche russe dal sistema SWIFT, e dico tutte, senza eccezioni. Queste sono le azioni concrete da intraprendere. Se non lo fate adesso, sarete costretti ad adottare misure molto più pesanti per proteggere le repubbliche baltiche, la Polonia, la Moldavia, la Georgia, ed altri Paesi confinanti con la Russia da possibili invasioni. Ed è inoltre di importanza cruciale che i Paesi occidentali stabiliscano una no-fly zone umanitaria sull’Ucraina».

L’Occidente non può dichiarare una no-fly zone, altrimenti ogni velivolo russo nei cieli ucraini dovrebbe essere abbattuto. E un’azione del genere segnerebbe l’inizio della Terza guerra mondiale.

«Allora dateci aerei da combattimento e sistemi di difesa antiaerea e ai nostri cieli ci penseremo noi».

Crede che le pressioni economiche costringeranno Putin a rinunciare alla sua impresa?

«L’Occidente non ha ancora esercitato il genere di pressioni economiche tali da giustificare questa ipotesi».

Continuano i negoziati tra le delegazioni russa e ucraina. Ci crede sul serio?

«L’Ucraina ha sempre proposto alla Russia di negoziare, di trattare la pace. La pace è il primo dei nostri obiettivi. Ma per prendere sul serio i negoziati, occorre vedere i risultati. E io ancora non ne vedo».

Putin minaccia la guerra nucleare contro l’Occidente, nel caso di intervento diretto. Crede che sia possibile?

«Credo che la minaccia di guerra nucleare non è altro che un bluff. Una cosa è agire da assassino criminale, un’altra scegliere il suicidio. L’utilizzo di armi nucleari significa la fine per tutte le parti in causa, non solo per chi schiaccia il bottone per primo. A mio avviso, le minacce di Putin sono un segnale di debolezza. Ricorre alla minaccia delle armi nucleari perché i suoi piani non stanno funzionando. Sono certo che la Russia è ben consapevole delle conseguenze catastrofiche di qualunque tentativo di far uso delle armi nucleari».

Nel 1994 l’Ucraina consegnò le sue armi nucleari. In cambio, Russia, Gran Bretagna e Usa si impegnarono a tutelarne la sovranità. Lei crede che fu un errore storico firmare quell’accordo?

«I firmatari hanno violato i termini del Memorandum di Budapest, questo è stato l’errore. Se l’accordo avesse ottenuto il suo scopo, si potrebbe dire ai Paesi che vogliono dotarsi di armi nucleari: ecco le garanzie per la vostra sicurezza, rinunciate alle armi nucleari. L’aggressione di Putin, invece, ha inviato ben altro segnale a tutto il mondo: quelle garanzie sono carta straccia, anche se recano la firma delle superpotenze. Persino la Russia si dichiarò garante della nostra sicurezza e adesso fa di tutto per annientarci. Chi ci crederà più, al potere dei trattati? Perciò punire severamente la Russia è l’unico modo per riconfermare la legittimità dei trattati internazionali. E l’Occidente può farlo».

Gira voce che lei abbia offerto 40.000 dollari a ogni soldato russo disposto a deporre le armi. La proposta è ancora valida?

«Non posso rivelare tattiche militari ma confermo che abbiamo già catturato centinaia di soldati russi».

L’Ucraina ha chiesto di entrare a far parte dell’Unione europea. Quali sarebbero i vantaggi per il suo Paese?

«L’Ucraina vanta già una stretta collaborazione con l’Ue. Il nostro popolo vuole libertà e democrazia. Con un Paese membro come l’Ucraina, l’Unione europea si assicura una nazione amica capace di combattere con tutte le sue forze per la libertà, la democrazia e l’uguaglianza, e quindi per l’Europa intera. Per il mio Paese, questo significa il traguardo di un lungo cammino che abbiamo percorso per ricongiungerci alla comunità europea, alla quale storicamente apparteniamo».

Solo pochi anni fa, la sua vita era molto diversa, da attore e regista. Adesso la sua vita è carica di gravi responsabilità. Si chiede qualche volta se ne è valsa la pena?

«Scusate, ma è una domanda davvero strana. Io non ho altra scelta. Bisogna combattere per la libertà. Sempre. E non conta chi sono stato in passato e chi sono adesso. Bisogna essere liberi, per assicurare la libertà ai nostri figli e alle nostre famiglie».

Se la Russia sconfigge l’Ucraina, che farà Putin del vostro Paese?

«È chiarissimo: chiunque, come i russi, è capace di bombardare gli asili o sparare missili Cruise contro case e palazzi è anche pronto a compiere le azioni più efferate. Si può tentare di annientare la popolazione, come si è già fatto in altre parti del mondo. Ma la Russia non riuscirà nel suo intento. L’Ucraina, con il sostegno del mondo intero, ha la forza necessaria per respingere l’invasione».

Crede che Putin stia già prendendo di mira altri Paesi, come la Moldavia?

«Ma siete a conoscenza di quanto annunciato a Mosca negli ultimi anni? Avete mai sentito una sola frase rispettosa nei confronti dell’Ue? Credete che Putin riconosca l’Europa come potenza alla pari? No. Il suo scopo è quello di dividere e lacerare l’Europa, come sta facendo con l’Ucraina. Ascoltate quello che dice la propaganda russa. Lo predicano persino dalle loro chiese, che bisogna conquistare altri Stati: la Moldavia, la Georgia, le repubbliche baltiche. A mio avviso anche la Polonia è minacciata. Anzi, l’intero continente europeo è in pericolo, fintanto che a Putin verrà consentito di aggredire un Paese vicino». (Traduzione di Rita Baldassarre)

Cari ucraini, adesso arrendetevi altrimenti ci rovinate la Pasquetta. La resistenza di Kiev spaventa anche l’Occidente. Che traveste i suoi interessi di realismo e ipocrisia. Daniele Zaccaria su Il Dubbio l'11 marzo 2022.

C’è stato il colpo di coda dell’inverno, ma ora il sole sbiadito di marzo annuncia la bella stagione: tempo di alberi in fiore, di gite fuori porta e picnic sull’erba. Il Covid, poi, non fa più paura come un tempo: i contagi diminuiscono, i virologi tornano a fare il loro mestiere nei reparti d’ ospedale e, a poco a poco, si sta tornando tutti alla normalità. Se non fosse per quella seccatura della guerra questo sarebbe un periodo bellissimo. Già la guerra, a due passi dall’Europa per giunta. Angosciante e fastidiosa.

In verità, per molti europei, molto più fastidiosa che angosciante. Ma guai a dirlo. Meglio esprimerlo in forme oblique, magari ammantate di realismo. Eccone una: ma cosa resistono a fare quei fanatici irresponsabili degli ucraini, perché non si arrendono allo strapotere militare dei russi e la finiamo lì? Una posizione trasversale agli schieramenti politici che serpeggia compatta nell’opinione pubblica. E che avrebbe anche un sua logica pietistica: consegnandosi agli invasori gli ucraini avrebbero in cambio la pace, al contrario, combattendoli e rifiutandosi di rendre gorge, il conflitto durerà più a lungo e maggiore sarà il numero di vittime. Curiosa inversione etica però: gli invasi sarebbero i responsabili delle sofferenze causate dagli invasori. E noi sul trespolo, a sdottoreggiare, a decidere quel che è bene e quel che è male per gli altri, da primi della classe come siamo sempre stati, prima esperti di virus e pandemie, ora di guerre convenzionali e geopolitica. «L’unica soluzione è la diplomazia», ripetiamo da settimane, un’ovvietà che purtroppo non tiene conto dei fatti. Mentre l’artiglieria di Mosca martella le città da Karhiv a Mariupol, milioni di persone hanno deciso di non abbandonare le proprie case, di difendersi. Sarebbe più prudente scappare dalle bombe? Sicuro, il problema è che milioni di ucraini non hanno alcuna intenzione di farlo, piuttosto sono pronti a morire. Per noi occidentali cullati dal moto perpetuo del benessere può sembrare folle e autodistruttivo.

Così il “pazzo” non è più Vladimir Putin, ossia chi ha portato la guerra fisicamente in Ucraina, ma il presidente Zelensky che si ostina a chiedere armi a Europa e Stati Uniti. Già lo vedevano in esilio a sorseggiare cocktail su una spiaggia della Florida con le vecchie camicette colorate di quando faceva il comico. Trovarselo in mimetica asserragliato nel Palazzo Mariinskij di Kiev come una specie di improbabile Allende dell’est Europa ha creato non poche dissonanze cognitive. Risolte in modo sbrigativo: abbiamo a che fare con un cretino, magari anche un mezzo “nazista” come dicono i russi e i loro non pochi ammiratori europei.

Spesso la spocchia intellettuale nasconde pulsioni meschine, ricopriamo di pensose analisi i nostri interessi più immediati, di compassione le nostre grettezze. Uno sforzo di sincerità renderebbe invece meno ipocrita questo cinismo: siamo contro le sanzioni alla cerchia del Cremlino per timore di alimentare un conflitto globale o semplicemente perché abbiamo bisogno del gas russo? Come faremo a scaldare i nostri salotti e le nostre vacanze in montagna senza il prezioso metano di Putin?

Proprio ora che intravedevamo la ripresa saremo flagellati dai rincari delle bollette, forse dall’austherity come con la crisi petrolifera degli anni 70. Dileggiamo la resistenza ucraina per empatia verso la popolazione civile o semplicemente per paura che il conflitto si avvicini alle nostre porte? Non c’è niente di male ad aver paura della guerra, noi che non la guardiamo negli occhi da oltre 75 anni, basta dirlo però, senza supercazzole. Peccato che gli ucraini non possano fare lo stesso. Loro la guerra ce l’hanno già in casa.

Nostalgici dell’Urss e partito della «resa umanitaria»: in Italia la nuova alleanza dei putiniani. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2022. 

Sta emergendo un movimento a favore del tiranno. L’obiettivo è portare l’Italia nel campo di Mosca, sostenendo che «arrendersi è un dovere morale». 

Il «partito della resa» ha gettato la maschera. È ancora minoritario, ma punta ormai al bersaglio grosso: portare l’Italia nel campo di Mosca, confermando così l’antico pregiudizio per cui non finiamo mai una guerra dalla parte in cui l’abbiamo cominciata. Abbandonata l’equidistanza iniziale del «né con Putin, né con la Nato», superata la «neutralità attiva», sta venendo infatti allo scoperto un movimento, per ora più mediatico che altro, di sostegno esplicito al tiranno. Tenterà di sfruttare l’angoscia e la paura degli italiani per aiutarlo a vincere la guerra in Ucraina.

Il successo che finora non ha ottenuto sul campo, a causa della sorprendente resistenza ucraina, Putin può infatti raggiungerlo in un altro modo: se cede il fronte interno dell’Occidente, e si raffredda il sostegno alla causa di Kiev.

Così in marcia con Putin è tornata pure la «vecchia guardia», un’attempata ma intellettualmente dotata pattuglia di nostalgici dell’Urss, per i quali la sua caduta è stata «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». L’Economist ha dedicato la copertina alla «stalinizzazione» di Putin: sempre più aggressivo fuori dai confini, sempre più dittatore in patria, dove si rischiano quindici anni di carcere a chiamare «guerra» la guerra. Magari il paragone è un po’ esagerato, anche se lo stesso Putin l’ha evocato dicendo di voler «denazificare l’Ucraina». Ma di sicuro ha galvanizzato i nostri ex bolscevichi in sonno: per loro la colpa è degli ucraini. E allora basta commuoversi — l’ha detto Luciano Canfora — «con la storia di Irina che perde il bambino, un caso particolare»: ciò che conta è la Storia con la S maiuscola, e quella cammina sui cingoli dei carri armati, e chi più ne ha vincerà.

La «new entry» tra i putinieri di complemento sono invece quelli della «resa umanitaria». Sostengono che arrendersi è un dovere morale (era il titolo di apertura del Riformista di ieri), per risparmiare vite e sofferenze. È un’altra forma di «spaesamento etico» che nasce a sinistra, solo in apparenza più pacifista della versione neo-stalinista, perché è proprio per averla avuta vinta in Georgia, in Crimea, nel Donbass, in Siria, che Putin si è deciso a fare di nuovo la guerra, e su più larga scala. La resa è la droga dei tiranni: più ne avranno e più ne vorranno. L’unico difetto di questa proposta è che i diretti interessati, gli ucraini, non sembrano condividerla. Bisognerebbe insomma costringerli alla resa. Esattamente ciò che sta provando a fare Putin. E così il cerchio si chiude.

Altri cerchi si chiudono invece tra destra e sinistra nel variegato mondo social dell’hashtag #IoStoConPutin. Secondo una ricerca di «Reputation Science», pochi account iniziali hanno alzato un’onda tra tutti coloro che credono a Lavrov quando dice che «questa non è un’invasione», ma non hanno creduto al Covid e alle bare di Bergamo, e prima ancora all’abbattimento delle Twin Towers o allo sbarco sulla Luna. Accomunati dall’odio per l’establishment, l’Europa e la democrazia, eroici combattenti per la libertà degli italiani dal green pass si battono ora per la schiavitù degli ucraini. Se vince Putin, perdono Draghi, Macron e von der Leyen, e tanto per loro basta. Perfino tra i deputati, ovviamente Cinquestelle, ce n’è qualcuno, come tal Lorenzoni, che non vuole Zelensky in collegamento con Montecitorio «perché l’Ucraina è un Paese schierato in guerra».

Al Bano, al confronto, è un gigante. Citiamo la reazione indignata del cantante italiano più amato in Russia («Come non cambiare idea su Putin con quello che sta facendo?») perché la grande maggioranza degli italiani la pensa come lui e non come i nostri putinieri. Ma c’è un ma: la guerra alla lunga porterà anche da noi, se non sangue, sudore e lacrime. Già si parla di razionamenti, di austerity, di un grado o due in meno di riscaldamento, di guai grossi per l’industria agroalimentare e per la spesa. E infatti da qualche giorno la parte più «populista» dei media si concentra sulla benzina piuttosto che sull’Ucraina. Il grande pericolo è che le due spinte, quella politica a favore del tiranno e quella sociale per difendere il nostro tenore di vita già squassato dalla pandemia, si congiungano intorno all’illusione che se la diamo vinta a Putin tutto tornerà come prima. Sbagliato da ogni punto di vista: resteremmo solo dalla parte sbagliata di un’emergenza che non finirebbe certo con la resa dell’Italia. Ma tocca al nostro governo — insieme a quelli dell’Europa — evitare questo corto circuito, mettendo in campo le idee e le risorse necessarie per aiutare tutti a resistere invece che arrendersi: perché nessuno sia tentato di scambiare la libertà altrui con il proprio benessere.

Antonio Polito per il Corriere della Sera il 12 marzo 2022.

Il «partito della resa» ha gettato la maschera. È ancora minoritario, ma punta ormai al bersaglio grosso: portare l'Italia nel campo di Mosca, confermando così l'antico pregiudizio per cui non finiamo mai una guerra dalla parte in cui l'abbiamo cominciata. Abbandonata l'equidistanza iniziale del «né con Putin, né con la Nato», superata la «neutralità attiva», sta venendo infatti allo scoperto un movimento, per ora più mediatico che altro, di sostegno esplicito al tiranno. 

Tenterà di sfruttare l'angoscia e la paura degli italiani per aiutarlo a vincere la guerra in Ucraina. Il successo che finora non ha ottenuto sul campo, a causa della sorprendente resistenza ucraina, Putin può infatti raggiungerlo in un altro modo: se cede il fronte interno dell'Occidente, e si raffredda il sostegno alla causa di Kiev.

Così in marcia con Putin è tornata pure la «vecchia guardia», un'attempata ma intellettualmente dotata pattuglia di nostalgici dell'Urss, per i quali la sua caduta è stata «la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». L'Economist ha dedicato la copertina alla «stalinizzazione» di Putin: sempre più aggressivo fuori dai confini, sempre più dittatore in patria, dove si rischiano quindici anni di carcere a chiamare «guerra» la guerra. 

Magari il paragone è un po' esagerato, anche se lo stesso Putin l'ha evocato dicendo di voler «denazificare l'Ucraina». Ma di sicuro ha galvanizzato i nostri ex bolscevichi in sonno: per loro la colpa è degli ucraini. E allora basta commuoversi - l'ha detto Luciano Canfora - «con la storia di Irina che perde il bambino, un caso particolare»: ciò che conta è la Storia con la S maiuscola, e quella cammina sui cingoli dei carri armati, e chi più ne ha vincerà. 

La «new entry» tra i putinieri di complemento sono invece quelli della «resa umanitaria». Sostengono che arrendersi è un dovere morale (era il titolo di apertura del Riformista di ieri), per risparmiare vite e sofferenze. È un'altra forma di «spaesamento etico» che nasce a sinistra, solo in apparenza più pacifista della versione neo-stalinista, perché è proprio per averla avuta vinta in Georgia, in Crimea, nel Donbass, in Siria, che Putin si è deciso a fare di nuovo la guerra, e su più larga scala. 

La resa è la droga dei tiranni: più ne avranno e più ne vorranno. L'unico difetto di questa proposta è che i diretti interessati, gli ucraini, non sembrano condividerla. Bisognerebbe insomma costringerli alla resa. Esattamente ciò che sta provando a fare Putin. E così il cerchio si chiude.

Altri cerchi si chiudono invece tra destra e sinistra nel variegato mondo social dell'hashtag #IoStoConPutin. Secondo una ricerca di «Reputation Science», pochi account iniziali hanno alzato un'onda tra tutti coloro che credono a Lavrov quando dice che «questa non è un'invasione», ma non hanno creduto al Covid e alle bare di Bergamo, e prima ancora all'abbattimento delle Twin Towers o allo sbarco sulla Luna. 

Accomunati dall'odio per l'establishment, l'Europa e la democrazia, eroici combattenti per la libertà degli italiani dal green pass si battono ora per la schiavitù degli ucraini. Se vince Putin, perdono Draghi, Macron e von der Leyen, e tanto per loro basta. Perfino tra i deputati, ovviamente Cinquestelle, ce n'è qualcuno, come tal Lorenzoni, che non vuole Zelensky in collegamento con Montecitorio «perché l'Ucraina è un Paese schierato in guerra». Al Bano, al confronto, è un gigante.

Citiamo la reazione indignata del cantante italiano più amato in Russia («Come non cambiare idea su Putin con quello che sta facendo?») perché la grande maggioranza degli italiani la pensa come lui e non come i nostri putinieri. Ma c'è un ma: la guerra alla lunga porterà anche da noi, se non sangue, sudore e lacrime. Già si parla di razionamenti, di austerity, di un grado o due in meno di riscaldamento, di guai grossi per l'industria agroalimentare e per la spesa. E infatti da qualche giorno la parte più «populista» dei media si concentra sulla benzina piuttosto che sull'Ucraina.

Il grande pericolo è che le due spinte, quella politica a favore del tiranno e quella sociale per difendere il nostro tenore di vita già squassato dalla pandemia, si congiungano intorno all'illusione che se la diamo vinta a Putin tutto tornerà come prima. Sbagliato da ogni punto di vista: resteremmo solo dalla parte sbagliata di un'emergenza che non finirebbe certo con la resa dell'Italia.

Ma tocca al nostro governo - insieme a quelli dell'Europa - evitare questo corto circuito, mettendo in campo le idee e le risorse necessarie per aiutare tutti a resistere invece che arrendersi: perché nessuno sia tentato di scambiare la libertà altrui con il proprio benessere. 

La proposta di resa. Perché la resa ucraina scardinerebbe la legalità internazionale. Bobo Craxi su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

L’Assemblea delle Nazioni Unite il 1 marzo ha votato a larghissima maggioranza (141 a favore e 35 astenuti) una risoluzione di ferma condanna all’invasione della Federazione Russa nello Stato Ucraino, ha richiamato il dovere di far cessare il conflitto chiedendo: “immediatamente, completamente e incondizionatamente il ritiro di tutte le sue forze militari dal territorio ucraino entro i suoi confini internazionalmente riconosciuti”. E chiarendo inoltre che le Nazioni Unite stanno “condannando” la decisione di Putin di mettere in allerta le sue forze nucleari. Un pronunciamento chiaro e netto che tiene conto dei principi basilari della legalità internazionale.

Ora: la proposta di resa, sostanzialmente incondizionata dello Stato Ucraino, suppongo per comprensibili motivi umanitari, non tiene conto delle ragioni di fondo che hanno spinto la Comunità Internazionale nel suo insieme all’invito esattamente opposto e cioè quello di invocare una chiara distinzione fra aggressore ed aggredito.

La Resa italiana agli Alleati anglo/americani fu possibile e necessaria non solo per le ragioni di carattere umanitario con le quali si sollecita la resa ucraina, ma perché quel conflitto gli italiani avevano iniziato, avevano perduto e la resa non fu altro che un atto doveroso che li obbligò a non porre alcuna condizione. In questo caso la resa degli Ucraini non produrrebbe alcun negoziato né sui territori contesi né, si immagina, sugli eventuali danni di guerra che ricadrebbero sulle spalle degli invasi.

Prescindendo dalle ragioni di merito che hanno condotto la Federazione Russa ad un’azione così contundente nei confronti del popolo ucraino, a loro detta un’operazione militare “speciale” per liberare quella nazione da “nazisti e drogati”, si osserva che, allo stato, il carattere resistenziale della difesa ucraina prolunga l’agonia e agevolerebbe il genocidio pianificato dall’avanzata militare russa se quest’ultima non venisse rifornita di mezzi efficaci alla difesa. Non è forse eguale “dovere” democratico consentire a un popolo che difende la propria sovranità respingere l’invasore? Non è forse necessario invocare una pace bilaterale anziché una resa unilaterale senza condizioni? Non intendo citare le innumerevoli pagine di solidarietà concreta e operante scritte dalla sinistra democratica europea nei confronti di popoli oppressi o schiacciati dalle invasioni. Lo abbiamo fatto quando erano regimi di stampo fascistoide nel dopoguerra e lo abbiamo fatto anche nei confronti delle prepotenti normalizzazioni comuniste sospinte dall’Armata Rossa.

È giusto fermare la guerra in Ucraina, ma come si fa?

Il pacifismo é un sentimento nobile e va coltivato, il neutralismo una forma pilatesca, domandare il rispetto della legalità internazionale come richiesto dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite implica un di più nello sforzo che può essere impiegato per dissuadere l’invasore e costringerlo a negoziare una pace ed una soluzione del conflitto. La resa significa scardinare la legalità internazionale e piegarsi alla logica bruta del più forte. Altri cattivi esempi potrebbero seguire. Bobo Craxi

Russia-Ucraina, la carica degli editorialisti che vogliono la guerra mondiale: il tifo per la no fly-zone e l’intervento Nato. Il Fatto Quotidiano il 18 marzo 2022.

Nessuna trattativa ma più armi, più guerra, più spese militari: si moltiplicano i commentatori che tifano in modo aperto - e con malcelata eccitazione - per un conflitto totale. Il più attivo è Jacopo Iacoboni, che fa leva soprattutto sull'indignazione per l'offensiva russa contro i civili. Poi c'è chi esulta per l'aumento delle spese militari: per Folli di Repubblica si sono "incrinate le vecchie resistenze", mentre il Foglio titola a sei colonne: "Armi contro il criminale di guerra".

Nessuna trattativa ma più armi, più guerra, più spese militari. Sui giornali e i social si moltiplicano gli editorialisti che tifano in modo aperto – e con malcelata eccitazione – per un conflitto totale tra Occidente e Russia, nonostante il rischio concretissimo di una degenerazione nucleare. Il più attivo è Jacopo Iacoboni, nota firma politica della Stampa, che sgancia decine di tweet al giorno in cui predica il verbo dell’interventismo facendo leva – soprattutto – sull’indignazione istintiva per l’offensiva russa contro i civili: “Fanno questo. Distruggono le case per bambini. “Eh ma bisogna trattare con Putin””, scrive ritwittando le foto di una struttura per l’infanzia distrutta. E poi, ovviamente, l’attacco al teatro di Mariupol: “Oggi chi facciamo sedere al tavolo delle trattative, il militare che ha bombardato il teatro pieno di civili oppure direttamente il Criminale in chief? Gli stringiamo anche la mano, prima di sedercisi?”. Un artificio retorico molto facile che però lascia da parte la realtà dei fatti: il peso geopolitico e militare della Russia è tale che l’alternativa al dialogo può essere solo la Terza guerra mondiale. È la stessa retorica che Iacoboni usa in un tweet precedente, in cui arringa così i follower: “Ma tutta questa gente, voleva trattare anche con Milosevic, Mladic, Karadzic, Ceausescu? Quanto dobbiamo aspettare ancora per trattare da criminale internazionale un criminale? Abbiamo tutto: i soldi, la forza economica, le istituzioni politiche, le armi. Tutto tranne i valori”. Anche qui, però, è difficile non notare lo squilibrio tra i “piccoli” dittatori militari citati da Iacoboni e il colosso russo. Poi posta incredulo un sondaggio che mostra come il 55% degli italiani sia contrario all’invio di armi in Ucraina: “Siamo un Paese culturalmente devastato”, commenta.

“Putin sta perdendo la guerra” – Dal suo osservatorio privilegiato, poi, il giornalista twittarolo assicura che anche le aperture al dialogo di Mosca sono un bluff: “Nessun compromesso è possibile sulla pelle dei civili ucraini massacrati, e le trattative sono farlocche“, sentenzia. Ma soprattutto – e non è il solo – si dice certo che l’esercito russo stia perdendo la guerra: “Putin non prenderà mai l’Ucraina, mi è sempre più chiaro”, twitta all’improvviso. Ecco le conseguenze, elencate non senza una certa esaltazione: “Militarmente, la Russia sta per perdere la guerra. Putin può reagire così: 1. Massicci bombardamenti aerei che rendono la difesa aerea Usa così vitale. 2. Armi chimiche: gli Usa devono rispondere 3. Armi nucleari tattiche: gli Usa devono dire che faremo lo stesso, ma molto peggio”. Anche Gianni Riotta è sicuro: “Sul piano militare Putin è fermo a Kiev e Karkhiv, logistica impantanata, truppe demoralizzate, solo salve cieche di missili contro i civili. Fonti Usa segnalano forte attività cyberwar contro le comunicazioni russe, che rallenta i movimenti sul campo”. E come non credergli.

Il Fubini-pensiero: “Le sanzioni non bastano” – Un capitolo a parte lo merita Federico Fubini del Corriere, che già il 10 marzo twittava: “Malgrado i pacifisti tacitiani di casa nostra che non vogliono aiutare l’Ucraina, Putin questa guerra la sta perdendo. I pacifisti tacitiani d’Italia a cui piace pensare che Putin abbia già vinto, dunque l’Ucraina va abbandonata a lui, aprano gli occhi sulla realtà”. D’altra parte, spiega al suo pubblico, “una dittatura non cade mai per le sole sanzioni“: “Ciò che caratterizza le dittature è la violenza. I dittatori la usano come strumento di governo all’interno, poi lo applicano anche all’estero. È il solo che riconoscono, è la natura del sistema. Perciò purtroppo potrebbe servire una sconfitta in guerra per far cadere Putin”. Poi lo sberleffo ai pacifisti: “In Italia è stato detto, ridetto: non armiamo l’Ucraina perché si prolunga l’agonia di una guerra persa. “Diamo a Putin ciò che vuole o se lo prenderà”. Ora Putin (secondo Fubini, ndr) negozia una via d’uscita dall’Ucraina perché ha capito di non poter vincere. La dignità è davvero tutto nella vita”. E Riotta, confortato nelle proprie tesi, gli risponde con una strana accozzaglia di neologismi: “Ma è Putin mica um geopolitiko Kacciarian Talkshoista #Putinversteher de noantri” (sic). Il riferimento, pare, è al suo poco fortunato pezzo su Repubblica in cui stilava la lista di proscrizione degli “amici di Putin” italiani, basandola (falsamente) su uno studio americano.

A tifare guerra d’altra parte è tutto il panorama liberal-atlantista della stampa nostrana. Ecco Luciano Capone del Foglio: “Se la tesi è che non si deve rispondere militarmente perché la Russia minaccia l’uso delle armi nucleari e pertanto l’Ucraina deve arrendersi, la stessa logica va applicata a qualsiasi altro stato. In pratica Putin può invadere il mondo, per lui l’unico limite è la sua volontà”, twitta tagliando la geopolitica con l’accetta. E non serve a nulla il più saggio commento di Guido Crosetto, fondatore di Fratelli d’Italia (non certo un antimilitarista): “Perché non continuate a fare i giornalisti e lasciate decidere cosa fare dal punto di vista militare a chi conosce il nemico, i rischi, gli assetti, le probabilità, i rischi, i vantaggi, perché se ne occupa da una vita? Parlare di intervento militare è cosa per professionisti“. E chiosa: “Comunque aspetto te e gli intrepidi che ti seguono sul campo di battaglia“.

I tifosi della no-fly zone – Un altro feticcio del fight club è la no-fly zone che il presidente Volodymyr Zelensky chiede alla Nato di imporre sui cieli ucraini: una svolta che implicherebbe la necessità di abbattere gli aerei militari russi e quindi, di fatto, lo scontro diretto con Putin. Acqua fresca per i guerrafondai di Twitter: “Quello che penso della situazione in Ucraina oggi può essere sintetizzato in tre parole: no fly zone”, scrive Filippo Sensi, deputato del Pd ed ex portavoce di Renzi. Mentre sui giornali, dopo l’ordine del giorno votato dalla Camera per l’aumento delle spese militari, festeggiano gli editorialisti: “Con la guerra che investe l’Europa e rischia di lambire i nostri confini nazionali”, Camera e Senato “hanno dato un segnale chiaro. L’aumento delle spese militari è da tempo un obiettivo dell’alleanza occidentale e il conflitto in Ucraina sembra aver incrinato le vecchie resistenze“, commenta Stefano Folli su Repubblica. “Il due per cento di spese per l’apparato militare, sia pure come obiettivo a medio termine, cambia la percezione esterna non solo della Nato, ma della stessa Unione europea”, esulta. Ma è il titolo in maiuscolo a sei colonne del Foglio a dare il senso dell’eccitazione del club atlantista: “Armi contro il criminale di guerra“. E ancora in prima pagina si celebra “la rottura di un tabù non scontato”, che “dà il senso di una svolta avvenuta”, grazie “all’asse Roma-Berlino“. Speriamo che non porti male. 

Scemi di guerra. Marco Travaglio. Direttore del Fatto Quotidiano il 18 marzo 2022.  

Dall’inizio della guerra i veri esperti, come Caracciolo, Mini e Orsini (che da oggi scriverà sul Fatto), spiegano che uno dei primi guai dell’Ucraina è l’enorme quantità di armi. Lo era già prima dell’aggressione russa. Lo è durante le ostilità (difficile distinguere gli obiettivi civili da quelli militari). E lo sarà vieppiù nei negoziati che – come molti, ma non tutti, sperano – potrebbero chiudere la guerra […]

SCEMI DI GUERRA. Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 18 marzo 2022.

Dall'inizio della guerra i veri esperti, come Caracciolo, Mini e Orsini (che da oggi scriverà sul Fatto), spiegano che uno dei primi guai dell'Ucraina è l'enorme quantità di armi. Lo era già prima dell'aggressione russa. Lo è durante le ostilità (difficile distinguere gli obiettivi civili da quelli militari). 

E lo sarà vieppiù nei negoziati che - come molti, ma non tutti, sperano - potrebbero chiudere la guerra. Per paura di dare ragione a Putin (mission impossible), le nostre Sturmtruppen hanno negato quest' evidenza, finché il loro spirito guida - il sempre lucido Biden - l'altroieri ha confessato: da almeno sette anni, cioè dalla rivolta spontanea che cacciò il presidente filorusso Yanukovich (vincitore delle elezioni nel 2010), gli Usa armano Kiev.

E - come osserva Caracciolo - Putin ha attaccato adesso perché tra un anno l'armamento ucraino avrebbe rappresentato una seria minaccia per la Russia. Ora, non contenti, Biden manda altre armi per 1 miliardo di dollari e la Ue per 1 miliardo di euro, senza che nessuno si domandi a chi, visto che l'esercito regolare ne già ha a sufficienza. Gli scemi di guerra raccontano che armiamo la gente comune per resistere.

Ma il trasporto è affidato ad agenzie private di mercenari, che non le consegnano certo al ragioniere di Kiev o al panettiere di Mariupol aspiranti partigiani: le passano a gente del mestiere, come le milizie paramilitari che affiancano le truppe regolari senza che il governo faccia un plissé. Incluso il battaglione Azov, la milizia neonazista inquadrata nella Guardia nazionale, che sventola vessilli con la svastica e bandiere Nato, segnalata da Onu e Osce per crimini di guerra, torture e stragi di civili in Donbass e non solo. 

L'altroieri un miliziano di Azov s' è fatto un selfie con un mitra Beretta Mg42/59 appena giunto dall'Italia. E il sottosegretario ai Servizi Franco Gabrielli, su Rete4, ha candidamente ammesso che sappiamo bene di armare anche i neonazi, ma "quello è un ragionamento che faremo dopo: ora urge portare Putin al tavolo delle trattative".

Già, ma se ci sarà un "dopo", chi glielo spiega a quei gentiluomini che devono ridarci le armi? E, se non ce le ridanno, non saranno un ostacolo alla pace, che inevitabilmente passa per il ritiro delle truppe russe e il disarmo di queste opere pie? 

Non sarebbe il caso, mentre il negoziato procede, di bloccare le armi non ancora partite, onde evitare che al prossimo giro - come al solito - qualche amico divenuto nemico ce le punti contro e ci spari? Ps. Resta da spiegare la malattia mentale che ha portato tutti i partiti ad aumentare la spesa militare italiana da 26 a 38 miliardi l'anno, quando non c'è un euro neppure per il caro-bollette. Ma lì servirebbe un esercito di psichiatri e la sanità è quella che è. 

Estratto dell’articolo di Marco Lillo per “il Fatto quotidiano” il 17 marzo 2022.

La risposta più sensata contro la Russia è quella data dal governo Draghi: sì all'invio di armi all'Ucraina, sì alle sanzioni, no alla no fly zone che potrebbe portare alla terza guerra mondiale. A chi obietta che in altri casi non siamo intervenuti si può far notare che la politica estera è influenzata dalla vicinanza strategica […] L'Ucraina è una democrazia europea che ci ha chiesto di entrare nell'Ue e nella Nato. Dopo averla illusa è stata invasa e bombardata anche per questo. Possiamo girarci dall'altra parte? Il punto non è quindi il "se" ma i rischi e gli scopi di sanzioni e forniture di armi. Non bisogna esagerare con i proclami in stile Johnson. Non ha senso esporre le armi inviate in Ucraina per colpire i tank russi. 

Non ha senso definire Putin 'un animale'. Bisogna invece lasciare sempre aperta la strada alla revoca delle misure se Putin cambiasse atteggiamento. […] Il disegno di Putin (finora) è fallito grazie anche ai 17 mila sistemi anti-carro inviati da Usa e Gran Bretagna. Le perdite ingenti potrebbero spingerlo a cercare una via d'uscita negoziale.

[…] Da un lato c'è un autocrate imperialista invasore e dall'altra una democrazia invasa. Ciò detto, il disegno di Putin non è quello di Hitler. Non vuole sterminare un popolo ma ricreare l'impero russo […] 

Ed è bene tenerlo a mente per evitare di scatenare la terza guerra mondiale senza nemmeno aver compreso le ragioni sbagliate del nemico. Le armi e le sanzioni non sono gli strumenti di una guerra del bene contro il male. Putin in un saggio lunghissimo sul sito della presidenza russa (On the Historical Unity of Russians and Ukrainians) aveva enunciato la sua ideologia e la sua strategia con una sorta di ultimatum agli ucraini.

Era il 12 luglio 2021. Sarebbe stato importante prestare più attenzione allora. Invece abbiamo illuso l'Ucraina con l'inserimento nel Map (Membership action plan) per l'ingresso nella Nato approvato dal Parlamento ucraino a gennaio. Anche per questo ora non possiamo abbandonarla […] Le armi potrebbero servire […] a far sì che quel giorno, di fronte a Putin, ci sia ancora un governo ucraino e un presidente legittimo.

Estratto dell’articolo di iltempo.it dell’8 marzo 2022.  

[…] Le parole a Otto e mezzo su La7 di Marco Travaglio. “In che cosa politica e media stanno ragionando male? Perché è un errore inviare armi all’esercito ucraino?” le due domande della Gruber a Travaglio: “Non è mai successo che si derogasse alla legge che vietava l’esportazione delle armi a paesi non parte di alleanze. Gli amici somali ci hanno chiesto armi per combattere l’Isis e non gliele abbiamo mandate. 

Non sono un pacifista, ritengo che le armi in certi casi estremi, per sostenere la difesa dei popoli, come è per certi versi la resistenza ucraina come l’aggressore russo, sia legittimo inviarle ed usarle. Bisogna vedere - sottolinea il direttore de Il Fatto Quotidiano - che cosa succede a mandare armi, vengono utilizzate da milizie di contractor, che a volte si ribellano contro.

Tutti ci auguriamo che questa guerra finisca con la vittoria dell’Ucraina e della cacciata dei russi oltre il confine russo, ma i rapporti di forze sono sproporzionati e che l’unica speranza per garantire che questa guerra faccia il minor numero possibili di vittime e costi poco dal punto di vista territoriale è che questa guerra duri poco. Ma mandare armi significa semplicemente allungare l’agonia e arrivare ai negoziati di pace quando resterà ben poco da negoziare”. […] 

La guerra Russia-Ucraina. Armi d’attacco e di difesa: l’enorme differenza tra invasori e invasi. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Marzo 2022. 

Gentile Direttore, tu non lo sai ma io rimugino giorno e notte questa storia che hai così bene introdotto sul pacifismo e l’invasione dell’Ucraina. Seguito a raccomandare ad amici e meno amici di non usare la parola “guerra” che è una specie di cassonetto per l’indifferenziata e di adottare quella più autentica di “invasione”. Non è la stessa cosa dire “abbasso la guerra!” e “abbasso l’invasione”. Ne conseguono comportamenti diversi. E mi tornano in mente due fatti di cui si è persa la memoria emotiva: l’invasione tedesca della Polonia, seguita subito dalla fraterna invasione della stessa Polonia da parte dell’Unione Sovietica, e la rivolta del Ghetto di Varsavia dove per la prima volta gli ebrei che si erano lasciati arrestare senza ribellarsi, e farsi portare al mattatoio piangendo in silenzio, strapparono le armi – proprio le armi, le mitragliatrici e le bombe a mano – ai loro carnefici.

Hitler esponeva le sue ragioni in un modo che oggi torna di moda. Il cancelliere tedesco disse: rivoglio con me tutti i tedeschi che avete isolato con il trattato di Pace di Versailles, e li rivoglio tutti insieme. I vincitori della Grande Guerra, che aborrivano l’idea di una nuova guerra, considerarono che tutto sommato il tedesco non aveva tutti i torti. E gli lasciarono prendere l’Austria, i Sudeti e via via tutto lo spezzatino che era stato promosso principalmente dal presidente americano Wilson che durante la sua lunga permanenza a Parigi si era preso una brutta forma di “influenza spagnola” che lo aveva incattivito nei confronti dei tedeschi, cosa che scandalizzò il giovane ecomomista Keynes il quale faceva parte della delegazione inglese e che se ne tornò in patria protestando contro un atteggiamento idiota che avrebbe sicuramente portato a una seconda guerra. Come fu. Putin rivuole non l’Unione Sovietica, lo ha detto ogni giorno e basta andare ad ascoltare i suoi discorsi, volendo sottotitolati in inglese, perché ripete in tutte le salse che rivuole l’impero: tutto quel territorio che negli ultimi secoli è appartenuto a Pietro il Grande, all’imperatrice Caterina e a Stalin, per diritto della Storia.

Dice Putin “è tutta roba nostra”. Niente ideologie, pura questione identitaria patriottica, ma imperiale. Secondo lui la Grande Russia è stata umiliata con lo sembramento dell’Unione Sovietica ed è arrivato il momento in cui recuperi e mostri al mondo il rispetto che merita. Così si è ripreso la Bielorussia come Stato vassallo, ha invaso la Georgia, si è preso la Crimea, poi il Donbass e il resto è sotto gli occhi. Strumento d’uso: la violenza praticata attraverso la forza militare. Obiettivo: tornare più grandi e più forti che pria. Ideologicamente promuove un’alleanza contro i valori occidentali che dichiara “decadenti” (dove l’avevamo già sentita?) e ha riportato i suoi concittadini all’età delle caverne, ovvero quando non c’erano ancora il bancomat e Internet. Ora, quando Hitler (alleato militare di Stalin con cui aveva stipulato i protocolli segreti di un pacifico “trattato di non aggressione”) attaccò la Polonia dopo aver fatto inscenare vari incidenti di frontiera, accusando i polacchi di essere guerrafondai rabbiosi e averli invitati a una civilissima resa incondizionata, tutto il mondo Occidentale se la prese con i polacchi i quali – pensate che arroganza – impiegavano la cavalleria contro i carri Panzer. Parigi e Londra rimasero interdette avendo garantito alla Polonia di entrare in guerra se fosse successo ciò che stava realmente accadendo, e quindi recapitarono le dichiarazioni di guerra evitando però di andare davvero in soccorso dei polacchi che restarono col naso per aria aspettando gli aerei inglesi e guardando se fra i cespugli comparissero i carri armati francesi. Niente. Le cose andarono come sappiamo.

Ma, ecco il fatto inatteso: tutte le sinistre mondiali legate all’Unione Sovietica scesero in strada rumorosamente per gridare “No alla guerra”. A quale guerra? Forse quella dell’invasore tedesco? Ma no, per carità! Manifestavano contro la guerra dichiarata dalle democrazie occidentali contro la Germania. Fu un periodo buio e poi sepolto nella memoria affinché nessuno avesse più ben chiaro quel che era successo e che abbiamo più volta ricordato dalle colonne del Riformista, benché si tratti di fatti non controversi e tuttavia censurati. Ciò fino al 22 giugno del 1941 quando Hitler dette la pugnalata alle spalle dell’alleato e invase l’Urss. Sui libri di storia russi, ancora oggi, non si parla di una inesistente Seconda guerra mondiale, ma della Grande Guerra Patriottica cominciata solo in quel mese di giugno del 1941. Ciò che era accaduto prima, doveva essere occultato, ridicolizzato, negato e il negazionismo ancora resiste. Prova ne sia che oggi si dichiarano pacifisti non interventisti e decisamente contrari a regalare armi difensive agli ucraini non solo persone di specchiata morale e coerenza ideale che comprende il garantismo e l’obiezione contro la giustizia punitiva. Oltre queste specchiate persone, si aggiungono tutti coloro che in un modo o nell’altro tifano per la causa imperiale di Putin. Il quale non è affatto matto, Non è un mostro, ma è l’ultimissimo rampollo di una stirpe dimenticata e che credevamo estinta, quella dei nostalgici degli imperi. Ce ne sono in Giappone, ce ne sono nel Regno Unito, ce ne sono certamente in Austria, ma avevamo perso l’abitudine di considerarli vivi e armati con molta voglia di menare sia le mani che le testate nucleari.

E invece, ecco lì: il Paese più grande del pianeta Terra, che va dalla Polonia al Giappone, non contento della sua spropositata enormità accredita come un diritto quello di tollerare come stati confinanti soltanto quelli che abbiano rinunciato alla loro sovranità e vivere a testa china in “aree di influenza”. Che fare? Lasciar fare, oppure obiettare? Questo è un problema delle singole coscienze, Ma, ripeto, non si dovrebbe parlare di alcuna guerra in cui tutti i gatti sono bigi, tutti belligeranti, ma di invasione: ci sono gli invasori e ci sono gli invasi. Come mai, tanta ostilità di fronte a una situazione che è sotto i nostri occhi? Io penso che ci sia un grande elemento di vanità, almeno da parte di alcuni. L’idea della marcia su Kiev di stranieri che vanno in casa dell’aggredito sicuri di essere ricevuti come saggi ospiti venuti a riversare sulle teste già ferite degli aggrediti la loro saggezza, è bizzarra e anche narcisista. Diciamo meglio, un po’ razzista: “Noi siamo eticamente superiori a voi, gente brutale che sa soltanto imbracciare armi, e siamo venuti a proteggervi dalla vostra ottusità con la nostra pregiata presenza morale che vi farà da scudo umano”. Possiamo dire che è oltre che improbabile, anche molto presuntuoso. E poi, confesso, non capisco, e sì che ce l’ho messa tutta, il rifiuto a concedere armi di difesa sostenendo che comunque sempre di armi si tratta e che alla fine servono ad uccidere e che se si seguita ad uccidere, la guerra (e ridài) non finirà mai.

Io ho una mentalità infantile che è il mio limite ma che fa di me un idiota mondo da retorica. Vediamo: un carro armato da trenta tonnellate venuto dall’estero per sfondarti la casa con il suo peso e il suo cannone, è certamente un’arma aggressiva e distruttiva. Un razzo anticarro capace di fermarlo è certamente un’arma difensiva.

Lo stesso dicasi per i cannoni o i missili che possono essere usati soltanto per abbattere i missili offensivi e gli aerei che sganciano bombe. Chi non vede la differenza etica, oltre che materiale? Chi può decidere che l’aggredito non deve muovere un dito e deve cercare di dar il minor fastidio possibile mentre muore, sicché la sua inerzia aiuti il processo di pace che avverrebbe in un riservato brusio diplomatico? Non lo capisco. I diplomatici fanno quel che dicono loro i governi, i quali governi operano sul campo secondo un unico metodo che consiste nel rispondere alla domanda: mi conviene, non mi conviene. Ripeto: riconosco di essere un primitivo e un ingenuo, ma conosco piuttosto bene la storia e la geografia e lo stato attuale di quel che accade e perché accade e come accade e che cosa può accadere, secondo le diverse varianti possibili. E vorrei tanto, lo giuro, affiancarmi agli entusiasti pacifisti (cui peraltro nessuno dà dei codardi, tutt’altro) e dir loro: compagni! mi ero sbagliato, avevate ragione voi, vengo anch’io. Penso risponderebbero no, tu no, ma quello sarebbe un problema secondario.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il Papa è indignato, ma se un popolo resiste può uccidere l’invasore? Paolo Guzzanti su Il Riformista il 25 Marzo 2022. 

Come avevamo previsto (e sperato) in pochi, la triste armata del signor Putin è in rotta, i soldati bambini un po’ piangono e un po’ stuprano e hanno cominciato a lasciare il campo. Secondo gli ucraini le defezioni aumentano sia sotto forma di defezione che di passaggio nel campo nemico, cioè dell’esercito di Kiev. E che la resistenza vinca, si misura dal fatto che nessuna città ucraina è stata mai stabilmente conquistata, a cominciare dalla martirizzata Mariupol, data da dieci giorni in mano nemica, ma invece la vediamo: è ferita e sanguina da ogni maceria, ma è libera. Il fatto più geopolitico che emerge dopo un mese di invasione barbarica è il fattore umano: non esiste arma, piombo, cingolo e fucile che possa avere ragione della volontà di chi resiste, a meno che l’invasione non decida di vaporizzare, sciogliere nell’acido, imputridire con piaghe i resistenti. E quando chi invade è armato ma non ha nulla nel cuore che lo muova è militarmente inutile.

I soldatini di Putin non sono stati motivati e la perenne accusa secondo cui l’Ucraina sarebbe piena di nazisti, non scalda nessuno: c’è gente che a casa propria pensa parla canta e veste da nazista? Fatti loro. E i soldati bambini mandati da Mosca seguitano ad arrendersi o morire. Non vedrete in genere nelle televisioni italiane gli stessi filmati che potrete vedere su al-Jazeera, sulla televisione cinese, israeliana, rumena, polacca o dei Paesi baltici. Non so perché ma sugli schermi italiani si vedono immagini sempre tollerabili, palazzi già distrutti, ma mai mentre ardono facendo urlare la carne umana, pianure abbrutite dalle bombe ma raramente i cimiteri di ferraglia cingolata con due, trecento carri russi squinternati, abbandonati, talvolta esplosi ma spesso semplicemente morti stecchiti come bestie del giurassico. E i civili che camminano in famiglie circospetti nelle loro strade imbracciando il fucile, padre madre e nonni, talvolta i bambini più grandi.

Che cosa succede in quei roghi e in quei campi di sterminio di bambini, prima che le telecamere riprendano ciò che è già morto? I nostri network preferiscono l’eleganza formale, poca brutalità e molti dubbi esistenziali: è giusto dare a chi è inseguito da uomini armati di lancia, degli scudi per difendersi? Si, no, segue dibattito. E il dibattito è davvero incredibile da noi in Italia: si discute seriamente, da parte di persone serissime, se fosse o no il caso che gli aerei americani e inglesi di notte paracadutassero ai nostri partigiani le armi con cui combattevano i nazisti. Ma non si sarò così fomentata nuova guerra e violenza? E vero. Si fomentò. Quando gli attentatori di via Rasella a Roma uccisero con una bomba in un cassonetto da Rosario Bentivegna mentre sua moglie Carla Capponi accendeva la miccia, ne venne fori una strage per cui i tedeschi, convenzione di Ginevra alla mano, pretesero di fucilare dieci ostaggi per ogni tedesco ucciso ma eccedettero nella vendetta e ne uccisero alcuni in eccesso e per quelli furono condannati. Quando la Resistenza combatte col popolo, deve o no uccidere l’invasore? I Viet Cong e prima di loro i Viet Minh facevano bene o male a combattere con armi molto offensive e poco difensive contro i francesi prima e gli americani dopo?

Le risposte sono sui libri di storia, che però il Santo Padre, essendo un argentino figlio di piemontesi che giocava pacificamente a calcio lontano dall’Europa ma non troppo lontano dai generali assassini, dà prova di generosa indignazione e lo fa con parole e toni e slancio e tensione morale tale che alcuni giornalisti hanno scambiato quella sua ripulsa violenta e disgustata per le malvagità perpetrate dagli invasori dell’Ucraina, per un cambio di rotta: se il papa è così verbalmente violento contro gli assassini, certamente sarà felice se le vittime potranno opporsi e difendersi: dunque (hanno pensato alcuni) il papa ha cambiato idea ed è a favore dell’incremento di budget militare e dell’invio delle armi ai condannati a morte. Ma era una illusione logica, era come quando ci si chiede che cosa sarebbe successo se usando una macchina del tempo tornasse indietro e ammazzasse in culla baby Adolf Hitler. Il piccolo Hitler non deve essere ammazzato dice il papa. E le armi gli fanno schifo, il loro uso, la loro fabbricazione e il fatto che possano essere distribuite ai morituri., Lu del resto andò a Cuba dove disse messa su un sagrato decorato dalle foto del Che e Fidel ben armati di mitra, che avevano fucilato senza pietà, ma quella era una faccenda iconografica, che non fa male alla salute come invece fanno male certe sigarette e le armi. Quindi si suppone che il papa non voglia vedere spettacoli tanto feroci come la morte dei disarmati e chiede che la televisione sia spenta e non diffonda immagini.

Odessa resiste e Kiev, sanguinante e vittoriosa, sopravvive chiusa nelle cantine con le poche donne rimaste per sparare (in genere nonne con le nipoti) affronta i disperati soldatini mandati da Mosca. E resiste come Madrid resisteva a los moros del generalissimo Francisco Franco. Li ho conosciuti parecchi dei superstiti della difesa di Madrid e ricordo bene la strofa della loro canzone di guerra che diceva così: “Madrid que bien resistes, Madrid Que bien resiste, la bombardeon, de las bombas se rie, los madrilenos”. Madrid che resiste con tututte le sue forze, è stata bombardata, ma di quelle bombe i madrileni se ne ridono”. Ogni Resistenza ha i suoi eroi che difendono il popolo e quando un popolo si sente unito e si riconosce nei suoi leader – “un pueblo unido jamas sera vencido” cantavano gli Inti Illimani cileni: un popolo unito non sarà mai vinto” – quel popolo non è più una massa di civile amorfa, ma una potenza geopolitica che vale quanto e più di ima bomba atomica. E il fatto inatteso e grave non è che Kiev sia eternamente circondata ed eternamente in attesa di una attacco finale che non arriva mai, ma che gli ucraini stiano passando al contrattacco come i partigiani a Genova quando ottennero senza l’aiuto degli americani la resa dei tedeschi.

La pretesa di Putin di estirpare i nazisti dall’Ucraina perché tutti ricordano come andò con i nazisti: dal settembre del 1939 fino all’estate del 1941, l’Unione sovietica di cui l’Ucraina faceva parte era alleata con i nazisti: basta guardare su internet il footage che mostra l’accoglienza festosa e fraterna delle truppe naziste nei confronti delle truppe dell’Armata Rossa quando i tedeschi restituirono ai russi la città allora polacca di Brest Litovsk. Furono libagioni e parate con festoni di svastiche e stelle rosse, falci e martelli e croci uncinate, unirete nella lotta. I russi guidati da Stalin si erano esaltati per le magnifiche vittorie di Hitler contro gli inglesi e Stalin mandava telegrammi tutti rintracciabili sulla Pravda.

Poi fu Hitler a rompere il patto e ad attaccare i russi completamente impreparati per colpa del loro condottiero che perse venti milioni di esseri umani. Gli ucraini se proprio devono ricordare, ricordano. E la città di Brest, senza più Litovsk, oggi si trova nella Bielorussia del dittatore fantoccio Lukashenko, dove si sono svolte le prime trattative sui corridoi umanitari. Il presidente Putin ha dovuto far riscrivere i libri di storia e di geografia e punire con la galera chi ancora osa ricordare, ma gli ucraini ricordano e non ne vogliono sapere in alcun modo di quel vicino che è lungo da Varsavia a Tokyo e che pretende di sottomettere i suoi vicini per avere dei cuscinetti, caso ai si sentisse minacciato. Quell’epoca sta finendo e gli ucraini come i madrileni del 1937 combattono e resistono nella nostra indifferenza infastidita: ma perché non vi limitate ad arrendervi e morire, anziché infastidire i nostri sonni e i nostri sogni?

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Lasciate perdere i pacifismi. Altro che arrendersi, a Kiev stanno resistendo contro l’invasione russa. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 17 Marzo 2022. 

Caro Direttore, non c’è alcun gusto nel dissentire fra amici, ma è bello poterlo fare liberamente: dunque ti ringrazio di nuovo, con la speranza di riuscire ad esprimere un punto di vista che a me sembra il più sensato e aderente ai fatti. Io non penso che ci troviamo divisi fra pacifisti che vogliono la pace ed “elmetti” che vogliono la guerra. Qui, l’unico e solo che vuole la guerra è un signore che abita al Cremlino. Col quale sono in totale disaccordo salvo su una questione di parole. Vladimir Putin ha vietato che i media russi parlino di una “guerra” con l’Ucraina. Se lo dici, vieni arrestato. Io credo che su questo punto dovremmo in parte seguirlo. Non stiamo parlando infatti di una guerra, ma di un’invasione. Le guerre fra Stati sovrani e specialmente europei devono sottostare a delle regole: per esempio, devono essere dichiarate con comunicazione diplomatica prima dell’inizio delle ostilità. In Ucraina è iniziata e sta proseguendo una invasione militare che ha assunto da due giorni gli aspetti di una operazione terroristica che mira a colpire obiettivi civili schierando in campo anche dei reparti di una specie di “SS” cecene, i tagliagole.

Se conveniamo di chiamare tutto ciò una invasione, potremo subito liberarci di una quantità di zavorra retorica che non si adatta al caso di questa attuale atrocità in cui non un governo, ma un intero popolo senza eccezioni, resiste agli invasori. Potremo così evitare di dire “Basta con la guerra”, gli orrori della guerra, fermate questa guerra e scopriremo che coloro che combattono soltanto per difendersi dall’invasione non sono equivalenti agli invasori. Se evitiamo come la peste la parola “guerra” e usiamo l’eufemismo preferito da Putin – Speciale Operazione militare – abbiamo già fatto un passo avanti: uno Stato sovrano sta infliggendo a un altro Stato, senza preavviso né legittimità internazionale – una “Speciale operazione militare”. La parola “guerra” così corta e così comoda non è calza affatto a ciò che accade. Non siamo in presenza di due facinorosi che si prendono a pugni e schiaffi nel vicolo, senza che si sappia bene chi ha cominciato, sicché i vicini, il parroco, i curiosi possono gridare “Basta, fermatevi, se avete un conto da regolare, fatelo da persone civili”.

Sappiamo tutti che non è così. Ma facciamo tutti finta che lo sia, per lasciar spazio a una polemica che non esiste. Le cose stanno andando in un modo che gli invasori non avevano previsto. Non soltanto l’esercito ucraino, ma l’intera popolazione, compresi le donne i bambini e gli anziani combattono liberamente per loro scelta contro l’invasore. Con tutto il rispetto, a me l’idea di Luca Casarini di andare tutti a Kiev a fare caciara su piazza Maiden (e per tutti mi sembra che intenda i commentatori di prestigio di giornali e talk) mi pare grottesca nel senso di comica e macabra. L’idea sembra avere senso se si creano artificialmente le due fazioni dei “pacifisti” e degli “interventisti” per di più stranieri, che varcano la frontiera scavalcando il filo spinato e che poi marciano sotto l’artiglieria russa e forse anche ucraina fino ad entrare a Kiev per imporre il dialogo. Come dicono a Roma, “da ammazzasse dalle risate”.

Un’altra idea che appare irragionevole a chi osserva le forze in campo è quella di fare una grande abbuffata di diplomatici che si dovrebbero chiudere nelle segrete stanze a bisbigliare in lingua diplomatica finché, come diceva Bossi, non si trova la quadra. Sono, a me sembra, tutte idee che fanno parte di un altro spettacolo, un’altra messa in scena ed un altro magazzino degli attrezzi. Ma, con un pizzico di nostalgia per tempi che non somigliamo nemmeno lontanamente ai nostri. Per fortuna, stando alle cronache delle ultime ore, il fiero coraggio e la capacità di resistere degli ucraini ha messo in mostra la fragilità anche militare della Russia ridotta a chiamare bande di mercenari islamici e chiedere l’aiuto militare della Cina, per aver ragione di una nazione che secondo Putin era inesistente e che comunque non aspettava altro che di essere liberata da un tiranno. Ha fatto arrestare i capi dei servizi segreti che gli avevano presentato rapporti demenziali, anche se adesso ha il problema di uscire dall’Ucraina senza perdere la faccia e possibilmente evitando di allargare la guerra fino al campo nemico della Nato. Il presidente Zelensky dice che i russi stanno trattando e che lui ha offerto la rinuncia a aderire alla Nato.

Se son rose fioriranno, ma il punto che ci interessa è questo: grazie al sacrificio, disciplina, compattezza, addestramento e capacità di combattere e di resistere sia delle forze armate che del popolo ucraino (che ha lasciato andare via figlie, sorelle, mogli e fidanzate con i bambini piccoli) il quale si è comportato nel modo opposto a quello suggerito dai pretesi pacifisti: con dolore e sacrificio (gli obitori traboccano di soldati russi e ucraini e di madri e neonati e civili uccisi nelle loro case) hanno combattuto bene, con coraggio, con un sentimento che li unisce tutti e che noi spesso fingiamo di non vedere) e per ora, a quanto pare, sia detto senza enfasi, hanno vinto.

Certo, la Russia potrà sempre annientarli riversando colonne e colonne di carri armati e di ragazzi impreparati, ma la guerra lampo di Putin, la sua “speciale operazione militare” è fallita. Fallita male, nel malessere che serpeggia in Russia, dove il regime ha chiuso l’accesso alle fonti di notizie cui i russi ertano abituati, sicché non sanno o sanno in maniera falsificata ciò che accade.

Sembra, ad oggi, che l’Ucraina non abbia avvertito affatto il dovere di arrendersi, ma di resistere e chiedere a tutta l’Europa di unirsi per fronteggiare una minaccia che è semplicemente russa: tutti i popoli che nel corso di un secolo e mezzo sono stati occupati, vessati, sequestrati e sottomessi prima dall’impero zarista, poi dall’impero sovietico e ora dal dichiarato proposito putiniano di restaurare l’impero così com’era dai tempi di Pietro il Grande e fino a Stalin, oggi appaiono visibilmente uniti in uno spirito di comune difesa dalle pretese russe degli “Stati cuscinetto” e della “sfera di influenza”. Senza iattanza, senza fanatismo, ma anzi con misura e pietà (le madri ucraine che rincuorano e nutrono i ragazzi russi prigionieri cui offrono un cellulare per rassicurare la madre in Russia) questo popolo ha combattuto e combatte, subisce danni devastanti, vede le sue famiglie spaccate, e semplicemente resiste, resiste, resiste. Penso che siano molte le persone calme, civili, colte, che hanno viaggiato e visto con i propri occhi, apertamente dalla parte dell’Ucraina invasa e brutalizzata che resiste con le unghie e con i denti, con le parole e con la disciplina, senza dar spazio alla retorica e costretta a versare il proprio sangue per difendersi dall’invasione barbarica. E riesce difficile comprendere questa divisione artificiosa fra pacifisti e interventisti, quando invece la realtà è un’altra: una mattina, mi sono alzato e ho trovato l’invasor.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Sbagliato alzare la bandiera bianca. Il popolo ucraino vuole la pace non la resa, Zelensky leader di una nazione che vuole resistere. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Marzo 2022.

Si fa così, vero Direttore? Quando uno dissente scrive una lettera e io sono felice di farlo. Su cosa dissento? Sulla nuova linea che è ben riassunta nel titolo “Il dovere della resa”. Perché dissento? Perché questa linea prescinde dall’elemento umano e perché è fondata su un presupposto militare che potrebbe rivelarsi sbagliato. Su che cosa si fonda la linea che crede nel “dovere di arrendersi”? Su questo ragionamento: la guerra in quanto tale la vince la Russia, non c’è dubbio. Dunque, verrà prima o poi il momento in cui i combattenti ucraini capiranno di non avere alcuna via d’uscita e non potranno far altro che sedersi davanti a un tavolo e firmare la resa. La resa, non intavolare delle trattative, perché non avranno nulla da trattare. È inevitabile.

Ma che fosse inevitabile lo sapevano e lo sappiamo fin dall’inizio, e allora spiegateci perché avete voluto proseguire in questa carneficina che ha portato solo inutili morti e distruzioni, quando era chiaro fin dall’inizio che sarebbe andata a finire così. Anzi, una spiegazione del perché ce l’abbiamo: è colpa del narcisismo di Zelensky affetto da una megalomania per cui crede di essere Winston Churchill e fa pagare il prezzo della sua megalomania narcisistica al suo popolo che per colpa sua muore, fugge, vede distrutte le proprie città e il futuro dei suoi figli. Postilla alla tesi secondo cui arrendersi è un dovere: è più che ovvio che l’Ucraina è stata per anni la preda preferita della Nato e degli americani i quali stavano per chiudere definitivamente l’accerchiamento ostile della Russia, cominciato occupando i Paesi che un tempo costituivano gli “stati cuscinetto” di cui la Russia ha bisogno per impedire nuove invasioni come quelle già subite da Napoleone e da Hitler.

Spero di aver riassunto in modo sintetico ma corretto. E ora provo a motivare il mio dissenso. Primo: dissento dall’uso che si fa della parola “guerra”. Noi siamo di fronte non a una guerra tradizionale fra Stati sovrani, ma all’invasione proditoria di uno Stato sovrano alle spese di un altro Stato sovrano confinante. Il motivo dell’invasione dichiarato più volte dal presidente Putin è che l’Ucraina non è uno Stato sovrano, tant’è vero che la Russia non può consentirgli di diventare membro dell’Alleanza Atlantica (militare) e dell’Unione Europea che è economica e politica. C’è un punto che è sotto gli occhi di tutti e che di conseguenza sfugge a tutti: la Russia è il più grande Stato sovrano del pianeta Terra e va più o meno dalla fine della Germania all’inizio del Giappone con cui ha un contenzioso territoriale su alcune isole. È un enorme Stato con molti fusi orari di una grandezza sterminata che lambisce fra l’altro la Cina e la Mongolia da una parte e gli Stati dell’Europa orientale dall’altra. La dottrina di Putin è che questo gigante unico al mondo, ha bisogno e dunque diritto a proteggere i suoi confini con una cosa ottocentesca che si chiama “area di influenza”. Se per disgrazia tu confini con la Russia, è bene che tu sappia di trovarti nella sua “area di influenza”, che semplicemente vuol dire che non puoi fare nulla se non quel che il Cremlino ti autorizza a fare, ma sai anche che per rendere le cose più pratiche, il Cremlino ti offrirà gratis il servizio consistente in un governo fantoccio filorusso che ti toglierà il disturbo di decidere.

Per gentilezza, anche nel caso dell’Ucraina il Cremlino ha fornito all’Ucraina un governo filorusso che però è stato sventuratamente costretto a fare le valigie in seguito alla rivoluzione arancione del 2014, consistente in una manifestazione continua giorno e notte nel freddo e gelo a piazza Maidan a Kiev. E qui veniamo al fattore umano. In genere – ideologicamente parlando – una parte e non tutta della sinistra italiana fa uso dell’argomento umano, ciò che il popolo vuole, in modo ambiguo, anzi bifido. Quel che accadde durante i lunghi mesi d’inverno del 2014 fu filmato per centinaia di ore e una sintesi la può trovare chiunque, anche su Netflix: centinaia di migliaia di giovani e non giovani, disarmati e testardi, sventolando le bandiere azzurre con il cerchio delle stelle dorate dell’Unione Europea hanno sfidato i corpi speciali filorussi che ne hanno ammazzati più di cento e storpiati a migliaia. A me personalmente, vedere quei cadaveri di ragazzi con la bandiera europea per la quale noi in genere non proviamo sentimenti, mi ha straziato il cuore.

Annotazione indispensabile: tutti i popoli che hanno avuto la ventura di vivere sotto il tallone russo, sovietico e non, odiano a sangue i russi. E si sentono fra loro fratelli di sangue. Ecco perché polacchi e rumeni, moldavi, lituani, estoni e ogni altra comunità di ex forzati, spalanca le porte ai loro fratelli che tentano di sfuggire o opporsi alla russificazione. Non si tratta di una questione di “profughi” ma di fratellanza antirussa. Nel 2019 il Parlamento europeo, anche con i voti del Pd, votò una risoluzione dei Paesi sfuggiti al dominio russo come la Polonia, l’Ungheria e la Romania, in cui si dichiarava che, con tutto il rispetto per i Paesi dell’Europa Occidentale che durante la guerra subirono soltanto l’occupazione nazista, esistono anche i Paesi che, oltre a quella nazista, subirono fino al 1989 l’occupazione sovietica. E che quei Paesi intendono veder riconosciuta formalmente la loro condizione di vittime di una oppressione che gli europei dell’Ovest – noi – non abbiamo subito nel passato, e ci compartiamo nel presente come se non fosse esistita. Invece è esistita. Quanto all’identità dell’Ucraina e degli ucraini, secondo Putin sarebbe una invenzione.

Può anche darsi che abbia ragione, può anche darsi che l’Ucraina e gli ucraini siano padri e madri e figli e cugini dei russi per lingua e geografia, ma si dà questo caso non così strano per cui una intera umanità che è nata in Ucraina dal 1980 in poi, sia cresciuta con l’Europa occidentale, sogna Berlino e Parigi, Roma e Madrid, vuole vivere e leggere e lavorare e fare l’amore e viaggiare e pensare come vuole e non prova per i vicini russi nulla di particolare: saranno pure parenti, ma se ne stiano per favore a casa loro. I sentimenti e i desideri fanno o non fanno parte della geopolitica come i carri armati e le riserve energetiche, sì o no? Le masse che seguivano Lenin a San Pietroburgo assediando il Palazzo d’Inverno (mentre all’interno Leon Trotskij con i suoi “mille tagliagole” faceva lo sporco ma necessario lavoro) erano geopolitica o nevrosi? E allora, proviamo a rispondere onestamente a questa domanda: Zelensky, presidente democraticamente eletto dal popolo ucraino col 70 per cento dei voti e un passato di attore popolare impegnato civilmente, è uno smargiasso narcisista che crede di essere Salvador Allende (già… Salvador Allende nel Palacio de La Moneda di Santiago del Cile che imbracciava il mitra che gli aveva regalato Fidel Castro e che affronta, sparando, i militari di Augusto Pinochet che lo uccidono armi in pugno, ricordate? Era anche lui un pericoloso narcisista?) o no?

O forse questo Presidente che si nasconde ai killer nei suoi stessi uffici e che indossa solo una T-shirt militare a maniche corte e che parla via social al suo popolo, è lui che impone e prolunga la guerra oppure rappresenta un popolo che non voleva e non vuole la guerra ma che subisce un’invasione alla quale intende resistere? Io dal primo giorno ho guardato tutte le news italiane e straniere su tutti i canali in tutte le lingue accessibili e ho visto, come tutti, intervistare migliaia di ucraini, uomini e donne, bambini e vecchi: non una, non uno, mai ha detto qualcosa di diverso da quel che dice Zelensky il quale sembra in straordinaria sintonia con un popolo che si sta mutilando delle sue donne con i figli piccoli, affinché i loro mariti, fidanzati, fratelli e padri possano combattere contro le invasioni barbariche. E vincono. Questo è l’ultimo elemento da prendere in considerazione: Putin forse vincerà sul piano militate, quello dei carri armati, ma forse no. Leggo i report degli analisti militari e sembra che da tre giorni Putin stia perdendo la guerra sul terreno della guerra. Non ha più carburante perché non erano previste linee di rifornimento per un tempo così lungo, le reclute sono disperate e i prigionieri russi in mano agli ucraini davanti alle telecamere della Cnn telefonano alle mamme e alle mogli piangendo e dicendo di essere stati ingannati, credevano di fare una esercitazione, poi di fare un’operazione di polizia contro bande neonaziste e si sono ritrovati a sparare alla gente e a sfondare palazzi abitati davanti alle telecamere, cioè davanti a tutto il mondo

. Tutto salvo quello russo che è stato accecato perché non gli fanno vedere quel che vogliono e non ha più il nostro internet ma un internet fasullo chiuso al resto del mondo, mentre coloro che manifestano vanno in galera. Pace, sì. Chi ha invaso, si ritiri e paghi i danni. Ma la resa? Può anche darsi che alla fine il governo di Kiev sia costretto ad arrendersi, cedendo al sopruso. Ma perché dire oggi che la resa a un’invasione illegale, sarebbe una cosa buona? Non lo capisco. Capisco invece che la resa degli ucraini, incondizionata e che ceda sovranità territoriale e sovranità nelle alleanze e le comunità cui appartenere, sarebbe una vittoria per Putin. Il quale ha già spianato Grozny in Cecenia, Aleppo in Siria, si è preso Crimea e Donbass, ha invaso la Georgia e adesso si vedrebbe premiato anche a Kiev. Ma certo, perché no? Anzi, idea: perché non proporlo Nobel per la pace? Chiedo scusa gentile Direttore, ma i partigiani facevano la guerra, non la resa e cantavano anche canzoni crudeli come “pietà l’è morta”. Oggi la pietà è ben viva e anche la distinzione fra vero e falso, buono e cattivo ancora emana una lucina verde dal suo display e potremmo tentare di usarla ancora meglio.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Guerra e pace. Storia delle guerre finite in rese, diserzioni e fucilazioni. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

Fu nella Grande Guerra che i soldati cominciarono a scappare e consegnarsi prigionieri. I servi della gleba russi furono messi in uniforme e mandati davanti al fuoco delle mitragliatrici senza fucile: “Quando un vostro compagno morirà, prendete il suo fucile e sparate”. I Regi Carabinieri seguivano i fanti all’assalto e quando qualcuno scappava avevano l’ordine di fucilarlo. Fra loro – i fucilati – un mio sconosciuto prozio di cui si sussurrava con pena e vergogna in famiglia. La canzone era “Fuoco e mitragliatrici”, Diceva così: “Oh Gorizia tu sia maledetta, maledetti signori ufficiali…”.

Si fucilavano disertori in tutti gli eserciti, e le spie, le presunte spie. Sulle Ardenne, nel 1944, si fucilavano i tedeschi che parlavano americano perché erano nati in America. E noi ragazzi dell’immediato dopoguerra, cantavamo Aznavour, l’Amour et la guerre: “Perché dovrei tornare a fare la guerra dopo ciò che so e che ho visto? Dove sono finiti gli eroi della guerra? Sono andati troppo lontano per cercare la verità dei nostri padri? Tutti spariti a cercare la verità, ogni anno torneranno le cicogne e io sono qui per amarti, voglio amarti senza mai smettere, finché il sole illuminerà i nostri passi”. E Italo Calvino componeva canzoni come “L’avvoltoio” – la guerra – che deve cessare affinché i ragazzi possano dormire nel letto delle fidanzate e non morire nelle acque dei fiumi in cui “scendono carpe e trote, non più i corpi dei soldati che la fanno insanguinar”. Il comunismo sovietico fu durissimo con i pacifisti e con i disfattisti, gli ammutinati e i disertori.

Quando il primogenito di Stalin, Jakov Josifovic Dzugasvili fu catturato dai tedeschi, i nazisti proposero lo scambio con il feldmaresciallo Friedrich Paulus, in mano ai russi. Ma Stalin rifiutò: “Non scambio un generale tedesco con un soldato sovietico”. Quando gli comunicarono che Jakov si era suicidato nel campo di Sachenhausen gettandosi sulla recinzione elettrica, il suo commento fu: “Finalmente si è comportato da uomo”. Posso dire, per testimonianza generazionale, che chi oggi ha meno di settanta anni non può avere la più pallida idea di quale fosse stato nei secoli passati e fino agli anni Sessanta, il rapporto eterno fra guerra, morte, amori spezzati (le mogli che mettono in salvo i bambini fuori dall’Ucraina mentre i papà, mariti e fratelli sono orgogliosamente al fronte). Fino a questa guerra ucraina, primo orrendo assaggio della vera guerra, psichiatri ed educatori stavano affrontando i mali della pace sotto il Covid: la DAD, la socialità interrotta, l’anoressia, il bullismo nei social, la tenue fragilità degli adolescenti, la solitudine. Per pura testimonianza, ricordo bene che fino a vent’anni, quando manifestavamo in massa contro la guerra in Vietnam pronti a nostra volta alla guerra, sognando la guerra, e sognando poi la rivoluzione cubana, quanto la guerra ci fosse accanto, sopra, dentro e quanto la guerra era sia di destra che di sinistra, fascisti e antifascisti, cantavamo le opposte canzoni della guerra di Spagna che fu dalle due parti una guerra di annientamento il cui simbolo diventò poi Guernica di Picasso, quadro che il pittore spagnolo esponeva nel suo atelier a Parigi occupata dai tedeschi, che nella capitale francese tentavano di apparire relativamente civili. Un giorno un ufficiale tedesco in un buon francese entrò nell’atelier e restò ipnotizzato dal grande quadro di Picasso, anzi ammirato: “L’avete fatto voi?”, chiese. “No, voi” fu la risposta di Pablo.

Il pacifismo ebbe diverse radici. Una delle prime fu quella di Ghandi che in India adottò la resistenza passiva nei confronti degli inglesi: piuttosto morire, mai reagire. Paradossalmente uno dei più chiassosi sostenitori di Ghandi fu Benito Mussolini che vedeva in lui una efficace arma con cui abbattere l’impero britannico in India. La resistenza passiva assunse poi spesso le forme del suicidio pubblico in segno di rimostranza contro l’invasore: lo shock in Occidente fu tremendo quando il primo bonzo buddista si cosparse di benzina a Saigon e si dette fuoco ardendo seduto fino a carbonizzarsi. E poi i bonzi seguitarono ad ardere immobili e fiammanti nel Tibet in segno di ribellione contro il governo comunista cinese e il loro gesto era stato già imitato da un ragazzo boemo, Jan Palach, che si era dato fuoco a Praga per protesta contro i armati russi che avevano invaso il suo Paese nel 1968, lo stesso anno in cui il ribellismo studentesco sfidava i corpi speciali a Parigi, Roma, Milano, Berlino Est, Praga, Berkeley, New York e San Francisco cantando “We shall overcome” che Bob Dylan e Joan Baez – tuttora una delle colonne del pacifismo – avevano imposto come inno internazionale della guerra alla guerra, che non è esattamente la pace per la pace.

Anche “Bella ciao” aveva allora un altro sapore. Era un canto di guerra contro un nemico straniero: questa mattina mi sono alzato e ho trovato l’invasor. È una canzone che chiama alle armi dopo l’invasione tedesca seguita alla resa dell’Italia agli Alleati dell’otto settembre del 1943. Il pacifismo di oggi non è esattamente figlio di quello che seguì l guerra finita nel 1945. Gli inglesi avevano – forse a causa del loro enorme impero – sia una tradizione del dovere militare come virtù civica, sia forti organizzazioni sindacali e politiche, specialmente dei minatori e specialmente irlandesi. Ma il canzoniere del “Little English Soldier” di Rudyard Kipling è tassativo e privo di enfasi: se tu ti trovi ferito e sperduto nelle pianure del Afghanistan e vedi che le donne vengono per farti a pezzi coi coltelli, allungati fino al fucile, fatti saltare le cervella e vai dal tuo dio come un soldato”. Ci fu sicuramente un uso da guerra fredda del pacifismo occidentale fortemente promosso dalle sinistre europee collegate con l’Unione Sovietica che incoraggiava fortemente le arti, le canzoni, il cinema e l’atteggiamento pacifista. Ma il pacifismo era reale, prodotto in gran parte dalla bomba atomica, dal terrore atomico, dal fungo e dalle infinite insopportabili scoperture del martirio del popolo di Hiroshima: quel mattino di un giorno normale in cui i bambini in uniforme salivano sugli autobus scolastici salutati dalle loro madri e che si sarebbero trasformati in ombre poco dopo.

I fisici del progetto Alamo da cui furono prodotte le due bombe destinate al Giappone, ebbero molte crisi di coscienza: non tutti, ma Einstein si era dedicato alla bomba per poi opporsi al suo uso. Tutti quegli scienziati attraversarono diverse crisi di coscienza che però si attenuarono col crescere degli esperimenti atomici sovietici, e poi di quelli francesi e inglesi. La vita dei civili di allora, anni Sessanta e Settanta, sopravviveva su un pianeta bersagliato da continue esplosioni nucleari nei deserti, nei mari, nelle caverne scavate fra le montagne, sulle isole del Pacifico. Il simbolo del pacifismo fu disegnato dal grafico inglese Gerald Holtom alla fine degli anni Cinquanta ma esplose nei primi anni Sessanta insieme alla fantastica ed eversiva minigonna di Mary Quant, più o meno coeva della pillola contracettiva, cose che entrambe mutarono radicalmente non soltanto la qualità della vita con la rivoluzione sessuale, ma anche la prospettiva della vita e della felicità, un bene ignorato o dimenticato dopo decenni di terrore, massacri e precarietà.

E fu naturalmente la guerra del Vietnam a cambiare il corso della storia e dei sentimenti, nonché della musica, la percezione delle relazioni umane e l’arrivo delle droghe portate dai soldati americani negli Stati Uniti e di lì in Europa, in Asia e lentamente varcando le cupe frontiere dell’Est nel mondo sovietico. La televisione e la stampa portarono alla ribalta stragi e uccisioni indiscriminate e il filosofo Bertrand Russell insieme ad Albert Einstein avviarono la gigantesca opera pacifista ma anche di forte denuncia di quello che diverrà il Tribunale Russell. In Italia fiorirono moltissime associazioni pacifiste e antiautoritarie come quella di don Milani. Le lunghe lotte iniziate negli Stati Uniti per metter fine alla segregazione razziale negli Stati del Sud portarono alla ribalta figure gigantesche e tragiche come quella di Martin Luther King. Poi, niente grandi guerre ma solo macellerie di cortile come in Iraq e Afghanistan. Fino a questo nuovo conflitto nell’impero sovietico-zarista che ha posto una domanda alla Nanni Moretti: è miglior pacifismo quello che si fa lasciandosi ammazzare o quello in cui si risponde agli schiaffi magari gettando catinelle di acqua bollente dalle finestre come stanno pensando di fare le nonne ucraine?

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L'impegno a favore di chi fugge dalle guerre. Il “diritto” di disertare per stare dalla parte delle vittime. Luca Casarini su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

Sono uno di quelli che arrivati a un certo punto, non riesce più a non prendere parte fisicamente agli accadimenti, soprattutto se penso che in gioco vi sia la libertà e la democrazia. Ma prima ancora, l’umanità. Da quando ho due figli, non riesco a non pensare che è a loro che debbo lasciare qualcosa, anche fosse solo il vano tentativo di provare a fermare l’orrore, e non solo ad osservarlo mentre dispiega tutto il suo satanico fascino. Siamo circondati, invasi direi, da “combattenti per la libertà” da remoto, quelli che fisicamente possono stare dove vogliono e come vogliono, mentre giudicano e sentenziano, suggeriscono e fomentano. Ma è anche questa la logica della guerra. L’empatia verso chi la subisce, viene presto aggredita dalle pulsioni peggiori, che la soffocano di ideologia, la annichiliscono con la tifoseria, e le conseguenze possono divenire irreparabili. Fosse per alcuni noti ed autorevoli editorialisti, che alla mattina vanno al lavoro in doppiopetto e non in mimetica, saremmo già dovuti passare alla terza guerra mondiale nucleare.

L’odio verso i “disfattisti”, quei pacifisti cinici che in realtà “collaborano con il nemico”, è tipico del periodo. Ma i più guerrafondai sono, storicamente, i più codardi poi sul campo di battaglia. Tra i più avveduti, e non è un caso, ci sono molti militari di professione. Quelli che dicono “calma, calma, non bisogna allargare il conflitto, bisogna trovare una soluzione negoziale”. L’antichissimo e il modernissimo, in questa guerra, si mescolano perfettamente: i carriarmati che affondano nel fango, e le bombe termobariche che “svuotano i polmoni dall’aria”. I social e il sangue e il cervello spiaccicato sulla strada da un missile che colpisce chi tenta di fuggire. Le maratone televisive che seguono, passo passo, il morire di sete di una quindicenne chiusa in un rifugio. Mc’Donald e Amazon e i vecchi mig-29. E l’arena, con gli spettatori assiepati che dopo un po’ si abituano allo spettacolo. Come in un Colosseo 3.0, pollice alzato o pollice verso.

Per capire questa guerra, la guerra di questo tempo, ci servono più Matrix e Blade Runner che i documentari dell’Istituto Luce. Per non smarrire la bussola in questo delirio, ci serve più la storia di Davide e Golia della Bibbia, che i trattati sull’imperialismo. Disertare dunque: conservare gelosamente lo stare dalla parte delle vittime di questa strage, le donne, gli uomini e i bambini ucraini, e coltivare il desiderio di continuare a combattere contro l’Imperatore di turno, che oggi si chiama Putin. L’Imperatore, proietta direttamente e senza mediazioni, la visione di uno stato di polizia, omofobo, mafioso, dispotico ed autoritario, non solo all’interno dei suoi confini, ma anche fuori. Disertare, e dunque prendere parte, altro che equidistanza. Sto per tornare in mare, a bordo della Mare Jonio, per l’undicesima missione di ricerca e soccorso nel mediterraneo centrale, per aiutare i profughi che fuggono dalla Libia, a scappare. Mi accusano di “favorire l’immigrazione clandestina” per questo. Certo, per me non esiste nessun bambino, donna o uomo che possa essere definito “clandestino”. Per me i profughi che scappano dalle guerre come in Ucraina e dai lager come in Libia, vanno aiutati a fuggire, anche andandogli incontro. Sono un disertore, lo rivendico. Ieri sera, con tanti altri di Mediterranea, ho assistito a una delle tante riunioni che chiamo, da un po’ di tempo a questa parte, “cospirazioni del bene”. Tanti attiviste e attivisti si stanno preparando a una missione di terra, che andrà incontro ai profughi ucraini. Disertare la guerra, e sostenere la resistenza di un popolo all’invasione della sua terra, significa anche aiutare i suoi figli e le sue figlie, a sopravvivere, ad avere un futuro nonostante la guerra e oltre la guerra. Questa forma di resistenza è speciale: non fa morti, fa solo vivi.

Vent’anni fa esatti ho fatto lo scudo umano con altri attiviste e attivisti dentro uno dei due ospedali di Ramallah, durante l’operazione militare israeliana Miztva Homat Hagen, “scudo difensivo”, che portò a cavallo della Pasqua di quell’anno all’assedio di 6 città della Cisgiordania, tra cui quella dove risiedeva Yasser Arafat. L’operazione “scudo difensivo” fu una delle più grandi azioni militari dalla Guerra dei 6 giorni del 1967. Era il periodo della seconda Intifada, e noi eravamo giunti a Gerusalemme con una carovana di pace, Action for Peace, con Raffaella Bolini e tanti altri che anche adesso continuano a lottare contro la guerra. Decidemmo a un certo punto di trasformarci in corpo di interposizione, entrando direttamente nei luoghi del conflitto. Entrammo a gruppi eludendo i check point, con dei piccoli van guidati da palestinesi. A me andò dritta, fui il primo a “testare” il sistema. Ad altri dopo, andò peggio: qualche sparo, un blindato che si mette di mezzo in strada e altro. Per tutti, tanta paura. Il governo israeliano di allora aveva deciso, con l’uso di carri armati, elicotteri da guerra e truppe di terra, di “smilitarizzare” i gruppi armati palestinesi che avevano portato a termine una serie di attentati terroristici in città israeliane, e il “casus belli” fu l’attentato suicida di Netanya, al Park Hotel, dove morirono 30 persone innocenti e altre 140 rimasero gravemente ferite. Anche bambini. Rimasi venti giorni chiuso dentro quell’ospedale, c’erano Luisa Morgantini e tanti e tante, e quando arrivavano i tank di Israele, uscivamo con i passaporti in mano, gridando “europei, europei!”.

Non abbiamo subito bombardamenti, sentivamo di notte e di giorno i colpi tutto attorno a noi, a cento metri, ma non credo che l’esercito sarebbe arrivato a colpire con i missili e con i pazienti dentro. Di sicuro non con dentro noi. Piuttosto, come avevano fatto con l’altro ospedale cittadino, se non ci fossimo stati lo avrebbero distrutto entrandoci dentro, con la scusa della ricerca di possibili elementi nascosti lì dentro, dei gruppi armati palestinesi. Ma in questi casi, l’obiettivo di terrorizzare la popolazione civile, viene prima. Renderlo inservibile, far diventare impossibile per le persone andarci, far sentire l’ansia ad una città intera che non ha più luoghi di riparo e dove farsi salvare, farsi curare. Con quella brigata di attivisti contro la guerra, dovemmo a un certo punto, “proteggere” con i nostri corpi, lo scavo di una fossa comune, proprio nel terreno accanto all’ospedale, perché tra le tante tecniche di un esercito di occupazione per far impazzire e piegare una città, ho imparato che c’è anche quella di non permettere il rifornimento di gas refrigerante per l’obitorio. Seppellimmo, passandoci di mano in mano i corpi dei morti, 24 persone, avvolte in un lenzuolo bianco, adagiandole una a fianco dell’altra, su quel fondo di terra. Ogni corpo era disteso su una tavola di legno, di quelle che si usano in edilizia. Le grida e i pianti delle madri, delle sorelle, inginocchiate, mi vengono ancora a cercare ogni tanto. Dormivamo dentro l’ospedale, a terra o in barelle che per forza sarebbero rimaste quasi tutte vuote. Attorno, la guerra, ci appariva dal frastuono delle bombe, dei colpi di artiglieria.

Ci avevano spiegato di stare attenti, a destra e a sinistra dell’entrata, da qualche punto difronte, sparavano i cecchini. Colpi precisi, secchi, calibro 22. Non avevo mai visto un foro provocato da un calibro 22. Una mattina una signora, rimasta imprigionata dal giorno di inizio dell’assedio in quell’ospedale dove era ricoverata, volle a tutti i costi uscire. Voleva tornare a casa dai figli, che diceva “erano soli”. La guardavamo mentre camminava rasente al muro, veloce. Io non ho sentito il rumore dello sparo. Ho visto lei che si accasciava, di colpo. Con un architetto di Venezia, Cristiano, anche lui con noi, corremmo verso di lei. Avevamo fatto a tempo a prendere in mano un camice di un medico, per sventolarlo come bandiera bianca. Ci morì tra le braccia, quella signora, stretta nel suo fazzoletto azzurro. Il foro di entrata era piccolo. Sul collo. Quello di uscita, all’altezza dello stomaco, aveva inondato di sangue tutto il vestito, e le nostre mani. Dopo la fine di tutto, a Tel Aviv, prima che mi consegnassero il decreto di espulsione da Israele, raccontai quello che avevo vissuto a un cronista della Rai, un inviato. Era Marc Innaro. Luca Casarini

Il dibattito sul conflitto in Ucraina. Il “dovere della resa” ucraina espone al rischio di sembrare complici di Putin. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 30 Marzo 2022. 

La convinzione che esista un “dovere della resa”, propugnata da questo giornale e condivisa non occasionalmente in ambienti di ispirazione opposta, deve fare i conti con un pericolo tanto palese quanto trascurato. E cioè l’idea che quel dovere dipenda anche, se non soprattutto, da una specie di colpa di chi subisce l’aggressione: l’idea che egli debba arrendersi, insomma, perché non ha pienamente ragione, e forse anche perché l’aggressore non ha pienamente torto.

Negare che questo pericolo esista mi pare a dir poco disonesto, e mi pare che i sostenitori del dovere della resa dovrebbero farsi carico del dovere di scongiurarlo: e il primo modo è riconoscere che c’è. Pur senza giungere all’indugio sulle doti morali dell’aggredito, che va di conserva con le divagazioni sui guerrafondai da divano, è ben diffusa (altro che minoritaria) l’impostazione per cui il diritto di non essere bombardati non è proprio incondizionato, e trova un limite se il curriculum dell’aggredito ha qualche magagna. Che so? Una villa in Versilia, o qualche svastica negli scantinati, o un discutibile occhieggiare a Ovest, che dopotutto è un verminaio di massacratori anche più detestabile, oltretutto compiutamente capitalista e dunque anche meno titolato a mettere becco.

Ripetere incessantemente che l’aggressore è russo e l’aggredito è ucraino – formula adoperata per chiarire che il dovere della resa è invocato senza rinnegare che i ruoli sono comunque quelli – non basta a risolvere il problema di cui sto dicendo, e anzi serve ad accantonarlo. E il problema è il pregiudizio per cui gli ucraini e l’Ucraina, presieduta da quel vanesio, un po’ se la siano cercata: e dopotutto i russi li avevano ben avvertiti. Siamo sicuri che la proclamazione del dovere della resa non sia alimentata mai, proprio mai, da questo pregiudizio? Siamo sicuri che mai, proprio mai, ne tragga alimento? Iuri Maria Prado

Azzaro: “Il dovere della resa, perché la vita viene prima di tutto”. Il riformista il 10 marzo 2022.

Le anticipazioni del giornale in edicola domani raccontate da Angela Azzaro, vicedirettrice de Il Riformista: “Anche oggi un giorno di guerra e anche oggi raccontiamo quello che è accaduto soprattutto sul fronte diplomatico, con il fallimento dei negoziati in Turchia e poi i capi di Stato e di governo che si sono incontrati a Versailles per tentare di continuare a costruire delle proposte che possano colpire Putin.

Il Riformista continua la sua discussione e il suo dibattito su come costruire la pace e lo fa con un titolo molto forte: “Il dovere della resa”. È un articolo di Alberto Cisterna, in cui si mette in discussione l’idea che per forza bisogna resistere quando in gioco ci sono le vite umane. La sua non è una provocazione, ma un serio ragionamento che parte dalla messa in discussione del mito dell’eroe perdente, di colui che sacrifica la propria vita per difendere la patria. La vita, dice Cisterna, viene prima di tutto, pur partendo dal riconoscimento che è c’è un’aggressione criminale da parte di Putin e di un popolo che sta subendo questa aggressione. Non c’è il tentativo di mettere sullo stesso piano i due popoli o i due Paesi.

Sempre sul piano del dibattito, ospitiamo due articoli contrapposti: uno di Piero Fassino che rivendica la scelta dell’Italia di mandare le armi all’Ucraina, anche in nome di quello che è l’articolo 11 della Costituzione; l’altro articolo è invece di Luca Casarini che afferma che disertare un valore vuol dire stare dalla parte delle vittime, in questo caso il popolo ucraino.

Rilevante è un articolo del direttore Piero Sansonetti, in cui si parla dell’editore de Il Riformista e del processo che sta subendo a Napoli. È l’ennesimo drammatico caso di malagiustizia in Italia”.

Ucraina, Sansonetti e Liguori: “C’è onore nella resa”. Il riformista il 10 marzo 2022. 

“Se la scelta più logica, meno costosa e meno sanguinosa è la resa, allora io dico che c’è il dovere della resa”, dice il direttore de Il Riformista Piero Sansonetti sulla guerra russa in Ucraina durante la rubrica ‘Attenti a quei due’ de il Riformista Tv. E poi, rivolgendosi al direttore del TgCom Paolo Liguori, Sansonetti chiede: “La resa è legittima? È nobile?”. “Io penso che ci sia perfino onore nella resa”, afferma Liguori. “Se un capo fa il bilancio e sta soffrendo perdite umane e fa il bilancio su quanti ne può salvare ogni minuto, allora c’è onore nella resa, c’è coraggio”, sostiene il direttore del TgCom. E poi aggiunge che nella resa c’è anche “una forma di patriottismo”.

Il dovere della resa. Perché Zelensky ha il dovere della resa: l’Ucraina è sconfitta militarmente e la armi occidentali non avranno risultati. Alberto Cisterna su Il Riformista l'11 Marzo 2022. 

Ci sono frasi che galleggiano nella memoria. Libri, articoli, conversazioni, film compongono un mosaico di immagini, di ricordi. Evocano, suggeriscono, provocano. Nello scorrere delle immagini che documentano da giorni l’esodo tremendo e immane di milioni di ucraini verso la frontiera polacca o i bombardamenti delle città, la mente vorrebbe staccare, volgere altrove il proprio sguardo. Poi una frase inchioda la riflessione. Non importa che venga da una celebrata opera letteraria o da una pellicola hollywoodiana di successo, le parole restano lì sospese e rivendicano un’attenzione.

I primi minuti del Gladiatore hanno stupefatto e suggestionato milioni di spettatori in tutto il mondo. L’esercito romano schierato vede lanciarsi in battaglia le tribù germaniche destinate al sacrificio e alla morte, il centurione Quinto si rivolge al proprio generale: «Un popolo dovrebbe capire quando è sconfitto» e Massimo di rimando: «Tu lo capiresti Quinto? Io lo capirei?». È un dialogo banale, forse. A cercare da Dante a Dostoevskij si troverebbe di molto meglio. Forse bisognerebbe sfogliare le pagine di Hans Magnus Enzensberger (Il perdente radicale, trad. it. 2007) per cogliere la sindrome dello sconfitto che non prende atto della propria condizione e ostinatamente non abbandona la lotta. Non rassegnarsi alla sconfitta come i giapponesi nelle isole del Pacifico nel 1945 o i ragazzi tedeschi tra le macerie di Berlino intorno al bunker di Hitler. C’è una patologia in colui che non si arrende e in modo irriducibile prosegue la battaglia sino all’epilogo. La nostra cultura (il mito di Ettore ucciso sotto le mura di Troia) ha sviluppato da millenni il culto dell’eroe destinato al sacrificio, di colui che si immola nella perfetta consapevolezza della sconfitta e che pur non recede. E, oggi, guarda con ammirazione e simpatia al presidente ucraino Zelensky in cui scorge i tratti dell’eroe perdente. La sua risposta all’idea degli Usa di portarlo in salvo lontano da Kiev resta da annotare tra quelle simboliche e forse memorabili: «ho chiesto armi, non ho bisogno di un passaggio». Eppure, eppure.

Quinto evoca la sconfitta di un popolo, ne immagina una coscienza collettiva, Massimo nella sua dimensione individualistica rapporta ciò che accade solo a se stesso e al suo commilitone. Un popolo e un eroe. Tutti sanno che l’Ucraina è sconfitta militarmente. Tutti sanno che lo era un minuto dopo l’inizio dell’aggressione. Tutti sanno che la resistenza e l’invio di armi dall’Occidente non ha e non avrà alcun risultato se non quello di provocare altre migliaia di vittime, fino a quando l’Orso russo non avrà sferrato la sua ultima, rabbiosa e mortale, zampata. Siamo finiti nella trappola emotiva dell’eroe perdente. Come i troiani affacciati dalle mura di Ilio contempliamo la spianata ucraina e attendiamo che Achille faccia strame del corpo di Ettore. Sapendo sin dall’inizio come andrà a finire. Non è una trappola mediatica né causale né ingiustificata. Le stragi del popolo ucraino retrocedono Putin al rango di un autocrate sanguinario e ne distruggono per sempre la reputazione agli occhi dell’Occidente. Il sangue che scorre purifica la cattiva coscienza della Nato per la gestione complessiva dell’affaire ucraino.

Quell’Occidente ha colto subito l’opportunità della narrazione del mito di un eroe sconfitto da un gigante, di Golia che questa volta schiaccia Davide, e pretende di rivestirsi della pietas di colui che si inginocchia sul corpo di chi cade. Questo poco nobile atteggiamento esigerebbe parole chiare. Un popolo non può essere mandato al massacro e all’esodo sol perché un uomo, o una élite ha deciso che la resistenza sino all’eccidio sia la strada migliore, quella che consegna alla storia o anche solo alla misericordia dei vicini o alla speranza di una vendetta. La guerra è la più complessa delle dimensioni della politica e la politica non prevede l’autoannientamento del proprio popolo, se non in visioni demoniache. La resa è un dovere, quando a pagare il prezzo di una lotta senza speranza sono i più fragili e gli ultimi. Kiev non è Stalingrado.

L’Ucraina non dispone delle industrie belliche di Stalin spostate a Est e non ha milioni di soldati da lanciare nella lotta né alleati disposti a sbarcare in Normandia. È un paese praticamente inerme che deve cedere alla violenza per preservare la propria sorte. Non esiste un popolo votato al sacrificio, non lo sono stati neppure gli ebrei della Shoah, e gli eroi non hanno il diritto di condurlo a morte. La resa è il sacrificio meno nobile, il gesto più vituperato, la scelta meno romantica, ma è il dovere di chi governa una nazione.,Alberto Cisterna

Giampiero Mughini per Dagospia il 9 marzo 2022.

Caro Dago, mi accade poche volte ma questa volta mi è accaduto di non essere d’accordo con la sonante titolazione di un tuo pezzo, che è poi l’arma comunicativa più forte del tuo sito. Mi è accaduto di non essere d’accordo con quel “Abbiamo calato le brache” che sta in testa al tuo pezzo che fa stamane da apertura, quello in cui annunci che il presidente dell’Ucraina, Volodymir Zelenskiy, è finalmente disposto ad accettare un terreno di compromesso con l’invasore russo.

Ovvero accettare di dare qualcosa a Vladimir Putin, ad esempio accettare che in Crimea i russi ci si sono installati punto e basta, e non più chiedere seccamente che i russi si “ritirino come aveva fatto finora. In politica (e la guerra non è altro che la continuazione della politica) da che mondo è mondo si trova un compromesso tra le parti, in questo caso un compromesso che non violi la sovranità dell’Ucraina né l’identità che si è data a partire dal 2014, ovvero di non essere un paese satellite del gigante sovietico. 

A parte che il trovare un compromesso non vedo come altrimenti si possa arrestare il bagno di sangue in Ucraina, la prolungata agonia di una guerra che il gigante sovietico non può non vincere. Ogni riferimento all’eroica resistenza della Gran Bretagna contro i bombardieri nazi dell’estate 1940 è totalmente fuori luogo. Non un solo minuto i nazi furono lì lì per vincere la battaglia d’Inghilterra, per sbarcare con probabilità di vittoria sulle coste inglesi.

Mai un solo minuto. Niente a che vedere con il rapporto di forze sui campi ucraini di oggi. Dov’è solo una distruzione che si accentua ogni giorno di più e che confesso non riesco neppure a guardare, a sopportare, comodo come me ne sto sulla poltrona di Gaetano Pesce nel guardare la televisione. Neppure un istante riesco a dire “Bravi, bravi!” agli ucraini che muoiono mentre resistono.

Non sono sopportabili neppure un istante le immagini di quella famiglia che con il loro bravo trolley se ne stava fuggendo da qualche parte e una bomba di mortaio l’ha centrata in pieno per strada, moglie, marito, le due figlie. Un’immagine atroce che è solo un millesimo di quello di atroce che sta avvenendo ogni minuto e per la prima volta in Europa dopo la fine della Seconda guerra mondiale. 

E laddove noi tutti eravamo convinti che dalle nostre parti non si potesse più pronunciare la parola “guerra”. La si poteva pronunciare dalle parti del Vietnam o dell’Afghanistan, non dalle parti di una nazione europea, di città che sono esattamente come le nostre, di gente che vive esattamente come noi e sulla quale sta piombando un putiferio di fuoco e di morte.

Un compromesso che faccia tacere le armi. Non c’è altra soluzione, non c’è altro stop possibile a questa tragedia. E penso che sia una fesseria quella di chi dice che appena Putin avrà ottenuto qualcosa dalla sua invasione dell’Ucraina, subito si metterà a preparare un’altra mazzata contro qualcun altro degli Stati con cui l’Urss confina. Noi ci dobbiamo convivere con l’Urss com’è oggi. Non c’è altra via di scampo. Dio santo, non c’è. 

Il coraggio di arrendersi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Marzo 2022. 

Dopo più di vent’anni di battaglie furiose, perse e vinte, con il corpo e il volto carichi di cicatrici, il 19 luglio del 1881 Toro Seduto si arrese all’esercito degli invasori. Cioè agli americani. Lo fece per salvare il suo popolo, perché aveva capito che ormai non poteva più sconfiggere i soldati blu, e poteva solo provocare altre morti tra i suoi. Fece bene? Non so, dal momento che poi i vincitori non furono molto generosi, sicuramente si comportò da capo. Si fece arrestare per salvare vite umane.

Quasi duemila anni prima, più o meno nel cinquanta avanti Cristo, un grande guerriero francese, che veniva chiamato Vercingetorige, dopo avere più volte sconfitto le legioni romane, guidate da Giulio Cesare, vedendosi chiuso nell’assedio della città di Alesia, e capendo che non avrebbe più potuto vincere, si arrese e chiese pietà a Giulio Cesare per il suo popolo, si gettò in ginocchio e offrì la sua vita in cambio della salvezza dei Galli. Cesare accettò, lo fece prigioniero, lo usò per rendere più sfarzose le sue feste, mostrandolo in catene, lo umiliò in ogni modo e poi lo fece strangolare. Oggi però i francesi vanno orgogliosi di quel loro antico eroe, che, in fondo, fu proprio il primo eroe della futura Francia e della futura Europa. Si diceva che fosse il capo dei barbari. Ma forse il barbaro era Cesare. Nessuno, immagino, vorrà dirmi che Toro Seduto o Vercingetorige fossero dei vigliacchi. Erano dei guerrieri. Coraggiosissimi e anche geniali. Dicono gli storici che avevano doti strategiche e militari sconosciute e straordinarie.

Vercingetorige, se ho capito bene, è l’inventore della guerriglia. Toro Seduto della sorpresa e dell’agguato. Non erano mica dei perdenti. Cesare più volte fu costretto alla fuga. E il generale Custer era convinto di travolgere i Sioux e poi, con una medaglia sul petto, di partecipare alle elezioni del presidente degli Stati Uniti del 1876. Sognava la Casa Bianca. Così li attaccò a Little Big Horn, in luglio, vigilia elettorale. Ma i sioux, a sorpresa, contrattaccarono, sterminarono il settimo cavalleggeri e uccisero Custer. Alla Casa Bianca andò il pacifico governatore dell’Ohio. Si chiamava Rutheford Hayes. Eppure questi due grandi guerrieri – il francese e il Sioux – si arresero. La resa è viltà? È vergogna? È rinuncia? Naturalmente non esiste un principio generale. Alle volte la resa è rinuncia e sconfitta. Alle volte no. Nel settembre del 1943 l’Italia si arrese agli anglo-americani e fece benissimo ad arrendersi. Sebbene lo fece in modo poco onorevole, con la precipitosa fuga da Roma del Re e dei generali e con l’abbandono di un esercito e di un popolo allo sbando. Il contrario di quello che avevano fatto Vercingetorige e Toro seduto. Loro avevano offerto se stessi e i propri corpi per la salvezza dei loro soldati e del popolo. I Savoia offrirono al nuovo nemico, ai tedeschi, il proprio popolo in cambio della loro salvezza.

Ieri Alberto Cisterna, magistrato prestigioso ed esperto, intellettuale, collaboratore molto attivo del nostro giornale, ha avanzato l’ipotesi che in certe condizioni la resa sia un dovere. E il riferimento esplicito era all’Ucraina. Forse proprio la crudezza della parola ha creato molte polemiche. “Resa”. Resa è una parola impronunciabile nella retorica secolare e corrente. È la fine della dignità, o della virilità, del coraggio, del patriottismo. Io non ho alcun disprezzo – anche se non li ho mai sentiti miei – per valori come quelli della dignità, del coraggio, del patriottismo, e non ho mai pensato che chi li pone al vertice del proprio pantheon etico sia una persona che non merita rispetto e ammirazione. Così come continuo sinceramente a stimare le persone che vorrebbero una soluzione di forza e di guerra per l’Ucraina, e che pensano che la sconfitta dei russi, la più dura possibile, sia l’unica via d’uscita dalla crisi. Quando le questioni delle quali si discute sono così complesse e tragiche non c’è niente di più sciocco che dividersi in squadre e indicare come utile idiota chi non la pensa come te. Pubblichiamo un articolo molto bello di Paolo Guzzanti, che sostiene tesi opposte alle mie. E Bobo Craxi dà un giudizio ancora più severo sull’ipotesi della resa. Beh, vi assicuro che Bobo, e Paolo ed io possiamo continuare a discutere di queste cose per tutto il tempo necessario senza perdere un grammo di stima l’uno verso l’altro.

Io chiedo solo che tutte le posizioni siano considerate legittime. Anche quella estrema che ha espresso Alberto Cisterna e che io condivido in pieno. Dalla prima all’ultima riga. E chiedo che l’idea di chi pensa che risparmiare qualche centinaio o qualche migliaio di morti sia, in questo frangente, non un’opzione ma un dovere, e che talvolta le ragioni supreme della politica e degli stati, e anche dei popoli intesi come “indefinito collettivo”, siano meno supreme di quelle della difesa della vita di singole persone umane, sia considerata una idea possibile. Le ragioni di questa mia posizione risiedono, più o meno, nel vecchio e glorioso pensiero pacifista. Del quale l’Italia è stata una delle culle. Il pensiero di San Francesco, di Teodoro Moneta, di Primo Mazzolari, di Aldo Capitini, di Alex Langher. È il pensiero di vecchi utopisti? Può darsi. O forse invece è il cemento della civiltà moderna. Io sono più per la seconda ipotesi.

P.S. Paolo Mieli, persona che conosco più o meno da mezzo secolo, e che più o meno da mezzo secolo stimo, ieri mi ha preso un po’ in giro, alla radio, sostenendo che ho finito per abbracciare le posizioni di Marco Travaglio. Se Travaglio ed io abbiamo le stesse posizioni sulla guerra son contento. Io sono pacifista dagli anni Sessanta, lui, credo, da qualche mese. O da qualche giorno. Va benissimo così. Benvenuto. Sempre che non sia un pacifismo nato solo dall’idiosincrasia per Draghi…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” l'8 marzo 2022.

Ai tempi della seconda guerra mondiale, quando quel coglione di Hitler con il suo degno compare Mussolini volevano conquistare il pianeta, e si ignora per farne che cosa, un certo Churchill disse ai suoi connazionali: vi prometto lacrime e sangue, ma dobbiamo vincere. Non c'erano alternative, bisognava combattere, e gli inglesi non si tirarono indietro e riuscirono a piegare i tedeschi e i fascisti. Erano forti e bene armati. Ma gli ucraini, benché dotati di un temperamento di ferro, non sono attrezzati per contrastare i russi.

Basti pensare che si oppongono ai missili di Mosca con le molotov confezionate nel tinello. Una prova plateale di debolezza bellica che sottolinea una sorta di velleitarismo incosciente da parte degli avversari di Putin, il quale è un pazzo scatenato ma dispone di una forza militare debordante. Quindi avanza, distrugge, uccide come se disputasse una partita sportiva. Ovvio che lo zar ha torto marcio e che gli ucraini essendo orgogliosi si difendono con disperazione, direi con spirito eroico.

Ma il patriottismo, quando sei inferiore al nemico, serve solo a morire con onore. Ne vale la pena? Le scene che ci propongono le televisioni sono struggenti, non vorremmo vederle perché ci fanno soffrire. E ci domandiamo: era il caso che Kiev decidesse di affrontare uno scontro tanto cruento pur non disponendo di mezzi idonei onde resistere ad assalti mostruosi? Non mi pare sia stata una scelta intelligente. Zelensky, il comicissimo presidente ucraino, a mio modesto avviso, accettando il confronto bellico con Putin ha dimostrato di essere fuori di testa.

Doveva sapere che sarebbe stato travolto dall'esercito ex sovietico, mille volte più aggressivo dei suoi plotoni di soldati improvvisati e male equipaggiati, non in grado di essere all'altezza della situazione. Se avesse avuto un po', solo un po', di buon senso davanti alla minaccia russa sarebbe stato costretto ad arrendersi, accettando un negoziato con il despota del Cremlino allo scopo di evitare la tragedia in atto.

Il primo dovere di un governante e di un capo dello Stato è salvare la pelle ai suoi cittadini, non quello di mandarli allo sbaraglio per una questione di onore, pur essendo consapevole che sarebbero stati massacrati con le loro famiglie, bimbi inclusi. Pertanto la conclusione del mio pistolotto è questa: Zelensky è peggio di Putin a cui ha consegnato il suo popolo impreparato affinché ne facesse una carneficina. 

L'uomo da mandare al macero insieme con il vecchio spione del kgb è proprio l'attorucolo insediatosi ai vertici della repubblica Ucraina, il quale se avesse ragionevolmente ceduto dopo il primo bombardamento oggi saremmo tutti più sereni e non terrorizzati all'idea di un massacro internazionale. Molto meglio alzare bandiera bianca che infilarsi nella terra dei cimiteri.

Elogio della resa? Credo che sarebbe stato più sensato e utile mediare, provare non a sconfiggere Putin con il sedere degli altri, ma a fermarlo, a scombussolarne i piani. Toni Capuozzo (via Facebook) Il Dubbio il 7 marzo 2022.

E’ domenica, nevica, e avrei voluto raccontarvi di questi giorni in Bosnia, a girare tra quel che resta di una guerra lontana. E invece mi torna in mente di quando ero un giovane inviato nelle rivoluzioni dell’America Latina, e non riuscivo a non sorprendermi della crudezza di una parola d’ordine diffusa: “Patria o muerte”. Veniva da un discorso di Fidel Castro nel 1960, ma assomigliava alle storie risorgimentali che mi avevano insegnato a scuola, a un’ idea del sacrificio che mi pareva marmorea, retorica, e fuori dal mio tempo (Non avresti combattuto il nazifascismo ? Credo di sì, ma non è il mio tempo…). Mi è successo tante altre volte di chiedermi se avessero ragione quelli che si apprestavano, o almeno si dichiaravano pronti a morire per qualcosa, da Sarajevo a Gerusalemme, da Kabul a Mogadiscio, dalla Libia alla Siria. Sono uno che prova paura, ed evitavo di chiedermi se la mia distanza fosse viltà, o miseria di valori. Mi dicevo che morirei per salvare i miei figli, e la domanda successiva riapriva il problema: dove arriverei per difendere i figli degli altri ? So come me la cavavo: non morirei, ma neanche ucciderei in nome di una bandiera, in nome di un confine, non c’è nulla che valga la vita di un altro. Questa mia confusione ritorna, in questi giorni. Voglio confessarla semplicemente, come un pensiero banale.

Non mi sorprende la voglia di resistenza degli ucraini, anche se penso che la loro esperienza di guerra, prima, fosse solo la guerra sporca del Donbass. Non mi sorprende che resistano con un orgoglio quasi commovente a un’aggressione. Mi sorprende il loro leader, che riscuote tanta ammirazione per un comportamento che ci sembra senza pari, tra i politici nostri, e per la forza delle parole, delle espressioni, della barba trascurata e delle magliette da combattente. Un grande leader, per me, non è chi è pronto a morire. Questo dovrebbe essere il minimo sindacale. Un grande leader è quello che accompagna il suo popolo nella traversata del deserto, lo salva. Ecco, a me pare che Zelensky lo stia accompagnando allo sbaraglio, sia pure in nome della dignità e della libertà e dell’autodifesa, tutte cause degnissime. E dunque mi sorprende ancora di più l’Occidente che lo spinge, lo arma, e in definitiva lo illude, perché non acconsente a dichiarare quella no fly zone che vorrebbe dire essere trascinati in guerra, come a Zelensky non dispiacerebbe. E da questa comoda posizione però incita, fosse mai che la trappola diventi la tomba per Putin: si chiamano proxy war, guerre per interposta persona, che altri combattono in nome tuo. Se va bene, bene, abbiamo vinto. Se va male, che siano curdi o afghani, hanno perso loro. In due parole: credo che sarebbe stato più sensato e utile mediare, provare non a sconfiggere Putin con il sedere degli altri, ma a fermarlo, a scombussolarne i piani. Cosa intendo ? Una resa dignitosa, una trattativa per cedere qualcosa ma non tutto, per raffreddare il conflitto, mettendo in campo caschi blu e osservatori, idee e prese di tempo. E invece vedo che piace l’eroismo, vedo che i nazionalismi non fanno più paura, che patria o morte torna di moda, dopo che anche i presidenti della Repubblica erano passati al termine “Paese”: piacciono le patrie altrui. No, si chiama de escalation: evitare che milioni debbano scappare. Evitare che migliaia debbano morire, salvare il salvabile, le idee e le persone che si fa in tempo a salvare. Però ormai lo scelgono loro. Per quel che riguarda noi, risparmiamoci almeno la retorica.

LO SPORT.

Ucraina, si gioca a calcio sotto le bombe. La partita dura 4 ore e mezza. Salvatore Riggio il 24 agosto 2022 su Il Corriere della Sera

Nel dolore più grande, il calcio cerca di ridare serenità a un paese intero. La guerra non ferma il campionato in Ucraina ma giocare sotto le bombe è davvero un’impresa ardua. E così una gara della Premier League ucraina, disputatasi mercoledì 24 agosto, è durata addirittura quattro ore e 27 minuti invece dei normali 90 minuti dopo essere stata interrotta dalle sirene dell’allarme aereo.

Rukh Lviv e Metalist Kharkiv hanno iniziato la partita allo stadio Ukraina della città occidentale di Lviv alle ore 15 locali e l’hanno terminata alle 19.27, con tre pause dopo il suono delle sirene. Per la cronaca, alla fine il Metalist ha vinto per 2-1, con le squadre che hanno trascorso ben 145 minuti in totale in un rifugio e nessun attacco rilevato nell’area. Tanta la paura, i timori, ma alla fine la gara è ripresa. Nonostante la guerra, in Ucraina la nuova stagione calcistica è iniziata martedì 23 agosto. C’è l’invasione in corso da parte della Russia e con lo sport, e in questo caso il calcio, c’è il tentativo di dare una spinta al morale della nazione devastata dalla guerra. Nelle quattro partite precedentemente giocate, nessuna è stata interrotta dalle sirene degli allarmi aerei. Le partite si svolgono senza spettatori per motivi di sicurezza. E sono tante le squadre che giocano le partite in casa non nelle loro città, ma in gran parte nelle più sicure regioni occidentali o centrali.

Da leggo.it il 26 agosto 2022.  

Una partita della Premier League ucraina di mercoledì è durata 4 ore e 27 minuti invece dei normali 90 minuti dopo essere stata interrotta dalle sirene dei raid aerei. 

Rukh Lviv e Metalist Kharkiv hanno iniziato la loro partita allo stadio Ukraina nella città occidentale di Lviv alle 15:00 ora locale (12:00 GMT) e l'hanno terminata alle 19:27, con tre pause dopo il suono delle sirene. Il Metalist alla fine ha vinto 2-1, con le squadre che hanno trascorso 145 minuti in totale in un rifugio e non sono stati rilevati colpi nell'area.

L'Ucraina ha lanciato la sua nuova stagione calcistica ieri nonostante l'invasione russa in corso, nel tentativo di dare una spinta morale alla nazione devastata dalla guerra. Quel giorno furono giocate quattro partite ma nessuna è stata interrotta a causa di allarmi antiaerei. Le partite si svolgono senza spettatori per motivi di sicurezza.

Molti club giocano le partite casalinghe non nelle proprie città, ma principalmente nelle regioni occidentali o centrali più sicure. I club ucraini hanno deciso ad aprile di terminare la stagione precedente in anticipo dopo che era stata sospesa in seguito all'invasione della Russia iniziata il 24 febbraio. 

Europei di calcio, la Russia si vuole candidare per le edizioni 2028 o 2032. Felice Emmanuele e Paolo de Chiara il 23/03/2022 su Notizie.it.

La provocazione della Russia: si vuole candidare agli Europei di calcio del 2028. La scadenza è oggi. 

La Russia, annunciando di volersi candidare agli Europei del 2028 e del 2031, sfida l’Europa e provoca la FIFA e la UEFA, che hanno escluso sia le squadre di club che la nazionale russa da tutte le competizioni.

La Russia si vuole candidare per ospitare gli Europei nel 2028 o nel 2032

L’annuncio era già stato fatto da Sergey Anokhin, membro del Comitato Esecutivo della RFU. Anokhin aveva dichiarato che la Federazione avrebbe presentato ufficialmente la domanda per partecipare all’edizione degli Europei 2028 o 2032. Il termine per presentare la domanda per Euro 2028 è oggi, 23 marzo 2022. Il Direttore Generale del Comitato Esecutivo della RFU Rustem Saymanov ha confermato le parole di Anokhin dichiarando: “La RFU farà domanda per gli Europei 2028 e 2032, questo non è uno scherzo.

La vita continua, siamo aperti e pronti, non dobbiamo essere chiusi nei confronti di UEFA e FIFA. Abbiamo ospitato tante gare di alto livello e c’è molto tempo fino ad allora, la situazione cambierà e studieremo tutto nei minimi particolari“.

Provocazione o intenzioni serie?

UEFA e FIFA hanno preso decisioni drastiche ed ostili nei confronti della Russia a causa dell’invasione dell’Ucraina che va avanti da un mese. Bisognerà vedere adesso se la Russia presenterà effettivamente la domanda di partecipazione o se si tratta di una mera provocazione.

Al momento la UEFA non ha rilasciato dichiarazioni. Le altre Nazioni candidate all’edizione degli Europei previsti nel 2028 sono: Turchia e congiuntamente Romania, Bulgaria, Grecia e Serbia. Anche Regno Unito e Irlanda hanno fatto domanda e al momento i pronostici danno questi due Paesi come favoriti per l’assegnazione di Euro 2028.

Salvatore Riggio per corriere.it il 10 marzo 2022.  

Quello di Anatoliy Tymoshchuk, ex calciatore e oggi vice allenatore di Sergej Semak allo Zenit San Pietroburgo, in Russia, è un silenzio che fa rumore. Il 42enne è un simbolo del calcio ucraino, che detiene il record di presenze con la Nazionale gialloblù. Da quando l’esercito russo ha invaso il suo Paese, lui non ha mai rilasciato una dichiarazione di condanna contro il governo di Vladimir Putin.

Nessuna presa di posizione, nessun messaggio di pace. L’ultimo post sui propri profili social risale al 25 gennaio. Adesso rischia di essere rinnegato dalla Federcalcio ucraina, che sta prendendo in considerazione l’ipotesi di togliergli tutto: titoli, riconoscimenti, record e anche le licenze per allenare collezionati nella sua carriera.

«Dall’inizio dell’aggressione militare russa contro l’Ucraina, Tymoshchuk , l’ex capitano della nazionale, non solo non ha rilasciato dichiarazioni pubbliche al riguardo, ma non ha nemmeno interrotto la sua collaborazione con il club dell’aggressore. In un momento in cui un altro ex club dell’ucraino, l’FC Bayern Monaco, pubblica dichiarazioni e tiene azioni a sostegno del nostro Paese, Tymoshchuk continua a rimanere in silenzio e a lavorare per il club dell’aggressore. Con questa scelta consapevole, Tymoshchuk danneggia l’immagine del calcio ucraino», si legge nel comunicato.

 Non solo. Perché nei giorni scorsi l’ex centrocampista è stato criticato in maniera feroce anche da calciatori ed ex compagni di squadra. Come Oleksander Aliyev (insieme in Nazionale) che lo ha accusato di essere un traditore. Oppure il fantasista dell’Atalanta, Malinovskyi, ha accusato il suo ex idolo dicendo che ormai per lui «Non è più una leggenda».

Nella sua carriera Tymoshchuk ha indossato le maglie di Volyn e Shakhtar (dove Nevio Scala gli affidò la fascia di capitano), poi in Russia nello Zenit, e nel Bayern Monaco vincendo ben 21 trofei tra cui anche una Coppa Uefa, una Supercoppa e una Champions, quella del 2013 contro il Borussia Dortmund (anche se non giocò la finale). Ben 144 le presenze con l’Ucraina. Nessuno come lui, nemmeno un’altra leggenda, Shevchenko, che si è fermato a quota 111. 

Dalla rubrica della posta di “Repubblica” il 6 marzo 2022.

Caro Merlo, gli atleti russi e bielorussi, dopo anni di allenamenti e speranze, non potranno partecipare alle paralimpiadi. Pare che altri Paesi abbiano minacciato di non partecipare se loro fossero stati ammessi. Credo poi che la maggior parte degli atleti esclusi sia contro la guerra. Le sembra giusto?

Risposta di Francesco Merlo

No. Le olimpiadi sono, per origine e natura, pacifiste, al punto che per realizzarle si fermavano le guerre. Le paralimpiadi lo sono, ça va sans dire , ancora di più. In generale, la caccia al russo è una tentazione nella quale non dovremmo cadere, sia che si tratti di musica, di sport o di letteratura.

È sbagliata l'idea che dovunque sia coinvolto un russo è coinvolto Putin. Di più: quel che Putin sogna, ma non riesce a ottenere è che la guerra all'Ucraina diventi la guerra del popolo russo. Non aiutiamolo.

Marco Ciriello per mexicanjournalist.wordpress.com il 6 marzo 2022.  

L’altro giorno ho raccontato l’importanza dello sport e gli errori di chiusura dell’OccideNato. Poi sul Guardian ho letto di Alexander Ovechkin, il più grande giocatore di hockey russo, un putiniano di ferro, che, però, ha detto che sì, Putin è il suo presidente, ma lui è contro la guerra. 

Vi sembra poco? A me no, perché in Russia la parola guerra non si può dire. Meno ancora si può dissentire dalla decisione. È una piccola cosa? Ma intanto c’è. 

Di più ha detto Artemi Panarin, un altro giocatore, ma difende da tempo e con coraggio Alexei Navalny e non è l’eroe di Putin. L’hockey per Putin è fondamentale: propaganda e dimostrazione di forza, e proprio dal suo sport viene la più piccola delle grandi opposizioni. Pensate se avessero lasciato giocare la nazionale russa di calcio, o gareggiare gli altri sportivi, forse non succedeva niente, oppure chissà, cominciava qualcosa. La pace va cercata in ogni modo, soprattutto tra i russi, a cominciare dallo sport. Fu Muhammad Ali ad andare da Saddam Hussein mica Bush.

Marco Ciriello per mexicanjournalist.wordpress.com il 6 marzo 2022.

Quando mi chiedono perché racconto lo sport rispondo sempre perché dentro c’è tutto. Dopo questi giorni penso che non me lo chiederanno più. 

Senza giri di parole né premesse, le adesioni sono contro l’occidente come lo intendo io, per semplicità in questi giorni mi sembra di stare nel maccartismo, l’ho sperimentato in forma privata con alcuni amici – non servirebbero le premesse con gli amici, ma l’acqua è questa, penso di essere l’unico scrittore italiano che ha in un suo romanzo la soluzione “letteraria” dell’omicidio di Anna Stepanovna Politkovskaja, dopo averne studiato, dinamica libri e contesto, e detesto Putin dagli inizi. 

Cazzo ho fatto una premessa – appena provi ad articolare il pensiero sulla Russia, diventi putiniano, è successo anche a Canfora e Spinelli per citare due esempi, bisogna aderire, stare con l’Ucraina, scrivere le poesie sull’Ucraina, mettere cuori e bandiere. Io sono sciasciano, come sono tolstojano e salgariano e molte altre cose, e mi viene difficile aderire pure ai club, come all’imperialismo – sia della Nato che della Russia – figuriamoci poi a una nazione, per quanto aggredita, di cui non mi convince il premier, non mi convince il governo, e non mi convincono un mucchio di altre cose. L’invasione russa è sbagliata e non deve morire nessuno, fine delle premesse che sono costretto a fare in questo clima maccartista.

Poi ci sono le persone, e tra le persone gli atleti con il loro sport, e ogni giorno il governo di quello sport butta fuori la Russia. Ha cominciato la Fifa, che come la Banca Mondiale è nella parte alta delle cose che detesto, con una semplicità tipica di questi anni: ha cancellato la nazionale di calcio russa, poi l’UEFA con i club, e man mano le varie federazioni sportive agiscono di conseguenza su indicazione del CIO, infliggendo ad atleti che magari non sono putiniani o sono liberi di esserlo – almeno nel mio mondo dove l’esempio è Alex Langer e non Biden o Zelens’kyj – una punizione enorme che li isola, e con loro isola anche chi non sposa la politica del governo russo, alimentando l’odio, l’immobilismo e le divisioni.

Lo Sport dovrebbe rimanere uno spazio “altro” dove si continua a provare il dialogo, dove il verbo è giocare, anche in luogo del più acceso lottare. Dove gli atleti sono come gli ambasciatori e le squadre e/o federazioni sportive sono ambasciate. 

E che il paese che è andato a giocare e vincere una Davis in Cile non trovi voci a levarsi in difesa del mondo dello sport russo: è vigliacco prima che stupido. In questo momento in cima alla classifica ATP c’è un tennista russo, Daniil Sergeevic Medvedev, al quale nessuno si deve sognare di chiedere niente, è libero di giocare a tennis, di essere putiniano o anti putiniano, questo è l’Occidente, altrimenti non ha senso più giocare e nemmeno discutere.

M.Ima. per il “Corriere della Sera” il 6 marzo 2022.

Nel 2012, durante il suo ultimo anno all'università, Brittney Griner divenne la prima cestista a essere nominata miglior giocatrice della stagione e della sua fase finale, riuscendo al tempo stesso anche a vincere il titolo. Una volta diventata professionista, è entrata nel libro dei record per aver segnato duemila punti e realizzato cinquecento stoppate in una sola stagione. È una attivista della comunità Lgbt americana, la prima giocatrice dichiaratamente lesbica ad avere firmato un contratto di sponsorizzazione con la Nike.  

Non una qualunque, insomma. Adesso, una delle giocatrici di pallacanestro più titolate di sempre, campionessa olimpica nel 2016 e nel 2021, rischia invece di diventare soltanto l'oggetto dell'ennesima disputa internazionale tra Russia e Usa. Tutto è cominciato nel pomeriggio, con una agenzia di stampa statale che comunicava il fermo di una non meglio precisata atleta statunitense. Le autorità doganali non hanno fornito le generalità dell'atleta, ma hanno diffuso un video dell'arresto, avvenuto all'aeroporto internazionale di Mosca. 

Ci è voluto poco per riconoscere Griner, due metri e 6 centimetri di statura, con i lunghi capelli rasta che porta fin dall'inizio della carriera. L'accusa è di quelle pesanti. Trasporto di droga su larga scala, che è l'anticamera dello spaccio internazionale, possibile una pena fino a dieci anni di reclusione. Qui cominciano i problemi, e i possibili distinguo. Griner è stata fermata a febbraio, non si conosce ancora la data. 

Il 26 febbraio, il Dipartimento di Stato americano aveva consigliato i propri concittadini di lasciare la Russia con effetto immediato. Durante la perquisizione dei suoi bagagli, è spuntata una bottiglietta che contiene olio di cannabis, una sostanza legale negli Usa ma proibita in Russia, dove in materia di stupefacenti è in vigore una delle legislazioni più severe del mondo.  

Come molte altre sue colleghe, nei tempi morti della stagione della Nba femminile, che va da giugno a ottobre, ha un contratto in essere con una squadra d'oltreoceano, in questo caso l'UMMC di Ekaterinenburg, per la quale disputa il campionato russo da ormai quattro anni. 

A fare scalpore negli Usa è la pesantezza dell'accusa, tra tutte quelle possibili, che comprendono anche l'uso personale, comunque un reato in Russia. Il timore del Dipartimento di Stato è che Griner sia diventata l'ennesima pedina di una guerra fredda sotterranea che certo non è cominciata nelle ultime settimane. A partire dal 2017, alcuni cittadini americani sono stati arrestati con accuse che Washington ritiene pretestuose o esagerate, con l'obiettivo di usarli come pedine di scambio con cittadini russi detenuti in America.

Il caso più conosciuto è quello di due ex marine, Paul Whelan e Trevor Reed, condannati rispettivamente a 16 anni per spionaggio e a nove anni per aver aggredito dei poliziotti durante una lite in una festa ad alto tasso alcolico, per i quali è in corso da mesi una trattativa che vede come possibile controparte due cittadini russi anche loro condannati a New York per crimini comuni. Le autorità doganali russe si limitano a ribadire l'esistenza del reato, che non sembra venire contestato neppure dagli avvocati americani dell'atleta. 

(ANSA il 5 marzo 2022) - Haas, team di Formula 1, ha licenziato il pilota russo Nikita Mazepin. Interrotti i rapporti anche con Uralkali, principale sponsor della squadra, azienda di proprietà del padre del pilota, Dmitry Mazepin. Il team americano ha deciso di mettere fine "con effetto immediato" alla partnership con il suo title sponsor russo Uralkali ed al contratto da pilota di Nikita Mazepin a causa del conflitto in Ucraina.

"Come il resto della comunità della Formula 1, il team è scioccato e rattristato dall'invasione dell'Ucraina e desidera una fine rapida e pacifica del conflitto" ha scritto il team in una nota.

La Russia esclusa dai Mondiali: il comunicato ufficiale della Fifa e Uefa. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 Marzo 2022.

Tutte le squadre russe sono state sospese da tutte le competizioni Uefa e Fifa. Il massimo organo di calcio europeo ha inoltre stabilito di porre fine alla partnership commerciale con Gazprom, il colosso statale del gas russo.

E’ arrivata finalmente ieri la decisione di Fifa e Uefa a seguito della guerra in Ucraina. Tutte le squadre russe sono state sospese da tutte le competizioni Uefa e Fifa. La nazionale di calcio maschile della Russia non parteciperà agli spareggi Mondiali, lo Spartak Mosca sarà sospeso dall’Europa League. La Fifa e l’ Uefa hanno infatti deciso di sospendere da tutte le competizioni internazionali la nazionale di Mosca e tutti i club russi. Per effetto di questa decisione, la Russia è attualmente esclusa dal Mondiale.

“Il calcio è pienamente unito qui e in piena solidarietà con tutte le persone colpite in Ucraina. Entrambi i presidenti sperano che la situazione in Ucraina migliori in modo significativo e rapido in modo che il calcio possa essere di nuovo un vettore per l’unità e la pace tra le persone”.

Il comunicato di Fifa e Uefa

“A seguito delle decisioni iniziali adottate dal Consiglio FIFA e dal Comitato Esecutivo UEFA, che prevedevano l’adozione di misure aggiuntive, la FIFA e la UEFA hanno deciso oggi insieme che tutte le squadre russe, siano esse rappresentative nazionali o squadre di club, saranno sospese dalla partecipazione a entrambe le competizioni FIFA e UEFA fino a nuovo avviso. Queste decisioni sono state adottate oggi dall’Ufficio di presidenza del Consiglio FIFA e dal Comitato Esecutivo della UEFA, rispettivamente i massimi organi decisionali di entrambe le istituzioni su questioni così urgenti. Il calcio è pienamente unito e in piena solidarietà con tutte le persone colpite in Ucraina. Entrambi i Presidenti sperano che la situazione in Ucraina migliori in modo significativo e rapido in modo che il calcio possa nuovamente essere un vettore di unità e pace tra i popoli”. Questo il comunicato di Fifa e Uefa. 

Uefa-Gazprom, “stop” alla sponsorizzazione

Il massimo organo di calcio europeo ha inoltre stabilito di porre fine alla partnership commerciale con Gazprom, il colosso statale del gas russo. “La decisione ha effetto immediato e copre tutti gli accordi esistenti, tra cui la UEFA Champions League, le competizioni UEFA per nazionali e UEFA EURO 2024”.

Anche l’ Adidas ha annunciato di aver interrotto il rapporto di sponsorizzazione con la nazionale di calcio russa. 

La Russia non ci sta: “È discriminazione”

La Federcalcio russa ha definito l’esclusione della sua nazionale dai Mondiali del 2022 come “discriminatoria“. In un comunicato, la federazione si è detta “totalmente in disaccordo con la decisione di Fifa e Uefa di sospendere le squadre russe” e ritiene che questa misura “avrà un effetto discriminatorio su un gran numero di atleti, allenatori, di club o nazionali”. Nel frattempo, come dichiarato da un portavoce Uefa, “le partite di andata e ritorno fra Lipsia e Spartak Mosca (del 10 e 17 marzo ndr) non avranno luogo e quindi il Lipsia è automaticamente qualificato per i quarti di Europa League“. Nei prossimi giorni l’esecutivo dell’ente europeo del calcio si riunirà per decidere sugli Europei femminili di luglio, in cui la Russia, che ora è sospesa, avrebbe dovuto affrontare Svezia, Svizzera e Olanda nella fase a gironi. Redazione CdG 1947

Da corrieredellosport.it il 3 marzo 2022.

Artem Dzyuba è un punto di forza dello Zenit San Pietroburgo e della Russia. Nelle ultime ore lui, e in generale i calciatori russi, sono stati chiamati in causa. Gli è stato chiesto di prendere posizione contro la guerra e il difensore dell'Everton, l'ucraino Vitaliy Mykolenko, è stato molto duro in un post sui social in cui si rivolge proprio al capitano della Russia, rimproverandogli con toni forti il silenzio mentre "in Ucraina vengono uccisi i civili". Dopo qualche ora è arrivata la risposta, su Instagram, dello stesso Dzyuba. 

"Fino a poco tempo fa non intendevo parlare di quanto sta accadendo in Ucraina. Non volevo, non perché ho paura, ma perché non sono un esperto di politica, non ci sono mai entrato e non avevo intenzione di farlo (a differenza di un gran numero di scienziati, politici e virologi che sono apparsi di recente su internet). Ma come tutti gli altri, ho la mia opinione.

Dal momento che sono tirato dentro questo argomento da tutte le parti, la esprimerò: sono contro ogni guerra. La guerra fa paura. Ma sono anche contro l’aggressività e l'odio umano che ogni giorno diventa sempre più preoccupante", scrive Dzyuba. 

La risposta di Dzyuba a Mykolenko e Yarmolenko

"Sono contro la discriminazione basata sulla nazionalità - continua -. Non mi vergogno di essere russo. Sono orgoglioso di essere russo. E non capisco perché gli atleti dovrebbero pagare tutto questo. Tutti urlano dicendo sempre che la politica deve rimanere fuori dallo sport, ma alla prima occasione, quando si parla di Russia, questo principio viene completamente dimenticato. 

Ribadisco che la guerra fa paura. In situazioni stressanti, le persone mostrano la loro essenza, a volte negativa. Quanta rabbia e quante cattiverie si sono riversate su tutti i russi, indipendentemente dalla loro posizione e professione. Migliaia di persone che scrivono insulti e minacce.

È doppiamente strano sentire tutto questo da persone a cui la Russia ha dato molto, moltissimo nella loro vita. Tutte queste cose creano solo maggiore negatività. La guerra finirà, ma i rapporti umani rimarranno. E sarà  impossibile riavvolgere il nastro, ricordatevelo". 

L'ultima frase, preceduta da un PS, è probabilmente dedicata a Mykolenko e ad altri giocatori ucraini che militano in Inghilterra come, per esempio, Andrei Yarmolenko del West Ham. "Ad alcuni colleghi che stanno con il culo sul divano di una comoda villa in Inghilterra, voglio dire: non possiamo offenderci per queste cose, bisogna cercare di comprendere gli altri".

Ritrovarsi dalla parte sbagliata. Vittorio Macioce il 4 Marzo 2022 su Il Giornale.

Non c'è orgoglio nei loro occhi. Non c'è nei soldati che si sono ritrovati a combattere una guerra fratricida. Non c'è in chi ha il coraggio di dire no e neppure in quella zona grigia, senza eroi, di quella maggioranza spaurita che abbassa la testa e prega in silenzio, sperando che il flusso della storia li lasci vivi, sopravvissuti. Non c'è più negli oligarchi che hanno condiviso il destino di Putin e ora vorrebbero smarcarsi, ma non ne hanno l'interesse o il coraggio. C'è ancora meno nelle loro figlie, come Sofia Abramovich, quando scrive che questa non è la sua guerra. Non c'è orgoglio nella risposta di Artem Dzyuba, capitano della nazionale di calcio, a Vitaliy Mykolenko. Il difensore ucraino dell'Everton scrive: «Mentre tu, bastardo Dzyuba, taci assieme ai tuoi fottuti compagni di squadra, i civili in Ucraina vengono uccisi». E Dzyuba risponde: «Facile parlare quando si ha il culo al caldo in una villa inglese». Il martirio non si può pretendere: cosa fareste voi al suo posto?

Da oggi in Russia ci sarà la legge marziale e chi invoca la pace rischia la vita. Natasha, che vive a Mosca, racconta di un gruppo di bambini, tra i sette e gli undici anni, che hanno portato i fiori davanti all'ambasciata Ucraina. Sono stati arrestati e ai genitori verrà tolta la patria potestà. Ci vuole il coraggio dei bambini, ma non è scontato, non è normale. Allora ai russi alla paura e alla pena si aggiunge la vergogna, quel non sapersi più guardare in faccia, perché lo sai cosa significa girarsi dall'altra parte. Non fare nulla, non dire nulla, sentirti complice del potere senza limite. In Russia il diritto è morto e ci sei abituato da generazioni, da sempre, perché qui le libertà scritte in Occidente sono solo un sogno, un'illusione. È il confine che adesso divide i russi dagli ucraini.

È ritrovarsi dalla parte sporca della storia. Allora ti vengono in mente le parole di Guzel' Jachina in Figli del Volga (Salani). «Davvero aveva vissuto tutti quegli anni senza sapere niente? Ma senza sapere che cosa? Che il Volga era pieno di morte. Che quell'acqua era fatta di sangue e imprecazioni. Che era ferocia pura».

Da corriere.it il 2 marzo 2022.

Il russo Daniil Medvedev è da lunedì 1 marzo il nuovo numero uno del tennis mondiale e il primo pensiero lo ha dedicato ai bambini di tutto il pianeta. «Voglio chiedere la pace nel mondo, perché i bambini hanno il diritto di sognare». Il sogno di scalare la classifica Atp fino alla vetta, invece, Daniil lo ha realizzato dopo le 86 settimane consecutive (361 complessive) in cui il padrone è stato sempre e solo Novak Djokovic.

La richiesta ucraina: fuori dagli Slam

Il messaggio di Medvedev tuttavia sembra non bastare. Il presidente della Federazione ucraina di tennis, Seva Kewlysh, come riportato da Marca e rilanciato da numerosi social, ha chiesto alla Federazione internazionale di tennis di escludere il tennista russo dai tornei del Grande Slam: «Lasceremo che Medvedev giochi i tornei dell'Atp Tour (senza bandiera, ndr), ma i Grand Slam sono tornei Itf. E se non puoi giocarli, non sarai mai il numero uno (... ) Medvedev non dovrebbe giocare al Roland Garros, Wimbledon e agli US Open». Di certo, il numero uno non giocherà la Coppa Davis: la Russia, come la Bielorussia, è stata esclusa dalla competizione dalla Itf.

Da ilnapolista.it l'1 marzo 2022.

Il day after di Gianni Infantino. La Fifa ha – infine – bandito la Russia da tutte le competizioni internazionali, ma oggi non c’è un solo giornale tra i più autorevoli al mondo che non rinfacci al Presidente la sua tattica attendista, i suoi legami strettissimi con Putin, e quelli ancora più evidenti con il Qatar. Il Telegraph, la Faz e la Süddeutsche Zeitung in Germania, l’Equipe, il New York Times, tutti contro Infantino. 

“Tutti sanno che la Fifa e il Cio non sono sempre stati dalla parte della democrazia – scrive in un editoriale L’Equipe – marciando allegramente al fianco di alcuni dittatori, con una costante propensione alla codardia e al compromesso. Nel 2010 la FIFA ha scelto di regalare il Mondiale a Russia e Qatar con un unico voto, uno dei più corrotti della storia”.

“Gianni Infantino, che ha scelto di vivere in Qatar, non è diverso dai suoi predecessori. Non ha il profilo di un uomo con l’intenzione di cambiare il mondo. Sotto la pressione della Uefa e soprattutto sotto la pressione dei governi occidentali, la Fifa rompe con la cultura dell’elusione dei problemi, delle mezze misure, della mancanza di coraggio e dell’indifferenza per le persecuzioni inflitte dai potenti. 

Lontani dall’Occidente, paesi e nazioni martorizzati da altre guerre, sosterranno giustamente di non aver mai visto le grandi organizzazioni sportive schierarsi dalla parte delle vittime. Di fronte ai conflitti, la Fifa ha diviso il mondo in figli e figliastri”.

L’analisi è condivisa: Infantino è stato messo alle corde. Fosse stato per lui la Russia non avrebbe pagato per niente la guerra in Ucraina. “Non c’è dubbio – scrive il Telegraph – che la Fifa sta espellendo le squadre russe dalle competizioni semplicemente perché si è vergognata. Infantino ha premuto il grilletto solo quando l’ondata di repulsione per la sua soluzione iniziale, che ha comportato un cambio di marchio senza senso della nazionale russa come “Russian Football Union”, ha acquisito uno slancio inarrestabile. Evidentemente, non ha mai voluto fare questo passo.

Durante i sei anni della sua presidenza della Fifa, la sua relazione con Putin si è svolta come il peggior film di amici del mondo: amante del Cremlino, sorrisi d’amore allo stadio Luzhniki di Mosca, premi reciproci per i servizi resi. Ci è voluta una guerra per confermarlo come il patto nocivo che è sempre stato”.

La Russia esclusa dai Mondiali: il comunicato ufficiale della Fifa e Uefa. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'1 marzo 2022. 

Tutte le squadre russe sono state sospese da tutte le competizioni Uefa e Fifa. Il massimo organo di calcio europeo ha inoltre stabilito di porre fine alla partnership commerciale con Gazprom, il colosso statale del gas russo.

E’ arrivata finalmente ieri la decisione di Fifa e Uefa a seguito della guerra in Ucraina. Tutte le squadre russe sono state sospese da tutte le competizioni Uefa e Fifa. La nazionale di calcio maschile della Russia non parteciperà agli spareggi Mondiali, lo Spartak Mosca sarà sospeso dall’Europa League. La Fifa e l’ Uefa hanno infatti deciso di sospendere da tutte le competizioni internazionali la nazionale di Mosca e tutti i club russi. Per effetto di questa decisione, la Russia è attualmente esclusa dal Mondiale.

“Il calcio è pienamente unito qui e in piena solidarietà con tutte le persone colpite in Ucraina. Entrambi i presidenti sperano che la situazione in Ucraina migliori in modo significativo e rapido in modo che il calcio possa essere di nuovo un vettore per l’unità e la pace tra le persone”. 

Il comunicato di Fifa e Uefa

“A seguito delle decisioni iniziali adottate dal Consiglio FIFA e dal Comitato Esecutivo UEFA, che prevedevano l’adozione di misure aggiuntive, la FIFA e la UEFA hanno deciso oggi insieme che tutte le squadre russe, siano esse rappresentative nazionali o squadre di club, saranno sospese dalla partecipazione a entrambe le competizioni FIFA e UEFA fino a nuovo avviso. Queste decisioni sono state adottate oggi dall’Ufficio di presidenza del Consiglio FIFA e dal Comitato Esecutivo della UEFA, rispettivamente i massimi organi decisionali di entrambe le istituzioni su questioni così urgenti. Il calcio è pienamente unito e in piena solidarietà con tutte le persone colpite in Ucraina. Entrambi i Presidenti sperano che la situazione in Ucraina migliori in modo significativo e rapido in modo che il calcio possa nuovamente essere un vettore di unità e pace tra i popoli”. Questo il comunicato di Fifa e Uefa. 

Uefa-Gazprom, “stop” alla sponsorizzazione

Il massimo organo di calcio europeo ha inoltre stabilito di porre fine alla partnership commerciale con Gazprom, il colosso statale del gas russo. “La decisione ha effetto immediato e copre tutti gli accordi esistenti, tra cui la UEFA Champions League, le competizioni UEFA per nazionali e UEFA EURO 2024”.

Anche l’ Adidas ha annunciato di aver interrotto il rapporto di sponsorizzazione con la nazionale di calcio russa. 

La Russia non ci sta: “È discriminazione”

La Federcalcio russa ha definito l’esclusione della sua nazionale dai Mondiali del 2022 come “discriminatoria“. In un comunicato, la federazione si è detta “totalmente in disaccordo con la decisione di Fifa e Uefa di sospendere le squadre russe” e ritiene che questa misura “avrà un effetto discriminatorio su un gran numero di atleti, allenatori, di club o nazionali”. Nel frattempo, come dichiarato da un portavoce Uefa, “le partite di andata e ritorno fra Lipsia e Spartak Mosca (del 10 e 17 marzo ndr) non avranno luogo e quindi il Lipsia è automaticamente qualificato per i quarti di Europa League“. Nei prossimi giorni l’esecutivo dell’ente europeo del calcio si riunirà per decidere sugli Europei femminili di luglio, in cui la Russia, che ora è sospesa, avrebbe dovuto affrontare Svezia, Svizzera e Olanda nella fase a gironi. 

Da gazzetta.it l'1 marzo 2022.  

"E' una persona affidabile, e di parola", con questi termini Bernie Ecclestone, ex patron della F1, ha descritto Vladimir Putin nel corso di un'intervista concessa all'emittente radiofonica 'Times Radio' in merito alla cancellazione del GP della Russia. La gara di Sochi, infatti, è stata cancellata dal calendario della F1 2022 su decisione unanime di F1, Fia e team in seguito all'invasione dell'Ucraina da parte delle truppe russe.

In attesa di conoscere il nome del circuito che sostituirà il GP di Russia, inizialmente previsto per il 25 settembre, Ecclestone ha difeso la figura di Putin: "Non penso che faccia chissà quale differenza se ci sarà o meno un GP in Russia rispetto a quanto sta accadendo nel mondo - le parole di Ecclestone -. Come può qualcuno dall'esterno giudicare con esattezza quello che sta succedendo oggi?".

Che tempo che fa, Shevchenko in lacrime per l'Ucraina: "Non riesco a vedere, scusate". E Fazio si commuove. Libero Quotidiano il 07 marzo 2022.

Nel blocco dedicato alla guerra in Ucraina, Fabio Fazio ha avuto un ospite d'eccezione a Che tempo che fa su Rai 3, Andriy Shevchenko. Il tecnico ed ex attaccante del Milan si è commosso nel raccontare il dramma che sta vivendo il suo Paese. "Non riesco a vedere questo senza lacrime, scusate”, ha detto lo sportivo, commuovendosi. Subito dopo anche Fazio si è emozionato e pure parecchio. Il conduttore, con voce traballante, ha risposto: “So che non è consolatorio ma le tue lacrime sono le lacrime di tanti di noi e sono tutte le lacrime che vediamo nel popolo ucraino in questi giorni”.

L'ex bomber ha spiegato di essere tanto preoccupato per la sua famiglia. I suoi familiari, come lui stesso ha raccontato, hanno deciso volontariamente di restare a Kiev: "Ho molti parenti ancora lì, li sento tutti i giorni ma sono molto preoccupato per la loro scelta di rimanere, mi raccontano quel che succede, città bombardate, dove muoiono bambini e anziani che non possono andarsene. È un incubo da cui vorrei potermi svegliare".

La preghiera di Sheva mette i brividi a San Siro. Elia Pagnoni il 2 Marzo 2022 su Il Giornale.  

San Siro listato di giallo-azzurro, Milan e Inter idealmente abbracciati prima del via, schierati insieme davanti a uno striscione con la parola pace. E poi lui, il re di questa partita, il capocannoniere assoluto del derby, il bomber che tanto ha dato a questa sfida, amato dai milanisti, certamente rispettato dagli interisti: lui, Andriy Shevchenko che appare sul tabellone e recita la sua preghiera di pace.

Il Pallone d'oro dell'Ucraina che invita San Siro a pregare per la pace: «Vi chiedo di dare il vostro sostegno, perché il popolo ucraino vuole la pace. Fermiamo questa guerra insieme». Brividi nello stadio, certamente più di quanti ne avrebbe poi procurato la partita, anche se forse Milan e Inter si aspettavano più partecipazione alla causa. I rossoneri fanno riscaldamento con una maglietta bianca con la bandiera ucraina sul petto e sui seggiolini dello stadio le due società hanno messo a disposizione 55mila bandierine giallo-azzurre da sventolare, ma sono state subito riposte.

Peccato, perché forse dopo l'applauso al discorso di Sheva si poteva dare un segnale più consistente. Poi c'è la partita e allora via agli insulti. Pure le tifoserie spesso sensibili a temi sociali non hanno niente da dire. Non un coro, non uno striscione.

Purtroppo l'Ucraina dopo il rito iniziale sembra già lontana. Anche se questo derby tra due squadre sgonfie non ti può allontanare da certi pensieri, da quello che ci angoscia tutti i giorni. Ma forse Sheva stava rivolgendo le sue preghiere a un altro San Siro, quello con l'aureola. Speriamo che almeno lui gli dia ascolto.

Da fanpage.it il 25 febbraio 2022.

Mircea Lucescu ieri aveva detto che non avrebbe lasciato l'Ucraina, ma l'escalation rapidissima della guerra portata dalla Russia, oltre alla ovvia sospensione di tutti i campionati, ha indotto il 76enne tecnico rumeno della Dinamo Kiev a cambiare idea, consigliato in tal senso anche da chi gli sta vicino. L'ex allenatore di Pisa, Brescia e Inter si è messo in viaggio questa mattina partendo da Kiev dove si trovava con la squadra, dopo essere tornato lunedì scorso dal ritiro prestagionale di Antalya, in Turchia.

A dare la notizia al canale TV rumeno Digi24 è Florin Cernat, ex calciatore della Dinamo e caro amico di Lucescu, che ha spiegato che il tecnico non ha avuto altra scelta che partire in automobile, poiché l'aeroporto di Kiev è stato bombardato dai russi ed è diventato inutilizzabile. "Ieri sera ho parlato con alcuni amici di Kiev – ha raccontato Cernat – erano al centro di allenamento della Dinamo. Mi hanno detto che tutti i giocatori della squadra erano radunati lì, ospitati presso la struttura con le famiglie e i bambini.

Ci sono quattro stranieri, lo staff tecnico, c'è Mircea Lucescu con i suoi secondi. Da quello che ho capito, sono partiti questa mattina sulla strada per la Romania, in macchina. Non hanno altra scelta, perché l'aeroporto è stato bombardato. Non hanno più niente da fare lì, tutte le competizioni sportive sono state cancellate, gli allenamenti non si fanno più". L'ex centrocampista ha aggiunto che si cercano opzioni per permettere anche ai calciatori stranieri della Dinamo Kiev di lasciare il Paese.

Il piano predisposto per far scappare Lucescu è peraltro pieno di incognite e pericoli, come aveva anticipato giovedì al sito rumeno PlaySport Arcadie Zaporojanu, collaboratore moldavo di Lucescu, che in questi giorni è stato con lui al centro di allenamento della Dinamo Kiev. 

"Partiremo da qui con la mia macchina, insieme ai Bessarabiani dello staff e a Ognjen Vukojevici, uno dei secondi. Ma non oggi, perché è troppo tardi – aveva detto ieri Zaporojanu – La città è soffocata dagli ingorghi, ci sono code di 50 chilometri ciascuna alle porte di Kiev. Chi è partito stamattina soltanto ora riesce a uscire per le strade a ovest. Poiché il trasporto aereo è chiuso da ieri, non c'è altra soluzione che partire in auto. Andremo in Moldova, o in Romania passando per la Moldova, con tutto lo staff che siamo, tre romeni-Bessarabiani e il croato Ognjen Vukojevic, ma la data e l'ora di partenza non sono stati ancora fissati. Decideremo in base alle circostanze".

Il tragitto era stato comunque già stabilito e messo su mappa: un'odissea che fa capire il livello di disperazione del momento. "Eviteremo la Transnistria e andremo da qualche parte verso Chernivtsi per entrare in Romania attraverso la Moldova. Sono circa 550 chilometri. Nelle condizioni attuali, nessuno sa quanta strada possiamo fare. Ma non credo sia pericoloso andare in quella direzione", aveva aggiunto Zaporojanu.

Giulio Di Feo per gazzetta.it il 28 febbraio 2022.

Nel giorno del quarantatreesimo anniversario della sua prima volta in panchina, Mircea Lucescu il regalo non lo riceve ma lo fa. Dopo essersi tratto in salvo dalla guerra in Ucraina con un viaggio interminabile, l’allenatore della Dinamo Kiev, 76 anni, si è messo subito in moto per facilitare la fuga dei calciatori stranieri dalla capitale aggredita dai russi. 

Lo raggiungiamo al telefono nella sua Bucarest, è stanco ma non abbastanza: “Ora però bisogna fare qualcosa per i ragazzi ucraini. Non possono uscire dal Paese, hanno famiglie e figli piccoli...”. E ci racconta la sua storia: “Venivamo da un ritiro verso il campionato che stava per ricominciare, siamo stati in Spagna e ad Antalya con quasi tutte le squadre ucraine, una specie di mini campionato. Poi siamo tornati, giovedì sera abbiamo fatto allenamento in vista della partita di Coppa e poi è successo quello che non ci aspettavamo mai potesse succedere...”

Com’è arrivata la guerra a Kiev?

“A un certo punto mi sveglio di notte e il primo pensiero che mi viene è l’estate, ha presente quei temporali estivi pieni di lampi e tuoni fortissimi? E invece no, purtroppo no. Ci dicono che è cominciata la guerra, e che è arrivata alle porte della città”. 

Kiev se lo aspettava?

“No, non se lo aspettava nessuno. Si pensava che ci sarebbe stata al massimo qualche schermaglia nel Donbass, nessuno credeva a un’invasione come quella che abbiamo visto”. 

Cosa le dicevano le autorità?

“Che ovviamente non si gioca più, che bisognava aspettare. E io ho aspettato, per un giorno. Nel frattempo avevo la mia ambasciata che mi pressava per lasciare l’Ucraina. Così ho parlato con il mio presidente, ho tranquillizzato i calciatori, abbiamo fatto in modo che anche le loro famiglie stessero in sicurezza. Poi io e il mio staff ci siamo messi in moto”. 

“Diciassette ore durissime, tra dogane e posti di blocco. Per uscire dalla città siamo andati avanti a sette all’ora, le strade erano intasate dalle auto di quelli che scappavano. Fuori da Kiev abbiamo iniziato a prendere strade secondarie, mentre sulla strada incontravamo i convogli dei soldati che andavano verso sud perché intanto erano iniziati i bombardamenti provenienti dal Mar Nero.

Così siamo arrivati alla frontiera con la Moldavia, dove c’erano code infinite. E lì ho visto scene brutte, di uomini che accompagnavano al confine donne e bambini, si assicuravano che passassero e poi tornavano indietro. Lì ti rendi davvero conto del dramma della guerra. Perché noi avevamo sentito solo quelli che io avevo scambiato per tuoni, quella gente no”. 

Cos’ha fatto una volta arrivato a Bucarest?

“Ho parlato con Razvan Burleanu, il presidente della federcalcio romena, e ci siamo interessati per facilitare l’uscita degli altri calciatori stranieri, non solo quelli della Dinamo. Specialmente i sudamericani, che abbiamo fatto arrivare qui e poi ripartire. Ho seguito passo passo il loro tragitto, con Junior Moraes, l’attaccante dello Shakhtar, che ha fatto da leader del gruppo. Lo ringrazio per la forza che ha mostrato”. 

Chi altri c’è da ringraziare?

“Ceferin e i presidenti delle federazioni di Ucraina, Moldavia e Romania. Io ero obbligato moralmente a essere vicino a quei ragazzi, loro no. Ma ora c’è da guardare avanti. Se la guerra prosegue spero che l’Uefa dia ai calciatori la possibilità di svincolarsi, o di andare almeno in prestito per finire la stagione. Parliamo di ragazzi giovani con famiglia, devono continuare a giocare perché il calcio è il loro mestiere. E ha un potere enorme...”

Quale potere?

“Senza calcio il mondo è più duro. Avete visto cos’è successo con la pandemia? Teatri, cinema e altre forme di intrattenimento erano fermi e il calcio no, teneva desto l’interesse della gente anche senza pubblico e tra mille difficoltà. E appena hanno riaperto gli stadi la gente è tornata subito. Capite qual è la sua forza? È un bene che va preservato”. 

Per far sì che il calcio continui si parla anche dei paesi limitrofi disposti a ospitare il campionato ucraino. Ne sa qualcosa?

“Sì, è una proposta sul tavolo. La Romania è disposta, Polonia e Ungheria anche, so che Ceferin ci sta pensando, se si vuole non sarà una cosa difficile da organizzare” 

Lei allena in Ucraina dal 2004, è un po’ la sua seconda patria, ha vissuto anche il precedente conflitto nel Donbass: come si sente ora quel popolo?

“Come quello di una terra di conquista, è la loro storia. Adesso la invadono i russi, prima nei secoli l’hanno fatto i polacchi, i mongoli, i tartari, i popoli germanici,... Non sono mai riusciti a formare uno stato forte e indipendente, e ora che l’hanno fatto arriva l’invasione. Proprio questo però ha contribuito a esserli estremamente orgogliosi del loro essere ucraini”. 

Molti infatti non si aspettavano, in effetti, una resistenza del genere.

“Appunto: sono uno stato nuovo, entusiasta, che usa con fierezza la propria lingua, cosa che prima non accadeva. Si considerano la culla dell’Est Europa, dalla cultura alla religione, e non è un popolo che accetterà facilmente di farsi conquistare”. 

Come immagina che finisca?

“Spero che si arrivi a un accordo politico, e che soprattutto ci si renda conto della prima necessità: non far morire altre persone. Ripeto: nessuno si aspettava una tragedia del genere, gli ucraini ascoltavano Putin e pensavano fossero schermaglie verbali, minacce. La storia ci racconterà sempre questa vicenda come quella di un Paese fratello che ne aggredisce un altro, è una ferita incredibile. Quando apriranno gli occhi di fronte al danno che stanno facendo, forse la smetteranno. Ora pensiamo alla pace, poi penseremo anche al calcio”.

Da video.repubblica.it il 25 febbraio 2022.  

L'ex allenatore della Roma e dello Shakhtar Donetsk, Paulo Fonseca, è rimasto bloccato a Kiev. Il tecnico portoghese è di casa in Ucraina da quando, nel 2018, ha sposato il capo ufficio stampa dello Shakhtar Donetsk, Kateryna Ostroushko. "Io e la mia famiglia - dice Fonseca, che si trova in un hotel della capitale - siamo in una situazione molto complicata. Ma sono sicuro che la pace vincerà". 

Enrico Chillè per leggo.it l'1 marzo 2022.

Paulo Fonseca e la sua famiglia finalmente al sicuro. L'ex allenatore della Roma, che si trovava a Kiev, è riuscito a lasciare l'Ucraina e a raggiungere Lisbona, dopo alcuni giorni vissuti sotto i bombardamenti. «Pensavamo di partire giovedì mattina, siamo stati sorpresi dalle bombe che cadevano vicino a noi», ha spiegato il tecnico portoghese in una conferenza stampa tenuta all'aeroporto della capitale lusitana. 

Paulo Fonseca, insieme alla moglie Ekaterina, è riuscito ad atterrare a Lisbona e ha raccontato alla stampa la terribile situazione vissuta. Colti di sorpresa dall'attacco russo, il tecnico portoghese e sua moglie, giornalista ucraina, hanno passato anche due notti in un rifugio sotterraneo.

«Avevamo in programma di raggiungere la Svizzera in aereo alle 10 di giovedì, ma alle 4 del mattino abbiamo sentito le bombe cadere su Kiev. È stato il momento più difficile, siamo stati presi dal panico, abbiamo preso le nostre borse, siamo usciti in strada, abbiamo cercato di lasciare Kiev in quel momento, ma c'era troppo traffico sulla strada principale» - ha spiegato Fonseca - «Da lì, siamo andati all'hotel del presidente dello Shakhtar Donetsk, insieme allo staff e ai giocatori del club. Ci siamo sentiti molto spaventati dalle bombe che cadevano vicino a noi. Non avevamo alcun dubbio che la guerra fosse iniziata». 

Paulo Fonseca, però, ora che è al sicuro continua a pensare a chi ha scelto di rimanere in Ucraina per difendere il paese. «Non ho parole per descriverlo. Stanno soffrendo molto e combattendo duramente per difendere la patria. Il presidente, Volodymyr Zelenskyy, è il primo.

C'era una lista enorme di persone che volevano entrare in Ucraina per aiutare l'esercito. Ci sono numerosi personaggi pubblici che si sono arruolati per combattere» - il commento del tecnico portoghese, che ha allenato la Roma dal 2019 al 2021 - «Sarà difficile per queste persone, ma credo che abbiano già vinto questa guerra. Abbiamo molti amici che si sono arruolati e stanno difendendo l'Ucraina. I nostri amici stanno bene, al fronte. Siamo molto preoccupati per loro». 

Il viaggio verso il Portogallo è stato complicato, dal punto di vista logistico ma, anche e soprattutto, per le sensazioni vissute dall'allenatore portoghese. «Il viaggio è stato difficile, abbiamo visto colonne militari, ci siamo fermati una o due volte e abbiamo sentito sirene, aerei che passavano...» - ha raccontato Paulo Fonseca - «Il viaggio è stato molto lungo, quasi senza sosta praticamente, sempre con la sensazione di pericolo. Questa è stato la cosa peggiore. C'erano code ovunque, non c'erano né cibo né benzina nelle aree di servizio»

L'appello di Katerina Fonseca: “In Ucraina guerra brutale e sanguinosa, fermate questa follia della Russia”.  Giulia Sonnino su Il Tempo il 27 febbraio 2022.

Katerina Ostroushko, moglie dell’ex allenatore della Roma Paulo Fonseca, ha contattato Il Tempo per diffondere il suo racconto su quanto ha vissuto a Kiev, dove si trovava nei primi giorni della guerra con la Russia con suo marito e loro figlio, Martin. Katerina è la ex portavoce del magnate ucraino Rinat Akhmetov, proprietario dello Shakhtar Donetsk, la squadra di calcio più importante del Donbass: “Parlo alle persone in Europa, America, Russia e in tutto il mondo. C'è una guerra in corso in Ucraina. Non è 'un’operazione speciale', ma una guerra cinica e crudele. Le città e i villaggi ucraini sono in fiamme, sotto i bombardamenti e le bombe. Missili dalla Russia e dalla Bielorussia volano contro edifici residenziali a più piani. Questo è quello che ho visto con i miei occhi e quello che milioni di ucraini vedono ogni giorno. I fuhrer folli mandano i loro soldati a uccidere gli ucraini che sacrificano la loro vita per difendere la patria, le loro mogli e i loro figli. Questa è l'unica verità e non ce ne sono altre. Non credete se vi dicono che le bombe non volano sui civili. Volano, uccidono e distruggono. Non credete se vi dicono che il nostro governo è 'nazista'".

"Il governo - prosegue l'appello della moglie dell'ex tecnico giallorosso - e il presidente ucraino sono a Kiev, insieme al nostro esercito che difende il suo paese e il suo popolo pacifico. Non credete a nulla se non al fatto che nel centro Europa in questo momento c'è una guerra brutale e sanguinosa contro i pacifici ucraini che lottano per la loro libertà.  Aiutate a fermare questa guerra! Chiedete ai vostri amici e colleghi in Russia perché i loro soldati combattono e muoiono in Ucraina. Perché eseguono ordini criminali che uccidono i civili? Questo è il nostro paese, la nostra terra, tutto questo è estraneo a loro! Devono tornare nelle loro case e lasciare le nostre. Oggi le città ucraine sono in fiamme. Oggi i bambini sono nei rifugi antiatomici senza cibo. Oggi hanno sparato ad un autobus con dentro profughi ucraini e non hanno permesso che un’ambulanza li raggiungesse. Chi può sapere quale città e quale paese sarà bombardato domani? Il mondo intero si è schierato accanto all’Ucraina. Attendiamo e speriamo che qualcuno ci possa aiutare. Ma oggi non è abbastanza! Finché le bombe continuano a cadere e gli ucraini continuano a morire, non è abbastanza. Per favore - conclude la Ostroushko - non vogliamo la guerra. Fermate questa folle guerra. Fermatevi subito!”.

Dagospia il 26 febbraio 2022. Da Rai – Radio 2- Campioni del Mondo.

Ai microfoni di Rai Radio2, nella trasmissione Campioni del Mondo condotta da Marco Lollobrigida con Ciccio Graziani e Domenico Marocchino, è intervenuto in diretta da Kiev Carlo Nicolini direttore sportivo dello Shakhtar Donetsk: “La situazione è difficile e allarmante però cerchiamo di non allarmare più di tanto le famiglie che abbiamo a casa. Ovviamente quando c'è qualcosa partono giustamente le sirene e quindi essendo in un posto sicuro abbiamo dove andare e quindi dobbiamo spostarci in una zona più protetta.”

Spieghiamo dove sei tu ora Carlo cosa è successo rispetto a Donetsk che è stato uno dei primi spazi aperti dai russi nel loro fronte d’attacco

Diciamo che sono un po' due cose diverse, io le ho vissute tutte…non sono un esperto in guerra però la è stata più un’insurrezione di nazionalisti e di filo russi piuttosto che di filo ucraini più una rivoluzione ma non proprio dei governi come in questa situazione. Qui è una guerra palese tra Russia e Ucraina. Noi in questo momento siamo a Kiev, non siamo riusciti a venire in tempo per vari motivi e anche per errori onestamente di qualcuno, sicuramente non nostri e adesso stiamo cercando di venire fuori mettendo soprattutto in salvo i nostri giovani brasiliani perché da uomini di sport e lo staff tutto di Roberto de Zerbi e io come dirigente abbiamo fatto una scelta di stare qua e aiutare i nostri ragazzi dopodiché penseremo anche a noi come venirne via.

Per il momento comunque siamo sistemati abbastanza bene abbiamo scorte di cibo e quant'altro, siamo in contatto con il console e con l'ambasciata per capire cosa è meglio fare anche se abbiamo capito che se dobbiamo venirne fuori dobbiamo arrangiarci perché grossi aiuti non ne avremo. 

Io mi prendo la responsabilità  di quello che dico, so il perché lo dico e i fatti me lo dimostrano. Ripeto il console lo sentiamo quotidianamente ci dà sempre tanta disponibilità, cerca di tranquillizzarci penso che faccia anche tutto quello che può fare. Non siamo gli unici italiani qui a Kiev quindi avrà sicuramente un'ambasciata già piena, avrà altre persone a Kiev da supportare però a parte darci qualche consiglio finora non abbiamo ricevuto nessun tipo di altro appoggio. 

Come la stanno vivendo i calciatori? Al di la di voi che siete uomini più strutturati, più grandi e che siete dei punti di riferimento, questi ragazzi come la stanno vivendo?

Finora sono sorpreso in positivo dalla loro maturità, dalla loro calma, da loro cercare di farsi consigliare, di fidarsi di noi che li stiamo aiutando. Se consideriamo che sono 13 ragazzini di cui solo due sui trent'anni, ne abbiamo uno di 18, uno di 20, uno di 22 tutti con prole al seguito. Sono 35 brasiliani tutti con famiglia, per il momento sono encomiabili e anche loro abbastanza abbandonati dalla loro ambasciata. In 4 giorni non hanno ricevuto un solo aiuto. Mi sono mobilitato io questa mattina per trovare i pannolini per i bambini perché non avevano neanche più quelli. Io non sto lanciando accuse a nessuno però a volte leggiamo alcune dichiarazioni, stiamo facendo di qui, stiamo facendo di là ma forse non sanno neanche che siamo qui. Credo che si possa fare di più. 

Noi da uomini di sport siamo responsabili dei nostri ragazzi, siamo responsabili del calcio, la federazione calcio (Ucraina) non ci ha avvisato per tempo, non ha sospeso per tempo il campionato e quando lo hanno fatto tardivamente non c'era più possibilità di andare via e abbiamo preferito stare con i nostri ragazzi e abbiamo promesso che o andiamo via tutti insieme o non andiamo via.

Da eurosport.it il 26 febbraio 2022. 

Paulo Fonseca è in salvo. L'ex tecnico della Roma alloggiava con la famiglia nell’hotel Opera , è riuscito a lasciare Kiev nella giornata di venerdì.

Come riporta ilmessaggero.it, infatti, Fonseca alloggiava con la famiglia nell’hotel Opera, lo stesso in cui si trovano De Zerbi e lo Shakhtar Donetsk; è intervenuta l'ambasciata portoghese, che ha messo a disposizione due pullman per far uscire dal Paese la poco numerosa comunità lusitana presente nella capitale ucraina. così Fonseca ha salutato Roberto De Zerbi e i giocatori e se n'è andato.

I pullman poi si sono recati alla frontiera polacca, distante circa 600 km, luogo purtroppo dove si sono formate lunghe code di persone tutte accalcate lì per lo stesso motivo: scappare.

Da canalesassuolo.it il 26 febbraio 2022. 

La situazione in Ucraina continua ad essere sempre più difficoltosa. Roberto De Zerbi è ancora a Kiev in cerca di una soluzione e in una nota vocale mandata a Fabio Caressa ha cercato di spiegare quali sono i problemi che stanno affrontando in questo momento. Ecco le sue parole: “Siamo ancora qua come eravamo il primo giorno. Siamo chiusi in hotel e non c’è modo di andare via: per andare via e farsi due giorni di viaggio, abbiamo anche le nostre macchine, il problema sono le scorte di viveri, di acqua e di benzina. 

I viaggi sono di trenta/quaranta/cinquanta ore per arrivare alla frontiera e ci manca solo di rimanere senza benzina al freddo (le temperature sono ancora rigide). Questo è un problema. L’altro problema grosso è che stando qua cominciano a scarseggiare le scorte di acqua e cibo. Abbiamo i figli dei brasiliani ai quali cominciano a mancare latte e pannolini. Stiamo cercando di trovare una soluzione per stare qua giusti. Prima per loro e poi per noi”.

Roberto De Zerbi e lo staff bloccati in Ucraina: “Non potevo girare le spalle allo Shakhtar”. Il Tempo il 24 febbraio 2022

L’ex tecnico del Sassuolo Roberto De Zerbi, attuale allenatore dello Shakhtar Donetsk, è bloccato col suo staff e con diversi calciatori della sua squadra in un noto albergo del centro di Kiev, in Ucraina. Dopo l’attacco militare della Russia è stato immediatamente sospeso il campionato ucraino. Sabato non si giocherà. E ovviamente non ci si può neanche allenare. Con De Zerbi ci sono otto italiani tra i suoi collaboratori, a cui è precluso il rientro in Italia. L’aeroporto è chiuso. Secondo varie fonti ci sarebbero state due forti esplosioni nei dintorni dell’albergo intorno alle cinque di stamattina.

«Me ne sto in camera, è una brutta giornata. Ho aspettato a lungo che la federazione sospendesse il campionato, fin da quando è successo quel che è successo col Donbass… Però non mi sono mosso, perché io sono qui per fare sport e non potevo girare le spalle al campionato, ai tifosi che ci seguono… Ho tredici ragazzi brasiliani, il mio staff… Potevamo tornare a casa almeno fino a quando non ci fosse stata sicurezza, no, abbiamo aspettato… Stanotte ci hanno svegliato le esplosioni». Questo il racconto di De Zerbi dall’Ucraina, che poi ha continuato così l’intervista: «Stamattina hanno sospeso il campionato e dalle finestre dell’hotel Opera abbiamo visto file di auto che si muovevano… Credo che stiano andando in Polonia… L’Ambasciata italiana ci aveva sollecitato di andarcene ma non potevo, ripeto, io uomo di sport, girare le spalle al club, al calcio e andarmene così...e alla fine hanno chiuso lo spazio aereo e si sta qui...». 

La situazione è delicata, in continua evoluzione: «Non credo almeno per ora che siamo a rischio, sono venuto qui per fare sport, davvero, e mi armo di pazienza - prosegue De Zerbi -. Non sono venuto per soldi, me ne offrivano di più in Italia, ma per fare esperienza… E ora aspetto. È un’esperienza triste anche questa. Penso al grande Maradona che quando ce n’era bisogno diceva quel che pensava ai padroni del calcio».

Da deejay.it il 25 febbraio 2022.

Di storie terribili legate alla guerra scoppiata in Ucraina, nelle ultime 24 ore, se ne sono purtroppo sentite tante. L’attacco della Russia a Kiev, con il bombardamento notturno ripetuto anche tra giovedì e venerdì, ha sconvolto gli equilibri internazionali e le vite di tutti i cittadini in Ucraina.

Qualcuno, come Cecilia Sala, ha dovuto cambiare i propri piani per andare nel Paese colpito dalla guerra e raccontare cosa stia succedendo realmente, per proteggere il mondo dell’informazione dalle fake news. Qualcun altro, invece, è rimasto bloccato nell’est Europa, in parte per sua scelta. 

Tra chi, pur in un certo senso da privilegiato, sta vivendo in prima persona la situazione ucraina, si è parlato molto di Roberto De Zerbi, allenatore dello Shakthar Donetsk, squadra di calcio ucraina che dal 2014, quando è scoppiato il conflitto in Donbass, ha spostato la propria sede a Kiev per stare lontano dalla guerra. Un cambiamento che, otto anni dopo, non è bastato.

L’ex tecnico del Sassuolo qualche giorno fa era stato avvisato della possibilità dello scoppio di una guerra, ma ha voluto restare con i propri giocatori, per non abbandonarli e per rimanere all’interno del gruppo squadra. Dopo il bombardamento di Kiev, città in cui si trova, è rimasto confinato nell’hotel in cui vive, essendo pericolosa qualsiasi alternativa. 

Siamo in contatto continuo con l’ambasciata italiana a Kiev. Ci hanno consigliato di restare fermi in hotel a Kiev per diversi motivi. La strada che porta ai confini è bloccata, si fanno code chilometriche. Si parla di 70 km di coda. Le scorte di benzina sono insufficienti, come quelle di cibo. Anche mettersi in viaggio è una questione di sopravvivenza. Uscire dall’hotel sarebbe molto pericoloso. 

Anche per questo, per il momento, Roberto De Zerbi ha deciso di restare in albergo a Kiev. Nel frattempo, però, è difficile non pensare alla condizione che stanno passando i migliaia di cittadini in fuga dall’Ucraina, non appena è scoppiato il conflitto armato.

In realtà Roberto De Zerbi aveva avuto la possibilità di andarsene dall’Ucraina prima dello scoppio della guerra, su consiglio dell’ambasciata italiana. La mancata sospensione del campionato ucraino e la volontà di rimanere accanto ai propri giocatori, anche nel momento più difficile delle loro vite, hanno fatto prendere all’allenatore una scelta differente e molto coraggiosa: Mercoledì notte abbiamo sentito cadere le bombe, ma anche stanotte. Ci tranquillizzano dicendo che ai civili non succede niente. O meglio, che ai civili stranieri non dovrebbe succedere niente. Ma nessuno si è mai trovato in questa situazione. Siamo rimasti solo noi in hotel, io e i giocatori brasiliani. Non c’è nessuno del club. Io mi attacco ai valori che mi ha dato mio padre, quindi sto con i ragazzi più giovani per far vedere che ci siamo. Per me è una cosa giusta. Non so se questo ci faccia stare bene, abbiamo paura. Ma non possiamo permetterci di mettere la paura davanti alla vita. 

Un messaggio di fortissimo impatto, a maggior ragione per la situazione in cui si trova chi lo sta lanciando all’Italia e al mondo.

Nella chiacchierata ricca di tensione emotiva e commozione con Linus e Nicola Savino, Roberto De Zerbi ha anche confessato la sua più grande paura: vedere i suoi giocatori ucraini costretti a prendere le armi e ad andare in guerra. Un pensiero terribile, a maggior ragione pensando alla giovane età di alcuni di loro. Eppure, se la situazione internazionale non dovesse cambiare, un pericolo maledettamente concreto: Sono preoccupato da morire per i giocatori ucraini. Qualcuno è da solo, qualcuno può essere chiamato alle armi, anche ragazzi di 18/20 anni. Noi torneremo nel loro Paese, loro saranno comunque in mezzo ai guai. La cosa che mi fa diventare pazzo è non poterli aiutare in nessun modo. Chi non sa di calcio, di un gruppo, di cosa voglia dire la responsabilità magari mi prende per c…, ma a me dispiace vedere così i miei ragazzi. 

L’intervento di Roberto De Zerbi su Radio DEEJAY prosegue con un’amara considerazione: la sua situazione è sicuramente dovuta anche alla decisione della Federazione Calcio Ucraina di non sospendere gli eventi sportivi, nonostante le avvisaglie di un possibile attacco russo fossero piuttosto nette e condivise dalle intelligence internazionali.

L’allenatore lo ha spiegato chiaramente nel suo collegamento telefonico: In questi ultimi giorni si aspettavano tutti un attacco, a quanto pare, tranne l’Ucraina. Qui nessuno si aspettava una cosa così. Non so se cercassero di trovare altri pensieri, ma nessuno se lo poteva immaginare. Due giorni fa, alle 22, mi avevano confermato che al 70% si sarebbe giocata la prossima partita di campionato, a Kharkhiv. L’ambasciata ci aveva sollecitato ad andare via, ma nessuno lo aveva fatto. Io sono un allenatore, se il campionato non viene sospeso… La società mi tranquillizzava, dicendo che era una cosa mediatica. Sarei stato volentieri a casa, altrimenti. 

De Zerbi lascia Kiev: l’allenatore dello Shakhtar in viaggio verso Leopoli. Poi il rientro in Italia. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.  

Roberto De Zerbi, tecnico dello Shakhtar, ha lasciato Kiev, capitale dell’Ucraina sotto assedio russo. Lo ha fatto insieme ai componenti italiani del suo staff. In questo momento sono in viaggio verso un luogo sicuro, dove sono attesi nelle prossime ore. Un ruolo determinante per questa operazione, come per altre degli ultimi giorni, è stato svolto dall’Uefa che si è costantemente tenuta in contatto con il presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina, a sua volta impegnato nel fare da tramite con De Zerbi e i suoi collaboratori.

L’attuale allenatore dello Shakhtar, ex Sassuolo, nei giorni scorsi aveva dichiarato che non avrebbe lasciato Kiev per non abbandonare i suoi calciatori brasiliani e così ha fatto. Infatti, i giocatori in questione ora si trovano in Romania, dove sabato 26 febbraio era arrivato anche Paulo Fonseca, ex tecnico della Roma, che assieme alla moglie e al figlio erano rimasti bloccati in Ucraina. De Zerbi, Possanzini e gli altri sono tutti partiti in treno in direzione Leopoli, al confine occidentale: dovrebbero poi spostarsi in Ungheria o partire verso l’Italia dalla Polonia.

L’allenatore dello Shakhtar ha vissuto in prima persona il tragico inizio dell’invasione russa in Ucraina. «Me ne sto in camera, è una brutta giornata. Ho aspettato a lungo che la Federazione sospendesse il campionato, fin da quando è successo quel che è successo col Donbass. Però, non mi sono mosso perché io sono qui per fare sport e non potevo girare le spalle al campionato, ai tifosi che ci seguono. Ho 13 ragazzi brasiliani, il mio staff. Potevamo tornare a casa almeno fino a quando non ci fosse stata sicurezza: no, abbiamo aspettato. Stanotte ci hanno svegliato le esplosioni», aveva detto De Zerbi giovedì 24 febbraio. Adesso è in salvo.

Da gazzetta.it il 28 febbraio 2022.

Roberto De Zerbi e i componenti dello staff dello Shaktar Donetsk hanno finalmente lasciato Kiev e sono in un luogo sicuro. Dopo giorni di ansia per le sorti dell’ex allenatore del Sassuolo, ieri sera è arrivata la notizia che il gruppo aveva lasciato la capitale (erano bloccati in un hotel quando c’è stato l’attacco militare della Russia) e sono diretti al confine. De Zerbi è in contatto con il presidente della Figc, Gabriele Gravina, che ha fatto da tramite con la Uefa determinante per questa operazione, come per altre degli ultimi giorni.

De Zerbi si è prima assicurato di aver messo in sicurezza i suoi calciatori brasiliani, e poi assieme al suo staff formato dall’allenatore in seconda Davide Possanzini e dai collaboratori Michele Cavalli e Giorgio Bianchi, oltre che dal direttore sportivo Carlo Nicolini, è partito in treno da Kiev verso Leopoli, per poi raggiungere l’Ungheria e far rientro in aereo finalmente in Italia. “In queste ore, il presidente Ceferin si sta attivando in prima persona per aiutare tantissime persone del nostro mondo dimostrando di essere un grande leader - ha dichiarato ieri il presidente della Figc Gravina -. 

La situazione è critica, nella speranza che si arrivi presto ad un cessate il fuoco, ci siamo comunque attivati per poter riabbracciare quanto prima in Italia Roberto De Zerbi e il suo staff con cui sono in contatto costante”. Il gruppo ha poi rilasciato un videomessaggio di pace e solidarietà al popolo ucraino sui canali social del club. De Zerbi e la sua squadra sono atterrati giovedì a Kiev mentre tornavano a casa da un ritiro in Turchia e volevano recarsi a Kharkov, nell’Ucraina orientale, per la trasferta contro il Metalist. La ripresa del campionato dopo la pausa invernale è stata sospesa a tempo indeterminato a causa dell’attacco russo all’Ucraina. De Zerbi, in carica dalla scorsa estate, aveva denunciato esplosioni da Kiev. I 13 brasiliani che giocano per lo Shakhtar sono partiti sabato per la Romania con le loro famiglie. Lo Shakhtar ha sede nella regione ucraina orientale del Donbass, ma non può giocare partite casalinghe a Donetsk da quasi otto anni a causa della guerra in corso nella regione. La Donbass Arena, costruita per l’Europeo 2012 è stata gravemente danneggiata. Da allora lo Shakhtar ha giocato a Leopoli, Kharkiv e, più recentemente, a Kiev.

LA MODA.

Serena Tibaldi per “la Repubblica” il 5 marzo 2022.

Giovedì sera, a Parigi, Isabel Marant è uscita ballando in passerella, al termine del suo show, con addosso un pullover blu e giallo, i colori della bandiera Ucraina. Ieri mattina tutto il team di Loewe, compreso il direttore creativo Jonathan Anderson, in occasione della sfilata ha indossato un fiocco con i colori della nazione in segno di supporto. Con un po' di ritardo ma sempre più incisività il mondo della moda sta prendendo posizione sull'invasione russa in Ucraina, iniziata durante le presentazioni del womenswear a Milano e proseguita con quelle francesi.  

Ma, in realtà, più passano i giorni e più la situazione si sta facendo magmatica. La cosa che qui a Parigi salta all'occhio è il cambio d'atteggiamento del pubblico "comune" e dei marchi presenti. Se infatti la scorsa settimana a Milano le manifestazioni fuori dalle sfilate contro il silenzio degli addetti ai lavori erano molto sostenute, in Francia, ora che i designer si stanno apertamente schierando, diventano meno necessarie. 

Le aspiranti influencer, che stavano ferme in posa per ore, avvolte nella bandiera ucraina in attesa che qualcuno le notasse, ora si sono spostate sui social, dove anche le più famose top model non smettono di postare appelli alle donazioni e immagini con i colori ucraini. E anche Letizia, la regina di Spagna, ieri si è presentata a un impegno ufficiale indossando la tradizionale blusa ricamata ucraina. Un modo intelligente e di forte impatto di usare l'abbigliamento, vista la rapidità con cui si sono diffuse le sue foto. 

Tornando al sistema vero e proprio, il primo gesto di brand e società, giustamente, è stato quello di offrire supporto economico al popolo ucraino: Louis Vuitton ha donato all'Unicef un milione di euro, e Otb di Renzo Rosso è stato tra i primi gruppi a rispondere alle richieste di aiuto. A breve giro si sono mossi anche Kering e Burberry, mentre in Italia la Camera Nazionale della Moda, in accordo con l'Unhcr, l'Alto commissariato per i rifugiati, ha chiamato a raccolta i suoi membri: Prada, Zegna, Valentino ed Etro si sono già attivati. 

Nel frattempo, per non essere da meno, il British Fashion Council, corrispettivo anglosassone della Camera della moda, ha chiesto ai suoi membri di riconoscere la gravità del conflitto e prendere una posizione chiara. Dal canto suo Giorgio Armani, cui va il merito di aver affrontato per primo la questione in passerella sfilando domenica scorsa senza musica per rispetto delle vittime degli attacchi, oltre a una donazione all'Unhcr, ha raccolto con la Comunità di Sant' Egidio indumenti nuovi da fare avere agli sfollati.  

Molto attiva è pure la maison Chanel, che prima ha stanziato due milioni di euro a favore di Unhcr e Care (ong specializzata nell'infanzia), poi ha offerto supporto economico, logistico e legale ai dipendenti locali bloccati, e infine ieri sera ha deciso di fermare ogni operazione commerciale sul suolo russo. Ecco, un capitolo assai delicato è quello sulle chiusure dei negozi stranieri in Russia. 

Prima di Chanel, ieri è stato Hermès a bloccare i suoi canali commerciali nel Paese, sia fisici che digitali; lo stesso hanno fatto Nike, Puma, H&M e Pandora. Stessa decisione nei giorni scorsi l'hanno presa le piattaforme di e-commerce più importanti come Net-a-Porter, Farfetch e Mytheresa, e anche brand indipendenti come Acne Studios, Rejina Pyo e Khaite.  

Sulla questione chiusure i due colossi del settore, LVMH e Kering, non si sono ancora espressi, ma in realtà il gesto a questo punto sarebbe più simbolico che altro: con lo spazio aereo russo chiuso, anche chi volesse proseguire come nulla fosse non potrebbe, visto che le spedizioni della merce dall'Europa sono ferme da giorni. 

In altre parole, fossero aperti, molti negozi sarebbero vuoti. Ma la situazione in realtà è ancora più complicata: secondo uno studio di Morgan Stanley, il mercato russo interno non conta più del due per cento nei fatturati dei brand di lusso. È all'estero che i russi spendono sul serio, e per la precisione a Milano: la loro meta preferita stando ai dati della compagnia di shopping tax-free Global Blue, riportati dal quotidiano americano Wwd. Ciascuno di loro spende in media nella città italiana 1.215 euro a transazione. È con questo che occorrerà fare presto i conti.

Simona Buscaglia per lastampa.it il 2 marzo 2022.

Usciti dalle sfilate, i turisti russi accorsi a Milano la scorsa settimana per seguire la moda, da domenica si sono ritrovati improvvisamente con le carte di credito azzerate e i conti degli alberghi (salati) da pagare. Le sanzioni imposte dall’Europa alla Russia per l’invasione dell’Ucraina, hanno colpito, e duro, perfino nelle tasche di chi era atterrato sotto la Madonnina per una settimana di passerelle e glamour milanese. 

«Appena è stato annunciato il blocco delle carte di credito, nel weekend abbiamo avuto dei clienti russi che si sono dovuti attrezzare correndo sabato a prelevare delle somme in contante – spiega Giuliano Nardiotti, direttore del quattro stelle Sina De La Ville – Per fortuna molti avevano pagato già in anticipo con l’agenzia».

Per gli alberghi del centro, il mercato russo è tra quelli più importanti: «Per noi ha di gran lunga superato quello nordamericano, posizionandosi ben oltre il 20% delle presenze, e attorno al 25% del fatturato – precisa Nardiotti – Il Covid ha cancellato un po’ tutto ma il mercato russo è rimasto forse l’unico, tra quelli extra Ue, sempre presente». 

Nemmeno la Fashion Week è riuscita però a dare un sospiro di sollievo agli albergatori: «Avevamo un bel numero di russi che sono dovuti scappare in anticipo e i buyer che sarebbero dovuti venire a ridosso delle sfilate hanno cancellato gli appuntamenti». Ad aggiungersi al quadro delle ricadute dovute alle tensioni internazionali, troviamo i rincari del costo dell’energia: «Eravamo in una situazione di difficoltà per la pandemia, poi è arrivato il caro bollette e ora la guerra – racconta Guido Gallia, direttore dell’Hotel Cavour di Milano – Il mercato russo è al secondo posto nei nostri introiti, se sparisse, insieme a lui se ne andrebbe il 30% circa del fatturato – conclude Gallia – a fronte di una situazione dove siamo a poco più del 50% dei guadagni pre-Covid».

I russi d’altronde non sono i soli a trovarsi in difficoltà. Il discorso del blocco delle carte di credito vale anche per gli ucraini, pochi, che la scorsa settimana erano arrivati sulle Alpi per sciare. Come nel caso di due famiglie rimaste bloccate agli Appartamenti Vacanze Miramonti di Valtournenche, in Valle d’Aosta: non possono tornare a casa per via della guerra e hanno le carte di credito fuori uso. 

«Sono due famiglie di amici, entrambe con figli – racconta il direttore della struttura Valerio Cappelletti –. Erano venute per fare la settimana bianca ai piedi del Cervino. Sarebbero dovuti ripartire domenica. Ora li stiamo ospitando gratuitamente. Hanno amici e parenti nel loro Paese, e sono ovviamente scioccati. Doveva essere una vacanza, si è trasformata in un incubo».

Preoccupazione anche nel cuore produttivo della Brianza, con il fiore all’occhiello dell’economia del territorio, quello dei mobili, che potrebbe vedere i propri prodotti fermi in magazzino: «I numeri aggiornati fanno riferimento al periodo che va da gennaio a novembre 2021: il valore dell’esportazione verso la Russia di tutta la nostra filiera si attesta intorno ai 400-410 milioni di euro» dichiara Maria Porro, presidente di Assarredo, che rappresenta circa 500 aziende di produttori di mobili italiani. 

Ad essere colpito dallo stop è soprattutto il settore dell’arredamento classico: «Molte di queste aziende sono sbilanciate sul mercato russo, che può valere dal 20 al 40% dell’esportazione totale: per loro questo è un momento di grande preoccupazione, anche a causa dei forti rincari che ci sono stati sulle materie prime».

Tra le aziende brianzole c’è quella di Franco Cappellini, presidente della Cornelio Cappellini: «Noi creiamo prodotti di fascia alta, per i cosiddetti oligarchi, non solo di Mosca, ma anche in altre zone della Russia. Chiaramente quando li si blocca a livello finanziario l’ultimo problema per loro sarà l’arredamento delle case. Noi però abbiamo degli ordini aperti di centinaia di migliaia di euro, che hanno chiaramente degli acconti, il cui saldo può essere però dal 50 al 70 per cento, parliamo quindi di eventuali ricavi in meno anche di oltre 50mila euro a ordine. E se contiamo che dal 10 al 15% del nostro fatturato riguarda il mercato russo, è ovvio che l’impatto potrebbe essere importante. Qualsiasi tensione internazionale coinvolge indirettamente tutto il nostro lavoro. Abbiamo 30-40 dipendenti e siamo solidi al momento ma le conseguenze del conflitto potrebbero essere una battuta d’arresto rispetto a un inizio dell’anno partito invece in netta risalita».

La sfilata senza musica di Giorgio Armani in solidarietà per l’ Ucraina che passerà alla storia. Le modelle sfilano , nel più completo silenzio, e lui piange. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Febbraio 2022.

La sfilata senza musica e la commozione dei collaboratori. " Mi sono chiesto qualche ora prima cosa potessi fare - ha detto Giorgio Armani -. Ma non era una questione di soldi o vestiti, ma volevo segnalare subito il mio battito di cuore».

La sfilata di domenica 27 febbraio nella penultima giornata della settimana della moda di Milano di Giorgio Armani è stata una scelta simbolica, potente e solidale, vuole lanciare un segno di solidarietà. Anche se lo show va avanti, il pensiero è lì, alle bombe sganciate su Kiev. Le modelle sfilano senza il ritmo calzante: nessuna nota stridente o angosciosa è più assordante dell’assenza che colpisce e va dritta al cuore. Ancora una volta Giorgio Armani con le sue scelte del tutto personali manifesta la sua immensa umanità.

“La mia decisione di non usare nessun tipo di musica preso in segno di rispetto per tutte le persone coinvolte nella tragedia in corso in Ucraina” dice una voce fuori campo prima che inizi la sfilata di Giorgio Armani. E dopo la pausa del pubblico che applaude in sala la sfilata si svolge nel silenzio la presentazione della collezione per il prossimo inverno. 

Alla sfilata era presente anche la senatrice a vita Liliana Segre .“Ho incontrato la Segre alla prima della Scala ed è stata molto gentile, ha espresso” racconta Giorgio Armani “il desiderio di venire a vedere la sfilata, magari avrà riserve sulla moda, ma è un grande onore. Le vorrei chiedere tante cose quando vedo un programma sull’Olocausto non resisto, devo vedere, rendermi conto di cosa possono avere sofferto quegli esseri umani: partecipare al loro dolore, anche da casa mia, mi sembra che ne valga la pena“. 

Armani dopo lo show in conferenza stampa scoppia a piangere davanti ai giornalisti , commosso. “Mi sono chiesto qualche ora prima cosa potessi fare. Ma non era una questione di soldi o vestiti, ma volevo segnalare subito il mio battito di cuore e per questi bambini“. e parlando non riesce più a trattenere le lacrime: “sono proprio uno stupido ma non riesco a restare indifferente“. E conclude: “La cosa migliore era dare il segnale che non vogliamo festeggiare. Cosi ho detto non voglio musica. Anche i ragazzi e le ragazze si sono emozionati“.

Selvaggia Lucarelli per "Domani" l'1 marzo 2022.

Diciamoci la verità. Non avevamo chissà quali aspettative nei confronti della settimana della moda. Sospettavamo che dopo due anni difficili per via della pandemia (poche sfilate in presenza e fatturati a picco) il massimo del rischio da correre in passerella potesse essere la mega spallina anni Ottanta. 

Immaginavamo che pur di non compromettere rapporti commerciali e di non creare frizioni con buyer russi e importatori russi la moda avrebbe ancheggiato sicura come le sue modelle: sguardo dritto e passo veloce, senza fissare nessuno negli occhi. E, soprattutto, muta. Eppure, fino all’ultimo, abbiamo sperato in qualcosa di più.

In una moda che approfittasse della sua platea internazionale, del mondo che la osservava per lanciare un messaggio sicuro e compatto contro la guerra e chi l’ha provocata. 

In una moda che indossasse i panni dei più deboli, anziché cucire quelli dei più forti. Invece, se si escludono timide iniziative soprattutto via social di Remo Ruffini, Elisabetta Franchi e Walter Chiapponi, direttore creativo di Tod’s (quest’ultimo ha parlato di «ruolo importante della moda mentre la Russia attacca l’Ucraina» e ha reso più essenziale la sua collezione a una settimana dalle sfilate), il resto è stato solo silenzio.

Un silenzio poco elegante nonostante riguardi chi con l’eleganza lavora, ma molto strategico, visto che riguarda chi grazie all’eleganza fattura. Da segnalare due casi interessanti: Matthieu Blazy, nuovo direttore creativo di Bottega Veneta, che prima dello show ha lanciato una Instagram Story in cui ha chiesto di agire contro la guerra, rischiando di finire presto per diventare il nuovo direttore creativo di Upim linea notte.

E le acrobazie di Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci che, ospite a Che tempo che fa, con la sua aria da Gesù hipster è riuscito a elaborare una raffinata supercazzola blando-pacifista di cinque minuti pur di non pronunciare mai le parole “Russia” e “Ucraina”, ovvero: «All’inizio ero quasi infastidito dal dovermi occupare di bellezza in un momento così… la sera prima dello show ero molto agitato tanto che non ho mangiato… Poi, facendo colazione col mio compagno, ho capito che questo mio adoperarmi in modo così amorevole nei confronti delle cose che faccio entra in sintonia con l’idea della vita».

Nessuno chiedeva alla moda di fermarsi né di saltare la cena, ma neppure di raccontarci la favoletta retorica della bellezza che salverà il mondo, mentre il pragmatismo della bruttezza uccide soldati e civili.

E, soprattutto, si può parlare di bellezza, dell’importanza di adoperarsi amorevolmente nel proprio lavoro perché il lavoro è democrazia e libertà, anche prendendo una posizione più radicale. Pronunciando, appunto, la parola “Russia”, per esempio. Mi sento di rassicurare Alessandro Michele e tutti gli altri, quelli che "la moda deve osare” ma evidentemente osa solo quando si vestono le modelle con piume giallo canarino: non è che se uno stilista per sbaglio pronuncia la parola “Russia” o, peggio ancora “Putin” saltano di botto tutte le cerniere agli abiti in passerella.

L’unica luce nel buio delle passerelle pavide e scaltre, come spesso accade, è stato Giorgio Armani. Asciutto e contemporaneo come la sua moda, il re Giorgio ha deciso di eliminare la musica dallo show: «La mia decisione di non usare nessun tipo di musica è stato preso in segno di rispetto per tutte le persone coinvolte nella tragedia in corso in Ucraina. La cosa migliore è dare il segnale che non vogliamo festeggiare perché qualcosa intorno a noi ci disturba molto», ha dichiarato.

E non solo. Ha voluto Liliana Segre ad assistere allo show, oltre che Kasia Smutniak e Anne Hathaway, tutte generose ai microfoni dopo la sfilata, tutte compatte nell’esporsi sul male della guerra.

Anche le ospiti nazionali e internazionali di Armani erano ben diverse dalle costose icone pop viste altrove, capaci di esporsi, ma solo ai flash. E l’assenza di musica, il silenzio durante la sua sfilata è stato l’unico vero rumore politico dell’evento. Insomma, una settimana della moda che ha reso evidenti due cose: la fragilità di qualsiasi braccio di ferro con la Russia, quando è l’economia nazionale ad entrare in gioco.

L’ARTE.

Stefano Bucci per “La Lettura – Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.

Ci sono opere d'arte nate per parlarci della guerra e del suo orrore: La Battaglia di San Romano di Paolo Uccello (1348); 3 maggio 1808 di Goya (1841); Der Krieg di Otto Dix (1932); Guernica di Picasso (1937); Infiltrazione omogenea per pianoforte a coda di Joseph Beuys (1966). 

E ci sono opere d'arte che quello stesso orrore l'hanno vissuto «sulla propria pelle»: opere rubate (il Vaso di fiori di Jan van Huysum prelevato dalle truppe della Wehrmacht da Palazzo Pitti a Firenze e tornato a casa solo nel 2020); opere smontate (la stupefacente Camera d'ambra del palazzo di Caterina la Grande a Carskoe Selo, a sud di San Pietroburgo, rimontata nel 2003); opere distrutte (i Buddha di Bamyan cancellati nel 2001 dall'iconoclastia talebana); opere ufficialmente disperse (la Vergine circondata da santi e Angeli di Lorenzo Monaco sparita nell'incendio della Flakturm Friedrichshain del maggio 1945, definito il più grande disastro artistico della storia moderna dopo la distruzione nel 1734 del Real Alcázar di Madrid).

In guerra l'arte (da rubare, smontare, distruggere) diventa emblema di un potere che si è conquistato o che si è perduto. Come i quattro cavalli in origine appartenuti a una quadriga in trionfo collocata all'ippodromo di Costantinopoli traslati nella Basilica di San Marco a Venezia all'inizio del XIII secolo in seguito al saccheggio della città ad opera dei crociati. 

«Affermo che in tutta la Sicilia, in una provincia così ricca e così antica, in tante città e in tante famiglie così facoltose, non c'è vaso d'argento, corinzio o di Delo, gemma o perla, manufatto d'oro o d'avorio, non c'è statua bronzea, marmorea, eburnea, non c'è dipinto su tavola o su stoffa, che l'imputato non abbia accuratamente cercato, esaminato e, se gli piaceva, portato via»: con queste parole un giovane Cicerone accusa nelle sue orazioni In Verrem (70 a. C.) l'ex governatore della Sicilia, Gaio Licinio Verre, di avere spogliato la provincia di tutti i suoi tesori artistici.

Il «museo universale» immaginato da Napoleone (che nel 1796 arriva in Italia con il preciso intento di trovare capolavori d'arte, ori, statue, dipinti e tutto quel che fosse necessario per dare al neonato Louvre le opere più prestigiose di ogni epoca e renderlo un vero «museo universale») è quello delle opere vittime della guerra. 

Un museo che idealmente riunisce l'Ercole seduto di Lisippo (fuso in monete dai crociati nel 1204); i dipinti per la Camera dorata del municipio di Bruxelles di Rogier van der Weyden distrutti dal bombardamento del 1695 (di loro rimane solo un arazzo-copia); gli affreschi di Andrea Mantegna per la Cappella Ovetari nella Chiesa degli Eremitani cancellati da un altro bombardamento, quello alleato di Padova l'11 marzo 1944. E le gigantesche Nozze di Cana di Paolo Veronese vittime nel 1797 proprio delle spoliazioni napoleoniche e poi ricomposte al Louvre (dove oggi si trovano face to face con la Gioconda ). 

In Cambogia la guerriglia dei Khmer rossi, tra il 1979 e la fine degli anni Novanta, si finanziava esportando in Thailandia e da lì altrove manufatti angkoriani recuperati nei territori sotto il loro controllo. Nel caos successivo all'invasione dell'Iraq, tra marzo e aprile 2003, dal Museo nazionale di Bagdad furono rubati almeno 15 mila reperti; di questi, solo settemila sono stati recuperati e restituiti, gli altri ancora non si sa dove siano: nel luglio 2006 è stato annunciato dalla Ice Immigration and Customs Enforcement il ritrovamento della statua sumerica in diorite del re Entemena di Lagash, tra i pezzi più importanti dell'Iraq Museum rubato nel 2003. Anche se la portata reale del saccheggio resta sconosciuta: successivamente, infatti, migliaia di altri reperti erano stati prelevati direttamente dai siti.

Al Markk (Museum am Rothenbaum. Kulturen und Künste der Welt), il museo etnologico di Amburgo, una mostra racconta oggi la storia e le origini dei bronzi del Benin, il loro arrivo nella città anseatica ma anche i motivi per cui questi bronzi torneranno in Africa. 

La collezione del Benin di Amburgo è una tra le più grandi in Germania (la più estesa, circa 520 oggetti, è conservata nell'Ethnologisches Museum di Berlino) e raccoglie una parte dei pezzi razziati nel 1897 nel Palazzo Reale di Benin City (in Nigeria), durante una spedizione punitiva delle truppe britanniche e oggi sparpagliati in almeno 160 musei. La mostra certifica l'intesa firmata dal governo tedesco e dalla Commissione nigeriana per i musei e i monumenti, che (al pari di quelle stipulate dal Musée Quai Branly di Parigi o dello Smithsonian di Washington) stabilisce la «fine di una guerra». 

Altra opera simbolo dell'arte «rubata» dalle guerre è il Ritratto di giovane uomo di Raffaello Sanzio, databile tra il 1516 e il 1517 circa e in origine conservato presso il Museo Czartoryski a Cracovia di cui si sono perse totalmente le tracce durante la Seconda guerra mondiale quando sarebbe stato trafugato dai tedeschi: un dipinto a olio di 75 per 59 centimetri che figura nel catalogo nazionale polacco delle opere d'arte perdute nel conflitto, numero di inventario V-239. Ma per molte di queste opere d'arte trafugate al tempo della guerra la scomparsa non è mai ben definita, se ne perdono semplicemente le tracce e ricompaiono, se ricompaiono, in un museo o in una collezione dopo infinite peripezie.

Più fortunata, per quanto sempre assai complicata, è la storia dell'Agnello mistico , il polittico dipinto tra il 1426 e il 1432 da Jan van Eyck, rubato addirittura sette volte durante la sua esistenza nonché ripetutamente smontato e spostato (nel 1781 vennero persino riposti in sagrestia i «troppo conturbanti» nudi di Adamo ed Eva). Nel 1816 i suoi pannelli laterali furono comprati dal collezionista inglese Edward Solly, residente in Germania, e poi alienati al re di Prussia, finendo a fare parte delle collezioni dell'Altes Museum alla sua apertura nel 1830. 

Durante la Prima guerra mondiale altri pannelli sarebbero stati spostati dalla cattedrale di Gand per ragioni di sicurezza, ma con il trattato di Versailles del 1919 (articolo 247, seconda clausola) tutti gli scomparti, anche quelli legalmente acquistati da Solly, vennero restituiti per contribuire al risarcimento che la Germania doveva versare agli Stati vincitori e in parziale compensazione per i danni inflitti al Belgio, venendo a così a ricomporre l'insieme del polittico nella cattedrale di San Bavone a Gand. 

Nel 1942 il Polittico venne sequestrato da Hitler e destinato al suo mai nato museo di Linz (in Austria) ma poi, anche qui per ragioni di sicurezza, fu nascosto prima nel castello di Neuschwanstein, in Baviera, e successivamente in una miniera di Altaussee, in Austria. A ritrovarlo furono i Monuments Men, gli ufficiali anglo-americani incaricati di proteggere e recuperare il patrimonio artistico europeo delle zone di guerra celebrati nel film di George Cloney (2014). Alla cerimonia di restituzione del Polittico al Belgio nessuna rappresentanza francese. Il motivo? La mancata opposizione della Repubblica di Vichy al sequestro del dipinto da parte dei tedeschi.

Cancellare gli artisti russi? C'è (per fortuna) chi dice no. Luigi Mascheroni il 24 Marzo 2022 su Il Giornale.

​Centodiciannove fra artisti e direttori d'orchestra di tutto il mondo - l'elenco si trova sul sito OperaWire (operawire.com) - hanno firmato una petizione contro la guerra in Ucraina. 

Centodiciannove fra artisti e direttori d'orchestra di tutto il mondo - l'elenco si trova sul sito OperaWire (operawire.com) - hanno firmato una petizione contro la guerra in Ucraina. Ma non è che la prima parte della notizia, scontata. Più interessante invece è la seconda: i firmatari chiedono anche di porre fine al boicottaggio contro gli artisti russi. Non devono essere cancellati dai teatri, dai programmi, dai festival per via della guerra. «Sosteniamo pienamente le sanzioni e le pressioni diplomatiche esercitate contro il regime di Putin. Tuttavia non tutti i russi e i bielorussi, e certamente non tutti gli intellettuali delle due nazioni, sostengono l'invasione. Pertanto troviamo ingiusto condannarli per le azioni del dittatore e dei suoi sostenitori senza alcuna prova diretta della loro collusione». Un punto a favore contro la folle «cultura della cancellazione» che chiede abiure, esami di coscienza, confessioni, delazioni (ieri l'agenzia di Anna Netrebko, la CSAM, ha espulso l'artista dalla sua scuderia...). Tra i nomi di peso della petizione: Antonio Pappano, Simon Rattle (ex dei Berliner), Franz Welser-Möst (ha diretto l'ultimo capodanno da Vienna coi Wiener), Leonidas Kavakos, Frank Peter Zimmermann, Ian Bostridge, Isabel Faust, Renaud Capucon. Tra gli italiani: il pianista Maurizio Baglini, la compositrice Silvia Colasanti, Fabio Luisi, Rinaldo Alessandrini, Carlo Rizzi (ma mancano i direttori Gatti, Muti, Chailly). È un inizio: la barbarie di chiedere patenti morali e dichiarazioni politiche agli artisti va fermata. È davvero necessario conoscere le idee di un musicista prima di ascoltarne l'esecuzione? Pronunciarsi sulla guerra è - e deve rimanere - una libera scelta, non un obbligo. E vale per ogni guerra, conflitto, governo. Chiediamo forse agli artisti cinesi, prima di andare in scena, di esprimersi sul regime del loro Paese? O a quelli musulmani di prendere le distanze dal diritto islamico sull'omosessualità? La petizione contro il boicottaggio degli artisti russi è un punto fermo. All'inizio prevale sempre l'irrazionalità, il fanatismo, l'eccitazione, il «Crucifige!»: si sono fatti tentare anche sindaci, intellettuali, direttori di istituzioni prestigiose. Poi per fortuna arriva la riflessione, la razionalità, il buon senso. Adesso, non torniamo più indietro.

L’altra aggressione. L’invasione russa raccontata dagli artisti ucraini che lottano per la libertà. Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta il 24 Marzo 2022.

Linkiesta ha contattato alcuni designer che sono rimasti nel loro Paese per resistere all’esercito di Mosca: «Stiamo combattendo per la nostra esistenza, chi ha preso un fucile in mano, chi fa volontariato, ognuno fa quel che si sente di fare per una vittoria comune».

Art-Studio Agrafka, Romana Romanyšyn e Andrij Lesiv, classe 1984, vivono e lavorano nella loro città nativa di Leopoli. Vincitori di Bologna CBF nel 2018 con il libro: “Vedo Non vedo Stravedo” e “Forte Piano in Un Sussurro”, inoltre vincitori del premio Andersen e della medaglia d’oro e argento di European Design Awards. In Italia vengono pubblicati dalla casa editrice milanese Jaca Book.

In questi giorni si svolge Bologna CBF, un evento al quale partecipavamo ogni anno, dove abbiamo ricevuto vari premi in vari anni. Gli organizzatori di Bologna CBF sin dai primi giorni dell’aggressione russa hanno preso una posizione netta, chiudendo i contatti con l’editoria russa e offrendo il supporto all’editoria ucraina con uno stand vuoto, il quale ad alta voce parla della nostra assenza: quest’anno non ci siamo perché stiamo combattendo per la nostra esistenza, chi ha preso un fucile in mano, chi fa volontariato, ognuno fa quel che si sente di fare per una vittoria comune.

Potete aiutarci a tornare l’anno prossimo: condividete la nostra voce, parlate di noi, traducete i libri ucraini, leggete i libri ucraini, coinvolgete nei vostri progetti gli artisti ucraini. Noi apprezziamo ogni gesto. Ci dimostrano che non siamo soli nella nostra lotta. È importante che la luce della vostra attenzione sia accesa sopra di noi. Appena questa luce si spegnerà, cadremo nelle tenebre e rimarremo faccia a faccia con il mostro.

Siamo contenti che a Bologna non ci sia posto per il compromesso. Riceviamo questo sostegno dai nostri partner di tutto il mondo. Dalla Russia ci sono giunte solo voci singole. Ne vogliamo citare una: «Il gesto minore che possa fare un russo adesso è darsi fuoco per protesta, ma siamo troppo deboli per questo».

È importante che il pubblico straniero capisca che non si può paragonare il disagio leggero, causato dalle sanzioni, di qualsiasi abitante in Russia con le sofferenze degli ucraini. In Russia si torna la sera a casa e si dorme nel proprio letto, si può partorire in un ospedale, non in un bunker senza acqua e luce. Il disagio economico per antonomasia non è paragonabile allo sterminio, alle torture fisiche, al terrorismo chimico e nucleare praticato sugli ucraini. E nonostante questi fatti chiari dobbiamo anche combattere con la propaganda russa, che prende piede volentieri in tanti paesi occidentali.

Vediamo come gli esponenti del mondo della cultura continuano a cercare il grigio in una situazione nettamente bianca e nera. È impressionante, come nel XXI secolo, con un trasversale accesso all’informazione, possa nascere ancora un male primordiale. Perfino il male medioevale aveva un codice, dei limiti, invece quello che vediamo oggi è solo il nero colore delle origini, senza né limiti né leggi. Il nero assoluto esiste ancora ed ecco la sua faccia. Noi siamo attivi sul fronte informativo, sfruttiamo la nostra rete di conoscenze, rilasciamo le interviste, parliamo con i nostri partner e aiutiamo a raccogliere i fondi per aiutare l’Ucraina.

Negli ultimi otto anni, da quando è iniziata la guerra in Donbas, abbiamo dedicato tanti dei nostri lavori al tema della guerra e della resistenza: “Addio alle armi” di Hemingway (edizione ucraina), “Ottica di Dio”, “Superheroes”, “Uomini donne e bambini”, “La guerra che cambiò città Tonda”. Però adesso non riusciamo più a riflettere sulla tela. Non riusciamo a prendere una matita in mano. Non riusciamo a comprendere tutto quello che ci sta succedendo intorno. La nostra arte è stata sempre il frutto di una riflessione profonda, non ci piace la superficialità. Sentiamo come si smuovono le placche tettoniche della nostra esistenza, ma non riusciamo ancora a captare questo cambiamento. I lavori che abbiamo condiviso sui social, sono i disegni dei nostri vecchi progetti. Per ora siamo bloccati nel silenzio.

Andrij Soroka, noto come Andre Magpie, classe 1987, designer grafico, ha collaborato con grandi aziende come ArtBook, Glowberry Books, Silpo, Sony, Samsung, Renault, CoST Ukraine Cooper. Ha elaborato il design per il ministero dell’infrastruttura ucraino. Illustra i libri per il progetto sulla storia e cultura della cucina ucraina gestito da Izhak e Ukrainian Institute.  (Mentre parliamo in videochiamata sullo sfondo sento i colpi dell’antiaerea ucraina).

Sono rimasto a casa mia a Bilohorodka, nei pressi di Kiev, per dare supporto ai locali, per prendermi cura di un rifugio per gli animali, del quale mi occupo insieme alla mia ragazza Arlen. Durante le prime due settimane, quando a Bilohorodka c’era ancora tanta gente, insieme agli altri abitanti abbiamo organizzato delle pattuglie per proteggere le case la notte dagli sciacalli, e riportavamo delle macchine sospette che entravano nel paese.

Cominciai a riflettere sulla guerra già nel 2014, provengo dall’Est dell’Ucraina, da Dnipro, poco distante dal Donbas. Le riflessioni finivano più che altro nel cassetto, perché ero sovraccarico di lavoro. Ora il 95% dei progetti ai quali stavo lavorando sono sospesi, e ho riaperto il cassetto con le mie idee e riflessioni sulla guerra. Trovo anche spazio per il volontariato, non solo pratico, ma artistico: mi sono occupato del design per “Paljanytsja”, un ristorante gratuito per anziani.

Nei primi giorni ho sperimentato un pixel art dedicato ai soldati dell’Isola dei serpenti. Ho creato una linea di grafica dedicata alla città di Mariupol’, dove, attraverso semplici calcoli volevo mostrare al mondo il terrore che sta accadendo qua.

Se voglio indagare nel profondo dei miei sentimenti legati alla guerra mi esprimo attraverso immagini più pesanti, che forse nascono dalla mia passione per la musica hard e heavy, è uno stile senza compromessi che rispecchia direttamente il sentimento forte. È uno dei miei stili preferiti. In questo momento è ciò che rispecchia quello che sento. In attesa della nostra vittoria cerco di fissare il momento con l’uso dell’immagine. Attraverso la mia arte voglio mostrare che non rimango in disparte, voglio dare il mio supporto agli altri, a chi ne ha bisogno.

Pavlo Makov, grafico, rappresentante della Nouvelle Vague, insegnante. Membro del Royal Society of Painters and Graphic Artists di Gran Bretagna. I suoi lavori si trovano al Victoria and Albert Museum (Londra), al Metropolitan Museum (New York), alla National Art Gallery (Kiev), al Center for Contemporary Art (Osaka) e alla State Tretyakov Gallery (Mosca).

Sono a Venezia. Sono riuscito a portare in salvo mia madre e mia moglie dalla mia città di Kharkiv, bombardata dall’esercito russo. Abbiamo trovato il modo di organizzare il mio progetto, selezionato ancora nel 2021, per la Biennale di Venezia. Anche se non sarà completo, vogliamo comunque organizzare il padiglione ucraino a Venezia.

Le mie riflessioni iniziano subito la mattina, perché devo alzarmi dal letto e vivere e continuare a fare qualcosa. Non rifletto sulla tela. Non ho proprio voglia di dipingere. Il lavoro sul progetto per la Biennale è piuttosto meccanico e ingegneristico. Non dico che non tornerò a dipingere mai più, ma in questo momento sono fermo. Stare con le mani in mano è difficile, ma creare mi è ancora più difficile.

La cultura russa? E dove ci ha portati? Cosa ha prodotto? Un branco di lupi cattivi che commettono crimini di guerra in Ucraina? Almeno i lupi hanno un po’ di dignità. Gli stessi Puškin, Dostojevski, Tolstoj sono stati tutti arrestati e oppressi dallo zar. E ora li stanno usando come dottrina della loro politica coloniale.

La storia si ripete, la Russia ha compiuto lo stesso percorso della Germania nazista, ma la Germania ha avuto la sua Norimberga, mentre la Russia stalinista, con tutti i crimini commessi da Stalin, no. Ed ecco che oggi ne abbiamo le conseguenze. Purtroppo l’Occidente non riesce a comprendere tutto il terrore che abbiamo vissuto sotto il regime stalinista e quando paragonavo Stalin a Hitler in Europa mi sputavano in faccia, letteralmente. Dopo la fine della seconda guerra mondiale l’URSS ha ottenuto mezza Europa, ma poi questo patrimonio si è disgregato, cominciando con l’Ungheria nel 1956 e finendo con la Polonia negli anni ’70. Nessun popolo ha voluto rimanere sotto il suo dominio.

L’oppressione, le torture, l’invidia sono ormai nell’indole della cultura russa, di questo ci parla la storia. Il valore della vita umana in Russia non conta niente, lo vediamo anche adesso in questa guerra. La cultura ucraina fa parte della cultura occidentale, perché i suoi principi si basano sulla dignità, libertà, rispetto reciproco, sul valore della vita umana. Non è uno scontro etnico, è uno scontro tra culture.

Io sono nato in Russia, forse nel mio sangue non c’è goccia di sangue ucraino, ma ho vissuto tutta la mia vita in Ucraina, forse per questo riesco a vedere le cose in modo chiaro.

(Pavlo risponde in un ucraino perfetto).

Valeria Crippa per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2022.

Piovono fiori e lacrime rabbiose sull'addio ad Artem Datsishin, primo ballerino dell'Opera Nazionale dell'Ucraina, ricoverato in ospedale a Kiev dal 26 febbraio e morto dopo essere stato gravemente ferito dai soldati russi proprio all'inizio delle operazioni militari nella capitale. Dopo aver combattuto per giorni in agonia nel letto d'ospedale, l'artista si è spento all'età di 43 anni, lasciando dietro di sé un coro di dolore e sdegno che dalla capitale ucraina si è subito riverberato in tutto il mondo.

Tra le voci più critiche, c'è quella del coreografo russo Alexei Ratmansky, direttore del Balletto del Bolshoi dal 2004 al 2008 e dal 2014 artista residente dell'American Ballet di New York, ospite frequente della Scala di Milano con i suoi lavori: «Sono furioso, è un dolore insopportabile», si è sfogato sui social. La notizia della morte di Datsishin, accompagnata da quella del funerale avvenuto ieri mattina, è stata comunicata in forma ufficiale su Facebook dal direttore artistico dell'Opera Nazionale Ucraina, Anatoly Solovyanenko: «È stato ucciso un nostro collega, grande artista, solista di lunga data e uomo meraviglioso».

L'ondata di commozione ha travolto i ballerini della compagnia che hanno fatto a gara per ricordare Datsishin: «Addio, amico mio, non riesco a esprimere il dolore che sento», ha scritto l'amica e collega Tatyana Borovik. Sotto le bombe russe se n'è andato uno dei danzatori più amati della capitale ucraina, noto per lo stile romantico e per la profondità attoriale che hanno reso speciali le sue interpretazioni, dal Lago dei cigni a Lo Schiaccianoci , da La bella addormentata nel bosco a Giselle e Romeo e Giulietta , affrontati con successo non solo in patria ma anche nelle tournée in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone.

Per i suoi meriti, Datsishin aveva ricevuto numerosi riconoscimenti come il Premio Serge Lifar nel 1996 e il Rudolf Nureyev nel 1998: Lifar era ucraino, Nureyev era russo e transfuga dall'Unione Sovietica di Kruscev, due grandi che hanno reso gloria all'Est in Occidente, entrambi direttori e straordinari innovatori del Balletto dell'Opéra di Parigi. Nella storia del Teatro Nazionale di Kiev - dove la programmazione della stagione si è inchiodata l'8 e 9 febbraio con il balletto Valzer viennese e con l'opera verdiana Rigoletto -, la tecnica di danza è sempre stata una, modellata sul metodo didattico della maestra e teorica dell'era sovietica Agrippina Vaganova, comune ai Paesi dell'Est. Russia e Ucraina sembravano indissolubili, almeno nel balletto. Ora, l'ennesima lacerazione di una guerra fratricida.

Dal Cremlino all’Ermitage, i palazzi simbolo della Russia costruiti dagli italiani (e la morte misteriosa di Solari nel 1493). Pierluigi Panza su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2022.

L’Ermitage di San Pietroburgo fu realizzato da Bartolomeo Rastrelli e Giacomo Quarenghi. C’è invece la firma del milanese Pietro Antonio Solari sulle torri del Cremlino a Mosca: dopo la sua morte (forse annegato dalle maestranze) i lavori furono completati da Marco Ruffo e da Aloisio il Milanese.  

E vabbé, per ordine di Putin abbiamo rischiato che il direttore dell’ Ermitage, Michail Borisovi Piotrovski si riportasse a casa 25 opere esposte in mostra a Milano, delle quali 19 di artisti italiani e altre sei di artisti europei. Nell’elenco ci sono Tiziano, Canova ma, soprattutto, statue e vasi di Carlo Albacini e dei Valadier acquistati nel Settecento in Italia da Caterina di Russia; non un artista russo era in prestito. E già questo è un segnale di come andarono le «cose dell’arte» nella Grande Madre Russia. Gli zar fecero shopping in Italia e chiamarono a costruire e decorare i loro palazzi architetti italiani sin dal Rinascimento. Del resto, uno va all’Ermitage vede Leonardo, Raffaello, Caravaggio, Tiziano, Canova e, semmai, Rubens, Rembrandt, Monet, Matisse, Picasso… di russi non un granché. Pure l’ex Palazzo d’inverno degli zar, ovvero l’Ermitage, fu progettato da italiani: l’architetto Bartolomeo Rastrelli, chiamato nel 1716 da Pietro il Grande, era di famiglia fiorentina; gli interni furono eseguiti dal ticinese Giuseppe Lucchini sotto le direttive del bergamasco Giacomo Quarenghi. Così il resto della città.

La storia del Cremlino

Per non parlare del Cremlino a Mosca, dove proprio i milanesi la fecero da padroni. Pietro Antonio Solari, o Solaro (cugino del pittore Andrea Solario), era il figlio di Guiniforte Solari, il maggior architetto lombardo del XV secolo, scultore e lapicida presso i cantieri del Duomo, della Ca’ Granda e della Certosa di Pavia. Nel 1487 fu chiamato a Mosca per costruire la cinta difensiva dei palazzi che andavano costituendo il Cremlino. Delle venti torri disposte lungo le mura le più importanti sono sue. Sulla magniloquente Torre di ingresso, la Spasskaja che dà sulla Piazza Rossa, quella che gli ex dirigenti dell’Urss salivano per attendere alle loro sfilate militari, vi è apposta una lapide bianca con una scritto in latino: «Ivan Vasil’evic per grazia di Dio Gran Principe di Vladimir, Mosca, Novgorod, Tver, Pskov, Vjatka, Ugoria, Perm, Bulgaria e di altre regioni, e signore di tutta la Russia, nel trentesimo anno del suo regno ha fatto costruire questa torre eretta da Pietro Antonio Solari di Milano. Marzo 1491».

Solari a Mosca e la morte misteriosa

Solari, anche con maestranze milanesi costruì poi la torre Borovickaja, la torre Konstantino-Eleninskaja (che domina la cosiddetta scarpata di San Basilio), la torre Senatskaja e la torre Nikol’skaja sulla Piazza Rossa. Nel 1487 Ivan il Grande gli affidò pure l’incarico di edificare all’interno delle mura il cosiddetto Palazzo delle faccette pietra, che ricorda quello dei Diamanti di Ferrara con il suo caratteristico bugnato a punta. Solari, indicato in un documento milanese come «architectus generalis Moscovie», morì nel maggio 1493 in circostanze misteriose: si disse che fosse stato annegato da maestranze locali. Non aveva figli e fu affidata alla madre l’amministrazione dell’eredità. I lavori al Cremlino furono portati a termine da Marco Ruffo e da Aloisio il Milanese, architetto proveniente da Milano forse originario di Carcano, presso Como. Aloisio il Milanese costruì la torre Troickaja. Altre due torri del Cremlino, la Vodovzvodnaja (forse la più bella) e la Tajnickaja furono non di un milanese, ma pur sempre di un vicentino che viaggiò anche da queste parti, Antonio Gislardi. Inutile insistere perché pure l’architetto Osip Bove, il russo che costruì le altre torri, era di famiglia di origine napoletana. Dunque, il più dell’arte figurativa della Grande Madre Russia, il meglio di San Pietroburgo e di Mosca viene dall’Italia e, molto, da Milano: da Leonardo e Caravaggio al Cremlino.

Laura Larcan Vittorio Sabadin per “il Messaggero” il 15 marzo 2022.

I musei italiani non dovranno restituire subito i quadri ricevuti in prestito dalla Russia. Alcuni giorni fa, il direttore dell'Ermitage di Pietroburgo, Michail Piotrovsky, aveva inviato a nome del ministero della Cultura una lettera nella quale ingiungeva l'immediata riconsegna di tutte le opere, iniziativa che era sembrata una delle tante ritorsioni alle sanzioni dell'Occidente per la guerra in Ucraina. 

Ma ora, grazie alla mediazione della sezione italiana dell'Ermitage, che ha sede a Venezia, i toni si sono raffreddati: la restituzione dovrà ovviamente avvenire, come accade sempre dopo un prestito, ma non c'è più fretta e tempi e modi saranno concordati caso per caso.

LA NUOVA MISSIVA Ieri mattina Maurizio Cecconi, Segretario Generale di Ermitage Italia, ha preso un treno per Roma per dare la notizia al ministro della Cultura italiano Dario Franceschini, e portargli una nuova lettera di Piotrovsky. 

«Dispiace molto scrive il direttore del museo che ospita la più grande collezione d'arte del mondo - che le relazioni culturali tra i nostri Paesi siano crollate in un tale buio. Se ne può uscire solo se conserviamo l'atmosfera di buona volontà e benevolenza. Ripetiamo sempre che i ponti della cultura si fanno saltare in aria per ultimi. Ora è venuto il tempo di proteggerli. E cercheremo di mostrare come si fa». Non è chiaro se il ripensamento riguardi solo l'Italia o anche gli altri Paesi europei ai quali era stata chiesta la restituzione delle opere. 

Fonti vicine all'Ermitage consultate dal Messaggero sottolineano che c'è un particolare riguardo per l'Italia, ma che l'attenuazione delle misure riguarderà tutti i Paesi che non mostrano ostilità con la Russia nel settore dell'arte. Le stesse fonti hanno rivelato che l'improvvisa decisione del ministero della Cultura russo era dovuta a voci provenienti da Parigi, dove alla fondazione Louis-Vuitton è in corso, prorogata fino ad aprile, una grande mostra della mitica collezione dei fratelli Morozov, raccolta prima della Rivoluzione d'Ottobre. L'indignazione seguita all'invasione dell'Ucraina aveva spinto qualcuno a suggerire di sequestrare tutti i quadri prestati dalla Russia (in tutto 200), di venderli e di usare il ricavato per acquistare armi per gli ucraini. 

L'OSTILITÀ La contemporanea decisione dell'Olanda di chiudere una mostra sull'Avanguardia russa, e il clima di ostilità che si era nel frattempo creato persino intorno ad autori come Dostoevskij o a compositori come ajkovskij, hanno preoccupato molto il ministero della Cultura, che ha deciso di farsi restituire tutte le opere. Ermitage Italia ha subito fatto presente che non c'erano ragioni per penalizzare il nostro Paese, che non si era dimostrato ostile per quanto riguarda gli scambi culturali in corso. Nella lettera che ora rettifica la prima decisione, Piotrosky ribadisce che l'arte e la cultura non dovrebbero avere nulla a che fare con la guerra: devono unire i popoli e non dividerli. 

«Spero che l'Italia scrive il direttore dell'Ermitage - possa contribuire a creare un nuovo meccanismo di interazione tra le istituzioni culturali vista una lunga tradizione nazionale di amore e rispetto per la cultura, l'arte e i musei. Abbiamo bisogno di nuovi approcci e accordi, senza un ritorno alla retorica della Guerra Fredda. Le mostre che attualmente ospitano opere provenienti dalla Russia potranno dunque restare aperte fino alla data di conclusione inizialmente prevista. Tra i più importanti quadri prestati all'Italia dall'Ermitage c'è la Giovane donna di Picasso, un dipinto del 1909 esposto a Roma al Palazzo Rhinoceros di Alda Fendi.

Al Palazzo Reale di Milano si trovano Giovane donna con cappello piumato di Tiziano e Giovane donna con vecchio di profilo, di Giovanni Cariani, prestati per la mostra Tiziano e l'immagine della donna nel Cinquecento veneziano. Sempre a Milano, alle Gallerie d'Italia, ci sono 23 opere provenienti dalla Russia, esposte nella mostra Grand Tour. Sogno d'Italia da Venezia a Pompei. Tra queste, creazioni di Ingres, di Antonio Canova e di Luigi Valadier. 

VIAGGIO DIFFICILE Dopo la prima lettera di Piotrosky, il ministro Franceschini si era limitato a dire che «se il proprietario di qualcosa la richiede indietro bisogna restituirgliela». Ora, di fronte alla seconda missiva, la cautela sembra dettare i tempi. Il testo divulgato in queste ore, una traduzione italiana dal russo, non sembra essere accompagnato da una carta intestata e protocollata, così come appariva nel primo documento fatto recapitare ai direttori responsabili delle istituzioni culturali italiane interessate dai prestiti.

Pura formalità? Fonti vicine alla direzione dell'Ermitage garantiscono lo spirito di collaborazione nel nome dell'arte. Quello che sembra sicuro, però, in queste ore (secondo gli addetti ai lavori) è che sarebbe assai complicato mettere in viaggio le opere prestate dall'Italia alla Russia. Uno scenario possibile di sicurezza per quadri assicurati per centinaia di migliaia di euro è del tutto assente. Il trasporto blindato, i voli, i visti, il personale operativo? Tutto bloccato. Non certo all'altezza di Tiziano o Picasso. Insomma, che sia una questione di mero pragmatismo?

Torna a casa.  L’Ermitage di San Pietroburgo si riprende le opere prestate a Palazzo Reale e Gallerie d’Italia. Andrea Dispenza su L'Inkiesta il 14 Marzo 2022.

Con la guerra in Ucraina, il ministero della Cultura russo ha chiesto il rimpatrio delle opere di proprietà pietroburghese sparse in giro per il mondo. Da Milano tornano in Russia 23 capolavori delle Gallerie e due quadri della mostra di Tiziano

La “Giovane donna con cappello piumato” di Tiziano. 

«La bellezza salverà il mondo» (Dostoevskij, guarda caso), magari lo farà mentre è costretta a tornarsene a casa. Così deve accadere, infatti, come da volontà del ministro della Cultura russo, per le opere d’arte di casa a San Pietroburgo e prestate a Milano e al resto del mondo. Una lettera spedita dall’Ermitage, museo tra i più visitati al mondo, con al suo interno una delle collezioni più importanti di sempre, arriva diretta a Milano, nelle sedi di Palazzo Reale Milano e Gallerie d’Italia. I capolavori si devono restituire entro la fine del mese, occorrerà pensare solo all’imballaggio e alla spedizione, «il nostro agente di trasporto» – si legge nella lettera firmata dal direttore del museo russo Mikhail Piotrovsky – «si occuperà di tutte le disposizioni necessarie. Capisco perfettamente che questa decisione vi creerà grande dispiacere». 

Un dispiacere, eccome, che nasce anche dal fatto che basterebbe aspettare di un pochino soltanto: il 27 marzo è l’ultimo giorno dell’esposizione alle Gallerie d’Italia dal titolo ”Grand Tour. Sogno d’Italia da Venezia a Pompei” che ora deve rinunciare a gran parte delle opere nonostante la fine così vicina. Sono 23 tra dipinti e sculture ad abbandonare anzitempo gli spazi di piazza della Scala. Tra queste, un marmo di Canova, “Amorino alato”, le tele “I granduchi Paolo Petrovic” e “Marija Fëdorovna al Foro Romano” di Ducros, “La famiglia Tolstoj a Venezia” di Giulio Carlini, “Il Colosseo visto dal Palatino” di Carlo Labruzzi. Capolavori che torneranno prima del previsto nei diversi musei di San Pietroburgo di appartenenza, senza aspettare l’ultimo giorno utile per ammirare le rappresentazioni dell’élite europea in giro per l’Italia tra Settecento e Ottocento insieme a uomini di chiesa, letterati, musicisti e artisti russi o americani.

A Palazzo Reale è visitabile invece da fine febbraio – e durerà fino a giugno – la mostra “Tiziano e l’immagine della donna nel Cinquecento veneziano”. “Soltanto” due, in questo caso, i quadri reclamati dall’Ermitage e che dovranno lasciare un vuoto tra le pareti della mostra promossa dal Comune di Milano in collaborazione con il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Si tratta della “Giovane donna con cappello piumato” proprio di Tiziano e “Giovane donna con vecchio di profilo” di Giovanni Cariani, su un totale di circa un centinaio di opere esposte (47 i dipinti) per raccontare ai milanesi la donna bella, elegante e sensuale di Tiziano e dei suoi contemporanei (tra i quali anche Giorgione, Lotto, Palma il Vecchio, Veronese e Tintoretto).

Le conseguenze di un drammatico periodo storico che ricadono sulla cultura riguardano Milano, ma non solo. La Fondazione Fendi di Roma dovrà infatti restituire una Giovane donna di Pablo Picasso, fino ad ora mai esposta in Italia. A Rovigo, per fare un altro esempio, è incerta la tanto attesa retrospettiva su Kandinskij realizzata attraverso l’esposizione di un’ottantina di opere da musei e collezioni private russe, perché “quando un proprietario chiede la restituzione delle proprie opere queste debbano essere restituite”, come ha dichiarato il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. 

E se è vero che anche dalla Russia le opere di altri Paesi devono fare ritorno a casa, sarà forse per questo motivo che da poche settimane sono rientrati a Milano da Mosca i 26 capolavori della collezione Mattioli, dichiarata “indivisibile e insostituibile” dallo Stato italiano nel 1973. Le tele di Morandi, Balla, Boccioni protagoniste al Museo Russo di San Pietroburgo in occasione di “Futurismo Italiano Cubofuturismo russo” e al museo Puskin di Mosca con “I capolavori futuristi della collezione Mattioli” fino allo scorso gennaio sono ora in comodato gratuito al museo del Novecento. Anche queste hanno viaggiato in camion per poter essere preservate al meglio lungo il tragitto, per essere mantenute costantemente in una condizione ideale, per non volerle rovinare considerato il loro inestimabile valore. Almeno su questo siamo tutti d’accordo.

Non c'è solo Putin. Russia, il culto della letteratura abita ancora lì: I grandi libri continuano a parlare al popolo. Filippo La Porta Libero Quotidiano il 13 Marzo 2022. 

Dalla Russia con terrore, potremmo parafrasare Ian Fleming. Eppure è dalla stessa Russia che può venire il rimedio. Se davvero Putin ha scatenato questa guerra insensata, al di là di calcoli imperialistici o di pretestuose ragioni geopolitiche, per paura di un contagio democratico della vicina Ucraina, ci si potrebbe chiedere se questo contagio – che non significa adesione supina ai modelli consumistici ma invenzione di un proprio modo di essere moderni – sia realisticamente possibile. Nessuno di noi può dirlo con certezza, e certamente l’universo russo resta in buona parte impenetrabile, nonostante innumerevoli reportage giornalistici, però vorrei provare a riflettere su un aspetto della questione.

Sono stato a Mosca, prima del Covid, tre volte in due anni per un premio letterario italo-russo e per alcune conferenze. Non ho la pretesa di aver capito alcunché di fondamentale in poche settimane, però mi hanno colpito due cose: fascino della grandiosità e centralità (anacronistica) della letteratura. Anzitutto una certa simmetria, anche architettonica, con gli Stati Uniti. Pathos della grandezza ed esibizione di potenza. Le Sette Sorelle, i sette grattacieli moscoviti degli anni ’40 e ‘50 fatti costruire da Stalin (università – l’edificio più alto in Europa fino al 1990! -, hotel, edifici residenziali, torri ministeriali…), ed espressione del classicismo socialista, sono il calco esatto dei grattacieli goticheggianti di New York, rivisti dal barocco estenuato di Elisabetta, figlia di Pietro il Grande. Mentre i nuovi grattacieli svettanti – i più alti in Europa! – della city affaristica evocano Shanghai. Mosca e New York sono due metropoli malate di narcisismo e megalomania. A New York la modernità, pur di audace verticalità, è ovunque un po’ rattoppata, impura, a Mosca invece somiglia a un paesaggio urbano cristallino, asettico, quasi un plastico sigillato nel gelo purissimo dei suoi inverni. Poi mi hanno colpito le tante case dedicate agli scrittori, veri e propri monumenti, oggetto di devoti pellegrinaggi.

A Roma nessuno sa in quali case abitò Belli, ma a Mosca le case di Gogol, di Puskin, di Cechov, di Bulgakov e perfino del grande Herzen, intellettuale libertario amato da Isaiah Berlin, sono appunto luoghi ufficiali e meta di visite (a San Pietroburgo c’è perfino Casa Raskolnikov, dedicata al protagonista di Delitto e castigo, oltre a Casa Achmatova, etc. ).. Nonostante tutto la Russia non ha smesso di celebrare la letteratura, sua vera religione laica. Perfino Stalin, che mandò a morte scrittori e poeti, un poco doveva subirla, ne era intimidito: celebre la telefonata – rievocata da Sciascia – in cui Stalin chiede a Pasternak perché lo avesse chiamato, e quando lo scrittore gli dice che lo ha fatto per parlare di vita e di morte, pare che Stalin spaventato abbassò la cornetta (sul rapporto sempre irrisolto, antagonistico, tra potere e intellettuali, si veda il prezioso La grande Russia portatile di Paolo Nori Salani 2018).

Nei Fratelli Karamazov, insuperato romanzo “filosofico” innervato da una riflessione sulla dialettica sempre inconclusa di bene e male, incontriamo verso la fine un dialogo tra il demoniaco Dmitrij (Mìtja), “mandante” dell’omicidio di suo padre (poi condannato) e il fratello minore, il caro e puro Alésa, in veste da novizio. «“Di che cosa parli, Mìtja?”, “Delle idee, delle idee, ecco di che! Dell’etica. Che cos’è l’etica?”. “L’etica?” – si stupì Alèsa. – “Sì, è una scienza, ma quale?” – “Sì, c’è una scienza di questo genere…ma…confesso, non ti so spiegare che scienza sia”». Alèsa sa bene che se l’etica è ridotta a “scienza”, a una disciplina accademica, a una sezione della filosofia, si svuota del tutto (in ciò probabilmente troviamo una polemica dello scrittore russo nei confronti della filosofia tedesca). Crede solo in un’etica vissuta, fatta dell’amore per gli altri (non aliena da uno slancio mistico), di una fiducia incondizionata verso il genere umano (fiducia che, a sua volta, genera sempre altra fiducia: è un giovane amato da tutti). Il dialogo tra Dmitrij e Alèsa, che finisce con la celebre frase «Se Dio non esiste è tutto permesso», è comunque presente nell’immaginario culturale dei russi – come il resto della loro letteratura, che nell’800 è stata probabilmente la più grande in Europa -, negli interrogativi e nei dilemmi su cui imparano a ragionare sui banchi scolastici.

Ora, presumibilmente un ventenne moscovita di oggi non legge Dostoevskij o Tolstoj e nemmeno Turgenev, forse il più bravo di tutti, adorato da Woody Allen (ma chissà…), e perlopiù guarda in tv i Simpson e Breaking bad. Esattamente al contrario di quelle mitiche commesse dei grandi magazzini Gum sulla piazza Rossa, che negli anni ‘60, secondo una attendibile testimonianza di Alberto Ronchey (il quale la riportava, incautamente, in una deplorazione del triste livellamento di quel popolo!), leggevano Guerra e pace alla cassa. Ma una tradizione culturale così ricca vive anche nel quotidiano, nel senso comune, negli atti e nei comportamenti delle persone. Credo (o voglio credere) che quella letteratura – benché celebrata in modo enfatico e spesso ipocrita – non possa smettere di parlare al suo popolo. Filippo La Porta 

(ANSA il 9 marzo 2022) L'attacco russo all'Ucraina e le sanzioni a livello internazionale hanno conseguenze anche nel mondo dell'arte: il museo Ermitage di San Pietroburgo ha chiesto la restituzione entro la fine del mese delle opere prestate per le mostre a Palazzo Reale di Milano e alle Gallerie d'Italia. Alle Gallerie è aperta fino al 27 marzo la mostra 'Grand Tour. Sogno d'Italia da Venezia a Pompei' che è realizzata proprio in collaborazione con il museo russo. Fra le opere di cui è richiesta la restituzione c'è la Giovane donna con cappello piumato di Tiziano, esposta alla mostra di Palazzo Reale 'Tiziano e la figura della donna veneziana nel '500'.

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 10 marzo 2022.

Lo sguardo verso l'osservatore. Le labbra strette, quasi a trattenere le parole. L'espressione intimidita, le mani, invece, decise, mentre stringono gli abiti a nascondere il corpo. E la sua bellezza. Sono altre suggestioni oggi ad accompagnare, forse velare, l'opera Giovane donna con cappello piumato di Tiziano, proveniente dal museo dell'Ermitage di San Pietroburgo, esposta a Milano, a Palazzo Reale, nella mostra Tiziano e l'immagine della donna nel Cinquecento veneziano. Il museo russo ha chiesto la restituzione, entro fine mese, di tutte le opere in prestito a mostre in Italia. Una conseguenza dell'attacco all'Ucraina. E delle sanzioni dell'Europa al Paese aggressore.

LA CIRCOLARE Il ministero della Cultura russo, con circolare, ha invitato tutte le istituzioni a farsi restituire le opere prestate all'estero. La decisione si fa misura del precipitare dei rapporti, anche in ambito culturale, con i Paesi che Vladimir Putin ha definito ostili. E il ministero della Cultura italiana ha deciso la sospensione immediata delle iniziative per l'Anno incrociato dei musei Italia-Russia. Le prime sedi colpite dalla richiesta dell'Ermitage sono state Palazzo Reale, Gallerie d'Italia-Piazza Scala - museo di Intesa Sanpaolo a Milano - e Rhinoceros della Fondazione Alda Fendi-Esperimenti a Roma. 

«In base alla decisione del ministero russo della Cultura tutti i prestiti in essere devono essere restituiti dall'estero alla Russia e come sapete l'Ermitage è un museo statale che dipende dal ministero della Cultura», ha scritto il direttore Mikhail Piotrovsky al direttore di Palazzo Reale Domenico Piraina e al presidente di Skira editore Massimo Vitta Zelman. «Capisco perfettamente che questa decisione vi creerà grande dispiacere e inconvenienti», ha aggiunto, chiedendo comprensione e «di predisporre l'imballaggio e la spedizione». 

L'ESPOSIZIONE L'esposizione, prodotta da Comune di MilanoCultura, Palazzo Reale e Skira editore, con il viennese Kunsthistorisches Museum, che, fino al 5 giugno, riunisce oltre cento opere, sta per perdere Giovane donna con cappello piumato di Tiziano sedici i capolavori del maestro esposti e Giovane donna con vecchio di profilo di Giovanni Cariani. Sono ventitré le opere dell'Ermitage nella mostra Grand Tour. Sogno d'Italia da Venezia a Pompei alle Gallerie d'Italia, da Amorino alato di Antonio Canova a Giornate romane di Michelangelo Barberi.

Poi, lavori di Ducros, Ingres, Valadier e molti altri. Il museo russo ha fatto sentire la sua voce anche alla romana Rhinoceros Gallery, dove il 15 febbraio, la Fondazione Alda Fendi-Esperimenti ha inaugurato l'esposizione di Giovane donna di Pablo Picasso, giunta per la prima volta in Italia, proprio grazie al legame con il Museo. Ora, però, la situazione è decisamente diversa. E le opere dovranno essere restituite. 

Da Gallerie d'Italia fanno sapere che ripartiranno una settimana prima della fine della mostra, fissata il 27 marzo. E sì che proprio poche settimane fa sono rientrati a Milano da Mosca i ventisei capolavori della collezione Mattioli, dichiarata indivisibile e insostituibile dallo Stato italiano nel 1973. 

«La Fondazione ha ricevuto la richiesta dalla Russia di restituire l'opera spiegano alla Fondazione Alda Fendi-Esperimenti, che avrebbe dovuto chiudere la mostra il 15 maggio - consentendo al pubblico di visitare La Giovane Donna di Picasso ancora per 20 giorni». Sono molti i musei che potrebbero ricevere richieste simili. Si teme per la mostra su Kandinsky, che riunisce ottanta opere del maestro a Rovigo, con prestiti anche dal Museo di Stato Russo e dal Puskin di Mosca. 

L'INAUGURAZIONE «A me pare evidente che quando un proprietario chiede la restituzione delle proprie opere, queste debbano essere restituite», ha dichiarato, ieri, il ministro della Cultura Dario Franceschini, inaugurando la mostra Ukraine: Short Stories. Contemporary artists from Ukraine, da oggi al 20 marzo, al Maxxi, a Roma. Gli incassi saranno devoluti al fondo per l'emergenza umanitaria in Ucraina costituito da Unhcr, Unicef e Croce Rossa.

«Questo momento richiede grandi scelte ma anche piccoli e concreti gesti di solidarietà», spiega Giovanna Melandri, presidente Fondazione Maxxi. Nell'iter, centoquaranta opere di artisti emergenti e affermati tutte, 10 per dodici centimetri - realizzate per la Imago Mundi Collection. Una ricognizione della scena artistica in Ucraina. E uno sguardo sulla cultura come strumento di dialogo. Un messaggio ancora più importante ora, che, per paradosso, sembra cadere in un abissale e spaventoso silenzio.

Da leggo.it il 9 marzo 2022.  

La proposta del sindaco di Firenze non è piaciuta a Eike Schmidt, che commenta così Firenze, l'idea del sindaco Dario Nardella non piace affatto al direttore degli Uffizi. Il primo cittadino fiorentino aveva infatti proposto di coprire con un lenzuolo nero, in segno di lutto e come «gesto forte» contro la guerra in Ucraina, la copia del David di Michelangelo in piazza della Signoria. Eike Schmidt, però, si dice fortemente contrario. 

«Così com'era un errore coprire le statue dei Musei Capitolini per la visita del presidente iraniano nel 2016, per presunti motivi di pudicizia, così lo è anche adesso, per le dichiarate ragioni di lutto. 

Le statue nei musei e sulle piazze delle nostre città hanno un forte valore non solo artistico ma educativo, poetico, identitario, di incoraggiamento individuale e collettivo» - ha commentato il direttore degli Uffizi - «Vestirli o tatuarli con proiezioni di loghi commerciali o di messaggi politici falsa il loro senso e nolente o volente li banalizza, spesso ridicolizzandoli. Coprirli invece completamente, per qualunque motivo, equivale a una censura, e pertanto si oppone ai fondamenti della società libera».

La replica di Nardella

«Con migliaia di morti in Ucraina e un dolore immenso, c'è chi trova il tempo di fare polemiche. Fermo restando che non c'è nessuna censura e che il David di Michelangelo è ben visibile e custodito alla Galleria dell'Accademia, trovo certi commenti offensivi, inutilmente polemici e irrispettosi nei confronti della comunità ucraina presente con me in piazza della Signoria in un momento di grande dolore e cordoglio a causa della guerra».

Così replica, in una dichiarazione, il sindaco di Firenze, Dario Nardella, alle prese di posizione critiche nei confronti del suo gesto di coprire con un telo nero la copia del David in piazza della Signoria, a partire dal direttore degli Uffizi, Eike Schmidt. «A proposito di arte ridicolizzata, fossi in Schmidt - aggiunge Nardella - mi preoccuperei dei lavori infiniti agli Uffizi perché se c'è qualcosa che ridicolizza la città sono le indegne gru che sono lì da 30 anni». «A margine ricordiamo che il drappo nero sarà tolto, come previsto, sabato quando ci sarà la grande manifestazione europea per la pace», ha concluso Nardella.

Gustavo Bialetti per “la Verità” l'8 marzo 2022.

Che c'è di meglio, per sentirsi vicini al popolo ucraino che lotta per la libertà, di coprire e nascondere un simbolo di libertà? Da domenica, per volere del sindaco Dario Nardella, la copia del David di Michelangelo che campeggia in piazza della Signoria, a Firenze, è coperta da un lugubre drappo nero, appena ravvivato da alcuni minuscoli fiocchettini gialli e azzurri, come i colori della bandiera di Kiev. 

«Speriamo di toglierlo presto il drappo. Per il momento l'idea è tenerlo fino alla fine della guerra», ha annunciato l'ex renziano della prima ora, così convinto di aver avuto una bella pensata da spingersi ad augurarsi che scatti l'emulazione un po' in tutta Italia.

Intanto, il direttore degli Uffizi, lo storico dell'arte tedesco Eike Schmidt, lo ha gelato: «Noi non oscuriamo delle opere per principio. Fare vedere le opere è il nostro compito». Ma niente, il tenero Nardella è proprio convinto e rilancia: «È un gesto di lutto e di dolore nel giorno della nascita di Michelangelo Buonarroti. Il David è il simbolo della libertà, gli ucraini per noi sono il David che combatte contro la tirannia di Golia». Insomma, anziché lasciare il David «simbolo di libertà» ben visibile al mondo intero, al massimo mettendogli un nastrino giallo e azzurro, il primo cittadino di Firenze è convinto che i simboli vadano nascosti.

 Anche a quei poveri cristi coraggiosi di turisti che anche in tempi del genere vanno a Firenze per fare un bagno di bellezza e umanesimo. Ci sarebbe forse da sorridere di tanta goffaggine, se non fosse che c'è qualcosa di profondamente perdente e autolesionista, nella «protesta» del Nardella. Qualcosa di così debole da non essere purtroppo neppure tanto sorprendente nel cuore di un'Europa sempre più incline a coprire (e nascondere) le proprie radici.

Dal corriere.it il 7 marzo 2022.

Jacopo Tissi lascia il teatro Bolshoi di Mosca, dove lo scorso dicembre era stato nominato primo ballerino. «Sono scioccato da questa situazione che ci ha colpito da un giorno all’altro e, onestamente, per il momento, mi ritrovo impossibilitato a continuare la mia carriera a Mosca» ha scritto su Instagram aggiungendo che «nessuna guerra può essere giustificata».

L’annuncio

«Non riesco a descrivere quanto sia stato triste per me lasciare i miei insegnanti, i miei colleghi e amici; persone speciali che mi hanno fatto crescere come artista e come persona a cui sono e sarò sempre grato» ha aggiunto il ballerino nato a Landriano, nel Pavese, 27 anni fa e diplomato all’Accademia della Scala.

«Come essere umano provo empatia verso tutte le persone e le loro famiglie che stanno soffrendo. Nessuna guerra può essere giustificata. Mai. e io sarò sempre contro ogni tipo di violenza» ha scritto aggiungendo che «non possiamo lasciare che l’odio si diffonda, anzi, il nostro mondo dovrebbe essere pieno di armonia, pace, comprensione e rispetto. Spero davvero e prego che tutte le guerre e sofferenze cessino al più presto». 

La promozione

Un annuncio triste che arriva pochi mesi dopo la sua storica carica: il 31 dicembre 2021, dopo una rappresentazione de Lo schiaccianoci, il direttore artistico del Bolshoi Makhar Vaziev aveva annunciato la sua promozione a primo ballerino della compagnia. Tissi, diplomato al Teatro alla Scala e individuato da molti come l’erede di Roberto Bolle, è stato così il primo danzatore italiano della storia a entrare nel corpo di ballo del Bolshoi.

(ANSA il 6 marzo 2022) - Il direttore del Teatro Bolshoi di Mosca, Tugan Sokhiev, ha annunciato le dimissioni. Lo riporta l'Interfax sottolineando che Sokhiev ha rilasciato una dichiarazione in cui annuncia che si dimetterà anche dalla carica di direttore musicale dell'Orchestre National du Capitole de Toulouse. "Dopo aver affrontato una scelta impossibile tra i miei musicisti preferiti russi e francesi, ho deciso di dimettermi da direttore del Teatro Bolshoi di Mosca e da direttore musicale dell'Orchestre National du Capitole de Tolosa", afferma Sokhiev.

Simona Antonucci per “il Messaggero” il 7 marzo 2022.

«Noi musicisti siamo lì per ricordare attraverso le note di Shostakovich gli orrori della guerra. Siamo gli ambasciatori della pace». Lacerato da «una scelta obbligata ma impossibile, fra i miei musicisti russi e quelli francesi, ho deciso di dimettermi da entrambe le cariche». Tugan Sokhiev, direttore del Bolshoi di Mosca, una delle figure più rappresentative della vita culturale della città, alza la voce contro la guerra e rimette il suo mandato, in Russia e a Tolosa, dove dirige dal 2008 l'Orchestre National du Capitole. 

«Sono sempre stato contrario a qualsiasi conflitto e in qualsiasi forma, e sempre lo sarò», spiega aggiungendo che le sue dimissioni hanno effetto immediato sia in Russia sia in Francia. Sottoposto a diverse pressioni in questi giorni, Sokhiev posa la sua coraggiosa bacchetta e rompe il fronte del silenzio che ha visto schierati artisti di fama, come il maestro russo Valery Gergiev.

Dal 2014 alla guida del prestigioso teatro russo, Sokhiev, 44 anni, in cartellone anche all'Accademia di Santa Cecilia di Roma a maggio, aveva appena 26 anni quando diresse il primo concerto a Tolosa. E saluta il pubblico di entrambi i teatri con un lungo post, prendendo una decisione netta, a differenza del collega Gergiev e del soprano Anna Netrebko che hanno scelto di non rilasciare dichiarazioni contro la guerra in corso tra Russia e Ucraina, nonostante le richieste del Teatro alla Scala dove avrebbero dovuto esibirsi. I concerti di Gergiev sono stati cancellati dalle sale più prestigiose al mondo, mentre Netrebko ha preferito ritirarsi «momentaneamente».

«COSTRETTO A SCEGLIERE» «Durante gli ultimi giorni», scrive Sokhiev in un post sui social«ho assistito a qualcosa che pensavo non avrei mai visto in vita mia. In Europa oggi sono costretto a fare una scelta. Tra un artista piuttosto che un altro. Presto mi chiederanno di scegliere fra ajkovsky, Stravinsky, Shostakovich e Beethoven, Brahms, Debussy. Questo accade già in Polonia, un paese europeo, dove la musica russa è vietata. Non riesco a capire come i miei colleghi, artisti, attori, cantanti, ballerini, registi possano essere minacciati, trattati irrispettosamente e siano vittime della cosiddetta cancel culture. Invece di usare noi e la nostra musica per unire nazioni e popoli ci stanno dividendo e ostracizzando». 

La decisione di Sokhiev arriva pochi giorni dopo quella di Laurent Hilaire, che ha lasciato la direzione della compagnia di balletto del Teatro Stanislavski di Mosca, e di Elena Kovalskaya, direttrice del teatro statale Meyerhold Center di San Pietroburgo. E se al San Carlo è scoppiata la pace tra il soprano ucraino Liudmyla Monastyska e il mezzo soprano russo Ekaterina Gubanova che al termine della recita di Aida si sono abbracciate di fronte agli applausi del pubblico, nel resto del mondo le posizioni degli artisti nei confronti del conflitto cominciano a farsi più nette.

LA DANZA Il coreografo Alexei Ratmansky, ex direttore artistico del Teatro Bolshoi di Mosca e attualmente artista in residenza presso l'American Ballet di New York, ha deciso di lasciare Mosca e di tornare a New York, via Varsavia, con tutto il suo team artistico, mentre stava creando una nuova produzione per il Bolshoi. «Fino a quando Putin resterà presidente non tornerò a lavorare in Russia», ha spiegato il ballerino e coreografo russo che sta raccogliendo, in queste ore, sulla sua pagina facebook le dichiarazioni di colleghi e star del mondo della danza, da Baryshnikov a Alessandra Ferri, da Natalia Osipova a Iana Salenko e Isabelle Guerin per dire ancora una volta no alla guerra e all'invasione della Russia in Ucraina.

Il caso del regista ucraino. Il caso di Yevhen Lavrenchuk: “Il reato? Solo un pretesto della Russia”. Viviana Lanza su Il Riformista il 18 Marzo 2022. 

Il caso di Yevhen Lavrenchuk, il regista ucraino raggiunto a dicembre scorso da un ordine di cattura internazionale spiccato dalla Russia e tornato libero agli inizi di marzo, sta per essere definito. I giudici dell’ottava sezione della Corte d’appello si sono riservati la decisione e a giorni dovranno pronunciarsi sulla richiesta di estradizione avanzata dalla Federazione Russa. Una richiesta contro la quale si sono già espressi la Procura generale di Napoli e la ministra della Giustizia Marta Cartabia dicendo no all’estradizione del regista teatrale ucraino.

In particolare, la Cartabia, rispondendo all’interrogazione parlamentare dal deputato di +Europa Riccardo Magi, aveva sottolineato che «gli attuali rapporti tra la Federazione Russa e l’Ucraina inducono a ritenere sussistente e concreto il rischio che, in caso di estradizione, Yevhen Lavrenchuck, che si è dichiarato oppositore politico del presidente russo Putin e ha assunto in passato posizioni di netta critica all’annessione della Crimea da parte della Federazione Russa, possa essere sottoposto, in ragione della sua condizione di cittadino ucraino oppositore politico, a trattamenti ai diritti fondamentali della persona, compreso il diritto di difesa». Sul risvolto politico del caso si è espresso ieri anche l’avvocato Alfonso Tatarano, difensore del regista ucraino, prendendo la parola nell’udienza celebrata ieri dinanzi all’ottava sezione della Corte d’appello di Napoli. La difesa ha motivato la posizione di Yevhen Lavrenchuk evidenziando come nei suoi confronti sia in atto una persecuzione politica mascherata da procedimento giudiziario. «Alla Corte chiedo non solo di considerare i pericoli a cui Yevhen Lavrenchuk sarebbe esposto se estradato, come evidenziato anche dal procuratore generale di Napoli e dalla ministra Cartabia, ma – spiega l’avvocato Tatarano – chiedo anche di valutare il carattere strumentale della richiesta di estradizione da parte della Federazione Russa, perché è una richiesta per fini politici mascherata da richiesta per reati comuni».

Del resto assai generica e fumosa appare l’accusa che l’autorità russa contesta al regista teatrale ucraino: «Frode su larga scala». Un’accusa riferita al periodo tra il 2013 e il 2014 quando Lavrenchuk era direttore del teatro polacco di Mosca. Secondo l’autorità russa, il regista avrebbe usato per scopi personali soldi presi in prestito da uno studente per ristrutturare il teatro. Lavrenchuk, invece, nega fermamente tale accusa e si ritiene vittima di una persecuzione politica per le opinioni espresse sull’occupazione della Crimea. All’udienza di ieri a Napoli il regista era presente. Quando fu scarcerato, il 3 marzo scorso, assicurò infatti che non avrebbe lasciato l’Italia, che sarebbe rimasto ad attendere la decisione dei giudici di Napoli e che intanto avrebbe proseguito l’impegno per il suo Paese. Lavrenchuk ha trascorso due mesi e mezzo da recluso, prima nel carcere di Poggioreale e poi agli arresti domiciliari. Da due settimane è libero. Ora la sua storia si intreccia inevitabilmente con la terribile guerra in Ucraina scatenata da Putin.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Il caso del regista ucraino. Yevhen Lavrenchuck scarcerato dalle “bombe”, l’oppositore di Putin era stato arrestato a Napoli. Viviana Lanza su Il Riformista il 6 Marzo 2022. 

È libero Yevhen Lavrenchuck, il regista ucraino raggiunto, a dicembre scorso, da un ordine di cattura internazionale spiccato dalla Russia che lo vuole condannare per le sue opinioni sul governo del Cremlino. Ci sono volute le bombe su Kiev e sulle altre città dell’Ucraina, c’è voluta la guerra che infuria sui cieli dell’Est e minaccia il mondo intero, per arrivare alla decisione della ministra della Giustizia Marta Cartabia di chiedere la scarcerazione del regista, arrestato il 17 dicembre all’aeroporto di Capodichino, dove aveva fatto scalo il suo volo partito da Israele e diretto in Russia, e agli arresti domiciliari dal 20 gennaio. C’è voluta anche l’interrogazione parlamentare presentata dal deputato di +Europa, Riccardo Magi, alla ministra Cartabia per arrivare alla decisione della ministra di chiedere, il 2 marzo scorso, alla Corte d’appello di Napoli la revoca della misura cautelare in attesa dell’udienza fissata tra un paio di settimane in cui si deciderà sull’estradizione chiesta dall’autorità della Federazione Russa. «Non mi allontanerò, aspetterò la decisione dell’autorità giudiziaria perché rispetto la giustizia italiana», ha fatto sapere Lavrenchuck tramite il suo legale, l’avvocato Alfonso Tatarano.

La scarcerazione di Yevhen Lavrenchuck, da oltre un mese ai domiciliari nell’Avellinese, è stata decisa dalla Corte d’appello di Napoli dinanzi alla quale, a giorni, si discuterà l’udienza per l’estradizione chiesta dall’autorità della Federazione Russa, richiesta che il procuratore generale nell’udienza del 25 febbraio scorso, quindi proprio all’indomani dell’attacco russo scatenato sull’Ucraina, ha chiesto di rigettare sulla base delle considerazioni e della posizione assunte dal governo italiano nella crisi ucraina. Il 2 marzo è poi arrivata dalla ministra Cartabia la richiesta alla Corte d’appello di Napoli di revoca della misura cautelare riconducibile alla domanda di estradizione presentata dalla federazione Russa nei confronti del regista ucraino «in considerazione dei drammatici sviluppi della situazione riguardante l’Ucraina» e del fatto che «gli attuali rapporti tra la Federazione Russa e l’Ucraina inducono a ritenere sussistente e concreto il rischio che, in caso di estradizione, Yevhen Lavrenchuck, che si è dichiarato oppositore politico del presidente russo Putin e ha assunto in passato posizioni di netta critica all’annessione della Crimea da parte della federazione Russa, possa essere sottoposto, in ragione della sua condizione di cittadino ucraino oppositore politico, a trattamenti ai diritti fondamentali della persona, compreso il diritto di difesa», scrive la ministra.

Regista e direttore d’opera di fama internazionale, Lavrencuck fu bloccato a Napoli in aeroporto il 17 dicembre perché a suo carico dalla Russia pendeva un ordine di cattura internazionale. Fumose e generiche le accuse: «Frode su larga scala». Un’accusa per cui il regista rischia una condanna fino a dieci anni di reclusione. Lavrenchuck ha negato il proprio consenso all’estradizione e si è dichiarato vittima di una persecuzione politica per le opinioni espresse sull’occupazione della Crimea. Quale sarà il suo destino? Molto dipenderà dalla decisione della Corte d’appello di Napoli sulla richiesta di estradizione avanzata dalla Russia. L’avvocato Tatarano, che lo assiste, ha spiegato che Lavrenchuck attenderà in Italia l’esito della decisione dei giudici di Napoli, «per rispetto della giustizia italiana», ha spiegato. Il caso del regista ucraino è stato anche al centro di un’interrogazione del deputato Riccardo Magi, il quale ha chiesto chiarimenti su una serie di aspetti anomali che ruotano attorno al caso Lavrenchuck, come la cancellazione dai registri Interpol della richiesta a carico del regista, e su quali dispositivi di protezione attivare per garantire al regista ucraino un eventuale rientro in Ucraina in sicurezza. Interrogazione a cui la ministra ha risposto, chiedendo la scarcerazione del regista.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

Volti, storie (e voci) degli artisti d’Ucraina: «Noi esistiamo, andarcene sarebbe diserzione». Paolo Giordano su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2022.

Maria Kozyrenko: «Mi sento esposta a una doppia minaccia. La prima riguarda tutti: è quella dei bombardamenti. La seconda è di essere uccisa in quanto intellettuale. Sento le bombe, sono di tipi diversi. Non le distinguo. Ma non me ne vado: sarebbe una diserzione». 

C’è un pregiudizio silenzioso che accompagna la nostra apprensione per la guerra. Un pregiudizio che fa molto comodo a Vladimir Putin, del quale infatti era intriso il discorso con cui ha inaugurato l’invasione . L’idea che una cultura ucraina non esista davvero in sé e per sé, che essa sia al massimo un sottoinsieme o una derivazione di quella russa. E se non esiste una cultura ucraina, allora, forse non esiste neppure un vero stato.

La storia di un Paese

Il nostro immaginario sull’Ucraina è povero. Risale a qualche pubblicità infelice con contadine corpulente e foulard avvolti in testa. Poi Chernobyl, fame e arretratezza. Conosciamo i classici russi, almeno per sentito dire, e ce ne vantiamo, ma non gli scrittori ucraini contemporanei (e magari ci vantiamo anche di quello). Eppure il limite è tutto nostro. Non si tratta di bandire stupidamente i classici russi dai nostri corsi universitari, ma di fare uno scatto di maturità nel riconoscere che esiste una cultura specifica dell’Ucraina, che esiste una scena attuale — a Kiev, a Leopoli, a Kharkiv, a Odessa —, che essa è il punto di arrivo di una tradizione antica, e che oggi dialoga strettamente con la nostra. Perché se noi per primi non siamo capaci di emanciparci dal pregiudizio che l’Ucraina sia «un pezzo dell’ex Unione Sovietica», come speriamo che un pensiero di libertà si arrampichi su per i gradi di potere e diventi infine azione?

I nuovi lavori

Alla fiera del libro di Leopoli, nel 2016, ho conosciuto Kateryna Mihalistyna. Prima di lasciarci mi aveva regalato alcuni dei suoi libri per l’infanzia. Adesso mi dice che ha perso l’abilità e la volontà di disegnare. Ma fa tutto quello che serve: annunciare gli orari dei treni alla stazione di Kiev, tradurre in ucraino i foglietti dei farmaci antiemorragici. E aiutare me a radunare in tempo record il maggior numero possibile di scrittori e artisti ucraini che hanno ancora una connessione internet, per parlare con loro, per poter scrivere qui i loro nomi.

La riunione virtuale

Li incontro su Zoom, uno per volta o a gruppi, per un giorno intero. Hanno in comune di essere giovani, ucraini, e di aver passato una notte schifosa. L’ennesima, anche se questa lo è stata in particolare, per via degli scontri attorno alla centrale di Zaporizhzhia . «Mi sono imposto di controllare le news solo tre volte al giorno», dice Ostap Slyvynsky, «perché è diventato un gesto compulsivo. Ma stanotte sono rimasto attaccato fino alle cinque. Dopo che sono crollato, è suonato l’allarme e non mi sono svegliato. Non va bene». Come lui, tutti portano nella voce e in faccia i segni delle ore di sonno perse. Hanno la stessa espressione che si vede, a volte, nelle persone dentro gli ospedali.

Sotto le bombe

Maria Kozyrenko mi parla da casa sua, a una quindicina di chilometri da Kharkiv. Il suo villaggio per ora è stato risparmiato dalle bombe e i russi non ci sono ancora, ma Maria, il marito e il figlio di undici anni passano quasi tutto il tempo nell’unica stanza senza finestre. Non hanno un rifugio vero e proprio. Fuori, Maria sente le esplosioni. «Sono bombe di tipi diversi, ma non so distinguerle, perché non sono un’esperta di armi». No, infatti Maria Kozyrenko è una pittrice e una poeta. È molto nota in Ucraina ma non solo, i suoi quadri sono venduti da gallerie internazionali. Nella sua zona, in particolare, è una figura di riferimento, e anche per questo non se n’è andata. «Sarebbe una diserzione». Ci pensa continuamente però, pensa a mandar via almeno il figlio e i nipoti. «Ma dove?».

I treni sono stipati e sulle strade ci sono code interminabili, code ferme, esposte ai bombardamenti. Maria e il marito escono a fare volontariato fra le macchine, portano cibo, ospitano chi ha freddo. Non so dire se sia sul punto di piangere o se si trovi già in un’altra zona della sofferenza, molto più avanzata, dove tutte le emozioni collassano in stanchezza, attesa, disperazione. Nel gennaio 2020, prima della pandemia e dell’invasione, Maria è stata con la famiglia in Martinica. Lì ha realizzato una serie di quadri, The Islands, per la quale ha ricevuto dei premi. Alcune di quelle tele ora sono ammassate nella stanza dove si trova, le riconosco. Spera, tenendole assieme, di proteggerle meglio dai bombardamenti.

Il museo di Maria Primachenko — basta confrontare i loro lavori per capire che si tratta per lei di una maestra — è stato devastato dai russi pochi giorni fa. Se n’è parlato, ma solo per un attimo. Il flusso di notizie in guerra è troppo veloce per soffermarsi. «Mi sento in una doppia minaccia» mi dice ora Maria Kozyrenko. «La prima è quella dei bombardamenti, che riguardano tutti. La seconda è di essere uccisa in quanto intellettuale».

L’eliminazione di massa

C’è uno spettro che incombe sulla cultura ucraina infatti, su tutti gli artisti, gli scrittori, i pensatori. Porta il nome di «Executed Renaissance». Tra gli anni venti e trenta del Novecento, la quasi totalità degli intellettuali ucraini venne uccisa da Stalin. Una eliminazione di massa, sistematica, mirata a tutti coloro che cercavano di restituire un’identità al Paese.

La fuga e l’impegno

Anche Victoria Amelina mi parla di quella strage. Il 24 febbraio scorso stava rientrando da una vacanza con la famiglia in Egitto. All’aeroporto li hanno informati che il volo non esisteva più. Sono passati dalla Polonia, e Victoria ha lasciato lì il figlio di dieci anni. Poi ha proseguito da sola per Leopoli. «È difficile stare lontano dall’Ucraina adesso. Sembra di fuggire». Victoria Amelina è una poeta, ma in questi giorni non scrive. «C’è sempre qualcosa di più urgente da fare». Per esempio, il direttore del PEN Ukraine è appena riuscito a lasciare Kiev con la famiglia e lei lo sta aspettando, ha preparato una stanza per accoglierli.

In questa nuova vita, Victoria si occupa di coordinamento degli arrivi umanitari e di munizioni. In quella precedente organizzava un festival letterario a New York. No, non a New York City, ma a New York nel Donetsk, una cittadina di appena diecimila abitanti. L’origine del nome è misteriosa: forse la moglie di uno dei fondatori tedeschi veniva dall’America. A ogni modo Stalin russificò il nome in Novgorodske, ma dal 2021 la città ha ripreso la sua identità originaria. Espropriazioni e riappropriazioni continue, così comuni qui, a partire dalla toponomastica, e infatti il festival aveva come titolo True Stories, True Names. «Era un festival sul fronte. A otto chilometri c’era Horlivka, occupata dai russi. Ma suppongo che d’ora in avanti tutti i festival ucraini saranno sul fronte».

Prima e dopo l’attacco

Prima del 24 febbraio l’Ucraina era un fermento di festival. Incontro un gruppo di registe e produttrici — El ena Rubashevska, Tetiana Stanieva, Veronika Kryzhna —, si trovano in luoghi diversi, dentro e fuori dal Paese. Fra loro c’è anche una ragazza di vent’anni, Sofia Tymchyshyn, che lavora per una rassegna cinematografica vicino a Leopoli. Ora è andata a Kiev, per aiutare. «Negli ultimi giorni non c’è più molto da mangiare. Ma ieri abbiamo trovato un pacco davanti alla porta. Prima di andarsene, le persone lasciano il cibo avanzato a chi resta». Sofia è così giovane ed esile che è incredibile immaginarla lì. Le chiedo come pensa che andrà, anche se so che è una domanda stupida. «Sono sicura al cento per cento che il nostro esercito ce la farà, dice. Ma abbiamo bisogno della No Fly Zone. In terra possiamo vincere, in cielo no».

La «No fly Zone»

È il punto in cui precipitano tutte le discussioni di oggi, il loro pensiero fisso: la No Fly Zone . Perché solo la copertura aerea fermerebbe i bombardamenti, le perdite massicce di civili, il tempo trascorso sottoterra, il terrore costante. Ma non la concederemo, lo sanno loro, lo so io. L’Ucraina continuerà a essere bombardata per la nostra paura e per la salvaguardia di noi stessi.

Pronti a combattere

Nemmeno Ostap Slyvynsky sta considerando la possibilità di andarsene da Leopoli. «Al contrario, sto considerando quella di unirmi alle forze di difesa territoriali». Ostap è un poeta e non ha esperienza militare. Nel 2014, dopo l’invasione della Crimea, ha ricevuto la lettera di convocazione nell’esercito, come riserva. «Mi ricordo che psicologicamente ero pronto. Camminavo per le strade e mi congedavo da tutto».

Alla fine non l’hanno chiamato a combattere. «Ma potrebbe succedere fra due o tre giorni». Aspetta la lettera e nel frattempo, come molti, si occupa di logistica, soprattutto di aiutare le persone che vogliono lasciare il Paese. «Nessuno le giudica per questo, mi dice. A meno che non siano uomini fra i diciotto e i sessant’anni». «La letteratura qui ha sempre sopperito a una mancanza di stato. Abbiamo la tradizione di considerare gli scrittori e i poeti delle istituzioni. Non solo morali, anche pedagogiche. I polacchi lo chiamano useful romanticism. Durante la Rivoluzione della Dignità, nel 2014, eravamo continuamente a leggere, a organizzare, a dibattere». Si andava anche al fronte, a recitare le poesie ai soldati, che spesso piangevano. «Ma ora è diverso. Ci sono i carri armati, e c’è una leadership politica».

Le case occupate

A casa di Ostap sono accampati giornalisti e fotografi di Kiev e Dnipro. A casa di ognuno, in questo momento, c’è qualcun altro, soprattutto sfollati da est. Gli chiedo della fantasmatica divisione dell’Ucraina in due: quella ovest più europea, quella est più russa. Una delle cose che si dicono. «Smettiamo di parlare di due Ucraine. C’è una sola Ucraina, ed è unita e solidale. Quella divisione è parte della propaganda russa».

La propaganda russa

E la propaganda russa è l’argomento che viene fuori più volte in queste conversazioni, dopo la No Fly Zone. La propaganda che sembra aver preparato questa invasione, dentro e attorno, da molto tempo, e che sconfessa in parte l’ipotesi più comoda dell’iniziativa di un pazzo. «È un errore dire che la guerra è iniziata il 24 febbraio. La guerra è iniziata nel 2014, con l’invasione della Crimea. E in tutto questo non c’è nulla di nuovo. Solo la brutalità e la scala sono nuove». Nei manifesti di propaganda dell’Unione Sovietica, si ricorda Ostap, Russia, Ucraina e Bielorussia erano tre fratelli, messi in fila dal più vecchio al più giovane, dal più grande al più piccolo. «Solo adesso in Europa capiscono la fretta di paesi come Polonia e Slovacchia di entrare nella Nato. Noi stiamo pagando il prezzo di una fantasia di neutralità. Ma l’Europa è l’unica scelta per l’Ucraina. E viceversa».

Guerra e pace

Nel frattempo, qui da noi, le varie forme di relativizzazione si vanno chiarendo. Leader politici di destra e filosofi di sinistra si trovano curiosamente alleati nel trattare questo conflitto come se fosse simmetrico, nel rifiuto delle armi e nell’invocazione di una generica pace. Sembrerebbe un eccesso di ingenuità da parte loro, se non fosse che «pace» qui ha un significato preciso: vuol dire resa, sottomissione, scomparsa dell’Ucraina o, come dice Ostap, «assimilazione totale».

I social network

Halyna Kruk ha guardato i social di molti colleghi scrittori e poeti all’estero, anche italiani, ed è rimasta turbata. «Diffondono aspetti di propaganda russa». Nel 2014 una sua poesia è stata recitata al Parlamento europeo e oggi suona come un’accusa ancora più grave: Perdonali, Europa, e non essere sorpresa. / Noi siamo come animali qui, / Siamo cacciati dalle pallottole come lupi rabbiosi. Il marito di Halyna è un fisico e un avvocato, ma al momento combatte in una postazione imprecisata, non è concesso neanche a lei sapere dove. Halyna insegna Letteratura ucraina medievale e nemmeno per lei ci sono molte novità sul fronte propaganda: «La Russia prova da sempre a negare l’esistenza di una lingua ucraina, di uno stato ucraino, di una cultura ucraina».

Sottomissione culturale

Le tre forme di sottomissione si muovono in parallelo, si alimentano a vicenda. «Prima del 2014 quasi tutto il contenuto culturale era in russo», mi dice Marjana Savka. Per questo ha fondato, insieme al marito, la casa editrice The Old Lion, una delle prime a pubblicare solo in ucraino. Sono partiti con i libri per bambini, ora traducono ed esportano ogni genere di letteratura, hanno più di cento dipendenti. «L’imperialismo culturale russo è ovunque, mi dice. Era visibile anche alla fiera dei libri di Bologna, dove lo stand russo aveva questa insegna altissima, che sovrastava le altre». L’ufficio della Old Lion, oggi, è un centro di smistamento di medicinali. Anche Marjana è una poeta. E anche lei compare nell’antologia Words for War dell’Academic Studies Press, insieme a Lyubov Yakimchuck, a Kateryna Kalytko, a Marianna Kiyanovska. Le loro poesie sono su internet, tradotte in inglese, si possono leggere. E così i racconti di Andrey Kurkov, di Serhiy Zhadan e Sophia Andrukhovych, nel libro The White Chalk of Days.

Una lista da ricordare

Questi sono i nomi. Non tutti i nomi ovviamente. Ma quanti bastano perché nessuno, d’ora in avanti, possa dire di non conoscere gli artisti ucraini. Seguiteli su Facebook, su Instagram, su Twitter. Condividete i loro profili e i loro scritti. Fateli esistere.

CREATIVITÀ È LIBERTÀ. Il compito dell’arte è dare forma a quello che noi non sappiamo esprimere. STEFANO FELTRI E DEMETRIO PAPARONI su Il Domani il 05 marzo 2022

Artisti russi e ucraini si sono ritirati dalla Biennale, di fronte alle bombe preferiscono il silenzio. Altri hanno condensato in una immagine la loro risposta all’orrore. In questo numero speciale di Domani, le opere di artisti russi e internazionali che hanno scelto di non tacere

Domani ha preso subito una posizione chiara su quello che succede in Ucraina: quella di Vladimir Putin è un’aggressione criminale senza alibi, ma la risposta non può essere abbracciare la sua logica di violenza, nazionalismo e rinuncia agli ideali di convivenza civile che la violenza mette in crisi. Compito dei giornali è difendere la libertà di pensiero critico, vera garanzia contro ogni degenerazione.

E se c’è un ambito in cui la libertà si esprime nel suo grado più alto questo coincide con la creatività artistica. L’arte visiva ha un vantaggio rispetto alle altre espressioni della creatività: è immediata ma continua ad agire dentro di noi. Questo non avviene solamente con l’arte figurativa, che ha vita facile nell’utilizzare i simboli, accade anche con l’arte astratta, priva di immagini riconoscibili. L’arte non tace mai, non riuscirebbe a tacere neanche se tacere fosse l’intenzione del suo autore.

Questo non significa che all’artista sia dato obbligo di esprimere giudizi o di commentare quel che accade attorno a lui. Né implica che l’arte vada giudicata in relazione alle convinzioni politiche dell’autore. Arturo Schwarz, ebreo che ha conosciuto il carcere per le sue idee politiche, antifascista e anarchico, nel dopoguerra ha esposto le opere di Mario Sironi, artista organico al fascismo, nella sua galleria di via del Gesù, a Milano. Questo non impediva a Schwarz di affermare che i dipinti di Sironi erano ben graditi nella sua galleria quanto l’uomo era sgradito. 

PARLARE O TACERE 

Se tacere corrisponde a una scelta dell’artista, tale scelta va rispettata. Se il tacere è invece legato a una paura di una ritorsione o di una repressione le considerazioni sono ben altre. Abbiamo rivolto il nostro invito a esprimere la loro opinione su quello che sta succedendo in Ucraina anche ad artisti russi. Andrei Molodkin, che dal 1985 al 1987 ha prestato servizio militare nell’esercito sovietico in Siberia e che nel 2009 ha rappresentato la Russia alla Biennale di Venezia, non ha esitato a mandare un’immagine in cui il nome di Vladimir Putin, grondante sangue, sembra scritto su una lapide.

Anche Oleg Kulik ha inviato sùbito la sua immagine. Due prese di posizione nette. «Voglio che sia chiaro che Putin è un criminale sanguinario», ci dice Molodkin. Eppure, c’è qualcosa che distingue la condizione dei due artisti: il primo si è trasferito in Francia, e da lì esprime il suo dissenso. Il secondo, nato in Ucraina, vive a Mosca.

Se Molodkin vivesse a Mosca l’immagine che stiamo pubblicando lo metterebbe a rischio. «Non posso tacere», dice. Come non tace l’immagine di Kulik, il quale sa a cosa potrebbe andare incontro a causa del lavoro che ci ha dato da pubblicare. Altri artisti russi hanno preferito non esprimersi, perché basta loro poco per essere accusati di tradimento.

ARTISTI UNITI PER DOMANI

Questo numero speciale di Domani testimonia la volontà degli artisti di sottrarsi al silenzio. Alcuni che hanno preferito declinare l’invito poiché ritengono che ci sono responsabilità da entrambe le parti in conflitto. Da parte nostra non avremmo avuto difficoltà ad accogliere opinioni dissonanti: la guerra combattuta sul campo con troppa facilità diventa scontro di civiltà e culture, ogni russo viene scambiato per un nemico, a prescindere che sia esule, vittima di Putin o suo complice.

Sulla guerra in Ucraina il mondo dell’arte si è trovato a dover prendere posizione. Lo hanno fatto per primi gli artisti e i curatori che dovrebbero, o avrebbero dovuto, rappresentare l’Ucraina e la Russia alla Biennale di Venezia.

L’artista ucraino Pavlo Makov e i curatori Lizaveta German, Maria Lanko e Borys Filonenko hanno dovuto sospendere il lavoro per la partecipazione alla mostra di Venezia a causa della guerra che mette in pericolo le loro vite.

Gli artisti russi Alexandra Sukhareva, Kirill Savchenkov e il curatore Raimundas Malašauskas hanno deciso di rinunciare alla loro partecipazione per manifestare il loro dissenso nei confronti dell’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito russo. Sulla pagina Instagram di Kirill Savchenkov si legge: «Non c’è posto per l’arte quando i civili muoiono sotto le bombe, quando la popolazione ucraina si nasconde nei rifugi, quando i dissenzienti russi sono ridotti al silenzio. Come russo non presenterò il mio lavoro al padiglione della Russia alla Biennale di Venezia».

Pur trovando coraggiosa la scelta degli artisti russi e del curatore, crediamo e speriamo che ci sia sempre posto per l’arte. Anche nei momenti di paura e di angoscia l’arte trova il modo di emergere per dare una forma a quello che molti di noi non riescono a esprimere. STEFANO FELTRI E DEMETRIO PAPARONI