Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

GLI AMERICANI

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

L’ACCOGLIENZA

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI EUROPEI

I Muri.

Quei razzisti come gli italiani.

Quei razzisti come i tedeschi.

Quei razzisti come gli austriaci.

Quei razzisti come i danesi.

Quei razzisti come i norvegesi.

Quei razzisti come gli svedesi.

Quei razzisti come i finlandesi.

Quei razzisti come i belgi.

Quei razzisti come i francesi.

Quei razzisti come gli spagnoli.

Quei razzisti come gli olandesi.

Quei razzisti come gli inglesi.

Quei razzisti come i cechi.

Quei razzisti come gli ungheresi.

Quei razzisti come i rumeni.

Quei razzisti come i maltesi.

Quei razzisti come i greci.

Quei razzisti come i serbi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AFRO-ASIATICI

 

Quei razzisti come i marocchini.

Quei razzisti come i libici.

Quei razzisti come i congolesi.

Quei razzisti come gli ugandesi.

Quei razzisti come i nigeriani.

Quei razzisti come i ruandesi.

Quei razzisti come gli egiziani.

Quei razzisti come gli israeliani.

Quei razzisti come i libanesi.

Quei razzisti come i sudafricani.

Quei razzisti come i turchi.

Quei razzisti come gli arabi sauditi. 

Quei razzisti come i qatarioti.

Quei razzisti come gli iraniani.

Quei razzisti come gli iracheni.

Quei razzisti come gli afghani.

Quei razzisti come gli indiani.

Quei razzisti come i singalesi.

Quei razzisti come i birmani.

Quei razzisti come i kazaki.

Quei razzisti come i russi.

Quei razzisti come i cinesi.

Quei razzisti come i nord coreani.

Quei razzisti come i sud coreani.

Quei razzisti come i filippini.

Quei razzisti come i giapponesi.

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

GLI AMERICANI

 

Quei razzisti come gli statunitensi.

Kennedy: Le Morti Democratiche.

Quei razzisti come i canadesi.

Quei razzisti come i messicani.

Quei razzisti come i peruviani.

Quei razzisti come gli haitiani.

Quei razzisti come i cubani.

Quei razzisti come i cileni.

Quei razzisti come i venezuelani.

Quei razzisti come i colombiani.

Quei razzisti come i brasiliani.

Quei razzisti come gli argentini.

Quei razzisti come gli australiani.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Fredda.

La Variante Russo-Cinese-Statunitense.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA BATTAGLIA DEGLI IMPERI.

I LADRI DI NAZIONI.

CRIMINI CONTRO L’UMANITA’.

I SIMBOLI.

LE PROFEZIE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. PRIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SECONDO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. TERZO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUARTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. QUINTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SESTO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. SETTIMO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. OTTAVO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. NONO MESE.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’ATTACCO. DECIMO MESE.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE MOTIVAZIONI.

NAZISTA…A CHI?

IL DONBASS DELI ALTRI.

L’OCCIDENTE MOLLICCIO E DEPRAVATO.

TUTTE LE COLPE DI…

LE TRATTATIVE.

ALTRO CHE FRATELLI. I SOLITI COGLIONI RAZZISTI.

LA RUSSIFICAZIONE.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

ESERCITI, MERCENARI E VOLONTARI.

IL FREDDO ED IL PANTANO.

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LE VITTIME.

I PATRIOTI.

LE DONNE.

LE FEMMINISTE.

GLI OMOSESSUALI ED I TRANS.

LE SPIE.

 

INDICE OTTAVA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA GUERRA DELLE MATERIE PRIME.

LA GUERRA DELLE ARMI CHIMICHE E BIOLOGICHE.

LA GUERRA ENERGETICA.

LA GUERRA DEL LUSSO.

LA GUERRA FINANZIARIA.

LA GUERRA CIBERNETICA.

LE ARMI.

 

INDICE NONA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA DETERRENZA NUCLEARE.

DICHIARAZIONI DI STATO.

LE REAZIONI.

MINACCE ALL’ITALIA.

 

INDICE DECIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

IL COSTO.

L’ECONOMIA DI GUERRA. LA ZAPPA SUI PIEDI.

PSICOSI E SPECULAZIONI.

I CORRIDOI UMANITARI.

I PROFUGHI.

 

INDICE UNDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

I PACIFISTI.

I GUERRAFONDAI.

RESA O CARNEFICINA? 

LO SPORT.

LA MODA.

L’ARTE.

 

INDICE DODICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

PATRIA MOLDAVIA.

PATRIA BIELORUSSIA.

PATRIA GEORGIA.

PATRIA UCRAINA.

VOLODYMYR ZELENSKY.

 

INDICE TREDICESIMA PARTE

 

La Guerra Calda.

L’ODIO.

I FIGLI DI PUTIN.

 

INDICE QUATTORDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

L’INFORMAZIONE.

TALK SHOW: LA DISTRAZIONE DI MASSA. 

 

INDICE QUINDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

LA PROPAGANDA.

LA CENSURA.

LE FAKE NEWS.

 

INDICE SEDICESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CRISTIANI CONTRO CRISTIANI.

LA RUSSOFOBIA.

LA PATRIA RUSSIA.

IL NAZIONALISMO.

GLI OLIGARCHI.

LE GUERRE RUSSE.

 

INDICE DICIASSETTESIMA PARTE

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Guerra Calda.

CHI E’ PUTIN.

 

INDICE DICIOTTESIMA PARTE

 

SOLITI PROFUGHI E FOIBE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…le Foibe.

Lo sterminio comunista degli Ucraini.

L’Olocausto.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Affari dei Buonisti.

Quelli che…Porti Aperti.

Quelli che…Porti Chiusi.

Il Caso dei Marò.

Che succede in Africa?

Che succede in Libia?

Che succede in Tunisia?

Cosa succede in Siria?

 

 

 

L’ACCOGLIENZA

PRIMA PARTE

GLI AMERICANI

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quei razzisti come gli statunitensi.

Libertà vigilata per Anna Sorkin. "Ho imparato tanto quando ero in prigione…" Una svolta al caso della truffatrice di New York. Anna Sorkin è ora in libertà vigilata e pensa a un podcadst e un libro sulla sua esperienza in galera. Carlo Lanna il 13 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Di professione era una party girl e una donna influente che si muoveva con agilità all’interno della borghesia di New York. In realtà Anna Sorkin non era proprio nessuno. Ha truffato tutti lì nella Grande Mela e, una volta finita in prigione, il suo caso è rimbalzato sul web come una scheggia impazzita. Tanto è vero che nel 2021, proprio sulla vicenda di Anna Sorkin, Shonda Rhimes ha costruito e realizzato una serie per Netflix (ispirata a un articolo di giornale) che è diventata un successo di pubblico. Inventing Anna, questo il titolo dello show, ha raccontato nei minimi dettagli l’ascesa e la discesa della Sorkin – da tutti conosciuta come Anna Delvey -. Un fatto di cronaca è diventa una fiction, ma le vicende giudiziarie non si sono ancora concluse per l’ex truffatrice.

"Inventing Anna", la serie Netflix su una geniale truffatrice 

Come ha riportato il New York Times in un articolo pubblicato a inizio di ottobre, Anna Sorkin è uscita di prigione ma è in libertà vigilata. Il giudice per l’immigrazione Charles Conroy ne ha autorizzato il rilascio (agli arresti domiciliari) in quanto la validità del suo visto negli Usa è scaduta, e deve quindi essere rimpatriata in Germania. Nell’intervista al magazine americano si è lasciata andare ad alcune rivelazioni sia sulla condanna che sulla vita in prigione. Ad oggi non ha ancora pagato i 275 milioni di debiti ma crede che per lei sia giunto il momento di un nuovo inizio. "Sono entusiasta di uscire e di potersi concentrare sull’appello contro la mia ingiusta condanna – esordisce -. È impossibile dimenticare senza cambiare ciò che ho vissuto dietro le sbarre. Ho imparato davvero tanto. In prigione ho provato a vedere la mia esperienza come qualcosa su cui migliorare – aggiunge -. La persona che sono oggi deriva dalle decisioni che ho preso in passato". E tra le righe si continua a professare innocente, nonostante le prove a suo carico. Nelle rivelazioni, poi, ammette che è pronta a dare una svolta alla sua vita.

Inventing Anna è la nuova serie politicamente corretta

"Sto lavorando su tanti progetti. L’arte è uno di questi. Ad esempio, sto lavorando sul mio podcast con tanti ospiti in ogni episodio – afferma -. È stato difficile registrare in cella. E poi c’è il mio libro. Vorrei scrivere qualcosa in merito alla riforma della giustizia criminale per far capire quanto può essere difficile la galera per noi donne. Rincorrere la celebrità? Ora è l’ultimo dei miei pensieri, specialmente ora che sono a casa senza accesso ai social". Ma non è tutto. La Sorkin è convinta che tutti questi buoni propositi aiuteranno a non "ripetere gli errori del passato".

Chiamate il terrore col suo nome. Fiamma Nirenstein su Il Giornale l'11 settembre 2022.

Molto è cambiato da quel giorno di orrore in cui attoniti, precisamente 21 anni fa, e sembra ieri, guardammo alla tv morire tremila persone a New York City, Washington DC e a Shanksville, Pennsylvania. Fu l'11/9. Ma ancora siamo preda dell'incubo terrorista e della sua astutissima costruzione teoretica, inchiodati davanti agli schermi tv a seguirne le gesta in tutto il mondo, con qualsiasi sigla si presenti; siamo avviluppati con le sedi di decisione internazionale, specie l'Onu, le Corti internazionali, le Ong e i suoi derivati, nell'adottare una concettualizzazione dubitosa e timida della parola stessa «terrorismo» e dei suoi feroci perpetratori, preferendo spesso immaginare squilibrati e disadattati miserevoli, per timore che siano alla fine «combattenti delle libertà». Questo ha anche indotto il giudiziario alla cautela estrema per timore di ferire la libertà religiosa ed epitome della vicenda, dopo tanti anni di combattimento, ha spinto l'America l'anno scorso a fuggire nella vergogna dall'Afghanistan, nido in cui Bin Laden aveva trovato rifugio e conforto. Si è ripetuta la storia irachena che ha generato l'Isis; dopo che tante vite di soldati americani vi erano state perdute.

Al Qaida però e l'Isis non somigliano a ciò che erano. Bin Laden è morto, e anche tutti gli altri capi delle due organizzazioni non esistono più. Ma esistono un numero pari a quattro volte i gruppi salafisti-jihadisti che esistevano 21 anni fa. Al Qaida è molto cresciuta in Africa, si è installata e poi rarefatta in Siria, è presente in molte province afghane e il suo rapporto coi talebani risulta fiorente. Nel frattempo è vivo anche lo Stato Islamico, per abbattere il quale (e non definitivamente) ci sono voluti cinque anni e una coalizione di 83 Paesi. L'Isis ha agito con grossi attacchi in tante città importanti, Parigi, Bruxelles, Nizza, New York. Al Qaida si è rifatta viva con il volo Egitto Russia (29 vittime). Ma l'Isis è stata nel 2021 il gruppo terrorista più letale, con gli attacchi nel Niger.

Oggi la vera epidemia è nelle zone di conflitto; lo sforzo dei Paesi Occidentali dall'11/9 ha fatto diminuire gli attacchi dell'82%. E tuttavia, la pulsione terrorista è sempre micidiale e anche la guerra in Ucraina influenzerà probabilmente la crescita del terrore in Europa, mentre il cyberterrore russo avanza, dice il «Global Terrorism Index» del 2022.

Chi scrive ha visto morire a marzo, aprile e maggio nelle città israeliane per mano terrorista di Hamas, della Jihad Islamica e di appartenenti ad al Fatah, giovani genitori, donne ai caffè, ragazzini che passeggiavano. Ciò che alimenta il terrore è la incessante ripetizione propagandistica di slogan che sporcano dalla più tenera infanzia le scuole e i mezzi di comunicazione talebani, o iraniani, o palestinesi, che incitano all'odio e alla violenza contro immaginari aggressori della vera fede, la loro.

La guerra contro il terrorismo può avvenire solo con una autentica rivoluzione culturale e di deterrenza che superi le pure ottime forme di organizzazione e l'alleanza internazionale. Occorre una cultura che sappia con fermezza chiamare il terrorismo col suo nome, che fermi chi lo alimenta sotto mentite spoglie (sono miliardi quelli che finiscono nelle casse terroriste sotto forma di aiuti a organizzazioni umanitarie) e controlli l'uso mortale dei social media.

Alberto Simoni per “La Stampa” il 12 settembre 2022.

Lui non si affibbierebbe mai l'etichetta, ma per gli americani Mark Lewis è "un eroe" dell'11 settembre. Di quelli silenziosi, trovatosi in una mattina di sole di 21 anni fa a raccogliere le vite degli altri, travolte, tramortite e recise nell'attacco al Pentagono da parte di Al Qaeda.  

Quando ieri, parlando alla cerimonia al Pentagono, il segretario della Difesa Lloyd Austin ha citato i colleghi che hanno portato sulle spalle gli altri, che si sono sostenuti in quel giorno, pensava anche a Lewis. E sugli eroi che «hanno protetto l'America» ha puntato pure Biden sottolineando che «continueremo a difendere gli Usa dal terrorismo» e che quel giorno se «ha cambiato la Storia Usa», non ne ha però alterato il carattere. 

Veterano della 82esima divisione aviotrasportata, missioni a Granada e in altre zone di crisi, grado di colonnello nel 2001, Mark Lewis siede a capotavola di un tavolo di legno nel suo ufficio nell'E-Ring del Pentagono. Per arrivare nella zona più esclusiva del palazzo-fortezza, si cammina quasi dieci minuti. Sempre scortati.

In quest' angolo dell'edificio ci sono gli uffici della leadership della super potenza. Da qui, la mattina dell'11 settembre del 2001, l'allora segretario della Difesa, Donald Rumsfeld se ne uscì impolverato, gli occhiali storti sul naso e si mise nel piazzale antistante a muovere soccorsi e aiutare i feriti. 

Ma prima di lui, lungo i corridoi del secondo piano della facciata occidentale nel cuneo 5, Mark Lewis aveva trasformato l'istinto alla sopravvivenza del soldato in una spinta irrefrenabile all'aiuto degli altri. Ricorda due cose di quel giorno. «Sono freschi nella mia mente il fumo e il fuoco». Il racconto del colonnello tornato al Pentagono con un incarico nella catena di comando civile, però si ferma dopo pochi minuti.

Serve la scenografia, serve vedere, immaginare quel che fu. «Dove siamo seduti io e lei si conficcò il corpaccione del volo 77». Lewis si alza e si accosta alla finestra, l'aereo passò sopra una collinetta e si buttò dentro il Pentagono. «Sono appena cinque piani, colpirlo così... » sospira lasciando capire quanto quei kamikaze fossero preparati per la missione. Quel giorno Lewis aveva una riunione con il generale Maude, il più alto ufficiale in grado morto l'11 settembre. 

Era lui ad occupare l'ufficio dove oggi c'è quello dell'ex colonnello, quello di Lewis distava qualche decina di metri. Mentre camminava nel corridoio verso l'appuntamento, arrivò il botto poi il buio e il fuoco.«C'era puzza di cherosene, fiamme e fumo ovunque. Un silenzio spettrale, le porte antincendio si erano chiuse come da procedura». Una trappola per chi era dentro. «L'unico riferimento era il pavimento, si poteva toccare, sentire», ricorda Lewis. 

Andò a ritroso, recuperò le persone negli uffici, la t-shirt sulla bocca per non inalare fumo. Per aggirare le porte sbarrate, Lewis condusse alla cieca i superstiti, feriti e terrorizzati, lungo un corridoio che portava a una piccola porticina sconosciuta ai più. È diventata la porta per la salvezza. L'aereo si schiantò alle 9,37; 40 minuti dopo Lewis era sul prato del Pentagono fra il frastuono delle sirene, il via vai dei soccorritori.

L'angoscia però era per chi era rimasto indietro. «Quanti? E Chi? Quale ufficio è vuoto». Prese - e con lui altri - ogni telefono possibile, compose ogni numero per rintracciare dispersi. All'appello non tutti risposero. Durò fino alle due di notte questo straziante rito. Allora Lewis tornò a casa: 125 persone al Pentagono erano morte, 184 in totale contando quelle sull'aereo proiettile. 

Inutile chiedere se dormì, l'America si era già messa in modalità guerra, le unità operative dovevano avviarsi. «E così si fece, bisogna andare avanti». Per cinque mesi fu così, avanti a far girare la macchina già protesa sull'Afghanistan.  

Gli occhi di Lewis diventano lucidi. «Accadde a San Francisco, in hotel, qualche mese dopo. La famiglia a fare shopping, io in camera a guardare la Cnn. Un lungo servizio sugli attentati del 11 settembre». E lì lo strazio, il dolore, la presa di coscienza di quel che era successo scoppiarono fragorosi. Il ricordo degli amici. 

Lewis cammina lungo il corridoio dell'E-Ring. Fuori dal suo nuovo ufficio c'è una mappa del piano e vi è disegnata la traiettoria dell'aereo. A fianco le foto delle vittime di quella sezione. Lewis li conosce quasi tutti: la soldatessa che doveva sposarsi a giorni; l'amico generale e Max Beilke, fu l'ultimo soldato a lasciare il Vietnam. «Great and honest men», brave persone. Qualcuno anche un eroe americano. 

Il particolare 11 settembre a un anno dal ritorno dei talebani a Kabul. Mauro Indelicato l'11 settembre 2022 su Inside Over.

Oggi a Manhattan suona di nuovo quella campana che ricorda i minuti in cui, oramai 21 anni fa, si è consumata la tragedia dell’11 settembre. Un suono riprodotto lì dove oggi sorge il memoriale dedicato alle vittime della strage del 2001, a pochi passi da dove sorgevano le Torri Gemelle. Vengono letti i nomi di tutti coloro che qui hanno perso la vita, un elenco di quasi tremila persone cadute mentre erano a lavoro oppure perché ritrovatesi nel posto sbagliato e nel momento sbagliato.

Quest’anno la commemorazione ha un sapore diverso. Nel 2021 a pesare maggiormente sul cerimoniale è stato il raggiungimento del ventennale dalla strage. Adesso invece pesa il fatto che mentre oltreoceano si commemorano le vittime, lì da dove è partito l’ordine dell’attacco terroristico la situazione è tornata uguale a com’era l’11 settembre 2001. A Kabul, bersagliata il mese successivo l’attentato per via della presenza dei talebani accusati di dare ospitalità a Bin Laden, gli studenti coranici sono di nuovo al potere. E nel centro della capitale afghana appena un mese fa è stato ucciso il braccio destro di Bin Laden, ossia quell’Ayman Al Zawayri ritenuto tra gli ideatori dell’11 settembre.

I minuti che hanno cambiato gli Stati Uniti

Una chiamata per una fuga di gas in una strada del quartiere sud di Manhattan, in un normale martedì mattina. Poi il rumore di un aereo, lo sguardo che istintivamente si alza verso il cielo e quindi il boato. Sono le ore 8:46 dell’11 settembre 2001, la scena è ripresa da un cameraman che segue una squadra dei Vigili del Fuoco. E si vede per l’appunto un pompiere che abbandona le sue attività per girarsi verso il luogo dell’esplosione. L’immagine diventa una delle più iconiche della giornata. Segna il passaggio dalla normale quotidianità di New York e degli Stati Uniti a uno dei momenti più tragici della storia recente. Il boato è prodotto dallo schianto di un aereo su una delle due torri gemelle di Manhattan. Sembra un incidente, uno dei più clamorosi. E subito la Cnn e gli altri network portano sul posto altri cameraman e degli elicotteri per riprendere la scena dall’alto.

A questo punto i riflettori sono tutti puntati sulle torri gemelle. E alle 9:01 l’arrivo di un altro aereo sull’altra delle due torri gemelle è ripreso in diretta. Appare chiaro ormai che non si tratta di un incidente, ma di un’azione terroristica. Non solo gli Usa, ma tutto il mondo guarda verso New York.

Il presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, in quel momento si trova a Sarasota, in Florida. Sta parlando in una scuola, quando il consigliere Andy Card lo avvicina per sussurrargli qualcosa all’orecchio. Anche questa scena è ripresa dalle telecamere e diventa anch’essa emblema della giornata. Ore che ancora non sono finite, perché alle 9:37 c’è un terzo aereo a cadere. Non a New York, bensì davanti il Pentagono a Washington, sede della Difesa Usa. Il Paese è sotto attacco e scattano tutte le misure di emergenza, sia a livello locale che federale. Lo spazio aereo viene chiuso, tutti i soccorsi vengono puntati sulle due città colpite e nella capitale tutti gli uffici più importanti vengono evacuati.

C’è poi un altro velivolo che cade, anche se in campagna. A Shanksville, in Pennsylvania, altre persone muoiono in quello che, pochi giorni dopo, risulta essere un altro dei mezzi dirottati per portare a termine l’azione terroristica. Il terrore quindi passa dai cieli. Il primo aereo a schiantarsi sulle torri gemelle è il volo Boston-Los Angeles dell’American Airlines, il secondo aereo invece serve la stessa rotta ma per la United Airlines. L’aereo che si schianta sul Pentagono è invece decollato da Washington con destinazione California ed è dell’American Airlines. Il quarto aereo, questa volta della United Airlines, è partito da Newark e secondo le indagini non riesce a raggiungere uno degli obiettivi prefissati dai dirottatori per via di una ribellione interna dei passeggeri.

Il terrore però non si esaurisce con lo schianto degli aerei. Alle 9:59 crolla infatti la torre sud delle torri gemelle, la seconda ad essere stata colpita in precedenza. Alle 10:28 cede la torre nord. Le “twin towers” di Manhattan non ci sono più e, con esse, vengono trascinate giù verso la morte migliaia di persone in quel momento intrappolate. Il bilancio ufficiale parla ancora oggi di dispersi: a distanza di 21 anni ci sono 24 cittadini di cui non si sa più nulla. Sono 2.996 le vittime ufficiali, compresi i 19 dirottatori kamikaze.

L’avvio della “guerra al terrore”

Le conseguenze politiche di quell’attentato non si fanno attendere. Il dito viene subito puntato contro Al Qaeda, il gruppo terroristico fondato da Osama Bin Laden già protagonista negli anni precedenti di altri attacchi islamisti contro obiettivi Usa, pur se all’estero. La formazione jihadista ha la propria base in Afghanistan. Qui governano i talebani dal 1996, anche se per la verità Bin Laden è nel Paese da prima dell’avvento a Kabul degli studenti coranici. I talebani predicano un’ideologia estremista, un’interpretazione radicale della visione islamica. Le donne devono girare con il burqa e non vanno a scuola, i maschi devono portare la barba lunga. Hanno già isolato l’Afghanistan da quasi tutto il resto del mondo, ma ad ogni modo soldi e sostegno al gruppo non mancano. Dal Pakistan in primis, in passato dagli stessi Usa quando i gruppi islamisti servono negli anni ’80 ad ostacolare la presenza sovietica nel Paese.

Dopo l’11 settembre i talebani diventano il principale bersaglio di Washington. Sono accusati di dare ospitalità a Bin Laden. E il 7 ottobre, dopo aver incassato il sostegno di Islamabad, Bush fa partire le operazioni militari volte a spodestare gli studenti coranici. Gli Stati Uniti bombardano Kabul, Jalalabad, Kandahar e le principali città afghane. Spianano così la strada all’Alleanza del Nord, l’opposizione ai talebani. I miliziani avanzano e nel giro di poche settimane entrano a Kabul ponendo fine all’emirato.

Secondo Bush questo è solo il primo atto della cosiddetta “guerra al terrore”. Una dottrina però che negli anni è destinata a mostrare ampie lacune. In Afghanistan si pensa a insediare un nuovo Stato e a organizzare, nel giro di pochi anni, delle elezioni. Due anni dopo l’11 settembre la guerra al terrore è combattuta contro l’Iraq di Saddam Hussein. Deposto quest’ultimo, in medio oriente si apre un vaso di pandora che in realtà fa uscire fuori una miriade di gruppi terroristici che nel decennio successivo sconvolgo l’intero medio oriente. Nello stesso Afghanistan la situazione è tutt’altro che rosea: viene inviata una missione Nato, a cui partecipa l’Italia, per dare manforte alle nuove istituzioni di Kabul. Soldi, vite umane perse, soldati caduti, un bilancio cruento che però serve a poco se non addirittura a nulla.

Afghanistan, un anno dopo

Mentre infatti a New York si commemorano le vittime dell’11 settembre 2001, a Kabul i padroni di oggi sono quelli di allora. I talebani il 15 agosto 2021 riconquistano la capitale afghana e ridanno vita all’emirato. Ritornano i burqa, ritornano le barbe, ritornano i divieti e ritornano le scuole precluse alle donne. Possibile che da quell’11 settembre non è cambiato nulla? Una domanda a cui rispondere è difficile. Solo stando nel nuovo-vecchio Afghanistan si può realmente trovare risposta. Il quesito è di quelli in grado di scuotere dalle fondamenta le dottrine occidentali delle ultime due decadi: per davvero l’11 settembre è una data destinata a rimanere unicamente nel novero degli annali e delle cerimonie di commemorazione, ma senza lasciare tracce evidenti nella storia nonostante quanto accaduto dopo le tremila vittime di quella giornata?

 A 20 anni dall'11 settembre confermata la profezia della Fallaci. Riccardo Mazzoni Libero Quotidiano il 11 settembre 2021

Il ventesimo anniversario delle Torri Gemelle si incrocia col quindicesimo della morte di Oriana Fallaci, che cade il 15 settembre, e le due date sono legate a filo doppio, perché fu dopo l’attentato di New York che la più grande scrittrice italiana smise di curare il suo cancro – l’Alieno - per dedicarsi, anima e corpo, a contrastare quello cosmico del fondamentalismo islamico. Dopo la sua morte Franco Zeffirelli scrisse: «Noi non potremo né dovremo seppellirti nell’oblio, cara Oriana, perché tu avevi visto prima il pericolo che ci sovrastava e l’avevi urlato con tutta la tua forza a un mondo di sordi, di ciechi, di vigliacchi».

Oggi che l’Afghanistan è di nuovo in mano ai talebani, col rischio di ridiventare un santuario del terrorismo, il messaggio della Fallaci riacquista una terribile attualità. Già, perché anche solo ipotizzare un abbozzo di dialogo con un premier iscritto nella lista Onu dei terroristi più pericolosi e col ministro dell’Interno ricercato dall’Fbi, pare più un sogno da anime belle che un trattato di Realpolitik. Per Oriana, l’Islam è un’unica immensa palude: «Continua la fandonia dell’Islam moderato, la commedia dell’intolleranza, la bugia dell’integrazione» – scrisse dopo la strage di Londra. Un monito a non illudersi che ci sia un jihadismo “buono” e uno “cattivo”, come invece sembrano credere (ancora!) certi commentatori che, dopo l’attentato dell’Isis all’aeroporto di Kabul, si sono cimentati in una distinzione secondo cui, in fondo, i talebani sarebbero diventati “moderati”, e che la vera minaccia per l’Afghanistan sia ora da individuare nei loro nemici interni, più estremisti di loro. Ma è solo una folle illusione».

Lo scomposto ritiro dell’Occidente, in realtà, ha messo in moto un Risiko che, oltre a sfregiare in modo irreparabile l’immagine e la credibilità degli Stati Uniti, avrà inevitabilmente ricadute anche in un’Europa disorientata e divisa. L’Occidente ha bandito da tempo la parola «guerra», ormai imperversa la dottrina politicamente corretta secondo cui esportare la democrazia con le armi è stato solo un tragico abbaglio storico. Come se la libertà non fosse una conquista da difendere ogni giorno con le unghie e con i denti, anche in patria, ma una quieta eredità, un diritto immutabile delle nuove generazioni. Come se il «Risveglio islamico» nato con la rivoluzione khomeinista del ’79 non si proponesse di risvegliare la moltitudine islamica nel mondo da un letargo lungo trecento anni per affrancarla dalle imitazioni contaminanti dell’Occidente secolarizzato e decadente. L’unico strumento per la rinascita sarebbe dunque il ritorno alla fede e alla disciplina originaria del primo Islam.

La lunga consuetudine col socialismo arabo ha insegnato agli ideologi del terrore l’arte dell’organizzazione attraverso cellule segrete altamente disciplinate e ben addestrate. Ebbene, Oriana Fallaci conosceva profondamente l’Islam fondamentalista, le sue regole, la sua insopprimibile voglia di morte, e sapeva che troppe moschee vengono trasformate «in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi». Fino alla morte, non si è mai stancata di ripeterlo, incurante dell’isolamento culturale e del disprezzo dell’intellighenzia occidentale.

Eppure apparve subito evidente, dopo la spaventosa carneficina dell’11 settembre che nulla sarebbe più stato come prima. Invece ha prevalso il giustificazionismo, il pentitismo storico di un’Europa arcobaleno e senza più identità, secondo cui il terrorismo sarebbe solo il frutto avvelenato degli inevitabili risentimenti nei confronti dell’Occidente sopraffattore. Nulla importava se l’Internazionale del terrore era guidata da un club di miliardari che avevano studiato nei college, o se chi organizzò l’attacco alle Torri Gemelle proveniva da una famiglia facoltosa di Amburgo. La colpa era solo della fame e della povertà a cui erano stati condannati i Paesi arabi, del Satana amerikano e di Israele che difende il suo diritto ad esistere. Quella dei terroristi è invece solo una colpa riflessa e dunque attenuata. Da questa narrazione nasce il mito imperituro del «dialogo». Lo vogliono i pacifisti e lo pretende la sinistra, senza rendersi conto che il dialogo a senso unico significa solo la resa.

Un manuale di addestramento di Al Qaeda trovato a Londra nel ’93 diceva testualmente: «Il confronto che si vuol aprire con i regimi apostati non è fatto di dibattiti socratici, né di dialoghi platonici o di diplomazia aristotelica. Conosce solo il dialogo delle pallottole, gli ideali dell’assassinio, delle bombe e della distruzione e la diplomazia delle mitragliatrici e del cannone».

Ecco: la parola d’ordine della vittoria talebana in Afghanistan «Voi avete gli orologi, noi abbiamo il tempo» è solo il sinistro complemento del motto di tanti terroristi islamici: «Voi amate la vita e noi amiamo la morte». Una dichiarazione di guerra all’Occidente in ritirata.

Università e ranking, lo scandalo della Columbia: ha fornito dati «ingannevoli». Ora è scesa dal secondo al 18esimo posto. Orsola Riva su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.

Il New York Times porta alla luce il caso del prestigioso ateneo newyorkese che ha costretto Us News a rifare la classifica, declassandolo. L’ammissione dei responsabili. 

La notizia non è tanto che i ranking universitari siano facilmente scalabili - questo lo avevamo capito da tempo - ma che anche le teste di serie non disdegnino il ricorso a operazioni di «maquillage» a dir poco disinvolte pur di piazzarsi in cima a queste classifiche. Che, nate con l’intento di orientare genitori e figli nella scelta di quello che soprattutto in America è l’investimento economico più importante di una famiglia - si sono trasformate in una gara senza esclusione di colpi, da cui le istituzioni accademiche escono sempre più acciaccate. Questa volta a «truccare» le carte è stata niente meno che la Columbia University, colpevole - per sua stessa ammissione - di avere inserito dei dati imprecisi nella classifica pubblicata ogni anno da U.S. News, una delle più consultate insieme a quella del Wall Street Journal, di Forbes e del Washington Monthly. Come ha raccontato il New York Times, lo scandalo era esploso a febbraio quando Michael Taddeus, un professore di matematica di quella che è e resta una delle più antiche e autorevoli università dell’Ivy League americana, ha denunciato sul suo blog che le statistiche fornite dalla sua università erano «inaccurate, discutibili e ingannevoli». Dopo mesi di polemiche, lunedì 12 settembre U.S News ha pubblicato una nuova classifica in cui in base ai nuovi dati forniti dalla stessa Columbia, il piazzamento dell’università newyorchese - seconda solo a Harvard per numero di premi Nobel (più di cento!) - è precipitato dalla seconda alla 18esima posizione. In testa come già l’anno scorso resta Princeton, seguita dall’Mit di Boston e da Harvard, Yale e Stanford arrivate terze a parimerito. Possibile? Certo perché nel mix di criteri che determinano il punteggio finale, oltre alla reputazione generale, alla selettività in entrata e alla capacità di rimborsare i debiti contratti per laurearsi da parte di chi ne è già uscito (indicatore che serve a misurare la spendibilità del titolo stesso sul mercato), c’è anche - come in quasi tutti i ranking internazionali - il rapporto fra studenti e docenti, che era stato pesantemente manipolato l’anno scorso.

I criteri

Le aule poco affollate sono universalmente considerate un indicatore molto attendibile della qualità dell’insegnamento. E sono anche una delle ragioni principali - insieme alla scarsa attrattività per docenti e studenti internazionali - per cui nelle più importanti classifiche internazionali nessuna nostra università riesce a piazzarsi nemmeno fra le prime cento al mondo. L’unica classifica in cui gli atenei italiani riescono a raggiungere posizioni di vertice è quella redatta ogni anno dal QS in base ai singoli corsi, in cui per esempio la Sapienza da anni ormai occupa la prima posizione al mondo in Studi classici e il Politecnico di Milano si piazza nella top ten mondiale sia in Architettura e Design che in diversi corsi di Ingegneria (dove pure la competizione è fortissima). Ma nemmeno il QS ranking è immune da critiche, soprattutto per il peso enorme dato agli aspetti reputazionali (cioè ai pareri espressi da altri docenti e anche dai datori di lavoro) a scapito di dati più obiettivi e per il presunto conflitto di interessi rappresentato dal fatto che oltre a stilare la classifica delle università, offre anche un servizio di consulenza pensato per aiutarle a migliorare il proprio piazzamento.

Il business

In un mondo dove l’istruzione universitaria è diventata un business capace di far tremare l’economia di un Paese (vedi la bolla dei debiti universitari negli Usa e in Uk), i ranking sono diventati un’arma potentissima capace di spostare miliardi di euro, dollari o sterline. Di piccoli e grandi incidenti nelle classifiche universitarie ce ne sono stati tanti in questi anni: dal caso di un politecnico indiano di non primissima fila (la Vel Tech University di Chennai) che era riuscito a scalare un altro ranking- quello di Times Higher Education - drogando l’impatto delle ricerche di un singolo docente che pubblicava i suoi lavori su una rivista di cui era anche il direttore, alle polemiche nostrane sull’Anvur, l’agenzia governativa incaricata di valutare la qualità della ricerca degli atenei italiani da cui dipende una fetta importante dell’assegnazione dei fondi ai nostri atenei. Nella penultima edizione della cosiddetta VQR a tenere banco era stato il caso dell’università Kore di Enna il cui dipartimento di fisica batteva anche la Normale di Pisa. Mentre nell’ultima edizione - in cui i discutibili indici bibliometrici delle tornate precedenti sono stati integrati da un sistema di valutazione fra pari che solleva anch’esso parecchi dubbi - ha suscitato più di qualche sorpresa il piazzamento della altrimenti poco nota università sportiva Roma Foro italico al secondo posto fra i piccoli atenei.

Tra noi e gli States le strade iniziano a dividersi. Gli Stati Uniti d’America e il mito appannato della libertà: tra armi, aborto e guerra si allontana dall’Europa. Alberto Cisterna su Il Riformista il 30 Giugno 2022 

Tra pochi giorni sarà il 4 luglio, l’Indipendence day. Una sorta di seconda festa nazionale per molti italiani e da molti decenni ormai. Intere generazioni sono cresciute con il mito degli Stati uniti, della sua cultura, delle sue libertà. Quando Bruce Springsteen intona “Born in Usa” tanti sognano a occhi chiusi e immaginano una vita diversa in quella sconfinata Land of opportunities, lontano dalla grigia monotonia di una nazione vecchia, stanca, disillusa. Per decenni – parafrasando Benedetto Croce – abbiano snocciolato a memoria le tante ragioni per cui non possiamo non dirci americani. Certo, odio e amore, affezione e critica, ma alla fine nessuna discussione politica o economica o sociale ha mai potuto prescindere dalla madrepatria americana. Dopo l’11 settembre quel legame è apparso ancora più indissolubile, intimo, profondo; abbiamo imbracciato le armi per i fratelli d’oltreoceano e ci siamo dati leggi speciali.

Ma lentamente qualcosa sta cambiando e la sentenza della Corte suprema sul diritto d’aborto non è che l’ultimo campanello d’allarme di una divaricazione che tende a diventare distanza. Tre questioni stanno sul tappeto a tutta evidenza: l’accesso indiscriminato alle armi, le politiche conservatrici dominanti nella pancia profonda degli States, l’opzione bellica. Il Terzo millennio, come sappiamo, è iniziato in modo tragico per gli Usa e i suoi alleati. L’attentato alle Torri gemelle ha innescato in porzioni maggioritarie della popolazione americana la convinzione di essere sotto attacco, di trovarsi al centro di una vera e propria guerra dichiarata da una parte non marginale del mondo contro quella nazione con il fine dichiarato di distruggerla. Cosa ne è seguito dall’Afghanistan, all’Iraq, dalla Libia alla Siria, è sotto gli occhi di tutti; si è passati, a fine secolo scorso, dai bombardamenti su Belgrado a quelli su Baghdad. Un passaggio del testimone tragico, in cui la guerra ha definitivamente conquistato il rango di prima opzione politica, di prima risposta contro gli avversari.

In una nazione in guerra, pressoché ininterrottamente, dal dicembre del 1941 a oggi, con guerre fredde o conflitti ad alta e media intensità, è inevitabile che si debba alimentare e sostenere in ogni strato della popolazione una forte propensione alle armi e alla violenza. Come Sparta o come Roma repubblicana, gli Usa sono, innanzitutto, una straordinaria potenza militare che ha necessità di migliaia e migliaia di uomini da impiegare nelle proprie forze armate; ha l’urgenza di uno spirito patriottico quasi fanatico; ha bisogno di inglobare le minoranze etniche discriminate nei propri contingenti d’élite per dare loro la dignità di cittadini, proprio come l’Impero romano. E quanto accade in Russia, con la difficoltà di vincere una guerra per la scarsità di soldati a disposizione, non farà che incrementare ancora di più questa opzione. Sarà una delle lezioni militari più importanti di questa guerra in Ucraina: per vincere servono uomini in mimetica e anche motivati, l’opzione chirurgica delle armi intelligenti è un mito infranto nell’assalto fallito a Kiev.

Questa gigantesca locomotiva armata non può rinunciare alla circolazione di fucili d’assalto e pistole, non può mettere da parte l’educazione militare che le famiglie dispensano ai propri figli in tutte le zone dell’America profonda dove sentimenti nazionalisti e patriottismo si sviluppano e si alimentano lontano dalle promiscuità molli delle capitali dell’Est e dell’Ovest. Ritenere che tutto il problema stia nella forza politica della NRA (National Rifle Association), nel condizionamento della lobby delle armi, nel controverso testo del Secondo emendamento («Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto») vuol dire porsi il fine di trascurare che – man mano, poco a poco – si è creata una sottile linea di frattura ideologica, morale, politica tra gli Usa e i paesi alleati in Europa soprattutto. Una discontinuità con cui non vogliamo fare i conti – tanto radicato è il mito americano in ciascuno di noi – per cui affrontiamo la sconsolata lettura di quelle stragi quasi quotidiane con la tesi comoda e illusoria che si tratti di episodi di follia, di disperati fuori controllo, di esaltati che bisogna tenere lontani dalle armerie.

Ma si può davvero immaginare che una democrazia non sia in grado di affrontare una lobby e di metterla a tacere? In realtà gli Usa non possono deflettere dal fine dell’essere una democrazia in armi, dalla necessità di alimentare il mito della propria potenza militare, dal bisogno di entrare in sintonia con una popolazione in gran parte disponibile a indossare una divisa per difendere la bandiera a stelle e strisce che sventola ovunque in quel paese. Mentre Germania, Francia e Italia (e altri) scoprono in queste settimane tutta la fragilità del proprio sistema di difesa militare; mentre si discute del budget da destinare al riarmo nei prossimi anni; mentre l’Europa coglie tutta la difficoltà di entusiasmare la propria opinione pubblica, pacifista e pacifica, verso la prospettiva di un conflitto con la Russia, negli States si coglie la prospettiva di una vittoria insperata, non verso il vecchio avversario della Guerra fredda, ma su quanti concepivano il sogno di una Europa post-atlantista, equidistante, tollerante e dialogante.

L’ombrello protettivo degli Usa è tornato, in modo inaspettato anche per Washington, a essere indispensabile per le democrazie europee. In fondo l’idea degli ultimi presidenti americani, secondo cui gli alleati europei avrebbero dovuto più massicciamente contribuire alla difesa Nato, si è pienamente realizzata e grazie a Putin. Intanto la Corte suprema abolisce il diritto costituzionale all’aborto e ne affida le sorti ai singoli Stati dell’unione. E la linea di frattura cresce, la distanza aumenta, il mito si appanna, coperto (per ora) dal rombo dei cannoni russi che devastano l’Ucraina.

Alberto Cisterna

Costanza Rizzacasa d’Orsogna, in un saggio la guerra (in)civile negli Usa che tradisce la cultura. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera l'11 Luglio 2022.

In «Scorrettissimi» (Laterza) l’autrice esamina gli esiti della polarizzazione identitaria.

Gli Stati Uniti ribollono di faziosità. Non c’è solo la questione quanto mai scottante dell’aborto. A destra c’è chi preme con forza perché vengano messi al bando dalle scuole «libri sugli eroi dei diritti civili, sui nativi americani, sulla guerra civile, e anche libri di scienza». A sinistra avanza un’ideologia, sedicente antirazzista, «secondo la quale il privilegio bianco è il peccato originale, motivo per cui tutti i bianchi sono colpevoli per il solo fatto di essere tali». Insomma le «guerre culturali» non accennano a placarsi e rischiano di destabilizzare le stesse istituzioni democratiche.

Misura come un sofisticato termometro il livello di questa pericolosa febbre il saggio di Costanza Rizzacasa d’Orsogna Scorrettissimi (Laterza), ricco di particolari sui casi più eclatanti di cancel culture e impreziosito da interviste con esperti che manifestano la loro preoccupazione per la deriva in corso.

La questione più grave è di natura politica e riguarda la crescente polarizzazione dell’elettorato americano. L’accordo sulle regole del gioco, fondamento di ogni assetto rappresentativo in salute, sembra venuto meno, perché nei due partiti prevalgono le spinte estremiste, con la connessa delegittimazione degli avversari.

Si arriva al punto di contestare i risultati elettorali con l’azione diretta su istigazione di un presidente in carica, come è successo il 6 gennaio 2021. Continuando di questo passo, il rischio è che le guerre culturali degenerino in un conflitto cruento. E i sintomi non mancano: «Il sistema politico — si legge nel libro di Rizzacasa d’Orsogna — è così travolto dall’odio che anche le più semplici funzioni di governo diventano impossibili. La fiducia nel Congresso è ai minimi storici. Chi dovrebbe tutelare l’ordine a livello locale si ribella all’autorità federale».

La conflittualità sul terreno del costume è un dato fisiologico in ogni società pluralista, tanto più se multiculturale e multirazziale. Ma la politica dovrebbe servire a mediare le istanze di segno opposto, mentre oggi, osserva Rizzacasa d’Orsogna, ne è colonizzata. La posta in gioco non è più una legislazione orientata in una direzione o nell’altra, ma l’anima stessa della nazione. E quando a scontrarsi sono valori identitari esistenziali, «qualsiasi compromesso è impossibile».

Attorno al problema principale ne ruotano poi altri, di natura più strettamente culturale. Si può immaginare un insegnamento da cui sia espunto ogni testo che possa urtare la sensibilità di qualche studente? Ha senso condannare il romanzo di Mark Twain Huckleberry Finn — in tutta evidenza antirazzista, oltre che stupendo — perché vi appare di continuo la parola nigger, brutalmente offensiva per gli afroamericani, ma all’epoca di uso comune? Davvero i capolavori dell’antichità classica recano il marchio della supremazia bianca? È plausibile negare diritto di cittadinanza a un’opera sulla base del comportamento privato deplorevole, o anche criminale, del suo autore?

Immensa è senza dubbio la confusione sotto il cielo degli Usa, se l’attrice Whoopi Goldberg è arrivata a dire che la Shoah non riguardava la razza in quanto vittime e carnefici erano tutti bianchi. Ma al di là di questi eccessi aberranti, non è facile trovare la giusta misura tra la dannazione anacronistica del passato e i giudizi che su di esso resta comunque legittimo esprimere. Autori come William Faulkner ed Ernest Hemingway possono apparirci criticabili. Ma per criticarli bisogna leggerli, non censurarli. In fondo questo è l’invito sotteso a tutto il lavoro di Costanza Rizzacasa d’Orsogna.

La sbandata USA. America in crisi, dal razzismo all’Fbi contro Trump: la corsa al disfacimento a stelle e strisce. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 18 Agosto 2022 

Che gli Stati Uniti d’America siano in crisi lo sanno per primi gli americani, i quali attraversano uno dei momenti di peggiore instabilità. Sono abituati: periodicamente sia loro che i loro giornali e siti affermano che l’America è in disfacimento e che il loro Paese, quello del “sogno americano”, è morto e sepolto. Non è la prima, né la seconda e la terza volta che assistiamo a una tale sensazione di disfatta cui seguono segnali di crisi economica come sta accadendo con un’inflazione al nove per cento.

L’America è irritata dal presidente Joe Biden. Joe Biden è tuttavia il male minore perché non potrà affrontare due turni consecutivi, ma ha al suo fianco una vice che si dichiara nera benché figlia di un funzionario dell’impero inglese, Kamala Harris, e gli americani tremano all’idea che possa subentrare a Joe Biden. Poi c’è il caso di Donald Trump, la cui politica è incomprensibile in Europa perché tradizionalmente americana, fatta di isolazionismo e diffidenza per gli europei, aggressiva nel dichiarato tentativo-desiderio di proteggere aziende e lavoratori americani dall’ingiusta concorrenza dei lavoratori europei che non pagano tasse per la difesa.

L’America è inoltre percorsa da nuove correnti di odio non destinate a rimarginarsi. Quella razziale tra bianchi e neri è la più nota e gli amici mi dicono che è finita da tempo la moda della finta fraternità interrazziale, perché i giovani preferiscono stare fra i loro simili. Ma a questo aspetto razziale primario c’è da aggiungere il moltiplicarsi delle scalate sociali delle etnie asiatiche nelle scuole e nei posti di lavoro. Gli asiatici costringono i figli a studiare a quattordici ore al giorno vincendo quindi tutte le borse delle scuole pubbliche e private, raggiungendo da soli le vette della eccellenza universitaria e umiliando o mettendo in grave affanno tutti gli altri. Molti adolescenti americani si sono suicidati per la perdita delle borse di studio, specialmente in New Jersey.

E poi c’è l’affare Salman Rushdie. Questo scrittore indiano naturalizzato inglese è una delle glorie letterarie del mondo ma poco amato nei paesi, Italia compresa, attenti alle sensibilità islamiche. Rushdie è un uomo di frontiera e fu condannato a morte con l’emissione dei una Fatwa religiosa sostenuta da una taglia sostanziosa iraniana. Se Rushdie pensava che la sua condanna fosse stata dimenticata, non erano autorizzati a pensarlo coloro che avevano il dovere di proteggerlo specialmente negli Stati Uniti. L’attentato a Salman Rushdie non è stato soltanto una conferma dell’esistenza della stessa barbarie che ispirò la strage nella redazione di Charlie Hebdo, ma dimostra l’inettitudine dei servizi di sicurezza americani, come accade in tempi di crisi quando si interrompono le catene delle responsabilità.

La vicenda di Trump fermenta: l’irruzione nella casa privata di un ex presidente che fino a pochi mesi fa abitava alla Casa Bianca ha provocato una forte irritazione non contro Trump ma contro l’FBI e il procuratore che ha fornito il mandato con i reati su cui si svolgeva l’indagine. L’opinione pubblica non soltanto di destra trova incomprensibile un’accusa di spionaggio nei confronti di un ex presidente americano che ha sempre avuto sotto gli occhi le carte che sono state trovare nella sua magione. Accusare di spionaggio un uomo che è stato il protagonista degli eventi cui si riferiscono i documenti trovati a casa sua è piuttosto ridicolo. E in casa repubblicana la prendono molto male perché è evidente l’aspetto persecutorio nei confronti di un possibile candidato che costituisce una minaccia per l’attuale establishment. Infatti, l’attuale establishment democratico ha ripreso il comando di tutte le agenzie di spionaggio e controspionaggio a partire dalla FBI.

Cresce intanto nella società la nuova tendenza – analizzata dal filosofo britannico Douglas Murray – che spinge tutti i giovani sotto i quarant’anni a cercare una nicchia da cui si possa dichiarare vittima storica, razziale, di genere, religiosa e reclamare diritti perduti o mai avuti. Ognuna di queste nicchie suscita reazioni di ripulsa violenta di altri gruppi ed episodi di follia come le sparatorie in cui vengono immolate vittime innocenti a crisi di apparente follia, che però non è individuale ma ha radici collettive. La società americana appare di giorno in giorno fratturata non più soltanto fra ricchi e poveri o bianchi e neri, ma fra asiatici e non asiatici, tra minoranze nemiche provenienti da tutti i rivoli dei molti generi di “latinos” in conflitto fra discendenti di nativi e discendenti dei colonialisti spagnoli, benché si esprimano nella stessa lingua. Queste fratture si dilatano nella politica perché i politici assecondano le divisioni per potersene proclamare i rappresentanti.

Gli Stati Uniti rimangono un paese diverso da tutti gli altri di lingua inglese, come i canadesi, gli australiani, i neozelandesi. Tutti in apparenza figli di una stessa madre, ma nessuno con una storia travagliata e fragile come quella degli americani. La guerra d’indipendenza americana fu una rivoluzione più sanguinaria di quella francese vinta con l’uso spietato di eserciti contro eserciti regolari visto che le Tredici colonie originarie erano dotate anche di un esercito guidato dal generale George Washington, coperto di gloria per aver inflitto pesanti sconfitte ai francesi durante la guerra dei Sette Anni: una guerra di una violenza ancora poco conosciuta in Europa, seguita dopo il primo ciclo di storia dalla Guerra di secessione tra unionisti e confederati, sempre di violenza implacabile tra gente dello stesso sangue.

Nel ciclo successivo di crisi venne la segregazione razziale con le cosiddette “Leggi di Jim Crow” – poi adottate dal nascente nazismo per segregare gli ebrei in Germania – come conseguenza della sconfitta confederata per mantenere fuori dalla vita civile gli americani di colore che soltanto con John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson cominciarono a rivedere la luce. Infine venne la grande crisi esistenziale della guerra nel Vietnam, un trauma ideologico e morale, e quindi l’apparente fine della guerra fredda vissuta come un trionfo dell’occidente e subito messa in secondo piano dal trauma delle Torri Gemelle dell’undici settembre 2001 a New York e le conseguenti guerre antislamiche In Iraq e in Afghanistan. Oggi negli USA si è persa la cognizione ideologica della differenza tra conservatorismo e progressismo sicché politicamente nessuno sa più bene chi è e che cosa è.

A questo panorama si aggiunge il modo maldestro – come ha osservato pochi giorni fa il quasi centenario Henry Kissinger – con cui l’attuale amministrazione intende provocare la Cina su Taiwan anziché restare fermi e non creare situazioni belliche costose e di incero esito. Il risultato finale è la coesione, anche non ancora alleanza militare tra Russia, Cina, Pakistan, Iran, Sud Africa, Brasile e altri Paesi dell’America Latina. Tutto ciò accade senza una regia o una leadership in grado di analizzare e guidare il corso degli eventi, cosa che l’America aveva sempre creduto di saper fare, ma per cui oggi sembra paralizzata e confusa.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Ocasio-Cortez e gli altri: l'ala socialista che rischia di costare cara a Biden. Alberto Bellotto il 19 Agosto 2022 su Il Giornale

Inflazione, criminalità, il ritorno di Donald Trump e pure la fronda socialista. I guai per Joe Biden non mancano. In vista delle midterm dell'8 novembre, il presidente si trova a fronteggiare in modo costante la spina nel fianco che arriva dalla corrente progressista, causa più di grattacapi che di soluzioni. Dal 2018, anno dell'arrivo al Congresso della prima pattuglia liberal capitanata dalla pasionaria Alexandria Ocasio-Cortez, i «socialisti» ispirati da Bernie Sanders si sono insinuati nei meccanismi del partito democratico complicandone i movimenti. Tra di loro, ribattezzati The Squad, c'è tutto il sottobosco che l'attivismo Usa può offrire. Due esempi su tutti: le prime deputate musulmane Rashida Tlaib e Ilhan Omar. In più nel 2022 potrebbe anche arrivare il grande salto liberal al Senato, con sfide competitive in Pennsylvania e Wisconsin.

I cavalli di battaglia dei socialisti non fanno dormire sonni tranquilli a Biden. È il caso ad esempio delle grandi proposte per aumentare la spesa pubblica, come programmi per il clima e l'estensione della riforma sanitaria. A questo si aggiunge anche la grande retorica del «tax the rich», tassate i ricchi. Vedi il vestito-manifesto della Ocasio al Set Gala 2021. Un tema delicato in un Paese affezionato ai grandi tagli fiscali di Reagan e Trump.

Ma il piatto forte dei progressisti resta la sicurezza. O meglio la polizia. Tutta la squad si è unita al grande movimento di Black Lives Matter per chiedere lo smantellamento dei distretti, il famoso defund the police. Una mossa che alla fine si è ritorta contro i socialisti e lo stesso partito democratico. Tra il 2020 e il 2022 il Paese è stato travolto da un'ondata di criminalità. Negli ultimi mesi ci sono lievi segni di calo, ma quest'anno si conferma difficile: solo gli omicidi hanno fatto segnare un +39 per cento rispetto al 2019.

Insistere sulla riforma della polizia costa voti, fanno notare i moderati dem. Voti soprattutto nei sobborghi, dove Biden ha costruito parte del suo successo elettorale e che sono sempre sensibili a due cose: l'economia (vedi alla voce inflazione) e la sicurezza. Persino sull'immigrazione la sinistra complica i piani del partito. Ne sa qualcosa il sindaco afroamericano di New York, linciato dalla Squad per aver sottolineato che un'immigrazione massiccia manda in tilt il sistema di accoglienza. Tutti temi su cui il Gop farà una campagna feroce nei prossimi mesi. Altri membri della squad come Ayanna Pressley e Jamaal Bowman hanno fatto scandalo nel marzo scorso per aver difeso lo schiaffo di Will Smith a Chris Rock sul palco degli Oscar, con buona pace della liberà di parola.

Persino sul fronte internazionale i progressisti creano problemi. È il caso di Ilhan Omar, unica deputata col velo di origini somale, che spesso ha attaccato Israele, alleato chiave degli Stati Uniti. Non stupisce quindi che Omar abbia faticato alle primarie, imponendosi per pochi voti. A Minneapolis, dove c'è il suo distretto, in molti non hanno apprezzato la campagna contro la polizia e già nel novembre scorso gli elettori l'avevano «punita» respingendo la proposta di riformare le forze dell'ordine.

Il caso Omar mette in luce i segni di cedimento del fronte socialista. Dopo l'elezione di Biden i progressisti hanno ingaggiato una battaglia feroce con il partito ma hanno portato a casa molto poco. I provvedimenti del Congresso votati negli ultimi mesi sono il frutto di una pesante mediazione interna tra l'ala moderata e i democratici più conservatori come Joe Manchin. «I socialisti perdono ovunque», ha notato Patrick Maloney, moderato dem che corre a New York, «gli elettori non vogliono né la rivoluzione, né la purezza ideologica, ma soprattutto non vogliono che qualcuno gli faccia la lezione su Twitter». Un avvertimento per Biden: occhio alle sbandate a sinistra perché regalano al Gop la vittoria.

Le due Americhe. Perché gli Stati Uniti sono la terra delle contraddizioni. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Luglio 2022. 

Quel che in genere i critici dell’America come nazione e storia di una nazione non capiscono quasi mai è la natura dell’American Exceptionalism: per quale accidente di motivo gli Stati Uniti d’America sono un Paese che non può essere confrontato con qualsiasi altro. I grandi Paesi di lingua inglese figli della madrepatria britannica sono tanti: dal Canada all’Australia alla Nuova Zelanda e in parte anche il Sud Africa che adesso va coi Brics, cioè con i cinesi e i russi in salsa carioca. Ma il punto è un altro: gli Stati Uniti d’America sono un inimitabile Paese perché sono instabili. In perenne crisi identitaria, lacerati da un proprio antiamericanismo interno che minaccia da sempre e per sempre una guerra civile.

Oggi come ieri, le Americhe sono due: quella dei democrats e quella della mitragliatrice in giardino sulla cui canna fumante arrostire il bacon, come mostrava in un video il senatore repubblicano del Texas, Ted Cruz. L’America è un Paese vitale perché affetto da auto-odio, auto-disprezzo, furia antiamericana. Noi non ne abbiamo la più pallida idea. In genere gli italiani non capiscono l’America neanche se la abitano o se la confondono con Manhattan. Era l’estate del 1999 e mi trovavo davanti all’oceano a Long Island in compagnia di Arnold Beichman, firma storica del Washington Time (da non confondere col Post). Arnold è morto un anno fa e ha lasciato un’eredità di articoli micidiali sui luoghi comuni antiamericani, con il suo temperamento di figlio di emigrati ebrei ucraini. Mi regalò una copia del suo Anti-American Myths, i miti antiamericani, con una geniale prefazione di Tom Wolfe, quello che descrisse i radical-chic nel Bonfire of The Vanities. Ci sarà una ragione per cui i canadesi sono canadesi e somigliano molto più ai belgi, pur vivendo in America e parlando inglese (quasi) come gli americani? Perché nessun altro Paese di lingua inglese ha fatto un pieno maggiore di diversità incomponibili, ma legate tutte insieme da una Costituzione geniale.

L’America di oggi, di questi anni, mesi e ore, è una polveriera con sotto una miccia corta, e lo è sempre stata. La Rivoluzione Americana che precedette quella francese fu molto più feroce e spietata di quella bolscevica e fu talmente ideologica che un terzo dei coloni scapparono a gambe levate in Canada per farsi proteggere dal re di Londra inseguiti dalle truppe rivoluzionarie così come accadde nella Vandea francese. Fu per un motivo ideologico che l’America tentò di prendersi il Canada e mettere al muro i traditori della rivoluzione se il governo di Sua Maestà non avesse mandato una flotta a bombardare Washington con la stessa violenza con cui i russi hanno devastato Mariupol. E chi pensa che la Guerra Civile americana fosse una vicenda post-coloniale non ha idea del carattere ideologico di un conflitto di posizioni etiche e non solo economiche in cui letteralmente i fratelli uccidevano i fratelli, con quasi un milione di morti e mutilati. Mai vista una strage del genere prima della Grande Guerra europea alla quale gli americani mandarono anche i vecchi generali che avevano combattuto in uniforme confederata, cioè sudista. La guerra civile scoppiò dalla secessione proclamata contro l’elezione del primo Presidente Repubblicano Abraham Lincoln.

Eterni fautori della pena di morte perché costretti a vivere e cavarsela nella frontiera e oltre la frontiera. Tutto il gruppo che aveva complottato per assassinare Lincoln fu impiccato in una grande cerimonia pubblica in cui l’esecuzione più orrenda fu quella della sorella dell’assassino che possedeva la taverna in cui era stato ordito il complotto e che fu appesa per il collo legata alla sedia da cui non riusciva ad alzarsi per una dolorosissima dismenorrea e che penzolò per quaranta minuti prima di morire. E non era affatto un’America figlia di galeotti e deportati come invece fu l’Australia: le tredici colonie erano perfettamente regolate in senso democratico ancor prima di gettare a mare il tè destinato agli inglesi in nome del principio secondo cui chi paga le tasse ha diritto a controllare come si spendono i suoi soldi. Funzionavano corti e scuole, università e anche un ben organizzato Continental Army agli ordini del generale Georges Washington, in uniforme blu.

E quando gli americani decisero nel 1918 di venire in Europa per capovolgere le sorti del conflitto che vedeva i tedeschi a un passo dalla vittoria, si misero con pazienza metodica ad addestrare rozzi agricoltori del Kentucky che arrivarono già malati della tremenda “influenza” poi detta “Spagnola” e vinsero la guerra per tutti gli europei snob e teste coronate che si spartivano il mondo. Fu allora che l’America rivoluzionaria e idealista si piazzò in Europa e combinò tutti i disastri che portavano la firma del presidente Woodrow Wilson che voleva raddrizzare i maledetti europei e cominciò a fare a pezzi l’Europa in combutta col presidente francese Georges Clemenceau creando le condizioni dell’inevitabile seconda guerra mondiale: fu allora che un giovane genio che faceva parte della delegazione britannica alla conferenza di Versailles se ne tornò sdegnato a Londra perché vedeva nell’idealismo autoritario degli americani il seme della catastrofe.

Ed è questo che anche oggi l’Europa e gli europei non capiscono, non riescono a ficcarsi nella mente: gli americani sono prima di tutto idealisti di molti ideali comuni ai nostri – milioni di americani si dichiarano oggi marxisti convinti e soltanto nelle università americane esistono e prosperano cattedre di marxismo – e poi coltivano in modi controversi e spesso opposti l’idealismo americano della libertà di movimento, di scambio, d’amore libero che ha visto le donne americane viaggiare da sole col loro pick-up con un fucile, un plaid e un sogno da realizzare. George Friedman il “forecaster”, da non confondere con tutti gli altri Friedman, è uno dei migliori analisti d’America e autore di una quantità di saggi sulla società americana ed è stato il primo a mettere in colonna gli elementi che identificano la diversità americana e il motivo per cui l’America è contemporaneamente fraintesa e odiata, scambiata per i simboli di Hollywood e ignorata. Friedman cominciò con le previsioni del tempo, poi parlò dei raccolti, infine delle correnti economiche, politiche e delle idee rilevanti.

L’America è sempre stata il bollitore di un caos magmatico di fronte al quale gli osservatori europei e italiani in particolare non sanno che dire e balbettano luoghi comuni sulle diaboliche multinazionali. Gli americani di oggi sono prima di tutto dei feroci antiamericani e la divisione delle razze e dei generi ha moltiplicato le diversità e le prerogative gelose di ogni gruppo etnico o di identità sessuale: prima di tutto un giovane americano oggi che non sia un bianco di lingua inglese, cerca di inserirsi in un gruppo che possa definire sé stesso come la patria degli oppressi. L’unico elemento che unisce gli americani è il desiderio di vivere come vogliono lontani dallo Stato e dalle sue regole, facendo profitti quanti ne bastano per decidere di sé stessi.

Ciò che Trump aveva intercettato, e che in Europa quasi nessuno ha capito, è il formidabile desiderio americano di mandare a quel Paese tutti e pensare solo a sé stessi.

Ma i criteri fondamentali che reggono questa amministrazione come qualsiasi altra, consistono nel cercare di dare agli elettori quel che non sanno ancora di volere. Ha un senso tutto ciò? Probabilmente no, ma l’America ha avito da quando esiste un unico senso: quello di un pianeta staccato dalla Terra, abitato da evasi e da fuggiaschi e da pionieri alla ricerca di una terra lontana da ogni radice e possibilmente in cui ognuno possa stare da solo o in gruppi sempre più ristretti. Tutti i discorsi che cominciano con “l’America è” o “gli americani sono”, è quasi sempre falsa in partenza. Una previsione? Gli americani sono stufi di un’Europa imbelle e sono tentati di venderla alla Russia così come un giorno la Russia vendette agli americani l’Alaska.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Il generale Lee e il fuoco della Guerra di Secessione americana. Matteo Muzio il 26 Settembre 2022 su Inside Over.  

Lo storico Emory Thomas ha scritto nella sua biografia di Robert Lee pubblicata nel 1995 che la decisione di dimettersi dall’esercito americano e di unirsi alla nascente repubblica confederata era una scelta “che Lee doveva prendere per non cadere nell’infamia”. Nonostante il carattere post-revisionista di quel testo, Thomas in questo assunto si allineò a tutti i suoi predecessori: James McPherson scrisse nel suo Battle Cry of Freedom che la scelta era “predestinata dal suo sangue e dalle sue radici familiari”. Anche il giornalista Douglas Southall Freeman, il primo autore che si cimentò con la scrittura della vicenda umana di quello che sarebbe diventato l’eroe della Virginia per i secoli a venire, disse che Lee “era nato per compiere quella scelta”. Fu però veramente così?

Lee e i Confederati

Davvero Lee era ardentemente convinto della causa confederata? Le cose non stanno affatto così. Sappiamo che l’ultima promozione ricevuta nell’esercito degli Stati Uniti, quella a colonnello, venne approvata dal presidente Abraham Lincoln perché convinto delle sue credenziali unioniste. Non abbiamo nemmeno traccia di sue simpatie verso la fazione dei “mangiafuoco”, quei politici e intellettuali del Sud che prima della vittoria di Abraham Lincoln chiedevano la secessione degli Stati del Sud per formare una nuova entità politica, oligarchica e antidemocratica, basata un voto pesato delle élite di proprietari terrieri.

In una lettera al figlio primogenito inviata il 23 gennaio 1861 si esprimeva con toni molto duri sulla possibile secessione del Sud: “[…] Percepisco l’aggressività del Nord e farò di tutto per rintuzzarla […] Come cittadino americano, sono molto orgoglioso del mio Paese, della sua prosperità e delle sue istituzioni e difenderò qualunque Stato venisse attaccato. Però non riesco a vedere una catastrofe maggiore della dissoluzione dell’Unione. Sarebbe un cumulo di tutti i mali e sono pronto a sacrificare tutto fuorché l’onore pur di difenderla. Spero, quindi, che si esauriscano tutti i mezzi costituzionali prima che ci sia un ricorso all’uso della forza. La secessione non è nient’altro che rivoluzione”. Ciò non toglie che Lee concordasse con molte delle posizioni dei secessionisti: ad esempio, pur trovando dannosa la schiavitù, soprattutto per il carattere del padrone bianco, non fece mai nulla di più, se non commentare con un “Solo Dio sa quanto lunga può essere il loro soggiogamento” sulla questione.

Gli schieramenti

Trovava dannosi e provocatori gli abolizionisti e ai suoi occhi l’assalto di John Brown all’armeria di Harper’s Ferry nel 1859 rientrava perfettamente in questa lunga catena di provocazioni. Non solo: riteneva ingiusto il limite posto dagli stati abolizionisti al possesso di schiavi. Anche nonostante questo, in Virginia la situazione era estremamente frastagliata: il superiore di Lee, il generale Winfield Scott, era virginiano ma decise di rimanere fedele all’Unione, così come l’ammiraglio David Farragut. Dall’altro lato della barricata, invece, c’era Edmund Ruffin, ex senatore, agrario, innovatore tecnologico (sua l’intuizione che il suolo richiedesse concimazione minerale per evitare l’esaurimento delle colture) e soprattutto uno dei capi dei Mangiafuoco, radicalmente ostile al “dominio yankee” e favorevole a costituire un nuovo stato ben da prima di Abraham Lincoln. Lee non sa quale posizione prendere e anche la sua famiglia è divisa: la sorella Anne è un unionista convinta e i suoi figli si arruoleranno nell’Unione. Dopo la guerra non si parleranno mai più. Lee deluse molto Scott che gli disse con molta delusione “che questa era la peggior scelta della sua vita”.

La scelta del colonnello

A quel punto però l’incerto Lee aveva compiuto la sua scelta. Del resto, il suo legame con l’Unione era solo legato al suo essere profondamente conservatore in senso pieno. Come lui anche la pensava anche il vicepresidente confederato Alexander Stephens, che durante la convenzione costituzionale della Georgia sedeva tra i banchi unionisti, dove affermò che l’Unione era “una barca fallata che si poteva ancora riparare”. Se però a Washington sedeva un amico degli abolizionisti, aderire alla Confederazione era una scelta conservatrice. Del resto, anche Thomas Jefferson Randolph, nipote del presidente Jefferson, autore della Dichiarazione d’indipendenza, aveva deciso di aderire alla causa confederata sedendo nella convenzione costituzionale della Virginia. Il nuovo Stato era autentico depositario della tradizione di Washington e Jefferson. Questa teoria ci porta però troppo lontano. Dobbiamo raggiungere Lee che assume il comando delle forze armate della Virginia, il nocciolo di quello che poi diventerà l’Armata della Virginia Settentrionale. La sua priorità era una: difendere la capitale Richmond dall’assalto dell’esercito unionista. La confederazione, a parte l’alto numero di ufficiali formatisi a West Point, disponeva di poco altro. Una rete di strade e ferrovie assolutamente insufficienti, queste ultime venivano costruite specialmente per il trasporto di cotone verso i porti.

Le prime fasi della guerra civile americana

Una rete propriamente detta quindi non era presente. Inoltre, l’unico impianto siderurgico di una certa rilevanza era la Tredegar Iron Works, sito proprio nella capitale virginiana. Proprio per questo ci si trasferì l’intero governo confederato il 29 maggio 1861, rendendola la nuova Capitale. Appare evidente quindi che data la breve distanza da Washington D.C. (circa 175 km), rendeva un colpo di mano dei nordisti su Richmond estremamente probabile. Per questo Lee l’ingegnere iniziò a costruire una vasta rete di trincee intorno alla Capitale, che potesse bloccare un assalto improvviso. Una strategia che incontrò la derisione della stampa confederata, che lo definì “Lee la nonnina” per questa sua cautela ritenuta eccessiva. Per di più il suo primo impegno sul campo di battaglia, una scaramuccia con gli unionisti nella località di Cheat Mountain il 12 settembre 1861, non finì bene perché non ricevette informazioni adeguate, così non lanciò l’attacco. Lee era un comandante troppo timido. Così i giornali criticarono molto la decisione di nominarlo alla guida dell’Armata della Virginia Settentrionale quasi un anno più tardi, quando il generale Joseph Johnston venne ferito a una spalla nella battaglia di Seven Pines il 1° giugno 1862 contro l’esercito nordista comandato dal generale George McClellan.

Quest’ultimo guidava un esercito grande il doppio di quello confederato e la strategia difensiva di Johnston aveva portato McClellan a poco meno di 10 km dalla capitale. Il governo del presidente sudista Jefferson Davis stava prendendo in considerazione l’evacuazione, ma Lee nominato come nuovo comandante affermò con forza che Richmond non doveva cadere per nessun motivo. A sorpresa, una volta raggiunto il campo di battaglia il 25 giugno, Lee colpì i nemici con una serie di attacchi rapidi e coraggiosi, tanto da costringerli ad abbandonare il loro obiettivo di conquistare la capitale, battendo McClellan in sette giorni. Il nuovo comandante sudista però non si limitò a godersi la vittoria. Anzi, capì che la chiave della vittoria per i confederati non era la disfatta totale dell’avversario, impossibile data la disparità di forze, ma doveva puntare a fiaccare il morale del Nord con una sconfitta militare decisiva che li convincesse della necessità di una separazione tra quelli che un tempo erano gli Stati Uniti.

Le battaglie di Lee e la fine della guerra

Sarebbe troppo lungo per questa sede descrivere le battaglie combattute da Lee. Basti ricordare che tentò due volte di invadere il Nord: la prima volta in Maryland nel settembre 1862 per rifornire di armi e cibo i suoi uomini e la seconda volta nel luglio 1863 arrivando addirittura in Pennsylvania tentando di intrappolare l’armata del Potomac. In entrambi i casi Lee mostrò la sua eccellenza come tattico ma la sua inconsistenza come stratega. Fuori dal territorio della Virginia, che lui ben conosceva, perse in ogni caso, persino contro l’indeciso George McClellan.

Negli ultimi mesi di guerra il suo sistema difensivo tenne bloccate le forze unioniste a partire dal giugno 1864, quando ormai le sorti della guerra erano segnate: la Confederazione aveva già perso il controllo del fiume Mississippi e si avviava a perdere anche il nodo ferroviario di Atlanta, in Georgia. Lee a quel punto propose di rompere un tabù: armare gli schiavi in cambio della loro liberazione, ovviamente con il consenso del loro padrone. La proposta venne accolta eufemisticamente in modo freddo: il generale Howell Cobb affermò che “se gli schiavi possono essere dei buoni soldati, allora le nostre teorie sono tutte sbagliate”. La proposta venne approvata dal Congresso confederato molto tardi, il 13 marzo 1865, quando le sorti della guerra erano segnate.

Qualche giorno prima, il 28 febbraio, era arrivata la nomina di Lee a comandante generale degli eserciti confederati. La resa dell’armata della Virginia Settentrionale avvenne il 9 aprile 1865. Lee disobbedì agli ordini di Davis, che aveva chiesto una resistenza a oltranza, capendo che ormai le sorti della Confederazione erano segnate. Come disse il comandante unionista Ulysses Grant, ormai c’era nuovamente un Paese solo. Lee aveva perso la sua scommessa e la dimora di Arlington, dove viveva prima della guerra. Davanti a lui c’era l’ignoto. Se il Nord avesse preso sul serio quanto da lui affermato in quella lettera del gennaio 1861, era da considerare un rivoluzionario. E quindi un traditore. Sapeva di poter pagare molto caro. Come aveva temuto anni prima, ero solo di fronte al suo destino.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

Usa, si amplia il divario nel mondo del lavoro: un Ceo guadagna 670 volte lo stipendio di un dipendente. La Repubblica l'8 giugno 2022.

Si amplia ancora negli Usa la forbice tra lo stipendio degli amministratori delegati e quello dei loro dipendenti. È quanto mette in evidenza uno studio dell'Institute for Policy Studies, secondo cui un ceo guadagna in media 670 volte in più di un suo dipendente, in aumento rispetto alle 640 volte del 2020. Lo studio rileva che il compenso di un ceo è in media di 10,6 milioni di dollari mentre quello di un lavoratore è di 23.968 dollari.

L'indagine ha riguardato 300 aziende e in 47 di queste la differenza di paga ha superato il rapporto di 1 a 1000. Rispetto allo scorso anno la media di stipendio dei Ceo è cresciuta di 2.5 milioni mentre quella dei dipendenti è salita di 3.556 dollari. Inoltre in un'azienda su tre tra quelle monitorate la crescita dei salari è stata inferiore all'inflazione. Sempre in queste, 106 su 300, nel 67% dei casi  ha speso risorse per buyback azionari, a tutto vantaggio di piani di remunerazione dei ceo basati anche sui pacchetti azionari.

Con una beffa ulteriore messa in evidenza dallo studio: in sostanza i contribuenti Usa starebbe ampiamente finanziando proprio le aziende con un ampio gap di retribuzione tra ceo e dipendenti. Tra le 300 società monitorate, il 40% è stato titolare di contratti federali nell'arco temporale tra il primo ottobre 2019 e il primo maggio 2022, cioè ha ricevuto fondi pubblici. Il valore totale di questi contratti è stato di 37,2 miliardi di dollari. 

Lo studio isola poi i casi di alcuni ceo. Il numero uno di Amazon Andy Jassy con i suoi 212,7 milioni di dollari ha incassato uno stipendio 6500 volte più alto del salario medio di un dipendente Amazon (32.855 dollari). Fabrizio Freda, ceo di Estee Lauder, azienda che lo scorso anno ha ridotto il proprio organico da 75 mila a 62 mila lavoratori, ha visto la propria busta paga salire nel 2021 a 66 milioni di dollari, 1965 volte i 33.586 dollari di un impiegato tipico. Jay Snowden, ceo di Penn National Gaming, forte dei suoi 65,9 milioni di dollari vanta uno stipendio 1942 superiore alla media. Ampie disuguaglianze in un'azienda dove solo il 20% risulta organizzato in sindacati.

Da Focus.it. Storia. Chi è lo Zio Sam, il simbolo degli Stati Uniti?

Il mitico zio Sam è una persona realmente esistita. Ecco la storia di come è diventato il personaggio simbolo che, ancora oggi, rappresenta gli Stati Uniti.

Lo Zio Sam è stato ufficialmente riconosciuto dal Congresso americano come simbolo Usa nel 1961, ma la sua storia risale a quasi due secoli fa.

Tutto cominciò durante la guerra del 1812 contro l'Inghilterra, il governo scelse come fornitore di carne per l'esercito un tale Samuel Wilson, un macellaio di New York. Wilson inviava la sua merce in barili di legno su cui spiccava la scritta US, United States. Le truppe al fronte, sapendo che la carne proveniva da Samuel Wilson, cominciarono a interpretare la sigla come Uncle Sam (Zio Sam), commentando l'arrivo delle vettovaglie con frasi come "Sono arrivati i pacchi dello Zio Sam!". 

ALTRA FACCIA. Negli anni successivi, vignette e caricature hanno stravolto i tratti del personaggio originale, e oggi lo Zio Sam è conosciuto in tutto il mondo per il manifesto di reclutamento del 1917 di James Montgomery Flagg, ma la faccia del macellaio è tuttora riconoscibile nella statua allo Zio Sam eretta ad Arlington, Massachusetts, paese natale di Sam Wilson.

I Nativi. Da lastampa.it il 16 agosto 2022.

E' diventata famosa in tutto il mondo per essere salita sul palco degli Oscar nel 1973 a rifiutare, per conto di Marlon Brando, la statuetta vinta dal divo americano per Il Padrino. Littlefeather, nativa americana allora 26enne mandata in scena da Brando per leggere un discorso proprio a difesa dei nativi fu fischiata da parte della platea, e oggi, quasi 50 anni dopo, sono arrivate le scuse degli Oscar. 

L'Academy ha sottolineato che Littlefeather ha subito abusi «ingiustificati e ingiustificati» dopo il suo breve discorso. «Non avrei mai pensato di vivere abbastanza per vedere il giorno in cui avrei ascoltato tutto questo», ha detto con ironia Littlefeather all'Hollywood Reporter. Presentandosi a nome di Brando - che aveva scritto «un lunghissimo discorso» - Littlefeather aveva detto brevemente al pubblico «che lui con grande dispiacere non può accettare questo premio molto generoso».

«E le ragioni di ciò sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica e televisiva, e anche dai recenti avvenimenti a Wounded Knee», ha detto - in riferimento a un violento scontro con gli agenti federali in un sito di notevole importanza per il popolo Sioux. Venendo accolta da fischi e pochi applausi del pubblico. Successivamente sono circolate malignità secondo cui la donna fosse solo un'attrice arrivista, o addirittura l'amante di Brando. 

«L'abuso che hai subito... è stato ingiustificato e ancora ingiustificato», ha scritto David Rubin, ex presidente dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, in una lettera a Littlefeather resa pubblica oggi. Rubin ha affermato che il discorso alla 45a edizione degli Academy Awards «continua a ricordarci la necessità del rispetto e l'importanza della dignità umana».

L'Academy Museum of Motion Pictures ospiterà un evento a settembre , in cui Littlefeather parlerà della sua apparizione agli Oscar del 1973 e del futuro della rappresentazione indigena sullo schermo. In risposta alle scuse, ha chiosato: «Noi indiani siamo persone molto pazienti - sono passati solo 50 anni!», aggiungendo che mantenere il senso dell'umorismo è «il nostro metodo di sopravvivenza».

Le scuse (tardive) di Hollywood: «Piccola Piuma, non dovevamo trattarti così». Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 16 agosto 2022.  

Le critiche arrivano, fortissime, quando Piccola Piuma, 26 anni, dice: «Sono qui perché me lo ha chiesto che rifiuta l’Oscar come migliore attore: lui non può accettare il modo in cui il cinema rappresenta i nativi americani». A quel punto, fischi terribili, «buuu» trascinati, urlati da signore e signori vestiti di tutto punto, seduti nella platea del Dorothy Chandler Pavilion, investono di disapprovazione la giovane attrice, modella e attivista nativa americana che, in piedi sul palco più famoso d’America, abbassa lo sguardo e finisce il suo discorso di soli 60 secondi davanti a un pubblico tutt’altro che amico.

Quarantanove anni dopo quella notte, l’ex presidente dell’Academy, David Rubin, le ha scritto una lettera di scuse per gli abusi «ingiustificati e ingiustificabili» subiti, ed è stato annunciato che a settembre le verrà dedicata una programmazione speciale in suo sostegno. «Il carico emotivo che hai vissuto e il costo che hai pagato per la tua carriera sono irreparabili. Per troppo tempo il coraggio che hai mostrato non è stato riconosciuto. Per questo, ti offriamo sia le nostre più profonde scuse che la nostra sincera ammirazione», ha scritto Rubin.

«Meglio tardi che mai, noi nativi siamo gente molto paziente», ha commentato Piccola Piuma che oggi ha 75 anni e che dopo quel discorso, in effetti, oltre a ricevere minacce di morte, è stata tagliata fuori dall’industria cinematografica americana, storia che è riuscita a raccontare solo nel 2021 nel documentario «Sacheen rompe il silenzio».

Era il 1973, la 45° edizione degli Oscar. Brando vinceva la sua statuetta per l’intepretazione di Don Vito Corleone nel di Francis Ford Coppola, girato nel 1972. Chiese a Piccola Piuma di solcare il palco più famoso d’America perché indignato per come Hollywood rappresentava nei film western i nativi americani e per attirare l’attenzione sulla situazione di stallo tra gli attivisti dell’American Indian Movement (AIM) e il governo degli Stati Uniti a Wounded Knee, nella riserva indiana di Pine Ridge, nel South Dakota, dove circa duecento membri della sottotribù Oglala Lakota avevano occupato la città in protesta contro il presidente degli Oglala Lakota, Richard Wilson, e il mancato rispetto dei trattati con i nativi americani da parte delle autorità americane. Era la prima volta che si faceva un discorso politico agli Academy Awards . Era anche la prima volta che si ospitava una nativa americana che, con fierezza, pronunciava parole potentissime, come: «Salve, io sono Sacheen Piccola Piuma, sono un’Apache e sono la presidentessa del National Native American Affirmative Image Committee».

A guardare adesso quel video, sembra impossibile che un’attrice, una donna, potesse subire un’umiliazione così feroce davanti a milioni di persone, oltretutto, per la prima volta in diretta mondiale. Si racconta che durante il discorso, l’attore iperconservatore e star del genere western, John Wayne, seduto tra gli ospiti, sia stato fermato con la forza da sei uomini della sicurezza mentre provava a raggiungere Piccola Piuma e tirarla giù dal palco.

In un’intervista, la donna ha dichiarato: «Sapevo di dover pagare il prezzo per quello che ho raccontato in modo che altri potessero fare altrettanto. Sapevo di essere stata la prima a fare una dichiarazione politica agli Academy. La prima nativa, donna, indiana d’America. Dicevo la verità su come stavano le cose. Non la seconda, non la terza, non la quarta, ma la prima, e questo sarà sempre storicamente vero». Tra quel pubblico, non c’era nessuno che le assomigliasse, ricorda Piccola Piuma: «Guardavo in platea, ed erano tutti bianchi».

Piccola Piuma, morta l'attivista che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 03 ottobre 2022.

Il 17 settembre scorso aveva preso parte a un evento in suo sostegno, organizzato dopo la lettera ufficiale di scuse firmata dall'ex presidente di Academy David Rubin 

Piccola Piuma, l'attivista per i nativi americani che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando per «Il Padrino» alla cerimonia del 1973, è morta ieri, domenica 2 ottobre, a 75 anni. Era stata colpita da un cancro al seno. A giugno, l'Academy of Motion Pictures Arts and Sciences si era scusata con lei per il trattamento riservatole la notte della premiazione: le erano stati concessi solo 60 secondi per leggere il suo discorso sui diritti dei nativi americani. Poi l'attivista, allora 26enne, era stata scortata fuori dal palco tra fischi e insulti razzisti del pubblico presente in sala. Il 17 settembre scorso, Piccola Piuma aveva preso parte a un evento speciale in suo sostegno all'Academy Museum durante cui le erano state presentate le scuse (tardive) di Hollywood .

«Con grande rammarico, Brando non può accettare questo premio molto generoso — aveva detto rivolta al pubblico della Notte degli Oscar —. E le ragioni di questo sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica... e in televisione nelle repliche di film, e anche con i recenti avvenimenti a Wounded Knee». Le era stato permesso di leggere il suo discorso completo in una conferenza stampa successiva, discorso poi stampato sul «New York Times». Raquel Welch, Clint Eastwood e il co-conduttore della serata degli Oscar Michael Caine erano stati tra coloro che l'avevano criticata davanti alle telecamere per aver interrotto la cerimonia.

Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz a Salinas, in California, aveva cominciato a interessarsi alle questioni dei nativi americani al college, partecipando poi all'occupazione dell'isola di Alcatraz nel 1970, e adottando il suo nome proprio in quel periodo. Dopo il college, era entrata a far parte dell'associazione Screen Actors Guild Award dove, secondo quanto riferito, aveva incontrato Brando, interessato alle vicende degli indiani d'America tramite il regista Francis Ford Coppola che, come Piccola Piuma, viveva a San Francisco. In una recente intervista, l'attivista aveva raccontato a «Variety» com'era stato partecipare agli Oscar per conto di Brando.

«Era la mia prima volta agli Academy Awards. Ho superato il mio primo ostacolo, promettendo a Marlon Brando che non avrei toccato quell'Oscar. Ma, mentre uscivo da quel palco, l'ho fatto nei modi del coraggio, dell'onore, della grazia, della dignità e della sincerità. L'ho fatto nei modi dei miei antenati e nei modi delle donne indigene». E ancora: «Ho continuato a camminare dritto con un paio di guardie armate al mio fianco, e ho tenuto la testa alta ed ero orgogliosa di essere la prima donna indigena nella storia degli Academy Awards a fare quella dichiarazione politica».

A quel tempo, nel 1973 «c'era un blackout mediatico su Wounded Knee e contro l'American Indian Movement che lo stava occupando. Marlon li aveva chiamati in anticipo e aveva chiesto loro di assistere agli Academy Awards, cosa che hanno fatto. Quando mi hanno visto, sul palco, rifiutare quell'Oscar per gli stereotipi all'interno dell'industria cinematografica e menzionare Wounded Knee in South Dakota, hanno capito che si sarebbe interrotto il boicottaggio dei media».

Di recente, Piccola Piuma aveva condiviso, sempre con «Variety», alcune riflessioni sulla morte: «Quando moriamo, sappiamo che i nostri antenati stanno venendo a prenderci. Sappiamo che andremo in quel mondo spirituale da dove siamo venuti. Accettiamo ciò come un guerriero, con orgoglio e non con un senso di sconfitta, non vediamo l'ora di unirci ai nostri antenati che saranno lì con noi al nostro ultimo respiro e ci accoglieranno in quel mondo dall'altra parte e faranno una grande festa per noi».

Dagospia il 4 ottobre 2022. IL DISCORSO DI MARLON BRANDON PUBBLICATO DAL NEW YORK TIMES.

Da 200 anni diciamo al popolo indiano che lotta per la sua terra, la sua vita, le sue famiglie e il suo diritto alla libertà: «Deponete le armi, amici miei, e poi rimarremo uniti. Solo se deponete le armi, amici miei, possiamo parlare di pace e raggiungere un accordo che vi farà bene». 

Quando hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Gli abbiamo mentito. Li abbiamo derubati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti che abbiamo chiamato trattati che non abbiamo mai rispettato. Li abbiamo trasformati in mendicanti. E da qualsiasi interpretazione della storia, per quanto contorta, non abbiamo fatto bene. Non eravamo nella legalità né eravamo giusti in quello che facevamo. Non dobbiamo restaurare queste persone, non dobbiamo essere all'altezza di alcun accordo, perché ci è dato in virtù del nostro potere di attaccare i diritti degli altri, di prendere le loro proprietà, di togliere loro la vita quando cercano di difendere la loro terra e libertà, e di fare delle loro virtù un crimine e dei nostri vizi virtù.

Ma c'è una cosa che è al di là della portata di questa perversione ed è il tremendo verdetto della storia. E la storia ci giudicherà sicuramente. Ma ci interessa? Che tipo di schizofrenia morale è quella che ci permette di gridare affinché tutto il mondo senta che siamo all'altezza del nostro impegno quando ogni pagina della storia e quando tutti i giorni e le notti degli ultimi 100 anni nella vita degli indiani d'America contraddicono quella voce?

Sembrerebbe che il rispetto dei principi e l'amore verso il prossimo siano diventati disfunzionali in questo nostro paese, e che tutto ciò che abbiamo fatto, tutto ciò che siamo riusciti a realizzare con il nostro potere sia semplicemente annientare le speranze dei paesi appena nati, così come amici e nemici allo stesso modo, non siamo umani e non rispettiamo i nostri accordi. 

Forse in questo momento ti stai chiedendo che diavolo ha a che fare tutto questo con gli Academy Awards? Perché questa donna è qui in piedi, a rovinarci la serata, a invadere le nostre vite con cose che non ci riguardano e di cui non ci interessa? Sprecare tempo e denaro e intromettersi nelle nostre case.

Penso che la risposta a queste domande inespresse sia che la comunità cinematografica è stata responsabile quanto qualsiasi altra di aver degradato gli indiani e di averli presi in giro, descrivendoli come selvaggi, ostili e malvagi. È già abbastanza difficile per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini indiani guardano la televisione e guardano i film, e quando vedono la loro razza rappresentata nei film, le loro menti vengono ferite in modi che non possiamo mai sapere. 

Di recente ci sono stati alcuni passi vacillanti per correggere questa situazione, ma troppo vacillanti e troppo pochi, quindi io, come membro di questa professione, non sento di poter, come cittadino degli Stati Uniti, accettare un premio qui stasera. Penso che i premi in questo paese in questo momento non siano appropriati per essere ricevuti o assegnati fino a quando le condizioni degli indiani d'America non saranno drasticamente modificate. Se non siamo i custodi del nostro fratello, facciamo almeno in modo di non essere il loro carnefice.

Sarei stato qui stasera per parlarvi direttamente, ma ho sentito che forse avrei potuto essere più utile se fossi andato a Wounded Knee. 

Mi auguro che coloro che stanno ascoltando non considerino questo come un'intrusione rude, ma come uno sforzo serio per concentrare l'attenzione su una questione che potrebbe benissimo determinare se questo paese ha o meno il diritto di dire da questo punto in poi crediamo nei diritti inalienabili di tutte le persone a rimanere libere e indipendenti su terre che hanno sostenuto la loro vita oltre la memoria vivente. 

Grazie per la vostra gentilezza e cortesia a Miss Littlefeather. Grazie e buona notte. 

La morte di Piccola Piuma, che disse no a Hollywood nel nome di Brando. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022. 

Il 27 marzo 1973, alla cerimonia degli Oscar, tutti aspettavano il più grande attore del mondo, Marlon Brando, favoritissimo per l’interpretazione di don Vito Corleone nel Padrino. I presentatori, Liv Ullmann e Roger Moore, elencarono i candidati. Poi Ullmann aprì la busta e disse: «Il vincitore è Marlon Brando». Il quale, però, era rimasto a casa. Allergico alle regole di Hollywood, alleato di Martin Luther King negli anni ’60 (alla famosa marcia del 1963 a Washington c’era anche lui), aveva deciso di boicottare la cerimonia per protestare contro il modo in cui i nativi americani venivano rappresentati sullo schermo e per attirare l’attenzione dell’America sull’occupazione allora in corso nella cittadina di Wounded Knee (200 attivisti nativi americani, due dei quali finirono uccisi, affrontarono per 71 giorni gli agenti federali in South Dakota).

Il discorso

Fu così che il mondo conobbe Sacheen Littlefeather, scomparsa l’altro giorno all’età di 75 anni per un tumore che l’aveva colpita nel 2018. Littlefeather, in abito tradizionale Apache, attraversò quella platea di dame di Beverly Hills vestite da sera e di signori in smoking salì sul palco del Dorothy Chandler Pavilion, rifiutò educatamente la statuetta (che rimase nelle mani di Moore) e disse agli ospiti e al pubblico di 85 milioni di telespettatori che Brando «con grande rammarico non può accettare questo premio così generoso». L’attore le aveva affidato un discorso da leggere, ma gli organizzatori le dissero che aveva solo sessanta secondi. Improvvisò, spiegando tra i fischi i motivi del rifiuto e concludendo così: «Spero di non aver rovinato questa serata e che in futuro i nostri cuori e la nostra compassione si incontreranno con amore e generosità». John Wayne, tra il pubblico, s’imbizzarrì — proprio lui che aveva ucciso sullo schermo più indiani del generale Custer — e secondo la leggenda — falsa, ma fa sorridere — fu trattenuto a fatica dalla security. Hollywood tagliò fuori Brando, e il suo genio, dal cinema che contava, per aver detto una verità poco gradevole in anticipo di qualche decennio sui tempi.

Bandita dall’’Academy

La ragazza timida che aveva osato rovinare la festa nella quale ogni anno Hollywood celebra golosamente sé stessa venne portata davanti ai giornalisti e protetta fisicamente da Moore — ignoto eroe di quella sera — con uno stratagemma, eludendo le guardie che volevano cacciarla perché tecnicamente non era una vincitrice e non aveva diritto di fare una conferenza stampa. Littlefeather riuscì infine a leggere la lettera di Brando — molto pacata, il New York Times la pubblicò integralmente — in difesa dei nativi americani, e fu per questo bandita dall’Academy. Academy che, poche settimane fa, si scusò, versò qualche lacrima di coccodrillo dedicandole un evento antirazzista. «È un sogno che si avvera — commentò lei —. Noi indiani siamo persone molto pazienti: sono passati solo 50 anni… Ma dobbiamo mantenere il nostro senso dell’umorismo, in ogni momento. È il nostro metodo per sopravvivere». 

Piccola piuma, morta l'attivista che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando e scosse l'America. La Repubblica il 3 ottobre 2022.

È stata la prima nativa a salire sul palco del prestigioso premio. Il suo discorso di condanna per i maltrattamento subiti dagli indiani d'America fu una doccia fredda. Quasi 50 anni dopo l'istituzione di Hollywood si è scusata per l'atteggiamento ostile dei vertici dell'Academy

Pinterest

È morta all'età di 75 anni Sacheen Littlefeather (Piccola Piuma), l'attrice e attivista nativa americana che ha fatto la storia degli Oscar nel 1973, rifiutando il premio per conto di Marlon Brando come miglior attore per il film Il Padrino (dove vestiva i panni del boss mafioso Don Vito Corleone), scuotendo l'Academy - e circa 85 milioni di telespettatori - con il suo discorso che condannò il maltrattamento degli indiani d'America.

Nata come Marie Louise Cruz, soprannominata Piccola Piuma, a Salinas, in California, il 14 novembre 1946, è morta domenica 2 ottobre nella sua casa di Novato, nella contea di Marin, in California, in seguito ad un tumore al seno e al polmone destro che le era stato diagnosticato nel 2018.

Il discorso sul palco degli Oscar

Il 23 marzo 1973 salì sul palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles a nome di Brando rifiutando di ritirare il premio. Per l'occasione il grande attore scrisse un discorso di otto pagine, ma il produttore Howard Koch impedì di leggerlo per intero, informando che Littlefeather avrebbe avuto solamente un minuto. Nel suo discorso si presentò come Apache, criticando la rappresentazione dei nativi americani da parte di Hollywood.

In abiti tradizionali

Con un abito di pelle di cervo, mocassini e lunghi capelli neri raccolti in due codini, la 26enne sconosciuta, si rivolse così al pubblico dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences: "Buonasera. Mi chiamo Sacheen Littlefeather. Sono Apache e presiedo il Comitato Nazionale per l'Immagine Affermativa dei Nativi Americani. Rappresento Marlon Brando a questo evento. È con rammarico che Marlon Brando non può accettare questo premio così generoso, a causa del modo in cui i nativi americani sono trattati oggi dagli Stati Uniti. È con rammarico che non può accettare questo generosissimo premio, a causa del modo in cui i nativi americani sono trattati oggi dall'industria cinematografica, in televisione e nelle repliche dei film, e a causa di Wounded Knee".

L'ostracismo dell'Academy

Il suo discorso fu accolto da un mix di applausi, fischi ed anche insulti e privò l'attrice di una carriera cinematografica e le valse l'ira dei vertici dell'Academy Awards. Quasi 50 anni dopo l'istituzione di Hollywood si è scusata con Sacheen Littlefather, organizzando in onore della cultura dei nativi americani il 17 settembre scorso un evento che ha celebrato il contributo delle popolazioni indigene alla Settima Arte.

Prima di acquisire la controversa notorietà durante la notte degli Oscar, Littlefather aveva posato come modella per la rivista Playboy. Negli anni 80 ha partecipato a campagne per la lotta all'Aids, causa di morte del fratello e ha lavorato in un ospizio fondato da Madre Teresa in California. Riscoprendo la fede cattolica della sua infanzia, ha anche guidato un circolo di preghiera di San Francisco intitolato alla religiosa Kateri Tekakwitha, una donna Algonquin e Mohawk del XVII secolo, prima nativa nordamericana ad essere proclamata santa da papa Benedetto XVI.

Da movieplayer.it il 3 ottobre 2022.

Sacheen Littlefeather, l'attrice e attivista nativa americana che è salita sul palco agli Academy Awards nel 1973 per rivelare che Marlon Brando non avrebbe accettato il suo Oscar per Il Padrino, è morta il 2 ottobre 2022 in California. Aveva 75 anni. 

Sacheen Littlefeather è morta domenica a mezzogiorno nella sua casa nella città di Novato, nel nord della California, circondata dai suoi cari, secondo una dichiarazione inviata dalla sua badante. L'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che si è riconciliata con Littlefeather a giugno e ha tenuto una celebrazione in suo onore solo due settimane fa, ha rivelato la notizia sui social media domenica sera. Littlefeather aveva rivelato nel marzo 2018 di essere stata colpita da un tumore al seno.

Nel marzo 1973 Marlon Brando decise di boicottare la cerimonia degli Oscar per protestare contro il trattamento riservato ai nativi americani e contro la loro rappresentazione fornita sul grande schermo e per onorare l'occupazione di Wounded Knee, in cui 200 membri dell'American Indian Movement (AIM) affrontarono migliaia di poliziotti statunitensi e agenti federali nella città del South Dakota.

Dopo che i presentatori Liv Ullmann e Roger Moore elencarono i candidati come miglior attore e Ullmann annunciò Marlon Brando come vincitore, la trasmissione televisiva staccò su Littlefeather, allora 26enne e con indosso un abito tradizionale Apache, che salì sul palco mentre veniva annunciato, "A ritirare il premio per conto di Marlon Brando e de Il padrino, Miss Sacheen Littlefeather". 

Littlefeather, tuttavia, alzò la mano destra per rifiutare la statuetta offerta da Moore quando raggiunse il podio e annunciò al pubblico in sala e agli 85 milioni di telespettatori che seguivano da casa che Brando "con grande rammarico non può accettare questo premio molto generoso". Parlando con toni misurati, ma a braccio - Brando, che le aveva detto di non toccare la statuetta, le aveva preparato un discorso dattiloscritto di otto pagine, ma il produttore televisivo Howard Koch l'ha informata che non aveva più di 60 secondi - spiegò, "E le ragioni di questo sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica... e in televisione nelle repliche di film, e anche con i recenti avvenimenti a Wounded Knee".

Durante l'intervento di Littlefeather, John Wayne, che si trovava tra il pubblico, minacciò di alzarsi per tirarla giù dal palco e venne fermato dalle guardie presenti in sala. Quasi 50 anni dopo, l'Academy ha presentato ufficialmente le sue scuse alla nativa. 

"L'abuso che hai subito a causa del tuo discorso era ingiustificato", le ha scritto l'allora presidente dell'AMPAS David Rubin in una lettera del 18 giugno. "Il carico emotivo che hai vissuto e il costo per la tua carriera nel nostro settore sono irreparabili. Per troppo tempo il coraggio che hai mostrato è stato ignorato. Per questo, porgiamo le nostre più profonde scuse e la nostra sincera ammirazione". 

"Sono rimasta sbalordita. Non avrei mai pensato che sarei sopravvissuta tanto da poter vedere il giorno in cui avrei sentito queste parole", ha detto Littlefeather a The Hollywood Reporter. "Quando ero sul palco nel 1973, ero lì da sola". 

E' morta a 76 anni l'apache ribelle. Chi era Sacheen Littlefeather, l’apache ribelle che John Wayne voleva picchiare. David Romoli su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Dicono (ma alcuni biografi lo negano) che ci siano voluti sei ragazzoni ben piantati per impedire all’imbufalito John Wayne di lanciarsi sul palco per trascinare via Sacheen Littlefeather, giovane apache allora di 27 anni, dal palco del Dorothy Chandler Pavillon di Los Angeles. Era la Notte degli Oscar, 27 marzo 1973, e quella ragazza nata da padre apache e madre bianca la stava rovinando. Il vero guastafeste era in realtà un intoccabile assente sia dal palco che dalla sala: Marlon Brando, considerato il più grade attore della sua generazione, vincitore dell’Oscar per Il Padrino. Non si presentò per ricevere l’ambita statuetta. Al suo posto mandò quella ragazza bellissima in costume tradizionale dei nativi americani.

Sacheen Littlefeather, ovvero Piccola Piuma, avrebbe dovuto leggere una lunga dichiarazione firmata da Brando. L’organizzazione non lo permise. Potè pronunciare solo poche parole coperte dal rumore dei fischi, ma per la verità anche da qualche sonoro applauso. Disse che Brando non poteva accettare “il molto generoso premio” per via di come l’industria del cinema trattava gli indiani d’America in film che continuavano a essere trasmessi a ripetizione in tv. Lo shock fu immenso, difficilmente comprensibile oggi, dopo che il palco degli Academy Awards è stato usato più volte per comizi e dichiarazioni politiche. Allora però non era mai successo.

Per trovare un precedente bisogna tornare indietro di 5 anni, a quella premiazione per la gara dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico nel corso della quale senza una parola Tommy Smith e John Carlos, neri, vincitori rispettivamente dell’oro e del bronzo, alzarono il pugno chiuso guantato di nero. Quell’immagine fu di una potenza incredibile, fece il giro del mondo, è rimasta scolpita nel tempo. Da allora nulla del genere si era più ripetuto. Marlon e Sacheen osarono e aprirono la strada. Erano molti, in quegli anni, i nomi d’oro della cultura e dello spettacolo americani che fiancheggiavano i movimenti rivoluzionari, in particolare il Black Panther Party. Feroce e sarcastico, il principe del new journalism Tom Wolfe li inchiodò con un articolo che li scuoiava vivi raccontando il party pieno di bellissima gente organizzato in casa Bernstein nel 1970 per raccogliere fondi a favore del Bpp.

La definizione coniata allora da Wolfe è ancora merce corrente: Radical Chic. Però nessuno ha mai sospettato Marlon Brando di sciccheria radical. Il grande attore si faceva vedere poco, evitava di esporsi non per viltà ma per evitare di rendere il suo impegno, anche involontariamente, materiale da pubblicità facile. Oggi sappiamo che i suoi finanziamenti ai movimenti delle minoranze sono stati silenziosi ma continui e molto corposi. Marlon Brando aveva trasgredito a quella regola di discrezione una sola volta, partecipando in silenzio al funerale di Bobby Hutton, uno dei primi militanti delle Pantere Nere ucciso a dalla polizia a 18 anni. Al termine della cerimonia aveva anche preso la parola al raduno in onore di Lil’ Bobby ma anche in quell’occasione aveva parlato poco: «Non farò un discorso: i bianchi li ascoltate già da 400 anni».

Michael Caine, uno dei presentatori della cerimonia fu molto duro con il collega. Lo accusò di “aver lasciato che una povera ragazza indiana si prendesse i fischi invece di farlo lui stesso”. Aveva torto. Se su quel palco ci fosse stato il grande Marlon, fresco di trionfo nella parte di don Vito Corleone, l’attenzione, gli articoli, il gossip sarebbero stati tutti per lui. I nativi sarebbero stati considerati un particolare secondario. Più tardi, partecipando al Dick Cavett Show, Brando non si dichiarò pentito. C’era una opportunità e andava colta. Il pubblico invece di fischiare e battere i piedi, “avrebbe dovuto avere almeno la cortesia di ascoltare Sacheen”.

Non ci furono solo critiche. Coretta King, moglie del leader dei diritti civili ucciso cinque anni prima, elogiò l’attore. Molti anni dopo Jada Pinkett Smith, al termine di un discorso molto critico nella Notte degli oscar 2016, ammise che era stata ispirata proprio da Piccola Piuma. Hollywood non perdonò. Quella notte degli Oscar non era una delle tante. La crescita dei movimenti aveva messo in crisi Hollywood, incalzata da registi ribelli e indipendenti come il Peter Fonda di Easy Rider. Stretta d’assedio dall’ingordigia del piccolo schermo da un lato e dalla rivolta di una generazione di autori e attori che rifiutava in toto le regole dello studio system, Hollywood se l’era vista brutta. Nel 1973, con il trionfo del Padrino, celebrava la sua rinascita.

Il giorno dopo la protesta Saacheen andò a trovare Brando e qualcuno, da una macchina in corsa, sparò qualche colpo contro l’appartamento. Una fiammata: l’ostracismo dell’industria del cinema fu molto più longevo e fatale. Littlefeather, nata Marie Louise Cruz, era un’attrice. Nel 1969 aveva partecipato all’occupazione dell’isola di Alcatraz da parte dei Nativi Americani e in quell’occasione aveva cambiato il suo nome. Da quel momento, e per tutta la vita, avrebbe cercato di coniugare l’impegno per i diritti degli Indiani d’America e delle minoranze con la carriera d’attrice.

Solo che non ebbe più nessuna carriera. Sull’onda del clamore fu chiamata a ripetizione per interviste, spot pubblicitari, servizi fotografici. Poi fu soffocata col silenzio. Nel giugno scorso Hollywood ha chiesto formalmente e pubblicamente scusa con una lettera firmata dal presidente dell’Academy Award di allora David Rubin: «Gli abusi che hai subito per quella dichiarazione erano ingiusti e ingiustificati. Il peso emotivo che hai dovuto sopportare negli anni e il prezzo pagato dalla tua carriera nella nostra industria sono irreparabili. Troppo a lungo il coraggio di cui hai dato prova non è stato riconosciuto. Per questo presentiamo le nostre scuse più profonde insieme alla nostra più sincera ammirazione». «È come un sogno diventato realtà», commentò Sacheen Littlefeather: «Ci sono voluti appena 50 anni ma noi indiani siamo molto pazienti e dobbiamo mantenere il nostro senso dell’humour. È il nostro modo di sopravvivere». Sacheen è morta ieri a 75 anni. Almeno alcuni dei sogni per cui ha sempre combattuto li ha visti realizzati. David Romoli

La lotta dei nativi americani per salvare le Black Hills dalla caccia al litio. Dopo aver subito l’esproprio delle terre ai tempi della corsa all’oro, le tribù sono ora impegnate in difesa delle colline sacre del Dakota contro lo sfruttamento dei giacimenti minerari. «Per voi è terra da sfruttare; per noi le colline rappresentano invece l’anima che alimenta la nostra spiritualità». Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni da Pine Ridge (South Dakota) su L’Espresso il 4 luglio 2022.

Quella che da quasi centocinquant’anni ribolle nelle arterie scure di questi boschi è la più lunga e caparbia battaglia del popolo nativo contro il governo americano, la lotta di resistenza per il riscatto delle Black Hills, le colline nere, rubate dai coloni.

Questi clivi ricoperti di conifere e irrorati da bacini di acque dolci, non sono un appezzamento di terreno come tanti nel Dakota del Sud; sono le He Sapa, le terre sacre degli Oceti Sakowin, (che i rivali bollarono Sioux, i piccoli serpenti), la confederazione di tribù alleate Lakota, Dakota e Nakota. Qui, nacque il leggendario guerriero Cavallo Pazzo; qui cavalcarono Toro Seduto e Nuvola Rossa. La terra che ha alimentato la fierezza di un popolo che non si è piegato neppure all’offerta di centocinque milioni di dollari, il prezzo che la Corte Suprema nel 1980 aveva stabilito per compensare l’espropriazione illegittima, consumata nella seconda metà dell’Ottocento, quando i bianchi si lanciarono nella corsa all’oro. Un fondo mai riscosso, oggi lievitato oltre il miliardo.

Dopo decenni di lotte, i nativi, recintati nella riserva di Pine Ridge, avevano posto grandi speranze nell’“amico” Biden; ma il recente attacco russo all’Ucraina gli ha sbattuto davanti il timore di una seconda calata. «Dobbiamo adottare tutti gli strumenti e le tecnologie che possono liberarci dalla dipendenza dai combustibili fossili (...) Dobbiamo porre fine alla dipendenza dalla Cina e da altri Paesi», ha detto il presidente lo scorso marzo, invocando il Defense production act, una legge risalente alla Guerra Fredda, per incoraggiare le estrazioni di litio e altri materiali per motivi di sicurezza nazionale. Aumentare le miniere, dunque.

«Le macchine elettriche hanno bisogno di litio, le bombe di uranio», spiega Carla Rae Marshall, attivista della Black Hills clean water alliance, la principale associazione che monitora le attività minerarie sulle colline sacre del Dakota del Sud. La incontriamo nel suo ufficio a Rapid City. «Questa energia sarà verde per gli altri, ma per noi avrà un prezzo devastante perché le Black Hills, con tutte le riserve minerali, sono sotto tiro ancora una volta. Siamo pronti a combattere di nuovo».

Di nuovo, appunto. Perché i Lakota Sioux lottano per la sopravvivenza da quando i bianchi “scoprirono” l’America e iniziarono ad accaparrarsi ogni centimetro. Fino a quel momento erano gli unici abitanti delle Grandi pianure del West, poi romanzate in decine di film hollywoodiani. Vivevano grazie alla caccia al bisonte, nucleo essenziale del loro sostentamento. Dal maestoso «buffalo» si ricavava cibo, pelli per le tende, grasso da conservare, ossa per costruire utensili.

«Noi Lakota diciamo che le Black Hills sono il cuore di tutto ciò che esiste», racconta Monique Mousseau, l’attivista locale con cui viaggiamo. Lunga oltre duecento chilometri, con vette che arrivano a duemila metri, questa catena montuosa deve il nome alla fitta vegetazione che la fa apparire tenebrosa da lontano, ma bellissima e ricca di sfumature quando la si attraversa. «Per voi è terra da sfruttare; per noi le colline rappresentano invece l’anima che alimenta la nostra spiritualità, la connessione con la Madre Terra. Un Lakota cercherà sempre di tornare qui, dove può sentirle e vederle», dice Mousseau, mentre le indica, dopo essere scese dall’auto, appena entrate nella riserva di Pine Ridge, una delle aree più economicamente depresse degli Stati Uniti in cui vivono quarantaseimila Lakota della banda Oglala. «I colonizzatori ce le lasciarono pensando che non servissero a nulla, salvo cambiare idea quando scoprirono che erano ricche d’oro».

Avevano provato a fidarsi, i nativi, quando nel 1851 prima e poi nel 1868, al forte di Laramie, il governo americano siglò con loro un trattato promettendo che nessuno avrebbe toccato le Black Hills. Le buone intenzioni dei visi pallidi durarono poco, giusto il tempo di scoprire l’oro custodito nel ventre della terra, dopo una esplorazione del generale George Armstrong Custer nel 1874. Le colline nere furono invase da minatori e coloni, in barba a tutti i trattati, tanto che il governo li annullò nel 1877. Fu allora che iniziò la lotta instancabile dei Lakota per riavere indietro il territorio «rubato».

Lo sfruttamento però è continuato negli anni Cinquanta, stavolta per estrarre uranio. Negli anni Settanta, l’opposizione locale, ma soprattutto il crollo dei prezzi, fecero fermare le pompe. Oggi l’unica attiva è la miniera d’oro Wharf. «Sono andati via lasciando centinaia di siti minerari abbandonati, alcuni a cielo aperto, senza bonificare le acque contaminate con materiale radioattivo o i terreni», denuncia Marshall.

A metà degli anni Duemila, l’aumento dei prezzi dell’uranio ha riacceso le torce degli «esploratori». La Black Hills clean water alliance fiata sul collo di tutte le compagnie che hanno richiesto i permessi pubblici necessari. Ce ne sono diverse in corsa per estrarre uranio, litio, oro e terre rare. Clean water alliance punta il dito in particolare contro i progetti di estrazione della multinazionale canadese-cinese Azarga/Powertech Uranium. «Utilizzerebbero enormi quantità di acqua, oltre trentamila litri al minuto, completamente gratis». In ballo ci sono miliardi di dollari. «Cinquant’anni fa nessuno fu ritenuto responsabile del danno ecologico. Non permetteremo che accada ancora», promette l’ambientalista.

Una lotta tra Davide e Golia, perché le compagnie già da anni scaldano i motori. Non vede l’ora la canadese United Lithium, impegnata in un progetto di scavo che, se approvato, occuperà una quarantina di chilometri quadrati nelle Black Hills. «Le miniere degli anni ’70 non impiegavano i nostri metodi moderni. Siamo entusiasti, ci aspettiamo scoperte capaci di sostenere la domanda crescente di litio per rifornire i mercati nordamericani», ha dichiarato Michael Dehn, il presidente.

Negli anni successivi alla Seconda Guerra Mondiale, le colline nere furono una fonte importantissima di «oro bianco». Oggi, nonostante le sostanziose riserve negli Stati Uniti, esiste solo una miniera attiva e si trova in Nevada, anche in questo caso su terra sacra.

L’America, che ha ceduto il passo a Cina, Australia, Argentina, sente di non poter più rimandare la corsa. Il litio è necessario per la produzione di telefoni, computer, prodotti farmaceutici. E per i veicoli elettrici, ovviamente, che nel 2030 si stima utilizzeranno il 90 per cento del litio a disposizione.

Certo, resta difficile un’opposizione tout court. «Ci sono pro e contro», riflette il professor Jim Stone, direttore del dipartimento di ingegneria ambientale della School of mines and technology di Rapid City: «Se ci fosse più integrazione degli stakeholder e se i minerali venissero utilizzati per uso nazionale, questo sarebbe un luogo ideale per produrre energia sostenibile. Innanzitutto non c’è una popolazione numerosa nei dintorni, ma capisco che per i Lakota il problema non sia solo legato all’inquinamento, ma anche alla sacralità del territorio».

Le politiche energetiche di Biden sono un guanto di sfida imposto dai tempi. Non certamente dettato da poca considerazione delle esigenze delle popolazioni indigene. Anzi, fin dal primo giorno alla Casa Bianca, con un ordine esecutivo, il presidente ha imposto il blocco dei lavori dell’oleodotto Keystone, come aveva fatto Obama, mentre Trump aveva ridato poi il via libera. A parole e nei fatti, con la nomina ad esempio agli Interni della prima ministra nativa americana Deb Haaland, Biden ha messo in chiaro che il rispetto dell’autogoverno dei popoli tribali è una priorità della sua amministrazione. Ha poi stanziato miliardi per aiutare le riserve ad affrontare la siccità, bonificare le miniere e tamponare le conseguenze della pandemia, tremende per gli indiani. Insomma, una inversione di tendenza quella del democratico rispetto al predecessore repubblicano.

A Trump, i Lakota non perdoneranno mai lo sgarro di aver voluto celebrare nel 2020 la festa dell’indipendenza ai piedi del monte Rushmore, l’attrazione turistica più famosa delle Black Hills, con i faccioni incisi nella roccia dei presidenti Washington, Jefferson, Roosevelt e Lincoln (ognuno a suo modo coinvolto nell’oppressione). Il marketing americano lo promuove come il santuario della democrazia. Per gli indigeni è il simbolo dell’oppressione bianca. Due anni fa, i manifestanti indiani, arrivati per dire a Trump che non era il benvenuto, si sono sentiti urlare, ironia della sorte: «Tornatevene a casa vostra».

Ad organizzare le proteste c’era Nick Tilsen, anima del collettivo Ndn, arrestato durante una dimostrazione. È il volto della campagna di restituzione delle He Sapa, che ha visto un risveglio anche a seguito della stagione Black lives matter. «C’è un movimento globale per il ritorno delle terre nelle mani dei nativi. L’intero sistema economico degli Stati Uniti è stato fondato sull’olocausto delle nostre popolazioni e sul lavoro degli schiavi. Hanno cercato di finirci, ma siamo ancora qui. Lo spirito di resistenza scorre nel sangue del nostro popolo, è lo stesso di Cavallo Pazzo», dice Tilsen. Il collettivo punta alla creazione di un trust che gli permetterebbe di lavorare con il dipartimento degli Interni alla gestione del territorio, oggi per la maggior parte di proprietà federale. Ricorda Nick: «Abbiamo sempre rifiutato il denaro del governo per le colline nere è tempo che le restituiscano». La relazione viscerale con questi luoghi non si può monetizzare: «Le Black Hills non sono in vendita e non lo è neppure il popolo Lakota».

Wounded Knee, un oscuro episodio della storia americana. Lorenzo Vita il 30 Dicembre 2021 su Il Giornale. Nel 1890 i soldati del Settimo Cavalleggeri circondarono una carovana di Lakota. La mattina successiva, dopo l'ordine di disarmo, avvenne un massacro in cui non furono risparmiati nemmeno donne e bambini. Il 29 dicembre del 1890 la valle di Wounded Knee è coperta solo di neve. Un gruppo di Lakota Sioux, i Miniconjoudi, marcia al comando di Piede Grosso, un capo tribù che aveva deciso di recarsi Pine Ridge per riunirsi alle forze di Nuvola Rossa. La morte di Toro Seduto, avvenuta pochi giorni prima durante un concitato arresto da parte di alcuni agenti federali, aveva allarmato tutti i capi pellirosse. Il pericolo, per molti capi tribù, era che il governo degli Stati Uniti, terrorizzato da quella strana "danza degli spiriti" che serpeggiava tra la popolazione nativa, iniziasse ad arrestare e uccidere le personalità più importanti delle riserve.

La vita è difficile per gli "indiani d'America". Le guerre con le truppe degli Stati Uniti stanno ormai terminando con la vittoria dell'esercito "bianco". Le tribù indigene, che prima avevano combattuto i coloni e poi le forze regolari degli Imperi e dopo degli Stati Uniti, si sono ormai concentrate nelle riserve. Ma le condizioni imposte dal governo sono molto diverse da quelle che i più illusi si aspettavano. Privati dei loro territori di caccia, dei bisonti, e di tutto quello con cui erano vissuti per millenni, i nativi sopravvivono a stento in quei territori. E in tanti iniziano a sperare in una rivolta che ponga fine a quella miseria a cui erano condannati da Washington.

Così, tra "indiani" convertiti e non, tra chi parla l'inglese e chi ancora fieramente utilizza solo la lingua degli antenati, inizia a circolare un nuovo movimento religioso: la Ghost Dance, la Danza degli spiriti. Inventata da Wovoka, un santone pellerossa noto anche con l'appellativo anglofono di Jack Wilson, è una danza rituale che promette il ritorno dei nativi alle proprie terre e la scomparsa dell'uomo bianco. Qualcuno pensa addirittura che quella danza, insieme ad alcuni speciali indumenti, rende gli uomini invulnerabili ai proiettili. Molti seguaci credono che gli spirti dei defunti torneranno con loro e cavalcheranno di nuovo su quelle praterie una volta strappate ai "bianchi". Sta di fatto però che quel nuovo strano culto che unisce animismo e qualche elemento cristiano, preoccupa gli statunitensi. Al punto che questi iniziano a punire violentemente chiunque si avvicini a questi rituali e a disarmare le tribù dove avvengono queste danze incomprensibili e selvagge per le milizie americane.

La morte di Toro Seduto, avvenuta in strane circostanze proprio mentre sul suo campo ci sono seguaci di questa danza, è il segnale d'allarme. Piede Grosso, che con il suo gruppo Lakota è stato stato investito dalla Danza degli spiriti, si sente braccato. Sa che una volta morto Toro Seduto (e con lui suo figlio, Piede di Corvo), è solo questione di tempo e decide di unirsi a Nuvola Rossa, nella riserva di Pine Ridge. Parte insieme a centinaia di uomini, vecchi, donne e bambini dalla zona del torrente Cherry, dove vive la sua comunità, iniziando una lunga marcia in un inverno che non lascia scampo. Il freddo colpisce direttamente anche la sua salute. E il capo "indiano", durante la marcia per unirsi all'altra tribù, contrae la polmonite. Una forma gravissima, tanto che ormai le sue vesti sono ricoperte di sangue e il condottiero è costretto a muoversi disteso su un carro.

Il 28 dicembre, però i Minneconjou di Piede Grosso fanno però una terrificante sorpresa: non sono più soli. Durante il loro percorso, mentre costeggiano Porcupine Butte, il gruppo di Lakota è intercettato dal 7° cavalleggeri del maggiore Samuel Whitside. Piede Grosso sa che non può combattere e sventola una bandiera bianca. La sua carovana è fatta di tanti civili, vecchie, bambini, donne, lui sente che potrebbe morire da un momento all'altro e solo poche decine di combattenti sono armati di fucile. Non resta altro da fare che sperar e che quegli squadroni a cavallo che li circondano siano rassicurati da quel drappo candido che sventola dal carro del capo tribù. Forsyth appare in un primo momento accettare, ma indica al gruppo di nativi di spostarsi più a ovest, a Wounded Knee. Li costringe a mettere lì le tende, sulle rive del torrente dove qualcuno pensa sia stato sepolto nella pelle di un bisonte il mitico Cavallo Pazzo.

I pellerossa accettano sotto la minaccia di squadroni di cavalleria e di quei pezzi d'artiglieria montati intorno a loro e pronte a fare fuoco su quel fazzoletto di terra. Impossibile fuggire da Wounded Knee; mentre combattere significa morire nel giro di pochi minuti. La notte cala sull'accampamento mentre una fitta neve non abbandona mai quel luogo. Arriva l'alba e il colonnello James W. Forsyth, che ha appena preso il comando delle operazioni, ordina il disarmo. Si vocifera che saranno tutti spediti in un campo di prigionia e non arriveranno mai nelle riserve.

La tensione è altissima. I cavalieri del Settimo reggimento si avvicinano ai combattenti Minneconjou ma qualcosa va storto. Qualcuno dice che alcuni combattenti Lakota hanno iniziato a cantare le canzoni della Danza degli spiriti, innervosendo i militari dell'esercito Usa che temono un'imminente battaglia. Altri raccontano che uno dei nativi, Coyote Nero, non ha risposto all'ordine di lasciare le armi e dal suo fucile Winchester è partito un colpo accidentale. C'è chi dice sia sordo, chi non capisce l'inglese, chi invece un traditore, che non ha rispettato i patti con l'esercito americano. Ma quel colpo è l'inizio della fine. Prima si sente un altro sparo, poi altri dieci, infine, come racconteranno i testimoni sia tra i superstiti nativi che tra gli americani, partono colpi all'impazzata fino a quelli dell'artiglieria. In pochi minuti, il fumo si innalza da tutti i fucili del reggimento mentre i nativi, ormai disarmati sono tutti falciati dai proiettili americani. A quel punto, molti storici ritengono che i soldati sono ormai in preda a una furia omicida, senza alcun tipo di controllo da parte dei comandanti. Sparano su donne, madri con i figli tra le braccia, vecchi, giovani disarmati, cavalli, cani. Un massacro che lascia sul campo centinaia di vittime, alcune delle quali rincorse al solo scopo di trucidarle. Quando il fuoco dei fucili e dell'artiglieria cessa, la neve inizia a coprire con il suo gelido silenzio i corpi delle vittime, che per giorni, insieme ai feriti, rimarranno a congelare sotto un tappeto bianco e sporco di sangue.

Lo storico Dee Brown, autore del libro "Seppellite il mio cuore a Wounded Knee" stima che i morti sono stati 300 tra i nativi e circa 25 tra i "visi pallidi", molti dei quali morti per fuoco amico. Due giorni dopo la carneficina, il generale Nelson A. Miles scrive alla moglie una lettera in cui definisce quanto avvenuto a Wounded Knee come "il più terrificante e criminale errore militare e un orribile massacro di donne e bambini". I cadaveri verranno poi sepolti in una fossa comune mentre i pochi sopravvissuti sono trasportati a Pine Ridge. Il comandante Forsyth verrà prima condannato per quel massacro e poi riabilitato, mentre alcuni dei soldati saranno premiati con medaglie che ancora oggi dividono la politica americana. Per molto tempo, quella di Wounded Knee è stata considerata dalla storiografia ufficiale come una battaglia. Uno scontro tra due forze avversarie, esercito degli Stati Uniti e nativi Sioux, all'interno del più vasto conflitto passato alla storia come "guerre indiane". Nel tempo, tuttavia, gli studiosi hanno cambiato parere, fino a tramutare quella che era la battaglia di Wounded Knee nel "massacro". Un eccidio che è stato l'ultimo grande scontro tra l'esercito degli Stati Uniti e un gruppo di nativi.

Lorenzo Vita. Classe 1991, laurea in Giurisprudenza, master in geopolitica e corsi su terrorismo e guerra ibrida. Amo la storia, il mare, sogno viaggi incredibili e ho nostalgia del grande calcio e degli stadi pieni. Una passione mi ha cambiato la vita: raccontare quello che succede nel mondo. E l'ho

Lo Sport. Alberto Cantu per ultimouomo.it il 3 febbraio 2022.

«Giungemmo. È il Fine» sospirava l’Alessandro Magno di Pascoli mentre contemplava malinconicamente la fine delle sua epopea. Arrivato all’estremo confine orientale del mondo, il macedone si trovava costretto ad ammettere che non c’erano altre terre da conquistare, altri popoli da soggiogare, altre imprese da aggiungere alla sua già sterminata leggenda. 

Nel pomeriggio italiano di martedì anche Tom Brady ha annunciato di essere giunto al suo “Fine”. Possiamo solo immaginare il groviglio di emozioni che lo hanno assalito nel momento in cui ha deciso di comunicare al mondo che la sua carriera era giunta al termine. 

Indiscutibilmente il più grande quarterback della storia del gioco, uno dei pochi ad aver travalicato le barriere autarchiche del football americano per diventare un’icona globale. Tom Brady è associato a un’immagine di vittoria e grandezza che lo pone al pari dei GOAT degli altri sport.  

In 22 anni spesi principalmente ai New England Patriots Brady ha fatto razzia di trofei personali e di squadra – 7 Super Bowl e 8 MVP tra regular season e finali, 15 selezioni al Pro Bowl – in uno sport normalmente refrattario al concetto di longevità.

Quel che è ancora più assurdo è che una carriera così esageratamente memorabile avrebbe potuto ancora proseguire ad alti livelli. 

Il “Fine” di Tom Brady non sono state le acque dell’Oceano e nemmeno l’ultimo avversario rimastogli da affrontare, il tempo che scorre per tutti e tanto più per un quarterback quarantaquattrenne. Brady non era assolutamente in declino fisico o tecnico, anzi: ha scelto di ritirarsi in un momento in cui stava ancora giocando a livelli celestiali, non lontani dal prime assoluto della sua carriera. 

Se lo avesse voluto, avrebbe potuto prolungare il suo personale match di pugilato contro Father Time di una, forse addirittura due riprese. L’ultimo touchdown della sua carriera, una bomba di 55 yard lanciata sopra la testa del miglior cornerback della lega, non sembra certo mostrarci un giocatore che ha finito la birra. 

In quella partita di playoff contro i Los Angeles Rams sono racchiuse sia le ragioni del suo addio, che quelle che avrebbero potuto portarlo a inseguire l’ottavo anello nel 2022. A tre minuti dalla fine del terzo quarto i Buccaneers di Brady erano sotto di 24 punti – un’enormità visto il poco tempo a disposizione – e sembravano condannati a una triste uscita di scena.

Affaticato e sanguinante dal labbro inferiore per i colpi ricevuti, Brady ha comunque saputo orchestrare l’ennesima rimonta leggendaria della sua carriera, portando i Bucs a pareggiare con una manciata di secondi sul cronometro una partita poi comunque persa crudelmente nel finale.  

A posteriori, è come se prima di uscire di scena Brady ci tenesse a ricordare una volta di più chi è lo sceriffo in città. A mancargli non era il talento da spremere dal suo braccio destro, ma la voglia di sottoporsi ai sacrifici necessari per continuare a farlo. Se stiamo alle sue parole, gli è mancata la forza di proseguire il “competitive commitmentt”, di continuare a dare il 100% di sé stesso allo sport che ha dominato così a lungo.

Forse è davvero così, forse Brady non aveva più la forza mentale di alzarsi all’alba, trangugiare frullati proteici e passare le serate davanti a uno schermo per studiare la prossima difesa da affrontare. Qualcosa però non torna. A giudicare dal suo sguardo spiritato mentre implorava gli arbitri di lanciare una flag per pass interference, o da come si è rialzato dopo ogni colpo infertogli da Aaron Donald e Von Miller, sembra assurdo vedergli scrivere parole di resa mentale.  

Forse un’altra chiave sta proprio nell’effetto dei colpi che ha subito quella domenica a Tampa. Non tanto l’effetto su di lui che li ha subiti, ma su chi li stava osservando dalla tribuna VIP del Raymond James Stadium.

Qualche giorno dopo la sconfitta con i Rams, Tom Brady si è aperto sul rapporto di sua moglie Gisele Bündchen con la carriera del marito: «La addolora molto vedermi colpito in campo».  

Fosse stato per lei, che ha sacrificato la sua carriera da super model per accudire i figli e permettere a Brady di concentrarsi sul football, Tom si sarebbe dovuto ritirare lo scorso anno, subito dopo aver vinto il suo settimo Super Bowl. Poco prima della premiazione gli ha sussurrato all’orecchio «What more do you have to prove?», cos’hai ancora da dimostrare?

Tom non aveva effettivamente niente da dimostrare, ha deciso di tornare per la stagione 2021 principalmente perché il piacere di giocare, competere e vincere è sempre stato il carburante emotivo della sua stessa esistenza, ciò che lo ha reso Tom Brady. Ma è anche un padre che sa di essersi perso tanti momenti con i figli e che ha sentito sul serio la paura di perderne altri. 

Messa sul piatto della bilancia opposto a quello della passione per il football, l’importanza della famiglia ha finalmente pesato di più: «Gisele merita di ricevere da me quello di cui ha bisogno come marito e miei figli meritano di ricevere quello di cui hanno bisogno da me come padre. Passerò più tempo con loro per dargli ciò di cui hanno bisogno, perché loro mi hanno dato quello di cui avevo bisogno per fare quello che amo sei mesi all’anno».  

Nei versi finali della poesia di Pascoli, Alexandros si struggeva per il ricordo della famiglia che aveva abbandonato per saziare la sua sete di conquiste. Brady forse è arrivato vicino a fare altrettanto, ma ha scelto la famiglia prima di allontanarvisi troppo. Come diceva Gisele, Tom non aveva nient’altro da dimostrare a fine 2020 e lo stesso discorso vale ora, alla fine della stagione 2021.  

Un anno in più avrebbe semplicemente ritardato di dodici mesi le riflessioni e i tributi che stanno piovendo da tutto il mondo dello sport americano e dei suoi appassionati. Qualunque sia il motivo, ora che il Fine è davvero giunto è arrivato il momento di chiederci cos’è stato il football per Brady e cosa Brady ha rappresentato per il football. 

Tra le dichiarazioni rilasciate negli anni da Tom, le più impressionanti sono senza dubbio quelle sull’amore per il football. Nel 2015, quando si iniziava timidamente a parlare di piano di pensionamento per l’allora trentottenne, Brady dichiarò: «Quando la gente mi chiede “Cosa farai dopo il football?” io rispondo “cosa intendi per ‘dopo il football?’ non c’è niente dopo il football”». 

Qualche anno dopo avrebbe detto: «Se vuoi competere con me ti conviene rinunciare alla tua vita, perché io ho rinunciato alla mia». Uscite come queste emanano un fascino sinistro. È impossibile non ammirare una dedizione che arriva al punto di «rinunciare alla vita», ma allo stesso tempo sentire un atleta affermare che dopo il football mette in mostra quanto possa essere salato il conto per il successo sportivo.

Questo tipo di etica del lavoro sconfina al di là della dedizione fino ad addentrarsi nel campo dell’ascetismo. Tom Brady ha amato il football come i monaci mistici amavano Dio, un amore ustionante al punto dall’essere a volte indistinguibile dal sacrificio e dalla mortificazione dei bisogni terreni.  

Dedicarsi anima e corpo alla sua arte è stato un piacere ma anche una necessità. Brady ha sempre saputo che senza dare tutto al football non avrebbe ottenuto in cambio nulla. Senza quel tipo di abnegazione estrema non solo non sarebbe diventato il più grande di sempre, ma forse non sarebbe stato a lungo un quarterback NFL.

Tra i grandissimi dello sport è quello che è partito da un talento di base meno scintillante. Non sarebbe arrivato dov’è ora se avesse fatto affidamento sul suo atletismo da pensionato e su un braccio buono ma comunque non eccezionale. Brady ha dovuto studiare per migliaia di ore e dedicarne altrettante ad allenarsi per limare ogni difetto del suo gioco ed essere sempre un passo avanti rispetto a chi lo affrontava. 

Solo respirando football senza sosta ha potuto trascendere i limiti del suo corpo e dominare lo sport attraverso un controllo mentale sul campo che non ha precedenti nella storia del gioco. Di tutte le cose che sono state dette su Brady e a Brady, una delle più significative è anche la più semplice: «Stop throwing the ball so fast, Tom!». Smettila di lanciare così in fretta, Tom. 

Siamo abituati a parlare di Brady come di un assassino spietato, gelido e implacabile, e in effetti  in tanti dei suoi game winning drive si può indovinare la metodicità di un serial killer. In quelle situazioni le ore di studio e allenamento pagavano i loro dividendi, permettendogli di avanzare spietatamente per il campo. La passione smisurata di Brady per il football è emersa anche in modalità decisamente più focose.

In campo Brady è stato anche è stato Psycho Tom, un maniaco capace di infiammarsi di passione e strillare a pieni polmoni il suo iconico «LET’S GO!». Il suo football è un misto di ascesi ed estasi mistica, è stato la compostezza apollinea di drive dall’eleganza neoclassica e il furore dionisiaco sprigionato nelle esultanze, nei discorsi motivazionali e persino nei litigi in sideline.  

Non è difficile capire perché per Brady il football abbia significato tutto: è stato la forma di espressione più alta del suo talento ma soprattutto della sua indole competitiva. È altrettanto facile capire perché ha faticato così tanto a dirgli addio. Per un uomo che ha sempre vissuto di sfide, non sarà facile reinventarsi al di fuori della dimensione competitiva che lo sport gli ha sempre garantito. 

Lo ha sempre saputo anche suo padre Tom Sr, che da anni temeva il momento in cui il figlio avrebbe dovuto dire addio al football. Tom si è preparato fondando un brand di fitness e una linea d’abbigliamento, ma trovare un sostituto dell’adrenalina da game day sarà altrettanto difficile che recuperare 25 punti nel finale di un Super Bowl. 

È impossibile quantificare l’impatto di un giocatore che ha preso parte al 18% di tutti i Super Bowl disputati dal 1967 ad oggi, è superfluo aggiungere che è impossibile raccontare la storia del football senza di lui. Ovviamente la NFL è la lega che è oggi grazie a Brady. Forse possiamo spingerci un po’ più in là. Come ha scritto Kevin Clark su The Ringer, in ventidue anni di carriera Brady ha plasmato la NFL a sua immagine e somiglianza.  

Ha ridefinito il concetti di dinastia e vittoria, ha incarnato il prototipo del quarterback vincente, ha ricalibrato il peso e il valore di un’infinità di record, ha rimodellato il volto tattico della lega aprendola in modo decisivo alle novità della spread offense, ha indotto una buona metà delle squadre della NFL a modellare, fallendo quasi sempre, il loro franchise attorno all’immagine dell’infallibile macchina da guerra che furono i suoi Patriots.

Per Brady non sarà facile dire addio alla NFL, ma anche per il mondo del football salutare la sua icona sarà tutt’altro che una passeggiata. Brady si ritira dal football con un tale vantaggio sugli altri pretendenti al titolo di migliore di tutti i tempi da aver sostanzialmente chiuso la partita. Nessun quarterback ha lanciato più touchdown, yard e completi o vinto più partite, partite di playoff e Super Bowl. 

Ovviamente non lo ha fatto da solo, ed è certo che senza l’organizzazione metodica dei Patriots alcuni record sarebbero meno impressionanti e irraggiungibili, ma il palmarès di Brady resta spaventoso, forse addirittura eccessivo, nel senso che mentre ammiriamo le sue imprese non può non farsi strada il pensiero che una cosa del genere non la vedremo più. Molti hanno anche esultato, perché Brady è stato tutt’altro che un personaggio universalmente amato.

Da qualche parte si è festeggiato parecchio, soprattutto sugli account social delle squadre a cui Brady ha strappato il cuore con più crudeltà, ma forse proprio i tifosi delle sue vittime predilette sono quelli più legati a Brady al di fuori di Tampa Bay e Boston. Scrivo con cognizione di causa, visto che se Brady fosse finito a fare l’assicuratore (come aveva considerato sul serio quando sembrava che nessuna squadra lo avrebbe draftato) la squadra che tifo non si sarebbe fatta strappare dalle mani un Super Bowl già vinto. 

Tom Brady è stato tutto quello che potessimo chiedere, nel senso che ha saputo elevare al massimo l’esperienza di seguire la NFL, accentuando le gioie e i dolori che questa lega sa regalare e infliggere. Per i tifosi di Bucs e Patriots Brady è stato il miglior idolo da sostenere, per quasi tutte le altre franchigie, compresa la mia, il nemico perfetto da odiare. Nel bene e nel male è stato protagonista di quasi tutti i momenti più significativi dell’ultimo ventennio. 

Ha trafitto gli Atlanta Falcons, impedito a due delle migliori squadre della storia di completare il repeat, ha funestato anni della carriera di Peyton Manning con sconfitte brucianti ai playoff. Non è mai stato banale neanche nelle sconfitte: su due dei tre Super Bowl che ha perso – 2007 con i Giants e 2017 con gli Eagles – si potrebbero girare film da Oscar. Chi è stato al centro delle controversie più scottanti, dalla tuck rule al defilate Gate? Sempre e solo lui. 

Non dev’essere stato facile regnare dopo Luigi XIV, o dipingere dopo Picasso, o comporre versi dopo Dante. Nessuno vorrebbe essere nei panni di coloro che dovranno raccogliere la torcia dalle mani di Tom Brady. Fortunatamente la lega non è in deficit di quarterback fenomenali, anzi, a dire vero il talento nella posizione non è mai stato così abbondante. Eppure per tutti i QB in attività non sarà facile riempire il vuoto lasciato da un personaggio del genere.

Per noi che la seguiamo, la NFL continuerà ad essere la lega più esaltante al mondo, ma il vuoto lasciato da Tom Brady continuerà a farsi sentire. Ci sarà tempo per constatare quanto sarà strano non vederlo in campo, non cerchiare più sul calendario i suoi scontri con Aaron Rodgers o Patrick Mahomes, non sentire più quell’”adesso ci pensa lui” che abbiamo provato, chi con speranza e chi con timore, quando è sceso in campo con due minuti sul cronometro e un touchdown da segnare.  

Prima di pensare a come sarà la vita senza di lui, in questi primi giorni dell’anno o dopo Brady faremmo bene ad apprezzare a pieno cosa sono stati i ventidue precedenti. Brady ha dato a tutti noi il privilegio di poter amare, rispettare, temere e odiare il più grande di tutti i tempi. Per questo non possiamo far altro che ringraziarlo. 

La Sicurezza. Sparatoria in un Walmart a Chesapeake, in Virginia: morti e feriti. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 23 Novembre 2022.

Secondo le prime informazioni, a sparare sarebbe stato il direttore del supermercato, che poi ha rivolto l’arma contro se stesso e si è tolto la vita

Ancora una sparatoria negli Stati Uniti. Secondo le prime frammentarie notizie arrivate da Chesapeake, in Virginia, un uomo ha aperto il fuoco con un’arma automatica in un negozio Walmart contro le persone presenti. Secondo quanto confermato dalla polizia su Twitter, ci sarebbero fino a «dieci morti» e diversi feriti. L'assalto è avvenuto alle 10.15 di sera (ora locale) a Sam Circle, una zona commerciale molto frequentata dai giovani. Sempre secondo le prime informazioni, a sparare sarebbe stato il direttore del supermercato, che poi ha rivolto l’arma contro se stesso e si è tolto la vita. Un agente di polizia ha parlato di non più di 10 morti e diversi feriti.

Virginia, le paranoie del killer del Walmart: nel cellulare i target e un manifesto, «sapranno chi sono».  Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 23 novembre 2022. 

L’uomo che ha ucciso sei colleghi nel Walmart di Chesapeake era convinto che lo Stato lo spiasse e aveva già minacciato ritorsioni nel caso in cui l'azienda l’avesse punito. I precedenti in Virginia e a Colorado Springs.

La sequenza di morte si è ripetuta, come centinaia di altre volte in America. Un uomo è entrato nel suo posto di lavoro ed ha sparato uccidendo 6 persone, compreso un sedicenne. La strage questa volta è avvenuta in un supermercato Walmart di Chesapeake, in Virginia. Erano le 22.12 di martedì e mancavano meno di un’ora alla chiusura quando il supervisor del turno di notte, Andre Bing, armato di pistola, ha scatenato la sua rabbia verso un gruppo di dipendenti. Compiuta la sua «missione» si è tolto – come altri stragisti – la vita. I sopravvissuti raccontano che avesse avuto dei contrasti, temevano che potesse compiere qualche gesto pericoloso. Timori diventati realtà nello spazio di pochi istanti, tragedia accompagnata dalla condanna del presidente Joe Biden, dal dolore della comunità, dall’angoscia di chi ha perso amici e congiunti. L’omicida aveva lasciato trapelare in passato segnali inquietanti.

Aggressivo, sempre brusco quando impartiva ordini, soffriva di paranoie. Era convinto che «lo stato lo spiasse», per questo aveva coperto la telecamera del telefonino con nastro adesivo e non gradiva se qualcuno registrava dei video. Solitario, senza amici, aveva minacciato ritorsioni nel caso lo avessero punito o fosse stato licenziato: così sapranno chi sono, aveva detto. Nel suo telefonino sarebbe stata trovata una lista di target e un “manifesto”, cosa frequente da parte degli stragisti statunitensi. Nel documento descrive un presunto mobbing, accusa l’amministrazione per un cambio di mansioni, conferma i rapporti difficili.

La storia arriva dopo eventi simili, in un arco di tempo ridotto, quasi a confermare la tesi di alcuni esperti che parlano di effetto «contagio» e non solo di emulazione. Un attacco è spesso seguito da altri, come se l’omicida prendesse ispirazione. Appena pochi giorni fa c’è stato un episodio che ha coinvolto alcuni giocatori di un ateneo della Virginia – 3 le vittime – e poi l’incursione contro un night club gay a Colorado Springs, altri 5 morti. Un crimine d’odio compiuto da un ventenne dall’esistenza difficile e precedenti che non gli hanno impedito di dotarsi di un fucile tipo Ar 15, con il corredo di munizioni.

Negli anni ’80 i casi come questo era definiti con l’espressione «going postal», un riferimento ad una serie di sparatorie in uffici postali, con gli autori innescati da questioni personali o di lavoro. Chissà se non sarà creata una nuova categoria, «going market». Tre anni fa a El Paso un assassino ha colpito all’ingresso di un negozio Walmart: l’omicida xenofobo voleva uccidere i «messicani». In settembre, un uomo a bordo di un piccolo aereo aveva minacciato di schiantarsi sempre su un supermarket della medesima catena. Più di recente atti di violenza hanno avuto come teatro gli spazi di ambienti commerciali. In alcune situazioni era pura casualità, in altre rappresentano punti affollati che ospitano servizi utili al cittadino. Dunque per gli assassini sono i luoghi dove cercare le «prede».

Colorado, spari in una discoteca Lgbt: almeno 5 morti. Biden: "Non dobbiamo tollerare l'odio". La Repubblica il 20 Novembre 2022.

Fermato un sospetto, anche lui tra i 18 feriti. Non si conoscono le cause dell'attacco

Cinque persone sono state uccise in una sparatoria in un discoteca gay, Club Q, a Colorado Springs. Lo ha annunciato la polizia, secondo quanto riferisce la Cnn. Altre 18 persone sono rimaste ferite. Fermato un sospetto, anche lui rimasto ferito.

"La violenza delle armi da fuoco continua ad avere un impatto devastante sulle comunità Lgbtqi+ nel nostro Paese e le minacce di violenza stanno aumentando. Dobbiamo eliminare le ineguaglianze che contribuiscono alla violenza contro le persone Lgbtqi+", ha detto il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, dopo la strage in Colorado, rilanciando la necessità di bandire le armi d'assalto. "Non possiamo e non dobbiamo tollerare l'odio", ha aggiunto.

In una dichiarazione pubblicata sui social media i responsabili del locale Club Q hanno reso noto che l'aggressore è stato fermato dagli stessi avventori del locale: "Ringraziamo la veloce reazione di clienti eroici che hanno immobilizzato l'uomo armato e messo fine a questo attacco d'odio", si legge nella dichiarazione in cui i proprietari della discoteca si dicono "devastati da questo attacco senza senso contro la nostra comunità" e offrono le condoglianze ai familiari delle vittime.

La pista del crimine d'odio è quella su cui sta indagando la polizia in cerca di un movente. Intanto l'aggressore, che con un fucile ha sparato e ha ucciso 5 persone, è stato identificato nel 22enne Anderson Lee Aldrich, ora in arresto e ricoverato in ospedale per curare le ferite riportate durante l'assalto. Due avventori del locale, infatti, lo hanno affrontato e immobilizzato, fermando la sparatoria.

Il nonno del 22enne è un ex rappresentante repubblicano dell'Assemblea della California, Randy Voepel. La notizia è circolata sui media, che hanno scandagliato la vita del giovane. Randy Voepel si fece conoscere nel 2021 quando paragonò l'assalto del 6 gennaio a Capitol Hill da parte di sostenitori di Donald Trump alla battaglia di Lexington, considerata l'inizio ufficiale della guerra d'indipendenza americana tra la Gran Bretagna e le colonie. Per questo, alcuni ne chiesero l'espulsione dall'Assemblea della California.

Non è la prima volta che il giovane Aldrich viene accusato di un crimine: era già stato arrestato con l'accusa di aver minacciato la madre, Laura Voepel, con una bomba artigiale, ma la polizia non ha voluto commentare il fatto durante la conferenza stampa dopo l'assalto alla discoteca.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 22 Novembre 2022.

La strage di Colorado Springs è il caso «perfetto». In senso tragico. Un gesto terroristico dove emergono tutti i parametri degli omicidi di massa americani: la preparazione, i segnali premonitori, il target specifico, le armi. Anderson Lee Aldrich, 22 anni, per compiere l'azione ha emulato altri sparatori. Ha indossato un corpetto di foggia militare con caricatori e una pistola, ha impugnato un fucile tipo AR 15, è entrato nel locale dove ha poi aperto il fuoco.

Cinque morti, una ventina di feriti. Un raid che poteva avere molte più vittime: l'assassino è stato infatti disarmato da un paio di clienti, uno dei quali l'ha colpito con il calcio della pistola dopo avergliela sottratta. L'equipaggiamento del giovane è la prova della pianificazione, una costante per episodi come questo. 

E lo è anche un altro elemento. Nel 2021 un individuo con lo stesso nome era stato fermato dalla polizia dopo che aveva minacciato di morte la madre alludendo all'uso di una bomba rudimentale. Le autorità non hanno confermato se si tratta della stessa persona anche se è probabile che lo sia. Una vicenda conclusasi senza conseguenze serie - nessuna denuncia - ma che doveva indurre a sorvegliare un giovane con evidenti problemi.

Invece è accaduto esattamente l'opposto perché è rimasto in possesso del fucile: la legge prevede il sequestro nel caso vi siano precedenti inquietanti. È la «red flag» - bandierina rossa - che dovrebbe far scattare il divieto d'acquisto o la confisca. Essendo, però, all'inizio delle indagini dobbiamo aspettare ulteriori dettagli. I report di esperti e Fbi dedicati ai mass shooters statunitensi ripetono all'infinito che spesso i protagonisti lasciano trapelare le loro intenzioni in modo diretto oppure con comportamenti che dovrebbero richiamare l'attenzione. 

È avvenuto per il massacro simbolo - quello di Columbine, sempre in Colorado, nel 1999 - si è ripetuto in seguito decine di volte. Anche la violenza tra le pareti di casa è un «lato» ricorrente di chi poi è autore di assalti.

In queste ore gli agenti scandagliano il passato del killer alla ricerca di spunti che possano definire meglio il profilo. Modus operandi e obiettivo trasformano il gesto in un atto di terrore. E, infatti, la procura ha deciso di accusarlo di «crimine d'odio», passo giudiziario che indirizza l'inchiesta in una direzione precisa. Intanto i media hanno scritto che il nonno di Anderson è un ex parlamentare repubblicano della California. Randy Voepel - questo il nome - si fece notare un anno fa quando paragonò l'assalto al Congresso all'inizio della rivolta contro i britannici. Qualcuno ne chiese per questo l'espulsione.

DAGONEWS il 24 novembre 2022. 

Il pornostar Aaron Brink ha dichiarato di essere sollevato dalla notizia che suo figlio, Anderson Lee Aldrich, non è gay, dopo aver scoperto che il 22enne è stato accusato di aver massacrato cinque persone e ferito altre 18 in una sparatoria di massa al Club Q, un locale gay in Colorado. 

Il padre di Aldrich, come prima cosa, si è preoccupato di accertarsi che il figlio non fosse gay, in quanto l'essere omosessuale "non era in linea con i loro valori religiosi".

Nei documenti del tribunale depositati martedì, gli avvocati di Aldrich, che ha cambiato il suo nome da Nicholas Franklin Brink nel 2016 per sfuggire al passato del padre, hanno detto che il ragazzo si identifica come non-binario. 

Aldrich ha aperto il fuoco al Club Q poco prima della mezzanotte del 19 novembre, prima di essere atterrato da due passanti. È stato inizialmente ricoverato in ospedale, ma martedì è stato trasferito al carcere della contea di El Paso. I parenti di Aldrich, che desiderano rimanere anonimi hanno dichiarato al Daily Beast di essere "totalmente disgustati". 

Allo stesso tempo, Brink, che si sta disintossicando dalla metanfetamina, ha "elogiato il comportamento violento del figlio". L'anno scorso, Aldrich era stato arrestato per aver minacciato di far esplodere la casa di Colorado Springs dove viveva sua madre.

Le accuse sono state poi ritirate.

Ciò significa che non sono scattate le "red flag" che avrebbero permesso alle autorità di sequestrare le armi di Aldrich. Si ritiene, infatti, che il fucile utilizzato durante la sparatoria al Club Q sia stato acquistato legalmente, secondo quanto riportato da Good Morning America. Brink, che alla fine degli anni Novanta ha scontato una pena detentiva federale per importazione di marijuana, ha dichiarato di amare ancora suo figlio nonostante le accuse.

Vendicarsi ovunque: la nuova strategia Usa contro il terrore. Lorenzo Vita il 14 agosto 2022 su Inside Over.  

Da gendarmi del mondo a “esecutori” del mondo, gli Stati Uniti hanno da tempo varato una precisa politica strategica che si basa sul colpire i nemici decapitando le organizzazioni terroristiche. L’ultimo colpo, quello che ha portato all’uccisione di Ayman al-Zawahiri, è un segnale preciso. L’intelligence americana, nonostante il ritiro dall’Afghanistan avvenuto l’anno scorso, hanno seguito le tracce, hanno individuato l’obiettivo e hanno colpito non in un’area remota del Paese, ma addirittura a Kabul, nel cuore dell’Emirato islamico a guida talebana. Un’uccisione che dice almeno due cose. La prima, che Al-Zawahiri era nella capitale afghana e si sentiva protetto dalla leadership dell’Emirato, considerato che la casa era di un uomo legato alla rete Haqqani. La seconda, che gli Stati Uniti possiedono ancora una rete di intelligence adeguata alle mutate esigenze Usa nel Paese, al punto da riuscire a colpire l’ideologo di al-Qaeda con un drone.

È proprio da questo secondo punto che bisogna partire per comprendere come l’azione di Washington abbia un significato ben più profondo rispetto a quello della “sola” decapitazione dell’organizzazione terroristica. Perché seguire, localizzare e infine uccidere un avversario circondato per anni da un fitto alone di mistero indica che l’intelligence statunitense ha svolto un lavoro complesso che si è basato anche su una rete di infiltrati e collaboratori all’interno dell’Afghanistan, e probabilmente della stessa rete più vicina al medico egiziano. Qualcuno sospetta che dietro l’ordine finale di dare il via all’operazione vi sia stato un tradimento. Forse un gioco di faide, vendette trasversali, regolamenti di conti tra vecchi nemici accomunati solo dall’odio nei confronti dell’America ma ben divisi sull’equilibrio di potere interno all’Emirato islamico. Washington probabilmente ha saputo sfruttare al meglio queste divisioni per infliggere il colpo: forse, come spiega Guido Olimpio sul Corriere, anche all’interno di un negoziato con gli stessi talebani e alcuni segmenti del potere degli studenti coranici desiderosi di “vendere” l’uomo di Al Qaeda per ottenere qualcosa in cambio. Quello che in ogni caso è certo è che la Cia, e con essa tutto l’apparato Usa che ha contribuito all’eliminazione di Al-Zawahiri, ha centrato l’obiettivo non solo fisico, ma anche politico: far capire che quanto accade a Kabul non è estraneo alle logiche americane. E che i nemici di Washington, prima o poi, saldano il conto.

La metodologia è la stessa applicata con altri nemici giurati del governo americano. Accomunando in questo senso tutte le amministrazioni Usa, siano esse democratiche che repubblicane. Barack Obama portò come trofeo di caccia la morte di Osama bin Laden. Donald Trump fece uccidere il generale iraniano Qasem Soleimani mentre era in Iraq e del califfo dello Stato islamico Abu Bakr al-Baghdadi in Siria. Poi, con l’avvento di Joe Biden, sono arrivate la morte Abu Ibrahim al-Hashemi al-Qurashi, di Abu Hamzah al Yemeni, leader del gruppo Hurras al Din (legato ad Al-Qaeda), e la cattura di Ahmed al-Kurdi, noto come Salim, altro uomo-chiave del terrorismo islamico in Siria. Segnali non diversi sono arrivati anche dopo il ritiro Usa da Kabul, quando il presidente dem annunciò che Washington si sarebbe vendicata dell’Is-K in Afghanistan dopo l’attentato all’aeroporto della capitale. Dopo quell’annuncio, un drone Usa uccide uno dei pianificatori dell’attacco scovandolo nella provincia di Nangarhar, a est del Paese. Dalla Siria all’Afghanistan, dunque, l’avvertimento Usa è quello che la capacità di colpire non viene mai rimossa. Washington sa dove colpire, utilizzando una rete di intelligence che appare ancora adeguata alle proprie aspettative. Ed è un segnale anche per chi ritiene che il ritiro dalle “guerre infinite” si traduca in un disimpegno totale rispetto al Paese coinvolto da quei conflitti.

Stati Uniti, capitano dell’Air Force ricompare dopo 35 anni: non sopportava la divisa. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022. 

William Hughes era un capitano dell’Air Force che trattava dossier secretati. Scomparve nel 1983 e alcuni pensarono che fosse una spia sovietica. Invece è ricomparso in California: aveva solo cambiato nome

Daly City, California. I vicini di casa descrivono Barry O’Beirne come un uomo tranquillo, gioviale, lesto nel rispondere al saluto. I colleghi di lavoro suonano la stessa musica: un tipo in gamba, pronto alla battuta. Nessuno di loro ha mai immaginato che il simpatico Barry nascondesse una storia intrigante, il cui primo capitolo parte durante la Guerra Fredda nell’estate dell’83.

Barry, all’epoca, non è ancora Barry, bensì William Hughes, nato nel 1950, capitano dell’Air Force, esperto di missili, autorizzato a trattare programmi Nato al più alto livello di segretezza. È distaccato nella base di Kirtland, zona di Albuquerque, in New Messico, e qui deve rientrare l’1 agosto dopo una missione tecnica in Olanda. Attendono invano perché non si presenta al comando. Lasciano passare alcuni giorni, poi danno l’allarme. Vanno a casa sua e trovano solo una lista di cose da fare, qualche libro, scoprono che ha lasciato l’auto all’aeroporto. Dalle verifiche in banca risulta che ha ritirato dal conto circa 29 mila dollari. I parenti sono sorpresi quanto i commilitoni: non è da lui, giurano.

Il Pentagono, seguendo le disposizioni, lo dichiara disertore. Le indagini guardano vicino e lontano, cercano appigli. Visti i suoi compiti e considerata l’epoca spunta l’ipotesi dello spionaggio. L’ufficiale sa molto, è stato impegnato in progetti riservati, potrebbe aver deciso di passare dall’altra parte, ovvero con i sovietici. Non sarebbe il primo e neppure l’ultimo.

Il silenzio su questo caso misterioso è spaccato da un articolo nel 1986 dove accostano il fuggitivo ad una serie di incidenti, esplosioni a bordo di vettori, compreso lo shuttle. Fonti anonime insinuano azioni di sabotaggio con un possibile ruolo dell’ufficiale. Ma in che modo? Come avrebbe fatto a portare avanti il piano? La teoria non va oltre, al tempo stesso le sparizioni strane di militari o di aerei sono il terreno fertile per far crescere qualsiasi ipotesi. Il Sud Ovest dell’America, con i suoi spazi senza confini, è lo scenario perfetto. C’è chi cerca miniere «perdute», bottini di pistoleri, lingotti d’oro sepolti in un vecchio accampamento nel deserto, relitti di velivoli. Ma nella vicenda del capitano Hughes non ci sono mappe con la X e neppure codici da decifrare, non esiste alcuna pista concreta. E non sarebbe emersa se non avesse deciso lui di uscire allo scoperto. Una mossa che apre il secondo capitolo del «romanzo» ben raccontato dal Sfgate.com che ha deciso di rilanciare la vecchia storia con una inchiesta.

Nei primi giorni di giugno del 2018 i servizi di sicurezza del Dipartimento di Stato indagano su una richiesta anomala di passaporto fatta da un cittadino residente a Daly City, vicino a San Francisco. I dati forniti non tornano, gli agenti interrogano l’uomo che si è presentato con l’identità di Barry O’Obeirne. Non resiste, confessa di essere il disertore e spiega il suo gesto: era depresso, non resisteva alla pressione della vita in divisa. Ha sempre abitato in località della California, comportandosi da buon cittadino e si è sposato. Non ha neppure cercato di cambiare aspetto, la pettinatura è identica. Ma non è la «fine» che uno si aspetta. Se era stanco dell’Air Force – notano – poteva dare le dimissioni senza rischiare una condanna e lasciare la famiglia nell’angoscia. È questo ciò che è accaduto? Esiste altro nel suo passato? I giornali non speculano, si pongono delle domande riprese da siti specializzati. Vorrebbero capire di più, indecisi tra scetticismo e l’ammissione che a volte la conclusione può essere normale. Con una coda triste. La moglie ha presentato una richiesta di divorzio dopo l’arresto, come se si fosse sentita tradita. Probabile che neppure lei sapesse chi fosse Barry.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2022. 

Leonard il grasso è scappato. Ma più che una fuga è sembrato un trasloco. Perché i vicini di casa hanno notato nei giorni precedenti un via vai di camion di una ditta di trasporti. Accade a San Diego e al centro c'è una figura ingombrante, in tutti i sensi. 

Il suo nome completo è Leonard Glenn Francis, fisico massiccio, intraprendente uomo d'affari malese, capace di fare milioni corrompendo ammiragli e ufficiali dell'Us Navy nel Pacifico. Se li è comprati per ottenere informazioni riservate, favori, dritte necessarie ad alimentare la sua occupazione di fornitore della Marina americana.

Doveva provvedere a cibo, acqua, scorte, carburante per sottomarini e navi che gettavano l'ancora in una regione strategica. Già così era un affare, la società basata a Singapore aveva buoni guadagni, però non gli bastavano e ha messo in piedi un vero sistema. 

Per ingraziarsi gli alti gradi non ha badato a spese, molto sfrontato, con la passione per gli eccessi e generoso con chi gli serviva. Borse di Gucci alle consorti, biglietti per i concerti di Lady Gaga, feste e festini, viaggi, sigari cubani e naturalmente prostitute con le quali ammorbidire i «clienti». Lui ha ammesso di aver offerto 500 mila dollari a un ufficiale, ma in realtà il giro della storia ammonta a 35 milioni di dollari, grazie a sovraprezzi e altre «scorciatoie».

Tanto il conto lo pagava il Pentagono. Leonard è stato beccato dopo che la moglie di un comandante, amico dell'imprenditore, sospettando che il marito la tradisse lo ha messo alle strette. Ne è nata una lite coniugale furiosa seguita da un'inchiesta interna della Navy che ha aperto la breccia. 

Carte, email, documenti hanno rappresentato le prove. Era il 2013. A quel punto Leonard, che aveva buone fonti ed è stato informato della tempesta in arrivo, ha provato a manovrare. Ormai era troppo tardi.

Lo hanno inchiodato con una trappola scattata a San Diego. L'uomo che ha sedotto la Settima Flotta - titolo del Washington Post - ha fatto l'ennesima virata accettando di collaborare con la Giustizia e ha fornito spunti investigativi che hanno avuto conseguenze sulla gerarchia marinara. 

Anche se non mancano i sospetti di trattamenti di favore. Francis, dopo essersi riconosciuto colpevole, doveva affrontare la sentenza fissata per il 22 settembre. Per questo indossava il braccialetto elettronico con GPS e aspettava il giorno del giudizio nella sua abitazione californiana. Situazione facile, visto che non c'era alcuna sorveglianza esterna. Eppure la magistratura aveva espresso preoccupazioni ritenendo che fosse concreto il rischio di un allontanamento. Gli inquirenti non si fidavano degli avvocati che parlavano di condizioni di salute precarie.

Leonard è stato però paziente e così, come spesso ha fatto nella sua vita, ha colto l'attimo. Si è liberato dell'apparato elettronico, se ne è andato lesto. Ipotizzano che abbia varcato il confine sud, distante appena 40 minuti, per raggiungere un nascondiglio messicano e per questo hanno passato la segnalazione alle autorità. Ma non escludono altre mete, più lontane, dove è difficile rintracciarlo. Leonard il grasso è uomo di risorse, avrà di sicuro pensato a tutto. La logistica, del resto, è il suo mestiere.

Dagotraduzione dal Washington Post il 31 maggio 2022.

Quando era piccola, nel giorno del Memorial Day Deana Martorella Orellana viaggiava fino al Muro dell'Onore nel centro della sua città natale, dove i nomi dei soldati morti sui campi di battaglia nel mondo vengono nel granito nero. 

Quest’anno la sua famiglia farà quel viaggio senza di lei. 

È morta con alcune citazioni infilate nelle sue tasche. Quella mattina di marzo del 2016, era andata al Veterans Affairs e aveva chiesto un consulto. 

Non poteva parlare con la sua famiglia di come la sua missione in Afghanistan l’avesse cambiata - e sì, l'ha cambiata, hanno detto tutti - servendo in una squadra femminile laggiù. 

«Ne ha parlato con una delle sue sorelle e ha detto che poteva sopportare tutto tranne i bambini», ha raccontato Laurie Martorella, la mamma di Deana. «Qualcosa nei bambini l'ha davvero colpita».

E tenere tutto dentro la faceva stare male. 

«Nessuno parla di salute mentale», ha detto Laurie. «Se lo fai, sei debole, stai assumendo farmaci, potresti influenzare i guadagni futuri, potrebbe esserci uno stigma». 

Deana si è sparata all'età di 28 anni con una pistola calibro .45, aggiungendosi al numero crescente di donne militari che si tolgono la vita. 

Anche il Memorial Day parla di queste guerriere.

Dal giorno degli attentati alle Torri Gemelle, il suicidio è diventato il principale motivo di morte del personale statunitense. La Brown University ha calcolato che da allora si sono ammazzate più di 30.000 militari. Nello stesso periodo, sono morti 7.000 soldati in combattimento o in esercitazione. 

Il suicidio nella comunità militare ha raggiunto il tasso più alto dal 1938, secondo un rapporto del Dipartimento della Difesa pubblicato il mese scorso. 

Le vittime sono sempre più donne. 

Secondo i dati del Dipartimento della Difesa, nel 2020 le donne hanno rappresentato il 7% dei suicidi militari, rispetto al 4% di un decennio prima. Circa un membro del servizio su sei è di sesso femminile.

I rapporti suddividono i decessi per sesso, età e ramo, ma difficilmente affrontano il drammatico aumento tra le donne. 

La storia di Deana è stata descritta in 22 Too Many, un progetto in onore dei circa 22 suicidi militari che accadono ogni giorno. 

Il mese scorso, tre marinai della portaerei USS George Washington di stanza a Norfolk si sono suicidati in meno di una settimana. Uno di loro era l'elettricista Natasha Huffman. 

La natura stessa del business della guerra fa ben poco per scoraggiare questa calamità per la salute mentale.

«Le donne che si trovano in questi ambienti dominati dagli uomini nell'esercito sono addestrate per essere forti, per farcela», ha detto Melissa Dichter, professoressa associata alla School of Social Work della Temple University che quest'anno ha pubblicato un rapporto sul suicidio delle donne tra i militari. 

Quando le donne entrano in crisi con la salute mentale, in particolare con il disturbo da stress post-traumatico, lavorano di più. 

Quando le donne veterane cercano di trovare sostegno nel mondo civile, le loro storie di guerra, corpi e bombe non sono materia di legame, ha scoperto Dichter. I gruppi di supporto, dagli incontri ufficiali al VA a quelli non ufficiali al VFW, sono feste del testosterone.

Dichter ha analizzato più di un milione di chiamate anonime alla Veteran Crisis Line per il suo rapporto. Secondo il suo studio, circa il 53% delle donne che hanno chiamato la linea erano a rischio di suicidio, rispetto al 41% degli uomini. 

Molte hanno avuto storie di disturbo da stress post-traumatico e traumi da combattimento. Ma Dichter ha trovato una differenza fondamentale: mentre gli uomini avevano maggiori probabilità di lottare con l'abuso di sostanze e la dipendenza, la maggior parte delle donne chiamava per problemi con il partner intimo o per violenza sessuale.

Questo è stato ciò che alla fine ha spinto Taniki Richard a tentare di uccidersi: il trauma del combattimento e un'aggressione sessuale che non ha mai denunciato. 

«Quando sono tornato dall'Iraq, ho iniziato ad avere incubi di essere violentata, e poi di essere sull'aereo», hanno detto la mamma e il marine in pensione di Chesapeake, Virginia, in un video su Yahoo. 

«Un giorno, è diventato semplicemente troppo. Ero sottoposta a così tanto stress e dolore estremi che volevo solo che finisse», ha detto, quindi si è schiantata l'auto contro un palo della luce fuori da una stazione aerea del Corpo dei Marines nella Carolina del Nord, «nel tentativo di porre fine alla mia vita».

Taniki è sopravvissuta. E andata in terapia, e ha compreso che i suoi incubi non riguardavano solo la notte in Iraq quando il suo elicottero era sotto tiro. Si è resa conto che tra i suoi compagni guerrieri - la famiglia che i militari erano diventati per lei - c'era il suo stupratore. Ora lavora con il Wounded Warrior Project e racconta la sua storia in discorsi e podcast per aiutare altre donne sopravvissute all'aggressione. 

Le donne nell'esercito hanno a che fare con PTSD, isolamento e un'esperienza così comune da avere un proprio acronimo militare: MST, Military Sexual Trauma.

È una forma di abuso straordinariamente sinistra. Non è come un'aggressione da parte di uno sconosciuto o un appuntamento malvagio. I compagni guerrieri dovrebbero essere quelli che ti danno le spalle in battaglia. L'unità consiste nel sostenersi a vicenda. Immagina il pericolo e l'insicurezza che proverebbe qualsiasi soldato quando viene attaccato dai propri compagni. È un tema comune tra le donne che chiedono aiuto. 

«Nelle violenze sessuali del partner intimo le donne spesso si sentono bloccate, è difficile trovare una via d'uscita, vedere una via d'uscita», ha affermato Dichter, la cui ricerca ha incluso l'intervista a sopravvissuti ad aggressioni sessuali nell'esercito che lottano con la dualità degli aggressori come colleghi.

Il suo lavoro sta mostrando ai militari quanto sia vasta e sfregiata la loro epidemia di aggressioni sessuali. E quanto sia importante per le donne che lasciano l'esercito trovare supporto nel mondo civile, che si tratti di MTA, PTSD o entrambi. 

Dopo aver tolto la corona, Barber ha continuato il suo lavoro come CEO del Service Women's Action Network, un potente gruppo con sede a Washington che fa lobby per conto delle donne militari e le collega a gruppi di supporto. 

La famiglia di Deana vuole continuare a raccontare la sua storia, per far sentire meno sole le donne che hanno vissuto la storia della figlia.  Raccontano la sua storia, dicono il suo nome, hanno creato una borsa di studio in suo onore. 

E questa settimana andranno su quel muro di granito nero nella sua città natale in Pennsylvania. Il nome del nonno di Deana è lì. Ora, c’è anche il suo.

Armi fantasma e ondata di violenze: cosa succede nell’America di Biden. Matteo Muzio su Insdei over il 18 aprile 2022.

Le scorgiamo tra gli ultimi aggiornamenti, distrattamente. Le notizie sulle sparatorie statunitensi ormai raramente rimangono impresse nell’immaginario collettivo. L’ultima, avvenuta nella metropolitana di New York, è rimasta per qualche ora. Del resto, una sparatoria nella metropolitana, con tanto di fumogeni, faceva presagire il peggio. Per fortuna ci sono stati soltanto dei feriti e nessuna vittima. Proprio a New York però, qualche giorno prima, una vittima c’è stata. Sarebbe banale e riduttivo dire che è stata colpa delle permissive leggi sulle armi, che per inciso nello Stato e ancor di più nella città di New York sono piuttosto restrittive. La pistola utilizzata dal diciassettenne Jeremiah Ryan per uccidere la sedicenne Angellyh Yambo non sarebbe dovuta esistere. Perché è una cosiddetta “ghost gun”, un’arma fabbricata con una stampante 3S, senza il numero di matricola, irrintracciabile dalle forze dell’ordine. E non si è trattato di un caso isolato.

L’aumento dell’insicurezza

Anzi, dall’inizio dell’anno sono aumentate le violenze: 290 sparatorie contro le 236 dello scorso anno nel primo trimestre del 2022. Un brusco rialzo, in parte dettato anche dall’affievolirsi della pandemia. Non dimentichiamo che negli Stati Uniti il 2020 è stato l’anno della morte di George Floyd, ucciso da un agente a Minneapolis nel maggio 2020 e della conseguente demonizzazione delle forze dell’ordine da parte della sinistra democratica con lo slogan elettoralmente nefasto “Defund the Police”, prontamente respinto dall’allora candidato Joe Biden.

Successivamente a quell’evento, c’è stato un aumento dei crimini che ha portato a un diffuso senso di insicurezza culminato con l’aumento del 30% del numero di omicidi, che hanno avuto il loro epicentro nelle grandi città. A New York nel 2021 il tasso di criminalità era aumentato del 5% rispetto all’anno precedente mentre nel 2022 il primo trimestre ha visto un impressionante aumento del 38,5% del numero complessivo dei reati. Questo clima di spavento, dove si ipotizza che New York sia nuovamente pericolosa come negli anni ’70, spiega così anche la piattaforma securitaria con la quale è stato eletto il sindaco Eric Adams. Quest’ultimo ha lanciato un piano per la sicurezza per combattere quest’ondata il 5 marzo scorso: prematuro dire se questo ha avuto già degli effetti. Nel frattemo resta centrale il tema delle armi fantasma. Cosa sono queste strane pistole componibili chiamate ghost guns? Sono delle armi componibili costituite con materiale plastico. Basta fare un giro su Google e si trovano siti che le vendono con estrema facilità. Provare per credere.

Il problema delle pistole fantasma

Secondo la policy dell’Ufficio Federale dell’Alcool, Tabacco, Armi da Fuoco ed Esplosivi (ATF), non è illegale costruirsi un’arma. Tutto questo però potrebbe cambiare rapidamente: i dati sono impietosi. Nel 2021 sono state sequestrate ben 21mila armi di questo tipo, un aumento di dieci volte rispetto al 2016, quando vennero raccolte circa 2 mila pistole. Non solo: negli ultimi 18 mesi sulle scene del crimine si sono spesso rinvenute proprio questo tipo di pistola.

L’11 aprile scorso Joe Biden ha chiesto di cambiare quella singola regola, dopo che sia il sindaco Adams sia il senatore Chuck Schumer, leader democratico al Senato, hanno chiesto alla Casa Bianca di intervenire su questo cavillo che, nel 2013 consentì a John Zawahri di aprire il fuoco con un fac simile del fucile d’assalto AR 15 in California, al Santa Monica College, uccidendo sei persone, dopo che un negozio d’armi gli aveva rifiutato la vendita per i suoi precedenti.

Biden nel corso del suo annuncio ha spiegato che il dipartimento di Giustizia starebbe cercando finalmente di inserire i componenti tra l’elenco delle armi propriamente dette e che al vertice dell’Atf andrà un ex procuratore federale, Steve Dettelbach, dopo che la prima scelta, l’ex agente dell’Atf David Chipman è stato ritirato da Biden a causa dei voti insufficienti al Senato.

Le insidie per Biden

Ci sono però diversi scettici sull’efficacia di questa azione. Intanto perché anche l’approvazione di Dettelbach è a rischio. Il blogger conservatore Erick Erickson lo ha definito “un complottista elettorale” per aver affermato che le elezioni presidenziali del 2016 in Ohio sono state “non corrette”. In più un’associazione conservatrice, la Gun Owners of America, ha annunciato battaglia.

In un momento di ampia sfiducia dei confronti della Casa Bianca di Joe Biden ogni azione della presidenza presenta dei rischi. Se ad esempio l’ex vice di Obama dovesse fallire nell’intento di frenare quella che è stata definita “un’epidemia” di morti dovute a queste armi artigianali, rischierebbe di perdere una fetta del sostegno garantito dai progressisti, che da anni chiedono maggiore regolamentazione. In più a rendere tutto ancora più complesso sono le decine si “sconfitte” giuridiche maturate dai liberal nelle Corti Federali in mano a una maggioranza di giuristi conservatori.

Non da ultimo bisogna ricordare che uno degli argomenti che sicuramente verranno utilizzati dai repubblicani per la campagna elettorale delle elezioni di metà mandato del prossimo 8 novembre saà: “Dove governano i democratici non c’è sicurezza”. E i casi succitati, avvenuti nella New York governata per otto anni dal democratico progressista Bill De Blasio, sicuramente fanno gioco alla narrativa dei conservatori.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

Luca Benedetti per “il Messaggero” l'8 marzo 2022.

A Chicago la vita può valere appena un pacchetto di sigarette. Quelle che Keante McShan, 18 anni, ha comprato con la carta di credito di Diego Damis, 41 anni, barista perugino, che il ragazzino di colore aveva ammazzato per strada da neanche mezz' ora. L'omicidio, per scopo di rapina, il 25 febbraio. 

L'altro giorno l'arresto da parte della polizia di Chicago del ragazzino che va in giro con la felpa dei New York Yankees (baseball) e che si è tenuto in casa il coltello con cui ha ucciso Diego e il portafoglio dell'italiano partito da Perugia sette anni fa per l'Illinois.

McShan è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza di una stazione di servizio della Bp, ha usato la carta di credito di Diego a S. Lake Park Avenue, qualche isolato di distanza da Kenwood, il quartier bene dove vivono gli Obama e dove Diego è stato ucciso. 

Lì il ragazzino di colore stava cercando di scassinare qualche auto di lusso quando, per caso, ha incrociato l'italiano. Niente bottino dalle auto, il suo obiettivo, allora, è subito diventato Diego che aveva appena finito il suo turno al The Cove Lounge, nella zona di Hyde Park. È l'alba di venerdì 25 febbraio, Diego percorre il blocco 4900 di South Greenwood Avenue e incrocia lo sguardo con il suo assassino. Preso com' è da una partita a scacchi al telefonino con un amico non ci fa caso, non si preoccupa.

Non si è accorto che l'altro aveva puntato alle auto. Il racconto lo fa via Whatsapp da Chicago, Laura, una delle sorelle di Diego, partita da Perugia subito dopo l'omicidio: «Mio fratello si è trovato nel momento sbagliato nel posto sbagliatissimo. Quello è un quartiere ricco. Quello stava cercando di rubare sulle auto. 

Ma evidentemente non ha trovato nulla di valore. È tornato indietro e ha aggredito Diego accoltellandolo più volte. Gli ha preso il portafoglio. Diego aveva indosso il passaporto. Nel portafoglio c'era una carta di credito che quel ragazzo ha usato per comprare le sigarette mezz' ora dopo in una stazione di servizio. Le immagini lo fanno vedere bene, non aveva la mascherina e c'era una buona illuminazione che ha aiutato le riprese. Poi ha usato anche la tessera della metro. È andato a casa si è cambiato. Una volta che lo hanno individuato con le telecamere, i poliziotti hanno ricostruito tutto, dall'aggressione fino all'acquisto delle sigarette. A quel punto la polizia ha avuto il mandato per entrare in casa. 

Lì hanno trovato tutto. I vestiti che indossava quel giorno all'alba, il portafoglio e il coltello dell'aggressione. Ecco come lo hanno preso. Ha 18 anni, un padre, e viene considerato un tipo molto pericoloso». Diego è morto al Chicago Medical Center un'ora dopo l'agguato. Il ragazzino che uccide per niente ama il football americano, il baseball, ha frequentato la Paul Robeson High School e ora è in carcere con l'accusa più pesante, quella di omicidio di primo grado a cui l'ha inchiodato il giudice Kelly Marie McCarthy.

Keante McShan quella mattina portava una borsa a tracolla. Simile a quella che la fidanzata portava quando è rincasata e ha trovato la polizia che stava arrestando Keante poco dopo l'ora di pranzo nell'isolato 6700 del Sud Ridgeland Ave. Un altro pezzo di prova pesante. Diego è stato ucciso a due isolati da casa. Sette anni fa aveva lasciato Bagnaia, piccola frazione perugina, per inseguire il sogno americano. Ieri a Chicago, la Comunità degli italiani all'estero ha ricordato Diego.

C'erano i fratelli, c'era la mamma. E vicino alla bandiera dell'Italia e degli Stati Uniti, c'era anche quella della Regione Umbria. «È stata una cerimonia bellissima - racconta la sorella Laura con accanto l'altro fratello, Andrea- toccante. Hanno voluto mettere una foto di Diego con quella delle Frecce Tricolori. Non ci hanno lasciati soli un attimo. Sempre presenti, sempre accanto a noi. Abbiamo trovato un'altra famiglia».

Laura torna indietro di qualche ora, quando la polizia li ha chiamati per dire che avevano preso l'assassino di Diego: «Il primo pensiero che ho avuto, quando ho saputo di Diego, è stato quello di dare una faccia a chi era stato. Che sia un ragazzino di 18 anni non ci cambia nulla perché è un assassino e basta. Per fortuna, il fatto che sia maggiorenne ci ha facilitato le cose, visto che qui, ci ha detto la polizia, la maggior parte dei delitti, li compiono ragazzi dai 16 ai 18 anni. Certo a noi non cambia nulla».

Le Armi. Costa il 2,6% del Pil. Quanto costano le armi agli americani: ogni anno in fumo 557 miliardi di dollari. Sergio D'Elia su Il Riformista il 7 Ottobre 2022 

Radio radicale è un pozzo di conoscenza. Cercare nel suo archivio, ascoltare le sue rubriche e le sue dirette integrali, è come andare a scuola, un’alta scuola popolare di formazione politica e civile. Così l’ha pensata e fondata Marco Pannella. L’ultima Rassegna di Geopolitica di Lorenzo Rendi ha dato un contributo straordinario al sapere quel che può accadere quando scopi giusti sono perseguiti con mezzi sbagliati. L’eterogenesi dei fini non è un mero incidente, è spesso un destino del nostro modo di agire. Le conseguenze e gli effetti secondari possono essere tali da modificare tragicamente gli scopi originari delle nostre azioni.

Lorenzo Rendi ha dato conto di uno studio di Everytown for Gun Safety Support Fund sui “costi economici della violenza armata negli Stati Uniti”. Secondo questa grande organizzazione americana di prevenzione della violenza armata che unisce anche i sopravvissuti e le famiglie delle vittime, ogni anno, le armi da fuoco uccidono in media 40.000 persone, ne feriscono il doppio con una conseguenza economica per la nazione di 557 miliardi di dollari, pari al 2,6 per cento del prodotto interno lordo. Questo problema miliardario della violenza armata per le casse degli Stati e per i contribuenti americani include: i costi immediati che iniziano sulla scena di una sparatoria, come indagini di polizia e cure mediche; i costi successivi, come cure, assistenza sanitaria fisica e mentale a lungo termine, guadagni persi a causa di invalidità o morte e spese di giustizia penale; le stime dei costi della qualità della vita persa nel corso del tempo per il dolore e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie.

L’analisi evidenzia che Stati con leggi severe sulla sicurezza delle armi hanno un costo annuale inferiore per la violenza armata rispetto agli Stati con leggi permissive sulle armi. La storia americana è iniziata con la Bibbia e il fucile. L’antico testo ha ispirato l’idea di giustizia: occhio per occhio. L’arma da fuoco ha ispirato l’idea di sicurezza: un cittadino, un’arma. Le “armi legittime” dello Stato, pene di morte e pene fino alla morte, non hanno fatto diminuire i reati. Le armi costituzionali di prevenzione e tutela personale non hanno garantito la sicurezza. Anzi, prevenire è stato peggio che punire. La libera circolazione delle armi ha minato l’ordine, la sicurezza e la pace sociali negli Stati Uniti. La società “legge e ordine”, il potere politico nato dalla canna del fucile per neutralizzare i delitti di sangue, per tragico paradosso, ha conosciuto la realtà dell’omicidio come crimine praticato con frequenza maggiore rispetto al resto del mondo.

È sempre una questione di cattivi pensieri. Il pensiero maligno della giustizia biblica ha generato la realtà maligna della “striscia della Bibbia” che coincide con quella della pena di morte. L’ossessione della sicurezza ha alimentato quel complesso militare-industriale che il generale Ike Eisenhower, Presidente degli Stati Uniti, già nel 1961, denunciava come un pericolo mortale per l’umanità, e per la stessa America. È la maledizione dei mezzi che prefigurano i fini. Sul viatico manicheo di pena capitale e di “legge e ordine” anche uno Stato democratico può generare Caini o diventare esso stesso Caino! È ora di cambiare paradigma, di adottare un modo di pensare, di sentire e di agire radicalmente nonviolento.

Fare leva sulla forza della parola e del dialogo, della speranza e, innanzitutto, dell’amore che è il principio attivo della nonviolenza. Perché la vittoria decisiva non consiste nell’abbattere fisicamente o umiliare moralmente il nemico, ma nel con-vincere, vincere con, trasferire al potere assassino e all’ordine costituito sul delitto, la forza dello Stato di Diritto e l’amore per lo stato della vita. Il paradigma meccanicistico secondo il quale “al male, si risponde con il male”, a ben vedere, non corrisponde alla realtà dell’universo e all’ordine naturale delle cose, il quale non tollera confini chiusi, separazioni; al contrario, ama le relazioni, le interdipendenze, l’armonia di una vita eraclitea nella quale «tutto scorre come un fiume e non ci si bagna mai nella stessa acqua».

Quale spreco di energia nell’essere “diabolici”, nel separare, nel porre in mezzo ostacoli! Ascoltiamo la voce di fondo dell’universo, assecondiamo il principio d’ordine da cui tutto origina e a cui tutto tende. È un ordine “religioso”, che unisce, tiene insieme cose e vite diverse. Parlare al male con il linguaggio del bene, all’odio con il linguaggio dell’amore, alla forza bruta della violenza con la forza gentile della nonviolenza. Questo vuol dire “Nessuno tocchi Caino”! E non riguarda solo la pena di morte, la pena fino alla morte o la morte per pena. La missione è politica, ecologica, universale. Riguarda la vita del diritto e il diritto alla vita. Vuol dire vivere nel modo e nel senso in cui vuoi vadano le cose. Essere speranza contro ogni speranza. Sergio D'Elia

Azienda di armi Remington risarcisce vittime strage di Sandy Hook. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.  

È la prima volta che accade: l’azienda verserà 73 milioni di dollari. Nella strage morirono 26 persone. Il commento di Biden: «I produttori siano responsabili» 

Joe Biden ha parlato di accordo storico e probabilmente non ha torto. La Remington ha accettato di versare 73 milioni di dollari a 9 famiglie dei bimbi uccisi nella scuola di Sandy Hook, nel 2012. Il 12 dicembre di quell’anno, Adam Lanza, un ventenne con seri problemi mentali, uccide la madre Nancy e poi si introduce nell’istituto che aveva frequentato. In pochi istanti falcia 26 persone, in gran parte studenti delle elementari, quindi si toglie la vita. In cinque minuti spara 154 colpi. Un’azione letale dove il killer usa un fucile Bushmaster prodotto dalla Remington. Un modus operandi visto decine di volte nei licei e nelle università statunitensi trasformate in gallerie di tiro da persone instabili o folli.

I parenti dei bambini hanno accusato la Remington di aver fatto pubblicità e messo in vendita un prodotto che aveva le caratteristiche di un’arma da guerra, un «pezzo» che non doveva essere offerto sul mercato civile. Una tesi respinta dalla difesa della compagnia che però alla fine ha dovuto arrendersi. Una conclusione salutata positivamente dalle associazioni che si battono per maggiori controlli e dalla stessa Casa Bianca.

La tragedia di Sandy Hook, a Newtown, nel Connecticut racchiude tutti gli aspetti di una minaccia a volte più seria del terrorismo: quella rappresentata dagli sparatori su ampia scala, i mass shooter. Adam, nonostante i guai personali, ha sempre rifiutato le cure e la madre ha assecondato la passione per le armi. Lei stessa, per paura di perderlo, ha evitato di assumere una linea decisa in favore di un ricovero coatto. Pensava di poterlo assistere da sola e meditava di cambiare città. Il giovane, in uno stato di autoreclusione, passava ore ai videogiochi e spesso rimaneva chiuso nella sua stanza al buio, rifiutando contatti diretti.

In quell’ambiente ristretto conduceva ricerche su altri responsabili di massacri, teneva il conto delle vittime, aveva messo a punto un suo archivio su una lunga serie di episodi violenti. E, purtroppo, aveva accesso ad un piccolo arsenale, con un paio di pistole, un fucile a pompa, un altro con calibro 22 e molte munizioni. Una deriva progressiva che lo ha portato a trasformarsi in carnefice di piccoli innocenti.

Al dolore delle famiglie si è aggiunta anche la disperazione per le folli teorie cospirative, sostenute da ambienti dell’estrema destra, tendenti a negare l’esistenza dell’eccidio. Per alcuni era un «piano» dell’amministrazione Obama per porre restrizioni al possesso e alla vendita di armi. Non è chiaro cosa abbia innescato Adam Lanza, la polizia non ha individuato un movente preciso e lui ha distrutto in modo meticoloso il suo computer in modo che non potessero ricavarne dati. Una delle ipotesi è che il progetto di Nancy — divorziata da tempo dal padre dell’assassino — di lasciare Newtown per trasferirsi all’Ovest possa aver scatenato l’esplosione finale. 

C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA. Quel fratello di Al Capone che sparì, cambiò nome e diventò agente federale. Vincenzo si faceva chiamare Richard Hart. Sbarcò in Nebraska. E diventò un tutore della legge modello nella lotta al contrabbando. Ma non ruppe del tutto i ponti con i malavitosi di famiglia. Luciana Grosso su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Al Capone, il gangster più gangster di sempre, probabilmente, neppure sapeva dell’esistenza di Homer, una minuscola e sperduta città di meno di 500 abitanti, tutti contadini e tutti poveri, in Nebraska.

Eppure per raccontare questa storia, che si intreccia come poche altre con quella del boss più famoso e famigerato del Novecento, è da Homer che bisogna partire. Da Homer, dai suoi abitanti vestiti di stracci, e dalla sua minuscola stazione ferroviaria.

Dagotraduzione da Reason.com il 10 febbraio 2022.

Si è appena conclusa in Ohio la vicenda legale che ha visto un residente della contea di Clark, Michael Wood, uscire vittorioso da una battaglia per i suoi diritti civili contro lo sceriffo e i suoi uomini. La storia è del luglio del 2016: Michael Wood stava partecipando a una fiera alla Clark County Fair e, per via di spiacevoli incidenti del passato con l’ufficio dello sceriffo, indossava una maglietta provocatoria, con la scritta: “Fanculo la polizia”. 

Secondo quanto raccontato in tribunale, un mecenate si è andato a lamentare dell’abbigliamento di Wood con gli uomini dello sceriffo, i quali sono intervenuti insieme al direttore della fiera ordinando a Wood di lasciare l’evento. Mentre si dirigeva verso l’uscita, Wood ha poi inveito contro gli uomini: «Uno, due, tre, quattro, cinque, sei figli di puttana. Sei maiali stronzi». «Fottuti teppisti con pistole che non rispettano la Costituzione degli Stati Uniti. Fanculo a tutti voi. Sporchi bastardi topi». E quelli hanno deciso di arrestarlo e lo hanno accusato di condotta disordinata e ostruzione, accuse poi respinte dai pubblici ministeri. 

Wood a questo punto ha fatto causa ai sei funzionari dello sceriffo, sostenendo di essere stato arrestato senza motivo e in violazione dei suoi diritti civili sanciti da Primo Emendamento.

I sei hanno sostenuto che l'arresto di Wood era legittimo per la dottrina delle «parole di combattimento» stabilita dalla sentenza della Corte Suprema del 1942 in Chaplinsky v. New Hampshire. Quella dottrina sopravvive ancora, ma la sua applicazione è stata notevolmente limitata nel corso dei decenni. 

Ma la Corte d’Appello ha stabilito che non avevano nessun motivo per arrestare l’uomo. Anzi, per il tribunale Michael Wood aveva diritto, sancito dal Primo Emendamento, di maledire gli uomini che lo avevano rimosso da una fiera della contea nel 2016 dopo che qualcuno aveva chiamato i servizi di emergenza sanitaria per lamentarsi della sua maglietta. Inoltre, i sei non avevano diritto a un'immunità per la causa di Wood perché il diritto di Wood a essere libero dall'arresto è stato chiaramente stabilito da una lunga serie di opinioni dei tribunali che proteggono un linguaggio osceno diretto alle autorità. 

«Il tribunale ha avuto ragione e siamo molto soddisfatti del risultato», afferma David Carey, vicedirettore legale dell'American Civil Liberties Union of Ohio. «La sentenza toglie ogni dubbio sul fatto che le critiche alla polizia e alle loro azioni, anche grossolane e profane, rientrino nelle principali protezioni del Primo Emendamento e non possono essere di per sé una base legale per un arresto».

Un tribunale distrettuale degli Stati Uniti aveva concesso un giudizio sommario a favore dei sei uomini dello sceriffo della contea di Clark, stabilendo che il discorso di Woods non era protetto dalla lettura più ampia di Chaplinsky da parte dei tribunali statali dell'Ohio. 

La Corte d’Appello, tuttavia, ha invertito quell'ordine, trovando l'interpretazione dell'Ohio della dottrina delle parole di combattimento incongruente con il precedente federale e osservando che, sebbene il discorso di Wood fosse profano, non creava una ricetta per la violenza immediata. 

Il caso di Wood torna ora a un tribunale distrettuale degli Stati Uniti per ulteriori procedimenti.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 6 febbraio 2022.

Correva l'anno 1873, per la precisione il 21 luglio, quando Jesse James immaginò questo audace piano. Una volta saputo l'orario esatto in cui il treno con la cassaforte della U.S. Express Company sarebbe transitato per Adair, in Iowa, con i suoi complici allentò il binario della Chicago, Rock Island and Pacific Railway.

Quando la locomotiva arrivò alla curva cieca dietro cui i banditi si erano nascosti, Jesse ordinò di tirare con forza la corda a cui lo avevano legato. Il binario si spostò, facendo deragliare i vagoni.

Il macchinista morì sul colpo nell'incidente, ma il resto del treno si fermò senza grossi danni lungo le rotaie. Allora James e suo fratello Frank salirono sopra per aprire la cassaforte.

Dentro però ci trovarono solo duemila dollari, e quindi per rifarsi della delusione rapinarono tutti gli impauriti passeggeri, portando via soldi e qualunque altro oggetto di valore. 

Questa rapina contribuì a creare il mito di Jesse James e aprì l'epopea degli assalti ai treni, assai più allettanti e profittevoli di quelli alle diligenze. Nel 1899, ad esempio, Butch Cassidy fece saltare con la dinamite un intero ponte del Wyoming, in modo da bloccare e isolare un convoglio.

Così poté rubare i 30.000 dollari della famigerata Wilcox Train Robbery, a cui poi nel 1903 si sarebbe anche ispirato il film muto "The Great Train Robbery". Quei vagoni correvano sui binari della Union Pacific Railroad, fondata 160 anni fa ad Omaha, in Nebraska. Oltre un secolo dopo, la compagnia sperava di essersi messa alle spalle queste storie da Far West. Ma l'America evidentemente non è cambiata, o almeno non fino al punto di lasciare in pace i treni.

Dal dicembre del 2020 ad oggi, infatti, i furti ai danni dei vagoni proprio della Union Pacific sono aumentati del 160%, con una media di 90 container compromessi ogni giorno. Gli assalti però si sono moltiplicati durante l'epidemia di Covid, e in particolare da quando gli imbuti creati dal virus nella catena di approvvigionamento hanno paralizzato i trasporti.

Soprattutto nella zona di Los Angeles, dove al porto di Long Beach arriva circa il 40% delle importazioni che raggiungono gli Stati Uniti via mare. Da qui, quando finalmente riescono a scaricarli dalle navi, i container vengono trasferiti con i camion. In larga parte vanno al centro di smistamento di Hollenbeck a Lincoln Heights, dove vengono caricati sui treni che poi li portano nel resto del paese, partendo dalle 275 miglia di binari che si intrecciano nella contea di Los Angeles.

E appunto qui vengono rapinati, perché gli intoppi provocati dal blocco della supply chain obbligano i vagoni a restare fermi anche per giorni sulle rotaie, rimanendo così esposti agli assalti dei ladri. 

Il capo della polizia della città, Michael Moore, ha lanciato l'allarme perché tra le merci rubate ci sono anche armi, «decine di fucili e pistole, che minacciano di aggravare le violenze nelle nostre strade».

Per capire le dimensioni del problema, secondo il Los Angeles Times nell'ottobre scorso i furti ai danni della Union Pacific sono aumentati del 356% rispetto allo stesso mese dell'anno prima. 

La compagnia, che ha un valore complessivo di mercato di 155 miliardi e nel quarto trimestre del 2021 ha incassato profitti per 1,7 miliardi, ha anche subito perdite per 5 milioni di dollari durante l'anno passato a causa dei furti. 

E questa cifra non tiene conto dei soldi persi dai clienti, a causa della scomparsa dei beni spediti e mai consegnati, inclusi i pacchi di Amazon, United Parcel Service o FedEx. Le immagini scattate sui luoghi dei furti, che ormai sono diventate virali, descrivono una realtà che il governatore della California Newsom ha definito senza mezzi termini «da paese del terzo mondo».

Perché i ladri aprono i vagoni, prendono gli oggetti di maggior valore, e poi buttano per terra i cartoni in cui sono imballati o la merce che non li interessa. In qualche caso dei testimoni oculari hanno raccontato al Los Angeles Times di averli visti bivaccare tra i binari, perché tanto non correvano alcun rischio.

Nei giorni scorsi Newsom si è vestito in maniche di maglietta ed è andato a ripulire le rotaie, approfittando dell'occasione per promuovere la sua riforma che darebbe 255 milioni di dollari alle forze dell'ordine nei prossimi tre anni, proprio allo scopo di combattere i furti sui treni, nei negozi, e quelli delle auto.

Ma di chi è la colpa di questa emergenza? Il primo responsabile è il Covid, che ha creato gli intoppi nella supply chain, lasciando i vagoni alla mercè dei criminali. Nel frattempo, secondo il Wall Street Journal, a causa dell'epidemia circa 2.000 agenti si sono dimessi dal dipartimento di Polizia di Los Angeles (LAPD), lasciandolo senza gli uomini necessari per garantire l'ordine.

A sua volta Union Pacific, che ha circa 200 guardie private per proteggere i propri treni lungo migliaia di chilometri di ferrovia, ha ridotto il personale. Così è rimasta con soli sei agenti a pattugliare i binari da Yuma, in Arizona, fino alla costa del Pacifico.

Risultato: dal febbraio al dicembre dell'anno scorso LAPD ha arrestato 122 ladri sui treni. Eppure restano troppo pochi, per fermare le razzie. I casi presentati alla procura di Los Angeles sono scesi da 78 nel 2019 a 47 nel 2021, e solo nel 55% delle occasioni è seguita l'incriminazione. L'unica speranza, in altre parole, sembra essere che il Covid vada via, mettendo così fine alla resurrezione del Far West.

Era 'armato' di sigaretta elettronica. Il video dell’omicidio di Donovan Lewis, l’afroamericano ucciso nel suo letto dalla polizia durante blitz. Ciro Cuozzo su Il Riformista l'1 Settembre 2022. 

Ucciso dalla polizia a colpi d’arma da fuoco mentre era nel suo letto, innocuo e ‘armato’ di una sigaretta elettronica. E’ la cronaca dell’ennesimo omicidio di un afroamericano negli Stati Uniti. L’ultima vittima si chiamava Donovan Lewis, aveva 20 anni. Il blitz della polizia è avvenuto intorno alle due di notte del 31 agosto in un’abitazione nella città di Columbus, in Ohio. A riprendere le azioni degli agenti è stata una body camera che uno di loro indossava.

I poliziotti hanno spiegato in una conferenza stampa che stavano eseguendo un mandato di arresto per violenza domestica, aggressione e manipolazione impropria di un’arma da fuoco. A sparare un solo colpo è stato il poliziotto Ricky Anderson, da 30 anni nel dipartimento di Columbus, assegnato all’unità cinofila. Pochi istanti prima gli agenti che hanno condotto il blitz avevano fermato e portato via due uomini che si trovavano all’interno dell’appartamento. La polizia ha precisato che Lewis sembrava avere un oggetto in mano nel momento in cui l’agente ha sparato. Ma sul letto è stata trovata solo la sigaretta elettronica

“Gli agenti hanno bussato alla porta per diversi minuti… qualificandosi come poliziotti di Columbus”, ha detto il capo del dipartimento, Elaine Bryant. Il video della body camera li mostra mentre bussano e chiamano ripetutamente gli inquilini per otto-dieci minuti, urlando anche più volte il nome “Donovan”. A quel punto un uomo ha aperto la porta e gli agenti lo hanno fermato insieme ad un’altra persona.

Poi hanno ispezionato l’appartamento aprendo pian piano tutte le porte interne fino a quando sono arrivati alla camera da letto. Ad aprire la porta è stato lo stesso Anderson che ha immediatamente sparato mentre il 20enne era seduto al centro del letto. “Ci impegniamo per la piena trasparenza e ci impegniamo a ritenere gli agenti responsabili in caso di illeciti – ha detto il capo della polizia Bryant – E’ mio compito fare il modo che gli agenti rispondano del loro operato, ma è anche mio compito offrire loro supporto durante tutto il processo”.

In questo momento è fondamentale che il video delle riprese e tutti i fatti disponibili siano condivisi per motivi di completa trasparenza”, ha affermato il presidente del Consiglio comunale di Columbus Shannon Hardin in un tweet che includeva il video. Il Bureau of Criminal Investigation dello stato sta conducendo un’indagine indipendente sull’accaduto.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Da blitzquotidiano.it il 20 luglio 2022.

Un 23enne afroamericano, Robert Adams, è stato ucciso dalla polizia in un parcheggio di San Bernardino, in California. Il video, pubblicato in queste ore, ha già fatto il giro del mondo. E in molti stanno già paragonando l’episodio all’uccisione di George Floyd. 

Cosa si vede nel video

Nel filmato si vede il 23enne prima avvicinarsi alla macchina della polizia poi scappare. Dalla macchina scendono due agenti che prima puntano le pistole e poi sparano. 

Cosa dice la polizia

La polizia sostiene che Robert Adams fosse armato e che i due agenti, riconoscibili dall’uniforme, abbiano cercato di impartire ordini al ragazzo prima che iniziasse a scappare. Jennifer Kohrell, portavoce del dipartimento, ha aggiunto che il 23enne corrispondeva “alla descrizione” di un soggetto su cui stavano indagando.

Le parole dell’avvocato di George Floyd

“È incredibile che un’altra famiglia di colore debba seppellire il proprio figlio a causa della sparatoria della polizia prima e delle domande in seguito”, ha detto Benjamin Crump, avvocato difensore della famiglia di George Floyd, in una dichiarazione. “Sembrava che Robert stesse semplicemente camminando intorno al parcheggio quando gli agenti sono usciti dal loro veicolo senza contrassegni sparandogli immediatamente”. 

Le parole del papà della vittima

“Il mondo intero ha visto il video – ha detto il papà della vittima -, è ora che quell’ufficiale si dimetta. Mio figlio non era un membro di una gang. Hanno ucciso un ragazzo innocente”.

Michigan, afroamericano faccia a terra ucciso da agente di polizia con colpi di pistola alla nuca. Ripreso dalla bodycam dell'agente, Patrick Lyoya blocca il taser. La Repubblica il 14 Aprile 2022.

Si chiamava Patrick Lyoya, 26enne originario della Repubblica Democratica del Congo, arrivato negli Usa come rifugiato. Fermato il 4 aprile per una verifica sulla targa del suo mezzo, ha tentato la fuga, finendo con l'essere ucciso al termine di una colluttazione. Il capo della polizia vuole trasparenza e autorizza la diffusione dei video sull'accaduto. E nelle strade è protesta

La polizia di Grand Rapids, nel Michigan, rischia di essere travolta da una tempesta simile a quella che investì i colleghi di Minneapolis dopo il caso George Floyd. Anche questa volta c'è di mezzo la morte di un nero, il 26enne Patrick Lyoya, ucciso il 4 aprile da un agente dopo essere stato fermato per un controllo stradale.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 marzo 2022.

Meno di due mesi prima che George Floyd venisse ucciso dalla polizia in Minnesota, un altro uomo, Edward Bronstein, 38 anni, moriva soffocato sotto il peso degli agenti. I suoi ultimi momenti sono stati resi pubblici martedì: la California Highway Patrol si era opposta alla pubblicazione del nastro, ma il giudice ha dato ragione alla famiglia e la corte federale ne ha ordinato il rilascio. 

Nel video si vedono gli ultimi strazianti momenti dell’uomo. Fermato per guida in stato di ebbrezza, era stato portato alla stazione della polizia per fornire un campione di sangue. Ma, a quanto dicono i familiari, Bronstein era terrorizzato dagli aghi.

Il video, che dura 18 minuti e che è stato girato da un sergente della California Highway Patrol a Pasadena, mostra Bronstein ammanettato che litiga con la polizia mentre gli agenti lo costringono ad inginoccharsi per effettuare il prelievo che si rifiutava di fornire. All’inizio Borntein discute, ma poi gli agenti lo buttano a terra a faccia in giù e lui inizia a urlare di paura. «Lo farò volentieri» dice mentre due ufficiali gli si stanno addosso e un altro lo avverto di non resistere. 

«Troppo tardi» gli dice l’ufficiale. «Non ti stiamo prendendo in giro. Hai bisogno di rilassarti». Su di lui sono inginocchiati cinque uomini, e Bronstein inizia a implorare: «Non riesco a respirare, non riesco a respirare!». Poi smette di muoversi e a quel punto gli agenti prelevano il sangue dal suo corpo inerme.

Un secondo filmato mostra i tentativi, inutili, di rianimare l’uomo. Agenti e paramedici lo schiaffeggiano e lo chiamano per nome, gli fanno un massaggio cardiaco e gli danno ossigeno. Un ufficiale confessa ai paramedici che l’uomo si era lamentato di «non riuscire a respirare». «Quando l’abbiamo fatto rotolare, stava diventando blu», dice. 

Subito dopo, qualcuno ricorda al gruppo che ci sono le telecamere accese. Per l’ufficio del coroner della contea di Los Angeles le cause della morte di Bronstein sono «intossicazione acuta da metanfetamine durante la contenzione da parte delle forze dell’ordine». La famiglia chiede condanne penali per gli agenti.

Massimo Basile per “la Repubblica” il 15 aprile 2022.

Patrick Lyoya era arrivato negli Stati Uniti con genitori, fratelli e sorelle, in fuga dalle violenze della Repubblica democratica del Congo. Era il 2014, aveva diciotto anni. Dopo aver lasciato la terra dei grandi laghi, era finito vicino al grande lago Michigan e questo sembrava un segno propizio del destino. 

Un anno dopo un uomo bianco si era presentato al dipartimento di polizia di Grand Rapids per trovare lavoro. Lì è cominciato il conto alla rovescia che ha portato un africano di 26 anni a ritrovarsi con il viso a pochi centimetri dall'erba di un giardino e un poliziotto incollato alle spalle mentre gli urlava «lascia il Taser».

Meno di tre secondi dopo, l'agente gli ha sparato un colpo di pistola dietro alla testa, uccidendolo. Tra l'ultimo secondo di vita di un rifugiato e un nuovo caso George Floyd c'è il dettaglio decisivo delle immagini: quelle riprese con il cellulare dall'amico della vittima, quelle girate da un residente della strada, e i video registrati dalla telecamera installata nell'auto di servizio e dalla bodycam indossata dal poliziotto, al momento senza nome.

La morte è avvenuta la mattina del 4 aprile, ma per nove giorni nessuno in America sapeva, tranne a Grand Rapids, dove la madre ha pianto, invocando dio in Swahili, il padre si è sentito male e la gente è scesa in piazza. Sui giornali la notizia più importante era l'adesione del birrificio locale a una raccolta fondi per ucraini, rifugiati come lo sono i Lyoya. Poi la polizia ha rilasciato i video.

Alle 8,11 l'auto guidata dal giovane africano - con targa forse non legale - accosta lungo una strada residenziale fatta di case con giardino, dopo aver ricevuto l'ordine del poliziotto. Lyoya apre la portiera, esce, ha l'aria confusa. «Mostrami la patente ». «Cosa ho fatto di male?».

«Parli inglese?». «Sì». «Mostrami la patente». Spaventato, Lyoya tenta la fuga, ma viene raggiunto. Nasce una colluttazione che dura circa due minuti. Il congolese prova a strappare dalle mani del poliziotto il Taser. Le immagini della bodycam si bloccano per motivi non chiari, ma sufficienti a gettare ombre.

Quello che succede dopo viene documentato dal passeggero dell'auto. Dopo averlo messo faccia a terra, e essergli montato sulla schiena, il poliziotto urla a Lyoya di lasciare il taser, poi gli spara alla testa come in un'esecuzione. Poi l'agente si rialza e dice al testimone: «Stai indietro». 

Sull'erba resta un corpo seminudo, maglione tirato, braccio sinistro ricurvo sotto la pancia. Il poliziotto è stato sospeso ma con stipendio. Il procuratore della contea ha avviato un'inchiesta, la governatrice del Michigan ha invitato alla calma.

Ben Crump, avvocato del caso Floyd, l'afroamericano ucciso nel 2020 dalla polizia a Minneapolis, si occuperà anche di questo, e non vede differenze: «Le immagini mostrano chiaramente che c'è stato un uso eccessivo, non necessario e fatale della forza contro un uomo nero, disarmato, confuso e terrorizzato». 

La sequenza Tre momenti del tentativo di arresto e dell'uccisione di Patrick Lyoya, 26 anni. I primi due fotogrammi sono presi dal video della bodycam del poliziotto. Il terzo è il momento in cui l'agente estrae la pistola.

Da blitzquotidiano.it il 14 aprile 2022.

Un poliziotto Usa spara e uccide un afroamericano mentre era terra: un nuovo video shock torna ad accendere il dibattito sull’uso eccessivo della forza da parte della polizia. Il fatto è avvenuto il 4 aprile a Grand Rapids, in Michigan, ma la polizia ha diffuso il filmato solo ora. 

Le immagini, riprese da diverse telecamere, mostrano il 26enne Patrick Lyoya a terra e un poliziotto bianco che lo bracca con la gamba sulla schiena. I due si stanno scontrando sul taser estratto dall’agente. 

Il poliziotto che spara e uccide l’afroamericano

“Lascialo”, si sente urlare il poliziotto. “Lascia il taser”, ripete l’agente prima di estrarre la pistola e colpire il 26enne alla testa. Il ragazzo era stato fermato per un controllo stradale. “Durante lo scontro l’agente ha sparato. 

Sarà trattato come chiunque altro”, afferma il capo della polizia Eric Winstrom senza rilasciare il nome dell’agente. “Se sarà incriminato riveleremo il nome”, aggiunge. La diffusione del video è stata preceduta da una manifestazione davanti al commissariato della polizia. Centinaia di persone sono infatti scese in piazza per chiedere giustizia per Loyola cantando ‘Black Lives Matter’ e ‘No justice, no peace’.

Nei giorni scorsi Winstorm ha incontrato la famiglia di Loyola, che si è trasferita negli Stati Uniti dal Congo nel 2014. Di fronte alle immagini scioccanti, che gli sono state mostrate prima di renderle pubbliche, il padre di Loyola è rimasto gelato, “quasi svenuto” di fronte a suo figlio “sdraiato a terra con un agente sopra di lui che ha tirato fuori la pistola e gli ha sparato alla testa”, ha raccontato il pastore Israel Siku che ha accompagnato il papà del ragazzo alla polizia.

Il dolore della famiglia

“E’ stata un’esecuzione”, ha commentato la famiglia. “Ancora una volta ci viene ricordato quanto velocemente l’interazione con la polizia può rivelarsi fatale per un afroamericano negli Stati Uniti”, afferma il legale dei diritti civili Benjamin Crump, l’avvocato che si è occupato del caso di George Floyd, il volto del movimento Black Lives Matter.

Afromericano ucciso dalla polizia. Video messo in rete, scoppia la protesta. Valeria Robecco il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'uomo bloccato a terra dopo un controllo stradale e un tentativo di fuga. L'agente ha sparato. Cortei e rischio di scontri.

New York. La questione razziale e le polemiche contro la violenza della polizia tornano a travolgere l'America, che teme di trovarsi ancora alle prese con una stagione di proteste e rivolte come in seguito all'uccisione di George Floyd nel 2020. A riaccendere il dibattito sono nuovi video shock in cui un agente spara e uccide un giovane afroamericano mentre si trovava a terra. Le immagini dell'incidente - avvenuto il 4 aprile a Grand Rapids, in Michigan - riprese da diverse telecamere, inquadrano il 26enne Patrick Loyola a terra e un poliziotto bianco che gli preme una gamba sulla schiena.

Uno dei filmati è quello della body-cam del poliziotto, che mostra il momento in cui il giovane viene fermato per un controllo stradale ed esce dalla sua auto, nonostante la polizia gli avesse gridato di restare dentro. L'agente si avvicina, tra i due inizia una discussione, il giovane scappa, il poliziotto lo insegue. Gli altri tre filmati, i più cruenti, sono stati ripresi da un passeggero nell'auto di Patrick e dalle telecamere di sicurezza del quartiere residenziale dove è avvenuta la tragedia. All'inizio si vedono i due lottare per il taser del poliziotto. «Lascialo», grida l'agente, «ti dico di lasciarlo», insiste. Il 26enne non lo molla, ha il fiato corto e sembra agitato. A quel punto le immagini si fanno confuse fino a quando non si vede il giovane faccia a terra, le mani bloccate. Il poliziotto è sopra di lui e gli preme la schiena, poi estrae la pistola dalla fondina e gli spara un colpo secco alla testa. Il rumore dello sparo è l'ultima cosa che si sente.

Dopo che le forze dell'ordine hanno diffuso il filmato decine di persone si sono radunate nel centro di Grand Rapids per protestare, spostandosi poi davanti al quartier generale della polizia. Molti, con in mano cartelli con scritto «Black Lives Matter» e «No justice, no peace», scandivano il motto del movimento per i diritti dei neri di cui Floyd - soffocato a morte da un agente a Minneapolis - è diventato il simbolo. Per ora, quando i manifestanti hanno visto gli agenti in tenuta anti-sommossa fuori dal quartier generale hanno espresso la loro rabbia in modo pacifico. Intanto la famiglia di Loyola ha definito la sua morte una «esecuzione», mentre il capo della polizia di Grand Rapids, Eric Winstrom, ha detto: «Durante lo scontro l'agente ha sparato. Sarà trattato come chiunque altro. Se sarà incriminato riveleremo il nome». «È una tragedia, un susseguirsi di sofferenza e dolore per me, ha aggiunto. Nei giorni scorsi Winstorm ha incontrato la famiglia del 26enne, che si è trasferita negli Stati Uniti dal Congo nel 2014. Di fronte alle immagini scioccanti che gli sono state mostrate prima di renderle pubbliche, il padre del ragazzo è rimasto sconvolto ed è «quasi svenuto» di fronte a suo figlio «sdraiato a terra con un agente sopra di lui che ha tirato fuori la pistola e gli ha sparato alla testa», come ha raccontato il pastore Israel Siku, che ha accompagnato l'uomo alla polizia.

«Ancora una volta - ha detto da parte sua l'avvocato per i diritti civili Benjamin Crump, che si è occupato del caso di Floyd - ci viene ricordato quanto velocemente l'interazione con la polizia può rivelarsi fatale per un afroamericano negli Stati Uniti».

Stati Uniti: un nuovo caso Floyd, un altro uomo morì soffocato dai poliziotti. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 18 Marzo 2022.

La vittima si chiamava Edward Bronstein: in un video si vede l’uomo immobilizzato esattamente come Floyd morire soffocato. L’episodio risale al 2020.

Spunta un altro video shock in Usa sulla brutalità della polizia,un caso analogo a quello di George Floyd (l’uomo morto nel maggio 2020 in seguito al violento arresto operato da alcuni agenti), ma anteriore di due mesi. Come ricostruito dall’agenzia giornalistica Ansa, la vittima è Edward Bronstein, 38 anni, fermato per un controllo stradale in California. Nella clip di 18 minuti si vedono gli agenti stendere a terra l’uomo ammanettato e premere con le ginocchia sulla sua schiena per un prelievo di sangue mentre lui grida che è pronto a farlo volontariamente. Poi continua a ripetere le stesse parole di Floyd, «I cant’ breathe» (non riesco a respirare) prima di perdere conoscenza per 3 minuti e morire.

L’uomo ripete «I cant’ breathe» (non riesco a respirare) e «Let me breathe» (lasciatemi respirare) per almeno 12 volte in 30 secondi e quando perde conoscenza i poliziotti continuano ad aspirare il sangue. Poi gli agenti si accorgono che non c’è più battito, che non sembra respirare e solo dopo oltre 11 minuti dagli ultimi gemiti di Bronstein tentano inutilmente il massaggio cardiaco. La famiglia della vittima ha fatto causa ad una decina di poliziotti per uso eccessivo della forza e violazione dei diritti civili, contestando anche l’autopsia, secondo cui l’uomo sarebbe morto per «intossicazione acuta di metanfetamine durante l’arresto». A distanza di quasi due anni dalla tragedia, un giudice ha ordinato la diffusione del video, registrato da uno degli agenti.

Omicidio George Floyd, tre ex poliziotti condannati per non aver fermato il loro collega. Il Corriere della Sera il 25 Febbraio 2022.

Erano in "prima fila" e "non fecero niente" per evitare la morte di un uomo. Tre ex poliziotti sono stati dichiarati colpevoli per aver violato i diritti civili di George Floyd, l'afroamericano rimasto ucciso nel 2020, durante un'operazione di polizia a Minneapolis, Minnesota. Il verdetto arriva a dieci mesi di distanza da quello di condanna del principale imputato, Derek Chauvin, l'uomo ripreso da un video mentre premeva con il ginocchio sul collo di Floyd, tenuto a terra con le mani dietro la schiena.

L'afroamericano aveva supplicato di poter respirare, ma sia Chauvin sia i suoi colleghi non avevano fatto niente per alleviare la sua sofferenza. Floyd era poi morto per arresto cardiaco. Gli ex agenti Alexander Kueng, Thomas Lane e Tou Thao sono stati dichiarati colpevoli non solo di aver violato i diritti civili di Floyd, ma di non essere intervenuti per fermare il loro collega.

A giugno il giudice emetterà la sentenza con cui verranno quantificati gli anni da scontare: i tre rischiano fino all'ergastolo anche se, in base alla statistica, sembra un'ipotesi difficile.

Il giovane non era neanche destinatario della perquisizione. Nuovo caso George Floyd, 22enne afroamericano freddato sul divano dalla polizia: proteste per la morte di Amir Locke. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Febbraio 2022. 

Minneapolis rischia di andare di nuovo a ferro e fuoco: oltre mille persone sono scesa in piazza nella città del Minnesota per protestare contro l’uccisione di Amir Locke. L’episodio, risalente a tre giorni fa, nella stessa città dove si consumò l’efferato omicidio di George Floyd: l’afroamericano ucciso dalla polizia in strada – soffocato con un ginocchio – nel maggio 2020. Le immagini riprese in diretta dell’omicidio fecero diventare quel caso virale e mondiale, con manifestazioni in tutto il mondo, anche violente.

Amir Locke aveva 22 anni. Era afroamericano anche lui e incensurato. È stato ucciso a sangue freddo dalla polizia mentre era assopito sul divano di casa. Gli agenti hanno fatto irruzione nel suo appartamento in centro città per una perquisizione domiciliare, senza preavviso. E hanno aperto il fuoco. Tre colpi al torace e al polso non hanno lasciato scampo al 22enne. Le immagini girate dalla bodycam e diffuse dalla polizia sono terribili: si vede l’irruzione nell’abitazione, le urla degli agenti, il ragazzo su un divano avvolto in una coperta che si alza di colpo, almeno tre gli spari esplosi dagli agenti.

Locke avrebbe impugnato una pistola quando si è accorto dell’irruzione. Gli avvocati della famiglia hanno fatto sapere che l’arma era detenuta regolarmente. Alcuni familiari hanno dichiarato che il giovane stava dormendo e che avrebbe preso l’arma per difendersi. La polizia ha riferito che la perquisizione era collegata a un’indagine per omicidio ma che il nome della vittima non compariva nel mandato. Locke non era quindi il destinatario del mandato.

Il video è stato pubblicato per primo dalla Cnn. Un’avvocata per i diritti civili, Nekima Levy Armstrong, riferisce che la famiglia le ha raccontato che Locke non viveva nell’appartamento del blitz, dunque la polizia non stava cercando lui. La manifestazione che si è tenuta a Minneapolis è stata pacifica. Gli slogan “no justice, no peace” e “Black Lives Matter”. Il padre della vittima, Andrea Locke, è intervenuto alla manifestazione e ha chiesto 22 giorni di pace, tanti quanti gli anni del figlio. “Non siamo teppisti anti polizia”, ha spiegato.

Criticato il sindaco democratico Jacob Frey per non aver mantenuto la promessa di sospendere le cosiddette “no knock warrants”, ovvero le perquisizioni senza preavviso. La madre del 22enne ucciso ha chiesto che l’agenti (o l’agente) che hanno aperto il fuoco siano incriminati ed espulsi dalle forze dell’ordine. Il video orribile dell’accaduto è diventato virale in tutto il mondo in pochi minuti. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell'articolo di Anna Lombardi per “la Repubblica” l'8 agosto 2022.

 Li chiamano "rifugi sicuri": ma le "Safe Haven Baby Box" che negli ultimi tre anni un'organizzazione antiabortista ha collocato negli Stati più conservatori degli Stati Uniti sono solo il simbolo più estremo della disperazione di madri impossibilitate a crescere le loro creature. (...)

A Carmel, Indiana, per dire, ne era stata collocata una sul retro della locale stazione dei pompieri. In tre anni non era mai stata usata.

Ma da quando, pochi mesi fa, è iniziato il dibattito sull'aborto nello Stato che poi venerdì scorso lo ha vietato fin dal concepimento - una delle leggi più restrittive varate fino ad ora - la cassetta si è improvvisamente riempita: e per sei volte di seguito.

A rispolverare l'arcaico metodo è stata l'attivista pro-life Monica Kelsey, 46 anni e una storia difficile alle spalle: adottata dopo essere stata abbandonata da una mamma teenager che era stata stuprata. (...) Si tratta di contenitori in metallo con dentro una culla da ospedale a temperatura controllata. Una volta che il bambino è dentro non sono possibili ripensamenti: si blocca automaticamente e dall'esterno non si può più riaprire.

Viene invece attivato un allarme e il personale della struttura può accorrere e avere accesso alla culla. In contemporanea parte pure una chiamata al numero d'emergenza 911. (...) 

A chi si occupa professionalmente di adozione, la Safe Box però proprio non piace. Innanzitutto, spiegano, molte donne non sanno che usare la "scatola" mette legalmente fine ai loro diritti di genitori. E già due sono in causa per riavere indietro i propri bambini. Poi perché quei neonati non hanno praticamente più nessuna possibilità di risalire alle loro origini.

E questo non riguarda tanto il nome dei genitori: ma, il diritto di essere al corrente di eventuali malattie ereditarie. Insomma: nell'estremo caso di un abbandono, meglio affidarsi a strutture ospedaliere. «Se un genitore usa le Safe Haven», dice in sintesi Ryan Hanlon, presidente del Consiglio nazionale per l'adozione parlandone al New York Times , «vuol dire che l'intero sistema ha fallito».

Dall'Indiana stretta radicale sull'aborto. È il primo stato Usa a vietarlo totalmente. Valeria Robecco il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.

Nuova legge: uniche eccezioni incesto, stupro e pericolo di vita della madre.

L'Indiana vara una stretta sull'aborto e diventa il primo stato americano ad approvare un divieto quasi totale dopo che la Corte Suprema ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade a giugno. Il Parlamento dello stato americano ha dato il via libera ad una misura, firmata dal governatore repubblicano Eric Holcomb, che impedisce l'interruzione di gravidanza dal concepimento fatta eccezione solo per i casi di incesto, stupro, quando la vita della donna è a rischio o per problemi gravi al feto. Le regole attuali, invece, consentono l'aborto sino alla 22esima settimana. È un'azione «devastante», un «altro passo radicale dei repubblicani per strappare alle donne i loro diritti e la loro libertà riproduttiva, mettendo le decisioni sull'assistenza sanitaria personale nelle mani dei politici piuttosto che in quelle delle donne e dei loro medici», ha commentato la portavoce della Casa Bianca, Karine Jean Pierre. «Il Congresso - ha aggiunto - dovrebbe agire immediatamente e approvare una legge che ripristini i diritti previsti dalla Roe v. Wade, ma fino ad allora il presidente Joe Biden è impegnato a proteggere i diritti, le libertà delle donne e l'accesso alle cure che sono offerte dalla legge federale». L'approvazione della legge giunge solo tre giorni dopo che gli elettori del Kansas, un altro stato conservatore del Midwest, hanno respinto a stragrande maggioranza un emendamento che avrebbe eliminato le tutele dei diritti all'aborto dalla sua Costituzione. In Indiana, invece, le nuove restrizioni sono passate nonostante l'opposizione di parte dei repubblicani, alcuni dei quali le ritenevano troppo estreme, mentre altri erano contrari alle seppur limitatissime eccezioni. Ad esempio il deputato John Jacob, che sostiene il divieto totale all'interruzione di gravidanza, ha fatto sapere prima del voto che non avrebbe sostenuto il provvedimento perché «regola l'aborto, che è un omicidio di bambini» e ha invitato i suoi colleghi a pentirsi davanti a Dio. «Sono molto orgoglioso di tutti i cittadini dell'Indiana che si sono fatti avanti per condividere coraggiosamente le loro opinioni in un dibattito che difficilmente cesserà presto», ha dichiarato da parte sua il governatore Holcomb firmando il provvedimento, che entrerà in vigore il 15 settembre. Mentre la senatrice Sue Glick, che ha sponsorizzato il disegno di legge, ha detto che non pensa che «tutti gli stati arriveranno allo stesso punto», ma che la maggior parte dei residenti dell'Indiana sostiene alcuni aspetti della misura. Nelle prossime settimane California, Michigan, Nevada, e Vermont chiederanno ai loro cittadini di tutelare il diritto all'aborto, mentre in Kentucky si voterà per abolirlo. E in Florida, il governatore repubblicano Ron DeSantis ha sospeso il procuratore di Tampa Andrew Warren, un democratico che aveva annunciato che non avrebbe perseguito le donne che si fossero sottoposte all'aborto o i medici che lo avessero praticato. «Prendere una posizione contro le leggi dello stato è insostenibile», ha dichiarato DeSantis, che con tutta probabilità si candiderà alle primarie Gop per le presidenziali del 2024. Il Sunshine State ha una delle leggi più restrittive in materia, e al momento vieta l'interruzione di gravidanza dopo la quindicesima settimana, ma dopo la decisione della Corte Suprema di rovesciare la sentenza Roe v. Wade, i conservatori puntano a inasprire ulteriormente i limiti.

L’Aborto. Corte suprema Usa abolisce sentenza sul diritto all'aborto. Ora i singoli Stati liberi di applicare le loro leggi in materia  

(ANSA il 24 giugno 2022) - La Corte suprema Usa ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade con cui nel 1973 la stessa Corte aveva legalizzato l'aborto negli Usa. Ora quindi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia.

La decisione e' stata presa nel caso "Dobbs v. Jackson Women's Health Organization", in cui i giudici hanno confermato la legge del Mississippi che proibisce l'interruzione di gravidanza dopo 15 settimane. A fare ricorso era stata l'unica clinica rimasta nello Stato ad offrire l'aborto. "L'aborto presenta una profonda questione morale. La costituzione non proibisce ai cittadini di ciascuno stato di regolare o proibire l'aborto", scrivono i giudici. Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei 'saggi' erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Su 50 Stati, 26 (tra cui Texas e Oklahoma) hanno leggi piu' restrittive in materia. Nove hanno dei limiti sull'aborto che precedono la sentenza 'Roe v. Wade', e che non sono ancora stati applicati ma che ora potrebbero diventare effettivi, mentre 13 hanno dei cosiddetti 'divieti dormienti' che dovrebbero entrare immediatamente in vigore.

Usa: abolizione aborto, proteste davanti a Corte Suprema.

(ANSA il 24 giugno 2022) Fuori dalla Corte Suprema degli Stati Uniti è scoppiata la protesta, pochi minuti dopo che i massimi giudici hanno abolito il diritto all'aborto dopo 50 anni. I manifestanti stanno aumentando ogni minuto che passa, c'è anche un contigente di anti-abortisti che si sono abbracciati e hanno esultato alla notizia che la Corte Suprema ha rovesciato la storica sentenza 'Roe v. Wade'. 

Corte Suprema, Costituzione non conferisce diritto aborto

"La Costituzione non conferisce il diritto all'aborto". E' quanto si legge nella sentenza della Corte Suprema che abolisce la Roe v. Wade. La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore e 3 contrari.

Corte Suprema, Costituzione non conferisce diritto aborto  

"La Costituzione non conferisce il diritto all'aborto". E' quanto si legge nella sentenza della Corte Suprema che abolisce la Roe v. Wade. La decisione è stata presa da una Corte divisa, con 6 voti a favore e 3 contrari. 

Usa: leader repubblicani Camera plaude, salvate vite umane  

Il leader dei repubblicani alla Camera, Kevin McCarthy, palude alla decisione della Corte Suprema di abolire la Roe v. Wade, la storica sentenza del 1973 che ha legalizzato l'aborto negli Stati Uniti. "Paludo a questa storica sentenza che salva vite umane", twitta McCarthy. 

Usa: Obama accusa, attaccate libertà milioni americani 

Barack Obama attacca la Corte Suprema sull'aborto, accusandola di aver "attaccato le libertà fondamentali di milioni di americani" con la sua decisione.

Giuseppe Sarcina e Alice Scaglioni per corriere.it il 24 giugno 2022.

La Corte Suprema cancella un pezzo di storia americana: oggi venerdì 24 giugno ha cancellato la sentenza Roe v.Wade che da cinquant’anni garantiva il diritto di aborto a tutte le donne del Paese. 

La Corte ha deciso con una maggioranza netta: 6 giudici contro tre. Ha prevalso il blocco conservatore formato da Samuel Alito, che ha scritto il parere vincente, e poi Thomas Clarence, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh, Amy Coney Barrett. Le ultime tre toghe sono state nominate da Donald Trump. Ha votato a favore anche il presidente John G. Roberts, che ha aggiunto: «Avrei adottato un approccio più moderato». Si sono schierati contro i tre componenti di estrazione liberal: Sonia Sotomayor, Elena Kagan, Stephen Breyer (che uscirà a breve).

L’esame della Corte era partito lo scorso autunno dalla causa costituzionale intentata dalla Jackson Women’s Health Organization contro la legge varata nel 2018 dal parlamento del Mississippi, controllato dai repubblicani. La norma vieta il ricorso all’aborto dopo la quindicesima settimana di gravidanza. La sentenza Planned Parenthood v. Casey del 1972 stabilisce, invece, che l’aborto è praticabile fino a quando il feto non sia autosufficiente, cioè fino a circa sette mesi di gravidanza. Il parere di Alito, poi condiviso da altri cinque togati, è molto secco: «La sentenza Roe v.Wade è nata sbagliata».

Viene contestato il radicamento giuridico del diritto di scelta nel 14° Emendamento della Costituzione, che assicura ai cittadini le libertà politiche e civili. Quelle norma è stata introdotta in un’epoca (1868 ndr) <in cui neanche si discuteva di aborto». Non c’è, quindi, alcuna ragione per garantire su tutto il territorio federale il diritto di scelta in tema di gravidanza. La conseguenza immediata è che la materia «dovrà tornare ai singoli stati». Oggi sono già 22 gli Stati che hanno adottato legislazioni molto restrittive, come il Texas e più di recente l’Oklahoma . Altri quattro Stati sono pronti a seguire l’esempio. Le donne avrebbero ancora libertà di scelta negli Stati liberal delle due coste, dalla California a New York. Lo scenario più probabile, quindi, è quello di un Paese ancora più diviso.

Appena si è diffusa la notizia, centinaia di persone si sono radunate davanti all’edificio della Corte. Inizia una giornata di accese proteste. Da oggi il Paese è ancora più lacerato e come ha appena dichiarato la Speaker democratica Nancy Pelosi, il «tema dell’aborto diventerà centrale nelle elezioni di midterm a novembre». 

Le reazioni

Il Dipartimento di Giustizia americano userà «tutti gli strumenti a sua disposizione per proteggere i diritti e la libertà alla riproduzione», ha fatto sapere.

Il presidente Usa Joe Biden, che ha parlato qualche ora dopo l’annuncio della decisione, ha detto che la Corte Suprema ha tolto il diritto agli americani. «Un giorno triste per l’America». «Questa decisione è la realizzazione di tentativi che vanno avanti da decenni per rovesciare le leggi, di un’ideologia estrema: la Corte ha fatto una cosa mai prima, togliere un diritto costituzionale fondamentale per milioni di americani. Non lo ha limitato, lo ha semplicemente eliminato». Per Biden ora la salute delle donne è «rischio», ma aggiunge «il mio governo resterà vigilante». Il presidente Usa ha poi aggiunto che farà di tutto per far garantire, grazie al Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani, che la contraccezione sia disponibile agli americani, anche se gli Stati cercano di limitarli.

«La Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ma ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno può prendere ai capricci di politici e ideologi: (sono state) attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani»: ha twittato l'ex presidente Usa, Barack Obama. Anche l’ex first lady, Michelle Obama, è intervenuta sulla decisione della Corte Suprema: «Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate. Avrà delle conseguenze devastanti».

Per la portavoce della Camera Usa, la democratica Nancy Pelosi, è una decisione «crudele» e «scandalosa». Per Hillary Clinton è «un’infamia» e «un passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani». «Molti americani ritengono che la decisione di avere un figlio sia sacra e dovrebbe rimanere fra la donna e il suo medico», ha aggiunto. 

L'ex vicepresidente e numero due di Trump Mike Pence ha detto che «la vita ha vinto» e ha esortato tutti a battersi per «la difesa del nascituro e il sostegno alle donne incinte in crisi». «Avendo avuto questa seconda possibilità per la vita, non dobbiamo riposare e non dobbiamo cedere finché la santità della vita non sarà ripristinata al centro della legge americana in ogni Stato del Paese». Anche l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato la decisione, lodando la Corte Suprema. La decisione vuol dire «seguire la Costituzione e restituire i diritti», dice l’ex presidente Usa a Fox. La decisione «funzionerà per tutti», ha detto. 

Dopo la decisione della Corte Suprema, il Missouri ha deciso di proibire l’aborto, tranne che per le emergenze sanitarie. Il governatore repubblicano, Mike Parson, ha infatti firmato la legge che innesca il divieto di aborto nello Stato. «Nulla nel testo, nella storia o nella tradizione della Costituzione degli Stati Uniti ha dato ai giudici federali non eletti l’autorità di regolare l’aborto», ha aggiunto il governatore.

A ruota, anche il Texas ha fatto sapere che l’interruzione volontaria di gravidanza è ora illegale nello Stato, con effetto immediato. Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha sottolineato che le strutture che offrono le interruzioni di gravidanza possono essere considerate «responsabili penalmente a partire da oggi». 

Dall’altra parte, i governatori di California, Oregon e Washington hanno appena rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si impegnano a proteggere l’accesso all’aborto e ai contraccettivi e a difendere i pazienti e i medici dai divieti di aborto che verranno adottati negli altri Stati. Anche il governatore dello Stato di New York, Kathy Hochul, ci ha tenuto a rassicurare sul diritto all’aborto: «È un fondamentale diritto umano e resta sicuro, accessibile e legale a New York». A lei si unisce anche il sindaco della Grande Mela, Eric Adams. «A coloro che vogliono un aborto nel Paese, sappiate che qui siete le benvenute. Faremo ogni sforzo per assicurare che i servivi riproduttivi restino disponibili e accessibili per voi».

Biden: «Giudici nominati da Trump hanno rovesciato la legge sull'aborto». Aborto, negli Usa la Corte Suprema ha annullato la sentenza «Roe vs. Wade». Giuseppe Sarcina e Alice Scaglioni su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022

I giudici Usa hanno annullato la storica sentenza «Roe vs. Wade» che ha garantito il diritto all’interruzione di gravidanza nei vari Stati

La Corte suprema cancella un pezzo di storia americana: oggi venerdì 24 giugno ha cancellato la sentenza Roe vs. Wade che da cinquant’anni garantiva il diritto di aborto a tutte le donne del Paese. 

La Corte ha deciso con una maggioranza netta: 6 giudici contro tre. Ha prevalso il blocco conservatore formato da Samuel Alito, che ha scritto il parere vincente, e poi Thomas Clarence, Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh, Amy Coney Barrett. Le ultime tre toghe sono state nominate da Donald Trump. Ha votato a favore anche il presidente John G. Roberts, che ha aggiunto: «Avrei adottato un approccio più moderato». Si sono schierati contro i tre componenti di estrazione liberal: Sonia Sotomayor, Elena Kagan, Stephen Breyer (che uscirà a breve). 

L’esame della Corte era partito lo scorso autunno dalla causa costituzionale intentata dalla Jackson Women’s Health Organization contro la legge varata nel 2018 dal parlamento del Mississippi, controllato dai repubblicani. La norma vieta il ricorso all’aborto dopo la quindicesima settimana di gravidanza. La sentenza Planned Parenthood v. Casey del 1972 stabilisce, invece, che l’aborto è praticabile fino a quando il feto non sia autosufficiente, cioè fino a circa sette mesi di gravidanza. Il parere di Alito, poi condiviso da altri cinque togati, è molto secco: «La sentenza Roe vs. Wade è nata sbagliata». 

Viene contestato il radicamento giuridico del diritto di scelta nel 14° Emendamento della Costituzione, che assicura ai cittadini le libertà politiche e civili. Quella norma è stata introdotta in un’epoca (1868 ndr) <in cui neanche si discuteva di aborto». Non c’è, quindi, alcuna ragione per garantire su tutto il territorio federale il diritto di scelta in tema di gravidanza. La conseguenza immediata è che la materia «dovrà tornare ai singoli stati». Oggi sono già 22 gli Stati che hanno adottato legislazioni molto restrittive, come il Texas e più di recente l’Oklahoma . Altri quattro Stati sono pronti a seguire l’esempio. Le donne avrebbero ancora libertà di scelta negli Stati liberal delle due coste, dalla California a New York. Lo scenario più probabile, quindi, è quello di un Paese ancora più diviso. 

Appena si è diffusa la notizia, centinaia di persone si sono radunate davanti all’edificio della Corte. Inizia una giornata di accese proteste. Da oggi il Paese è ancora più lacerato e come ha appena dichiarato la Speaker democratica Nancy Pelosi, il «tema dell’aborto diventerà centrale nelle elezioni di midterm a novembre». 

Le reazioni

Il presidente Usa Joe Biden ha parlato qualche ora dopo l’annuncio della decisione, che lui stesso ha definito «un tragico errore»: «Oggi è un giorno triste per l’America». Ha addossato la responsabilità della decisione che annulla la sentenza del 1973 ai tre giudici nominati dal suo predecessore alla Casa Bianca, Donald Trump: «Sono stati tre giudici nominati da un presidente, Donald Trump, quelli al centro della decisione odierna (della Corte Suprema) di eliminare un diritto fondamentale delle donne in questo Paese», ha detto. «Questa decisione è la realizzazione di tentativi che vanno avanti da decenni per rovesciare le leggi, la realizzazione di un’ideologia estrema: la Corte ha fatto una cosa mai fatta prima, togliere un diritto costituzionale fondamentale per milioni di americani. Non lo ha limitato, lo ha semplicemente eliminato». Per Biden ora la salute delle donne è «rischio». 

«Molte donne hanno perso una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo», affermano i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer, che hanno votato contro la decisione di capovolgere la storica sentenza.

Il presidente Usa Joe Biden 

Il Dipartimento di Giustizia americano ha detto che userà «tutti gli strumenti a sua disposizione per proteggere i diritti e la libertà alla riproduzione». 

«La Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ma ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno può prendere ai capricci di politici e ideologi: (sono state) attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani»: ha twittato l'ex presidente Usa, Barack Obama. Anche l’ex first lady, Michelle Obama, è intervenuta sulla decisione della Corte Suprema: «Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate. Avrà delle conseguenze devastanti».

Per la portavoce della Camera Usa, la democratica Nancy Pelosi , è una decisione «crudele» e «scandalosa». Per Hillary Clinton è «un’infamia» e «un passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani». «Molti americani ritengono che la decisione di avere un figlio sia sacra e dovrebbe rimanere fra la donna e il suo medico», ha aggiunto. 

L'ex vicepresidente e numero due di Trump Mike Pence ha invece accolto positivamente la sentenza: ha detto che «la vita ha vinto» e ha esortato tutti a battersi per «la difesa del nascituro e il sostegno alle donne incinte in crisi». «Avendo avuto questa seconda possibilità per la vita, non dobbiamo riposare e non dobbiamo cedere finché la santità della vita non sarà ripristinata al centro della legge americana in ogni Stato del Paese». Anche l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha commentato la sentenza, lodando la Corte Suprema. La decisione «segue la Costituzione e restituisce i diritti», ha detto l’ex presidente Usa a Fox, che ha aggiunto: «Alla fine, questo sia qualcosa che funzionerà per tutti». Ma secondo quanto scrive il New York Times , l’ex inquilino della Casa Bianca non sarebbe così contento della decisione della Corte Suprema: Trump avrebbe ribadito a più persone che potrebbe trattarsi di un boomerang e potrebbe avere conseguenze negative per i Repubblicani, soprattutto in un’ottica che guarda alle prossime elezioni. 

Anche il Vaticano ha commentato positivamente la decisione, dicendo che la sentenza sull’aborto «sfida il mondo intero» sui problemi della vita e lodando la Corte Suprema. L’Onu invece ha parlato di «un colpo terribile ai diritti umani delle donne». «È una grave battuta d’arresto dopo cinque decenni di protezione della salute sessuale e riproduttiva e dei diritti negli Stati Uniti attraverso Roe vs Wade», ha detto l’Alto commissario Onu per i diritti umani Michelle Bachelet. 

Dopo la decisione della Corte Suprema, il Missouri ha deciso di proibire l’aborto, tranne che per le emergenze sanitarie. Il governatore repubblicano, Mike Parson, ha infatti firmato la legge che innesca il divieto di aborto nello Stato. «Nulla nel testo, nella storia o nella tradizione della Costituzione degli Stati Uniti ha dato ai giudici federali non eletti l’autorità di regolare l’aborto», ha aggiunto il governatore. 

A ruota, anche il Texas ha fatto sapere che l’interruzione volontaria di gravidanza è ora illegale nello Stato, con effetto immediato. Il procuratore generale del Texas, Ken Paxton, ha sottolineato che le strutture che offrono le interruzioni di gravidanza possono essere considerate «responsabili penalmente a partire da oggi». 

Dall’altra parte, i governatori di California, Oregon e Washington hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui si impegnano a proteggere l’accesso all’aborto e ai contraccettivi e a difendere i pazienti e i medici dai divieti di aborto che verranno adottati negli altri Stati. Anche il governatore dello Stato di New York, Kathy Hochul, ci ha tenuto a rassicurare sul diritto all’aborto: «È un fondamentale diritto umano e resta sicuro, accessibile e legale a New York». A lei si unisce anche il sindaco della Grande Mela, Eric Adams. «A coloro che vogliono un aborto nel Paese, sappiate che qui siete le benvenute. Faremo ogni sforzo per assicurare che i servivi riproduttivi restino disponibili e accessibili per voi». 

Francesco Semprini per “la Stampa” il 26 giugno 2022.

È un'onda che si alza dai quattro angoli del Paese e passa attraverso i palazzi del potere di Washington, quella della protesta contro la sentenza della Corte Suprema che decreta il diritto a vietare l'aborto. Un'onda destinata inesorabilmente a tenere in scacco il dibattito in vista dell'appuntamento elettorale di novembre. 

«La decisione presa dalla Corte Suprema è devastante e dolorosa, difenderemo i diritti delle donne», afferma Joe Biden, firmando la legge bipartisan sulla stretta delle armi, prima di partire per i vertici del G7 e della Nato. Con lui nella Roosevelt Room la First Lady Jill Biden. La norma su pistole e fucile arriva all'indomani di un'altra sentenza della Corte Suprema a trazione conservatrice che ha smontato una legge newyorkese vecchia più di un secolo che imponeva limiti alla detenzione di armi in pubblico. 

«È il provvedimento più significativo degli ultimi 30 anni. Voglio ringraziare le famiglie delle vittime da Columbine a Sandy Hook a Uvalde. Niente potrà colmare il loro vuoto, ma hanno aperto la strada per arrivare a questo punto», ha aggiunto il Presidente, dimostrando come il potere legislativo, con la maggioranza democratica in entrambe le Camere, è determinato a contrastare quello giudiziario a colpi di norme.

Dopo le armi, sarà la volta dell'aborto, come lo stesso Biden ha auspicato dopo il ribaltamento della storica sentenza Roe vs Wade del 1973. La Casa Bianca, intanto, tiene alta la guardia in vista di altre battaglie sui valori che sembrano profilarsi all'orizzonte.

L'amministrazione Biden ha diffidato gli Stati antiabortisti dal vietare la vendita della pillola abortiva, col ministro della Giustizia Garland che ha fatto riferimento al principio dell'ubi maior, secondo il quale gli Stati non possono opporsi a una legge federale. 

L'accesso alla pillola, approvata dalla Food&Drug Administration (l'autorità del settore farmaceutico) dopo il voto del Congresso, è il nuovo teatro della lotta per l'aborto. Oggi il 50% degli aborti in Usa avviene entro le prime 10 settimane, tramite il ricorso alla pillola.

Intanto la senatrice Susan Collins, repubblicana del Maine, punta il dito verso i giudici conservatori della Corte Suprema, Brett Kavanaugh e Neil Gorsuch, rei - a suo dire - di aver infranto un impegno fatto a Capitol Hill. «La decisione - tuona - non è coerente con ciò che i togati hanno affermato nella testimonianza e con me, entrambi avevano insistito sull'importanza di sostenere precedenti di lunga data».

Da segnalare il botta e risposta tra le due «pasionarie» dei poli opposti, Alexandria Ocasio Cortez e Marjorie Taylor Greene. La deputata liberal è scesa in piazza, esortando gli americani e le americane a fare lo stesso, «perché le elezioni non bastano, dobbiamo riempire le strade». Ha replicato su Twitter la collega ultraconservatrice: «Aoc ha appena lanciato un appello all'insurrezione. Se ci saranno violenze e sommosse saranno il risultato diretto degli ordini di squadra democratici».

Non ha avuto sosta anche ieri l'afflusso di manifestanti davanti alla Corte Suprema a Washington, mentre le proteste si sono allargate ad altre città, come Denver, Atlanta, Chicago, New York, Philadelphia, e Austin, in Texas, uno degli Stati in cui è già in vigore una legge iper-restrittiva sull'aborto e che si avvia a vietarlo del tutto nei prossimi giorni. Paura durante una manifestazione pro-aborto a Cedar Rapids, Iowa, quando un pick-up si è lanciato contro la folla, una donna è stata ricoverata in ospedale.

A Phoenix, Arizona, la polizia ha usato gas lacrimogeni per disperdere una protesta pro-aborto: secondo gli agenti, i manifestanti avevano «ripetutamente preso a pugni la porta di vetro dell'ingresso del Senato». A Seattle un'attivista antiabortista è stata aggredita da attivisti di Antifa che le hanno anche spruzzato spray urticante. 

Anche il mondo dello spettacolo insorge con l'attrice di «Sex and the City», Cynthia Nixon, che è portavoce della comunità Lgbtqi+. «Inorridita perché in America le pistole hanno più diritti delle donne», è Kim Kardashian che, sebbene in passato si stata vicina a Trump sui temi della riforma penale, ha preso le distanze da un verdetto che per l'ex Presidente «è venuto da Dio». Mobilitato anche il basket, con la star Nba LeBron James che parla di «un abuso di potere», e la Corporate America con Google che concede ai dipendenti di chiedere il trasferimento in altro Stato «senza giustificazione».

Al momento sette Stati Usa hanno bandito l'aborto subito dopo la sentenza, altri sette lo faranno nei prossimi 30 giorni. Si tratta di Stati a guida repubblicana che avevano già varato restrizioni sull'interruzione di gravidanza, ma sono in tutto 26 quelli in cui l'aborto potrebbe essere bandito per sempre. L'onda delle proteste preoccupa la destra, a partire da Trump. Per quanto volubile, l'ex Presidente ha da tempo difficoltà nell'affrontare l'argomento dell'aborto, che ha sostenuto per anni come diritto, ma ha affermato di detestare personalmente. Ora però subentra il fattore politico: ha ammesso ad amici e consiglieri che la sentenza è «nociva per i repubblicani», in vista della riconquista di Camera e Senato su cui punta alle elezioni di novembre.

Alberto Simoni per “la Stampa” il 26 giugno 2022. 

La decisione della Corte suprema Usa era scontata. Nessuno si era fatto illusioni che la Roe vs Wade superasse le forche caudine di un tribunale a forte trazione conservatrice, simbolo di un disequilibrio che non rappresenta il Paese e che è destinato a durare decenni. 

Il giudice Samuel Alito ha evocato la Costituzione per sentenziare che, non essendoci riferimenti all'aborto, tutte le leggi e le sentenze che la richiamavano come base di un diritto erano impure.

E così via la Roe vs Wade. Alito ha anche spiegato che questo approccio vale solo per la questione dell'aborto.

Se guardate la foto dei nove togati, però, soffermatevi su Clarence Thomas, il veterano dei giudici - è in carica dal 1991 - ultraconservatore e secondo afroamericano a sedere fra i nove custodi delle leggi Usa. È il teorico della restaurazione e non condivide questa «timidezza» di Alito. Secondo Thomas, ora la Corte ha il dovere di «correggere l'errore - ha scritto nel parere associato - stabilito in alcuni precedenti».  

Linguaggio oscuro, che significa che almeno tre sentenze del passato (Griswold, Lawrence, Obergefell) che proteggevano la contraccezione, il sesso consensuale fra gay e il matrimonio omosessuale possono venire spazzate via. La sua è una posizione estremista, gli altri giudici conservatori hanno preferito sposare la linea di Alito, ma è un indizio di dove una fetta di America vuole portare la nazione: a cancellare ogni diritto civile faticosamente conquistato.  

Il miglior alleato di Thomas è in famiglia: la moglie Ginni è un'attivista e lobbysta, adepta dei Tea Party, sugli scudi contro l'Obamacare, e così intimamente trumpiana da aver inondato il capo dello staff di Donald, Mark Meadows, di email affinché trovasse il modo di ribaltare l'esito del voto del 2020. La Commissione 6 gennaio le ha inviato un mandato di comparizione.

Il giudice Thomas è stato sin dal suo esordio un falco, ma la sua posizione è spesso stata mitigata da un equilibrio della Corte a maggioranza conservatrice (5-4) da decenni, ma con un esponente - il moderato Anthony Kennedy, nominato da Reagan - a fare da bilanciere e sovente schierato con l'ala progressista sui sociali, come i diritti Lgbtq. Kennedy, nel 2018, ha rassegnato le dimissioni e Trump al suo posto ha nominato Brett Kavanaugh, conservatore anti-abortista. 

E il piano restauratore di Thomas (e della moglie) qualche chance di andare in porto ce l'ha. I primi segnali di una svolta si ebbero quando il 13 febbraio del 2016 un infarto stroncò la vita del giudice conservatore Antonin Scalia. Barack Obama si trovò dinanzi la ghiotta opportunità di nominare un liberal: la sua scelta cadde su Merrick Garland, ma i repubblicani insorsero, dicendo che nomine così importanti nell'ultimo anno di Presidenza erano inopportune. 

L'ostruzionismo che fecero fu così forte che la Presidenza arrivò al termine e il nuovo giudice lo scelse Donald Trump: Neil Gorsuch. Poi ne prese altri due, lo stesso Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett. 

Quest' ultima venne nominata appena un mese prima delle elezioni del 2020, ma evidentemente i repubblicani avevano dimenticato le critiche che avevano fatto a Obama. La storia sarebbe andata diversamente se Obama fosse riuscito a portare un «suo» giudice alla Corte. 

 E sarebbe stata diversa se H Bader Ginsburg, morta nel 2020 a 87 anni, avesse rassegnato le dimissioni durante l'epoca di Obama. Invece Donald Trump si è trovato a nominare ben tre giudici e Thomas ha trovato alleati tanto che, paradossalmente in una Corte con sei conservatori, il giudizio del presidente, John Roberts, moderato nominato da Bush junior, è ininfluente.

Nessuno pensa che la Corte rispecchi la società americana in termini di pensiero, costumi, valori. Solo il 30% degli statunitensi è favorevole alla cancellazione del diritto dell'aborto. Ovviamente il lavoro dei giudici non è tenere conto dei sondaggi, stare sconnessi con la realtà però è un pericolo perché le conseguenze di scelte come quella sull'aborto investono il futuro della nazione. 

 E minano anche la credibilità delle istituzioni. Se anche il Tribunale supremo, per definizione super partes, entra nell'arena politica, di chi fidarsi? Oggi il tasso di approvazione della Corte scavalla appena il 20%. Eppure, è questa minoranza ad avere il potere: è una destra cristiana fondamentalista che ha trovato in Trump il guardiano di un modo di concepire l'America come un fortino assediato da un mondo volgare, debole e depravato. 

Davanti al vortice Trump il partito repubblicano si è sgonfiato. Chi si espone - come Liz Cheney - vede in pericolo la rielezione; altri come il deputato Adam Kinzinger sono minacciati di morte (con la moglie e il figlio di 6 mesi) perché «traditori del giuramento». E in questo clima la restaurazione dei coniugi Thomas, una volta chimera, è un più vicina. E il paradosso è che il potere di fermarla è nelle mani degli altri giudici conservatori.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 27 giugno 2022.

«Mi sono fidato del giudice Gorsuch e del giudice Kavanaugh quando hanno testimoniato sotto giuramento che credevano che Roe vs Wade fosse un precedente legale oramai stabilito». 

Con queste parole il senatore democratico Joe Manchin ha di fatto accusato due giudici della Corte Suprema di aver mentito durante le udienze di conferma della loro nomina davanti al Senato. Manchin ha unito la sua voce a quella della collega repubblicana del Maine, Susan Collins, la quale ha puntato i suoi strali accusatori soprattutto contro Kavanaugh, con il quale aveva avuto lunghi colloqui a quattr'occhi.

Le televisioni, dal canto loro, ripropongono anche la testimonianza della giudice Amy Coney Barrett, terzo giudice voluto da Donald Trump e approvato a ridosso delle elezioni del 2020. Anche lei aveva ribadito di considerare «un precedente radicato» la sentenza "Roe Vs Wade" del 1973, che stabiliva che l'aborto era un diritto costituzionale. 

Ora però il Paese si interroga se ci sia qualche punizione per i giudici che abbiano mentito sotto giuramento quando i senatori li interrogavano per decidere se approvare la loro nomina. Certo è che nel Paese la Corte ha perso molto del lustro di cui ha goduto per decenni. Secondo un sondaggio Gallup, solo il 25% degli americani continua ad avere «alta fiducia» nella Corte.

Se si pensa che nel 2020 si arrivava al 58%, si capisce quanto sia grave la caduta. Dall'inizio del Novecento i giudici supremi erano stati oggetto di stima e rispetto al pari delle forze armate. Sia gli uni che gli altri sono sempre stati visti come super partes e non piegati al volere dei politici. 

Ma la situazione è cambiata proprio con Donald Trump, che sin dalla sua campagna elettorale aveva apertamente promesso di scegliere giudici che abolissero il diritto di aborto, e dopo averli scelti e averne ottenuto l'approvazione dal Senato si è vantato di aver fatto più di ogni altro presidente per la causa degli anti-abortisti.

La Corte di adesso, con una super maggioranza di sei conservatori a tre liberal è sbilanciata come non lo era da decenni. Tutti i presidenti hanno sempre cercato di mantenere un bilanciamento nella Corte, strategia abbandonata in pieno da Trump, che sta così ottenendo che le leggi del Paese si spostino più a destra di dove la maggioranza dell'opinione pubblica le vorrebbe.

E per bloccare l'attivismo con-servatore dei giudici non c'è nulla da fare: la Corte non risponde a nessuno, i giudici sono nominati a vita e possono essere sottoposti a impeachment solo per gravi reati criminali.

Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2022.  

Clarence Thomas è un uomo di parola: «I progressisti mi hanno rovinato la vita per 43 anni; adesso io rovinerò la loro per i prossimi 43», disse nel 1993 ai suoi assistenti. 

Arrivò alla Corte Suprema nel 1991, appena 43enne per l'appunto, e i giudici supremi restano in carica a vita: da allora la sua vendetta verdiana, da Rigoletto con la toga, si è articolata attraverso un'impressionante serie di sentenze allineate con le istanze della destra americana più estrema.

Strategia repubblicana

Thomas non è un'anomalia del sistema, è il frutto di una strategia lucidissima di interessi precisi: una proposta politica che indicasse nel 1787 il modello di Paese sarebbe improponibile in parlamento, ma non nel sistema giudiziario.

Allora è stata formata dal partito repubblicano una generazione di giudici-attivisti (ottimamente finanziata dall'opaca Federalist Society) decisi per statuto a riportare la Costituzione americana a quello che la destra vede essere il suo spirito originario, scevro cioè della maggior parte dei diritti che nei secoli successivi si sono aggiunti al nucleo di quelli del 1787 (in origine la Costituzione prevedeva, tra le altre cose, che votassero solo i proprietari terrieri maschi, che le donne stessero a casa e i neri in catene; niente Stato sociale, etc).

Thomas, «originalista», offre al partito garanzie assolute non soltanto in materia politica ma anche temperamentale: la sua sete di vendetta nei confronti dei progressisti che cercarono - goffamente, e invano - di affondarne la storica nomina alla Corte Suprema lo anima dal 1991. 

Il pegno di Bush (padre)

George Bush padre, moderato nordista trapiantato in Texas, pagò pegno alla base più ideologizzata che gli aveva garantito l'elezione nel 1988, terzo mandato repubblicano dopo i due, storici, di Ronald Reagan.

Andava in pensione un'icona dei diritti civili, il giudice Thurgood Marshall protagonista dell'affrancamento degli afroamericani dalla segregazione razziale degli Stati del Sud, e Bush padre (che aveva già mandato alla Corte Suprema un moderato del nordest in sintonia con le sue idee e anche il suo stile, il centrista David Souter) decise di sostituirlo con un uomo che con Marshall aveva in comune soltanto il colore della pelle: Thomas.

Umilissime origini, un'istruzione di lusso ottenuta grazie alle corsie preferenziali per le minoranze (corsie che dal 1991 cerca appena può di chiudere), funzionario ministeriale reaganiano, giudice federale per soli 18 mesi finché non viene scelto per la Corte Suprema. 

Il 43enne non appare agli analisti come un genio della giurisprudenza ma le audizioni davanti al Senato (a maggioranza democratica: la Storia ha un crudele senso dello humour) cominciano sotto discreti auspici finché una professoressa universitaria che aveva lavorato per lui lo accusa di averla ripetutamente molestata e bersagliata con battute grevi. 

Le audizioni senatoriali diventano un circo e la professoressa Hill da testimone finisce imputata, l'impressione generale dei senatori (tutti maschi, bianchi) che la interrogano senza pietà è che si tratti dell'intemerata di un'ex amante assetata di vendetta (non è vero).

«È un linciaggio», grida Thomas, probabilmente la mossa vincente perché evoca linciaggi (non mediatici, veri) sui quali l'America bianca aveva allora come adesso molto da farsi perdonare. 

Alcuni democratici (pochi, ma bastano) decidono che votare contro un nero pare brutto, e così anche grazie alla clamorosa debolezza del capo-commissione democratico, il senatore del Delaware Joe Biden (qui il crudele sense of humour della Storia ha fatto il bis), Hill viene derubricata a «un po' mattocchia e un po' zoccoletta» secondo un sicario giornalistico dei repubblicani poi pentito, David Brock. Thomas esce ammaccato ma vivo dalla commissione, il Senato al completo vota, e la nomina passa di pochissimo, 52 a 48, grazie all'aiuto democratico.

La moglie trumpiana

Da allora Thomas si scatena, duettando con la moglie Ginni, attivista e organizzatrice non pentita del fallito golpe del 6 gennaio 2021. Ora la sinistra democratica ne invoca l'impeachment della Camera ma è pura follia immaginare che due terzi dei senatori lo caccino dalla Corte. E Thomas continua così la lunga marcia dei suoi 43 anni di vendetta, «tremenda vendetta, di quest' anima è solo desio, di punirti già l'ora s' affretta», una sentenza dopo l'altra, con l'America del 1787 nel cuore. 

Irene Soave per il “Corriere della Sera” il 27 giugno 2022.

«Quando avevo 22 o 23 anni sono stata violentata, qui a New York. Ero completamente sola, e feci un test di gravidanza in un bagno pubblico. Quando ero là seduta, tutto quello che mi restava da pensare era: grazie a Dio ho una scelta». 

I manifestanti di Union Square, a Manhattan, ascoltano in silenzio mentre Alexandria Ocasio-Cortez, la parlamentare dem più giovane, diventa l'immagine della protesta. Giorni fa, dopo la pronuncia della Corte Suprema, aveva detto: «La gravidanza forzata è un crimine contro l'umanità». L'altra sera ci ha messo la faccia.

Non si fermano le proteste nemmeno nel resto degli Stati Uniti: in Colorado un centro pro-life è stato incendiato; Portland (Oregon) è stata teatro di scontri violenti. E il governo della California potrebbe approvare già oggi un emendamento alla Costituzione che blinderà il diritto all'aborto. 

In attesa di statistiche, gli indizi che le donne corrano ai ripari informalmente si moltiplicano nelle cronache dai 22 Stati dove l'aborto è già di fatto impossibile. Nelle zone di confine programmano gli straordinari: alcune cliniche Planned Parenthood, per esempio, prevedranno due ore in più al giorno, e chiusura solo due domeniche al mese.

Il New York Times raccoglie testimonianze di donne che fanno scorte di pillole abortive e di contraccettivi: «Non si sa più cosa potrebbero vietare». Circolano, soprattutto, numerosi vademecum, sulla falsariga di quello, premonitore, pubblicato dal New York Magazine il 23 maggio: cosa fare se si vuole interrompere la gravidanza in uno Stato dove non si può.

L'ipotesi più sicura è l'aborto farmacologico. Cioè la combinazione di mifepristone e misoprostolo che in pandemia è già diventata il modo in cui metà delle americane abortiscono: a casa, seguite a distanza.

È «sicura nel 99% dei casi», spiega la divulgatrice Abigail Atkin, e non lascia tracce nell'organismo: chi l'ha presa e ha bisogno di cure può presentarsi in ospedale come «aborto spontaneo». La spediscono a casa, in pacchetti anonimi, reti come Just The Pill, Hey Jane, Mayday.

Gli sviluppatori di app che monitorano il ciclo - come Flo, Clue, Apple Health - sono al lavoro per rendere i dati che raccolgono totalmente anonimi, nell'ipotesi non remota che un giudice li richieda: i vademecum (così ad esempio il Nymag) consigliano, nel dubbio, di «distruggere le app» e segnarsi le mestruazioni sul diario.

«Non parlare a nessuno» dell'intenzione di abortire, se non a medici (vincolati dal segreto); «disabilitare il riconoscimento facciale dai cellulari» perché in tribunale ci si può rifiutare di fornire il pin ma non di accedere con la fotocamera; «spegnere lo smartphone» se si va a ritirare il pacco con la pillola, per non essere tracciate. E così via, in un crescendo che rimanda agli anni delle mammane, in versione tech.

Ieri un editoriale del sito Vatican News, firmato dal direttore delle comunicazioni della Santa Sede Andrea Tornielli, ha ribadito la posizione antiabortista della Chiesa ma enfatizzato che proteggere la vita significa, anche, occuparsi di congedi di paternità e «della minaccia delle armi da fuoco, crescente negli Usa».

Aborto, 9 stati Usa lo hanno già vietato. Altri 12 lo faranno a breve. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.  

Dopo il ribaltamento della storica sentenza «Roe v. Wade» da parte della Corte Suprema, tocca ai singoli stati decidere come regolamentare l’interruzione di gravidanza. 

Con il ribaltamento della storica sentenza sul diritto all’aborto, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha di fatto demandato a ciascuno stato la competenza di decidere su come regolamentare l’interruzione di gravidanza. Molti stati governati dai Repubblicani avevano già preparato leggi, le «trigger laws», pensate proprio per entrare in vigore subito dopo la decisione dei giudici. Così già da venerdì, subito dopo la sentenza dei giudici supremi, nove stati americani hanno immediatamente vietato l’aborto nella gran parte dei casi e si prevede che nei prossimi giorni o nelle prossime settimane altri 12 stati faranno lo stesso.

Si tratta di Stati a guida repubblicana che avevano già varato restrizioni durissime sull’interruzione di gravidanza. 

Divieti scattati subito

In Kentucky, Louisiana e South Dakota il divieto è entrato in vigore immediatamente dopo che la Corte Suprema ha emesso la sua sentenza, mentre in Arkansas, Missouri e Oklahoma qualche ora dopo a seguito della certificazione ufficiale da parte dei procuratori.

In Alabama, dopo la decisione dei massimi giudici, un tribunale ha dichiarato valido un divieto che era stato bloccato.

Il divieto è entrato in vigore anche in Wisconsin e in Nort Utah, ad eccezione che nei casi di stupro, incesto e se la vita della donna è in pericolo. 

Prossimi divieti

Con il ribaltamento della sentenza «Roe v. Wade» è molto probabile che l’aborto verrà proibito o comunque fortemente limitato anche in altri dodici stati, secondo una ricostruzione del New York Times. Alcuni di questi avevano a loro volta pronta una «trigger law» che dovrebbe entrare in vigore a giorni, come nel caso del Mississippi, lo stato da cui era partita la causa esaminata dalla Corte Suprema. O entro un mese dalla decisione, come nel caso dell’Idaho, del North Dakota e del Texas, che già l’anno scorso aveva introdotto una legge estremamente restrittiva. In quest’ultimo stato le cliniche hanno già smesso di praticare aborti, come pure in Arizona, Alabama, Arkansas, Kentucky, Missouri, South Dakota, West Virginia e Wisconsin. 

Stati incerti

Infine altri nove stati stanno discutendo della possibilità di vietare o comunque limitare il diritto all’interruzione di gravidanza, tra cui Pennsylvania, Kansas e Indiana: le loro scelte impatteranno sulla vita di 11 milioni di donne in età riproduttiva.

L’ex sindaco Giuliani aggredito

L’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani e’ stato aggredito e schiaffeggiato dal commesso di un supermercato di Staten Island. Secondo quanto riferito dal dipartimento di Polizia di New York, Giuliani è stato aggredito alle spalle e schiaffeggiato durante un evento a sostegno della campagna govenatoriale di suo figlio, Andrew Giuliani. L’aggressore, un commesso 39enne della catena di supermercati ShopRite, è stato arrestato dopo l’incidente, e verrà incriminato per aggressione di secondo grado, essendo Giuliani un ultra-65enne. Secondo la testimonianza dello stesso Giuliani, prima di aggredirlo l’uomo ha gridato più volte «ucciderete le donne»: un evidente riferimento alla sentenza della Corte Suprema che ha abolito la sentenza Roe v. Wade e restituito agli Stati Usa il potere decisionale in materia di aborto. Il pronunciamento della Corte, lo scorso venerdì 24 giugno, ha innescato durissime proteste da parte del fronte pro-aborto sull’intero territorio degli Stati Uniti.

 Aborto, perché la Corte suprema ha sbagliato. Sabino Cassese su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.  

Nel Paese in cui è stato maggiormente enfatizzato il ruolo creativo dei giudici, dove si insegna che il diritto è quello che stabiliscono i tribunali, piuttosto che quello che decidono i parlamenti, proprio i giudici supremi si sono spogliati del proprio potere e l’hanno delegato ai cinquanta parlamenti degli Stati. 

La maggioranza dei giudici della Corte suprema americana ha «ridato il potere di regolare o proibire l’interruzione volontaria della gravidanza al popolo e ai suoi rappresentanti eletti», come ha scritto nella sua sentenza del 24 giugno scorso. Invece, la minoranza dissenziente ha osservato con amarezza che ora «uno Stato può forzare una donna a portare a termine la gravidanza anche se deve affrontare i più grandi costi personali e familiari, anche se il feto ha le più gravi anomalie o è il frutto di uno stupro o della violenza commessa da un padre su una giovane figlia».

Il presidente della Corte si è dissociato osservando che la maggioranza ha fatto un passo che non era necessario, mentre avrebbe dovuto autolimitarsi.  La Corte suprema, contestando sé stessa, ha scritto una delle più brutte pagine della storia della giustizia costituzionale e ha messo in crisi il modello che essa ha rappresentato nel mondo.

La sentenza che aveva permesso l’aborto, riconosciuto come diritto della donna, era di cinquant’anni fa. Era stata confermata da un’altra sentenza del 1992. I 28 casi citati dalla maggioranza a sostegno della propria tesi, in cui la Corte ha radicalmente modificato il proprio orientamento, si fondavano su precedenti decisioni della Corte stessa.

La sentenza e le opinioni concorrenti e dissenzienti mostrano che la Corte americana è divenuta più simile a un Parlamento che a un tribunale: prevalgono gli schieramenti sui ragionamenti; le tesi sono sostenute con acredine e in modo apodittico, senza evitare contrapposizioni e cercare il compromesso (proposto dallo stesso presidente). I tribunali sono solitamente organi collegiali perché lì si deve esercitare l’arte di ascoltare, convincere, cercare accordi, ragionare, ponderare, mostrare l’equilibrio non i muscoli, decidere incrementalmente, aiutando il progresso civile, non opponendovisi o imponendosi ad esso.

Questa decisione ha mostrato tutti i difetti della Corte suprema (che hanno contribuito a ridurre della metà la fiducia della popolazione). I suoi giudici hanno solo una provenienza: sono nominati dal presidente, con il consenso del Senato. Una provenienza, quindi, eminentemente politica. Sono nominati a vita e lasciano la carica solo per morte o dimissione. Ma questo consente ai singoli giudici di stabilire quando lasciare libero il posto, in modo che il successore sia nominato da un presidente e da un Senato dello stesso orientamento. La nomina senza durata, che doveva servire ad assicurare l’indipendenza dei giudici, si è rovesciata, diventando un modo per consentire la continuità dell’influenza politica sulla Corte. Infatti, l’attuale presidente degli Stati Uniti ha nominato una commissione con l’incarico di riesaminare le norme sulla Corte.

Il terzo paradosso messo in luce da questa sentenza è più generale. Nel Paese in cui è stato maggiormente enfatizzato il ruolo creativo dei giudici, dove si insegna che il diritto è quello che stabiliscono i tribunali («judge – made law»), piuttosto che quello che decidono i parlamenti, proprio i giudici supremi si sono spogliati del proprio potere e l’hanno delegato ai cinquanta parlamenti degli Stati.   

Questa decisione evidenzia la bontà della soluzione scelta dai costituenti italiani nel decidere come comporre la Corte costituzionale e di quella del sistema politico-costituzionale italiano nell’introdurre nel nostro Paese la disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza. Infatti, la Costituzione italiana prevede che i giudici abbiano tre diverse provenienze: siano per un terzo nominati dal presidente della Repubblica, per un altro terzo eletti dal Parlamento e per l’altro terzo dalle supreme magistrature. Quanto alla disciplina dell’interruzione volontaria di gravidanza, ad essa si è arrivati con un processo lento, che ha visto l’intervento prima, nel 1975, della Corte costituzionale; poi del Parlamento nel 1978, con la legge numero 194; poi del popolo con i due referendum del 1981, e, infine, nuovamente della Corte costituzionale con la sentenza numero 35 del 1997. L’«iter» ha coinvolto popolo, Parlamento e Corte costituzionale. L’errore delle forze politiche americane è stato quello di pensare che la disciplina di un tema così sensibile potesse essere lasciata per mezzo secolo soltanto alla decisione della Corte Suprema del 1973. In conclusione, la Corte suprema americana, con questo atto eversivo, rovesciando una sua decisione di mezzo secolo fa e contestando sé stessa, ha ammesso che i giudici non hanno quel ruolo supremo o finale che viene illustrato in tutte le «Law School» americane, perché esso spetta ai rappresentanti dei cinquanta Stati (creando così forti diseguaglianze tra i cittadini appartenenti alle diverse zone del Paese), ed ha anche contribuito alla disgregazione della federazione, stabilendo che una questione tanto importante, su un diritto fondamentale, non va presa a Washington.

Roe vs. Wade, la storia del giudice Thomas, che disse: «Rovinerò la vita ai progressisti». Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 26 giugno 2022.  

Il giudice della Corte Suprema Usa, repubblicano, che ha firmato il parere che ha cancellato Roe, fu accusato di molestie a ridosso della sua nomina. Passò per un pelo. 

Clarence Thomas è un uomo di parola: «I progressisti mi hanno rovinato la vita per 43 anni; adesso io rovinerò la loro per i prossimi 43», disse nel 1993 ai suoi assistenti. Arrivò alla Corte Suprema nel 1991, appena 43enne per l’appunto, e i giudici supremi restano in carica a vita: da allora la sua vendetta verdiana, da Rigoletto con la toga, si è articolata attraverso un’impressionante serie di sentenze allineate con le istanze della destra americana più estrema.

Thomas — uno dei nove giudici che hanno annullato «Roe vs. Wade», la sentenza che garantiva il diritto all’interruzione di gravidanza nei vari Stati, ndr — non è un’anomalia del sistema, è il frutto di una strategia lucidissima di interessi precisi: una proposta politica che indicasse nel 1787 il modello di Paese sarebbe improponibile in parlamento, ma non nel sistema giudiziario. Allora è stata formata dal partito repubblicano una generazione di giudici-attivisti (ottimamente finanziata dall’opaca Federalist Society) decisi per statuto a riportare la Costituzione americana a quello che la destra vede essere il suo spirito originario, scevro cioè della maggior parte dei diritti che nei secoli successivi si sono aggiunti al nucleo di quelli del 1787 (in origine la Costituzione prevedeva, tra le altre cose, che votassero solo i proprietari terrieri maschi, che le donne stessero a casa e i neri in catene; niente Stato sociale, etc).

Thomas, «originalista», offre al partito garanzie assolute non soltanto in materia politica ma anche temperamentale: la sua sete di vendetta nei confronti dei progressisti che cercarono – goffamente, e invano – di affondarne la storica nomina alla Corte Suprema lo anima dal 1991.

George Bush padre, moderato nordista trapiantato in Texas, pagò pegno alla base più ideologizzata che gli aveva garantito l’elezione nel 1988, terzo mandato repubblicano dopo i due, storici, di Ronald Reagan. Andava in pensione un’icona dei diritti civili, il giudice Thurgood Marshall protagonista dell’affrancamento degli afroamericani dalla segregazione razziale degli Stati del Sud, e Bush padre (che aveva già mandato alla Corte Suprema un moderato del nordest in sintonia con le sue idee e anche il suo stile, il centrista David Souter) decise di sostituirlo con un uomo che con Marshall aveva in comune soltanto il colore della pelle: Thomas.

Umilissime origini, un’istruzione di lusso ottenuta grazie alle corsie preferenziali per le minoranze (corsie che dal 1991 cerca appena può di chiudere), funzionario ministeriale reaganiano, giudice federale per soli 18 mesi finché non viene scelto per la Corte Suprema.

Il 43enne non appare agli analisti come un genio della giurisprudenza ma le audizioni davanti al Senato (a maggioranza democratica: la Storia ha un crudele senso dello humour) cominciano sotto discreti auspici finché una professoressa universitaria che aveva lavorato per lui lo accusa di averla ripetutamente molestata e bersagliata con battute grevi.

Le audizioni senatoriali diventano un circo e la professoressa Hill da testimone finisce imputata, l’impressione generale dei senatori (tutti maschi, bianchi) che la interrogano senza pietà è che si tratti dell’intemerata di un’ex amante assetata di vendetta (non è vero). «È un linciaggio», grida Thomas, probabilmente la mossa vincente perché evoca linciaggi (non mediatici, veri) sui quali l’America bianca aveva allora come adesso molto da farsi perdonare.

Alcuni democratici (pochi, ma bastano) decidono che votare contro un nero pare brutto, e così anche grazie alla clamorosa debolezza del capo-commissione democratico, il senatore del Delaware Joe Biden (qui il crudele sense of humour della Storia ha fatto il bis), Hill viene derubricata a «un po’ mattocchia e un po’ zoccoletta» secondo un sicario giornalistico dei repubblicani poi pentito, David Brock. Thomas esce ammaccato ma vivo dalla commissione, il Senato al completo vota, e la nomina passa di pochissimo, 52 a 48, grazie all’aiuto democratico.

Da allora Thomas si scatena, duettando con la moglie Ginni, attivista e organizzatrice non pentita del fallito golpe del 6 gennaio 2021. Ora la sinistra democratica ne invoca l’impeachment della Camera ma è pura follia immaginare che due terzi dei senatori lo caccino dalla Corte. E Thomas continua così la lunga marcia dei suoi 43 anni di vendetta, «tremenda vendetta, di quest’anima è solo desio, di punirti già l’ora s’affretta», una sentenza dopo l’altra, con l’America del 1787 nel cuore. 

La crociata del giudice Thomas: dopo l’aborto i matrimoni gay. Diritto alla contraccezione e unioni civili nel mirino della toga ultra conservatrice. In gioventù era un libertariano anti-razzista, oggi guida l’offensiva reazionaria. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 28 giugno 2022.

«Dobbiamo riformare tutta la giurisprudenza sui diritti, dobbiamo correggere gli errori», promette il giudice della Corte Suprema americana Clarence Thomas che non riesce a nascondere la soddisfazione dopo lo storico voto di venerdì scorso che ha annullato la Roe vs, Wade che, da 49 anni, stabiliva il diritto legale all’interruzione di gravidanza.

Poco importa che la decisione dell’alta corte abbia scatenato un’eccezionale ondata di proteste in tutto il Paese, o che lo stesso presidente Biden l’abbia definita «una sciagura», secondo il 74enne Thomas, che si fa forte della maggioranza di toghe conservatrici (Neil M. Gorsuch, Brett M. Kavanaugh, Amy Coney Barrett e Samuel A. Alito), la stagione dei diritti civili è finita. E non mostra remora ad andare allo scontro con il governo, I prossimi obiettivi del giudice sono d’altra parte molto chiari anche se per il momento rimangono opinioni personali.

Come ha ripetuto più volte ai media statunitensi vorrebbe annullare altre tre pietre miliari della giurisprudenza d’oltreoceano che negli ultimi decenni hanno contribuito a costruire plicata architettura dei diritti civili. Ovvero la Griswold v. Connecticut del 1965 che permette liberamente di ricorrere alla contraccezione, la Lawrence v. Texas (2003) che revoca il divieto a contrarre matrimoni tra persone dello stesso sesso, e la Obergefell v. Hodges (2015) che autorizza i matrimoni omosessuali su tutto il territorio federale da tempo bersaglio grosso della destra religiosa.

All’appello mancherebbe soltanto la Loving vs. Virginia, una sentenza del 1967 che abolisce il Racial Integrity Act del 1924, ponendo così fine al divieto di matrimonio inter- raziale. Ma sarebbe un paradosso anche per il tetragono Thomas, che è un afroamericano sposato con una donna bianca.

La consorte si chiama Virginia Thomas ed è un’avvocata d’affari molto influente (lo stesso Thomas è stato assunto come legale dalla multinazionale Monsanto per diversi anni; tra il novembre del 2020 e il gennaio 2021 si è dannata anima e corpo per raccogliere le “prove” che avrebbero dovuto invalidare l’elezione di Joe Biden.

Nell’entourage democratico in molti la sospettano di aver avuto un ruolo primario nell’organizzazione dell’assalto al palazzo del Congresso di Washington del 6 gennaio 2021, ma la commissione d’inchiesta del Senato non ha trovato indizi concreti di un suo coinvolgimento attivo. Naturalmente speciale è stato il feeling tra Thomas e l’ex presidente Donald Trump che ha difeso con fermezza nell’inchiesta sull’assalto a Capitol Hill, opponendosi alla procedura di incriminazione del tycoon.

Nominato da Bush padre nel 1991 dopo anni di servizio alla Corte d’appello del distretto di Columbia e poi al ministero dell’educazione, Thomas, che in gioventù aveva addirittura fondato un sindacato studentesco vicino alle black panther, proviene da una cultura politica libertariana. Da ragazzo era un sostenitore di Martin Luther King e un militante antirazzista, ma da fervente cattolico non amava i movimenti di sinistra. Poi ha preso una traiettoria tutta sua e nel corso degli anni si è progressivamente spostato su posizioni conservatrici se non apertamente reazionarie.

Pare che la prima svolta ideologica di Thomas sia avvenuta all’inizio degli anni 70, durante le violente contestazioni contro la guerra in Vietnam, che lo hanno avvicinato al partito repubblicano perché «disgustato» dalle proteste studentesche. Poi la laurea in diritto, le consulenze nel mondo degli affari, i ruoli istituzionali, insomma una folgorante carriera che lievita parallela ai 14 anni di presidenze Reagan- Bush fino al prestigioso approdo della Corte suprema. Probabilmente tra i suoi colleghi solo il giudice Kavanaugh è più a destra di lui, ma non possiede un’oncia della sua autorità e del suo carisma: sarà dunque Thomas a dettare i tempi delle prossime iniziative dell’alta corte. Con la prospettiva di un durissimo scontro con la Casa Bianca e con un pezzo di società americana.

Una Corte "orientata" che ribalta la Storia. La guerra ideologica colpisce l'Occidente. Paolo Guzzanti il 25 Giugno 2022 su Il Giornale.

Giudici conservatori decisivi. Il Paese lacerato, lo scontro sui diritti e le ricadute internazionali.  

Le immagini che arrivano dall'America mostrano i riots, i tumulti nelle strade in tutte le grandi città con la polizia schierata poco convintamente contro una gran quantità di donne non soltanto nere che protestano contro una legge temutissima e dannatamente lacerante come quella emessa dalla Corte Suprema che ha abolito l'aborto come diritto federale lasciando così ai singoli Stati la possibilità di metterlo al bando o limitarlo secondo diversi criteri. Questa decisione della Corte suprema americana avrà un pessimo impatto sulla politica internazionale perché gli Usa avevano finora goduto anche del prestigio di Paese più liberale in materia di diritti civili, essendo l'aborto considerato dalla maggior parte delle donne del mondo come un diritto non alienabile. Tutti i Paesi emergenti hanno praticato politiche abortive per motivi anche economici (in Cina mancano all'appello 180 milioni di donne a causa degli aborti selettivi nell'epoca del maoismo).

Gli Stati più conservatori come già sta facendo il Texas - chiuderanno tutte le procedure per l'aborto libero e specialmente quelle su feti ormai maturi per nascere, ma si vedono in strada e su tutti gli schermi televisivi anche gli attivisti Pro Life, che si sono sempre battuti contro l'aborto che in America rappresenta una questione non soltanto di diritti ma investe anche la questione razziale. Negli Stati del Sud molti leader neri, specialmente donne, da tempo si sono levate contro l'aborto totalmente permissivo e di immediato accesso per - sostengono loro - distruggere la riproduzione degli afroamericani. La questione ha avuto sviluppi molto laceranti che da noi sarebbero incomprensibili e che hanno visto tra i protagonisti della contestazione all'aborto molti difensori della collettività nera, ma anche delle comunità latino-americane.

La decisione dipende dal fatto che sotto Trump e poi ancora più recentemente il numero dei componenti conservatori della Corte ha superato quello dei progressisti, benché la materia ha a che fare soprattutto con divisioni religiose ed etniche. Si contrappongono diversi modelli di cultura ebraica, come anche le diverse convinzioni delle comunità native in genere ostili alle pratiche abortive perché considerate genocide.

L'aspetto razziale della questione dell'aborto è in genere quello più incomprensibile per noi europei: non soltanto Negli Stati Uniti ma anche in Brasile e in molti paesi di cultura latina e indigena le cliniche abortive sono vissute come abominevoli centrali di compagnie farmaceutiche e di imprese a vario titolo biologiche, le quali hanno un dimostrato interesse ai lucrosi proventi dei materiali umani ricavabili dagli aborti di massa. Negli Stati del Sud le minoranze afroamericane accusano i bianchi di avere accoppiato due sistemi per impedire alla società nere di incrementarsi e strutturarsi. Il primo è quello di un aborto servito a domicilio con una catena di strutture installate nelle aree marginali delle periferie urbane. E la seconda consiste nella pratica di compensare ogni ragazza nera incinta dall'età di 14 anni con un sussidio per garantire la sua vita e quella di suo figlio, col risultato di avere un'intera popolazione di donne sole che hanno messo al mondo cinque o sei figli destinati alla marginalità senza alcuna possibilità di costruire una famiglia.

Ciò che separa l'America bianca dall'altra di colore è l'idea costante che i bianchi altro non vogliano che limitare o impedire la procreazione delle razze meno gradite. Ciò non vuol dire che le donne nere o latine siano contente di questa decisione che non nasce certamente da un desiderio filantropico ma da quello di dar ragione ai movimenti antiabortisti e Pro Life che nel corso degli anni si sono fatti sempre più violenti, arrivando ad attaccare le cliniche abortiste con le armi e in qualche caso uccidendo vittime innocenti.

Il paese è dunque spaccato. Fino a ora il diritto all'aborto era considerato comunque un traguardo raggiunto universalmente e un diritto di tutte le donne. Ora non è più così. 

La svolta sull’aborto infiamma la guerra culturale negli Usa. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 24 giugno 2022.

La decisione della Corte Suprema Usa di cancellare la sentenza Roe vs Wade, che dal 1973 garantisce su scala federale la facoltà per le donne incinte di praticare l’aborto, riaccende la “guerra culturale” fra progressisti e conservatori che imperversa negli Stati Uniti. Una decisione storica che, inevitabilmente, polarizzerà più di quanto non lo sia ora il dibattito americano fra i due schieramenti, con tensioni ideologico-politiche che potrebbero sfociare anche in violenze. A testimoniarlo, le reazioni di queste ore. I media e gli organi di stampa conservatori non hanno nascosto la loro gioia per la notizia. “Lode a Dio”, ha twittato la caporedattrice del Federalist, Mollie Hemingway. “Il Paese ha un enorme debito verso tutti gli attivisti per i diritti umani pro-vita, studiosi, avvocati, politici, genitori, pastori, operatori sanitari, ecc., che hanno lavorato per 50 lunghi e duri anni per portare il Paese a questo momento di liberazione da Roe. Grazie”, ha aggiunto.

E i conservatori festeggiano

“Questo è un giorno straordinario per i diritti umani in America. È una vittoria per la gentilezza, la decenza e l’umanità, e una sconfitta per la crudeltà”, ha scritto Dan McLaughlin di National Review. “Un giorno glorioso assoluto per la vita in America! Lode a Dio!”, ha twittato il caporedattore di NewsBusters Curtis Houck.

“È un grande giorno per la vita. Un grande giorno per il ripristino della giurisprudenza costituzionale. È semplicemente un grande giorno”, ha detto l’ex procuratore americano Andrew McCarthy. Intervistato da Fox News, anche l’ex presidente Donald Trump ha elogiato la decisione della Corte Suprema. “Questo è seguire la Costituzione e restituire i diritti quando avrebbero dovuto essere dati molto tempo fa”, ha detto Trump a Fox News. “Dio ha preso la sua decisione” ha aggiunto, rimarcando il fatto che ora la palla passa agli stati federali. Trump gioisce perché è, di fatto, uno degli artefici di questa svolta storica: durante la sua presidenza ha infatti nominato alla Corte Suprema i giudici conservatori Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett.

Con quelle nomine, ricorda Fox News, la corte è diventata a maggioranza conservatrice, con il giudice capo John Roberts, il giudice Samuel Alito, il giudice Clarence Thomas, Gorsuch, Kavanaugh e Barrett. L’evangelista cristiano Franklin Graham, Ceo e presidente di Samaritan’s Purse, nonché Ceo e presidente della Billy Graham Evangelistic Association, ha dichiarato che la “sinistra radicale chiede una notte di rabbia, i centri per la gravidanza sono già stati vandalizzati e attaccati e i nostri giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti sono presi di mira con minacce e intimidazioni”. Ha poi aggiunto: “Roe v. Wade, approvata 49 anni fa, ha provocato la morte di oltre 63 milioni di bambini innocenti in questo paese. Purtroppo, questa decisione non pone fine all’aborto, ma riporta la battaglia negli Stati Uniti”.

Obama e i progressisti all’attacco

Anche l’ex presidente Barack Obama ha deciso di far sentire la sua voce. “Oggi, la Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di storia, ma ha relegato la decisione più personale che una persona possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di americani”, ha affermato Obama in una nota. “Da più di un mese sapevamo che questo giorno sarebbe arrivato, ma questo non lo rende meno devastante”, ha continuato. La governatrice di New York Kathy Hochul ha commentato la decisione della Corte Suprema dichiarando il suo stato un “porto sicuro” per coloro che vogliono abortire, riaffermando il suo impegno per il diritto all’aborto e definendo la decisione dei giudici “ripugnante”. Per il New York Times, la democrazia americana è a rischio. “È attraente credere che i giudici possano elevarsi al di sopra della politica, interpretando la legge e nient’altro, e rimanere indifferenti alle conseguenze delle loro decisioni. Ma è chiaro che nel corso degli anni la Corte Suprema è diventata l’ennesima istituzione partigiana” si legge.

La svolta storica della Corte Suprema

Come ha spiegato Andrea Muratore su InsideOver, la Corte Suprema ha stabilito che non esiste alcun diritto costituzionalmente garantito all’aborto negli Stati Uniti, dove manca una legge ad hoc a quasi mezzo secolo dalla sentenza del 1973 che garantì una facoltà mai normata da una legge di carattere nazionale. La Roe vs Wade impediva a qualsiasi Stato federale di promuovere leggi capaci di abolire sul suo territorio l’interruzione di gravidenza, demandando ai singoli membri dell’Unione la decisione sulle leggi da promuovere in forma più o meno restrittiva.

La sentenza della corte è arrivata nel caso cruciale Dobbs vs Jackson Women’s Health Organization, in cui l’ultima clinica per aborti nel Mississippi si è opposta agli sforzi dello stato dell’America profonda di vietare l’interruzione delle gravidanze dopo 15 settimane e di rovesciare Roe, risultando sconfitta nel processo.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

Biden: “Un giorno triste per gli Usa. Sull’aborto un grave errore”. Francesca Salvatore su Inside Over il 24 giugno 2022.

In queste ore negli Stati Uniti si fa la storia, ma nel senso inverso. Dopo la fuga di notizie chiacchieratissima del maggio scorso, la decisione sembrava nell’aria ma non così imminente: quest’oggi, invece, la Corte Suprema ha definitivamente ribaltato la sentenza Roe vs Wade che dal 1973 è stata il baluardo dell’America pro-choice e che per quasi mezzo secolo ha consentito l’aborto entro le 24 settimane di gravidanza.

La decisione

Eliminata la garanzia della storica sentenza, e in assenza di una legge federale sul tema, quasi la metà degli Stati potrebbe mettere al bando o limitare severamente l’aborto a seguito della decisione. Altri Stati prevedono di mantenere regole più liberali nel regolare l’interruzione di gravidanza. “La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto e l’autorità di regolamentare l’aborto viene restituita al popolo e ai suoi rappresentanti eletti”, si legge nel parere reso pubblico e scritto dal giudice Samuel Alito. I tre giudici liberal – Stephen Breyer, Sonia Sotomayor e Elena Kagan – hanno votato contro: “Con dispiacere – per questa Corte, ma soprattutto per i molti milioni di donne americane che oggi hanno perso una fondamentale protezione costituzionale – dissentiamo”.

Un colpo di scena che promette di gettare sale sulle ferite di un’America scollata e spaccata a metà, e che andrà esacerbando i toni e modi delle elezioni di mid term. Un altro duro colpo alla presidenza Biden e al mondo progressista.

“Un giorno triste”

Biden si presenta alla conferenza stampa abbattuto, con un filo di voce, ma stranamente fermo. Lo definisce un giorno triste per la Corte quello appena passato, e rispolverando il linguaggio tipico del costituzionalismo americano bolla la decisione della Corte come un “attentato alla privacy”: in effetti è proprio attorno al concetto di privacy che negli Stati Uniti è nato l’humus fertile ai diritti delle donne su temi come aborto e contraccezione. La privacy del corpo inteso come luogo sacro, come confine invalicabile tra noi e gli altri, tra la scelta personale e la norma o la morale.

Il presidente lancia un allarme: ora le donne americane sono a rischio, perché è a rischio non solo la loro scelta ma la loro salute. Ne fa una questione bipartisan: cita le tre grandi presidenze repubblicane (Nixon, Reagan, Bush) sotto le quali la Roe vs Wade ha prosperato come garanzia di legge. E indica un responsabile, a chiare lettere, di questo ribaltamento: Trump e il trumpismo, che aleggia come un fantasma nella composizione della Corte Suprema. Un’ideologia estrema la definisce Biden, poichè l’abolizione del diritto costituzionale all’aborto ha dimostrato quanto la maggioranza conservatrice all’interno della Corte suprema sia “estrema, e quanto le sue idee siano distaccate dalla realtà e dalla popolazione”. Questo ribaltamento costituzionale, secondo la Casa Bianca, costringerà le donne “a tenere i figli dei loro stupratori”, “renderà attive le leggi degli Stati che bandiscono l’aborto”. Stessa cosa dicasi per i casi di incesto. Biden allarga la visuale e la battaglia anche alla salute femminile intesa nel senso più ampio, passando per la tutela del diritto alla contraccezione e alle cure femminili.

Il presidente promette battaglia: “Roe is on the ballot!” ripete più volte, annunciando di fare qualsiasi cosa in suo potere per ripristinare un diritto riconosciuto federalmente. Ma ribadisce anche l’impossibilità per il presidente di agire da solo, rimandando a senatori e deputati la responsabilità e il potere di metterla ai voti una volta per tutte. “Tuttavia, la battaglia non è finita: la mia amministrazione farà tutto il possibile per difendere i diritti delle donne, ma un’azione del Congresso è fondamentale e con il voto alle prossime elezioni di medio termine i cittadini possono avere l’ultima parola”. Prima di congedare la stampa, il presidente ha ribadito due punti: il primo, rifiuto di qualsiasi forma di violenza, minaccia o intimidazione chiedendo che qualsiasi protesta si tenga pacificamente; con il secondo, prendendo posizione: “I stand with you!”, grida alle donne d’America.

Biden ha scelto davvero questa battaglia?

Il panorama giuridico adesso si complica. Se c’è chi preannuncia già uno scenario in stile Il racconto dell’ancella, quello che più facilmente accadrà nei prossimi mesi sarà una spaccatura netta tra Stati progressisti e Stati conservatori. Se i primi continueranno a garantire l’accesso all’aborto e a tutti i canali legati alla maternità e alla contraccezione consapevole, nelle aree dominate da Governi repubblicani e dalla forte impronte evangelica, il rischio è che non solo l’aborto venga vietato ma perfino l’accesso alla contraccezione, con grave pregiudizio della salute femminile. Si assisterà a veri e propri spostamenti in massa di donne che cercheranno di abortire oltre frontiera e un’impennata di aborti clandestini.

Biden sembra aver scelto la sua battaglia interna, optando per una simbologia interna che ancora sembrava assente. Eppure, non sono in molti a credere che il presidente abbraccerà questa lotta senza se e senza ma: numerosi osservatori notano che Biden stenti ad usare il termine “aborto” e che nel suo discorso ci sia stato, ad onor del vero, uno shift verso il tema ben più generale della salute della donna.

“È tempo che questo Presidente dichiari ciò che sta accadendo come un fallimento morale in questo paese e come una crisi della salute pubblica e dei diritti umani. È oltre il punto di fare politica. È tempo di pronunciare la parola aborto ad alta voce”, ha affermato la rappresentante dello stato del New Mexico, Michaela Lara Cadena. Il New Mexico, uno Stato senza alcun tipo di restrizioni all’aborto, è candidato a ricevere un alto afflusso di pazienti dagli stati vicini come il Texas.

Il presidente ora si trova sotto la pressione dell’ara radicale dei dem e del ondo dell’attivismo pro-choice. Nelle settimane precedenti la sentenza, discutendo con i lawmakers, a Biden sono state fornite diverse opzioni alternative per fronteggiare l’eventuale ribaltamento della Roe. Fra queste, ad esempio, consentire ai fornitori di aborti di lavorare dalla proprietà federale; oppure, fornire  finanziamenti federali alle donne per viaggiare fuori dallo Stato, opzione che ha il potenziale di entrare in conflitto con l’emendamento Hyde, la legge che proibisce il finanziamento federale all’aborto in quasi tutti i casi. Altre opzioni sono apparse più fattibili, incluso rendere più facile per le donne ottenere pillole abortive per posta. Ma restano gli ostacoli legali.

Per gli Stati Uniti e per la Casa Bianca si prepara un autunno caldo: c’è da scommettere che l’aborto sarà protagonista del mid term e della corsa per il 2024.

Diane Derzis: «Le mani sull’aborto negli Usa? È spaventoso ed è solo l’inizio. Ora le donne ricominceranno a morire». «Tenete tutti alta la guardia. Se può accadere qui, può accadere ovunque» dice la proprietaria dell’unica clinica in Mississippi in cui si pratica l’interruzione di gravidanza. E che è al centro del caso su cui si è espressa la Corte Suprema. «Sono quarant’anni che ci minacciano in nome di Dio, ma non mi fermerò». Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni su L'Espresso il 6 maggio 24 giugno 2022.  

AGGIORNAMENTO 24 GIUGNO 2022: La Corte Suprema Usa ha abolito la sentenza Roe v Wade che garantiva il diritto di interrompere la gravidanza a livello federale e in vigore da 50 anni. Ora ogni Stato potrà legiferare sul tema

«Ho sempre pensato che prima o poi sarebbe successo. Ora ci siamo e non so se sono pronta. È spaventoso». Diane Derzis scandisce bene l’aggettivo con la voce roca: «spaventoso». Vuole che afferriamo la portata del terremoto sociale che sta scuotendo gli Stati Uniti. «Se la Corte Suprema dovesse davvero confermare il ribaltamento della Roe contro Wade, in una nazione avanzata come l’America molte donne ricominceranno a morire perché non potranno accedere in sicurezza a una procedura medica che è stata disponibile negli ultimi cinquant’anni. Saranno costrette di nuovo agli aborti clandestini o dovranno fare le valige e viaggiare». 

Derzis è proprietaria dell’unica clinica che in Mississippi - uno stato di tre milioni di abitanti – pratica l’interruzione volontaria di gravidanza. È lei la donna che da oltre quarant’anni, schivando picchetti di manifestanti imbufaliti e trappole legislative non meno rabbiose, accudisce l’autodeterminazione delle donne del sud conservatore. «È il 2022 e stiamo tornando indietro» sbotta sconfortata quando la raggiungiamo al telefono. È esausta, sono giornate di fuoco. Il suo ambulatorio, la Jackson Women’s Health Organization, è al centro del caso che la Corte Suprema sta esaminando, ovvero la costituzionalità di una legge del 2018 dello Stato del Mississippi che vieta l’aborto dopo 15 settimane di gestazione. La decisione è attesa tra la fine di giugno e l’inizio di luglio. È molto probabile che Derzis perderà. E questa sconfitta, dai confini del Mississippi si espanderà a tutta l’America. Nei giorni scorsi, infatti, il sito Politico ha reso pubblico un documento in bozza a firma del giudice conservatore Samuel Alito sul parere della maggioranza delle toghe che ripudia la Roe contro Wade. Se questa sentenza storica - che dal 1973 garantisce il diritto di aborto - dovesse veramente cadere, in assenza di una legge federale in merito, la decisione sarà completamente rimandata agli Stati. 

Abbiamo davanti un’America spaccata: da una parte ci sono gli Stati democratici che proteggeranno l’aborto in tutti i modi; l’altra metà, quella più conservatrice, è pronta a vietarlo o a limitarlo pesantemente, incluso il Mississippi, ma anche ad esempio il Texas e l’Oklahoma. Che ne sarà della sua clinica?

«Ci trasferiremo. Ho comprato una struttura in Nuovo Messico dove questo diritto è protetto, stiamo allestendo l’ambulatorio. Di sicuro non mi fermerò. Bisognerà raccogliere fondi affinché le donne possano viaggiare in altri Stati. Tra queste ci sono tante persone che non hanno disponibilità economiche; le più vulnerabili, ovvero donne di colore in condizioni di povertà che di certo non possono permettersi un biglietto aereo per New York. È la parte più triste di questa storia. Dovremo lavorare sul fronte legale. Mi aspetto anche arresti, perché in alcuni Stati sarà proibito andare ad abortire fuori. Mi auguro solo che tutto ciò svegli la gente».

Cosa risponde a chi, come Alito, sostiene che nella Costituzione non ci sia cenno all’aborto come diritto?

«È un argomento ridicolo. Gioverebbe ricordare che le uniche persone menzionate nella Costituzione sono gli uomini. Non le donne, né i neri. La carta originale non permetteva agli afroamericani di votare. La verità è che puntano al controllo delle donne. Ci vogliono fuori dalla forza lavoro, sperano di tornare indietro a quando non avevamo scelta».

Cosa controbatte a chi ritiene di proteggere la vita?

«Non credo che gli importi dei bambini. Se fosse così, finanzierebbero programmi per prendersene cura. L’unica preoccupazione è quel che accade prima della nascita. Non c’è empatia, non capiscono che una parte dell’America non è come loro.

Pro-life contro pro-choice, in questo Paese il confronto non è sempre solo dialettico.

Le minacce non mancano. Nel 1998 hanno ucciso una delle guardie della mia clinica a Birmingham in Alabama. Ho visto in prima persona cosa sia capace di fare questa gente in nome di Dio. Ma Dio non ha niente a che vedere con questa violenza.» 

A novembre ci saranno le elezioni di metà mandato. L’aborto è uno dei temi più divisivi in questo Paese, cosa si aspetta alle urne?

«Spero che lo sconvolgimento di queste settimane spingerà la gente ad andare a votare per blindare la maggioranza al senato e permettere l’approvazione del Women's Health Protection Act che garantisca l'accesso all'interruzione volontaria di gravidanza. Biden ha detto molto chiaramente che è pro-choice ma può fare poco da solo. Vorrei avere fiducia nel popolo americano, ma non ce l'ho».

Il 70% degli americani pensa che sia una scelta che andrebbe lasciata alla donna e al suo medico. Le proteste e l’opinione pubblica potrebbero portare la Corte a un ripensamento?

«No, credo che sia la posizione finale. Non vedrò mai l’aborto legalizzato in tutto il Paese ed è una cosa terrificante».

Cosa farà l’America progressista nelle prossime settimane?

«È bene che sia in allerta. Il timore più grosso è che questa lotta contro l'aborto sia parte di un movimento più ampio. È tutto legato insieme: diritti delle donne, delle minoranze. È solo l'inizio. Credo davvero che siano in pericolo anche la comunità Lgbtq, il matrimonio e le adozioni gay. Siamo a un bivio della nostra storia. Credo anche che tutte le nazioni progressiste debbano tenere alta la guardia. Se può accadere qui, può accadere ovunque».

"Sui diritti non si può mai rimanere fermi, altrimenti si torna indietro". Sentenza contro l’aborto, Italia tra timori e gioia: “Qui troppi obiettori”, “Grazie Trump”. Redazione su Il Riformista il 24 Giugno 2022 

Come conseguenza della storica sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti di abolire il diritto costituzionale all’aborto, che da oggi verrà deciso dai singoli Stati americani, “c’è il rischio di morte per aborti clandestini“. La decisione (6 contro 3) dei giudici statunitensi scatena indignazione e timori in Italia, con i Radicali che riaccendono i riflettori su alcune mancanze che riguardano il rispetto della legge 194 in Italia (che riguarda appunto il diritto all’interruzione di gravidanza) e i rischi di un’inversione di tendenza anche nel nostro Paese.

Per Emma Bonino di Più Europa si tratta di una “sentenza politica” con “le associazioni sia antiabortiste che abortiste in agitazione da mesi. La sentenza della Corte Suprema dopo 50 anni cancella il diritto di aborto negli Usa a livello federale, perdendo così il livello di costituzionalità. Ora saranno i singoli Stati, un po’ come avviene in Europa, basti pensare a Polonia e Ungheria – osserva Bonino -, oltre ai rigurgiti antiabortisti anche nel nostro Paese, a disciplinare questa libertà”.

“È sicuramente un passo indietro e la mia solidarietà va alle donne americane che si ritrovano nella stessa situazione di decenni fa con una sentenza tutta intrisa di politica, visto che i giudici eletti erano stati nominati dall’amministrazione Trump”.

“Ma – ammonisce la leader di Più Europa – questa sentenza è un richiamo forte anche per noi, donne e uomini in Italia ed in Europa: sui diritti non si può mai rimanere fermi, se non si va avanti si rischia di andare indietro. Se non si conquistano maggiori spazi di libertà e responsabilità, il rischio è di perdere conquiste che sembravano immodificabili. Dobbiamo esserne tutte e tutti consapevoli, anche nelle battaglie politiche, perché non è vero che ‘sono tutti uguali’, specialmente sui diritti e delle donne in particolare”.

Sulla stessa lunghezza d’onda Giulia Crivellini, radicale e promotrice della campagna ‘Libera di Abortire’, secondo cui quanto avvenuto dimostra che “i diritti che sembrano acquisiti possono essere sottratti alle persone da un momento all’altro. Ci sono percentuali altissime di obiettori di coscienza e numerose giunte regionali, come quelle di Marche e Abruzzo, che sfruttano le zone grigie della legge per impedire nei fatti l’accesso all’aborto”.

Gioisce invece il senatore leghista Simone Pillon secondo il quale la “famosa sentenza Roe vs. Wade” era “fondata su un caso falso, che aveva autorizzato l’aborto negli Stati Uniti. L’aborto volontario non è un diritto. Nella sentenza, approvata 6 contro 3, si legge che ‘la costituzione non fa alcun riferimento all’aborto, né il nessun diritto del genere è implicitamente protetto da alcuna previsione costituzionale, incluse quelle su cui si basano i difensori di Roe e Casey'”. Poi rincara: “Ora portiamo anche in Europa e in Italia la brezza leggera del diritto alla vita di ogni bambino, che deve poter vedere questo bel cielo azzurro. Lavoreremo per questo, senza metterci contro nessuno ma restando dalla parte delle mamme, dei papà e dei loro bambini”. Infine Pillon ringrazia il “presidente Trump, che non ha mai fatto mistero di voler difendere la vita nascente, nominando giudici pro life alla Corte Suprema”.

Parole che vengono in parte smentite dal leader della Lega Matteo Salvini, scettico su quanto affermato dalla Corte Suprema degli Usa: “Credo nel valore della vita, dall’inizio alla fine, ma – dice – a proposito di gravidanza l’ultima parola spetta sempre alla donna”.

Usa, storica sentenza della Corte Suprema: annullato il diritto all’aborto. Biden parla alla nazione. Redazione venerdì 24 Giugno 2022 su Il Secolo d'Italia.

Come era stato anticipato a maggio, la Corte Suprema degli Stati Uniti con una sentenza storica ha di fatto annullato il diritto all’aborto fino a 24 settimane. L’annullamento riguarda la sentenza Roe vs Wade che da 50 anni garantisce alle donne il diritto ad interrompere la gravidanza. “La Costituzione non garantisce un diritto all’aborto”, si legge nella sentenza appoggiata dalla maggioranza conservatrice della Corte. Che ribadisce inoltre che “l’autorità di regolare l’aborto torna al popolo ed ai rappresentanti eletti”, vale a dire autorizza gli stati alla possibilità di vietarlo.

“La Roe è stata sbagliata in modo eclatante sin dall’inizio” ha scritto nell’opinione della maggioranza il giudice Samuel Alito riferendosi alla sentenza del 1973. “La sua argomentazione era eccezionalmente debole, ed ha avuto dannose conseguenze – ha scritto ancora – e piuttosto che portare ad un accordo nazionale sulla questione dell’aborto, ha infiammato il dibattito ed aumentato le divisioni”.

Con questa decisione, destinata a provocare un enorme terremoto politico e sociale negli Stati Uniti, i sei giudici conservatori hanno quindi confermato la legge approvata dal Mississippi che vieta l’aborto dopo le prime 15 settimane, che è in contrasto con quanto stabilito dalla Roe, che lo rende possibile fino a 24 settimane.

Sono oltre una ventina gli Stati, in maggioranza in stati del Sud e Mid West a guida repubblicana, che hanno approvato leggi restrittive sull’aborto, o veri e propri divieti. Leggi che sono state di fatto legittimate dalla decisione di oggi della Corte Suprema. Una sentenza che rappresenta una vittoria storica per il movimento conservatore e pro life americano che per anni ha lavorato in questa direzione.

Tra i primi a criticare la scelta è stato Barack Obama: “Oggi la Corte suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno possa prendere ai capricci di politici e ideologi, attaccando le libertà essenziali di milioni di persone”. Il presidente Joe Biden ha annunciato che terrà un discorso alla nazione in serata.

“Questo è un giorno monumentale per la sacralità della vita”, commenta invece su Twitter l’attorney generale del Missouri, Eric Schmitt, annunciando che “a seguito della decisione della Corte Suprema di annullare Roe vs Wade, il Missouri è il primo a mettere fine all’aborto”.

“Oggi è un giorno storico, ma noi ricordiamo i 60 milioni di vite innocenti perse – ha aggiunto Schmitt che ha postato la foto mentre firma la misura – c’e’ stato molto lavoro dietro le quinte per raggiungere questa incredibile vittoria”.

Oltre al Mississipi – ha scritto di recente Vanity fair – nel luglio 2021 ha suscitato molte proteste la legge del Texas, che, oltre a vietare l’aborto dal momento in cui è percepibile il battito fetale (intorno alle sei settimane), ha introdotto una ricompensa di 10 mila dollari a chiunque denunciasse un’interruzione di gravidanza illegale.

Attualmente la norma delle sei settimane è stata votata in Idaho, Georgia, Ohio, Kentucky e Louisiana. In Missouri sale a otto settimane. Alabama e in Oklahoma hanno approvato la legge più restrittiva: l’aborto è sempre vietato, anche in caso di stupro o incesto, tranne nei casi in cui sia a rischio la vita della gestante.

Giulia Mattioli per repubblica.it il 24 giugno 2022.

È un’esperienza che, purtroppo, vivono tantissime donne. Eppure è circondata da un assordante silenzio, che porta chi la subisce a sentirsi tremendamente sola, inadeguata, a soffrire in segreto, e a viverla come un fallimento, una colpa: commentando un post su Instagram Sharon Stone fa luce sul dramma dell’aborto spontaneo, e riassume in poche righe quello che pensano moltissime donne che lo hanno vissuto. L’attrice si apre sotto un post del magazine People che racconta l’esperienza dell'aborto vissuta da Peta Murgatroyd (ballerina di un programma televisivo americano), la quale confessa di aver provato, oltre ad un immenso dolore, un grande imbarazzo, un senso di vergogna.

Sharon Stone replica scrivendo: “Noi donne non abbiamo uno spazio per parlare della profondità di questa perdita. Ho perso 9 bambini a causa di aborti spontanei. Non è una cosa da nulla, fisicamente ed emotivamente, e nonostante questo rimane qualcosa che dobbiamo sopportare da sole e segretamente, e con un certo senso di fallimento”. Anche Meghan Markle aveva scelto di raccontare pubblicamente il suo aborto spontaneo, avvenuto nel 2020, per contribuire ad abbattere i tabù che ancora permeano questo evento.

“Per guarire avremmo bisogno di ricevere compassione ed empatia” prosegue Sharon Stone, “ma il sistema sanitario è nelle mani dell’ideologia maschile, che è negligente, nel migliore dei casi, o addirittura ignorante, o persino violentemente oppressiva in certi casi”. L’attrice aveva già raccontato in passato di aver vissuto il dramma dell’aborto spontaneo, e di aver fatto richiesta di adozione del primo dei suoi figli proprio di ritorno dall’ospedale dopo una di queste brutte esperienze. Attualmente Sharon Stone ha tre figli adottivi: Roan, Laird e Quinn.

Molti dei commenti che seguono quello di Sharon Stone sono dello stesso tenore (come spesso accade quando una donna si apre sui social rispetto a questo tema), e raccontano il dolore profondo, ben più profondo di quanto sia socialmente riconosciuto, oltre alla sensazione di solitudine, di fallimento. Il tema della salute riproduttiva femminile e delle ripercussioni che certi percorsi hanno sulla psiche delle donne in tempi recenti viene sollevato sempre più spesso da testimoni e attiviste stanche di trovarsi ad avere a che fare con un sistema sanitario pensato su misura per gli uomini. 

Rossello Gesa per “Libero quotidiano” il 25 giugno 2022.

Il presidente del Paese più importante del mondo ha bisogno della badante. Non è una cattiveria, ma una confessione dello stesso Joe Biden. Giovedì, durante una riunione con alcuni vertici dell'industria dell'eolico, il presidente americano ha sfoggiato un papello predisposto dallo staff con istruzioni dettagliate. «Siediti al TUO posto», «Limita i commenti a due minuti», «Fai una domanda» a tizio, «Ringrazia i partecipanti», «Esci». 

Ben più della prassi a scanso di equivoci. Parte dell'imbarazzo è il fatto che Biden abbia mostrato questa "road map per dummy", esponendosi al tiro a segno del ridicolo.

Ora, i presidenti americani sono noti per le gaffe. Da manuale di storia quelle di Richard M. Nixon, da "Rischiatutto" quelle di George W. Bush Jr. Ma questo non ha impedito mai di sfoderare leadership forti. Con Biden è diverso.

Che sia suonato è evidente da tempo, che spesso non sia all'altezza è lampante dall'insediamento. Ma che abbia bisogno della velina persino per trovare l'uscio di casa è inquietante. 

Il rispetto dovuto alla sua età è fuori discussione e sta oltre ogni partigianeria. Ma il punto è: se Biden non è in grado, chi comanda alla Casa Bianca? Il ghost writer dei poveri che gli ha preparto la noticina? Sarebbe il minore dei mali. Il peggio è se Biden fosse un fantoccio degno del XXV Emendamento alla Costituzione (quello che permette di sollevare un presidente dall'incarico per incapacità) tenuto in vita politica artificiale per motivi opachi.

Niente incappucciati, complotti e "masserie" alla Checco Zalone: bastano le cronache. Che ricordano che, benché il vicepresidente federale non sia di per sé affatto carta da parati, Biden al fianco di Barack Obama lo fu eccome. Poi è tornato in auge quando media, Sinistre e sfascisti di ogni sorta si sono fusi per fare la forca a Donald Trump. Evidentemente mancava uno stallone più focoso. Oppure serviva un brocco sfiancato: non forse da sostituire al momento buono, quanto da manovrare. 

Gli indici hanno puntato spesso sulla vice, Kamala Harris, vista come terminale di un mondo estremista incapace di conquistare la titolarità del potere, ma bravo a esercitarlo dietro la sagoma di cartone di Biden. Che infatti l'Amministrazione Biden sia tutt' altro che centrista lo dimostrano la foga con cui la Casa Bianca sostiene l'aborto a ogni costo, il radicalismo gender e persino un "burro e cannoni" che nemmeno i falchi di un tempo. E questo è evidente pur sostenendo la necessità di armare la resistenza ucraina, benché sia chiaro che i falchi liberal abbiano a cuore ben altro che il bene degli ucraini.

Epperò il pregresso di Biden al Senato ricorda un altro uomo. E quindi, o la sua vecchiaia va rispettata ma magari non messa in capo alle sorti del mondo, oppure altri agiscono dietro di lui. Il Pentagono? L'establishment del Partito Democratico deciso alla "guerra civile" dopo la cancellazione della sentenza «Roe w. Wade»? I loro potenti finanziatori, da Silicon Valley a Hollywood? Il difficile è soprattutto capire verso quale meta siano diretti ora. Sul bigliettino di Biden giovedì non c'era scritto. 

Usa, mobilitazioni in ogni città contro la revoca del diritto all’aborto. Il Dubbio il 25 giugno 2022.

Stati Uniti attraversati da marce di proteste e di tensioni, dopo la decisione della Corte Suprema che ha revocato il diritto all’aborto, in vigore da quasi cinquant’anni. Da Washington a New York, da Los Angeles a Phoenix sono decine di migliaia i cittadini scesi in piazza.

A New York sono almeno venti le persone arrestate dopo la marcia di protesta organizzata ieri lungo le strade della città. Tensioni ci sono state vicino a Bryant Park, nel cuore di Manhattan. Al raduno organizzato a Lower Manhattan c’erano anche la comica Amy Schumer e la Procuratrice generale dello stato Letitia James, appena eletta nel consiglio comunale della Grande Mela. «Non torneremo indietro ai giorni in cui usavamo i ganci di filo metallico», ha urlato dal palco la donna, rivelando di aver abortito quasi due decenni fa. «Il diritto di controllare i propri corpi è un diritto fondamentale sancito dal 14esimo emendamento», ha aggiunto la politica democratica.

A Los Angeles i manifestanti pro-aborto hanno marciato lungo la 110 Freeway, una delle strade più importanti, bloccando il traffico. Nella capitale Washington centinaia di persone di entrambi gli schieramenti, pro e contro l’aborto, si erano radunate già dal mattino davanti alla Corte Suprema. Un attivista in favore dell’aborto, Guido Reichstadter, si è arrampicato sul Frederick Douglass Memorial Bridge, e ha postato video e foto sui social dalla sommità del ponte, dopo aver disteso un grande striscione verde. «Sono salito qui sopra – ha detto in una diretta su TikTok – perchè la Corte Suprema ha lanciato un attacco vigliacco e anticostituzionale ai diritti delle donne in questo Paese».

A Phoenix i manifestanti, che si erano radunati attorno al palazzo del Congresso statale, sono stati dispersi con i lacrimogeni dopo un tentativo di fare irruzione nell’edificio del Senato. In molte città le zone dove si trovano i palazzi governativi e le Corti supreme statali sono presidiate da polizia e soldati in assetto anti sommossa

A. Gua. Per “il Messaggero” il 25 giugno 2022.

Prima lo shock, poi il rimboccarsi le maniche. Nell'arco di poche ore le donne americane hanno cominciato a reagire pragmaticamente alla storica decisione della Corte Suprema che dopo 49 anni cancellava il diritto costituzionale all'aborto. Mentre gli antiabortisti cantavano vittoria e ringraziavano Iddio della vittoria, i pro-choice hanno cominciato a versare contributi e presentare offerte di volontariato alle associazioni che garantiranno aiuto alle donne intrappolate negli Stati repubblicani ed evangelici che da ieri hanno chiuso ogni accesso all'interruzione volontaria della gravidanza.

 Fondi per finanziare il viaggio a chi abbia bisogno di interrompere una gravidanza erano già stati creati quando il documento era trapelato durante l'inverno, ma ieri sono stati inondati da contributi record. Numerose aziende di spicco hanno immediatamente confermato di aver incluso nei propri pacchetti di assicurazione medica anche la garanzia di pieno rimborso per un viaggio al fine di ottenere un aborto.  

Impossibile elencare tutte quelle che compaiono nell'elenco, ma basti riassumerne alcune, da Netflix a LeviStrauss, da Disney a Sony, da Tesla a JPMorgan Chase. La metà dei lavoratori americani sono donne, in buona parte ancora in età fertile, e le aziende in questione hanno concordato che imporre loro una gravidanza non voluta andrebbe non solo contro i diritti della donna, ma sarebbe anche una scelta perdente per le stesse aziende.

 Il presidente Biden ha detto ieri che darà ordine al Dipartimento di Giustizia di assicurarsi che i diritti delle donne che vogliano viaggiare in cerca di un aborto non vengano ostacolati, fatto peraltro possibile considerato che alcuni degli Stati più estremisti nella loro convinzione anti-abortista imporranno anche divieti di spostamento oltre i confini statali per cercare laborto altrove. 

Per questo ci sono regioni del Paese, più liberal, che stanno organizzandosi, un po' come è successo all'inizio della pandemia. Stati del nord-est come New York, New Jersy, Connecticut, Massachusetts, promettono di accogliere e aiutare le donne che provengano da Stati repressivi, tutti raccolti nel sud e nel centro. All'altro capo dell'America i governatori della California, Oregon e Washington hanno firmato un impegno multi statale per la libertà riproduttiva, impegnandosi a proteggere le donne che cercheranno assistenza nei loro tre stati.

I tre governatori si impegnano a non collaborare con gli Stati repressivi se questi chiedessero l'arresto di donne sfuggite per cercare un aborto. In California si sta anche creando un fondo di sostegno pratico per aiutare a coprire i costi logistici del viaggio mentre associazioni di volontari si impegnano a offrire ospitalità e assistenza per le donne che arrivassero dagli Stati antiabortisti e repressivi come il Texas, l'Oklahoma, il Mississippi, il Missouri o l'Alabama.

 Molte voci di leader femminili si sono incrociate ieri, fra lo sgomento e la rabbia: «Questa sentenza crudele è oltraggiosa e straziante. Ma non commettete errori: a novembre voteremo sui diritti delle donne e di tutti gli americani» ha reagito la speaker della Camera Nancy Pelosi. La ex first lady, Michelle Obama ha detto che la decisione è «orribile» e «deve essere una sveglia, specie per i giovani...Se cedete adesso, erediterete un Paese che non assomiglia a voi e a nessuno dei valori in cui credete». 

Dal canto suo Hillary Clinton ha parlato di «un passo indietro per i diritti delle donne e i diritti umani». «Dobbiamo temere per tanti altri diritti ha detto la vicepresidente Kamala Harris -. Abbiamo sempre sognato di allargare i diritti nel nostro Paese, ora dobbiamo ergerci insieme per difenderli, a cominciare dal diritto alla libertà e al diritto di decidere per noi stessi». Anche nel mondo dello spettacolo e della cultura le reazioni sono state di preoccupazione: «Per tanti decenni abbiamo lottato per i diritti sul nostro corpo, la decisione di oggi ce ne ha private» ha scritto la popolare cantante Taylor Swift. 

La senatrice dem liberal Elizabeth Warren ha dal canto suo lanciato una proposta al presidente Biden, che potrebbe tagliare le gambe agli Stati più restrittivi: concedere in quegli Stati l'apertura di cliniche per l'aborto in terreni o costruzioni federali. Poco dopo che Warren aveva avanzato questa proposta, altri senatori l'hanno sostenuta. 

Aborto negli Usa, da Lizzo a Spielberg, star mobilitate: pioggia di dollari in difesa dell’interruzione di gravidanza. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.

Dopo la vittoria in Kansas dei «pro-choice» altri Stati chiamano gli elettori a scegliere sull’aborto 

Il regista Steven Spielberg e la moglie, l’attrice Kate Capshaw, hanno donato 25mila dollari ciascuno al fronte per il diritto all’aborto, che ha stravinto (59% contro 41%) nel referendum in Kansas il 2 agosto. È stato il primo referendum statale sull’aborto da quando la Corte Suprema ha rovesciato la sentenza Roe v. Wade, che lo tutelava a livello federale. Ora che la responsabilità è passata agli Stati, molti altri prevedono di chiamare direttamente gli elettori a scegliere di proteggerlo o vietarlo nella loro Costituzione. 

Chiamati ad approvare un emendamento che dichiarasse che la Costituzione del Kansas non protegge il diritto all’aborto (il che avrebbe consentito al parlamento statale di introdurre ulteriori restrizioni), gli elettori si sono rifiutati. Gli anti-abortisti hanno sostenuto che la loro causa è stata sconfitta dai soldi arrivati dalle élite liberal extra-statali. Ciascuno dei due fronti ha speso circa 11 milioni di dollari. L’aiuto di Spielberg non è l’unico da Hollywood.

Planned Parenthood, associazione che assiste le donne che vogliono abortire e che ha investito anche in questo referendum, ha ricevuto negli ultimi mesi un milione di dollari dalla cantante Lizzo , 250 mila da Ariana Grande e ogni mese Mila Kunis versa denaro a nome dell’ex vice di Trump, Mike Pence (solo per fare qualche esempio). Hanno contribuito anche l’ex sindaco di New York ed ex candidato alla presidenza Michael Bloomberg (1,25 milioni), l’associazione Sixty Thirty Fund che finanzia cause progressiste (1,5 milioni) e una trentina di gruppi e individui. Sul fronte opposto, la Chiesa cattolica ha versato 4,3 milioni di dollari.

I fondi sono cruciali in una battaglia Stato per Stato che si preannuncia lunga. Ma la vera sorpresa in Kansas è stata la scelta moderata sull’aborto in uno Stato che Donald Trump conquistò con 15 punti di vantaggio. Invece i sondaggi pre-referendum suggerivano che l’elettorato fosse spaccato, facendo presagire un testa a testa, osserva Nathan Cohn, l’esperto in analisi statistiche del New York Times. Quattro Stati del Sud — Louisiana nel 2020, Alabama e West Virginia nel 2018, Tennessee nel 2014 — avevano approvato emendamenti costituzionali, scegliendo in modo opposto al Kansas. Dunque, suggerisce il giornalista, la fine di Roe v. Wade ha energizzato l’elettorato democratico su un tema che normalmente motiva i repubblicani. Cohn calcola che se un referendum come quello del Kansas venisse proposto nel resto della nazione, oggi con l’eccezione di 7 Stati tutti gli altri voterebbero per tutelare il diritto all’aborto. Ma diversi esperti politici e costituzionali restano più cauti, nota il Pew Research Center. Quel che ha funzionato in Kansas potrebbe non valere in Stati dove ci sono già maggiori restrizioni all’aborto. Sarà importante vedere cosa succede in Kentucky, dove Trump ha vinto con 26 punti di vantaggio, e dove a novembre, alle elezioni di midterm, i cittadini saranno chiamati anche a votare sulla proposta di un emendamento costituzionale simile a quello del Kansas.

Sempre a novembre, California e Vermont approveranno invece quasi certamente di inserire nelle costituzioni statali il diritto all’aborto. In Michigan, la governatrice Gretchen Whitmer è riuscita a impedire l’entrata in vigore di una legge del 1931 che lo criminalizza senza eccezioni per stupro o incesto e che sarebbe stata attivata con l’abolizione di Roe; ma la decisione del giudice può essere rovesciata. Perciò una petizione forte di 750mila firme (il doppio del necessario) mira alla tutela nella Costituzione dello Stato. Non è certo che passi, ma i conservatori sembrano temerlo e cercano di bloccarla per un errore tipografico.

Un sondaggio mostra come per il 62% degli americani l’aborto debba essere legale nella maggior parte dei casi. Il Kansas mostra che la questione non segue nettamente l’affiliazione ai partiti. Bisognerà guardare caso per caso.

Ecco chi sono i giudici che hanno stoppato l'aborto in America. Francesca Galici il 25 Giugno 2022 su Il Giornale. Per anni hanno nascosto la loro posizione sull'aborto e ora sono al centro della polemica: chi sono i giudici della Corte suprema che hanno cambiato la storia 

La discussione sulla decisione della Corte suprema americana di ribaltare la storica sentenza Roe contro Wade, che stabiliva fin dal 1973 il diritto costituzionale all'aborto negli Stati Uniti, ha sollevato un polverone di polemiche a livello mondiale. Definito da più parti un "terremoto costituzionale", è destinato a spaccare ulteriormente l'America, provocando rivolte e proteste che sono già cominciate il tutto il Paese e non solo. La sentenza conferisce ai singoli Stati il potere di stabilire le proprie leggi sull'aborto, senza più preoccuparsi di entrare in conflitto con la sentenza Roe contro Wade, che per quasi mezzo secolo aveva consentito l'aborto entro 24 settimane di gravidanza. Ora i riflettori sono puntati sui giudici che hanno ribaltato cinquant'anni di storia.

L'unica donna presente nel council responsabile della decisione è anche l'ultima arrivata. Si chiama Amy Coney Barrett, proviene dalla Louisiana, ha 50 anni ed è di religione cattolica. Ha 7 figli, di cui 2 adottati, ed è stata nominata nel 2020 da Donald Trump. Il legame tra il giudice e l'ex presidente degli Stati uniti appare molto forte, considerando che è stato lo stesso Trump a volere Coney Barrett alla Corte d'appello nel 2017.

Una Corte "orientata" che ribalta la Storia

Quello che in queste ore negli Stati uniti viene contestato al giudice è che durante le audizioni per la conferma, lei non ha mai rivelato la sua posizione in merito all'aborto. Anzi, si è allineata agli altri candidati sottolineando l'importanza del principio "stare decisis", che indica la fedeltà al precedente giurisprudenziale vincolante negli ordinamenti del common low. Coney Barrett ha preso il posto di Ruth Bader Ginsburg alla sua morte, quando il 57enne Brett Kavanaugh venne considerato il più progressista dei conservatori. Ex assistente di Ken Starr, Kanaugh veniva posizionato più spostato verso i conservatori anche rispetto a Neil Gorsuch, parte della Corte dal 2017. Anche loro in sede di conferma avevano dimostrato lealtà al principio "stare decisis".

La sentenza di ieri, però, dimostra che niente è solido e tutto può essere modificato. A spiegare bene questo orientamento è stato il giudice Samuel Alito, uno dei membri anziani arrivati alla Corte suprema nel 2006 sotto la gestione Bush. In base a quanto da lui dichiarato, quel principio ha "un ruolo considerevole ma non assoluto". Un passaggio fondamentale per capire come si possa essere arrivati alla decisione, ben noto anche all'altro membro anziano, Clarence Thomas, da 31 anni giudice della Corte suprema.

La decisione del 1973. Cos’è la sentenza Roe v. Wade, la storica decisione sull’aborto abolita dalla Corte Suprema USA. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Giugno 2022. 

La Corte Suprema degli Stati Uniti d’America ha abolito la storica sentenza Roe v. Wade della stessa Corte che aveva legalizzato l’aborto nel 1973. “La Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”, recita la decisione presa con sei voti favorevoli e tre contrari anticipata a inizio maggio da uno scoop di Politico. Da oggi i singoli Stati saranno liberi di applicare le loro leggi in materia.

Il diritto all’aborto era stato sancito con una storica sentenza quasi 50 anni fa. La Corte Suprema aveva riconosciuto il diritto della donna texana Norma Leah McCorvey di interrompere la gravidanza dopo che un gruppo di avvocati guidati da Sarah Weddington fu contattato dalla donna incinta del suo terzo figlio. A rappresentare lo Stato del Texas era l’avvocato Henry Menasco Wade.

La sentenza venne pronunciata il 22 gennaio del 1973 e rese legale a livello federale il diritto all’aborto per la donna come libera scelta personale. Prima di allora ogni Stato aveva una propria legislazione in materia. Almeno in trenta l’aborto era considerato un reato di common law, basato sui precedenti giurisprudenziali e non sui codici. In soli quattro Stati bastava la richiesta della donna.

Jane Roe era lo pseudonimo di McCorvey. Il nome venne scelto per tutelarne la privacy. Era nata nel 1947 in Louisiana ed era cresciuta a Houston, in Texas. Era scappata di casa a 18 anni, si era sposata e aveva avuto due figlie. Era incita del terzo figlio, di un uomo che lei definiva come molto violento, quando gli amici la convinsero a chiedere al tribunale di poter abortire. E di raccontare di essere stata vittima di stupro per ottenere l’aborto. Il Texas permetteva all’epoca l’aborto in caso di stupro e incesto. Non essendoci alcun rapporto della polizia sulle violenze la richiesta fu respinta.

Le legali fecero ricorso alla Corte Distrettuale dello Stato che diede ragione a Roe a partire dal IX Emendamento della Costituzione in cui si dichiara che l’elenco dei diritti individuali può essere integrato da altri diritti, non specificamente menzionati nella Costituzione. Wade fece ricorso a sua volta alla Corte Suprema. La decisione fu presa a maggioranza di sette giudici a due su un’interpretazione del XIV Emendamento che riguardava il diritto alla privacy inteso come diritto alla libera scelta per quanto riguarda le questioni della sfera intima di una persona.

“La corte ha dichiarato nullo lo statuto sull’aborto in quanto vago ed eccessivamente lesivo nei confronti di coloro che si appellano al Nono e al Quattordicesimo Emendamento”. Quella decisione rispondeva alla possibilità di abortire anche in assenza di problemi di salute della donna, del feto e di ogni altra circostanza che non fosse libera scelta della donna.

Secondo la sentenza l’aborto doveva essere possibile fino al momento in cui il feto non poteva sopravvivere al di fuori dell’utero materno, e quindi fino al terzo trimestre. Il termine sarebbe stato prorogato oltre tale limite in casi di pericolo per la salute della donna. McCorvey divenne dopo la sentenza simbolo e attivista del diritto d’aborto. Dopo la conversione alla Chiesa evangelica negli anni ’80 cambiò completamente posizione come quando qualche anno dopo si convertì al cattolicesimo. Prima di morire, a 69 anni nel 2017, disse di essere stata pagata da un’associazione religiosa per schierarsi attivamente contro l’aborto.

Il divieto di aborto è atteso entrare in vigore in 13 stati americani nei prossimi 30 giorni. I 13 stati possono vietare l’aborto in 30 giorni eccetto nei casi in cui la vita della madre è in pericolo. Il Missouri ha annunciato di essere il “primo” stato a vietare l’aborto, che ora è illegale anche in Texas con effetto immediato. È intanto esplosa la protesta all’esterno della Corte Suprema degli Stati Uniti. Un gruppo di anti-abortisti hanno accolto la sentenza con esultanze e abbracci. Tre dei sei giudici repubblicani che hanno votato contro la “Roe v. Wade” erano stati nominati dall’ex presidente Donald Trump. I tre nominati dal Partito Democratico hanno votato contro.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Paolo Giordano: «Aborto, il più fragile dei diritti che riguarda tutti noi». Paolo Giordano su Il Corriere della Sera il 26 Giugno 2022.

Sono nato e cresciuto in un momento in cui il diritto all’aborto era un pilastro, e la sua messa in discussione un tabù. Oggi però la corrente spinge in senso opposto. E anche qui - non solo negli Usa - non possiamo sentirci al sicuro. 

Fra i diritti della modernità — quei diritti che ci fanno sentire fortunati di vivere in un presente per molti versi difficile —, il diritto all’aborto è il più fragile di tutti. 

Lo è sempre stato. 

E non tanto, come si ritiene comunemente, per la «delicatezza» del tema, per le aree di coscienza personale che investe e per quanto sia difficile stabilire scientificamente dove inizia la vita umana, quanto per la mole di pregiudizi — quasi tutti di matrice sessista — che attiva ancora in noi. 

Il più odioso di tutti, sotteso a molte posizioni dei gruppi di destra e dei movimenti pro vita, è che l’aborto sia in fin dei conti una via comoda, quasi sempre la riparazione di una sbadataggine, e comunque evitabile. 

A più di quarant’anni dall’approvazione della 194, l’aborto è ancora qualcosa di cui non si parla, mai, neppure in privato, con la sola eccezione degli ambienti femministi. È un rimosso obbligatorio non solo per le donne che lo affrontano da sole ma perfino per le coppie stabili. 

Se la legge ne ha sancito ormai da tempo la possibilità, la cultura non è mai riuscita a cancellarne i corollari di vergogna, di sconfitta, anzi peggio, di colpa. 

Per questo, ancora oggi, viene implicitamente accettato che l’aborto non debba essere del tutto indolore, almeno non psicologicamente, che qualsiasi forma di ripensamento debba essere indotta nella donna, anche quando sconfina nell’aggressione mentale. 

Da qui, le contiguità con i reparti di ostetricia, le mini odissee e le piccole umiliazioni, e sempre da qui lo scontento mai smaltito di alcuni verso l’introduzione della pillola RU486. 

Nel libro Mai dati, l’indagine di Chiara Lalli e Sonia Montegiove sullo stato dell’applicazione della 194 in Italia, le autrici ci ricordano che l’interruzione volontaria di gravidanza «è un servizio medico». 

Ma illustrano anche come si stia trasformando sempre di più «in una questione di coscienza — del medico, ovviamente, perché la donna che abortisce forse la coscienza non ce l’ha». 

Insomma, la 194 esiste ed è espletata, ma è anche avvolta in una nebbia. Una nebbiolina morale, appunto, che la tiene separata da ciò che è considerato davvero opportuno. Che rende la situazione difforme sul territorio nazionale e i dati reali inconoscibili. Una nebbia che non si sta affatto diradando, anzi. 

E tuttavia, nel giorno buio in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti ha rovesciato la sentenza Roe vs. Wade , ci siamo sentiti abbastanza al sicuro. Povera America, che sprofonda nel proprio oscurantismo. Noi, qui, abbiamo la 194, forse non è perfetta ma nessuno oserà mai toccarla, perché il progresso va avanti e non indietro, la consapevolezza cresce e non diminuisce, i diritti si conquistano e non si perdono. In fondo, troviamo confortante perfino l’estremismo di esponenti come il senatore Pillon: finché certe idee sono appannaggio di personaggi così, significa che sono relegate ai margini del dibattito pubblico, dove non fanno danni. Poco importa che, con quelle stesse opinioni, flirtino a diversi livelli i partiti di cui quegli esponenti fanno parte, e la destra tutta. Poco importa che la decisione della Corte Suprema sia una tappa eclatante di un percorso che va avanti da molti anni, anche in Europa, vicinissimo a noi. E poco importa che la Chiesa, che proprio ai margini del dibattito non è, l’abbia accolta, pur con tutte le cautele retoriche del caso, con la massima gioia. Come si dice in questi casi: la Chiesa fa la Chiesa, non possiamo mica pretendere. 

Facendo qualche passo indietro per osservare il quadro nel suo complesso, la situazione è tutt’altro che rassicurante. E dovrebbe portarci a concludere che no, non siamo poi così al sicuro neppure qui. La tutela delle ragazze e delle donne nel nostro Paese non è così al sicuro. Non lo era giorni fa, e lo è meno che mai da venerdì scorso. 

Non solo. È ingenuo pensare che la decisione della Corte negli Stati Uniti non abbia già innescato una serie di conseguenze a distanza. Da venerdì, l’idea dell’aborto è un po’ meno legittima anche nella mente di tutti noi, e quel senso subliminale d’illegittimità filtrerà rapidamente nella coscienza delle generazioni più giovani (generazioni alle quali sono già state sottratte molte forme di educazione alla sessualità, alla contraccezione, e la cui libertà di scelta è già in parte compromessa). Aumenteranno la confusione, la paura, il disprezzo di sé, la solitudine. Perché l’aborto è una delle esperienze di solitudine peggiore a cui si possa pensare. Una sentenza emessa al di là dell’Atlantico ha già aggravato il peso psicologico delle ragazze e delle donne che questa settimana, il prossimo mese o fra un anno decideranno di abortire qui. Sconteranno ancora più pesantemente una scelta che il nostro codice riconosce come legittima. 

Il presidente Biden ha detto: «It’s not over», non è finita. Ci mancherebbe che lo fosse. Ma aggrapparsi al suo tenue spirito combattivo, così come alle immagini delle proteste a Washington, ha un sapore perdente. Sentenze come Roe vs. Wade, del 1973, e leggi come la nostra, del 1978, sono state possibili in un periodo storico molto specifico, trascinate da un flusso. Oggi non esiste nemmeno un briciolo della propulsione ideologica di quel tempo. Al contrario, tutto suggerisce che la corrente spinga in senso opposto. Da anni, in Italia, non c’è un avanzamento davvero significativo sul fronte delle libertà civili. E ciò che viene perso sembra essere perso e basta. 

All’inizio, lo ammetto, avevo scritto «eroso»: «ciò che viene eroso», ma rileggendo mi sono accorto che anche quel termine denunciava un modo di ragionare obsoleto. È proprio questo il punto: siamo abituati a pensare che i nostri diritti fondamentali possano essere al più «erosi», ma questo non è più il tempo dell’erosione: oggi i pezzi della montagna si staccano e crollano al suolo. In un istante. 

Sono nato e cresciuto in un momento in cui il diritto all’aborto era un pilastro, un assioma, e la sua messa in discussione un tabù. Che per alcuni si tratti di una visione estremista m’interessa poco: ho assorbito il principio per cui qualsiasi tentativo di limitare il diritto di scelta della donna in materia di interruzione della gravidanza non è davvero per la salvaguardia di un’altra vita, ma ha solo un intento punitivo e controllante. Il mio primo ostacolo — il mio e suppongo quello di molti e molte — è innanzitutto credere che qualcosa del genere stia capitando. Ma così è. Occorre imparare il più velocemente possibile come si vive su un piano inclinato al contrario, come ci si aggrega veramente e come si protesta mentre il mondo scivola. Un’indicazione semplice eppure non ovvia l’ha data la scrittrice Rebecca Solnit, reagendo alla sentenza della Corte: «Quelli di noi che non sono sotto attacco diretto devono stare dalla parte di coloro che lo sono». Semplice. Quelli che non sono sotto attacco diretto (o almeno non ci si sentono) sono tanto per cominciare la metà maschile della popolazione. 

Fra i diritti della modernità, il diritto all’aborto è il più fragile di tutti. Lo è sempre stato. Proprio per questo è un diritto segnante della nostra civiltà. Togliamo quel diritto, indeboliamolo anche solo, e vedremo che no, tutto il resto non si regge comunque in piedi.

Mario Ajello per “il Messaggero” il 25 giugno 2022.  

Emma Bonino si fa mandare dall'America i documenti della storica sentenza della Corte Suprema. «La notizia mi ha sconvolto, ma voglio capire bene di che cosa si tratta perché sembra davvero incredibile». Arrivano sulla sua mail i testi del pronunciamento dei giudici e a quel punto la storica leader dei Radicali - mentre guarda in tivvù le prime manifestazioni di protesta delle donne e dei movimenti abortisti - traccia il bilancio di questa «brutta storia». 

Onorevole Bonino, si aspettava questa decisione?

«Non mi aspettavo il punteggio. Il 6 a 3, nel collegio dei giudici, è un risultato molto largo e per niente buono. Da mesi le associazioni abortiste erano molto agitate, evidentemente a ragione. Negli Stati Uniti l'aborto era un diritto federale. Questa sentenza demanda invece la questione ai vari Stati membri. Che è un po' la situazione che c'è in Europa. Dove ogni Paese Ue decide per sé sull'aborto. Per esempio la Polonia ha fatto una legge ultra-restrittiva». 

Si azzera con la sentenza americana uno dei punti, che parevano fermi, ottenuti dalle lotte delle donne?

«Siamo certamente a un passo indietro nella protezione dell'aborto. Questo dimostra che i diritti non stabiliti una volta per sempre, non sono scritti nel marmo. Se non li difendi, non li curi, non li proteggi continuamente, ti svegli una mattina e non ci sono più. C'è un reportage molto bello del New York Times che spiega a questo punto che cosa potrà fare Biden per contrastare questa sentenza».

E che cosa può fare il presidente americano?

«Dal punto di vista legale, niente. È come da noi: così come la nostra Corte Costituzionale anche la Corte Suprema di Washington è il decisore di ultima istanza. Questo reportage però suggerisce a Biden vari accorgimenti per proteggere il diritto federale all'aborto. Il presidente può promuovere politiche che possono aiutare a superare il divieto. Per esempio quelle in favore dell'aborto farmacologico, con la pillola autorizzata dalla Food and Drug Administration. Ma non so davvero che cosa potrà fare l'amministrazione Biden e temo, sostanzialmente, non molto». 

Il presidente ha l'occasione di mettersi alla testa di una nuova stagione di difesa e di estensione dei diritti.

«Io mi chiedo: ne avrà la forza? Comunque ci sono alcuni Stati che seguiranno la sentenza della Corte Suprema, e già il Missouri e il Texas si sono attivati, e altri che si comporteranno diversamente. Per esempio lo Stato di New York. O il Colorado: si sta attrezzando per accogliere le donne che potranno permettersi di passare il confine per abortire. Almeno nel campo dei diritti, è una grande delusione per me questa America che io sono spesso stata abituata a considerare all'avanguardia su certe battaglie. Evidentemente non è più l'America che ho in mente io. Il diritto all'aborto negli Stati Uniti non è in Costituzione ma è stato sancito da una storica sentenza 50 anni fa».

Si riferisce alla Roe vs Wade per cui interrompere la gravidanza è diventato legale nel 1973?

«Sì. Fu quando la Corte Suprema riconobbe il diritto all'aborto alla texana Norma McCorvey. E un gruppo di avvocate, guidato da Sarah Weddington, contattò la donna, incinta del terzo figlio avuto con il marito violento e con problemi di alcolismo. Si trattò di una esemplare pagina di libertà. Ora sono preoccupata. Si intensificherà negli Stati Uniti un fenomeno che noi conosciamo benissimo. Ed è quello del turismo sanitario. Come sempre, i ricchi viaggiano e i poveri emigrano.

Questo toccherà a un numero di donne sempre maggiore. Tra tutti i difetti della sentenza della Corte Suprema c'è anche quello che è classista. Anche prima in America l'aborto non era gratuito. Il bilancio federale si rifiutava di sovvenzionarlo. Ma adesso sarà tutto più complicato, penalizzante e dispendioso».

Questo è un colpo di coda o un nuovo inizio del trumpismo?

I giudici che si sono espressi contro l'aborto sono stati nominati da Trump. Questa comunque è una sentenza figlia di varie ideologie: alcune religiose, altre identitarie, altre di tipo culturale. Un mix di visioni oscurantiste e reazionarie che tolgono alle donne la libertà di scelta». 

Quali conseguenze può avere la sentenza di Washington sull'Europa e in Italia?

«In Europa, penso alla Polonia ma anche all'Ungheria, questo tipo di impostazione purtroppo è già diffusa. Ma anche in Italia da tempo riscontro un rigurgito di posizioni contrarie ai diritti e alle libertà. Si pensi alla portata oscurantista della legge Pillon che, per fortuna, è stata stoppata. Il movimento per la vita, così si chiama, rappresenta un filone che, messo alla prova, per esempio nei referendum, ha sempre perso.

Però è sempre esistito e continua a prosperare. E come può immaginare, non mi è piaciuto il video della Meloni al congresso di Vox in Spagna. È importante però che in Italia sia in corso la campagna, da parte dell'Associazione Coscioni e di altri movimenti, per difendere la legge 194 sull'aborto. In certe parti d'Italia questa legge fondamentale non esiste più a causa dell'obiezione di coscienza. Più o meno il 90 per cento dei medici, in alcune zone del nostro Paese, si rifiutano di applicare il diritto a interrompere la gravidanza».

Celotto: “In Italia l’aborto è legge, la può cambiare solo il Parlamento. Nel 1981 un referendum ha affermato che non andava abrogata”. La Stampa il 24 giugno 2022. 

In Italia la legge sull'aborto è a rischio? Una domanda che nasce da quanto stabilito oggi dalla Corte Suprema degli Stati Uniti. Una svolta per certi versi storica che però al momento non sembra replicabile nei nostri confini dove, stando all'ultima Relazione al Parlamento sull'attuazione della legge 194/78, continuano a calare le interruzioni di gravidanza: nel 2020 sono state poco più di 66mila, il 9,3% in meno rispetto al 2019. «Parlando di aborto una premessa è fondamentale: il tema nel nostro Paese è disciplinato da una legge ordinaria e quindi per potere procedere ad una modifica è necessaria e sufficiente una altra legge. Cioè un intervento del Parlamento», spiega Alfonso Celotto, professore ordinario di diritto Costituzionale all'Università degli Studi Roma Tre, aggiungendo che «bisogna tenere presente che nel 1981 c'è stato un referendum con il quale il popolo italiano ha affermato che la legge sull'aborto non andava abrogata (come era accaduto dieci anni prima anche per la legge sul divorzio). Quando il popolo si pronuncia in sede di referendum la legge diventa 'non modificabile', ma soltanto per una legislatura, come ci ha ben spiegato nel 2012 la Corte costituzionale. Infatti, nel nostro sistema la democrazia diretta ha un plusvalore rispetto alla democrazia rappresentativa, ma soltanto a tempo». Per il costituzionalista su quest'ultimo aspetto «è emblematico quanto accaduto con l'energia nucleare: è stata abrogata per volontà popolare nel 1987, ma poi dopo vent'anni il Parlamento la aveva introdotta nuovamente, nella sua piena discrezionalità». Su un tema così delicato, come quello della interruzione volontaria della gravidanza, il Parlamento ad oggi è quindi libero. « libero di intervenire, nel complesso quadro dei valori costituzionali di tutela della madre, del nascituro e della salute - aggiunge Celotto -. Va comunque ricordato, in un'ottica liberale, che l'aborto, per quanto delicato, non può non essere disciplinato, per non lasciare un tema così sensibile ad un "mercato nero", come per decenni accaduto anche da noi». A detta del docente, comunque, la decisione presa oggi negli Usa «dimostra il grande dibattito che è in corso nelle democrazie occidentali in tema di diritti. Negli ultimi anni assistiamo a un processo sempre più delicato di bilanciamento dei valori con ripensamenti e specificazioni: in Italia ne abbiamo un esempio con il dibattito attualissimo sulla eutanasia».

La decisione della Corte Suprema: chiesa e conservatori in festa tra le polemiche. Aborto negato, gli Stati Uniti tornano indietro di 50 anni: cosa cambia dopo la sentenza “crudele e scandalosa”. Redazione su Il Riformista il 24 Giugno 2022 

E’ bastata una sentenza della Corte Suprema per far tornare gli Stati Uniti indietro di 50 anni. Nel paese esportatore, almeno così si professano, di democrazia e libertà nel mondo, le donne non hanno più la libertà di abortire perché “l’aborto presenta una profonda questione morale. E la Costituzione non conferisce il diritto all’aborto”. E’ quanto deciso dai giudici che hanno ribaltato la sentenza Roe vs Wade con la quale la stessa Corte, nel 1973 aveva riconosciuto il diritto di interrompere la gravidanza. Una sentenza annunciata da settimane (‘grazie’ alla bozza redatta dal giudice conservatore Samuel Alito finita, non si sa ancora bene come, alla stampa)  che ha visto la stessa Corte divisa con 6 voti a favore e 3 contrari.

Una bozza trapelata nelle scorse settimane (redatta dal giudice Samuel Alito, risalente a febbraio e confermata poi come autentica dalla corte) aveva indicato che la maggioranza dei ‘saggi’ erano favorevoli a ribaltare la Roe v Wade, suscitando vaste polemiche e proteste negli Usa. Alito che scrive nel dispositivo “La Roe vs Wade è stata sbagliata fin dall’inizio in modo eclatante. Il suo ragionamento – aggiunge – è stato eccezionalmente debole, e la decisione ha avuto conseguenze dannose”.

“Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo” commentano i giudici liberal Sonia Sotomayor, Elena Kagan e Stephen Breyer. “Tristemente, molte donne hanno perso oggi una tutela costituzionale fondamentale. Noi dissentiamo” aggiungono. I tre giudici nominati dall’ex presidente Donald Trump hanno invece votato per l’abolizione.

Adesso la decisione spetterà ai singoli Stati che saranno liberi di applicare le loro leggi in materia: in più della metà dei 50 Stati americani l’aborto era considerato reato, in oltre dieci invece era legale sono se costituiva pericolo per la donna, in caso di stupro, incesto o malformazioni fetali. Gli Stati guidati dai governatori repubblicani, e conservatori, sarebbero adesso intenzionati a salvaguardare il diritto alla vita. Quelli governati dai democratici hanno invece anticipato di voler mantenere le legislazioni attuali che consentono l’aborto.

Nello specifico l’aborto potrebbe essere vietato in 22 stati che hanno varato leggi, dette ‘trigger law’ (leggi grilletto) destinate ad entrare in vigore immediatamente dopo la sentenza della Corte Suprema. Per 13 stati – Arkansas, Idaho, Mississippi, Missouri, North Dakota, Kentucky, Louisiana, Oklahoma, South Dakota, Tennessee, Texas, Utah and Wyoming – le leggi prevedono che il divieto entri in vigore praticamente in modo immediato. C’è un altro gruppo di stati – Georgia, Idaho, Iowa, Michigan, South Carolina, Texas, West Virginia, Alabama e Ohio – che anche hanno leggi per mettere al bando l’aborto, ma non entrerebbero in vigore subito. Infine stati come Arkansas, Mississippi e Oklahoma hanno dei divieti sull’interruzione della gravidanza precedenti alla sentenza della Roe, che non vengono applicati da 50 anni.

Per la portavoce della Camera Usa, la democratica Nancy Pelosi, è una decisione “crudele” e “scandalosa“. Duro anche il cinguettio di Barack Obama: “La Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ma ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno può prendere ai capricci di politici e ideologi: (sono state) attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani”.

Visione diversa invece quella dell’ex vicepresidente di Trump, Mike Pence, secondo il quale “la vita ha vinto” e ha esortato tutti a battersi per “la difesa del nascituro e il sostegno alle donne incinte in crisi”. Lo stesso Donald Trump commenta entusiasta. La decisione – secondo l’ex presidente – vuol dire “seguire la Costituzione e restituire i diritti”.

“Giornata storica” per i vescovi cattolici americani. “Questa è una giornata storica nella vita del nostro Paese, che suscita pensieri, emozioni e preghiere. Per quasi cinquant’anni l’America ha applicato una legge ingiusta che ha permesso ad alcuni di decidere se altri possono vivere o morire; questa politica ha provocato la morte di decine di milioni di bambini prenati, generazioni a cui è stato negato il diritto di nascere” commentano gli arcivescovi Josè H. Gomez di Los Angeles, presidente della Conferenza dei vescovi cattolici degli Stati Uniti (Usccb), e William E. Lori di Baltimora , presidente del Comitato per le attività pro-life.

La “cultura della vita” delle destre è un attacco all’uguaglianza. GIORGIA SERUGHETTI, filosofa, su Il Domani il 28 giugno 2022

Cos’è la “cultura della vita” che le destre, da occidente a oriente, sostengono di difendere dalla minaccia del progressismo dei diritti? Si può parlare di “vita”, quando la sua portata semantica si riduce al tempo breve del principio e della fine, mentre tante “vite”, al plurale, sono rigettate nell’indifferenza?

Nella discussione sul destino del diritto all’aborto negli Stati Uniti, o in Italia, un tema cruciale è il sacrificio di vite di donne, in particolare povere, razzializzate, marginalizzate, che questo fondamentalismo è orientato a provocare.

Resta da chiedersi se il discorso delle destre che oggi teorizzano la personalità del feto, e attaccano per il suo tramite la salute delle donne, sia compatibile con i requisiti di uno stato di diritto democratico.

Cos’è questa cultura che le destre, da occidente a oriente, sostengono di difendere dalla minaccia del progressismo dei diritti? Si può parlare di “vita”, quando la sua portata semantica si riduce al tempo breve del principio e della fine, mentre tante “vite”, al plurale, sono rigettate nell’indifferenza?

Intorno a questo tema oggi si combatte una battaglia epocale. Da una parte ci sono le vite che “non contano” e chiedono di essere viste, ascoltate, protette.

Si pensi ai movimenti femministi contro il femminicidio, allo slogan Black Lives Matter contro la violenza della polizia, o alle molte iniziative di Ong che lavorano per mettere in salvo le vite dei migranti che sfidano la durezza delle frontiere.

Dall’altra, ci sono gli avversari di queste battaglie, che inneggiano alla sacralità della vita, al singolare.

Ora, nella discussione sul destino del diritto all’aborto negli Stati Uniti, o in Italia, è proprio di questo che dovremmo parlare.

VITE SACRIFICATE

Perché porre l’enfasi solo sulla dimensione della scelta individuale rischia di non essere sufficiente nello scenario che l’attivismo antiabortista sta disegnando.

Un tema cruciale è il sacrificio di vite, vite di donne, in particolare di donne povere, razzializzate, marginalizzate, che questo fondamentalismo è orientato a provocare.

A questo proposito la saggista Jia Tolentino, sul New Yorker, ha invitato a rovesciare il senso dello slogan femminista di resistenza «We won’t go back», non torneremo indietro.

È vero, scrive, il futuro non somiglierà al passato che precedette la sentenza Roe v. Wade, ma sarà peggio.

Perché nel frattempo l’accesso ai dati sanitari, i dispositivi di sorveglianza e le possibilità aperte dalle leggi antiabortiste hanno già trasformato la gravidanza in un’esperienza di cui le donne, e qualunque persona presti loro assistenza, rischiano di rispondere penalmente in tutti i casi in cui qualcosa non va per il verso giusto.

«Alcune delle donne che moriranno a causa del divieto di aborto sono incinte proprio adesso.

Le loro morti non saranno causate da procedure clandestine, ma da una silenziosa negazione delle cure: interventi ritardati, desideri disattesi.

Moriranno di infezioni, di pre-eclampsia, di emorragia, mentre saranno costrette a sottoporre i loro corpi a gravidanze che non hanno mai voluto portare avanti».

Al contempo, la paura delle conseguenze finirà per mettere in pericolo persone che vogliono portare a termine la gravidanza ma che incontrano problematiche mediche.

Tutto questo è già realtà in alcuni stati degli Usa. Anche in Italia un’interpretazione distorta dell’obiezione di coscienza mette a rischio la vita delle donne, non solo negando l’interruzione di gravidanza, ma anche negando le cure in casi di complicazioni.

Eppure, se dal 1978 abbiamo una legge, la legge 194, che tutela la facoltà delle donne di scegliere sul proprio corpo, è anche perché la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 27 del 1975, ha fissato un principio fondamentale: «non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute di chi è già persona, come la madre, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».

È in base a questa non equivalenza che è possibile difendere, sul piano giuridico e politico, l’interruzione di una gravidanza in circostanze in cui – recita la 194 – «la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica».

Resta da chiedersi quindi se il discorso delle destre politiche e religiose che oggi teorizzano la personalità del feto, e attaccano per il suo tramite la salute delle donne, sia compatibile con i requisiti di uno stato di diritto democratico.

Uno stato in cui sia rispettata e resa effettiva l’uguaglianza tra i generi, in cui tutte le “vite”, al plurale, siano considerate degne di protezione. 

GIORGIA SERUGHETTI, filosofa. Giorgia Serughetti è ricercatrice in Filosofia Politica all’Università di Milano-Bicocca. Ha scritto saggi su questioni di genere e teoria politica, con particolare attenzione a fenomeni migratori, sessualità, violenza contro le donne e movimenti femministi. 

Il feticismo e le eccezioni.  Il dibattito sull’aborto che ignora l’esistenza dei contraccettivi (e dei cattolici). Guia Soncini su L'Inkiesta il 28 Giugno 2022

Va bene, la Corte Suprema americana è sporca, brutta e cattiva. Ma perché Biden non ha realizzato la promessa fatta nel 2019 di una legge federale per regolamentare l’interruzione di gravidanza? Evidentemente perché nessuno si vuole impantanare su questo tema, specialmente in una nazione che ha una Costituzione scritta quando non c’era l'acqua corrente. 

Il 4 ottobre del 2019, il Washington Post scrive che la Corte Suprema si accinge a rivedere la legge che regolamenta l’aborto in Louisiana e la possibilità dei medici di spostarsi dall’ospedale in cui operano abitualmente per praticare aborti. Resterebbe a quel punto solo un medico che faccia aborti in tutto lo Stato (neanche fosse il Molise).

Joe Biden è in campagna elettorale (verrà eletto Presidente un mese dopo, il 5 novembre), e il giorno dopo linka l’articolo commentandolo con un tweet che fa così: «Roe v. Wade è una legge della nostra nazione, e dobbiamo combattere ogni tentativo di annullarla. Da Presidente, codificherò Roe in una legge e assicurerò che la scelta si compia tra una donna e il suo medico». Si capisce che è un tweet vecchio dall’uso di «donna», ma non divaghiamo.

Per chi non ha familiarità con l’assurda giurisprudenza statunitense, occorrerà precisare che il tweet non è contraddittorio come sembra. Roe versus Wade è una sentenza che riguarda l’inviolabilità della privacy; in un Paese di common law le sentenze che costituiscono precedente valgono quanto le leggi; senonché era un po’ forzato regolamentare l’aborto in base alla sacralità della privacy, e infatti un bel giorno la Corte Suprema ha detto: ma nella Costituzione mica si parla di aborto.

Il feticismo nei confronti delle costituzioni, se non sei Roberto Benigni, produce disastri. È per quell’inadeguata Costituzione che ci fu l’assalto a Capitol Hill: la Costituzione americana prevede che trascorrano più di due mesi tra l’elezione e l’insediamento del nuovo Presidente, perché nei secoli di carrozze a cavalli in cui è stata scritta quel tempo lì era necessario per raccogliere i voti, contarli, notificare tutto a tutti. E dalla Costituzione americana viene la convinzione che si debba avere il fucile sotto al cuscino, ma non viene una soluzione che sia una ai problemi della contemporaneità: come potrebbe mai fornire chiavi adatte al presente un documento scritto da gente che non aveva l’acqua corrente?

Ma, prima che qualche signorina Silvani sospiri «Ah, pure costituzionalista», vorrei tornare a Biden, che twittava che avrebbe fatto fare una legge federale che regolamentasse l’aborto, e poi nel suo primo anno e mezzo di presidenza neppure ci ha provato – come d’altra parte chiunque prima di lui.

Lui, però, ha una responsabilità in più. L’ha ricordato a quest’epoca senza memoria Maureen Dowd, nel suo editoriale di domenica: se Clarence Thomas divenne giudice della Corte Suprema nonostante le accuse di Anita Hill, è per l’inettitudine di Joe Biden, allora presidente della Commissione Giustizia al Senato degli Stati Uniti, nel condurre le audizioni.

Era trentuno anni fa, e temo che la lezione principale da trarne sia una certa qual mancanza di carattere di Biden, propenso ad assecondare lo spirito del tempo più che a indirizzarlo. Nel 1991 era considerato normale liquidare senza troppe storie le accuse d’una tizia secondo la quale Thomas sul lavoro aveva comportamenti molesti; in questo decennio è considerato normale che il 20 gennaio del 2020, subito dopo aver giurato, il Presidente Biden firmi come prima cosa un’ordinanza esecutiva non per dire che chi ha un utero deve poter abortire se ritiene di farlo, ma per dire che chi ha un pene che però percepisce vagina deve poter utilizzare gli spogliatoi femminili nelle scuole pubbliche.

Clarence Thomas – ve lo dico casomai, come Lilli Gruber l’altra sera quando ha letto l’agenzia che riportava una sua dichiarazione, leggeste il suo nome col tono di chi non l’abbia mai sentito e si chieda se sia un personaggio di Mandalorian – è professionalmente contrario all’applicabilità di Roe v. Wade all’aborto da trent’anni: la prima volta che mise a verbale il proprio dissenso fu in una sentenza del 1992. È una personcina dalle idee progredite che tre anni fa paragonò la contraccezione all’eugenetica, e secondo la quale gli unici diritti garantiti dalla Costituzione sono quelli che erano riconosciuti quando venne ratificata la Carta dei Diritti (cioè: nel 1869).

Insomma: rivuole il tempo di quando sua moglie non aveva diritto di voto (il suffragio femminile negli Stati Uniti esiste dal 1920).

Desiderio che peraltro lo accomuna a molta sinistra americana, giacché la moglie di Thomas mandava messaggi al capo dello staff di Trump incitandolo a non accettare il risultato delle elezioni e a organizzare una rivolta e insomma sarebbe tra le responsabili morali dell’assalto a Capitol Hill – ma non vorrei chiudere troppi cerchi rispetto alle colpe delle costituzioni né diventare di quelle per cui le colpe dei coniugi sono in comunione dei beni. Facciamo già troppe eccezioni alle nostre convinzioni, con gli impresentabili: sui social si portano molto gli insulti razzisti a Thomas, perché se sei nero e di destra i miei neuroni semplicisti non possono farsi una ragione del fatto che sia tuo diritto esistere.

Come in tutte le circostanze che generano isteria, è molto complicato capire cosa sia realistico e cosa sia paranoico, nelle previsioni delle conseguenze di questa decisione. I social – e i giornali che ne riportano le analisi senza alcuno spirito critico – non aiutano: se una tesi viene ripetuta cento volte è perché è fondata o solo perché nessuno l’ha verificata?

Davvero bisogna cancellare le app che tengono traccia dei giorni del ciclo, altrimenti qualche esponente di qualche Stato antiabortista potrebbe accorgersi che a un certo punto non ti venivano le mestruazioni ma non hai mai partorito e incriminarti per aborto clandestino o oltre confine? È un pericolo reale o è come quei picchiatelli convinti che scaricando Immuni sarebbe arrivato qualcuno a prendere nonna infetta per portarla in un lager alla Martesana?

Tutte quelle che scrivono che ora facciamo Lisistrata, ora fine della sessualità, ora voi uomini la patonza ve la scordate, perché noi senza aborto ci ritiriamo dal settore della lussuria, tutte queste militanti di buona volontà perché parlano come se i contraccettivi non esistessero? Ha senso un dibattito sull’aborto che affronta la questione come se la contraccezione fosse ferma a cent’anni fa e Thomas non avesse poi tutti i torti a rimarcare che la Carta dei Diritti non la prevedeva?

Alexandria Ocasio-Cortez, che chiede a Biden di costruire con fondi pubblici cliniche per l’aborto su territorio federale, non ce l’ha un assistente che le dica all’orecchio onorevole, esiste l’emendamento Hyde, è vietato usare fondi federali per l’aborto? O è che l’eccezione all’emendamento Hyde (stupro e incesto) rappresenta una percentuale infinitesimale nella realtà ma enorme nel dibattito: il gran ricatto di noialtri pro-choice è «E allora come la mettiamo con le bambine stuprate», mica evochiamo mai le trentenni che la danno in giro senza precauzioni.

Insomma, è un gran casino, e temo abbia ragione Jamelle Bouie quando scrive sul NYT che il Congresso avrebbe tutti gli strumenti per ridimensionare i poteri della Corte Suprema, ma non li userà perché ai democratici non va per niente di andare a impantanarsi sull’aborto: è pur sempre una cosa che secondo alcuni uccide bambini, e non è affatto detto che quegli alcuni non ci votino.

Non ho ancora letto da nessuna parte una spiegazione convincente di come possa mai, chiacchiere a parte, il cattolico Joe Biden essere a favore della libertà di scelta. Sì, lo so che viviamo nell’epoca in cui trasecoliamo che i cattolici siano cattolici e che il Papa non sia abortista; ma forse toccherà a noialtri recuperare lucidità e spiegarlo agli americani: a noialtri che abbiamo avuto parecchie occasioni per capire che i cattolici, anche se di sinistra, sono innanzitutto cattolici.

Corte Suprema, ora Ocasio-Cortez dà istruzioni su come abortire. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 28 giugno 2022.

La decisione della Corte Suprema Usa di cancellare la sentenza Roe vs Wade, che dal 1973 garantisce su scala federale la facoltà per le donne incinte di praticare l’aborto, ha scatenato la durissima reazione dei progressisti: dall’ex presidente Barack Obama a Hillary Clinton, passando per Planned Parenthood e MoveOn, tutta la galassia dem si è mobilitata. Nel mirino dei liberal sono finiti soprattutto i sei giudici conservatori che hanno votato a favore dell’abolizione della storica sentenza e, in particolare, quelli nominati dall’ex presidente Donald Trump: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh ed Amy Coney Barrett. La beniamina dei liberal, Alexandria Ocasio-Cortez, è andata oltre, raccontando a un evento sul diritto all’aborto tenutosi venerdì scorso una storia personale incentrata su un’aggressione sessuale subita quando aveva 22 anni e spiegando ai suoi milioni di “follower” come abortire negli stati a guida repubblicana.

Alexandria Ocasio-Cortez all’attacco

La giovane deputata racconta un terribile episodio della sua vita che non era noto al grande pubblico. “Io stessa, quando avevo circa 22 o 23 anni, sono stata violentata mentre vivevo qui a New York City”, ha raccontato all’evento tenutosi presso il City Union Square Park di New York. “Ero completamente sola. Mi sentivo completamente sola. In effetti, mi sentivo così sola che ho dovuto fare un test di gravidanza in un bagno pubblico nel centro di Manhattan. Quando mi sono seduta lì, ad aspettare quale sarebbe stato il risultato, tutto ciò che potevo pensare era: grazie a Dio che ho almeno una scelta”, ha continuato. “Grazie a Dio potevo, almeno, avere la libertà di scegliere il mio destino”. Ha aggiunto: “Allora non sapevo, mentre stavo aspettando, che il risultato sarebbe stato negativo”. La deputata ha lanciato il guanto di sfida ai conservatori: “Dobbiamo iniziare subito a essere implacabili per ripristinare e garantire tutti i nostri diritti qui negli Stati Uniti d’America”, ha esortato durante il suo discorso di venerdì.

“Qui potete abortire”

Fin qui, nulla da eccepire, anzi: massimo rispetto e solidarietà per quello che AOC ha dovuto passare. Il problema arriva dopo, quando Ocasio-Cortez ha voluto spiegare ai suoi seguaci, questa volta sui social, come abortire e “aggirare” così le leggi in vigore negli stati repubblicani: un vero e proprio vademecum che spiega alle donne come abortire, anche se abitano negli stati dove l’aborto è vietato (al momento sono sette, tutti a guida repubblicana). “Io vivo in Texas e ho visto che posso ordinare la pillola online. È sicura”? chiede una follower, riferendosi alla pillola abortiva. “Sì, il mifepristone è un modo sicuro per interrompere una gravidanza prima delle 11 settimane” spiega la deputata, linkando anche il sito planpilss.org dove è possibile richiedere e ordinare la RU-486. Giusto per mettere un po’ di benzina sul fuoco, Ocasio Cortez accusa poi i movimenti pro vita americani di essere “violenti” e di avere una lunga serie di aggressioni alle spalle.

La deputata parla di omicidi, assalti, operazioni di stalking, “cresciuti solo nel 2021 del 128%”. E afferma: “I repubblicani impazziranno quando vedranno la condivisione di queste informazioni”, contribuendo così a infiammare la guerra culturale negli Usa.

E agita lo spettro dell’impeachment

Si può essere o meno d’accordo con la sentenza della Corte Suprema, ma l’atteggiamento della beniamina dei liberal sembra essere tutt’altro che politicamente responsabile. Massimo rispetto e solidarietà per quello che ha subito da giovane, ma dovrebbe ricordare ai suoi giovani follower che abortire, comunque la si pensi, non è certo una passeggiata di salute, in nessun caso. È una scelta drammatica, devastante per ogni donna, che non può essere presa a cuor leggero dopo aver letto un post su Instagram di una giovane politica che vive in maniera ossessiva e quasi ansiogena la popolarità sui social network. Irresponsabilità che si denota anche quando la stessa deputata agita lo spetto dell’impeachment contro i giudici della Corte Suprema solo perché questi ultimi hanno preso una decisione che a lei non piace, passando la palla ai singoli stati.

“Hanno mentito”, ha accusato AOC durante un’intervista rilasciata alla Nbc, aggiungendo che “devono esserci conseguenze per azioni profondamente destabilizzante e una presa di potere ostile delle nostre istituzioni democratiche”. Se queste parole, tutt’altro che accomodanti, le avesse pronunciate Donald Trump, sarebbe stato messo lui stesso sotto impeachment, per l’ennesima volta. Ma poiché a pronunciarle è la paladina dei “diritti” e delle copertine patinate più trendy, allora tutto è consentito.

Arrestata Ocasio Cortez: manifestava a favore dell’aborto. Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.

La parlamentare democratica è stata fermata assieme ad altre 34 persone, tra cui 17 deputate. L’iniziativa di «disobbedienza civile» contro la recente sentenza della Corte Suprema Usa. 

La poliziotta ripete l’avvertimento per tre volte: «La vostra è una manifestazione non autorizzata; state bloccando la viabilità, spostatevi o verrete arrestate». L’idea non è dispiaciuta a 17 parlamentari democratiche, tra le quali Alexandria Ocasio-Cortez . Erano alla testa di un piccolo corteo diretto verso l’edificio della Corte Suprema degli Stati Uniti. Una manifestazione contro la decisione che il 24 giugno scorso ha cancellato la sentenza Roe v.Wade e quindi la tutela del diritto di scelta garantito a tutte le donne americane dal 1973.

Una una scossa alla politica americana. Ma la maggioranza democratica che controlla i due rami del Congresso non è in grado di rimediare con una legge. Non ci sono i numeri per scardinare l’ostruzionismo repubblicano al Senato. L’ala più radicale del partito, allora, ha deciso di dare visibilità alla protesta, fino ad arrivare alla provocazione. Ad animare l’iniziativa c’erano le quattro star della cosiddetta «Squad», la Squadra. Oltre a Ocasio-Cortez, ecco Ilhan Omar, Ayanna Pressley e Rashida Tlaib. Nel gruppo anche deputate di lungo corso, come la californiana Jackie Speier. Sono uscite a metà pomeriggio da Capitol Hill, marciando e gridando slogan con le attiviste: «Noi non ci tireremo indietro».

La polizia le ha seguite con discrezione, fino a quando il gruppone non si è fermato in un incrocio critico sul versante che porta alla Stazione. Ma dopo il richiamo a spostarsi, diverse manifestanti si sono sedute sull’asfalto. A quel punto sono scattati gli arresti. Al posto delle manette metalliche, sono state usate le fascette di plastica. Le immagini mostrano Ocasio-Cortez che saluta con il pugno chiuso, prima di essere bloccata con le mani dietro la schiena. Dovrebbero essere trattenute per poche ore. Prima di essere rilasciate, saranno però multate.

Usa, Alexandria Ocasio Cortez e altre 16 parlamentari democratiche arrestate durante protesta per l'aborto. La manifestazione era una delle tante iniziative in difesa del diritto costituzionale all'interruzione di gravidanza, negato dalla Corte suprema. La Repubblica il 20 Luglio 2022.  

Diciassette parlamentari democratiche, fra le quali Alexandria Ocasio-Cortez e Ilhan Omar, sono state arrestate nel corso di una manifestazione in favore dell'aborto a Washington, non lontano dalla Corte suprema e da Capitol Hill.

"Abbiamo arrestato un totale di 35 persone, tra le quali 17 componenti del Congresso" perché dopo che era stato loro intimato tre volte di disperdersi "si sono rifiutate di sgomberare la strada", ha riferito la polizia.

Ilhan Omar, come Ocasio-Cortez esponente dell'ala radicale del Partito democratico, ha scritto sui social di essere stata fermata durante "un'azione di disobbedienza civile". "Farò tutto quello che posso per suonare l'allarme sull'attacco ai nostri diritti riproduttivi", ha aggiunto.

Ocasio-Cortez ha postato un video in cui si vede un poliziotto che la fa allontanare dalla strada di fronte alla Corte suprema. La stessa strada in cui decine di migliaia di persone si erano radunate nelle ore e nei giorni immediatamente successivi alla sentenza con cui il 24 giugno la Corte suprema statunitense ha negato il diritto costituzionale all'interruzione di gravidanza rimandando ai singoli Stati la regolamentazione della materia. Una decisione che ha scatenato uno scontro politico di grande portata, nei palazzi del potere e nelle piazze.

In questa situazione l'amministrazione Biden sta valutando di dichiarare un'emergenza sanitaria "limitata" per difendere l'aborto e in particolare l'accesso alle pillole abortive.

Aborto negli Usa: la battaglia si sposta negli Stati. Simona Iacobellis su Inside Over il 28 giugno 2022.

Dopo la decisione della Corte Suprema di annullare la sentenza Roe v. Wade, eliminando così il diritto all‘aborto a livello nazionale, i singoli Stati si sono armati per una battaglia a suon di leggi e cause legali. Da un lato i conservatori, che coinvolgono circa metà degli Stati, intenti a minare la libertà di aborto; dall’altro i liberali, pronti a contrastarli per preservare i diritti riproduttivi.  

I sostenitori dei diritti all’aborto si sono scatenati in vari Stati, come Texas, Louisiana, Mississippi. I casi più interessanti sono quelli della Louisiana e dello Utah: lunedì i giudici hanno temporaneamente bloccato l’applicazione di leggi che avrebbero vietato l’aborto. La strategia per preservare i diritti in questione prevede la richiesta ai tribunali di ingiunzioni temporanee che diano la possibilità di praticare l’aborto nel breve termine. 

Ma facciamo un passo indietro. Negli anni passati, in tredici Stati americani, tra cui i due appena citati, erano state approvate le cosiddette “trigger laws”. Si trattava di leggi che sarebbero entrate in scena proprio nel preciso istante in cui la Corte Suprema avesse preso l’azzardata decisione di eliminare il diritto all’aborto, vietandone quindi la pratica negli Stati che avevano aderito. Ed è ciò che è accaduto lo scorso venerdì. In molti di questi Stati le leggi sono così rigide da vietare l’aborto anche in caso di stupro o incesto. Per qualche Stato, l’eliminazione del diritto costituzionale ha addirittura riesumato leggi antiabortiste dei primi del Novecento, definite “zombie laws”. 

La repentina applicazione delle “trigger laws” ha dato il via a battaglie legali per bloccarle. Il giudice Andrew Stone, del terzo distretto congressuale dello Stato dello Utah, ha accolto una richiesta presentata dall’organizzazione Planned Parenthood, sospendendo temporaneamente l’entrata in vigore di una legge per criminalizzare l’aborto. Il tribunale è riuscito a bloccare la legge per soli quattordici giorni, attendendo le argomentazioni delle parti. In questo breve periodo gli aborti possono essere temporaneamente praticati. Anche in Louisiana gli aborti saranno possibili nell’attesa di una sentenza, prevista per l’8 luglio. 

“La sentenza della Corte Suprema è stata devastante e terrificante per i nostri pazienti e operatori sanitari, ma almeno per ora, gli Utah saranno in grado di ottenere le cure di cui hanno bisogno”, ha dichiarato Karrie Galloway, presidente della Planned Parenthood Association of Utah. “Oggi è una vittoria, ma è solo il primo passo di quella che sarà senza dubbio una lotta lunga e difficile”.

Un altro caso degno di menzione è quello della California. La super maggioranza, consistente nei due terzi dell’Assemblea dei legislatori statali (di cui molti democratici), ha approvato un emendamento costituzionale per proteggere il diritto all’aborto, nel tentativo di modificare la Costituzione dello Stato e rendere permanenti i diritti. L’emendamento verrà sottoposto al giudizio dei cittadini durante le votazioni di novembre per il rinnovo del Congresso. Gli elettori potranno così esporsi sui diritti alla contraccezione e all’aborto, senza che il diritto sia più basato sulla privacy. Toni Atkins, presidente pro tempore del Senato, ha spiegato che il testo stabilisce “in modo innegabilmente chiaro che in California l’aborto e la contraccezione sono una questione privata tra il paziente e il medico”, proteggendo anche da eventuali denunce donne e medici. 

L’iniziativa elettorale prevede che lo Stato “non neghi o interferisca con la libertà riproduttiva di un individuo nelle sue decisioni più intime, che includono il suo diritto fondamentale di scegliere di abortire e il suo diritto fondamentale di scegliere o rifiutare i contraccettivi”. 

I sostenitori invece… 

La lotta ha preso piede anche in quegli Stati che cercano di vietare l’aborto. In Mississippi, ad esempio, il procuratore generale ha riconosciuto ufficialmente la sentenza della Corte Suprema, dando un margine di tempo di dieci giorni, trascorsi i quali quasi tutti gli aborti saranno vietati. 

In Indiana, invece, il procuratore generale ha chiesto ai tribunali di approvare diverse leggi, tra cui quella che vieta gli aborti per motivi di razza, sesso o disabilità. Il procuratore Todd Rokita ha dichiarato: “Credo nella costruzione di una cultura della vita in Indiana. Questo significa proteggere la vita dei bambini non ancora nati e salvaguardare il benessere fisico, mentale ed emotivo delle loro madri”.  

Nella giornata di lunedì i procuratori generali di ventuno Stati, tra cui New Messico, Nord Carolina e Minnesota, e del Distretto di Columbia hanno rilasciato una dichiarazione congiunta che mirava a rassicurare le pazienti che si trovavano fuori dallo Stato, assicurando che avrebbero protetto il loro accesso all’aborto. È infatti previsto un maggior numero di pazienti provenienti dagli Stati vicini che vietano la pratica. La dichiarazione congiunta è stata una risposta alla richiesta al Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti di altri diciannove Stati, tra cui Florida, Ohio e Texas, di proteggere le organizzazioni anti-aborto dalla violenza. 

Nel Sud Carolina un giudice federale si sta impegnando per far rispettare la sua legge, che vieta l’aborto dal momento in cui viene rilevato un battito cardiaco fetale. L’aborto è previsto solo in casi di stupro o incesto, a patto che il feto non abbia più di venti settimane, e nei casi in cui sia l’unico modo per salvare la vita della madre. 

I divieti statali avviati da legislatori conservatori, come in Ohio dove l’aborto è stato vietato dopo sei settimane di gravidanza, sono stati contestati da città liberali come Cincinnati, che sta prendendo provvedimenti per cambiare il piano sanitario della città e rimborsare i viaggi per motivi legati all’aborto. E come ha twittato il sindaco Aftab Pureval, “non è mio compito rendere più facile per il legislatore e il governatore dello Stato trascinare le donne indietro negli anni Cinquanta e privarle dei loro diritti. Il mio compito è quello di renderlo più difficile”. 

Le sfide giudiziarie ai divieti di aborto si sono poi focalizzate sulle costituzioni statali, soprattutto quelle in cui è incorporato il diritto alla privacy, come ad esempio in Arizona, California e Louisiana. 

Nel ventunesimo secolo, solo Stati Uniti, Polonia e Nicaragua sono stati in grado di emanare leggi più restrittive degli altri paesi. Questo punto appena raggiunto, però, non può essere definito d’arrivo, poiché presumibilmente mette le basi per possibili ulteriori limitazioni di altri diritti, tra cui la protezione delle minoranze razziali ed etniche. 

Come ha affermato Adam Serwer dell’Atlantic, “la Corte Suprema è diventata un’istituzione il cui ruolo principale è quello di imporre una visione di destra della società americana al resto del Paese”. Il punto, ora, è capire fin dove si spingerà. 

C’è una chiesa in Texas che aiuta le donne che vogliono abortire. La “First Unitarian Church of Dallas” opera nello stato più conservatore degli Usa. Nel 73 è stata all’origine della celebre Roe vs Wade, oggi torna in prima linea. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 29 giugno 2022.

Uno pensa alle comunità religiose negli Stati Uniti e si immagina subito i cortei di fanatici pro life, le crociate contro i diritti civili, il fondamentalismo veterotestamentario delle chiese evangeliche con i loro accoliti born again Christian, il cuore pulsante della Bible belt che ancora oggi sembra incompatibile con i principi della laicità e della separazione tra Stato e religione, tra leggi terrene e valori trascendenti. E, naturalmente, pensa al lungo sodalizio con la destra politica che da Ronald Reagan a Donald Trump, passando per Bush padre e figlio, ha concesso loro visibilità e una grande influenza sulle questioni di società.

Se la Corte suprema ha deciso di abolire la Roe vs Wade calando un mantello proibizionista sulla libertà di abortire è perché ha piena cognizione di questa spinta popolare che forse non rappresenta la maggioranza cittadini statunitensi ma che legittima la brutale guerra ai diritti civili sferrata dai giudici conservatori. Giù sono pronte in tal senso le offensive contro la contraccezione e i matrimoni tra persone dello stesso sesso annunciate in un’intervista dal giudice Clarence Thomas. Ma i cristiani d’oltreoceano non sono certo tutti degli integralisti violenti e dei nemici delle libertà individuali. Questo anche a livello di confraternite.

Prendiamo, per esempio, la First Unitarian Church of Dallas che opera nello Stato senza dubbio più conservatore dell’Unione, storica roccaforte del partito repubblicano: il Texas. Da anni i suoi volontari aiutano materialmente le donne che non possono interrompere la gravidanza a causa delle leggi ultrarestrittive, spesso accompagnandole in altri Stati come il New Mexico. Lo fanno da oltre quarant’ anni, e non è un caso che la First Unitarian Church of Dallas sia all’origine della Roe vs Wade, avendo rappresentato nel 1973 i diritti di Jane Roe (il vero nome era Norma Leah McCorvey) nel suo ricorso all’alta Corte che poi diede luogo alla storica sentenza. Da qualche anno erano attivissimo nella rete Clergy Consultation Service on Abortion, fondata a New York nel 1967 dai pastori protestanti metodisti di Washington square e un gruppo di rabbini di cultura liberal. Una strana creatura, figlia della travolgente stagione dei diritti che ha squadernato la società americana anche nella variegata galassia religiosa partorendo sorprendenti sincretismi. Come il Religious Coalition for Reproductive Choice nato all’inizio degli anni 70 : «Cristo è vicino alle persone vulnerabili, in particolare agli emarginati dal sistema e dalle ineguaglianze, Cristo non è un giudice», spiega l’attuale direttrice Katey Zeh, pastora battista.

Per gli adepti della First Unitarian Church, che si ispira apertamente all’ “universalismo unitario” e appartiene a una congregazione fondata in Canada, il diritto di scelta della donna prevale sui moniti della Bibbia che considera l’aborto un omicidio, ma anche sui dilemmi etici che ne derivano, in quanto la donna è la prima vittima di un aborto e sarebbe assurdo paragonarla a un’assassina. Inoltre la possibilità di interrompere la gravidanza in sicurezza evita il barbaro mercato nero degli aborti clandestini una piaga che combatte dalla fine degli anni 60. Antiproibizionista e ovviamente contraria alla pena di morte.

È soprattutto una chiesa sociale, molto presente sul territorio, che offre assistenza concreta a tutti, che spesso sostituisce il welfare minimalista statunitense, fornendo ricoveri e cibo ai senza tetto, occasioni di lavoro ai disoccupati e, appunto, aiuto legale e sanitario alle donne delle classi popolari, quasi tutte afroamericane o ispaniche, molte di loro vittime di violenza sessuale. Riescono a farlo da decenni grazie a una fitta rete di donatori pro choice di diversa estrazione religiosa, l’unico requisito per ottenere servizi è essere al di sotto della soglia di povertà. «Noi facilitiamo solamente l’accesso a strutture mediche sicure a donne in gravi difficoltà, non incoraggiamo nessuno ad abortire e non facciamo propaganda, si tratta di una scelta individuale che appartiene solo alla donna», spiega il reverendo Daniel Kanter Senior minister della First Unitarian Church in un’intervista alla britannica Bbc. Venerdì notte, poche ore dopo la sentenza della Corte suprema centinaia di fedeli si sono riuniti a Dallas per pregare e per «trovare la forza di continuare la missione anche se nel prossimo futuro molti Stati vieteranno il diritto ad abortire o lo renderanno impossibile», racconta Kanter.

Ma l’attivismo della First Unitarian Church e la rete di cui fa parte rappresentano solo un piccolo segmento dei cristiani americani, in larga parte ostili ai diritti civili e alla separazione tra Stato e Chiesa. Secondo un recente sondaggio realizzato dal Pew Review Center tre protestanti bianchi su quattro considerano l’aborto un omicidio “in ogni caso” e vorrebbero che fosse illegale in tutto il territorio federale. Ma queste cifre cambiano in modo notevole se consideriamo i protestanti afroamericani (una comunità molto più colpita dal dramma delle gravidanze in giovanissima età) le proporzioni si ribaltano e persino tra i bianchi non evangelici la maggioranza è favorevole alla legge che autorizza l’interruzione di gravidanza.

Da billboard.it il 28 giugno 2022.

Madonna si è divertita molto a festeggiare il New York Pride lo scorso giovedì 23 giugno. Ma è rimasta inorridita il giorno dopo, quando ha visto la notizia che la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva annullato la sentenza Roe v. Wade. 

«Mi sono svegliata con la terrificante notizia che la Roe v Wade è stata ribaltata e che la legislazione ha deciso che non abbiamo più diritti come donne sui nostri corpi». Questo quanto ha scritto l’icona pop in un post su Instagram domenica 26 giugno con alcune foto condivise. «Questa decisione ha gettato me e ogni altra donna in questo Paese in una profonda disperazione». 

Madonna ha proseguito «ora la Corte Suprema ha deciso che i diritti delle donne non sono più diritti costituzionali. In realtà abbiamo meno diritti di una pistola».

«Ho paura per le mie figlie» ha detto la star. «Ho paura per tutte le donne d’America. Sono veramente spaventata». 

«Credo che Dio abbia messo questo sulle nostre spalle proprio ora perché sapeva che eravamo abbastanza forti da sopportare il peso» ha scritto Madonna. «Abbastanza forti da lottare! Abbastanza forti da superare. E così noi supereremo! Troveremo un modo per far diventare legge federale la protezione dei diritti all’aborto! Signore siete pronte a combattere?».

Madonna fa parte di una lista di innumerevoli artisti che da venerdì hanno espresso sui social media la loro opinione sulla preoccupante decisione della Corte Suprema. Durante vari concerti, musicisti come Olivia Rodrigo, Megan Thee Stallion, Phoebe Bridgers, Billie Joe Armstrong e Billie Eilish si sono rivolti al pubblico nel fine settimana. Olivia Rodrigo ha dedicato il brano di Lily Allen F**k You alla Corte Suprema, mentre Billie Joe Armstrong ha dichiarato di voler rinunciare alla cittadinanza statunitense.

Spot vs. messa. Note paradossali per quelli che festeggiano la sentenza americana sull’aborto. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 27 Giugno 2022.La scelta dei giudici di Washington potrebbe contaminare campi contigui della moralità in decadenza, tra insegnamento bacchettone della Chiesa e pubblicità morbose in televisione (ma meglio di no!) 

Siccome c’è caso che non si capisca immediatamente, chiarisco: sto scherzando.

Tanto premesso, così il direttore è tranquillo, dico che l’aria fresca che vien dagli Stati Uniti, quella che secondo l’immagine di qualche cristiano nazionale contribuirà qui da noi a far pulizia dell’impunitismo in materia di aborto, e che secondo l’antiabortismo cavilloso spira da un innocuo ripristino dell’originaria giuridicità nordamericana, potrebbe favorevolmente contaminare campi contigui della moralità in decadenza.

Mi riferisco al fenomeno, ormai quotidianamente pervasivo, degli spot pubblicitari – dal prodotto per spolverare casa allo strumento assicurativo, dal dessert al viaggio organizzato – che rammostrano, a volte persino in atteggiamenti d’intimità, coppie omosessuali. Si tratta di un pernicioso tentativo di delegittimazione della famiglia naturale, e della promozione di un modello sociale, di convivenza e delle relazioni personali che urta in modo plateale le fondamenta della civiltà cattolica. L’insegnamento della Chiesa, secondo cui l’omosessualità rappresenta alternativamente o cumulativamente una manifestazione morbosa o un segnale di grave disordine morale, e in ogni caso una degradazione peccaminosa meritevole di sanzione e correzione, è esposto a un gravissimo pericolo di diluizione se non è impugnato da chi di dovere per denunciare l’intollerabilità di questo andazzo di perversione.

Deve essere posto rimedio al disorientamento dei figli d’Italia, esposti in modo contraddittorio al messaggio parrocchiale che illustra i tratti patologici dell’omosessualità e a quello maleficamente suadente della pubblicità che invece la equipara al modello legittimo dell’accoppiamento. E a porvi rimedio deve essere la Chiesa in un ritrovato senso apostolare che la smetta una buona volta di esercitarsi nella ridotta della messa senza quorum e nelle ritualità stanche delle feste obbligate. Se pure fosse una battaglia perduta, la Chiesa dovrebbe intervenire con il vigore che a essa non manca per riaffermare in modo più netto, e ovunque abbia modo di farsi sentire, che la famiglia, cellula connettiva della nostra comunità valoriale, trova nella legittimazione pubblicitaria della patologia omosessuale il più grave motivo di affronto e la più efficiente causa di disgregazione.

Chi educa i propri figli all’insegnamento cattolico ha il diritto di pretendere che la Chiesa non si vergogni nel reclamare ciò su cui fa dottrina: e cioè la necessità di proteggere la società dal peccato e dalla turba omosessuale. E se il maligno è tanto ficcante da essersi insinuato nella réclame dei surgelati e delle offerte telefoniche, ebbene è anche da lì, o forse soprattutto da lì, che bisogna cominciare. E chissà, appunto, che la notizia statunitense non aiuti. Un po’ d’aria fresca a spazzar via la mistificazione mercatista, e finalmente un po’ di verità sul fatto che la donna che abortisce è un’assassina e il frocio è un malato.

E a questo punto tocca il P.S. per ripetere che no, non penso che gli omosessuali siano malati e non penso che le pubblicità con le coppie omosessuali attentino alla sacralità della famiglia fondata sul matrimonio. Così l’articolo è rovinato ma Rocca torna tranquillo.  

Libertà va raschiando. Confessioni di un’abortista che si è stancata della narrazione dolente dell’aborto. Guia Soncini su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.

Gli editoriali sui quotidiani, la paura delle riviste femminili e un’intervista di Marina Abramovic sulle sue tre interruzioni di gravidanza. Gli appunti di un maschio mancato che ama il conflitto e della sua recente infedeltà pubblicistica all’ideologia del raschiamento

Niente racconta la mia parabola ideologica – dalla giovinezza alla pigrizia – come le (mie) reazioni alla pubblicistica sull’aborto. Oddio, «giovinezza»: all’altezza del primo aneddoto avevo trentasei anni.

Nell’autunno del 2008 smisi sdegnata di scrivere per un quotidiano col quale avevo iniziato da pochissimo a collaborare perché pubblicarono un articolo che esprimeva dei dubbi verso la libertà d’abortire. Un articolo altrui. Ero così invasata rispetto all’ideologia del raschiamento che m’importava perfino degli articoli altrui.

Nell’estate del 2016 avevo quarantatré anni, e Marina Abramović dichiarò d’aver abortito tre volte. Giacché, trascrivo dai miei appunti d’epoca, l’arte è una questione totalizzante e non lascia il tempo di cambiare i pannolini. Avevo una rubrica su un femminile – ho avuto rubriche sui giornali femminili per la più parte della mia vita lavorativa – e commentai quest’episodio.

Nel pezzo che inviai, all’inizio di agosto, a una vicedirettrice che voleva solo chiudere le pagine e andare al mare, c’era scritto: «Marina Abramović ha 68 anni e, in un’intervista a un giornale tedesco, ha detto di aver abortito tre volte (un numero abbastanza normale, in un’intera vita riproduttiva)».

A questo punto dobbiamo mettere in pausa l’illuminazione sul mio rammollimento ideologico per dare spazio a un’illuminazione sul perché le donne guadagnino meno degli uomini. Sì, il patriarcato, il lavoro di cura gratuito, le gravidanze, la rava, la fava: tutte ragioni minoritarie. Principalmente, le donne guadagnano meno perché sono terrorizzate dal conflitto.

Lo sa chiunque abbia avuto a che fare con le riviste femminili, scritte da donne, redatte da donne, dirette da donne; da donne che hanno figli o non ne hanno, si vestono bene o male, sanno l’italiano o più spesso non lo sanno, ma tutte inderogabilmente hanno una cosa in comune: paura della loro ombra.

Ho avuto parecchie direttrici e parecchie vicedirettrici, e tutte quando intravedevano il rischio del conflitto – conflitto rappresentato anche solo da una mail di protesta – ne erano terrorizzate (per fortuna i femminili tendenzialmente non fanno scoop, altrimenti alla prima smentita ci sarebbero attacchi di panico nelle redazioni); ma, poiché avevano paura della loro stessa ombra, il loro terrore non si limitava al conflitto col pubblico, ma anche a quello con la collaboratrice cui dovevano dire «questo lo tagli sennò le lettrici chi le sente». La soluzione era sempre un piano più su. Se parlavi con la vicedirettrice, ti diceva che lei te l’avrebbe lasciato scrivere, ma sai com’è la direttrice. Se a dirti di no era la direttrice, spiegava che fosse stato per lei liberissima, ma l’editore non vuole. Può gente che non sa dire a una collaboratrice di non rompere i coglioni saper ottenere un aumento?

L’estate del 2016 non fece eccezione. La vicedirettrice mi disse che le redattrici le avevano chiesto di farmi tagliare quella parentesi perché «sono tutte madri». Siccome le redattrici hanno dei figli, tu non puoi scrivere nella tua rubrica che abortire tre volte in una vita è normale. Da qualche parte i trattati di logica stavano piangendo.

Ne seguì un carteggio che, sei estati dopo, ho riletto strozzandomi dal ridere. Seguono stralci.

Soncini: «Di adulte che non abbiano abortito due o tre volte conosco solo cielline e lesbiche».

Vicedirettrice: «Che lo dica lei è un fatto, che lo avalliamo noi-tu è troppo».

Soncini: «“Dovete lasciarci l’aborto perché fa schifo anche a noi e lo useremo con moderazione”, l’aborto legale come i 70 grammi di pasta integrale, dai».

Vicedirettrice: «Le nostre lettrici non sono così avanti. E non ho tempo di rispondere a una valanga di lettere di protesta».

Soncini: «Prima o poi toccherà svelarti una sconvolgente verità, cioè che se non ti arrivano lettere di protesta vuol dire che non scrivi niente d’interessante e che nessuno ti legge».

A quel punto i social esistevano da quasi un decennio, tutti avevano la mail sul telefono, tutti smaniavano per notificarti la loro opinione, e valeva quel che vale adesso: se nessuno si offende, nessuno ti ha letto. Non sono mai riuscita a farlo capire a nessuna direttrice di femminile con cui abbia collaborato, e infatti sono andati tutti in rovina: hanno scambiato il silenzio per assenso invece che per disinteresse per giornali fatti con accurata assenza di personalità.

Ma non è di loro che stavamo parlando, bensì di me. Di me che a un certo punto di questo carteggio ho pensato che non me ne fregava più abbastanza dell’aborto da sbattermi a difendere l’esistenza di quella parentesi in un articolo che cominciava così: «Una volta Simone de Beauvoir, all’insinuazione che scrivesse libri perché non era riuscita ad avere figli, rispose con un’ovvietà: non sarà che fate dei figli perché non siete capaci di scriver dei libri? […] Simone de Beauvoir è morta nel 1986: ha quindi vissuto in quel lussuoso secolo in cui, se un’intellettuale diceva qualcosa sul mondo, poi al massimo doveva risponderne ad altri intellettuali, non a chiunque si annoi in ufficio e si metta a scrivere i propri pensierini su Facebook».

Della me quarantatreenne che pensò a quella povera crista in un open space periferico milanese invece che in coda per il mare, e disse ma sì, taglia la parentesi, senza neanche rompere troppo i coglioni sull’assurda idea d’affidare una rubrica d’opinione a qualcuna per poi sottoporre le sue opinioni a referendum confermativo redazionale (allora tanto valeva chiedere alle commentatrici di Facebook cosa ne pensassero).

Non stavamo parlando della sinistra italiana, che non si sbatte per migliorare la 194, una legge ostaggio d’una truffa quale l’obiezione di coscienza. Non stavamo parlando della sinistra americana, che non si sbatte per avere diritti sanitari (uno solo dei quali è quello all’aborto). Stavamo parlando di me – un maschio mancato al quale il conflitto è sempre piaciuto moltissimo – che molto prima della menopausa m’ero già stufata di dover litigare sull’aborto.

E di come passino quelle piccole vittorie che sono il racconto dolente dell’aborto, il racconto dell’aborto come eccezione, e tutto ciò che contribuisce a renderlo l’unico diritto della cui utilizzazione ci si scusa; insistendo implacabili per decenni, non tenendo conto d’obiezioni logiche o altro, col metodo che mia nonna attribuiva a me: tu la gente la pigli per stanchezza.

A Gilead, a Gilead! Anche sull’aborto noialtri intelligenti siamo molto stupidi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Giugno 2022

Pur pensando che essere incinte sia un’invalidità, e perfino dopo aver sbirciato un paio di talk show italiani sul tema, riesco ancora a capire che le donne americane che festeggiano la decisione della Corte Suprema non gioiscono perché viene negato loro un diritto, ma perché sono convinte che si metta fine a un crimine.

Riesco a immaginare solo un’invalidità più insopportabile, una tragedia più abissale, uno stato più atroce dell’essere incinta, ed è: essere incinta senza aver desiderato d’esserlo. È una delle ragioni per cui le sciatte militanti che in questi anni hanno scomodato Gilead per ogni fischio per strada sono imperdonabili: a che serve la potenza della letteratura che evoca donne incinte per imposizione se poi, quando arriva il momento in cui in alcuni degli Stati Uniti non si può più abortire per nessuna ragione, quei personaggi di fantasia non puoi più citarli perché “Il racconto dell’ancella” è consunto dalle similitudini a casaccio?

In cima alla pagina di The Cut, la sezione femminile del New York Magazine, c’è l’occhiello «Life after Roe», la vita dopo che la Corte Suprema ha deciso che la sentenza Roe vs. Wade non attiene all’aborto, non essendo l’aborto citato in una Costituzione scritta nel Settecento (ma tu pensa), e non tutelando quindi quella sentenza, come fin qui ritenuto, il diritto all’interruzione di gravidanza. Prima dell’articolo c’è un avviso. Fa così: abbiamo rimosso il paywall da questa e altre storie sulla possibilità di abortire. Certo che è importante dare informazioni sulle questioni urgenti (e se non lo è liberarti d’una gravidanza che non vuoi, non saprei che definizione dare di «urgenza»), ma magari un articolo che ti dice che non devi credere a TikTok, il bidet con la Coca Cola non fa abortire, dovremmo averlo superato a dodici anni, che è l’età alla quale leggevo le smentite di queste leggende su Cioè. Sto per compierne cinquanta, e la demolizione delle leggende abbiamo cominciato a chiamarla debunking, e non pensiamo si smetta d’averne bisogno dopo le scuole medie.

Lo so, questa cosa d’aver detto «sezione femminile» fa di me una retrograda. Anche le persone trans e non binarie possono aver bisogno d’un aborto, possono mestruare, possono amare: sono tali e quali a noi, noi normali. Ma cosa volete ne sappia io, che ogni volta che sento «non binario» ho il riempimento automatico di «triste e solitario».

Dunque è andata così: Barack Obama ha avuto una maggioranza mai vista e non l’ha usata per fare una legge federale che regolamentasse l’aborto; a seconda di chi siano tifosi, gli studiosi di leggi americane ti dicono che non l’ha fatto perché il precedente d’una sentenza che s’appoggia alla Costituzione è più forte d’una legge federale e non c’era ragione di pensare decadesse, o che non l’ha fatto come non ha fatto mille altre cose, tra cui i nuovi giudici della Corte Suprema. Le militanti strepitano perché Donald Trump ne ha fatti tre, e non s’accorgono mai mai mai che stanno dicendo: è stato più bravo. Chi vuol far vedere che ha spirito critico dice: eh, certo, è un po’ colpa di Ruth Bader Ginsburg che si sarebbe dovuta dimettere a Obama in forze, permettendogli di metterci un altro giudice abortista. Ma chi la doveva convincere a dimettersi, RBG, io? Se Obama fosse stato bravo a fare il presidente quanto a venire bene in foto, chissà dove saremmo.

L’altra sera alla tv italiana sono andati in onda quelli che mi sono sembrati i quaranta minuti di tv più incredibili di tutti i tempi, ma probabilmente è il livello medio dei talk show e sono io che non sono abituata a guardarli. A osservare senza neanche troppa attenzione, si vedeva in controluce la costruzione del disastro. Una puntata preparata con un parterre di ospiti televisivi abituali, di quelli ritenuti in grado di parlare di Ucraina e di PNRR, dell’afa e della pandemia. Poi, nel pomeriggio, la notizia: in America è saltato per aria il fragile escamotage su cui si basava la possibilità di abortire. Mica vorrai smontare il parterre. Aggiungiamo due donne, ché l’aborto è cosa di donne, due con utero e che sappiano anche quattro cose sul tema. Ma quaranta minuti cinque ospiti? Ma figuriamoci: alle due in quota competenza facciamo una domanda e poi le congediamo.

Quando la conduttrice, dopo averle fatte parlare trenta secondi l’una, manifestando una certa qual insofferenza per ventinove dei trenta secondi, dice «so che ci dovete lasciare», la regia si guarda bene dall’inquadrarle, acciocché non si veda il labiale «no veramente noi potremmo pure restare». Se inquadrassero le due che conoscono il tema mentre vengono congedate per proseguire la discussione sul tema con gente che di solito parla di scissione dei Cinque stelle, vedremmo probabilmente due emule di Valeria Parrella allo Strega, quando la congedarono per parlare di MeToo: «E lei ne vuole parlare con Augias? Auguri».

L’omaggio a quel grandissimo momento di televisione può quindi proseguire con gli abituali turnisti del circo, uno dei quali – d’un quotidiano di destra – dice delle cose ovvie per un conservatore ma le dice come le dicono le macchiette televisive italiane: risultando insopportabile. Perdipiù la conduttrice, che è in modalità in-quanto-donna e quindi deve dire che l’aborto è un diritto inalienabile, è così maldisposta nei suoi confronti che la regia non osa inquadrarlo, e quindi quello diventa una voce dall’indefinito del suo bravo collegamento mentre tengono fisso il primo piano della conduttrice che sbuffa. Quando ero giovane e fertile queste trasmissioni esistevano per diventare Blob, ora probabilmente per diventare meme.

La stessa sera, sulla Hbo andava in onda il talk migliore del mondo, quello di Bill Maher. Era ospite Andrew Sullivan, che esprimeva gli stessi concetti del conservatore italiano ma come li esprime uno alfabetizzato, e spiegava bene l’assurdità dell’Italia che si scalda sulla regolamentazione dell’aborto americano, pur senza nominarci mai.

La sinistra americana è scandalizzata perché i primi interventi di riduzione della possibilità di abortire (in Florida, per esempio) hanno abbassato il termine da sei mesi a meno di quattro (quindici settimane). Gli americani non sanno talmente mai niente che il primo che studia due schede da sussidiario su quel che accade fuori dagli Stati Uniti pare subito un genio. Sullivan (che è inglese, inserire qui la battuta di Hamilton sugli immigrati sui quali contare per un lavoro ben fatto) fa presente che in mezza Europa il termine è a dodici settimane (anche in Italia).

Una giornalista ospite interviene dicendo sì, ma lì hanno la sanità pubblica. Già, ragazza: qui in dodici settimane, non potendo per legge abortire nel privato, devi anche fare in tempo a trovare un non obiettore nel pubblico. Ha tentato di spiegarlo Chiara Lalli a Lilli Gruber, ma alla Gruber «Molise» sembrava meno chic di «Florida» e quindi l’ha interrotta come stesse andando fuori tema. (Dovendo scegliere un modello, suggerirei l’Inghilterra: sanità pubblica, e termine a sei mesi).

Ci sarebbe poi anche da parlare della questione «come osano parlarne gli uomini» o, come dicono quelli cui piace citare in inglese, «no uterus no opinion». La giornalista ospite da Bill Maher è lesbica: l’utero inutilizzato ha comunque diritto a opinioni? E, se pensi che quella che abortisce ammazzi qualcuno, non hai non solo il diritto ma forse pure il dovere d’intervenire, anche se un utero non ce l’hai?

Com’è possibile che da questo lato delle cose – quello in cui abortire pare non solo un diritto ma addirittura un dovere, e quella fuori legge dovrebbe essere la gravidanza portata a termine – non riusciamo ad avere argomentazioni adulte, e a capire che una questione etica che per qualcuno (anche per molti di quelli che cianciano di «dramma morale» sperando così diventi più accettabile) non è niente, e per altri è assassinio, non la risolvi fingendo che le donne siano tutte da questo lato della questione?

Certo che più o meno tutte le donne hanno l’handicap di rischiare di restare incinte a ogni rapporto sessuale per metà della loro vita, e che questa disgrazia richiederebbe una pensione d’invalidità universale, e che l’idea che se resti incinta tu debba tenertelo è distopica e inaccettabile per molte di noi. Ma ci sono pure quelle che pensano che farti aspirare un embrione o un feto sia un omicidio, e rispetto all’omicidio hanno problemi di coscienza: avere un utero non basta neanche ad avere tutte la stessa opinione sui diritti che abbiamo su quell’utero.

Com’è possibile che non capiamo che le donne americane che manifestavano felicità per la fine di Roe vs Wade non sono donne che gioiscono perché viene negato loro un diritto, sono donne convinte che si metta fine a un crimine? Com’è possibile che noialtri intelligenti siamo così stupidi?

Politica e Costituzione. Che cosa vuol dire la sentenza contro l’aborto per l’America (e per l’Italia). Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.

La decisione della Corte Suprema americana non riguarda solo il tema dell’autodeterminazione della donna, ma investe profili altrettanto delicati come l’equilibrio tra potere legislativo e intervento dei giudici

La Suprema Corte Federale degli Stati Uniti pone fine dopo mezzo secolo agli effetti di quella che era la sua pronuncia più famosa, la sentenza Roe v Wade con cui nel 1973 aveva ritenuto incostituzionale il divieto di abortire fino a quando il nascituro non avesse raggiunto una propria autonomia di vita ( 24/28 settimane).

La decisione (213 pagine di motivazione fittissima del tutto insolita per una cultura giuridica abituata a una tacitiana asciuttezza espressiva), ha scatenato durissime polemiche nonostante fosse stata anticipata da una bozza fatta circolare nel mese scorso che si è rivelata esatta.

Come buona abitudine, i commenti provengono da soggetti che palesemente non hanno letto una riga e in alcuni casi neanche hanno capito di che cosa esattamente si occupasse la sentenza.

Cominciamo col dire che la Corte non vieta l’aborto ma intervenendo sulla legislazione dello Stato del Mississippi si limita a dire che i vari Stati dell’Unione hanno diritto a porvi per via legislativa limiti e regolamentazione.

Questo è sembrato sufficiente a buona parte dell’opinione pubblica progressista per esprimere indignazione e spingere il presidente Joe Biden, con un’evidente forzatura del suo ruolo, a invocare l’intervento del Congresso per porre rimedio agli effetti di una sentenza emessa dall’organo custode della corretta applicazione della più antica delle carte costituzionali.

Un autorevole studioso ed esperto della legislazione statunitense come Stefano Ceccanti ha ipotizzato che la sentenza possa costituire la molla per una mobilitazione dell’opinione pubblica laica alle elezioni di midterm di novembre.

Eppure sia consentito dire che a una prima lettura il contestato provvedimento si presta a una riflessione più complessa che coinvolge anche temi delicati di democrazia istituzionale oltre che quelli più scontati della libertà personale.

Il punto più controverso è proprio quello che riguarda la tutela costituzionale dell’aborto come espressione della autonomia e della libertà personale. La Corte non ritiene che alcuno dei principi costituzionali contempli la tutela di un simile diritto.

Non mi avventuro in una simile materia, ma richiamo l’attenzione su un profilo che sembra di gran lunga più significativo che è quello che riguarda il potere del diritto di origine giurisprudenziale di limitare e condizionare la libertà del legislatore.

Se dovessimo enucleare il concetto più rivoluzionario che la sentenza esprime esso è contenuto nella sintesi introduttiva (syllabus) laddove la Corte, con riferimento alla sentenza Roe-Wade che costituiva il parametro fino a oggi vincolante in materia, scrive che lo «Stare Decisis» (vale a dire il precedente giurisprudenziale costituzionale) non è un «inesorabile comando» e non esiste la prevalenza del diritto delle sentenze e dei giudici su quello del legislatore.

Nel ragionamento dei giudici, l’inviolabilità del precedente giurisprudenziale costituirebbe un freno alla libertà dei cittadini di affermare le loro idee in sede legislativa e parlamentare.

A ben vedere, il tema è ben conosciuto anche nel nostro paese particolarmente segnato dal conflitto tra la politica e una sorta di impropria tutela etico-giudiziaria esercitata dalla magistratura.

Quello che sostiene la Corte Suprema è che i grandi temi etici sono materia estranea all’intervento del giudice e vanno regolati dal legislatore come espressione del libero e democratico confronto parlamentare.

Una sentenza non è per sempre e non può la decisione di un organo giurisdizionale limitare la libertà dell’elettore di contribuire a una diversa regolamentazione conforme all’evoluzione del costume e del pensiero.

È significativo che in un passaggio del commento introduttivo, la Corte evidenzi che «lo schema della sentenza Roe ha prodotto una para legislazione e la corte ha fornito una sorta di enunciazione simile a quella che ci si aspetterebbe da un corpo legislativo».

Un tema, come si vede, assai delicato e che non merita gli strilli isterici da talk show dei commentatori che palesemente non hanno letto nulla.

Chi scrive, ad esempio, ritiene che a certe condizioni l’interpretazione dei giudici (salvo eccessi creativi) possa fornire garanzie migliori rispetto a un potere di legislazione esercitato da una maggioranza illiberale e populista, ma il punto è che il profilo abbracciato (a maggioranza) dai giudici federali è invero assai meno rozzo e schematico di quanto lo si voglia rappresentare.

Quanto alla rivendicazione di una sorta di diritto costituzionale all’aborto ferve già il dibattito sulle possibili ricadute della sentenza statunitense sul destino della legge 194 e in generale sulle legislazioni europee a tutela dell’autonomia della donna in materia di gravidanza: ma le conclusioni affrettate sono destinate a possibili clamorose smentite.

La corte federale ha scritto che non esiste un diritto costituzionale all’aborto, cosa deciderebbe la Consulta qualora qualcuno volesse sollevare oggi il problema di legittimità costituzionale della legislazione sull’aborto in funzione della tutela dei nascituri quali soggetti deboli?

Ebbene conviene richiamare ciò che la nostra Corte Costituzionale ha scritto nella sentenza 242/ 19 nella drammatica vicenda di dj Fabo in materia altrettanto scottante quale il diritto alla autodeterminazione nel fine vita e la legittimità dell’eutanasia: «Dall’art. 2 Cost. – non diversamente che dall’art. 2 CEDU – discende il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo: non quello – diametralmente opposto – di riconoscere all’individuo la possibilità di ottenere dallo Stato o da terzi un aiuto a morire». Ecco: il dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni individuo e l’implicito limite al concetto allargato di libertà personale («ordinata autoregolamentazione», secondo i giudici americani).

La Consulta ha per inciso escluso che la legge che puniva l’aiuto al suicidio, dichiarata parzialmente incostituzionale «si ponga, sempre e comunque sia, in contrasto con l’art. 8 CEDU, il quale sancisce il diritto di ciascun individuo al rispetto della propria vita privata: conclusione, questa, confermata dalla pertinente giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo». È lo stesso argomento utilizzato dalla Corte Suprema americana per escludere un’espressa tutela costituzionale al diritto di aborto.

Certamente il dibattito è aperto e, come si vede, non può essere liquidato istericamente secondo gli schemi di buoni/cattivi e destra/sinistra.

C’è un interrogativo serio e politico sullo sfondo: il tema della vita e della morte (specie di quelle altrui), una materia complessa che esula dalle aule di tribunale come dal personale arbitrio.

Vaticano. Paglia: «La sentenza Usa sull'aborto sfida il mondo a riaprire il dibattito». Redazione Internet su Avvenire.it venerdì 24 giugno 2022

La Pontificia Accademia per la Vita esorta a «sviluppare scelte politiche che promuovano condizioni di esistenza favorevoli alla vita senza cadere in posizioni ideologiche a priori» 

"Il fatto che un grande Paese con una lunga tradizione democratica abbia cambiato posizione su questo tema sfida anche il mondo intero". Lo sottolinea in una nota la Pontificia Accademia per la Vita presieduta da monsignor Vincenzo Paglia a proposito della sentenza della Suprema Corte Usa che ha annullato la sentenza del 1973 che legalizzò l'aborto.

"Di fronte alla società occidentale che sta perdendo la passione per la vita, questo atto è un forte invito a riflettere insieme sul tema serio e urgente della generatività umana e delle condizioni che la rendono possibile; scegliendo la vita, è in gioco la nostra responsabilità per il futuro dell'umanità" afferma Paglia.

"Il parere della Corte - osserva l'Accademia - mostra come la questione dell'aborto continui a suscitare un acceso dibattito. Il fatto che un grande Paese con una lunga tradizione democratica abbia cambiato posizione su questo tema sfida anche il mondo intero. Non è giusto che il problema venga accantonato senza un'adeguata considerazione complessiva".

"La protezione e la difesa della vita umana - prosegue - non è una questione che può rimanere confinata all'esercizio dei diritti individuali, ma è una questione di ampio significato sociale. Dopo 50 anni, è importante riaprire un dibattito non ideologico sul posto che la tutela della vita ha in una società civile per chiederci che tipo di convivenza e società vogliamo costruire".

"Si tratta di sviluppare scelte politiche che promuovano condizioni di esistenza favorevoli alla vita senza cadere in posizioni ideologiche a priori. Questo significa anche garantire un'adeguata educazione sessuale, garantire un'assistenza sanitaria accessibile a tutti e predisporre misure legislative a tutela della famiglia e della maternità, superando le disuguaglianze esistenti. Abbiamo bisogno di una solida assistenza alle madri, alle coppie e al nascituro che coinvolga l'intera comunità, favorendo la possibilità per le madri in difficoltà di portare avanti la gravidanza e di affidare il bambino a chi può garantire la crescita del bambino". 

Cara Bernardini De Pace, sull’aborto sceglie l’uomo anche in caso di stupro? 

La replica di Chiara all'articolo sulla Stampa di Annamaria Bernardini de Pace: l’unica a poter decidere è la donna. E le uniche alternative sarebbero il voto o l'obbligo. Chiara Lalli su Il Dubbio il 20 luglio 2022.

«Ho lottato per l’aborto, decida anche l’uomo» è il titolo di un commento di Annamaria Bernardini de Pace del 3 luglio sulla Stampa. Il solito titolo esagerato? No, è peggio, è il riassunto di alcuni errori comuni.

Parto dalla fine, dalla distrazione di riportare il 67% degli obiettori, verosimilmente il numero della penultima relazione ministeriale perché l’ultima dà un numero diverso (64,6 come media nazionale dei ginecologi). Poi per carità, non cambia molto nel difettoso ragionamento che precede, la disattenzione per i dati è preoccupante. Risalendo poi nella lettura verso il titolo ecco il condizionamento irriflesso dell’aborto come «sempre una decisione gravissima che sconvolge chiunque»: mi colpisce sempre il nominarsi portavoce di tutte, ignorando l’azzardo di ogni legge universale. No, non per tutte è una decisione gravissima e sconvolgente. No, non significa che «allora è un divertimento», perché questa è una falsa dicotomia. E lo sconvolgimento necessario e universale è una sciocchezza.

PUBBLICITÀ

E poi la domanda che ispira il titolo e che viene declinata in vari modi (decide anche l’uomo?) ma che è sempre abbastanza insensata se non condizionata alla volontà della donna, come peraltro stabilito dalla legge 194 (in una delle sue parti non paternalistiche). Sono poche parole e bastano a rispondere ai dubbi di Bernardini de Pace: «Ove la donna lo consenta» (articolo 5). E non può che essere così e non dovrebbe esserci bisogno di spiegare perché (chissà poi dove e come lo troviamo «il padre» se la donna non lo vuole coinvolgere). L’unica a poter decidere è la singola donna sulla propria gravidanza. E ricordiamo che le uniche alternative sarebbero mettere ai voti (gravidanza o aborto?, votate!) e imporre di portare avanti la gravidanza (oltre alla ripugnanza morale di questa possibilità, mi chiedo sempre come sarebbe possibile mettere in pratica questo obbligo).

Sebbene non mi piaccia l’abitudine (molto diffusa) di parlare di aborto volontario usando i casi estremi, vorrei chiedere a Bernardini de Pace se ha pensato di far decidere l’uomo anche in caso di violenza, di stupro o di abuso. E come fare in caso di conflitto: io voglio abortire, il padre dell’embrione (fa già ridere così) non vuole. Solo alla fine penso che una soluzione esiste e che ci avevano già pensato. Basta quindi recuperare il curatore del ventre e conferirgli anche tutti i poteri di un tutore e di un amministratore di sostegno, perché le donne non possono essere mica lasciate sole a decidere. Ovviamente è per il nostro bene.

E arriviamo alla premessa e al commento sulla decisione della Corte suprema riguardo a Roe vs Wade – che è una questione più generale e forse perfino più importante. Scrive Bernardini de Pace: «Si sono subito scatenati gli arrabbiati femministi di tutto il mondo, scandalizzandosi perché con questa decisione viene compresso il “diritto all’aborto”. Peraltro, raccontando che viene vietato l’aborto e che si torna indietro di 50 anni. Dimenticando che ciascuno dei 50 stati americani avrà una legge rispettosa del pensiero dei propri cittadini, pro o contro l’aborto. Ma un diritto all’aborto non c’è, non esiste. Non è possibile, infatti, parlare di un diritto laddove non vi sia un corrispondente dovere». A parte il disprezzo che sembra trapelare da «arrabbiati femministi», e a parte che questa è una questione che confinare nei femminismi (mi chiedo se “femministi” sia un refuso) è ingiusto e tipico del fronte più conservatore, vorrei sottolineare due cose.

La prima è che il diritto all’aborto rientra nel diritto all’autodeterminazione personale, che riguarda l’ambito sanitario e non solo (questo vale per la 194 e per Roe vs Wade). Per usare una espressione molto cara a Benjamin Constant, questo è lo spazio della cosiddetta libertà negativa, quello spazio in cui lo Stato non deve venirci a dire cosa fare (vale anche per l’articolo 29 della nostra Costituzione invocato a sproposito per dire no ai matrimoni ugualitari). Questo significa che lo Stato – ma pure tutti gli altri – hanno il dovere di rispettare questa libertà negativa. Ah, non si dovrebbe votare, perché nemmeno un plebiscito dovrebbe avere il potere di privarmi di alcuni diritti fondamentali. È vero che la Corte italiana ha ancorato l’interruzione volontaria della gravidanza alla salute, ma non è vero che non ci sia un dovere conseguente, che è quello di garantire l’accesso a un servizio medico sicuro (quando sono presenti determinati presupposti stabiliti dalla legge).

La seconda è che una volta stabilita una premessa poi non possiamo tenere solo quello che ci fa comodo e che volevamo dimostrare. Quindi se si usa l’assenza di un esplicito diritto all’aborto nella Costituzione per dire che è una specie di miraggio, allora lo stesso discorso vale per la obiezione di coscienza (aggiungiamo il diritto di voto per le donne, se vogliamo sembrare persone di mondo). Per fortuna le norme evolvono e non tutti interpretano in modo così letterale (e sbagliato) la Costituzione.

Controcorrente, “scelta clamorosa”. Cesara Buonamici sconvolta sull'aborto: delitto contro le donne. Il Tempo il 24 giugno 2022

Cesara Buonamici, giornalista e volto noto del Tg5, è tra gli ospiti presenti in studio nell’edizione del 24 giugno di Controcorrente, il talk show di Rete4 condotto da Veronica Gentili. Si discute della scelta dei giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti, che hanno stabilito che l’interruzione di gravidanza non è più da considerare un diritto costituzionale: “È - dice Buonamici - una decisione eccezionale e clamorosa. Ci sono state reazioni opposte tra Barack Obama e Donald Trump, che ha detto che è il volere di Dio. Come donna sono assolutamente contraria, trovo che sia un delitto non garantire questo diritto costituzionale alle donne americane. È una sentenza che non passa di certo inosservata, non solo negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo. È una decisione molto grave”. 

Controcorrente, “a favore dei deboli”. Mario Giordano si schiera contro l'aborto: “Viene tutelato il bambino”. Il Tempo il 24 giugno 2022

Fa discutere la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha deciso di revocare la sentenza del 1973 sul caso roe v. Wade, cancellando il diritto costituzionale di abortire. Il tema è discusso nell’edizione del 24 giugno di Controcorrente, il talk show di Rete4 condotto da Veronica Gentili, e c’è chi trova sensata la decisione dei giudici statunitensi. Mario Giordano, giornalista e conduttore di Fuori dal coro sulle reti Mediaset, spiega il proprio punto di vista: “Essendo cattolico sono convinto che la vita sia nel momento del concepimento. Non penso che sia un tornare indietro tutelare i più deboli e il più debole è il bambino, il nascituro nel momento in cui viene concepito. Una tutela nei confronti del nascituro non penso sia un arretramento sul piano dei diritti. Lo so che sono fuori dal coro, che ho detto una cosa stravagante e strana, ma è quello che penso”.

"Vietato l'aborto? No, è democrazia". E a Otto e mezzo scoppia la lite. Francesco Curridori il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

Scontro a Otto e mezzo tra Francesco Borgonovo e Lilli Gruber sulla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha negato il diritto all'aborto.  

Continua a dividere la sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti che ha negato il diritto all'aborto a livello federale. Stavolta, lo scontro non è tra due politici, ma tra due giornalisti: Francesco Borgonovo e Lilli Gruber.

Il vicedirettore de La Verità, ospite stasera a Otto e mezzo, su La7, non ha dubbi sul fatto che si tratti di una "decisione assolutamente democratica" e che"non c'entra nulla la morale e nulla la religione". Per Borgonovo è solo"una questione di democrazia" dato che la Corte Suprema americana non abolisce l'aborto, ma concede ai singoli Stati di decidere "attraverso il voto". Secondo il giornalista de La Verità "i diritti delle donne non sono in pericolo". E aggiunge: "E non c'entra nulla con l'Italia". Un discorso che ha mandato Lilli Gruber su tutte le furie che ha subito voluto puntualizzare: "Qui la democrazia non c'entra niente. C'entra, invece, con uno Stato democratico e civile garantire i diritti civili ai propri cittadini". Non si è fatta attendere la replica di Borgonovo: "Chi ha deciso che l'aborto è un diritto umano? Lo avete deciso voi adesso?".

A quel punto ecco che interviene Alessandro De Angelis, vicedirettore dell'HuffPost, che attacca il collega con una provocazione: "Perdonami, io capisco, sei anche vestito di nero e, quindi, queste teorie ben si calzano...". E poi si sfoga ulteriormente: "L'autodeterminazione di sé, del proprio corpo e l'amore che non ha sesso, sant'Iddio, si chiama libertà". E infine: "La democrazia liberale è questo, è l'opposto del comizio che ha fatto la Meloni in Andalusia. Quella è boia chi mollas....". Borgonovo, che si trova in collegamento e non in studio, cerca di far valere le sue ragioni, ma il volume del suo microfono viene silenziato al minimo per impedirgli di parlare. Solo, poco dopo, il giornalista de La Verità, può far valere brevissimamente le sue ragioni, ma la Gruber concede l'ultima parola a Beppe Severgnini del Corriere della Sera che, ovviamente, non esprime giudizi favorevoli alla sentenza della Corte Suprema americana.

Adinolfi: “Sentenza Corte Suprema USA su aborto importante, decideranno singoli Stati". I Tempo il 24 giugno 2022

(Agenzia Vista) Roma 24 giugno 2022 La decisione assunta dalla Corte Suprema americana è di grandissima importanza. Finalmente si riconosce il diritto alla vita e si stabilisce che non può esserci una decisione sull'aborto presa contro il volere del popolo. Quello che circola in queste ore è davvero qualcosa di stupido e falso. Non è stato cancellato il diritto di abortire negli Stati Uniti, ma semplicemente rimandato alle decisioni dei singoli Stati. Il caso è quello del Mississipi che voleva limitare l'aborto alla 15esima settimana”. Lo ha dichiarato il Presidente del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi. Fonte: Agenzia Vista / Alexander Jakhnagiev agenziavista.it

La decisione sull'aborto. I giudici della Corte Suprema Usa sono retrogradi e oscurantisti. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista l'1 Luglio 2022 

Dopo la decisione Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, che ha cancellato i precedenti favorevoli al diritto delle donne alla interruzione volontaria della gravidanza, non è facile anticipare l’impatto che essa potrà avere sulla vita politica americana, in particolare sui risultati delle elezioni dette di metà mandato che avranno luogo in novembre. Negli ultimi mesi i sondaggi sulle intenzioni di voto non sono favorevoli ai Democratici, che potrebbero perdere la maggioranza al Congresso, e l’approvazione del Presidente Biden è data al 41% dai sondaggi Gallup. Quello che è certo è che la decisione della Corte Suprema si inscrive in un clima di conflitto e di scontro politico e culturale presente da tempo nella società americana e che si è fortemente accentuato a partire dall’elezione di Trump nel 2017 e ancor più a partire dalla sua sconfitta elettorale.

Questa divisione che spacca la società di oltre Atlantico vede al tempo stesso la crescita degli estremismi e il discredito delle istituzioni. La stessa Corte Suprema, che partecipa in realtà dello stesso estremismo, ha una reputazione bassissima fra i cittadini americani e raggiunge appena il 25% di approvazione, un giudizio senza precedenti. La decisione Dobbs è peraltro il risultato di una lunga battaglia della destra americana contro la celebre sentenza Roe v. Wade del 1973 che aveva, in assenza di una legge federale, garantito alle donne il diritto di abortire. La svolta è avvenuta con la nomina di tre giudici conservatori scelti dal presidente Trump e approvati dal Senato, i quali, in aggiunta ad altri tre nominati da precedenti presidenti Repubblicani, controllano ormai la Corte Suprema. Se si tiene conto del fatto che i giudici della Corte sono, in base alla costituzione del 1787, nominati a vita e che si tratta, per tutti quelli scelti da Trump, di giudici cinquantenni, si capisce che esiste ormai un corpo di guardiani della costituzione che può interpretarla a lungo secondo canoni della destra radicale, nonostante la presidenza del giudice Roberts, che è considerato dai più come una figura più moderata (come testimonia anche la sua opinione separata che, come chi scrive, considera estrema la decisione della maggioranza).

Per capire come le opinioni evidentemente di parte della maggioranza della Corte Suprema possano venir presentate come difesa della costituzione, dobbiamo tener presente che la Corte nella sua maggioranza adotta una teoria dell’interpretazione che va sotto il nome di “originalismo”. Con questo termine si intende la sorprendente dottrina in base alla quale le leggi sottoposte al vaglio dei giudici supremi devono essere compatibili con il dettato letterale della Carta costituzionale. Da cui risulta senza grande sforzo interpretativo che, poiché nel 1787 i Padri fondatori dell’Unione Americana non avevano parlato e nemmeno fatto menzione in nessuno dei successivi emendamenti di interruzione volontaria della gravidanza, la Corte non può (come avevano invece preteso le decisioni precedenti a partire da Roe) statuire sul punto. Dopo di che, il giudice redattore dell’opinione di maggioranza Samuel Alito sostiene che è compito e facoltà degli Stati dell’Unione – legislature e corti dei medesimi – decidere sulla materia.

In realtà, potrebbe decidere il Congresso federale, ma questo non ha mai voluto farlo per le divisioni interne ai due partiti monopolisti del potere politico, che, non essendo del tutto omogenei sulla questione, temono di alienarsi un po’ di elettori quale che sia la decisione che dovessero prendere. In assenza di una legge federale e avendo cancellato un diritto riconosciuto a partire dal 1973 dalla Corte Suprema, la conseguenza della decisione presa ora, che rovescia e cancella quelle precedenti, è che il paese si troverà, come su molti altri temi, diviso fra gli Stati liberali che consentono l’aborto e quelli che lo restringeranno rapidamente ai minimi termini. In sostanza questo vuol dire che in buona parte degli Stati conservatori del sud e del centro in molti casi per abortire le donne saranno costrette a recarsi negli Stati liberali.

Ciò evidentemente divide i diritti delle donne americane fra quelle che li hanno e quelle che invece no. Da questo punto di vista, la sentenza è conservatrice nei suoi effetti nel senso più tradizionale del termine: i diritti non sono gli stessi per i ricchi e per i poveri. Non si può essere più classicamente conservatori di così. Sarebbe tuttavia interessate vedere cosa accadrebbe se qualche Stato più conservatore degli altri decidesse di punire in qualche modo il turismo forzato per ottenere un aborto. Si tratterebbe di un aggravio dei costi del viaggiare dentro gli Stati Uniti. Ma questo probabilmente non avverrà poiché i conservatori americani amano i ricchi più dei diritti eguali.

Quello che questa strana vicenda insegna è la crisi profonda della società e dalla vita politica americana, al di là delle stravaganze dell’interpretazione costituzionale oggi dominante nella Corte Suprema, molto distante da quelle praticate nelle Corti costituzionali di paesi come la Germania, la Francia e l’Italia. Uno studioso di indiscussa autorità, che è stato giudice della Corte costituzionale tedesca, Dieter Grimm, ha sostenuto più volte che in Germania non esiste alcun equivalente dell’originalismo americano, così come non esistono nomine a vita dei giudici costituzionali e nomine di estremisti nelle Corti supreme di giustizia. In Germania, esattamente come in Italia.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Alberto Simoni per “la Stampa” il 4 luglio 2022.

Lunedì scorso, tre giorni dopo la storica sentenza sull'aborto che ha archiviato la Roe contro Wade, la dottoressa Caitlin Bernard, ginecologa di Indianapolis, ha ricevuto una telefonata da un collega dell'Ohio che si occupa di abusi sessuali. Le ha raccontato una vicenda incredibile. E drammatica. Da pochi secondi una bambina di appena dieci anni aveva lasciato il suo studio medico, era stata violentata ed era incinta da sei settimane e tre giorni. Tre giorni oltre il limite, quelli in cui la legge dell'Ohio ritiene non si possa più interrompere una gravidanza.

Il Buckeye State consente l'aborto entro le prime sei settimane, ovvero quando inizia l'attività cardiaca del feto. Il trasferimento in Indiana era l'unica speranza. I legislatori di Indianapolis non hanno ancora approvato la legge statale che restringerà i tempi dell'aborto. La finestra si chiuderà il 25 luglio, ma fino ad allora non c'è il limite delle sei settimane di gestazione.

Secondo quanto ha riferito l'Indianapolis Star che per primo ha dato la notizia, la bambina è già arrivata in Indiana dalla dottoressa Bernard. Non si sa se sia già stata sottoposta al trattamento per interrompere la gravidanza.

Questo caso non è isolato. Mentre il divieto all'aborto è entrato in vigore negli Stati Uniti e tocca alle Assemblee statali legiferare, sono moltissime le donne che si sono rivolte a cliniche in altri Stati. Anche l'Indiana ha visto in questi primi sette giorni l'aumento degli arrivi di donne dagli Stati limitrofi. La dottoressa Katie McHugh ha parlato di un «anomalo incremento di richieste» da parte di persone incinte provenienti dal Kentucky e dall'Ohio. Nel 2021 il 5,5 per cento degli aborti in Indiana (sono stati circa 8400) sono stati praticati su persone che provenivano da altri Stati. La percentuale è destinata a crescere quest' anno anche se con il probabile ingresso in vigore della nuova legge il 25 luglio, gli aborti caleranno drasticamente. E dall'Indiana le donne saranno costretto a cercare aiuto in Illinois.

La sentenza della Corte suprema ha delegato agli Stati il compito di dotarsi di norme sull'aborto. Da qui la miriade di provvedimenti che rendono il sistema una vera e propria giungla. Il presidente Joe Biden vorrebbe che il Congresso facesse una legge sulle orme della Roe contro Wade in modo da codificare nelle norme federali il diritto all'interruzione di gravidanza. Ma non ha la maggioranza dei 60 voti necessari a superare l'ostruzionismo dei senatori repubblicani.

Sabato, intanto, in Texas la Corte suprema statale ha rimesso in vigore una legge del 1925 che vieta l'aborto e punisce con il carcere chi lo pratica ribaltando la sentenza di una corte minore. In direzione opposta sta andando invece lo Stato di New York, che ha approvato un emendamento per inserire l'aborto nella costituzione statale, che deve essere approvato dalla prossima legislatura e quindi sottoposto a referendum.

I giudici della Corte suprema sono sempre più nel mirino. Dopo le manifestazioni fuori dalle abitazioni in Maryland della giudice Amy Coney Barrett e l'arresto di un californiano armato vicino alla casa di Brett Kavanaugh, ieri il capo della Sicurezza della Corte ha chiesto ai governatori di Virginia e Maryland di aumentare la protezione attorno alle residenze dei giudici.

Biden ha citato una storia virale sull’aborto non verificata. Il Domani il 12 luglio 2022

Ha detto che una bambina di dieci anni, incinta dopo essere stata stuprata, ha dovuto cambiare stato per poter abortire. Nessuno però è riuscito a verificare la notizia che sembra fare acqua da molte parti

Venerdì scorso, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha citato una storia sull’aborto con un’unica fonte e che, fino ad ora, nessuno è riuscito a verificare. Biden ha parlato di una bambina di dieci anni, messa incinta dopo una violenza sessuale che, non potendo abortire in Ohio dopo la sentenza della Corte suprema, si sarebbe spostata nel vicino stato dell’Indiana per ricevere il trattamento. 

Biden ha raccontato l’episodio in un momento altamente simbolico: mentre si apprestava a firmare un ordine esecutivo che cerca di limitare gli effetti del divieto all’aborto già implementato da diversi stati repubblicani. Si tratta dell’azione più concreta intrapresa dal presidente sull'aborto fino a questo momento.

La storia era già diventata virale prima di essere ripresa da Biden, con migliaia di tweet e numerosi articoli sui giornali degli Stati Uniti e di altri paesi. La credibilità dell’episodio, però, è traballante.

La storia ha un’unica fonte: Caitlin Bernard, una dottoressa dell’Indiana e attivista a favore del diritto all’aborto. Bernard ha raccontato al giornale locale IndyStar di aver saputo del caso da un medico dell’Ohio che l’avrebbe contattata per aver informazioni su come comportarsi, poiché la legge introdotta nel suo stato dopo la decisione della Corte suprema vieta l’aborto anche in caso di stupro e incesto.

Dopo aver parlato con Bernard, il medico avrebbe consigliato alla famiglia della bambina di recarsi in Indiana per ottenere un’interruzione di gravidanza.

COSA NON TORNA

Dopo la ripresa della storia da parte di diversi media e soprattutto dopo che Biden ne ha parlato, numerosi giornalisti e factchecker hanno cercato di verificarla, ma dopo giorni di ricerca non sono emerse conferme, anzi.

Bernard ha rifiutato tutte le richieste di chiarimento e il giornale IndyStar, il primo a riferire la notizia, si è limitato a far sapere di aver svolto tutte le verifiche del caso e ha preferito non commentare ulteriormente la vicenda.

Il caso è divenuto sospetto anche perché i medici dell’Ohio sono tenuti a denunciare i casi di sospetta violenza sessuale nei quali si imbattono. Nello stato non esiste un registro centralizzato di questo tipo di denunce, quindi senza conoscere la giurisdizione dove è avvenuto il fatto è quasi impossibile verificare se una denuncia è stata sporta o meno. Il Washington Post ha contattato le autorità delle principali città dello stato e nessuna ha ricevuto una denuncia di questo tipo.

Altri dubbi sono stati sollevati da Dave Yost, il procuratore generale dello stato, un repubblicano che ha sostenuto parte degli sforzi di Donald Trump per invalidare l’elezione del suo successore. Yost ha detto che in un caso simile ci sarebbe stata una richiesta da parte delle autorità locali di un’esame medico per provare a individuare il Dna del violentatore. Il laboratorio che esegue queste analisi è alle dirette dipendenze del procuratore e Yost ha detto che nessun caso del genere è arrivato alla loro attenzione di recente.

UN CASO PLAUSIBILE?

Secondo Yost, inoltre, un caso del genere sarebbe del tutto impossibile, poiché il divieto di aborto dello stato non si applicherebbe in questo caso. Questa seconda questione è in realtà più complicata. La legge dell’Ohio prevede il divieto di aborto a partire da quando diventa udibile il battito del cuore del feto, il che può avvenire tra la quinta e la sesta settimana di gravidanza, quando molte donne non sanno ancora di essere incinta.

La legge non prevede eccezioni in caso di aborto o stupro, ma stabilisce che l’aborto è consentito per emergenze mediche, definite come un «grave rischio di un danno sostanziale e irreversibile ad una delle principali funzioni corporee della donna incinta». La legge esclude esplicitamente le conseguenze psicologiche della gravidanza tra le possibili eccezioni.

Ospite di una trasmissione del network di destra FoxNews, Yost ha detto che la legge dell’Ohio «ha una sezione sulle emergenze mediche più ampia della semplice tutela della vita della madre», ma non ha spiegato a quale eccezione potrebbe far ricorso una minorenne messe incinta dopo uno stupro se la sua gravidanza fosse non problematica per la sua salute dal punto di vista medico come definito dalla legge dello stato.

Gli effetti della sentenza della Corte Suprema negli USA. Incinta a 10 anni dopo uno stupro, costretta a lasciare l’Ohio per abortire: arrestato il suo aguzzino. Redazione su Il Riformista il 14 Luglio 2022. 

Altro che ‘fake news’ inventata di sana pianta per difendere la posizione pro-aborto dell’amministrazione democratica di Joe Biden, in contrapposizione alla sentenza della Corte Suprema che nelle scorse settimane ha demolito la Roe v Wade sul diritto all’interruzione di gravidanza in caso di incesto e stupro.

La notizia data per falsa di una bambina di 10 anni alla quale era stato negato il diritto all’aborto dopo esser stata vittima di stupro è stata infatti confermata dalla polizia dell’Ohio, Stato dal quale la bambina è stata costretta a uscire per poter procedere all’interruzione di gravidanza. 

Incinta di sei settimane e tre giorni, ha abortito il 30 giugno in uno stato del Midwest, in Indiana, dove l’aborto è ancora legale. Una vicenda che anche il presidente Joe Biden aveva citato  un suo recente discorso in occasione della firma di un ordine esecutivo per difendere l’accesso all’aborto.

Per l’orribile crimine è stato arrestato un uomo, il 27enne del Guatemala Gershon Fuentes, residente a Columbus. Il giovane è accusato di “stupro di un minore di età inferiore ai 13 anni”, violenza che sarebbe avvenuta il 12 maggio scorso. Dopo l’arresto Fuentes ha confessato di aver violentato la bambina almeno due volte.

Secondo quanto scrive l’Afp, parti dell’embrione della ragazzina sono stati sottoposti a test genetici per poter confermare o meno i legami con il sospetto in questione.

Da repubblica.it il 14 luglio 2022.

Un uomo di 27 anni è stato arrestato e incriminato per lo stupro della bambina di 10 anni alla quale è stato negato di interrompere la gravidanza in Ohio a seguito della legge entrata in vigore nello Stato dopo che la Corte Suprema ha annullato la sentenza che tutelava il diritto all'aborto. La bambina era stata costretta a trasferirsi nel vicino Indiana per poter interrompere la gravidanza. 

Dopo l'arresto Gershon Fuentes, residente a Columbus, ha confessato di aver violentato la bambina almeno due volte.

La vicenda della piccola a cui era stato negato l'aborto dopo la violenza sessuale ha attirato una grande attenzione negli Stati Uniti e lo stesso presidente Joe Biden l'ha citata in un suo recente discorso in occasione della firma di un ordine esecutivo per difendere l'accesso all'aborto. 

La notizia della gravidanza era stata data nelle ultime settimane per falsa, ma la polizia dell'Ohio ha confermato sia la violenza subita, sia la decisione della famiglia di uscire dallo Stato per abortire. 

Il caso della bambina era stato anche bollato come fake news da molti anti-abortisti. L'accusa era che sarebbe stata inventata "solo per difendere" la posizione dell'amministrazione Biden contro la Corte Suprema, che ha vietato l'aborto per qualsiasi caso, compreso l'incesto e lo stupro.

Usa, indagine sulla ginecologa che ha fatto abortire la bimba di 10 anni stuprata. Massimo Basile su La Repubblica il 15 Luglio 2022.

Il caso aveva destato scalpore dopo la decisione della Corte Suprema contro il diritto all'interruzione volontaria di gravidanza

Prima era stata definita una storia trash, poi una “fake news”: la bambina di 10 anni dell’Ohio rimasta incinta dopo uno stupro, e costretta ad andare nell’Indiana per abortire, esiste, anche se a nessuno sembra importare. Prima l’ha confermato la polizia dell’Ohio, poi è arrivata l’incriminazione per il presunto stupratore e, adesso, il procuratore generale dell’Indiana ha annunciato l’apertura di un’indagine sulla ginecologa che ha fatto abortire la bambina.

Simona Siri per “La Stampa” il 17 luglio 2022.

Si chiama Caitlin Bernard, è assistente professore presso la facoltà di Medicina dell'Università dell'Indiana ed è la ginecologa che ha praticato l'aborto alla bambina di dieci anni dell'Ohio rimasta incinta in seguito a uno stupro, un caso che dal primo luglio si è impossessato dell'attenzione dell'opinione pubblica sulla scia della decisione della Corte Suprema che ha reso l'aborto non più protetto a livello federale. 

In una situazione normale, il suo nome non dovrebbe fare notizia: il fatto che lo sia rende l'idea di quanto violenta sia diventata la discussione. Prima, c'è stato il tentativo da parte di alcuni media e del procuratore generale dell'Ohio - il repubblicano Dave Yost - di screditare il suo nome e la storia in generale.

Dal momento che Bernard era citata come l'unica fonte nel primo articolo che riportava la storia della ragazza, le è stato detto che mentiva, e che la storia era inventata o, come ha scritto la sezione opinioni del Wall Street Journal, «troppo perfetta per essere vera». 

Poi, quando le evidenze sono diventate fatti e lo stupratore della ragazzina è stato arrestato e ha confessato, gli attacchi sono continuati. Il procuratore generale dell'Indiana ha dichiarato mercoledì sera su Fox News di avere aperto un'indagine su di lei. Mentre lo diceva, la rete mandava in onda una sua fotografia, rendendola di fatto un target.

Non è la prima volta che un medico abortista riceve minacce e non sarà l'ultima. Negli Anni 80 e 90 fuori dalle cliniche americane venivano appese le foto dei medici e gli anti abortisti offrivano ricompense in denaro a chiunque fornisse informazioni che portassero alla condanna dei suddetti. 

Qualcuno pagò addirittura con la vita: il medico del Kansas George Tiller, uno dei pochi a praticare l'aborto tardivo negli Usa, fu ferito nel 1993 e poi ucciso nel 2009 sul sagrato di una chiesa. Non fu il solo: dal 1993 al 2015 ben 11 persone furono uccise in attacchi perpetrati da anti abortisti.

La stessa Bernard era già finita nel mirino degli anti abortisti: secondo il Guardian, il suo nome compare su un sito web estremista pro life collegato a Amy Coney Barrett prima che fosse nominata alla Corte Suprema. L'anno scorso, in un caso riguardante le restrizioni all'aborto in Indiana, Bernard ha testimoniato di essere stata costretta a smettere di fornire aborti nel primo trimestre in una clinica a South Bend perché, avvertita da Planned Parenthood che a sua volta era stata allertata dall'Fbi, c'erano state minacce di rapimento contro sua figlia.

Sempre secondo il Guardian a gennaio i nomi di sei fornitori di aborti, così come il loro background scolastico e gli indirizzi dei luoghi di lavoro, sono stati postati sul sito web di un gruppo estremista chiamato Right to Life Michiana, in una sezione intitolata «minaccia di aborto locale». 

Kendra Barkoff Lamy, portavoce di Bernard, ha dichiarato: «Le notizie riguardanti le minacce contro la famiglia della dottoressa nel 2020 sono purtroppo vere. Queste minacce personali e pericolose sono ovviamente devastanti per un medico che ha dedicato la carriera a migliorare la vita delle donne fornendo cure riproduttive cruciali, compresi gli aborti. Purtroppo, Bernard non è sola, succede a molti medici che come lei forniscono aborti».

Daniele Dell'Orco per “Libero quotidiano” il 5 luglio 2022.

Il Nancy Pelosi-gate continua a dividere la Chiesa cattolica. La speaker della Camera dei rappresentanti Usa lo scorso 29 giugno ha fatto la comunione durante la messa in parte presieduta da papa Francesco nella Basilica di San Pietro. E questo nonostante poche settimane prima l'arcivescovo Salvatore Cordileone di San Francisco, la diocesi natale della Pelosi, le avesse vietato di ricevere la comunione per il suo esplicito sostegno all'aborto. 

«Dopo numerosi tentativi di parlare con lei per aiutarla a capire il grave male che sta perpetrando, lo scandalo che sta causando e il pericolo per la propria anima che sta rischiando, ho stabilito che è giunto il punto in cui devo dichiarare che non è ammessa alla Santa Comunione a meno che e fino a quando non ripudi pubblicamente il suo sostegno ai "diritti" dell'aborto e confessi e riceva l'assoluzione perla sua collaborazione in questo male nel sacramento della penitenza», così aveva motivato duramente la sua scelta Cordileone.

Il diktat del vescovo californiano era stato aggirato dalla Pelosi durante il soggiorno Roma per una vacanza in famiglia (anche se i ben informati sostengono non si trattasse affatto di villeggiatura ma della concreta possibilità che possa diventare il prossimo ambasciatore americano in Italia), quando aveva partecipato alla liturgia per la festa dei Santi Pietro e Paolo nella Basilica vaticana e avrebbe ricevuto l'ostia. 

Non dal Papa in persona che, per il dolore al ginocchio, ha presieduto solo la prima parte della messa e la liturgia della parola, lasciando poi la guida della liturgia eucaristica al cardinale decano Giovanni Maria Re. Il sacramento eucaristico è stato celebrato da un altro sacerdote di cui non si conosce la nazionalità e non è nemmeno chiaro se sapesse chi aveva di fronte. 

Ma dalle parole di Papa Francesco, riportate in una intervista alla Reuters, il Pontefice ha in un certo senso comunque «rivendicato» il gesto, difendendo la possibilità di dare la comunione a quei politici che hanno posizioni pro-choice (come pure lo stesso presidente Usa Joe Biden) e sostengono progetti di legge abortisti.

In America la questione è tutt' altro che chiara, e ha spaccato in due l'episcopato: da una parte coloro che fanno valere il magistero e si rifiutano di dare la comunione ai politici abortisti e dall'altra chi, invece, fa prevalere il dialogo e la misericordia. Papa Francesco ha in qualche modo dettato la linea in un passaggio in cui dice che «quando la Chiesa perde la sua natura pastorale, quando un vescovo perde la sua natura pastorale, questo causa un problema politico. Questo è tutto ciò che posso dire».

Allo stesso tempo però, mentre non si placano le proteste e i tentativi di correre ai ripari negli Stati Uniti dopo la sentenza della Corte Suprema, il Papa, interrogato sulla sentenza della che ha ribaltato la storica sentenza Roe v. Wade, che nel 1973 stabilì il diritto di una donna a interrompere la gravidanza, ha affermato di rispettare la decisione ma di non poter dire, da un punto di vista giuridico, se (la Corte) abbia fatto "bene o male". Il Pontefice, però, nell'intervista ha ribadito la sua visione antiabortista, paragonando l'interruzione di gravidanza all'assunzione di un sicario. 

La Chiesa cattolica insegna che la vita inizia al momento del concepimento, ha detto in sostanza, affidandosi infine alla domanda retorica: «Chiedo: è legittimo, è giusto eliminare una vita umana per risolvere un problema?».

Le star della musica promettono mobilitazioni massicce in difesa del diritto all’aborto. Gino Castaldo su L'Espresso il 4 luglio 2022.  

Un numero senza pari di big statunitensi si sono espressi contro la sentenza della Corte Suprema, giurando battaglia. E il fenomeno non può essere sottovalutato.

Ci voleva una sentenza allucinante come quella della Corte Suprema americana che ha annullato il diritto costituzionale all’aborto, per scatenare l’ira dell’intero mondo della musica. Eddie Vedder dei Pearl Jam ha urlato a Imola che in America i diritti delle donne non sono garantiti, Pink ha postato sui suoi social una proposta forte e condivisibile: «Se apprezzate la sentenza antiabortista allora non ascoltate più la mia musica», come dire se la pensate in quel modo non voglio neanche immaginare che le mie canzoni siano da voi amate e ascoltate.

Al festival di Glastonbury, ormai la tribuna rock per eccellenza, è stato un coro continuo: Billy Joe Armstrong dei Greenday ha detto che rinuncerà alla cittadinanza americana, e in questo periodo è anche questo un pensiero condivisibile; Olivia Rodrigo ha tuonato contro i giudici e poi insieme a Lily Allen hanno cantato “Fuck you”, Billie Eilish ha detto che è una giornata nera per le donne in America. Quel gran genio di Kendrick Lamar ha terminato il suo concerto con in testa una corona di spine e il sangue che colava sulla sua camicia bianca urlando a ripetizione: «Godspeed for women’s rights; they judge you, they judge Christ!». E poi ancora Taylor Swift, Bon Iver che ha postato un laconico ma significativo «I cant stop cryng», e poi ancora Harry Styles, Cher, Cat Power, Alicia Keys, John Legend, uomini e donne di ogni stile e generazione.

Perfino Mariah Carey ha tuonato: «It is truly unfathomable and disheartening to have to try to explain to my 11 year old daughter why we live in a world where women’s rights are disintegrating in front of our eyes».

È vero, come si fa a spiegare a una figlia di 11 anni perché viviamo in un mondo in cui i diritti delle donne si stanno disintegrando davanti ai nostri occhi? Il problema come sempre è l’America, il Paese delle massime contraddizioni, il rigoglioso luna park della cultura moderna e poi la nazione della pena di morte, delle armi libere, di Trump.

«Viviamo in un’America che non riconosco», scrive Jennifer Lopez e Madonna lo spiega ancora meglio: «Mi sono svegliata con una notizia terrificante, il ribaltamento di Roe v. Wade», in riferimento a una sentenza storica del 1973 che affermò il diritto di una donna alla scelta dell’aborto. E continua: «Ora la Corte Suprema ha deciso che i diritti delle donne non sono più diritti costituzionali. Di fatto abbiamo meno diritti di una pistola». La scesa in campo è potente e massiccia. I messaggi non si limitano a deplorare l’accaduto. Molti annunciano battaglia, e allora ne vedremo delle belle. Non capita spesso che la musica si mobiliti in massa, ma quando succede l’effetto è garantito. 

«Cari smemorati, l’attacco ai diritti delle donne va avanti da anni. E noi resisteremo». Loredana Lipperini su L'Espresso il 4 luglio 2022.

Prontuario per chi è rimasto stupito dalla decisione della Corte Suprema Usa. E per ricordare che anche in Italia, il tentativo di rimettere in discussione il diritto all’autodeterminazione torna ciclicamente.

È sacrosanto evocare Margaret Atwood e “Il racconto dell’ancella” per sfogare costernazione e rabbia dopo la decisione della Corte suprema degli Stati Uniti sull’aborto. Peccato, però, che quel romanzo sia stato scritto nel 1985, e, certo, reso famoso dalla serie televisiva che ne è stata tratta nel 2017 sotto la presidenza Trump. Dunque, occorre avere memoria, e avere ben chiaro che negli Stati Uniti l’attacco ai diritti delle donne (e non solo) è cominciato esattamente in quel tempo, con la presidenza di Ronald Reagan, che proprio nel 1985 bloccò i finanziamenti del governo federale alle organizzazioni non governative internazionali che praticano l’interruzione di gravidanza all’estero o informano sulla medesima. La norma, detta Mexico City Policy, venne eliminata da Bill Clinton nel 1993, reintrodotta da George W. Bush nel 2001, eliminata ancora da Barack Obama nel 2009 e infine nuovamente introdotta da Donald Trump in uno dei suoi primi ordini esecutivi.

L’altalena di provvedimenti dovrebbe dimostrare che c’è da decenni una larghissima parte di politici ed elettori che si rifiuta di ammettere la libera scelta delle donne. E che spesso passa alle vie di fatto: negli anni Novanta i no-choice bloccavano fisicamente l’accesso alle cliniche, cari smemorati: in soli sei mesi, nel 1993, due medici abortisti sono stati uccisi, e un terzo, che indossava il giubbotto antiproiettile, venne colpito alle braccia «per impedirgli di continuare nella sua opera di morte». Il parroco di Mobile, Alabama, dirà nella sua predica: «Se si devono ammazzare 100 medici per salvare un milione di bambini, benissimo, il prezzo non è troppo alto».

Erano gli anni di Bill Clinton, che venivano dopo il lungo governo di Reagan prima e di Bush senior poi. Quegli spari venivano dalla paura: paura di una vera legge sull’aborto, paura che il mondo sarebbe andato diversamente. Paura, teniamolo a mente. Stephen King ne parlò in almeno un romanzo, “Insomnia”, dove i no-choice assaltano un centro femminista, uccidendo la gran parte delle organizzatrici e delle ospiti.

Il problema è che tutto questo non riguarda solo gli Stati Uniti, come moltissime donne si sono sgolate a ripetere prima della sentenza, ma un grandissimo numero di Paesi, anche europei. E riguarda noi. Sì, è vero, la legge 194 è ancora in piedi. Formalmente. L’indagine Mai Dati! condotta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, e pubblicata dall’Associazione Luca Coscioni, ci dice che in 11 regioni italiane c’è almeno un ospedale con il 100 per cento di obiettori. 31 in tutto, per essere precisi, e ce ne sono 50 con percentuale superiore al 90 per cento e oltre 80 con tasso di obiezione superiore all’80 per cento. Le cose sono peggiorate durante e dopo il Covid-19. E in molti casi, i dati, appunto, non sono pervenuti. Per non parlare delle regioni, come Umbria e Marche, che di fatto impediscono il ricorso all’aborto farmacologico.

Un piccolo sforzo di memoria, dunque, è necessario per chi si stupisce dei numeri, e per quanto è avvenuto negli Stati Uniti, e a Malta, dove una turista americana ha rischiato la morte perché anche in caso di perdita di liquido amniotico, se il cuore del feto batte, non si può intervenire, e per chi è rimasto stupefatto per lo Strajk Kobiet, lo sciopero delle donne polacche del 2020 e 2021 contro la sentenza della Corte Costituzionale che ha reso illegali quasi tutti i casi di aborto.

Passo indietro. 1988. È Giuliano Amato a intraprendere quel «parliamone» che diventerà frequentissimo. Durante un dibattito sulla legge 194 organizzato al club Turati di Milano, Amato critica la sentenza della Corte Costituzionale che consente alla donna di abortire anche senza il consenso del coniuge. In realtà, contesta tutta la legge, sostenendo che la donna dovrebbe decidere da sola solo se la gravidanza mette in pericolo la sua salute. In parole ancor più povere, Amato non accetta l’idea stessa di autodeterminazione. 

1992. Amato è presidente del Consiglio. Viene intervistato dall’emittente cattolica Telepace. Sostiene che la vita «è un valore enorme. Se mettiamo in discussione questo, se non limitiamo a casi essenzialissimi le ipotesi in cui un essere umano può mettere in discussione la vita di un altro essere umano, allora viene meno proprio il fondamento della convivenza prima ancora che il fondamento della solidarietà».

Dunque, la vita va protetta «una volta che si è formata». In quello stesso anno, in commissione Giustizia viene approvato un emendamento di Carlo Casini (leader del Movimento per la vita) che estende la «protezione dell’ infanzia alla fase prenatale». Salto di secolo e di millennio. Negli anni Zero inizia la battaglia di Giuliano Ferrara, culminata nella presentazione della lista elettorale “Aborto? No grazie”, e peraltro mai terminata. In mezzo, tanti episodi che forniscono il clima.

Nel settembre 2011 a San Giovanni in Fiore (Cosenza) il parroco Don Emilio Salatino decide di suonare le campane a morto ogni volta che in città viene praticato un aborto. Due mesi prima, il presidente della Regione Piemonte Cota aveva proposto un protocollo, bocciato dal Tar e riproposto sotto altra forma «per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza». Il miglioramento prevedeva l’inserimento nei consultori di associazioni no-choice. Sempre all’inizio degli anni Dieci, le ginecologhe di alcuni consultori torinesi si rifiutano di affiggere un manifesto del Centro aiuto alla vita, con un feto e la scritta: «Mamma, ti voglio bene». Stesso mese, stessa città. Tre volontari dell’Associazione Ora et Labora in Difesa della Vita si muniscono di una croce che al posto dei chiodi ha feti di plastica e diffondono volantini dove il feto parla in prima persona alla madre che lo uccide. Fermano le donne, tutte le donne. Sfileranno a Roma, in un giorno di maggio 2012 (lo stesso della festa della mamma), con quelle stesse croci, ricordando alle donne che abortiscono, le assassine, che le loro anime bruceranno all’inferno.

E dunque, care e cari smemorati, il problema c’è sempre stato. Per paura. Forse per il timore occidentale della crescita zero. Di certo per la mancata accettazione di quanto le donne siano cambiate, siano determinate e più forti di prima. Paura, certo: non è per questo che si uccidono le mogli e le fidanzate che abbandonano? Quando lo si sottolinea, scatta lo scherno verso le femministe con le ascelle pelose, in tutti gli ambienti. Anche letterari, sì, certo.

Infine, un altro appello alla memoria. Quelle famose femministe non si sono mai distratte, in Italia e altrove. Ci sono sempre state anche se non sono sempre state narrate. Dal 1971 hanno rivendicato il diritto di scegliere se essere madri o non esserlo. Femministe di prima, seconda, terza, quarta ondata, settantenni e ventenni, con pratiche che si aggiornano e resistono, anche se nessuno se ne accorge (tranne le donne, evidentemente). Se si vuole citare Atwood, è bene ricordare che la scrittrice ha sempre sostenuto di non aver mai scritto nulla che non sia già accaduto. E che è pronto ad accadere ancora.

Medici obiettori di coscienza: quando tutelare il nascituro tutela anche il profitto. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.  

La foto parla da sola: «Tieni le tue leggi lontano dal mio corpo» porta scritto sulla propria pelle una donna che protestava in piazza a Los Angeles contro la recente sentenza della Corte suprema Usa che ha cancellato il diritto costituzionale all’aborto. 

In questa immagine la protesta di una donna, SophiaMeneakis, a Los Angeles, in California, il 26 giugno scorso: la Corte suprema statunitense ha appena sancito la cancellazione del diritto costituzionale ad interrompere volontariamente la gravidanza (foto Jason Armond/Los Angeles Times/Getty)

Questa rubrica di Roberto Saviano è stata pubblicata su 7 in edicola l’8 luglio. E’ dedicata alla fotografia. Meglio, ad una foto «da condividere con voi — spiega l’autore — che possa raccontare una storia attraverso uno scatto». Perché «la fotografia è testimonianza e indica il compito di dare e di essere prova. Una prova quando la incontri devi proteggerla, mostrarla, testimoniarla. Devi diventare tu stesso prova»

Dice che in Molise ci sono solo due medici abortisti e che le cose vanno male, ma io ricordo che fino a pochi anni fa non ce n’era nemmeno uno. Fino a pochissimo tempo fa in Molise tutte le strutture pubbliche praticavano l’obiezione di coscienza al 100% e quindi, chi avesse voluto abortire, avrebbe dovuto spostarsi altrove. E altrove le cose non andavano e non vanno molto meglio. Ciò che è accaduto negli Usa ha acceso i riflettori su un dramma eterno - l’accesso all’aborto - che solo formalmente ha trovato una soluzione in Italia con la 194 del 1978 e in Usa con la sentenza Roe contro Wade del 1973. L’argomento è interessantissimo e ricco di sfumature, lo si può affrontare attraverso molte lenti, ma quella che preferisco è seguire il profitto: cui prodest? Chi trae profitto dall’aborto negato nelle strutture pubbliche?

IN ITALIA SOLO IL 30% DEI GINECOLOGI PRATICA ABORTI IN STRUTTURE PUBBLICHE. LA SOLUZIONE? IL PRIVATO, DOVE PAGHI PER UN DIRITTO

In Italia solo il 30% dei ginecologi pratica l’aborto nelle strutture pubbliche, ci sono intere aziende ospedaliere in cui tutto il personale ha scelto di obiettare. In queste realtà territoriali, molto più diffuse di quanto si pensi e presenti in ogni angolo del Paese, la soluzione è il privato. Pagare per un diritto che è costituzionalmente garantito. La stessa cosa avveniva - e avverrà in maniera ancor più drammatica - negli Usa dove, se è vero che la sentenza Roe contro Wade garantiva l’accesso all’aborto facendo ricorso al Quattordicesimo Emendamento (diritto alla privacy inteso come diritto di libera scelta, diritto di autodeterminazione), anche lì abortire senza dover pagare era ed è un’impresa ardua. E allora, provando a non apparire complottista, mi domando se la tutela della vita del nascituro non sia piuttosto tutela del profitto.

Mi domando se tutte le persone che, a vario titolo, si impegnano perché un diritto come l’aborto sia considerato un privilegio, un capriccio immorale della donna, o peggio, un metodo di contraccezione, stiano pensando a tutelare i diritti di un essere umano non ancora nato o i profitti di qualche essere umano già nato. Il progressivo smantellamento della sanità pubblica a vantaggio della privata mi farebbe pensare di non essere poi così lontano dal vero. Quindi, se da un lato sentirsi fare la morale o addirittura leggere di esternazioni di esultanza per un diritto negato è davvero inaccettabile, dall’altro dovremmo interrogarci, a prescindere dalle biografie di questo o quel giudice, su quale sia il fine ultimo delle Corti costituzionali; fine non dichiarato, ma sempre perseguito. Su argomenti «divisivi» - come piace a certo giornalismo e a certa politica definire le questioni cruciali che determinano la quotidianità di noi umani - l’orientamento è sempre di base conservatore, tende sempre a cristallizzare lo status quo.

UNA MINORENNE INCINTA, PER IGNORANZA O PER ERRORE, HA LA VITA ROVINATA E NESSUNO NE TUTELERÀ I DIRITTI

Negli Usa, mi si dirà, il diritto c’era, a che pro stabilire che non fosse costituzionalmente garantito e affidarne la gestione ai singoli Stati? Solo formalmente il diritto era garantito; nella prassi gli ostacoli erano tanti e tali da essere già di fatto, il diritto all’aborto, un diritto negato. A questo si aggiunga l’orientamento politico dei giudici della Corte suprema e di alcuni Stati federali e si capisce bene come questa scioccante decisione fosse di fatto nell’aria da tempo e affondi le sue radici nella diserzione delle urne. Possiamo sentirci al sicuro in Italia? No. E non avremmo dovuto sentirci al sicuro nemmeno prima della sentenza Usa. In Italia abortire è relativamente facile per chi ha mezzi propri, quasi impossibile per fasce sociali ed economiche meno tutelate. Ma le fasce più deboli di norma non hanno voce né rappresentanti politici a garantirne i diritti acquisiti. Quindi si dirà sempre che abortire si può, basta volerlo.

Raccontate questa favola a una minorenne di provincia che, per ingenuità, ignoranza o errore è rimasta incinta; raccontatelo a lei che se lo vengono a sapere a casa la sua vita è rovinata! Per lei non è questione divisiva, ma vitale. La direzione dell’Italia è evidente da quando la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili i tre quesiti referendari che avrebbero stimolato dibattito sul referendum spingendo verso il quorum e dato un impulso importante su diritti conquistati (eutanasia), contrasto alla criminalità organizzata (legalizzazione della cannabis) e responsabilità degli organi giudicanti. La foto che ho scelto parla da sola: tieni le tue leggi lontane dal mio corpo.

"La sentenza della Corte Suprema è politica". Aborto, Biden firma ordine su interruzione gravidanza: “Donne votate per fermare estremisti repubblicani”. Redazione su Il Riformista l'8 Luglio 2022 

A due settimane dalla decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di cancellare il diritto all’aborto, arriva la prima mossa del presidente Joe Biden. che ha firmato un ordine esecutivo a difesa del diritto all’accesso all’interruzione di gravidanza per le donne americane. La “terribile, estrema e completamente sbagliata” decisione della Corte Suprema sull’Aborto “non è stata una guidata dalla Costituzione”, ma è stato un “esercizio di potere politico” spiega l’inquilino della Casa Bianca in riferimento ai giudici nominati dal suo predecessore Donald Trump.

L’ordine esecutivo di oggi garantisce a tutte le donne che vogliono abortire la libertà di movimento da uno Stato all’altro. Per Biden il modo per ristabilire il diritto all’Aborto su tutto il territorio nazionale, cancellato dalla decisione della Corte Suprema, è “votare“, esprimendo “la speranza” che a novembre le “donne voteranno in massa per riprendersi i diritti”. Il presidente americano ha infatti ricordato che “la via più veloce” per difendere il diritto all’aborto è approvare al Congresso “una legge che codifichi” quanto era stabilito dalla sentenza Roe vs Wade, cioè che il diritto all’aborto è tutelato dal diritto alla privacy sancito dalla Costituzione. E per farlo bisogna che vengano eletti a novembre più rappresentanti pro choice, in particolare al Senato.

Corte che “ha praticamente sfidato le donne americane ad andare alle urne” per ristabilire il diritto che “è stato tolto loro”. Biden ha sottolineato ancora una volta l’importanza del voto di midterm di novembre, per ottenere al Congresso la maggioranza necessaria a fare approvare una legge federale in tema di Aborto. Il presidente ha quindi rilevato che nelle liste elettorali la percentuale di donne registrate è “più alta” rispetto a quella degli uomini. “Questa è la strada più rapida“, ha detto il presidente in riferimento al voto, aggiungendo che gli “estremisti repubblicani”, dopo avere ottenuto la loro vittoria politica con la decisione della Corte Suprema, ora “vogliono spingersi oltre”, attaccando altri diritti.

Con l’ordine esecutivo firmato oggi, Biden ha formalizzato una serie di istruzioni per i dipartimenti di Giustizia e Salute per consentire alle donne di accedere con più facilità a farmaci abortivi approvati dal governo federale o di viaggiare attraverso i confini statali per accedere ai servizi di Aborto nelle cliniche specializzate. L’ordine esecutivo riguarda anche la privacy e la diffusione dei dati delle pazienti.

Nelle misure della Casa Bianca, anche la richiesta alla Federal Trade Commission di soluzioni per proteggere la privacy di coloro che cercano informazioni sull’assistenza riproduttiva online e l’istituzione di una task force inter-agenzia per coordinare gli sforzi federali per salvaguardare l’accesso all’Aborto. La Casa Bianca ha affermato che convocherà anche degli avvocati volontari per fornire alle donne e agli operatori del settore assistenza legale pro bono per aiutarli a superare le nuove restrizioni statali dopo la sentenza della Corte Suprema.

La sentenza. Non vogliono l’aborto e sono fan della pena di morte, chi sono i giudici della Corte Suprema. Elisabetta Zamparutti su Il Riformista il 15 Luglio 2022. 

Vita! Ineffabile mistero legato al respiro, dal primo vagito all’ultimo sospiro. E quanti i guardiani di questo fluire, dentro e fuori i polmoni, dell’aria, a volte ferma a volte burrascosa. Tra questi i giudici della Corte Suprema americana che hanno deciso in sei contro tre di mettere fine alle garanzie costituzionali per l’aborto. Lo hanno fatto dopo mezzo secolo dalla loro introduzione. “Ha vinto la vita!” ha commentato qualcuno. Per Donald Trump siamo addirittura all’espressione della “volontà di Dio”. Strumenti della manifestazione di questa “volontà divina” sono certamente i tre giudici che lui stesso ha designato: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett i quali hanno costituito la super maggioranza conservatrice della Corte Suprema, unendosi all’afroamericano Clarence Thomas scelto da Bush padre e a John Roberts e Samuel Alito voluti da Bush figlio. Conservare, cum-servare, tenere con sé.

Sono d’accordissimo. La vita stessa è mantenimento di un equilibrato insieme di elementi diversi quali parti di un tutto. Ordine armonico e per questo vitale in un disordine altrimenti distruttivo. Marco Pannella, sull’aborto, diceva che ciò che bisogna assicurare è il diritto a procreare con amore, con consapevolezza, anziché il riprodursi come bestie. Questo attiene alla vita, in una dimensione nonviolenta e civile. Mentre, invece, trovo una matrice violenta, primordiale, disordinata, in fin dei conti mortifera nell’imposizione della vita a tutti i costi come inteso dai guardiani americani della Corte Suprema. Non è un caso che i tre giudici di nomina trumpiana si siano distinti per un morboso attaccamento da un lato alla vita di un feto e contemporaneamente alla pena di morte. Ricordo ancora la motivazione scritta dal giudice Gorsuch nel rigetto del ricorso di un condannato a morte del Missouri, Russell Bucklew, che spiegava come fosse affetto da una malattia rara che gli avrebbe causato atroci dolori se giustiziato con l’iniezione letale e che pertanto chiedeva un metodo alternativo.

Si era appellato all’ottavo emendamento che vieta trattamenti crudeli e inusuali. Per Gorsuch “l’ottavo emendamento vieta metodi ‘crudeli e inusuali’ ma non garantisce una morte indolore”. Non so cosa possa esserci di più cinico e violento. D’altro canto lo stesso Trump ha danzato con la morte per consegnare la sua presidenza alla storia. Nel 2020, fece giustiziare dieci persone – un numero maggiore rispetto a quello delle esecuzioni nei cinquanta Stati dell’intero continente – ripristinando le esecuzioni federali sospese dal 2003. Trump ha inteso passare alla storia con il bottino del maggior numero di esecuzioni federali dal 1896 e uscire di scena con la messa a morte, senza alcuna pietà, di una persona torturata e abusata per una vita: Lisa Montgomery, la prima donna giustiziata in settant’anni negli USA. Ecco, un pensiero conservatore servirebbe per manifestare, anche politicamente, il senso di una vita concepita con amore e capace di contenere – di tenere con sé – anche chi nella sua vita ha conosciuto tempeste, scommettendo sull’inesorabile schiarita. Contenimento e conservazione possibile se fondata sulla fiducia, oserei dire sull’amore, per la persona umana: la donna che decide di abortire o il condannato che decide di cambiare. Elisabetta Zamparutti 

Dopo soli quattro anni la forca tornò legale. Quando gli Stati Uniti abolirono la pena capitale, ma solo per pochi anni…Valerio Fioravanti su Il Riformista l'8 Luglio 2022 

Il 29 giugno 1972 la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la pena di morte. Nel 50° anniversario della famosa sentenza Furman v. Georgia ne hanno scritto in tanti. A noi italiani francamente interessa poco, e non siamo nemmeno molto sicuri che le sentenze di costituzionalità servano a qualcosa, perché in Italia in effetti restano ferme sui libri, e sortiscono scarsi effetti. Però possiamo approfittarne per fare un riassunto della comunque interessante situazione della pena di morte nel Paese “più potente del mondo”.

La fede assoluta che alcuni settori degli Stati Uniti hanno nel concetto di “punizione durissima” deve interessarci, non è opportuno che rimanga relegata ai buoni sentimenti di chi lavora nelle ONG, perché non c’è una grande differenza tra i principi istitutivi secondo cui molti statunitensi vogliono punire i propri cittadini “sbagliati”, e il desiderio di punire anche il resto del mondo quando “sbaglia” anch’esso. La sentenza del ’72 riconosceva che la vaghezza delle leggi accordava alle giurie popolari poteri discrezionali troppo ampi, che sconfinavano nell’arbitrio. A quell’epoca, infatti, come un retaggio dei “linciaggi” del passato, in molti Stati si poteva emettere una condanna a morte anche solo per rapimento o per stupro. Ovviamente in quegli anni l’elemento razziale era particolarmente rilevante, e per “stupro” si intendeva spesso un uomo nero che faceva sesso con una donna bianca. Molte giurie consideravano questa cosa “stupro” a prescindere anche dalla consensualità.

La Corte Suprema dal 1965 in poi aveva già emesso una serie di sentenze parziali, ma nel 1972 mise ordine alle proprie deliberazioni e ne emise una complessiva, e dichiarò incostituzionali le leggi di 40 Stati e del governo federale, e ridusse automaticamente all’ergastolo le 629 condanne a morte allora esistenti. Fu una sentenza elaborata, emessa con la maggioranza minima: 5-4. Due dei componenti, Brennan e Marshall (il primo nero nominato alla Corte Suprema) sostenevano che era la pena di morte di per sé a essere incostituzionale, altri tre sostennero che era il modo in cui veniva amministrata a non essere corretto, e gli altri quattro, i “contrari”, ammisero che c’erano degli elementi di “arbitrarietà”, ma in una misura accettabile, in quanto ogni procedimento giudiziario è in qualche misura “arbitrario”. Gli ottimisti scrissero che gli Stati Uniti avevano abolito la pena di morte. I pragmatici invece si misero al lavoro, e dopo soli quattro anni, modificate le varie leggi, ottennero, nel luglio 1976, un’altra sentenza “storica”, Gregg v. Georgia, votata 7-2: si poteva ricominciare a emettere condanne a morte.

Il combinato disposto tra le sentenze parziali e “Furman” aveva bloccato tutte le esecuzioni negli Stati Uniti dal 1967 al 1977. La prima persona giustiziata nel “nuovo corso” fu Gary Gilmore, che volle creare un certo scandalo e affrettò la procedura, e si presentò volontariamente alla fucilazione, in Utah, lo Stato mormone, il 17 gennaio 1977. La storia di Gilmore venne raccontata in un romanzo da Norman Mailer, che con Il canto del boia vinse il Premio Pulitzer. A parte Gilmore, le uccisioni ripartirono molto lentamente, e nei primi sei anni furono giustiziate solo 7 persone. Poi la macchina infernale terminò il rodaggio, e nel 1984 si arrivò a 21 esecuzioni, che diventarono 98 nel 1999, il record nell’epoca post-Furman, e da lì iniziò un calo costante: 60 nel 2005, 39 nel 2013, 25 nel 2018 e 17 nel 2020, 10 delle quali fortemente volute da Trump in campagna elettorale. Nel 2021 le esecuzioni sono state 11 e nei primi 6 mesi di quest’anno 7.

Nel frattempo 23 Stati hanno abolito la pena di morte, comprese le due “capitali”, Washington e New York. Dal 1977 a oggi sono state emesse complessivamente 9.763 condanne a morte ed effettuate 1.547 esecuzioni. Già solo questo fatto, che in media solo una condanna su sei arrivi davvero all’esecuzione, conferma che molto è affidato al caso: a parità di reato farà la differenza la geografia, la razza, il censo, l’ignoranza, la malattia mentale, il quoziente intellettivo. Come sappiamo tutti, oltre l’80% delle esecuzioni sono negli Stati del Sud, e il Texas da solo ne ha il 37%. Questi Stati hanno una vera a propria “cultura” della durezza giudiziaria. Considerato però che a fronte di tanta severità sono e rimangono la parte degli Stati Uniti con il più alto tasso di omicidi, forse il termine più appropriato sarebbe “fede ferrea”. Quando si insiste a fare qualcosa anche se non funziona, evidentemente è “fede”. Malriposta, ma fede. Valerio Fioravanti

La Corte Suprema il 24 giugno scorso ha annullato la sentenza Roe contro Wade. Aborto, Biden alle donne: “Continuate a protestare, è di cruciale importanza”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Luglio 2022. 

“Continuate a protestare. Continuate a tenere il punto. È di cruciale importanza”. È quanto ha detto il presidente Usa, Joe Biden, rivolgendosi alle manifestanti che protestano per il diritto all’Aborto a seguito della sentenza della Corte suprema del mese scorso. Biden ha parlato con i giornalisti durante una sosta nel corso di un giro in bicicletta vicino alla sua casa di famiglia sulla spiaggia in Delaware.

Poche ore prima più di diecimila persone si sono radunate a Washington per manifestare a favore dell’Aborto. Al grido di “non torneremo indietro” i manifestanti si sono diretti verso la Casa Bianca e hanno chiesto di contrastare la decisione della Corte Suprema, che ha revocato il diritto all’Aborto, stabilito quasi cinquant’anni fa. Alcune persone, sotto gli sguardi della polizia, si sono legate alle cancellate che si trovano attorno alla residenza presidenziale. Molti gli appelli ai Democratici ad agire. “O lo fate voi, o lo faremo noi”, hanno scandito i manifestanti. Non sono stati segnalati incidenti.

Biden ha detto di non avere il potere di costringere ad applicare l’Aborto gli Stati Usa che hanno rigide restrizioni o divieti e per questo ha riferito che sta valutando la possibilità di dichiarare un’emergenza sanitaria pubblica per liberare risorse federali per promuovere l’accesso all’Aborto, anche se la Casa Bianca ha detto che non sembra “un’ottima opzione”. “Non ho l’autorità per dire che ripristineremo la Roe v.Wade come legge del Paese”, ha detto Biden riferendosi alla decisione della Corte Suprema del 1973 che aveva stabilito un diritto nazionale all’Aborto, ma ha ribadito che il Congresso dovrebbe codificare quel diritto e che per avere maggiori possibilità in futuro gli elettori dovrebbero eleggere più parlamentari che supportino l’accesso all’Aborto.

Biden ha affermato che la sua amministrazione sta cercando di fare “molte cose per accogliere i diritti delle donne” dopo la sentenza, inclusa appunto la possibilità di dichiarare un’emergenza sanitaria pubblica per liberare risorse federali. Una mossa del genere è stata promossa dai sostenitori, ma i funzionari della Casa Bianca ne hanno messo in dubbio sia la legalità che l’efficacia e hanno notato che quasi certamente dovrà affrontare sfide legali. Il presidente ha detto di aver chiesto ai funzionari “di vedere se ho l’autorità per farlo e quale impatto avrebbe”. Venerdì Jen Klein, il direttore del Consiglio per la politica di genere della Casa Bianca, aveva dichiarato che “non sembra un’ottima opzione”. “Quando abbiamo esaminato l’ipotesi dell’emergenza sanitaria pubblica – ha detto – abbiamo imparato un paio di cose: una è che non libera molte risorse”, ha detto ai giornalisti, spiegando che “è quello che c’è nel fondo di emergenza per la salute pubblica, e ci sono pochissimi soldi, decine di migliaia di dollari”, e che “inoltre non rilascia una quantità significativa di autorità legale. Ed ecco perché non abbiamo ancora intrapreso questa azione”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La sentenza Usa. Il Parlamento Ue “risponde” alla Corte Suprema: l’aborto è un diritto fondamentale. Redazione su Il Riformista l'8 Luglio 2022 

Il Parlamento Europeo ha approvato una risoluzione (324 sì, 155 no, 38 astenuti) che chiede di inserire il diritto all’aborto nella Carta fondamentale dei diritti Ue. L’iniziativa, che non ha valore vincolante, nasce in contrapposizione alla sentenza della Corte Suprema degli Stati Uniti, che ha cancellato la precedente sentenza Roe vs Wade che nel 1973 aveva legalizzato l’aborto a livello federale. Hanno votato a favore Socialisti e Democratici (tra cui tutta la delegazione del Pd), i Verdi e la Sinistra unitaria. Hanno votato contro i Conservatori (tra cui la delegazione di FdI), la destra euroscettica (tra cui la Lega, tranne un voto a favore). Il Ppe, invece, si è diviso. Compatta per il no alla risoluzione Forza Italia (tranne uno).

“Si tratta di una risposta finalmente positiva del Parlamento europeo all’appello promosso dalle associazioni femministe italiane ed europee e di un importante segnale di solidarietà nei confronti delle donne americane e di chi si batte per la salvaguardia del diritto a un accesso sicuro all’interruzione di gravidanza – commenta la presidente della Casa Internazionale delle Donne di Roma, Maura Cossutta -. Già il 9 giugno un’altra risoluzione aveva chiesto agli Stati membri un impegno per contrastare le limitazioni all’accesso all’interruzione di gravidanza, a partire dall’obiezione di coscienza. Atti che sono in linea con quanto richiesto dalle associazioni per i diritti delle donne in Italia e in Europa”.

Gli eurodeputati chiedono una modifica dell’articolo 7 della Carta dei diritti, allegata ai Trattati Ue, inserendo la frase “ogni persona ha diritto all’aborto sicuro e legale”. Ieri a Roma con un presidio a piazza dell’Esquilino Non Una Di Meno e Women’s March Rome hanno manifestato solidarietà con le donne Usa e contro l’obiezione di coscienza: “Non torneremo indietro”. Nei prossimi giorni manifestazioni in tutta Italia in difesa dell’interruzione volontaria di gravidanza. 

Se per la Ue dei diritti l'aborto è un vanto: la risoluzione e le polemiche. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 09 luglio 2022.

Ue pare un vagito ma è la sigla di morte della vita nascente. Lo è tanto più da ieri, quando l'Europarlamento ha approvato a larga maggioranza, con 324 voti favorevoli, 115 contrari e 38 astenuti, una risoluzione per inserire il diritto di aborto nella Carta europea dei diritti fondamentali. In particolare, la richiesta è di adottare l'espressione «Ogni persona ha diritto all'aborto sicuro e legale» come articolo 7 bis della Carta, subito dopo quello che stabilisce che «ogni persona ha diritto al rispetto del proprio domicilio e della propria corrispondenza»: e già qui si capisce la confusione dell'Ue che mette la vita umana sullo stesso piano valoriale di una missiva o una mail.

E poi, cosa vuol dire «ogni persona ha diritto all'aborto»? La hanno anche i maschi, per caso? Si dice «persona» forse perché chiamare la donna «donna» per l'Ue sarebbe discriminatorio? Vabbè, tralasciamo... La risoluzione approvata non sarà vincolante per gli Stati membri, ma verrà comunque sottoposta al Consiglio dell'Unione europea che ha la facoltà di procedere a una revisione dei trattati, a cui è equiparata appunto la Carta.

MAGGIORANZA URSULA Non sorprende che, a votare a favore della risoluzione abortista, sia stata tutta la maggioranza Ursula, con l'adesione pressoché unanime dei Socialisti, del gruppo The Left, dei Verdi, dei grillini, e di mezzo Ppe, mentre a opporsi siano stati il gruppo di Identità e democrazia (di cui è parte la Lega) e quello dei Conservatori europei, guidato dalla Meloni.

Semmai è singolare che, anziché tutelare il diritto alla vita, come è riconosciuto ad esempio nella Costituzione americana, insieme alla libertà e alla felicità, l'Unione europea preferisca riconoscere come fondamentale il diritto (doloroso, traumatico) di sopprimere una vita nascente. Non ha saputo riconoscere come fondamentali le radici cristiane, l'Europa preferisce ritenere come fondante lo sradicamento di un feto... A riguardo, il testo della risoluzione sottolinea più volte, come è sacrosanto e ci mancherebbe, i diritti della donna e la sua libertà di scelta; ma li declina sempre nell'ottica del dovere degli Stati di «eliminare e combattere gli ostacoli all'aborto sicuro e legale». Mai una volta che ci fosse invece il riferimento all'urgenza per gli Stati di rimuovere e superare gli ostacoli che potrebbero indurre la donna all'interruzione della gravidanza. Insomma, ai firmatari della risoluzione, sfugge il concetto che l'aborto deve restare sempre l'extrema ratio e ogni Paese dovrebbe impegnarsi perché sia tale. Altrettanto incredibilmente manca nel testo approvato dal Parlamento Ue ogni riferimento al diritto del nascituro così come al diritto dei medici e del personale sanitario di fare obiezione di coscienza.

No, per l'Ue esiste solo il diritto della donna d’abortire.

Non meno clamoroso è che l'Unione europea si impicci negli affari di altri Paesi sovrani, come gli Usa, giudicando le scelte dei suoi più alti organi istituzionali, con un atto di ingerenza e di sfida (geo)politica. Scopo della risoluzione è infatti anche quello di «condannare fermamente la regressione in materia di diritti delle donne e di salute sessuale e riproduttiva negli Stati Uniti», a seguito della sentenza della Corte Suprema che ha deciso di revocare il diritto costituzionale federale all'aborto. Nel testo si esprime più volte lo sdegno per quella decisione che, oltre ad «aggravare il circolo vizioso della povertà» di molte donne, soprattutto adolescenti (se hanno figli, non potranno più lavorare, è la tesi), «potrebbe incoraggiare il movimento antiabortista nell'Ue» (e anche se fosse?).

Da qui un appello esplicito a interferire nelle faccende interne agli Usa: l'Europarlamento, si legge, «sostiene la richiesta affinché il Congresso degli Stati Uniti approvi un progetto di legge che tuteli l'aborto a livello federale» e «chiede che le prossime delegazioni del Parlamento europeo a Washington sollevino costantemente la questione dei diritti in materia di aborto». 

METODI ILLIBERALI A livello di affari relativi ai Paesi europei, invece, suona decisamente inquietante e profondamente illiberale la richiesta di togliere finanziamenti ai gruppi pro-vita (l'Europarlamento «esprime preoccupazione per un possibile aumento del flusso di denaro per finanziare gruppi anti-genere e anti-scelta nel mondo, anche in Europa»), così come l'esortazione a «intensificare il sostegno politico a favore dei prestatori di assistenza sanitaria che lavorano per far progredire la salute sessuale e riproduttiva e i relativi diritti» (leggi, i gruppi abortisti). Alla faccia della libertà di scelta, qui siamo all'imposizione di un Pensiero Unico. «Un indicatore inquietante del progetto sociale delle sinistre per l'Europa: vogliono sponsorizzare il ricorso all'aborto e liberalizzarlo al massimo, così da tramutarlo in un banale prodotto di consumo», lo definisce l'eurodeputato di Fdi Vincenzo Sofo. «Un delirio ideologico di ispirazione totalitaria», aggiunge il portavoce di Pro Vita & Famiglia Jacopo Coghe avvertendo: «Non ci faremo intimidire da un colpo mortifero che condanna le future generazioni europee a non vedere mai la luce». Eh già, ad abortire ieri è stata soprattutto l'idea di una nuova Europa, aperta alla vita e al domani.

Se la libertà abortisce. Marcello Veneziani 

La sentenza sull’aborto della Corte suprema americana ha riaperto una ferita profonda nella società americana e ha confermato una divaricazione radicale nella società occidentale, destinate entrambi a perdurare. Non vi parlerò ancora della sentenza e nemmeno dell’allineamento drastico, militante del 99% dei media e del paese legale contro la sentenza che invece spacca in due il paese reale. Ma vorrei riflettere su una realtà che ci ostiniamo a non voler vedere, così minando alle basi la nostra democrazia e la stessa libertà e cittadinanza.

Gli States sono la casa del politically correct e di ogni altro suo derivato tossico. Ma sono anche la patria della militanza conservatrice e religiosa come non succede da nessun’altra parte d’Occidente. Oltre l’aborto, infatti, ieri la Corte ha riammesso la possibilità di pregare in classe e in campo, inginocchiandosi: era consentito in nome di Blacks Live Matter, ma non nel nome di Dio.

Sarebbero impensabili sentenze del genere in Italia, e in quasi tutta Europa. E impensabile sarebbe una forza politica cospicua pronta a dar battaglia sul piano parlamentare. Già due forze su tre nel centro-destra nostrano si sono defilate.

Ma al di là delle ipocrisie, la realtà torna a bussare alle coscienze civiche e politiche dell’occidente. La realtà è che ci sono due visioni della vita contrapposte in modo irriducibile e non possiamo continuare a pensare che solo una sia quella giusta, sacrosanta, umana, moderna, eco-compatibile e l’altra debba solo soccombere. Da una parte c’è quella che in queste ore sta montando furiosa in tutto l’Occidente contro la sentenza della corte, che insorge rabbiosa su tutti i temi sensibili che riguardano soprattutto i diritti civili e umani. E che considera barbara ogni scelta, opinione, pronunciamento in direzione opposta o anche solo diversa. E’ la parte liberal, radical, progressista, che pur sostenendo il relativismo dei valori, non ammette altri valori e altre scelte all’infuori delle proprie, ponendosi non come la parte ma come il tutto; l’Assoluto nel senso del Bene, del Giusto, del Vero.

Dall’altra parte c’è una larga opinione pubblica che non si riconosce in quello schema e in gradi diversi inclina per la visione opposta, ma tace o lo dice solo a mezza voce. E poi c’è una parte minore, a cui si unisce il Papa, che invece è netta e perentoria, soprattutto negli Usa, e propone la stessa intransigenza dei suoi avversari su valori che ritiene non negoziabili, assoluti. Come il diritto alla vita, la salvezza dei nascituri, il diritto di pregare anche nei luoghi pubblici. Sono quelli dell’aborto come omicidio, per dirla con Bergoglio.

Come forse sapete, chi scrive propende per questa visione, senza nasconderlo, e ritiene effettivamente che quei principi siano fondamentali. Ma se la società è spaccata in due su questi temi non si può pensare di eliminare il nemico, tra prova muscolare e criminalizzazione. Pur ribadendo i propri principi si deve vedere se sono possibili intese di alto profilo, senza sotterfugi e ipocrisie, tra due visioni così radicalmente antagoniste.

Non si può pretendere che il fronte dell’aborto si converta o sia sconfitto ed eliminato. I suoi punti di forza sono il diritto delle donne a decidere della loro maternità e la convinzione che il feto non sia ancora una persona con i suoi diritti. I punti di forza dell’altro versante sono invece il diritto alla vita e la convinzione che una vita si formi al suo concepimento: il feto è già una persona e una promessa reale di vita. Gli abortisti dicono: se tu non vuoi abortire sei libera di non farlo ma lascia alle altre il diritto di farlo. Ma se l’aborto è per te un omicidio, non puoi dire: Uccidi? fatti tuoi, io sono libero di non farlo…

Non si può pretendere che uno o l’altro si rassegni ad accettare le ragioni opposte ma si può tentare di stabilire una zona di frontiera. Del tipo: ferme restando le due opposte convinzioni, e il legittimo intendimento di affermarle, si può concordare sul fatto che abortire è comunque una tragedia e perciò è lecito e doveroso aiutare a non farlo. Non boicottare chi abortisce, ma in positivo, aiutare chi recede dal suo proposito.

Non si tratta di relativizzare i propri principi e diritti elementari ma di capire che la loro traduzione nella realtà comporta di fare i conti con la reale umanità. E’ inutile negarlo, ci sono due modi di vedere la realtà e per vivere abbiamo due soluzioni: o accettare l’alternanza di leggi pro e contro l’aborto, a seconda di chi vince le elezioni, senza recriminare; o tentare un punto di mediazione pur restando ciascuno nelle proprie convinzioni. Questo vuol dire libertà e reciproco rispetto. Detto in termini filosofici: non si tratta di ridurre la verità a punto di vista ma di riconoscere sì la verità sopra di noi, però ritenere che nessuno detenga il monopolio assoluto della sua traduzione.

Invece si è scatenata una campagna feroce in cui i giudici, i movimenti pro life, i conservatori sono stati ridotti a mostri. In particolare vergognosa la campagna contro il giudice nero Clarence Thomas (ma guarda, la sinistra legalitaria che si schiera contro la legge e contro il magistrato nero). Si è cercato, come sempre fa la sinistra, non di confutare la “sua” sentenza ma di discreditare e diffamare il magistrato, insinuando che tutta la sua battaglia non abbia nulla di legale né di ideale ma risponda a un rancore personale contro i progressisti e a un proposito di vendetta a lungo covato. La smerdizzazione dell’avversario, la riduzione a carogna… Ma la soluzione non è rovesciare lo schema e riproporlo uguale dall’altra parte. Il problema di fondo resta e tocca tutti: dobbiamo imparare a convivere con la differenza di visioni della vita, senza mostrificare l’avversario. Perché se non accettiamo di convivere con questa realtà divisa, la soluzione più coerente è la guerra civile, l’ordalia. E non mi sembra il caso… La Verità (29 giugno 2022)

Testo di Pier Paolo Pasolini del 30 gennaio 1975 - pubblicato da “Sette - Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.  

Veniamo all’aborto. Tu (il destinatario dell’intervento è lo scrittore Alberto Moravia; ndr) dici che la lotta per la prevenzione dell’aborto che io suggerisco come primaria, è vecchia, in quanto son vecchi gli «anticoncezionali» ed è vecchia l’idea delle tecniche amatorie diverse (e magari è vecchia la castità).

Ma io non ponevo l’accento, sui mezzi, bensì sulla diffusione della conoscenza di tali mezzi, e soprattutto sulla loro accettazione morale, per noi – uomini privilegiati – è facile accettare l’uso scientifico degli anticoncezionali e soprattutto è facile accettare moralmente tutte le più diverse e perverse tecniche amatorie. Ma per le masse piccolo-borghesi e popolari (benché già «consumistiche») ancora no. 

Ecco perché io incitavo i radicali (con cui è avvenuto tutto il mio discorso, che solo appunto visto come un colloquio con essi acquista il suo pieno senso) a lottare per la diffusione della conoscenza dei mezzi di un «amore non procreante», visto (dicevo) che procreare è oggi un delitto ecologico. 

Se alla televisione per un anno si facesse una sincera, coraggiosa, ostinata opera di propaganda di tali mezzi, le gravidanze non volute diminuirebbero in modo decisivo per quel che riguarda il problema dell’aborto. 

Tu stesso dici che nel mondo moderno ci sono due tipi di coppie: quelle borghesi privilegiate (edonistiche) che «concepiscono il piacere distinto e separato dalla procreazione» e quelle popolari, che «per ignoranza e bestialità non arrivano a una simile concezione». 

Ebbene, io ponevo come prima istanza alla lotta progressista e radicale proprio questo: pretendere di abolire – attraverso i mezzi cui il paese ha democraticamente diritto – tale distinzione classista. 

Insomma, ripeto, la lotta per la non-procreazione deve avvenire nello stadio del coito, non nello stadio del parto. Per quel che riguarda l’aborto, io avevo suggerito paradossalmente di rubricare tale reato nel quadro del reato di eutanasia, inventando per esso una serie di attenuanti di carattere ecologico. Paradossalmente. 

In realtà la mia posizione su questo punto – pur con tutte le implicazioni e le complessità che sono tipiche di un intellettuale singolo e non di un gruppo – coincide infine con quella dei comunisti. Potrei sottoscrivere parola per parola ciò che ha scritto Adriana Seroni su Epoca (25-1-1975).

Bisogna evitare prima l’aborto, e, se ci si arriva, bisogna renderlo legalmente possibile solo in alcuni casi «responsabilmente valutati» (ed evitando dunque, aggiungo, di gettarsi in una isterica e terroristica campagna per la sua completa legalizzazione, che sancirebbe come non reato una colpa). 

Mentre per il «referendum» sul divorzio ero in pieno disaccordo coi comunisti (che lo temevano) prevedendo la vittoria che poi si è avuta; mentre sono in disaccordo coi comunisti sugli «otto referendum» proposti dai radicali, prevedendo anche qui una vittoria (che ratificherebbe in effetti una realtà esistente), sono invece d’accordo coi comunisti sull’aborto.

Qui c’è di mezzo la vita umana. E non lo dico perché la vita umana è sacra. Lo è stata; e la sua sacralità è stata sentita sinceramente nel mondo antropologico della povertà, perché ogni nascita era una garanzia per la continuità dell’uomo. Ora sacra non lo è più, se non in senso maledetto (sacer ha tutti e due i sensi), perché ogni nuova nascita costituisce una minaccia per la sopravvivenza della umanità. 

Dunque dicendo «c’è di mezzo la vita umana», parlo di questa vita umana – questa singola, concreta vita umana – che, in questo momento, si trova dentro il ventre di questa madre. È a ciò che tu non rispondi. È popolare essere con gli abortisti in modo acritico e estremistico? Non c’è neanche bisogno di dare spiegazioni?

Si può tranquillamente sorvolare su un caso di coscienza personale riguardante la decisione di fare o non fare venire al mondo qualcuno che ci vuole assolutamente venire (anche se poi sarà un disgraziato)? Bisogna a tutti i costi creare il precedente «incondizionato» di un genocidio solo perché lo «status quo» lo impone?

Va bene, tu sei cinico (come Diogene, come Menippo... come Hobbes), non credi in nulla, la vita del feto è una romanticheria, un caso di coscienza su un tale problema è una sciocchezza idealistica... Ma queste non sono delle buone ragioni.

ABORTO/SENTENZA USA: I ‘SINCERI DEMOCRATICI’? IN PIENO DELIRIO – di GIUSEPPE RUSCONI – rossoporpora.org – 26 giugno 2022

La sentenza della Corte Suprema statunitense che ha negato l’aborto come diritto costituzionale a livello federale (demandandone la valutazione ai singoli Stati dell’Unione) ha scatenato forti reazioni ancora in corso. Negli Stati Uniti e in altri Paesi. Anche in Italia. Ve ne offriamo un florilegio ‘democratico’, con un occhio anche a titoli e commenti deliranti. Alla fine una bella sorpresa giornalistica e un Post Scriptum che riempie di speranza.

Come facilmente prevedibile sono tanto numerose quanto spesso isteriche e turbolente le reazioni (anche di piazza) alla decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di affossare- con un Atto del 24 giugno 2022, di 213 pagine molto ben argomentate - la sentenza Roe v. Wade del 1973, con cui veniva riconosciuto l’aborto come un diritto garantito costituzionalmente a livello federale. La possibilità dell’aborto legale negli Usa non viene abolita, ma demandata alla valutazione autonoma di ogni singolo stato dell’Unione. Già in questi giorni e in ogni caso a breve si prospettano in una metà degli Stati dell’Unione il divieto di aborto o in ogni caso forti restrizioni alla sua pratica. Con conseguente chiusura di molte cliniche, in particolare della famigerata rete Plannet Parenthood, un impero industriale cresciuto sulla pelle delle donne (e degli uomini), comprovato grande finanziatore da tempo del partito democratico di Biden, di Obama, di Hillary Clinton.

La Corte era stata chiamata in causa per valutare la legge approvata dal Mississippi che limitava a 15 settimane il periodo in cui era possibile abortire, condizionando fortemente tale facoltà anche prima. La maggioranza della Corte ha però ritenuto di andare oltre, argomentando che in realtà il ‘diritto’ di aborto a livello federale non aveva nessun fondamento e la sentenza Roe v Wade poggiava su premesse sbagliate. Grande il coraggio civile – anche derivato dalla fede religiosa - mostrato dai sei giudici favorevoli (cinque convintissimi più uno che personalmente avrebbe preferito limitarsi alla convalida della legge del Mississippi): da tempo devono vivere sotto scorta per le continue minacce alla loro vita.

E’ indubbio che la storica decisione della Corte è un duro colpo da digerire per i fautori della sovversione antropologica: per i suoi ideologi, i suoi propagandisti e anche per l’ormai vasta cerchia delle aziende interessata agli enormi profitti economici legati al suo concretizzarsi.

Alla sentenza attinge con speranza rinnovata chi - non solo negli Stati Uniti, ma in tante parti del mondo-  si batte, con ardore e con costanza spesso vilipesi dal politicamente corretto, perché cessi la strage disumana degli innocenti nel grembo materno. Sì, la nota e proteiforme lobby può essere costretta a indietreggiare, la gioiosa macchina da guerra si può fermare. Contro tutti o quasi… si può fermare, come ha dimostrato la Corte Suprema degli Stati Uniti. Si può fermare dappertutto, anche nell’Europa occidentale, anche in Italia.

Della sentenza (che pure induce anche a qualche fondata perplessità quando delega la tutela della vita umana agli elettori dei singoli Stati… ma tale tutela è delegabile, subordinata come sarebbe alle opinioni dominanti in un tempo ben definito?) proponiamo qui un passo particolarmente chiaro e incisivo.

Lo troviamo alle pagg. 14 e 15 della sentenza (Opinione Corte, sezione I):

“Per dare forza a questo Atto, si richiama una serie di fatti. Dapprima si nota che al momento dell’elaborazione dell’Atto, solo sei Paesi oltre gli Stati Uniti permettevano un aborto non terapeutico o su domanda dopo la ventesima settimana di gestazione. In realtà si constata che già alla quinta o sesta settimana di gravidanza incomincia a battere il cuore di un essere umano non ancora nato; all’ottava settimana l’essere umano non nato incomincia a muoversi nel grembo; alla nona settimana sono presenti tutte le funzioni fisiologiche fondamentali; alla decima settimana gli organi vitali incominciano a funzionare e le unghie delle mani e delle dita dei piedi incominciano a prendere forma; all’undicesima settimana il diaframma si sta sviluppando e ora l’essere umano non nato si muove liberamente nel grembo; e alla dodicesima settimana l’essere umano non nato ha preso forma umana in tutti i suoi aspetti più rilevanti”.   

DALLA REAZIONE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE DEGLI STATI UNITI – Dichiarazione del 24 giugno 2022 a firma del presidente  José H. Gomez (arcivescovo di Los Angeles) e del presidente della Commissione episcopale per la vita William F. Lori (arcivescovo di Baltimora)

Questo è un giorno storico nella vita del nostro Paese, che suscita pensieri, emozioni e preghiere. (…) Per quasi cinquant’anni l’America ha applicato una legge ingiusta che ha permesso ad alcuni di decidere se altri possono vivere o morire; generazioni a cui è stato negato il diritto di nascere.

La sentenza è anche il frutto delle preghiere, dei sacrifici e della testimonianza  pubblica di innumerevoli americani di ogni ceto sociale. In questi lunghi anni, milioni di nostri concittadini hanno lavorato insieme pacificamente per educare e persuadere i loro vicini sull’ingiustizia dell’aborto, per offrire assistenza e consulenza alle donne e per lavorare per alternative all’aborto, compresa l’adozione, l’affidamento e l’assistenza pubblica politiche a sostegno delle famiglie. Condividiamo la loro gioia oggi e gli siamo grati. Il loro lavoro per la causa della vita riflette tutto ciò che c’è di buono nella nostra democrazia e il movimento pro-vita merita di essere annoverato tra i grandi movimenti per il cambiamento sociale dei diritti civili nella storia della nostra nazione». 

I ‘SINCERI DEMOCRATICI’ STATUNITENSI, DIFENSORI DEI ‘VALORI DELL’OCCIDENTE’ SONO TREMENDAMENTE INDIGNATI…

Joe Biden (presidente democratico e cattofluido degli Stati Uniti):  Oggi è un giorno triste per la Corte Suprema e il Paese. E’ un tragico errore. Questa decisione è la realizzazione di tentativi che vanno avanti da decenni per rovesciare le leggi, la realizzazione di un’ideologia estrema: la Corte ha fatto una cosa mai fatta prima, togliere un diritto costituzionale fondamentale per milioni di americani. Non lo ha limitato, lo ha semplicemente eliminato. Con questa decisione la maggioranza conservatrice alla Corte Suprema ha mostrato quanto estrema sia, quanto si sia allontanata dalla maggioranza di questo Paese.

Jill Biden (moglie del presidente): Per quasi 50 anni, noi donne abbiamo avuto il diritto di prendere le nostre decisioni sul nostro corpo. Oggi quel diritto ci è stato rubato

Barack Obama (ex-presidente democratico degli Stati Uniti): La Corte Suprema non solo ha annullato quasi 50 anni di precedenti, ma ha relegato la decisione più intensamente personale che qualcuno può prendere ai capricci di politici e ideologi: (sono state) attaccate le libertà fondamentali di milioni di americani

Michelle Obama (moglie dell’ex-presidente): Ho il cuore spezzato per gli americani che hanno perso il diritto fondamentale di assumere decisioni informate. Avrà delle conseguenze devastanti. Una decisione orribile, dagli effetti devastanti.

Hillary Clinton (ex-Segretario di Stato, moglie dell’ex-presidente democratico Bill Clinton): Un’infamia.

Nancy Pelosi (speaker democratica Camera dei Rappresentanti) Decisione crudele, scandalosa. Un insulto.

Alexandria Ocasio-Cortez (esponente dell’ala sinistra del partito democratico): Biden apra immediatamente cliniche per l'aborto su terreni federali negli Stati repubblicani che imporranno il divieto. (…) Le elezioni non bastano, dobbiamo riempire le strade. 

E LE AZIENDE DELLA NOTA LOBBY?

Saranno coperte le spese di viaggio delle dipendenti che vorranno abortire, ma non potranno farlo nel loro Stato di residenza: l’hanno comunicato le tante aziende di grande rilievo infiltrate pesantemente dalla nota lobby. Tra loro troviamo (prenda buona nota chi ci legge): Disney, Apple,  JPMorgan , Tesla, Meta e Bank of America,  Netflix, Levi Strauss e Microsoft. 

IN CANADA (è previsto a fine luglio il viaggio apostolico in Canada di papa Francesco, che con Justin Trudeau ha apparentemente ottimi rapporti)

Justin Trudeau (primo ministro, esponente coccolato della sovversione antropologica): E’ orribile. Le notizie che arrivano dagli Stati Uniti sono orribili, Non riesco nemmeno a immaginare la paura e la rabbia che le donne statunitensi stanno provando in questo momento. Il mio primo pensiero va alle donne che hanno perso il diritto all’aborto. 

IN FRANCIA Emmanuel Macron, (presidente francese tanto spavaldo quanto elettoralmente acciaccato): ha fatto annunciare che sarà depositata una proposta di legge all’Assemblea Nazionale per inserire il diritto all’aborto nella Costituzione francese (già l’ha annunciato per quella dell’Unione europea): L’aborto è un diritto fondamentale per tutte le donne. Deve essere difeso. Desidero esprimere la mia solidarietà alle donne le cui libertà sono state minate dalla Corte Suprema degli Stati Uniti.  

IN INGHILTERRA Boris Johnson (primo ministro inglese): La decisione è un grande passo indietro. Io ho sempre creduto nel diritto di scelta delle donne.  

ALL’ONU Michelle Bachelet (Alto Commissario per i diritti umani - !!! – già presidente del Cile): E’ una grave battuta d'arresto dopo cinque decenni di protezione della salute sessuale e riproduttiva e dei diritti negli Stati Uniti attraverso Roe v Wade. L'accesso ad un aborto sicuro, legale ed efficace è saldamente radicato nel diritto internazionale dei diritti umani. E’ un duro colpo per i diritti umani delle donne e l'uguaglianza di genere. Gli Stati Uniti si stanno purtroppo allontanando dalla tendenza progressista. 

IN ITALIA Alcune citazioni (ce ne sarebbero però altre assai problematiche sul versante del centro-destra…) relative a esponenti del centro-sinistra che incessantemente inneggiano all’impegno per la difesa delle libertà democratiche e dei valori occidentali (vedi ad esempio riguardo alla guerra scellerata in Ucraina, con un invio scandaloso di armi in conflitto grave con l’art. 11 della Costituzione)

Enrico Letta (segretario del Pd): La decisione della Corte americana sull'aborto è stato un errore grave perché è figlia di una svolta ideologica. (…) Un ritorno indietro che genera sconforto, alimenterà sofferenze e farà divampare conflitti. Da noi nessun ritorno al ‘900.

Elena Bonetti (ministro renziano della Famiglia, cattofluida di radici scoutistiche Agesci): E’ una decisione che lascia sgomenti, che ferisce la dignità e i diritti delle donne.

Nicola Zingaretti (Pd, governatore del Lazio): La terribile scelta della corte suprema americana rappresenta un drammatico passo indietro

Emma Bonino (radicale storica, in passato ha praticato aborti con una pompa aspirante infilata nell’utero della donna): La sentenza della Corte Suprema dopo 50 anni cancella il diritto di aborto negli Usa a livello federale, che perde così il livello di costituzionalità. Ora saranno i singoli Stati, un po’ come avviene in Europa, basti pensare a Polonia e Ungheria, oltre ai rigurgiti antiabortisti anche nel nostro Paese, a disciplinare questa libertà. E' sicuramente un passo indietro e la mia solidarietà va alle donne americane

I parlamentari del M5S (… e si è detto tutto…): Questa sentenza è l’ultima manifestazione di un’inquietante tendenza oscurantista presente non solo negli USA, ma anche in Europa e in tutto il mondo e che in Italia conosciamo molto bene. 

I TITOLI PIU’ DELIRANTI: VINCE ‘LA STAMPA’ DI TORINO

La Stampa, 25 giugno 2022. A tutta prima pagina: L’America che odia le donne. Commento di Concita De Gregorio che incomincia in prima pagina: Così la destra umilia i più deboli. Altro commento di Linda Laura Sabbadini che incomincia in prima pagina: Non ci toglieranno la voglia di libertà. Grande titolo a pagina 2: Aborto: medioevo USA. Poker! 

SI SI, NO NO? NEL VANGELO, MA NON NEI TITOLI DI ‘AVVENIRE’

Avvenire, 26 giugno 2022. Titolo di apertura: Ma la vita è dialogo. Titolo a tutta pagina 6: Vita e aborto, tempo di dialogo. 

COMMENTI DI MAESTRI  DEL VIVER CIVILE, DEMOCRATICAMENTE INTESO

Gianni Riotta (noto esperto della ‘vita buona’ da salotto, Repubblica, 26 giugno 2022), fa proprio come incipit del suo articolo questo giudizio di Ian Bremer, “sofisticato stratega del forum internazionale Eurasia”: Gli Stati Uniti non son più la democrazia dei tempi della caduta del Muro di Berlino. Non sono l’Ungheria, non sono la Turchia, ma vanno in quella direzione. Non si poteva dimenticare l’Ungheria…

Massimo Giannini (direttore de La Stampa, 26 giugno 2022): Anche in Europa si avverte una tendenza alla Grande Restaurazione. Se parliamo di aborto, basta vedere quello che sta succedendo in Polonia, dove una legge del gennaio 2021 ha ristretto drasticamente il diritto all’interruzione della gravidanza (…) Ma poi anche a Malta, o in Ungheria, dove Orbán ha fatto inserire in Costituzione “la tutela del feto fin dal suo concepimento” (…) In Italia già ora in molte strutture ospedaliere i medici obiettori si rifiutano di applicare la legge. (…) Bisogna dire no a queste tentazioni di nuovo Medioevo. Non si potevano dimenticare non solo l’Ungheria, ma anche Polonia e Malta. E il ‘Medioevo’ dell’obiezione di coscienza…Un perfetto democratico!

Lucetta Scaraffia (storica femminista, qui in versione cattofluida, La Stampa, 26 giugno 2022): Meglio chiarire subito: sono convinta che la decisione della Corte Suprema americana di negare all’aborto lo status di diritto inalienabile costituzionalmente garantito rappresenti di fatto una grave ferita alla libertà delle donne statunitensi. (…) E parimenti sono convinta che l’entusiasmo con il quale la Chiesa cattolica ha accolto questa decisione le costerà un ulteriore allontanamento delle donne. (poi la Scaraffia fa qualche considerazione condivisibile, ad esempio sulla necessità di non ignorare i padri dei nascituri, ma intanto le affermazioni iniziali restano).

Concita De Gregorio (nota editorialista radicalchic, La Stampa, 25 giugno 2022): Peccato, Peccato per il tempo che ci vorrà a risarcire questa ferita colossale, un salto indietro di cinquant’anni, ma come si sa la destra demolisce con un calcio castelli costruiti in decenni, sulle rovine festeggia. Nel Paese in cui da oggi non si può più abortire ma si può entrare in un asilo con la pistola in mano da puntare alla tempia dei bambini (…). Lucida la De Gregorio nella ricerca di immagini per palati forti…

Linda Laura Sabbadini (che si definisce ‘direttora del Dipartimento Metodi e Tecnologie Istat’, La Stampa, 25 giugno 2022): Non a caso dopo il popolo ucraino che anela a libertà e democrazia, le prime a essere sotto attacco nucleare sono le donne (…) Ma loro, i reazionari, non hanno più remore, preparano l’assalto al cielo, quello che fallirono a Capitol Hill. Vogliono distruggere la democrazia dei diritti e delle libertà, vogliono colpire al cuore le donne americane. La strategia è unitaria. La truppa di Trump si muove all’unisono con quella di Putin. Poteva non c’entrare Putin?

Filippo Facci (ovvero il Galateo fatto uomo, Libero, 25 giugno – il commento, intitolato “L’Italia ignori questa follia di quaccheri”,  è pubblicato in prima pagina con seguito a pagina 2, accanto al commento contrapposto -bello e intenso – di Renato Farina, che porta il titolo: Così l’America ha ritrovato i suoi valori”): Della sentenza della Corte Suprema non ce ne frega niente. Della singola opinione di qualche baciapile – a me personalmente – non me ne frega niente. Se negli USA, dopo 49 anni, hanno deciso che una donna non è libera di interrompere una gravidanza, a questo Paese e a questo continente (fa eccezione la nota avanguardia polacca) non gliene frega niente, perché nel nostro caso c’è una decisione sancita da un referendum, promulgata a mezzo legge (la 194) e che soprattutto funziona. (…) La legge 194 c’è solo il problema di difenderla dai troppi sabotatori: l’Italia è stata uno degli ultimi Paesi occidentali in cui è stata introdotta la pillola Ru 486 che resta di complicata reperibilità; impossibile poi tacere di quella truffa da codice penale che resta l’obiezione di coscienza che è esercitata da circa l’80% dei ginecologi soprattutto in Campania, Basilicata e Sicilia (…) Noi, con il nostro 80% siamo ultimi con Portogallo e Argentina, nazioni note per i loro convincimenti etici. Dopo aver offeso i’ baciapile’, offende anche gli obiettori di coscienza e i meridionali cui la addebita in buona parte e offende anche polacchi, portoghesi e argentini: un nuovo Guinness dei primati in così poche righe! 

A SORPRESA IL COMMENTO DI VITTORIO FELTRI

Vittorio Feltri (fondatore di ‘Libero’), in apertura di Libero del 26 giugno 2022 con prosecuzione a pagina 3, sotto il titolo “Quella volta che anch’io volevo fermare una vita”: Anche io quando ero un giovane padre mi trovai di fronte al dilemma. Io e mia moglie, persona mite, avevamo già tre figli. Ella a un certo punto scoprì di essere incinta (…) Se avesse portato a termine la gravidanza, con il quarto pargolo, non avrebbe più potuto continuare la sua attività importante presso un ente pubblico, l’Amministrazione provinciale. Sorse in me ed anche in lei l’idea dell’aborto, il quale però non era ancora stato reso lecito. (…) Presi contatto con una struttura (in Svizzera). (…) Avvicinandosi la data dell’intervento io e la mia consorte cominciammo ad avere titubanze che crebbero quotidianamente. Non discutevamo d’altro in casa mia (…) Una sera si mise a singhiozzare. Non riusciva a digerire la situazione che si andava profilando. Le presi la mano e gliela accarezzai, poi le sussurrai mentre il mio cuore sobbalzava (…) Teniamoci anche questo quarto rompicoglioni e che sia finita ogni tribolazione. Ci abbracciammo come due sposini (…) Basta col tormento che mi procurava l’ipotesi di stroncare una creaturina che non era neanche in grado di opporsi e protestare. (…) Quando risalii nel reparto mi venne incontro una giovane infermiera che teneva tra le braccia un fagottino: con entusiasmo mi disse: ‘Ecco, è nata la Sua bambina’. Guardai la piccola come si osserva un gioiello. Mi sembrava un miracolo. E pensare che aveva rischiato di finire in un bidone della spazzatura. (…) Allorché leggo sui giornali che la gente si lamenta perché in Italia le culle sono vuote, penso che l’aborto abbia contribuito a svuotarle”.

P.S. A scorrere titoli e citazioni deliranti si può essere presi da un certo sconforto. Però, stamattina, durante la messa domenicale delle 10.30 a Sant’Ippolito a piazza Bologna, si sono registrati due battesimi, di Chiara e di Matteo, con il Coro che ha eseguito in modo molto intenso e coinvolgente il Benedicat di San Francesco a Frate Leone. E allora… Benedicat/ benedicat/ benedicat tibi Dominus et custodiat te. 

Così l’America ha ritrovato i suoi valori.  Renato Farina 25 Giugno 2022 

Dai più deboli, da quei condannati a morte, ma non ancora nati, ci arriva una richiesta di soccorso.

La Corte Suprema degli Stati Uniti, l’equivalente della nostra Corte costituzionale, ma persino più solenne perché chi ne fa parte lo è fino alla tomba, ha stabilito che in base ai principi sulla cui base è nata la multiforme e multiculturale nazione americana non esiste il diritto di aborto, e chi lo ha introdotto in passato, ha sbagliato. Anzitutto perché viola un diritto che viene prima: quello alla vita dell’esserino che palpita nell’utero di una donna, e che non è una sua propaggine, anche se in tutto e per tutto dipende da lei. Quel “coso”, detto feto anche se nessuno quando tocca quella pancia lo chiama così, è “un altro” che sta in casa tua, mamma, e nessuno può autorizzarti a ucciderlo. 

Papa Francesco che non è certo un bigotto, e non perdona niente a chi non è capace di perdonare, definisce killer chi pratica l’aborto, come applicazione più tremenda di una cultura dello scarto. Non è una faccenda cattolica, ma un dato di scienza e coscienza. Di ragione e di cuore. È un dato di fatto che in Occidente, ma probabilmente anche in Oriente, ci sia stato una radicale mutazione antropologica, l’evidenza della realtà non è più tale. Non esiste più il primato dello sguardo ma dell’emozione. Per cui chi non ha voce non ha chance di suscitare commozione. 

Il grido del suo soccombere non attraversa le pareti del grembo, e non è in grado – ciò che vale del resto anche per i neonati – di esprimere il suo pensiero in argomento. Ma esiste una forza tremenda e documentata dentro quella creaturina non ancora nata. Quel grumo di carne e sangue, con le sue piccole dita, nuota nelle acque materne, e disperatamente cerca di salvarsi la vita davanti alla chimica che lo vuole dissolvere o alla pinza del dottore che lo vuole ridurre a brandelli. Ci sono immagini inconfutabili e che subiscono una censura assoluta. Ieri sera in nessun tigì sono state trasmesse. 

Nessun sito del web di proprietà dei grandi gruppi editoriali italiani e internazionali ha non dico approvato la sentenza ma riconosciuto la sua dignità. Neppure un piccolo, minimo “forse”, è sfuggito dalle bocche serrate nella protesta e dalle penne schierate a falange in una sorta di conformismo benpensante. La storia – dice il coro della nostra tragedia – non può fare un passo indietro di cinquant’anni. Qual è l’unità di misura del valore degli anni? Riaffermare solennemente il diritto alla vita, non in generale, ma proprio quella che eri tu in boccio, è andare avanti, che non si misura in anni ma in potenza di una luce che si era perduta chissà dove. 

Questo articolo è stato pubblicato oggi, 25 giugno 2022 su Libero Quotidiano.

Lucetta Scaraffia per “la Stampa” il 26 giugno 2022.  

Meglio chiarire subito: sono convinta che la decisione della Corte Suprema americana di negare all'aborto lo status di diritto inalienabile costituzionalmente garantito rappresenti di fatto una grave ferita alla libertà delle donne statunitensi, che molto probabilmente i repubblicani pagheranno caro nelle elezioni locali. E parimenti sono convinta che l'entusiasmo con il quale la Chiesa cattolica ha accolto questa decisione le costerà un ulteriore allontanamento delle donne. Ma c'è un punto sul quale vorrei riflettere. 

Una domanda che anche noi femministe dobbiamo avere il coraggio di farci: l'aborto può essere davvero considerato un diritto naturale, indipendentemente da ogni atto legislativo che lo sanzioni (perché è proprio ciò e solo ciò che la Corte americana ha negato)?

Può davvero essere considerato un diritto naturale la facoltà di sopprimere la possibilità di vita di un altro essere umano? E quindi, di conseguenza, abbiamo fatto bene a fondare le battaglie femministe su questo straordinario diritto? 

Viceversa combattere per la semplice depenalizzazione dell'aborto è una battaglia giusta e sacrosanta, fondativa del movimento femminista, così come la battaglia che ha portato a riconoscere lo stupro come reato contro la persona e non contro la morale. È da entrambe queste battaglie, infatti, che deriva il rispetto per il corpo femminile e per il diritto della donna di disporne liberamente.

Diritto imprescindibile per fondare la libertà delle donne e il rispetto nei loro confronti. Invece l'aborto, formulato come un vero e proprio diritto naturale, di fatto coinvolge un'altra persona, cioè il padre del nascituro, e in un certo senso anche il possibile nascituro. E quindi, come si capisce, risulta oggettivamente alquanto problematico considerarlo un vero e proprio diritto naturale, trattandosi tra l'altro di una decisione che coinvolge altri interessati ma privi in alcun modo della possibilità di interferire. Mi chiedo quindi se non sarebbe allora stato meglio impostare fin dall'inizio la battaglia sul tema dell'aborto chiedendo la sua pura e semplice depenalizzazione.

Questo mi sembra il vero problema che pone la sentenza della Corte Suprema americana. La sua decisione, sicuramente oltremodo deprecabile per i suoi effetti, mette però il dito su una contraddizione effettivamente esistente alla base dell'ideologia femminista. Affermare il diritto all'aborto come un diritto naturale inalienabile delle donne infatti significa inevitabilmente negare qualunque diritto a chiunque altro a qualsiasi titolo sia interessato all'eventuale nascita di un essere umano. Limitarsi alla depenalizzazione dell'aborto significa invece consegnare la terribile decisione alla coscienza di chi la compie, e accettare quindi che questa scelta dolorosa venga pagata, nel corpo e nella psiche, dalla donna che la compie.

A Gilead, a Gilead! Anche sull’aborto noialtri intelligenti siamo molto stupidi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 27 Giugno 2022

Pur pensando che essere incinte sia un’invalidità, e perfino dopo aver sbirciato un paio di talk show italiani sul tema, riesco ancora a capire che le donne americane che festeggiano la decisione della Corte Suprema non gioiscono perché viene negato loro un diritto, ma perché sono convinte che si metta fine a un crimine

Riesco a immaginare solo un’invalidità più insopportabile, una tragedia più abissale, uno stato più atroce dell’essere incinta, ed è: essere incinta senza aver desiderato d’esserlo. È una delle ragioni per cui le sciatte militanti che in questi anni hanno scomodato Gilead per ogni fischio per strada sono imperdonabili: a che serve la potenza della letteratura che evoca donne incinte per imposizione se poi, quando arriva il momento in cui in alcuni degli Stati Uniti non si può più abortire per nessuna ragione, quei personaggi di fantasia non puoi più citarli perché “Il racconto dell’ancella” è consunto dalle similitudini a casaccio?

In cima alla pagina di The Cut, la sezione femminile del New York Magazine, c’è l’occhiello «Life after Roe», la vita dopo che la Corte Suprema ha deciso che la sentenza Roe vs. Wade non attiene all’aborto, non essendo l’aborto citato in una Costituzione scritta nel Settecento (ma tu pensa), e non tutelando quindi quella sentenza, come fin qui ritenuto, il diritto all’interruzione di gravidanza. Prima dell’articolo c’è un avviso. Fa così: abbiamo rimosso il paywall da questa e altre storie sulla possibilità di abortire. Certo che è importante dare informazioni sulle questioni urgenti (e se non lo è liberarti d’una gravidanza che non vuoi, non saprei che definizione dare di «urgenza»), ma magari un articolo che ti dice che non devi credere a TikTok, il bidet con la Coca Cola non fa abortire, dovremmo averlo superato a dodici anni, che è l’età alla quale leggevo le smentite di queste leggende su Cioè. Sto per compierne cinquanta, e la demolizione delle leggende abbiamo cominciato a chiamarla debunking, e non pensiamo si smetta d’averne bisogno dopo le scuole medie.

Lo so, questa cosa d’aver detto «sezione femminile» fa di me una retrograda. Anche le persone trans e non binarie possono aver bisogno d’un aborto, possono mestruare, possono amare: sono tali e quali a noi, noi normali. Ma cosa volete ne sappia io, che ogni volta che sento «non binario» ho il riempimento automatico di «triste e solitario».

Dunque è andata così: Barack Obama ha avuto una maggioranza mai vista e non l’ha usata per fare una legge federale che regolamentasse l’aborto; a seconda di chi siano tifosi, gli studiosi di leggi americane ti dicono che non l’ha fatto perché il precedente d’una sentenza che s’appoggia alla Costituzione è più forte d’una legge federale e non c’era ragione di pensare decadesse, o che non l’ha fatto come non ha fatto mille altre cose, tra cui i nuovi giudici della Corte Suprema. Le militanti strepitano perché Donald Trump ne ha fatti tre, e non s’accorgono mai mai mai che stanno dicendo: è stato più bravo. Chi vuol far vedere che ha spirito critico dice: eh, certo, è un po’ colpa di Ruth Bader Ginsburg che si sarebbe dovuta dimettere a Obama in forze, permettendogli di metterci un altro giudice abortista. Ma chi la doveva convincere a dimettersi, RBG, io? Se Obama fosse stato bravo a fare il presidente quanto a venire bene in foto, chissà dove saremmo.

L’altra sera alla tv italiana sono andati in onda quelli che mi sono sembrati i quaranta minuti di tv più incredibili di tutti i tempi, ma probabilmente è il livello medio dei talk show e sono io che non sono abituata a guardarli. A osservare senza neanche troppa attenzione, si vedeva in controluce la costruzione del disastro. Una puntata preparata con un parterre di ospiti televisivi abituali, di quelli ritenuti in grado di parlare di Ucraina e di PNRR, dell’afa e della pandemia. Poi, nel pomeriggio, la notizia: in America è saltato per aria il fragile escamotage su cui si basava la possibilità di abortire. Mica vorrai smontare il parterre. Aggiungiamo due donne, ché l’aborto è cosa di donne, due con utero e che sappiano anche quattro cose sul tema. Ma quaranta minuti cinque ospiti? Ma figuriamoci: alle due in quota competenza facciamo una domanda e poi le congediamo.

Quando la conduttrice, dopo averle fatte parlare trenta secondi l’una, manifestando una certa qual insofferenza per ventinove dei trenta secondi, dice «so che ci dovete lasciare», la regia si guarda bene dall’inquadrarle, acciocché non si veda il labiale «no veramente noi potremmo pure restare». Se inquadrassero le due che conoscono il tema mentre vengono congedate per proseguire la discussione sul tema con gente che di solito parla di scissione dei Cinque stelle, vedremmo probabilmente due emule di Valeria Parrella allo Strega, quando la congedarono per parlare di MeToo: «E lei ne vuole parlare con Augias? Auguri».

L’omaggio a quel grandissimo momento di televisione può quindi proseguire con gli abituali turnisti del circo, uno dei quali – d’un quotidiano di destra – dice delle cose ovvie per un conservatore ma le dice come le dicono le macchiette televisive italiane: risultando insopportabile. Perdipiù la conduttrice, che è in modalità in-quanto-donna e quindi deve dire che l’aborto è un diritto inalienabile, è così maldisposta nei suoi confronti che la regia non osa inquadrarlo, e quindi quello diventa una voce dall’indefinito del suo bravo collegamento mentre tengono fisso il primo piano della conduttrice che sbuffa. Quando ero giovane e fertile queste trasmissioni esistevano per diventare Blob, ora probabilmente per diventare meme.

La stessa sera, sulla Hbo andava in onda il talk migliore del mondo, quello di Bill Maher. Era ospite Andrew Sullivan, che esprimeva gli stessi concetti del conservatore italiano ma come li esprime uno alfabetizzato, e spiegava bene l’assurdità dell’Italia che si scalda sulla regolamentazione dell’aborto americano, pur senza nominarci mai.

La sinistra americana è scandalizzata perché i primi interventi di riduzione della possibilità di abortire (in Florida, per esempio) hanno abbassato il termine da sei mesi a meno di quattro (quindici settimane). Gli americani non sanno talmente mai niente che il primo che studia due schede da sussidiario su quel che accade fuori dagli Stati Uniti pare subito un genio. Sullivan (che è inglese, inserire qui la battuta di Hamilton sugli immigrati sui quali contare per un lavoro ben fatto) fa presente che in mezza Europa il termine è a dodici settimane (anche in Italia).

Una giornalista ospite interviene dicendo sì, ma lì hanno la sanità pubblica. Già, ragazza: qui in dodici settimane, non potendo per legge abortire nel privato, devi anche fare in tempo a trovare un non obiettore nel pubblico. Ha tentato di spiegarlo Chiara Lalli a Lilli Gruber, ma alla Gruber «Molise» sembrava meno chic di «Florida» e quindi l’ha interrotta come stesse andando fuori tema. (Dovendo scegliere un modello, suggerirei l’Inghilterra: sanità pubblica, e termine a sei mesi).

Ci sarebbe poi anche da parlare della questione «come osano parlarne gli uomini» o, come dicono quelli cui piace citare in inglese, «no uterus no opinion». La giornalista ospite da Bill Maher è lesbica: l’utero inutilizzato ha comunque diritto a opinioni? E, se pensi che quella che abortisce ammazzi qualcuno, non hai non solo il diritto ma forse pure il dovere d’intervenire, anche se un utero non ce l’hai?

Com’è possibile che da questo lato delle cose – quello in cui abortire pare non solo un diritto ma addirittura un dovere, e quella fuori legge dovrebbe essere la gravidanza portata a termine – non riusciamo ad avere argomentazioni adulte, e a capire che una questione etica che per qualcuno (anche per molti di quelli che cianciano di «dramma morale» sperando così diventi più accettabile) non è niente, e per altri è assassinio, non la risolvi fingendo che le donne siano tutte da questo lato della questione?

Certo che più o meno tutte le donne hanno l’handicap di rischiare di restare incinte a ogni rapporto sessuale per metà della loro vita, e che questa disgrazia richiederebbe una pensione d’invalidità universale, e che l’idea che se resti incinta tu debba tenertelo è distopica e inaccettabile per molte di noi. Ma ci sono pure quelle che pensano che farti aspirare un embrione o un feto sia un omicidio, e rispetto all’omicidio hanno problemi di coscienza: avere un utero non basta neanche ad avere tutte la stessa opinione sui diritti che abbiamo su quell’utero.

Com’è possibile che non capiamo che le donne americane che manifestavano felicità per la fine di Roe vs Wade non sono donne che gioiscono perché viene negato loro un diritto, sono donne convinte che si metta fine a un crimine? Com’è possibile che noialtri intelligenti siamo così stupidi?

Aborto, Vittorio Feltri racconta tutto: "Quella volta che io...", drammatica confessione. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 26 giugno 2022

Se avesse portato a termine la gravidanza, con il quarto pargolo, non avrebbe più potuto continuare la sua attività importante presso un ente pubblico, l'Amministrazione provinciale. Sorse in me e anche in lei l'idea dell'aborto il quale però non era ancora stato reso lecito.

Che fare? Possiamo andare in Svizzera, pensammo. Presi contatto con una struttura elvetica e mi accordai anche sulla data dell'intervento. Avvicinandosi la quale io e la mia consorte cominciammo ad avere titubanze che crebbero quotidianamente.

SCELTA GIUSTA? Non discutevamo d'altro in casa mia mentre la pancia di Enoe (mia moglie) non faceva che crescere.

Una sera ero un po' nervoso, anzi turbato, lei mi interrogò, la solita domanda imbarazzante: ma sei sicuro chela nostra scelta sia quella giusta? Risposi: certamente amore, sono sicuro che stiamo facendo una incredibile puttanata. Enoe annuì e si mise a singhiozzare. Non riusciva a digerire la situazione che si andava profilando. Le presi la mano e gliela accarezzai, poi le sussurrai mentre il mio cuore sobbalzava: senti amore mio, a me i bambini hanno sempre portato fortuna, ho un lavoro importante e ben retribuito, rinunceremo al tuo stipendio, io mi adopererò per non far mancare nulla alla mia famiglia. Teniamoci anche questo quarto rompicoglioni e che sia finita ogni tribolazione. Ci abbracciammo come due sposini, poi disdissi l'appuntamento svizzero e provai un sollievo liberatorio. Basta col tormento che mi procurava l'ipotesi di stroncare una creaturina che non era neanche in grado di opporsi e di protestare. L'abbiamo concepita ed è nostro dovere farla nascere nel migliore dei modi e provvedere a lei come abbiamo fatto con gli altri tre bambini a cui ci dedichiamo con tutto il nostro impegno. La gestazione filò liscia fino all'ultimo giorno quando Enoe ebbe le doglie. Senza tentennare la caricai in macchina e la condussi di fretta all'ospedale. La ricoverarono immediatamente mentre io mi intrattenni negli uffici amministrativi per il disbrigo delle pratiche burocratiche.

IL MIRACOLO Quando risalii nel reparto mi venne incontro una giovane infermiera che teneva tra le braccia un fagottino: con entusiasmo mi disse, ecco è nata la sua bambina. Guardai la piccola come si osserva un gioiello. Mi sembrava un miracolo. E pensare che aveva rischiato di finire in un bidone della spazzatura. La presi in braccio un attimo con titubanza, avevo paura di rovinarla, invece lei mi sorrise, anche se nessuno crede, ogni volta che racconto questo dettaglio, che una neonata sia già allegra. Oggi mia figlia ha 50 anni, due lauree, gestisce una farmacia, ha un figlio grande, e quando spesso viene a trovarmi la rivedo come il giorno che era appena uscita dal grembo materno. Lei non sa che sono stato sul punto di ucciderla. Allorché leggo sui giornali che la gente si lamenta perché in Italia le culle sono vuote, penso che l'aborto abbia contribuito a svuotarle.

Aborto: i perché di un figlicidio.

Di Antonio Giangrande domenica 26 giugno 2022.

La Corte suprema degli Stati Uniti ha ribaltato la storica sentenza Roe contro Wade del 1973, annullando così il diritto costituzionale Usa all'aborto. In questo modo ha sentenziato che ogni Stato ha la competenza di legiferare in riferimento all'interruzione della gravidanza.

In base al dibattito che ne è scaturito sorgono delle domande spontanee.

1 Perché i media politicizzati, fomentando dibattiti e polemiche, oltre che proteste, hanno fatto passare il messaggio che la sentenza riguardasse l’abolizione dell’aborto e non la libertà di scelta di ciascuno Stato?

2 Perché nei talk show il dibattito era palesemente schierato a favore dell’aborto ed al diritto costituzionale al figlicidio, considerando la sentenza un arretramento della civiltà? Perché tutelare la vita del figlio è incivile e retrogrado?

3 Perché nel paese più civile al mondo si considerano incivili da una parte la vendita delle armi libere che causano morti e dall’altra parte la libertà di scelta di ogni Stato a vietare la morte dei nascituri?

4 Perché la sinistra fa sua la battaglia sull’aborto, confermando quel detto sui comunisti che mangiano i bambini, non foss’altro che, intanto, ne agevolano la morte?

5 Perché è primario il diritto della donna all’aborto, violando l’istinto naturale materno alla difesa dei cuccioli, rispetto al diritto alla vita del nascituro?

6 Perchè il diritto all'aborto della donna va pari passo al diritto della donna alla libera sessualità, irresponsabile degli eventi?

7 Perché è diritto della sola donna decidere sulla vita del nascituro, tenuto conto che c’è sempre un uomo che ha avuto rilevanza fondamentale alla fecondazione? E perché, se il figlio non lo si vuole per problemi economici e/o sociali, non si fa un regalo a coppie sfortunate che la gioia di un figlio non la possono avere?

8 Perché una vita deve essere sindacata in base alla cronologia dello sviluppo e non in base all’esistenza?

9 Perché un delitto viene punito in base all'evolversi del diritto politico alla morte e non al diritto naturale alla vita?

Assumono denominazioni specifiche l’uccisione del padre (parricidio), della madre (matricidio), del coniuge (uxoricidio), di bambini (infanticidio), del fratello o sorella (fratricidio), del sovrano (regicidio), di una donna (femminicidio).

Si noti bene: il politicamente corretto elude il termine figlicidio, scaturente dal reato di aborto.

La scriminante è la carta del pepe.

Si dibatte quando, l'embrione, prima, ed il feto, poi, ha valore di nascituro.

Il diritto alla vita dell'embrione e del feto nascente: futuri nascituri di fatto.

10 Perché il dispositivo dell'art. 544 bis Codice Penale prevede: “Chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale è punito con la reclusione da quattro mesi a due anni”; mentre per l’omicidio del nascituro la sinistra si batte per l’immunità dell'omicida?

(1) Tale articolo è stato inserito dalla l. 20 luglio 2004, n. 189.

(2) La l. 20 luglio 2004, n. 189 ha previsto una serie di ipotesi in cui sussiste per presunzione la necessità sociale. Si tratta della caccia, pesca, allevamento, trasporto, macellazione, sperimentazione scientifica, giardini zoologici, etc. (art. 19ter disp.att.).

(3) Il trattamento sanzionatorio prima previsto nei limiti di tre e diciotto mesi di reclusione è stato innalzato secondo quanto previsto dall'art. 3, comma 1, lett a), della l. 4 novembre 2012, n. 201.

Ratio Legis

La norma è stata introdotta al fine di apprestare una tutela più incisiva agli animali, i quali però non ricevono copertura legislativa diretta, rimanendo ferma la tradizionale impostazione che nega un certo grado di soggettività anche agli animali. Di conseguenza risulta qui garantito il rispetto del sentimento per gli animali, inteso come sentimento di pietà.

In conclusione: perchè per gli animali si ha sentimento di pietà e per i nascituri viene negata l'umana misericordia?

Luca Telese per tpi.it il 30 luglio 2022.

Voi anti-abortisti italiani gioite per la sentenza della Corte americana: si può festeggiare perché si toglie un diritto alla donne??

«Semplice. Questo diritto non esiste». 

Non esiste, dici??

«Cito il Santo Padre: “Abortire equivale ad assoldare un sicario per uccidere qualcuno”». 

Non usare papa Francesco per eludere il tema e coprirti.?

«Non ne ho nessun bisogno. Cito un pensatore ateo e marxista, Pier Paolo Pasolini: “Sono traumatizzato dalla decisione di legalizzare l’aborto, perché equivale a legalizzare l’omicidio”, Corsera, 19 gennaio 1975». 

Ancora con questo collage di frasi ad effetto? Eludi il punto della mia domanda: tu neghi il diritto della donna a decidere.?

«Nessuno ha diritto di  sopprimere una vita. Si chiama “omicidio”». 

Non è una intervista, quella con Mario Adinolfi sull’aborto. È un corpo a corpo. Ed infatti il leader del Popolo della Famiglia spiega in questo dialogo senza mezze misure, la sua certezza: «Il vento americano diventerà un progetto politico anche in Italia». 

La natura, che tanto vi piace invocare come giudice ha assegnato il poter di far nascere alla donna. Accettatelo.?

«Balle. Se non vuoi diventare omicida devi essere obbligata a consentire che il bimbo nasca». 

Ci vuoi portare in un moderno medioevo in cui gli integralisti decidono per gli altri? Ottimo.?

«Voi laici, casomai, usate l’aborto come strumento di contraccezione». 

Quindi qualsiasi ovulo fecondato per te è vita. Anche eliminare un ovulo fecondato è omicidio??

«È evidente». 

Quindi per te una gravidanza nata da uno stupro etnico va portata a termine? O non ci credi o sei matto.?

«Ancora con questa argomentazione ridicola dello stupro? Che pena…». 

Dici che è ridicola perché non sai cosa rispondere.?

«So benissimo cosa rispondere. Primo, è un caso assolutamente anomalo e raro. Secondo: capisco che una donna possa non voler crescere il frutto di una violenza…». 

Bontà tua.?

«…Ma può affidarlo ad altri. L’importante è che il bimbo nasca». 

Per fanatismo ignori che quel bambino è figlio dell’odio, non dell’amore.?

«Il tuo laicismo ti impedisce di capire che il bambino è incolpevole, e il suo diritto va difeso ad ogni costo». 

Quindi, in questa tua visione tribale, la donna è solo un contenitore. Va costretta a portare a termine gravidanze indesiderate se la tribù e i maschi lo pretendono.?

«Ti sei già ridotto ad utilizzare le vecchie stanche argomentazioni del femminismo ideologico, sei messo male». 

Tu pensi di parlare in nome di Dio, ma rappresenti una sparuta minoranza integralista.?

«Sai che solo un bambino su sei, tra tutti i concepiti, vede la luce?». 

Per fortuna lo Stato laico impedisce ai fanatici come te di imporre alle donne che fare.?

«Eludi il vero tema: nove volte su dieci, giovani donne rinunciano ai loro figli per ragioni futilissime, diciamo pure del cazzo». 

Un figlio non è bestiame da allevamento, ma il frutto di un amore, di un progetto. Mi meraviglio che un cattolico dimentichi questo. Avete l’ossessione del controllo sul corpo delle donne.?

«Sono come uno che per strada interviene per fermare un omicidio». 

Per tua disgrazia, la legge 194 dice che nessuna autorità religiosa, o politica ha questo diritto.?

«Oggi in America non è più così. Una Costituzione va bene quando garantisce un diritto delle donne e male se riconosce il diritto di un bambino?». 

La Costituzione non assegna mai il diritto di decidere al mullah Omar, al Papa, a qualche Ayatollah, o alla barba di Mario Adinolfi.?

«È straordinario che tu ricorra a ridicoli espedienti dialettici per evitare l’unica argomentazione che non sai eludere: è il primo concepimento il giorno in cui la vita prende forma».

L’aborto non è un valore. È drammatica necessità. Quindi tu preferisci tornare ai ferri da calza e alle mammane, alla clandestinità, alle donne morte per setticemia??

«Un omicidio commesso senza spargere sangue e senza sofferenza è meno grave?». 

La 194 pone limiti, definisce percorsi, fornisce assistenza alle donne.?

«La 194 va cancellata con il Napalm: l’assistenza, i consultori… balle! È una legge che maschera la possibilità di uccidere».

Io non pretendo di decidere per gli altri, come te. Non sei il capo di una Chiesa, non puoi arrogarti  il diritto di prescrivere precetti.?

«Voi non capite: il vento è cambiato. La sentenza della Corte americana vi dice questo». 

Questo “Voi” non esiste: sono un cittadino come te. Evita di attribuirmi la seconda persona plurale, o di usarla tu, come i matti.?

«Di nuovo fingi di non capire cosa ti dico: l’abortismo è un frutto avvelenato degli anni Settanta. Vecchia ideologia. L’Occidente che va verso crescita zero non può più permettersi l’olocausto dei suoi figli». 

Insisti con questo transfert allucinato? Non sono figli tuoi, né di altri. Sono delle donne che li portano in grembo, talvolta dei loro padri. È la donna che dà la vita: se tu avessi l’utero potresti reclamare diritti. Purtroppo ne sei privo.?

«Che pena. Ci manca solo che ti metta a gridare “l’utero e mio e me lo gestisco io”». 

Sei tu che dici: “l’utero e mio”. Quello altrui, però.?

«Torno al punto vero: la difesa della vita diventa, dopo la sentenza americana, la grande battaglia etica di questi tempi. C’è un nuovo, enorme consenso, intorno all’antiabortismo:  voi laicisti nemmeno lo immaginate». 

Se pensate che questo consenso ci sia, contatevi. Lo avete già fatto, però: in Italia la democrazia e i referendum hanno decretato che gli italiani sono favorevoli, nei limiti della 194, a riconoscere questo diritto: alle donne, e non ai predicatori come te.?

«Si parla da giorni del comizio della Meloni in Spagna, e non vi siete neanche accorti che le sue parole chiave erano sull’aborto: “Sì alla cultura della vita / no alla morte”». 

Convinci Fdi, raccogliete le firme per un referendum abrogativo. Auguri.?

«Hai poco da scherzare: dopo la vittoria in America questo è già uno dei grandi temi, se non il grande tema delle prossime politiche: una nuova generazione fa del diritto alla vita la sua missione». 

Mettetevi le corna sulla testa, come a Capitol Hill e assaltate i consultori.?

«Ecco la vostra arroganza: voi laicisti difendete la cultura della morte, ma siete buoni carini e legittimati. Noi, che difendiamo la vita, invece, siano brutti sporchi e cattivi. E con le corna». 

A Verona il vescovo che pretendeva di chiamare  gli elettori ad una nuova crociata, in nome del nuovo integralismo, ha perso. Prova a cancellare il divorzio, già che ci sei.?

«(Sorriso). Una battaglia alla volta». 

Proprio tu che sei divorziato, vuoi dire agli altri cosa devono fare delle loro vite??

«Sei meschino».

Logico, semmai.?

«Proprio perché ho una mia esperienza di vita posso dirlo: l’Italia senza il divorzio era più bella e più sana di questa». 

Decanti sui social la bellezza della tua nuova unione, ma vuoi impedire agli altri di trovare la compagna della loro vita se hanno sbagliato?

?«Non ridicolizzare tutto. Come un ex drogato può spiegare meglio di tutti gli effetti perversi della droga, così io posso spiegare meglio il dramma del divorzio». 

Sei neo-medievale. Speri di poter  imporre ad altri cosa fare?

«Vi siete svegliati, ma tardi. C’è una nuova generazione in campo: li dipingete con le corna, brutti, fanatici e cattivi. Ma vinceranno. Rassegnatevi».

L’aborto volontario è un omicidio. Dopo la sentenza Usa, si riapre il dibattito sull’interruzione di gravidanza. Franco Battaglia su Nicolaporro.it l'1 Luglio 2022

Chi è contrario all’aborto invoca il principio di sacralità della vita, chi è a favore invoca il principio di autodeterminazione della donna. Se ragioniamo liberi da ogni condizionamento ideologico, dobbiamo innanzitutto sottoporre a critica i due principi appena nominati; anzi, meglio, non dobbiamo neanche considerarli. Un’etica veramente libera da condizionamenti ideologici non pone prescrizioni a priori, immutabili e assolute. L’unica prescrizione è quella di non avere altre prescrizioni di quelle che contraddicono il fine stesso dell’indagine etica: la ricerca del benessere e della libertà, con ognuno giudice di sé stesso, a condizione (questo è importante) che la stessa libertà venga riconosciuta all’altro.

Non mi è riconosciuta la libertà di ucciderti (anche se questa azione, per qualche ragione, dovesse procurarmi soddisfazione e benessere) perché io non son disposto a riconoscere a te la libertà di uccidermi. Per cui non è certamente lecito che una donna sostenga di voler uccidere il bimbo appena nato, in quanto non pronta alla maternità (autodeterminazione) o esposta, in conseguenza della maternità, ad una condizione di squilibrio psichico (diritto alla salute). 

Ci si può ora chiedere: forse ciò che non è lecito il giorno della nascita sarebbe lecito il giorno precedente? Non è difficile argomentare ed arrivare ad una risposta negativa. Ma è possibile continuare ad andare a ritroso nel tempo e “dedurre” l’illeicità della soppressione dell’embrione sino alla fecondazione dell’ovulo? Ecco: questo non sembra possibile. Si può argomentare che nelle prime due settimane del suo sviluppo l’embrione non può essere tutelato come “individuo ragionevole” perché certamente, sino a quello stadio, non è un individuo, non avendo ancora deciso se deperire, come avviene per l’80% degli embrioni, o cosa essere (una forma tumorale, un bimbo, più gemelli), né ha capacità raziocinanti, essendo privo di tessuto nervoso e di cervello. 

Ma dopo la seconda settimana di sviluppo l’embrione ha certamente le caratteristiche dell’individualità e a due mesi dalla fecondazione esso è già una miniatura umana. Certo, il suo sviluppo futuro dipende dalla madre con la quale esso è in interazione. Ma anche lo sviluppo futuro (e la vita) di un bimbo appena nato dipende da qualcuno che se ne curi. 

Il principio di sacralità della vita non sembra essere applicabile prima della seconda settimana di sviluppo di un embrione, quello di autodeterminazione e di salvaguardia della salute della donna non sembra esserlo dopo l’ottava settimana (ad esclusione, naturalmente, del caso in cui dovesse essere in pericolo la vita stessa della donna). Insomma, vi è un salto di qualità tra ciò che è nelle prime due settimane dopo la fecondazione e ciò che è dopo. 

E ciò che è dopo non differisce qualitativamente da ciò che alla fine nascerà. Poste così le cose, quella dell’aborto oltre la seconda settimana dalla fecondazione è una pratica barbara, ammantata di diritti della donna e di progresso della civiltà solo per nascondere, per convenienza, ciò che essa veramente è: un omicidio. Oggi la ricerca farmacologica mette a disposizione strumenti tali che non giustificano più il dover ricorrere all’aborto, che appare così una pratica primitiva. Naturalmente il problema etico sollevato da chi ritiene la cosa inaccettabile fin dal primo giorno del concepimento è degno del massimo rispetto ma, temo, non ha soluzione o, comunque, io non ne vedo una. Sicuramente però l’aborto oggi, così com’è praticato, non ha più alcuna giustificazione. Franco Battaglia, 1 luglio 2022

Il Razzismo. Erano entrati clandestinamente dal Messico. Strage di immigrati negli Stati Uniti, 46 persone trovate morte per il caldo in un camion nel Texas. Redazione su Il Riformista il 28 Giugno 2022 

Sono 46 le persone trovate senza vita, una ventina invece quelle ferite, all’interno di un camion a San Antonio, in Texas. 

Si tratta di un gruppo di immigrati illegali, entrati nel Paese dopo un viaggio della disperazione dal Messico. Come riporta il New York Times, quello avvenuto oggi è il peggiore incidente riguardante immigrati degli ultimi anni. Il Texas sta sperimentando una forte ondata di migranti e nelle ultime settimane anche un caldo torrido, che potrebbe forse essere la causa dell’ultima tragedia. Le autorità federali stanno assistendo quelle locali nelle indagini.

A scoprire il furgone gli agenti della Homeland Security Investigation, agenzia specializzata nei casi di traffico di esseri umani. Scomparso invece l’autista del mezzo, che lo ha abbandonato dopo aver scoperto i corpi senza vita al suo interno.

“E’ una tragedia. Ci sono 46 persone che avevano una famiglia e cercavano una vita migliore”, ha detto il sindaco di San Antonio Ron Nirenberg, che pur non specificando la nazionalità dei morti o il numero di minori presenti nel veicolo, ha affermato che si tratta di migranti che avevano attraversato il confine tra Stati Uniti e Messico.

Una strage che per il governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, vede la responsabilità del presidente Joe Biden: “Queste morti sono di Biden: sono il risultato delle politiche mortali dei confini aperti e mostrano le conseguenze del suo rifiuto di attuare la legge“, ha twittato il governatore dello Stato.

L’incidente riporta alla memoria quello simile del 2003, quando 19 migranti illegali furono trovati morti in un camion all’interno del quale la temperatura era salita fino a 78 gradi

(ANSA il 16 maggio 2022. ) - Altre due sparatorie e altri morti. Si allunga lascia di sangue negli Stati Uniti, in un fine settimana contrassegnato dal massacro nel supermercato di Buffalo, dove un diciottenne suprematista ha aperto il fuoco e ucciso dieci persone per motivi razziali. 

Nel sud della California, nella comunità per pensionati di Laguna Woods, un uomo apre il fuoco in una chiesa, la Geneva Presbyterian: il bilancio è di un morto e quattro feriti in condizioni critiche.

In Texas vicino a Houston una lite fra cinque uomini di trasforma in tragedia, con due morti e tre feriti. Ma il bilancio poteva essere ben peggiore visto che gli spari sono volati in un affollato mercatino delle pulci. 

"Nessuno deve avere paura a recarsi nel suo luogo di preghiera", afferma il governatore della California Gavin Newsom. L'incidente è avvenuto intorno alle 13.30 locali: il rapido intervento della polizia ha consentito di fermare il sospettato e recuperare l'arma usata.

Una persona è deceduta sul colpo, mentre i quattro feriti sono stati trasportati in ospedale. Si tratta di tutti adulti, rassicura la polizia spiegando come il motivo scatenante del gesto folle non è ancora chiaro. In Texas si è invece sfiorata la tragedia. In un mercatino con più di 1.000 persona a fare shopping di domenica pomeriggio, cinque uomini hanno aperto il fuoco in seguito a una lite.

"Al momento sembra che i feriti, così come i due morti, siano tutti parte del litigio. Nessun innocente è stato colpito. Almeno due pistole sono state recuperate sulla scena", riferiscono le autorità della Harris County. I due incidenti culminano un fine settimana di terrore, con la tragedia di Buffalo tornata a scuotere l'America. Joe Biden sarà nella città dello stato di New York martedì: vestirà i panni del consoler-in-chief prima di partire per l'Asia.

Guido Olimpo per corriere.it il 15 maggio 2022.

Il giovane di Buffalo ha intrapreso il suo sentiero di guerra ispirandosi a chi lo ha preceduto. Almeno questo ciò ha scritto in un manifesto di oltre 100 pagine. Non sappiamo con certezza che sia il suo, ma la polizia lo sta esaminando. Gli sparatori di massa copiano altri per ragioni ideologiche o semplicemente «terroristiche», seguono dei modelli, adottano un modus operandi, studiano per esaltarsi e trovare «scuse».

L’assassino (identificato come Payton Gendron), di appena 18 anni, ha imitato lo stragista della Nuova Zelanda, Breton Tarrant , autore dell’assalto contro due moschee nel marzo 2019. Una cinquantina di morti. Anche lui un estremista, convinto che la razza bianca sia in pericolo, rimpiazzata e sostituita. Per questo aveva deciso di colpire i musulmani. Si è armato, ha indossato una telecamera per filmare l’azione, è salito in auto, ha raggiunto i target ed ha aperto il fuoco.

Alla fine lo hanno preso. L’omicida di Buffalo non solo ha copiato, ma ha scritto in modo chiaro che Tarrant ha rappresentato il suo faro ideologico. È già avvenuto in passato. Quindi ha citato altri responsabili di attacchi xenofobi e nella lista del suo presunto documento ha citato anche Luca Traini , l’uomo che sparò contro un gruppo di immigrati a Macerata. Dettagli che dovranno trovare conferme nel lavoro degli investigatori alle prese con una minaccia dilagante.

A Dallas indagano su spari contro negozi gestiti da asiatici. La molla dei raid è spaccare, dividere, gettare benzina sul fuoco delle tensioni. Sono come fendenti, nella speranza di innescare risposte dure. L’idea è sempre quella di un conflitto civile. E “giustificano” l’incursione contro degli innocenti usando teorie radicali, anti-semite, dietrologie e complottismi: non serve ripetere nei dettagli i contenuti del messaggio, sarebbe un errore e un favore alla propaganda criminale. C’è sempre l’elemento preparazione, la premeditazione, anche quando il soggetto è in preda a squilibri. Gendron afferma che i suoi genitori sono d’origine nord europea e italiana, scrive che il suo obiettivo era quello di costringere gli afro-americani o gli ispanici a partire, a lasciare l’America. Un odio unito a quello contro gli ebrei.

Il killer ha sostenuto di aver fatto «come qualsiasi americano», ha accumulato munizioni, ha acquistato un fucile Bushmaster XM 15 e un equipaggiamento militare, infine – attorno al gennaio 2022 - ha iniziato a pensare alla seconda fase. Quella dell’atto violento. È evidente – e non solo in questo episodio – come gli sparatori cerchino di adottare tecniche che permettano loro di provocare tante vittime. Si vestono da «guerrieri», costituiscono il loro arsenale, muovono come predatori. Alcuni sono pronti a morire, a farsi «suicidare» dagli agenti. Altri vogliono restare in vita, l’assassino di Buffalo lo ha aveva annunciato, aggiungendo la volontà di dichiararsi colpevole. Invece, una volta catturato, ha sostenuto il contrario.

Insieme all’azione la propaganda. Ecco la necessità di lasciare un testo, a disposizione di quanti condividono queste posizioni. È l’eredità, il testamento. Ecco il bisogno di filmare e rilanciare in streaming su internet ogni momento, compresi quelli più atroci con donne e uomini freddati. C’è poca differenza con i metodi dei jihadisti, ma anche con quelli di coloro che hanno compiuto eccidi senza un movente politico. Video e delirio concedono luce e fama sinistra agli autori, trasformano la belva in un personaggio. Forse, come altri assassini di massa, poteva essere fermato: nel 2021 Gendron aveva minacciato di attaccare il suo liceo, un segnale inquietante comunicato alla polizia. Non è raro che i «mutanti» lancino avvertimenti prima della «grande operazione», solo che non sono trattati con la dovuta determinazione.

La strage di Buffalo, i suprematisti e quelle teorie del complotto sul «genocidio dei bianchi». Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 15 maggio 2022.  

Non sono schegge isolate: la tesi della «Grande Sostituzione» (per cui le minoranze prenderanno il posto della maggioranza bianca) alimenta fenomeni di massa.

La strage nel supermercato degli afroamericani di Buffalo come quella nella sinagoga di Pittsburgh nel 2019, nella moschea di Christchurch in Nuova Zelanda lo stesso anno (50 morti), o il massacro di 23 ispanici in un grande magazzino Walmart di El Paso, in Texas. La causa immediata è sempre la stessa: la facilità con la quale ci si può procurare un’arma da assalto. E anche la matrice è comune: la diffusione delle teorie cospirative del suprematismo bianco, amplificato dalle paure innescate dai movimenti migratori e turbocompresso dai meccanismi virali che dominano blog e reti sociali nell’era digitale.

I sostenitori dei «complotti razziali»

Nelle 180 pagine del manifesto col quale Payton Gendron ha giustificato il suo attacco feroce è ossessivo il riferimento al «genocidio dei bianchi» e alla «grande sostituzione»: neri, popoli musulmani e ispanici che pian piano invadono l’Occidente emarginando i bianchi, destinati a divenire minoranza oppressa. Nulla di nuovo verrebbe da dire: già nel 1925, nel «Mein Kampf», Adolf Hitler denunciava l’aumento della popolazione di colore della Francia e agitava lo spettro della nascita di una nazione africana al centro dell’Europa.

Anche gli Stati Uniti hanno una lunga storia di teorie su complotti razziali: da Theodore Bilbo, un politico democratico che fu anche governatore del Mississippi e che nel 1947 pubblicò un saggio con l’eloquente titolo «Separati o bastardi», al neonazista David Lane, fondatore del gruppo terrorista The Order, che nel suo manifesto del 1995, «White Genocide», sostenne che mescolanza razziale, aborto e omosessualità indeboliscono la «razza caucasica» mentre molti governi occidentali, infiltrati dai sionisti, incoraggiano questo genocidio distruggendo la cultura europea bianca.

Effetto eco

Estremisti e cospirazionisti sono sempre esistiti, ma come fenomeni marginali, spesso derubricati a manifestazioni folcloristiche, dai terrapiattisti al mondo controllato dalla setta degli Illuminati. Le cose sono cambiate negli ultimi decenni con le tecnologie digitali e l’«effetto eco» delle reti sociali che, per molti, sono un canale per affrontare un problema magari reale ma complesso (come gli squilibri demografici) in modo semplicistico, individuando colpevoli inesistenti e proponendo soluzioni folli.

Così le teorie cospirative, un tempo sostenuti da piccole sette, sono divenute fenomeni di massa con la nascita di movimenti come QAnon: un fattore ormai rilevante anche nel dibattito politico ovunque in Occidente. Di recente la teoria cospirativa che si è diffusa maggiormente è proprio quella del «Great Replacement»: l’interpretazione della crescita delle minoranze e dei fenomeni migratori come frutto di una congiura degli stessi governi occidentali per spazzare via la cultura e l’egemonia politica dei bianchi.

Da Camus a Trump

Proposta in un saggio del 2011 dall’accademico francese Renaud Camus, la Grande Sostituzione ha fatto proseliti nell’estrema destra europea e poi ha varcato l’Atlantico: era la bandiera dei movimenti dei suprematisti bianchi che nel 2017 si diedero appuntamento a Charlottesville per un raduno che finì in tragedia. È stata evocata più volte da Trump quando era alla Casa Bianca ed è il cavallo di battaglia di Tucker Carlson, la star di Fox News, la tv della destra Usa, che accusa Biden di aprire le porte agli immigrati del Terzo mondo per importare elettori democratici.

Il risultato sono le stragi delle schegge impazzite e gli assalti alla democrazia: gli insorti che un anno e mezzo fa hanno invaso il Congresso di Washington hanno detto, in maggioranza, di credere che l’America stia scivolando verso la «Grande Sostituzione».

Cos'è la teoria della «Grande sostituzione», e perché è pericolosa. Elena Tebano su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.

Il premier ungherese Viktor Orbán ha fatto riferimento a un supposto piano per «sostituire» i bianchi cristiani con gli immigrati. È un’idea professata anche da molti terroristi di estrema destra americani, ma arriva originariamente della Francia.

Nel discorso ai deputati dopo le elezioni parlamentari che hanno riconfermato l’ampia maggioranza del suo partito, Fidesz, il premier ungherese Viktor Orbán (ormai al quarto mandato) ha attaccato l’Occidente, che a suo dire sta «tentando il suicidio» per una serie di supposte colpe: «Il vasto piano di scambio della popolazione occidentale, che cerca di sostituire i bambini cristiani non ancora nati con migranti; la follia del genere, che vede nell’uomo il creatore della propria identità sessuale; un programma di un’Europa liberale che trascende gli Stati-nazione e il cristianesimo». 

Parole che sono suonate particolarmente stridenti in un momento in cui l’Unione europea e le democrazie occidentali, lungi dal «tentare il suicidio», sono impegnate a difendere i propri valori e principi costitutivi contrastando l’invasione illegale dell’Ucraina da parte dell’amico di Orbán Vladimir Putin. 

A qualcuno quelle parole saranno suonate anche familiari: riprendono un concetto, «la grande sostituzione», che in questi giorni è riecheggiato molte volte al di là dell’Oceano, negli Stati Uniti. 

Lo ha usato l’attentatore di Buffalo, il terrorista di estrema destra che sabato ha ucciso dieci persone e ne ha ferite altre tre in supermercato di un quartiere nero nella città dello Stato di New York. Payton S. Gendron, questo il nome del suprematista bianco, ha lasciato un manifesto di 180 pagine in cui dichiara di essere un sostenitore della «grande sostituzione», ovvero la teoria complottista che esista un piano per «sostituire» i bianchi con altre «razze», cioè neri, latinos o immigrati musulmani (a seconda delle versioni). 

Non è un’idea nuova: compariva anche nei manifesti di altri stragisti di massa di estrema destra, come quello che nel marzo 2019 ha ucciso 51 persone durante la preghiera del venerdì in due moschee di Christchurch, in Nuova Zelanda, e quello che nell'agosto del 2019 ha preso di mira i latinos in un supermercato Walmart di El Paso, in Texas, uccidendo 22 persone e ferendone 24. 

Nel frattempo però è cambiato tutto: tre anni fa negli Stati Uniti la teoria complottista della «grande sostituzione» era ancora un’«idea marginale» che circolava sui siti cospirazionisti di QAnon (il movimento di estrema destra che ha promosso l’attacco al congresso statunitense del 6 gennaio, nel tentativo di annullare il risultato di elezioni legittime). Ora è diventata «mainstream», si è cioè diffusa nel discorso pubblico dominante. 

A renderla popolare, come spiega Vanity Fair Us, è stato il giornalista filorepubblicano di Fox News Tucker Carlson (che secondo il New York Times, come ha scritto Massimo Gaggi, potrebbe candidarsi e proporsi come erede di Donald Trump). «Il Partito Democratico sta cercando di sostituire l’attuale elettorato, gli elettori che ora votano, con nuove persone, elettori più obbedienti provenienti dal Terzo Mondo» diceva Carlson nell’aprile dell’anno scorso nel suo programma, che denunciava una supposta «mania anti-bianca» e invitava a «salvare questo Paese... prima che diventiamo il Ruanda» (quel presunto salvatore della Patria, secondo Carlson, era ed è Trump). Argomenti simili sulla sostituzione dell’elettorato sono stati usati anche da Elise Stefanik, la terza deputata repubblicana per importanza alla Camera dei rappresentanti americana. 

La teoria della «grande sostituzione» però non è originaria degli Stati Uniti: è nata in Europa, dove è da tempo uno dei luoghi comuni del sovranismo. Orbán non è l’unico ad averla fatta sua: la leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni la evocava già nel 2016 (in questo tweet per esempio, in cui parla di «prove generali di sostituzione etnica in Italia» confrontando emigranti e immigrati). 

Il termine viene dalla Francia: Le grand remplacement è il titolo di un libro del 2012 dello scrittore Renaud Camus (che non è né un parente né un buon sostituto di Albert Camus), un intellettuale gay che in gioventù ha frequentato Roland Barthes e Andy Warhol e ora vive in un castello in Occitania. Camus, dapprima sostenitore di Marine Le Pen e poi convertitosi a Éric Zemmour alle ultime elezioni, è convinto che ci sia un piano per islamizzare la Francia e che tutti i Paesi occidentali corrano un pericolo simile (per esempio gli Stati Uniti con gli immigrati latinos). 

«La Grande Sostituzione è molto semplice. Ora c’è un popolo, e nello spazio di una generazione ce ne sarà un altro» ha affermato. Alla base di questa teoria c’è la concezione antimoderna ed essenzialista della «purezza» non ibridabile dei popoli («L’essenza stessa della modernità è il fatto che tutto, e davvero tutto, può essere sostituito da qualcos’altro, il che è assolutamente mostruoso» ha dichiarato Camus, che è anche uno strenuo difensore della Francia rurale). Anche questa idea di purezza è familiare: la pericolosa genialità di Camus è che ha rivitalizzato con un linguaggio nuovo idee tristemente note. 

«In realtà è la stessa ideologia della cospirazione del Nuovo Ordine Mondiale, l’idea del governo di occupazione sionista, che è il modo in cui se ne parlava negli anni Ottanta e Novanta. Ne vediamo versioni che risalgono al movimento eugenetico dei primi del Novecento, agli scritti di Madison Grant e a cose come “I Protocolli degli Anziani di Sion”. Si tratta dello stesso insieme di credenze» spiega sul New Yorker la professoressa dell’Università di Chicago e studiosa del suprematismo bianco Kathleen Belew. 

«L’idea è semplicemente che molti tipi diversi di cambiamento sociale siano collegati a un complotto di una setta elitaria per sradicare la razza bianca, che i membri di questo movimento ritengono essere la loro nazione. Collega cose come l’aborto, l’immigrazione, i diritti degli omosessuali, il femminismo, l’integrazione residenziale: tutto ciò è visto come parte di una serie di minacce al tasso di natalità bianca». Adottare la nozione di «grande sostituzione», che lo si espliciti o no, significa di fatto sottoscrivere questa tradizione. E ripulirla dagli elementi omofobi e antisemiti, come ha fatto Camus, non significa renderla meno sbagliata e pericolosa.

«Dietro la sparatoria in California l’odio contro Taiwan di un immigrato cinese negli Stati Uniti». Guido Olimpio su Corriere della Sera il 16 maggio 2022.

L’odio verso Taiwan. Sarebbe questo il movente dell’attacco avvenuto domenica nella chiesa di . Responsabile dell’aggressione David Chou, 69 anni, origini cinesi, residente a Las Vegas. Secondo lo Sceriffo l’uomo era infuriato per la crisi tra Pechino e il governo dell’isola, dunque ha deciso di compiere un gesto violento. Infatti ha scelto come obbiettivo una cerimonia religiosa della comunità taiwanese dell’Orange County. Chou è entrato nel tempio con due pistole, quindi ha iniziato a far fuoco. Un medico, che aveva accompagnato la madre alla festa, è stato colpito a morte. Sembra che abbia cercato di fermare lo sparatore. Altre 4 persone sono rimaste ferite in modo serio. L’assalto avrebbe potuto avere conseguenze più gravi, ma il killer è stato neutralizzato dai presenti. Uno gli ha lanciato una sedia, altri lo hanno immobilizzato con una corda per poi consegnarlo alla prima pattuglia arrivata sul posto. Secondo gli inquirenti l’omicida avrebbe cercato di bloccare le porte con catene e un potente collante mentre attorno all’edificio sono state trovate delle bottiglie Molotov. Probabile che volesse usarle in un secondo momento. Tutti indizi evidenti di una premeditazione, di un piano per fare danni.

La storia racchiude diversi aspetti. Intanto la motivazione: la crisi asiatica che innesca violenza all’interno dei confini americani. Circostanza inusuale. Quindi la mossa di Chou: sarà da capire se insieme alla molla politica non vi siano aspetti più personali. In eventi come questo è sempre opportuno dare tempo alle indagini, non di rado il quadro iniziale cambia. Infine l’elemento temporale. L’episodio è avvenuto all’indomani della strage di Buffalo, compiuta da un suprematista bianco di 18 anni. Anche lui animato dall’odio verso gli altri.

Guido Olimpio per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2022.

L'odio verso Taiwan, i problemi personali, un carattere difficile. E la volontà di usare delle armi: c'è questo - e forse altro - nell'attacco avvenuto domenica nella chiesa di Laguna Woods, in California. Gesto costato la vita ad un medico.

Al centro c'è David Chou, un cittadino dalla vita movimentata. Nato in Cina 69 anni fa, si è trasferito a Taiwan, quindi è emigrato in cerca di fortuna negli Stati Uniti. Come altri si è spostato in diversi Stati per poi stabilirsi a Las Vegas, Nevada, dove ha lavorato come guardia privata. Gli ex vicini di casa ne danno una descrizione doppia: un tipo in apparenza gentile diventato sempre più scontroso, pronto a litigare per il parcheggio e questioni minime. 

Esistenza agitata dai guai in famiglia. La moglie, malata di cancro, lo ha lasciato per tornarsene a Taiwan e lui è stato sfrattato, riducendosi - secondo alcuni - a dormire sull'auto o in alloggi di fortuna. Poche le notizie al momento sui rapporti con il figlio, dottore in Texas.

Insieme a questi aspetti ne sono emersi poi altri, inusuali. Ma solo dopo che Mister Chou ha attuato il suo piano criminale. Domenica l'uomo ha raggiunto la cittadina di Laguna Woods e si è presentato ad una cerimonia in onore di un religioso d'origine taiwanese. È entrato nel tempio a metà mattina e si è fatto notare per un bisticcio che non gli ha impedito di restare.

Pare che lo abbiamo scambiato per uno della sicurezza.

Chou ha atteso paziente che i presenti si sedessero per il pranzo ed ha aperto il fuoco.

Uno sparo in aria seguito da quelli contro le persone. I suoi tiri hanno ferito cinque persone e ucciso un medico che aveva cercato di disarmarlo. L'omicida non è riuscito a fare altri danni per la reazione dei fedeli, lo hanno centrato con una sedia e poi legato con una corda.

La polizia è arrivata in forze ed ha scoperto che l'aggressore aveva studiato un'operazione più ambiziosa: aveva progettato di bloccare le porte usando catenacci e colla potente, inoltre si era portato dietro delle bottiglie Molotov.

Nella sua vettura le indicazioni sul possibile movente: l'avversione verso i taiwanesi. Un risentimento - ha spiegato Chou - legato a come sarebbe stato trattato (male) durante il suo periodo sull'isola e dalla convinzione che nella disputa Taiwan-Cina le ragioni siano dalla parte di Pechino. 

La storia è chiusa in una cornice allarmante. Intanto la motivazione: la crisi asiatica che innesca la sparatoria all'interno dei confini americani. Una nuova - presunta - «causa» di tensione in una grande comunità orientale.

Possibile che l'omicida abbia mescolato il risentimento politico alla rabbia per le sue traversie familiari, sentiero piuttosto frequente in questi episodi di violenza americani. Saranno gli inquirenti a cercare le risposte, è sempre opportuno dare tempo alle indagini poiché non di rado il quadro iniziale cambia. Infine l'elemento temporale.

Tutto è avvenuto all'indomani della strage di Buffalo, compiuta da un suprematista bianco di 18 anni. Anche lui animato dall'odio, un giovane che ha dedicato mesi alla progettazione del massacro preparando armi, studiando tattiche, travestendosi da «barbone» per spiare il futuro obiettivo, il supermarket dove ha freddato 10 innocenti. Un ciclo senza fine. A Dallas hanno annunciato l'arresto di un individuo che ha preso di mira negozi gestiti da coreani.

Il suprematista 18enne radicalizzato in lockdown. E una strage annunciata. Valeria Robecco il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'allarme del liceo: "Prepara una sparatoria". Era segnalato. I dem: subito stretta sulle armi.

Payton Gendron, il diciottenne suprematista che ha ucciso 10 persone con un fucile d'assalto in un supermercato di Buffalo, nello stato di New York, era motivato dall'odio, e si sarebbe ispirato al killer che nel 2019 ammazzò 50 persone a Christchurch, in Nuova Zelanda, attaccando una moschea e un centro islamico. L'Fbi e anche il dipartimento di Giustizia, come confermato dal ministro Merrick Garland, stanno indagando sulle strage come «crimine d'odio e atto di estremismo violento di matrice razziale». Mentre il presidente Joe Biden ha parlato di un «atto di terrorismo interno», «un crimine ripugnante e motivato dall'odio razziale perpetrato in nome della disgustosa ideologia del nazionalismo bianco». Per l'inquilino della Casa Bianca si è trattato di un atto «antitetico a tutto ciò che rappresenta l'America».

Gli investigatori stanno sentendo i testimoni e passando in rassegna i video della strage, incluso il filmato trasmesso dal giovane in live streaming su Twitch per alcuni minuti prima di essere sospeso. Le immagini mostrano che imbracciava un fucile con il numero 14, probabile riferimento allo slogan neonazista delle «Quattordici Parole», e con la scritta «nigger», la N-word impronunciabile negli Stati Uniti perché offensiva. Payton viene dalla cittadina di Conklin, sempre nello Stato di New York, e avrebbe guidato per oltre 300 km. Poi, armato fino ai denti, con indosso mimetica e giubbotto antiproiettile, ha iniziato a sparare a quattro persone fuori dal Tops Friendly Market, prima di aprire il fuoco all'interno. Proprio il supermercato scelto sembra confermare la pista razzista in quanto si trova in una zona a maggioranza nera di Buffalo, e fra i 10 morti e tre feriti, 11 sono afroamericani. Payton viene descritto dagli investigatori come un ragazzo «annoiato» che si sarebbe radicalizzato durante il periodo del lockdown su 4Chan, la stessa chat che ha lanciato QAnon. Al vaglio delle autorità ci sono ora tutte le sue attività online, e in particolare il manifesto di 180 pagine in cui descrive la sua «filosofia» e anticipa la strage: si definisce un fascista, un suprematista e un antisemita, e dichiara il suo appoggio alla teoria cospirazionista del «Great Replacement», ovvero la convinzione che i bianchi siano sostituiti nei loro paesi da immigrati non bianchi con il risultato dell'estinzione della razza. Nel manifesto Gerdon fa riferimento a Dylan Roof, il ragazzo che ha ucciso sei afroamericani in una chiesa in South Carolina, e anche a Luca Traini, autore dell'attacco razzista di Macerata del 2018 contro degli immigrati. Alcuni suoi compagni di classe hanno raccontato che spesso Payton si comportava in modo strano e aveva idee politiche estremiste: durante un'esercitazione al liceo, in cui si chiedeva agli studenti di creare un loro paese e scegliere la forma di governo, lui scelse un regime autocratico «stile Hitler».

Peraltro non è la prima volta che il 18enne finisce nel mirino delle autorità. Il Buffalo News scrive che nel giugno 2021 il suo liceo allertò la polizia in merito a un «ragazzo problematico che diceva di voler fare una sparatoria alla cerimonia di diploma o successivamente». La governatrice di New York, Kathy Hochul, ha rivelato che il ragazzo è stato monitorato dalle «autorità mediche» per «qualcosa che ha scritto al liceo». E ora la strage è destinata a riaccendere il dibattito su pistole e fucili: «Basta con la violenza delle armi da fuoco», ha sottolineato Hochul, mentre la speaker della Camera Nancy Pelosi è tornata a chiedere una stretta sulle armi.

Alberto Simoni per “la Stampa” il 16 maggio 2022.

Payton Gendron ha 18 anni ed è il ragazzo che sabato pomeriggio ha indossato una mimetica, un elmetto militare con videocamera in testa, imbracciato un fucile semiautomatico Ar-15 e ha sparato raffiche di colpi in modo indiscriminato in un negozio della catena Tops a Buffalo, Stato di New York, uccidendo 10 persone e ferendone tre. Undici delle persone colpite sono afro-americani. Poi nel parcheggio del supermarket si è inchinato e si è puntato l'arma sotto il mento.

Non ha fatto fuoco però e si è arresto ai poliziotti. Davanti al giudice si è dichiarato non colpevole. Giovedì tornerà in tribunale. Su di lui pesa anche l'ipotesi di un'accusa per terrorismo interno. Che si aggiunge a quella di crimini di matrice razziale. 

All'indomani della strage di Buffalo, l'America si trova a contare nuovamente le vittime di un mass shooting. Ce ne sono stati - dati Fbi - 28 dal 2000 al 2020, 78 persone sono state uccise. E sono in aumento dal 2017. I dati del 2021 confermano il trend tanto da far dire a Kamala Harris, vicepresidente Usa, che «c'è un'epidemia d'odio». 

Biden l'ha definito «un crimine ripugnante e motivato dall'odio razziale, antitetico a ogni cosa che rappresenta l'America». Nancy Pelosi e la governatrice dello Stato di New York, Kathy Hochul, hanno detto che serve una stretta sulle armi. Il fucile di Gendron è stato acquistato legalmente a New York. 

Ma il caricatore a grande capacità è fuorilegge. Eppure, il killer era riuscito ad averne più di uno e forse se li è procurati fuori dai confini statali. 

La pianificazione

Secondo gli inquirenti, Gendron ha studiato il piano da mesi. Da una settimana era in perlustrazione a Buffalo - lui che vive a Conklin, 200 miglia più a sud.

Il barbiere del centro commerciale, Daniel Love, l'aveva notato aggirarsi davanti al suo salone. «Sembrava uno di quelli che gironzolano per allacciarsi alla rete wi-fi gratuita».

L'ideologia

Ci sono due documenti che sono attribuiti a lui sparsi sul Web. Il primo è un manifesto di 180 pagine intriso di complottismo e che ricalca la cosiddetta "Great Replacement Theory", ovvero la sparizione dei bianchi a vantaggio delle attuali minoranze. 

Risale agli anni '40 ed è diventata la linfa per gruppi come il Ku Klux Klan. Ultimamente in alcuni ambienti dell'ultradestra radicale Usa è intesa come il metodo con cui i democratici vogliono sfruttare l'immigrazione per cambiare gli equilibri del Paese. 

La radicalizzazione

Il giovane Payton si sarebbe abbeverato a queste dottrine - prive di qualsiasi fondamento - leggendo forum on line, fra cui 4Chan la chat on line che ha lanciato QAnon. La polizia dice che l'inizio dell'indottrinamento è avvenuto durante il lockdown quando il ragazzo era «annoiato» dalla nuova vita di imposizioni e costrizioni. 

Ieri l'Fbi ha parlato con i genitori Paul e Pamela, due ingegneri, per fare luce anche su questo aspetto. Sui social e le chat, Payton avrebbe scoperto personaggi che prima di lui hanno imbracciato le armi nel nome della difesa della supremazia bianca.

Nelle pagine caricate su Google Drive compaiono infatti i nomi di Dylan Roof e di Brenton Tannant: sono gli autori dell'assalto alla chiesa di Charleston, in Sud Carolina, nel 2015; e del raid contro una moschea in Nuova Zelanda. C'è anche un cenno a Luca Traini, l'autore degli spari contro degli immigrati a Macerata nel 2018. 

Il suprematismo

I suoi sproloqui teorici sono tutti riconducibili a slogan suprematisti e antisemiti. Si proclamava fascista ed era terrorizzato dal rovesciamento degli equilibri demografici nella società americana. In un passaggio c'è scritto: «Sostengo coloro che vogliono un futuro per i bambini bianchi e l'esistenza della nostra gente». Che la sua mente fosse uscita dai binari lo aveva notato anche la sua scuola, la Suny Broome Community College, e gli ex compagni di classe: «Aveva idee estreme, scelse in un compito di classe di simulare un regime autocratico stile Adolf Hitler».

I precedenti Lo scorso anno aveva minacciato di sparare alla cerimonia di consegna dei diplomi. I dirigenti avevano chiamato la polizia e la storia era finita con la segnalazione del giovane presso l'ufficio di igiene mentale. Alcune fonti citate dalla Reuters si basano su questo episodio per dire che il ragazzo era noto da tempo. Ma di sicuro su di lui non c'era alcun tipo di controllo.

L'attacco finale

Un amico ha raccontato infatti che in novembre Payton era andato a sparare con lui nella tenuta di famiglia. «Abbiamo usato fucili Remington e Ar-15 di configurazione militare». 

Ma a quei tempi il suo atteggiamento era stato normale. In un secondo documento online, invece Payton ha descritto le minuzie del piano con tanto di diagrammi, schizzi, disegni, spostamenti e orari. E anche la scelta dell'obiettivo è avvenuta con una meticolosità incredibile. Ha scelto di colpire il Tops Friendly Markets di Buffalo perché è nel cuore del quartiere con la più alta concentrazione di afro-americani dello Stato. 

Per scoprirlo gli è bastato consultare i dati pubblici e mettere il zip code (il codice di avviamento postale in pratica, ndr). Da lì è uscita la radiografia del quartiere. Bersaglio perfetto per il suprematista di Conklin, dove il 95% della popolazione è bianca.  

10 morti, 3 feriti. Sul fucile semiautomatico le scritte "Nigger" e "14" (slogan suprematista). Chi è Payton Gendron, il 18enne autore della strage di Buffalo in diretta sui social: “La popolazione bianca sta diminuendo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 15 Maggio 2022. 

Si chiama Payton Gendron e ha 18 anni il suprematista bianco arrestato dopo la strage al supermercato Tops Friendly di Buffalo dove ha ucciso 10 persone, ferendone altre tre (undici sono afroamericane, due bianche). Abita a Conklin, nello stato di New York, a 320 chilometri dal luogo dove è avvenuta l’ennesima carneficina che ha sconvolto gli Stati Uniti e ha riaperto, ancora una volta, la questione relativa alla facilità con la quale ci si procura un’arma.

Oltre 70 i proiettili esplosi. Il 18enne ha realizzato la strage con un Ar-15, un fucile semiautomatico statunitense, sul quale c’erano le scritte “Nigger” (negro) e “14” in riferimento al più popolare slogan suprematista, le “14 parole” in inglese del messaggio traducibile come: “Noi dobbiamo assicurare l’esistenza del nostro popolo e il futuro per i bambini bianchi”. Slogan coniato da David Lane, membro di un gruppo terrorista suprematista bianco conosciuto come ‘The Order’, morto in carcere nel 2007.

Gendron, che è accusato di “crimine d’odio razziale e estremismo“, aveva annunciato tutto sui social, con tanto di diretta streaming su Twitch dell’attentato. In un manifesto di 106 pagine pubblicato di recente lamentava la diminuzione della popolazione bianca, così ha deciso di eliminare afroamericani. Non è chiaro perché il 18enne abbia deciso di colpire proprio in quella città e in un quel particolare supermercato.

Usa, uomo armato di fucile spara sulla folla in un supermercato in Colorado: 10 morti, uno è un poliziotto

Payton Gendron, che ha studiato per un periodo breve al Suny Broome Community College, era già noto agli archivi dalla polizia americana. Non è la prima volta infatti che finisce nel mirino delle autorità. Gia’ in passato era stato sotto indagine per minacce. Nel giugno del 2021 il suo liceo allertò la polizia in merito a un “ragazzo problematico che diceva di voler fare una sparatoria alla cerimonia di diploma o successivamente“, riferiscono alcun fonti al Buffalo News.

Sulla strage è intervenuto il governatore di New York, Kathy Hochul che si è scagliato contro i social media. “Le piattaforme devono essere responsabili di monitorare e sorvegliare” i contenuti, “consapevoli, in casi come questo, di poter essere ritenute complici. Forse non legalmente ma almeno moralmente”, afferma Hochul riferendosi ai contenuti online postati da Gendron.

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, in una nota pubblicata dalla Casa Bianca, ha espresso dolore per l’accaduto e gratitudine alle forze dell’ordine e ai soccorritori. “Non abbiamo bisogno di nient’altro per affermare una chiara verità morale: un crimine d’odio a sfondo razziale è ripugnante per il tessuto stesso di questa nazione. Qualsiasi atto di terrorismo interno, compreso un atto perpetrato in nome di una ripugnante ideologia nazionalista bianca, è antitetico a tutto ciò che sosteniamo in America. L’odio non deve avere un porto sicuro. Dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per porre fine al terrorismo interno alimentato dall’odio”, ha dichiarato Biden.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

La carneficina di Buffalo. Che cos’è la “Grande Sostituzione”, la teoria del complotto dell’estrema destra che ispira stragi razziste e omofobe. Antonio Lamorte su Il Riformista il 16 Maggio 2022.

Payton Gendron avrebbe scritto nelle 180 pagine di un manifesto a lui attribuito del “genocidio dei bianchi”, di un Occidente destinato a essere sopraffatto da neri, musulmani e ispanici, di un’invasione vera e propria. E perciò ha aperto il fuoco a Buffalo in un supermercato frequentato soprattutto da afroamericani causando dieci morti e tre feriti. Ha indossato una telecamera per filmare tutto. Ha 18 anni e con la sua azione terroristica non ha compiuto solo una strage ma aggiunto un altro capitolo a una propaganda complottista ed estremista.

Prima era stato il turno delle carneficine nella sinagoga di Pittsburgh, nella moschea di Christchurch in Nuova Zelanda, del magazzino Walmart di El Paso. La matrice era sempre la diffusione di idee radicali, cospirazioni da suprematismo bianco. Payton rivendica le sue origini nord europee e italiane. Avrebbe scritto che il suo obiettivo era spingere gli afro-americani e gli ispanici a partire, a lasciare l’America. Ha trasmesso la strage in diretta sulla piattaforma Twitch.

Gendron sarebbe stato animato, come scrive anche il Washington Post, dalla teoria complottista della sostituzione etnica, molto cara all’estrema destra sia negli Stati Uniti che in Europa, da un complotto globale ordito da governi e multinazionali contro i bianchi. Secondo il think tank svedese Khalifa Ihler Institute circa il 28 per cento del documento è stato copiato da un testo diffuso dal responsabile dell’attentato alle due moschee di Christchurch in cui furono uccise oltre 50 persone nel 2019, Brenton Tarrant. La teoria del complotto maturata negli ambienti dell’estrema destra è conosciuta come “Grande Sostituzione” – “Great Replacement” o “Grand Remplacement” – secondo la quale l’immigrazione di massa non è frutto di un moto spontaneo di persone ma il risultato di un deliberato piano di sostituzione delle popolazioni europee bianche e di fede cristiana con altre di origine extra-europea.

La teoria così come diventata virale oggi, in determinati ambienti estremisti, è stata avanzata in un saggio del 2011 dell’accademico francese Renaud Camus e da allora ha fatto il giro del mondo. Letture simili e precedenti erano state tra le altre quella di Theodore Bilbo, politico democratico statunitense, anche governatore del Mississippi, che nel 1947 pubblicò un saggio dal titolo Separati o bastardi. Il neonazista David Lane, fondatore dell’organizzazione terrorista “The Order“, scrisse invece il manifesto White Genocide nel 1995. Bersaglio delle pubblicazioni anche aborto, omosessualità, sionismo. La teoria della “Great Replacement” è stata citata anche dall’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e spesso rievocata dalla star di Fox News Tucker Carlson.

Gendron ha comprato munizioni e un fucile Bushmaster XM 15. Dopo essersi procurato l’equipaggiamento militare ha cominciato a programmare la seconda fase, quella dell’attacco vero e proprio. Viveva a Conklin, nello Stato di New York, e ha fatto oltre 300 chilometri per arrivare a Buffalo e sparare con un fucile d’assalto nel supermercato Tops. Secondo Associated Press a un certo punto ha puntato il fucile contro una persona bianca nascosta dietro un bancone prima di scusarsi e di rivolgere altrove la sua attenzione. Sul posto è intervenuta la polizia. Il 18enne si è puntato un’arma al collo e ha minacciato di uccidersi. Si è arreso a due agenti e davanti al tribunale si è dichiarato non colpevole. “Questa persona è venuta qui con l’obiettivo esplicito di uccidere il numero più alto possibile di neri”, ha detto il sindaco di Buffalo Byron Brown. In passato il 18enne era stato indagato per aver minacciato di compiere una sparatoria nel suo liceo, il Susquehanna High School di Conklin.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

(ANSA il 17 maggio 2022) - L'uomo arrestato per la sparatoria in una chiesa della California del sud (1 morto e 5 feriti), è un immigrato cinese, ora cittadino americano, che ha agito spinto dall'odio per il popolo di Taiwan, isola che Pechino rivendica come parte del suo territorio. Lo riferiscono le autorità. Si tratta di David Chou, 68 anni, di Las Vegas. La vittima è John Cheng, 52 anni, taiwanese come i cinque feriti. La causa dell'attacco quindi sono i dissapori tra l'assalitore e la comunità taiwanese locale.

Da tag43.it il 17 maggio 2022.  

Dopo la strage di Buffalo, dove il suprematista bianco Payton Gendron ha ucciso dieci clienti di un supermercato, nella giornata di domenica negli Stati Uniti si sono verificate due nuove sparatorie con vittime. 

In u mercatino delle pulci di Houston, in Texas, una lite tra due gruppi di persone ha portato a uno scontro a fuoco: due i morti. Una vittima invece in California, dove un uomo ha sparato in una chiesa presbiteriana, facendo un morto. In entrambi i casi ci sono feriti gravi. 

Sparatoria a Houston, due morti

Due persone sono morte sul colpo a Houston e tre, ferite in modo grave, sono state trasportate in ospedale. 

Un bilancio che avrebbe potuto essere peggiore, visto che lo scontro a fuoco si è verificato in un mercatino delle pulci che, di domenica pomeriggio, è sempre particolarmente affollato. La polizia ha fermato tre persone: due sono in custodia, il terzo è in ospedale. 

Lo sceriffo della contea di Harris, ha dichiarato che la sparatoria è avvenuta tra due gruppi di persone. 

Sparatoria in chiesa a Laguna Woods, una vittima

A Laguna Woods, in California, un uomo di 60 anni ha fatto fuoco all’interno della Geneva Presbyterian Church, nella contea di Orange, uccidendo una persona e ferendone altre cinque. 

L’assalitore ha iniziato a sparare poco prima delle 13:30, dopo aver chiuso le porte della chiesa per impedire la fuga dei parrocchiani, mentre circa 40 fedeli, che avevano appena finito di pranzare, stavano scattando foto insieme al pastore appena tornato da Taiwan dopo due anni. È stato proprio il religioso a fermarlo, colpendolo con una sedia mentre si è fermato per ricaricare l’arma. Poi i parrocchiani sono intervenuti immobilizzandolo e tenendolo poi legato fino all’arrivo della polizia. L’uomo che ha aperto il fuoco, asiatico, non apparteneva alla Irvine Taiwanese Presbyterian Church, che da dieci anni si riunisce nella chiesa di Laguna Woods. 

(ANSA il 17 maggio 2022) - Il killer di Buffalo è stato lo scorso anno in un ospedale per una valutazione sulla sua salute mentale dopo una generica minaccia effettuata a scuola. Il liceo lo aveva infatti segnalato alla polizia che, a sua volta, lo aveva indirizzato in ospedale. Da allora era sparito dai radar delle autorità. Lo riferisce la polizia. "niente su di lui è stato trovato. Nessuno ha chiamato o ha effettuato denunce", afferma il commissario della polizia di Buffalo Joseph Gramaglia.

Chiuso in casa per il lockdown da Covid un Payton Gerdon "annoiato" ha passato ore sul web e sui social. E il frutto della sua navigazione senza freni è stato l'assalto al supermercato Tops di Buffalo dove, a sangue freddo e con l'obiettivo dichiarato di difendere la razza bianca, ha ucciso 10 persone e ne ha ferite altre tre. Un attacco di "terrorismo interno", come lo ha definito il presidente Usa Joe Biden, che parla di "odio come macchia sull'anima dell'America".

Un massacro che riaprire il dibattito sulle armi e sulla necessità dei social media di sorvegliare i contenuti che viaggiano sulle loro piattaforme. Ma che accende l'attenzione anche sull'Ucraina: il killer ha infatti usato nel suo manifesto il simbolo esoterico caro ai nazisti del 'sole nero', simile a quello utilizzato in passato anche dai combattenti ucraini del reggimento ultra nazionalista Azov. 

Ma che accende l'attenzione anche sull'Ucraina: il killer ha infatti usato nel suo manifesto il simbolo esoterico caro ai nazisti del 'sole nero', simile a quello utilizzato in passato anche dai combattenti ucraini del reggimento ultra nazionalista Azov.

Una somiglianza che scatena un infuocato dibattito sui social, fra chi accusa gli Stati Uniti di finanziare i suprematisti bianchi in Ucraina e chi invita a non leggere troppo e a strumentalizzare l'episodio in quanto il sole nero è un generico simbolo suprematista, usato da gruppi di mezzo mondo. Online e sulle chat il ragazzo diciottenne si è radicalizzato divenendo un "suprematista", "fascista" e "antisemita", come si è descritto nel manifesto shock postato sul web. Un documento di 180 pagine in

(ANSA il 17 maggio 2022) - Payton Genrdon, il 18/enne autore della strage suprematista in un supermercato di Buffalo, stava pianificando da mesi il suo assalto, come risulta da un piano dettagliato postato online e compilato durante un sopralluogo in marzo, quando fu affrontato anche da una guardia del negozio che gli aveva chiesto conto del suo andirivieni. 

 Lo scrive il Washington Post. Nel documento il giovane descrive non solo il supermarket preso di mira ma anche altri due posti dove "uccidere tutti gli afroamericani", indicando per ciascuno tragitti e tempi di attacco, stimando un bilancio di oltre tre decine di vittime.

Dagotraduzione dal Los Angeles Times il 17 maggio 2022.

Durante i primi giorni della pandemia, Payton Gendron si è connesso alla bacheca di messaggi di 4chan per sfogliare meme ironici e infografiche che diffondono l'idea che la razza bianca si stia estinguendo. 

Ben presto si è trovato nelle frange ancora più sinistre del web, scorrendo siti estremisti e neonazisti che spacciavano teorie del complotto e razzismo anti-nero. Ma è stato solo quando ha individuato la GIF di un uomo che sparava con un fucile in un corridoio buio, e poi ha rintracciato un live streaming sull'uccisione di 51 persone nel 2019 in due moschee in Nuova Zelanda, che a Gendron deve esser sembrato di aver trovato la sua vocazione: uno sparatutto di massa virulentemente razzista con una brama di notorietà.

Il diciottenne bianco di Conklin, NY, sospettato di aver ucciso 10 persone sabato in un supermercato di Buffalo, sembra rappresentare una nuova generazione di suprematisti bianchi. Sono isolati e online, radicalizzati dai meme di Internet e dalla disinformazione, apparentemente ispirati dai livestream per trovare fama attraverso spargimenti di sangue, in gran parte spinti da idee contorte secondo cui la razza bianca è minacciata da tutto, dal matrimonio interrazziale all'immigrazione. 

«Ora hai questo nuovo mondo ironico di assassini», ha detto JJ MacNab, un borsista del programma sull'estremismo della George Washington University. «È un mondo diverso - solo un flusso costante di statistiche sbagliate, meme cattivi, bugie sulle persone che vogliono odiare... Questo è il modo di 4chan: dici cose oltraggiose a cui non credi necessariamente - e nel tempo arrivi a crederci».

A differenza dei vecchi suprematisti bianchi - dal Ku Klux Klan ai nuovi gruppi terroristici neonazisti come la Base o la Divisione Atomwaffen - le nuove reclute dei forum razzisti 4chan e 8chan sono spesso ragazzi adolescenti al liceo, ha detto MacNab. Esprimono la loro rabbia in un momento in cui le opportunità economiche diminuiscono per alcuni giovani. 

«Si sono messi a cavalcioni sui reciproci crimini e, man mano che ognuno di loro è diventato più famoso, hanno reso più desiderabile la loro copia», ha detto MacNab. «La battuta è sempre: chi può battere il numero di uccisioni? ... Per loro è come un videogioco. Come fai a segnare meglio dell'ultimo?».

Armato di un potente fucile scarabocchiato con un epiteto razziale, il sospetto ha trasmesso la sua follia omicida in diretta su Twitch, una piattaforma popolare tra i giovani giocatori, e ha pubblicato un manifesto di 180 pagine che sposava la «teoria della sostituzione» razzista, l'idea che i bianchi americani rischiano di essere sostituiti da ebrei e persone di colore. 

Identificandosi come un fascista suprematista bianco con convinzioni neonaziste, Gendron ha scritto che i bassi tassi di natalità dei bianchi in tutto il mondo rappresentano una «crisi» e un «assalto» che «alla fine si tradurrà nella completa sostituzione razziale e culturale del popolo europeo».

Gli esperti affermano che la teoria della sostituzione - la cui etichetta è stata coniata per la prima volta in Francia dallo scrittore nazionalista bianco Renaud Camus nel suo libro del 2011 "Le Grand Remplacement" - ha ispirato un flusso costante di uomini armati razzisti violenti negli Stati Uniti negli ultimi anni, dal massacro della sinagoga dell'albero della vita a Pittsburgh nel 2018 all'uccisione di un congregante e al ferimento di altri tre in una sinagoga a Poway, in California.

Anche se Gendron alla fine ha trovato le sue motivazioni in un omicidio di massa avvenuto fuori degli Stati Uniti - il massacro di fedeli di Brenton Tarrant del 2019 a Christchurch, in Nuova Zelanda - nel suo manifesto ha lodato gli autori di massacri a sfondo razziale negli Stati Uniti. Questi includevano Dylann Roof, che ha ucciso nove parrocchiani neri in una chiesa a Charleston, SC, e Patrick Crusius, che ha preso di mira latini e immigrati in un Walmart a El Paso. Quella sparatoria, che ha ucciso 23 persone, è stata descritta come l'attacco più mortale ai latini nella storia dell'America moderna.

Il suprematista bianco e gli assassini di estrema destra hanno dominato il totale degli omicidi degli estremisti dal 2018, ha affermato Brian Levin, direttore del Center for the Study of Hate and Extremism al Cal State San Bernardino. Negli ultimi due anni, c'è stato un cambiamento storico generale verso l'alto nella frequenza dei crimini ispirati dall'odio contro i neri negli Stati Uniti, ha detto Levin. 

«Nel 2020 e nel 2021 abbiamo assistito a un picco storico preoccupante dei crimini ispirati dall'odio contro i neri e delle invettive online, sempre ppiù violente, ma senza il tipo di attacchi multi-mortale che in precedenza hanno accompagnato tali picchi, fino ad ora», ha detto Levin. «Questa sparatoria è un'estensione e un ritorno agli atti di violenza di massa».

La tregua nelle sparatorie di massa guidate dall'odio è stata in parte dovuta al fatto che la pandemia ha chiuso scuole, centri commerciali e luoghi in cui si riunivano folle di persone, ha detto Levin. Ma anche perché le forze dell'ordine federali hanno prestato maggiore attenzione agli estremisti su app online come Telegram dopo la sparatoria a El Paso nel 2019, ha affermato Michael Edison Hayden, giornalista investigativo senior del Progetto di intelligence del Southern Poverty Law Center.

Sebbene tali attacchi sembrino prendere di mira comunità specifiche, in realtà sono guidati da una serie di ideologie più ampie del potere bianco, ha affermato Kathleen Belew, assistente professore di storia all'Università di Chicago che studia l'estremismo. 

Belew, autore di "Bring the War Home: The White Power Movement and Paramilitary America", ha affermato che la radicalizzazione razzista non è un problema meridionale o regionale. L'attacco di Buffalo era chiaramente correlato agli attacchi di matrice razzista negli Stati Uniti negli ultimi anni, dalla sinagoga di Pittsburgh al Walmart di El Paso. 

«La radicalizzazione è in atto tutto il tempo nel nostro paese», ha detto.

La storia globale del fascismo che precede la strage di Buffalo. FEDERICO FINCHELSTEIN ED EMMANUEL GUERISOLI su Il Domani il 24 maggio 2022

Il terrorista di Buffalo aderisce alla cosiddetta “teoria della grande sostituzione” le cui origini risalgono alle idee di degenerazione sociale e razzismo scientifico della fine del Diciannovesimo secolo.

Secondo questi teorici la superiorità della civiltà occidentale deve essere mantenuta biologicamente e culturalmente per evitare il caos e il collasso sociale.

Il fascismo è ed è stato transnazionale. Non si può comprendere questa storia americana nelle idee di eccezionalismo, perché non c’è quasi nulla dell’eccezionalismo nella tradizione fascista americana.

Il recente massacro razzista di Buffalo ha una storia globale che lo precede. Il killer fascista ha affermato nel suo “manifesto”: «Mi ritengo etnicamente bianco perché le nazionalità dei miei genitori sono europea nord-occidentale e italiana». Anche ciò che è bianco e ciò che non lo è è una questione che appartiene alla storia del razzismo.

All’inizio dell’immigrazione italiana in America spesso gli italiani erano considerati non del tutto bianchi. Similmente Adolf Hitler, nelle sue fantasie razziste, aveva messo in guardia la Germania dal rischio di diventare «l’Italia del sud», un luogo a cui faceva corrispondere un mix di razze e il ricambio del mondo bianco.

Più di cinquant’anni dopo, Ugo Bossi, il fondatore della Lega nord, ha fatto un’affermazione xenofoba simile a proposito dell’Italia meridionale. Il dittatore Benito Mussolini non la pensava come il Führer circa la razza bianca italiana, ma nel 1934 presentò un «grido d’allarme sulla decadenza demografica della razza bianca». Metteva in guardia sull’incombente «morte della razza bianca». Il duce dichiarò che un «fatale declino» era in atto e per questo si ebbero «i gridi d’allarme sorgere in tutte le parti del mondo. Nell’Ungheria si deplora dall’alto il costume oramai invalso della famiglia a figlio unico; nella repubblica Argentina, grande dieci volte l’Italia e dove potrebbero comodamente vivere da 80 a 100 milioni di uomini, la denatalità fa strage».

IL FASCINO DI UNA NAZIONE

Queste fantasie e paure folli sull’inquinamento razziale e sul declino dei “bianchi” compaiono anche nel “manifesto” di 180 pagine del terrorista ma, a differenza di Mussolini, il terrorista fascista elogia in prima pagina l’Argentina, per la sua presunta situazione razziale. Il killer idealizza il paese sudamericano attraverso menzogne razziste e afferma che l’Argentina è l’unico paese «bianco» con un alto tasso di natalità che lo difenderebbe efficacemente dai nemici della razza bianca. Da dove viene questa fantasia delirante di una “Argentina bianca” che chiunque conosca l’Argentina può negare semplicemente camminando per strada? L’Argentina è un paese con varie etnie, spesso aperto, tollerante e generoso, e anche un paese, che come tutti i paesi ha una storia di diversi fascismi e razzismi.

Il terrorista di Buffalo aderisce alla cosiddetta “teoria della grande sostituzione” le cui origini risalgono alle idee di degenerazione sociale e razzismo scientifico della fine del Diciannovesimo secolo. Secondo questi teorici la superiorità della civiltà occidentale deve essere mantenuta biologicamente e culturalmente per evitare il caos e il collasso sociale. Questa ideologia è stata ampiamente accettata dalle élite politiche in vari paesi su entrambe le sponde dell’Atlantico e ha dato origine a politiche eugenetiche, segregazioniste, anti immigrazione e infine fasciste e genocide.

IL “GENOCIDIO BIANCO”

Negli anni Trenta i nazisti hanno radicalizzato la menzogna di una cospirazione ebraica il cui scopo era quello di organizzare la mescolanza delle razze, dando vita allo sterminio delle popolazioni bianche in tutto il mondo. Da quel momento in poi l’idea del “genocidio bianco” fu ripresa da fascisti e da organizzazioni affini durante la Guerra fredda per giustificare la violenza politica in nome della difesa esistenziale dei nazionalismi etnici.

Negli anni Settanta la Confederazione anticomunista latinoamericana ha introdotto le nozioni di “genocidio e supremazia bianca” che hanno influenzato le dottrine delle agenzie responsabili dell’operazione Condor. Le dittature di Bolivia, Cile e Paraguay sono state molto ricettive a queste idee a causa, in parte, della presenza di ex nazisti ed ex Ustaše in posizioni alte.

La giunta militare latinoamericana si considera guerriera in una crociata storica contro una cospirazione globale e in difesa della civiltà cristiana occidentale. Durante gli anni Settanta e Ottanta c’è stata una forte cooperazione transatlantica tra agenti della giunta, organizzazioni paramilitari neofasciste europee come la P2 italiana, i governi dell’apartheid della Rhodesia e del Sud Africa ed elementi dell’estrema destra americana. Queste relazioni hanno dato i loro frutti durante le guerre genocide e i massacri in centro America, a cui l’Argentina ha partecipato direttamente inviando “consiglieri” esperti di repressione illegale.

Tutto questo sfondo ci offre un quadro storico per pensare da dove viene questa illusione dell’America Latina come attore centrale nella difesa dell’occidente.

IL FASCISMO ARGENTINO

Non dimentichiamo che il terrorista dice anche che questa guerra razziale bianca potrebbe partire in paesi come l’Argentina o il Venezuela. Perché il terrorista mette l’Argentina al centro? Questa enfasi sulla nazione latinoamericana può essere compresa solo in termini di storie condivise e tradizioni fasciste, fantasie razziste transnazionali. Queste sono le memorie globali del fascismo internazionale.

Nei forum su Internet gli estremisti del neofascismo globale guardano con ammirazione la dittatura argentina e anche Augusto Pinochet come figure da emulare.

Mentre uno dei fondatori del fascismo argentino, Leopoldo Lugones, difendeva l’imperialismo argentino per la sua superiorità “bianca” sulle altre nazioni latinoamericane, i generali dell’ultima dittatura militare (1976-1983), che hanno ucciso decine di migliaia di cittadini nelle loro “guerre sporche” lanciate in nome dell’“occidente cristiano”, adottavano una logica simile.

Nel 1976 il generale Videla metteva l’accento sulla natura globale del conflitto: «La lotta alla sovversione non si esaurisce in una dimensione puramente militare. È un fenomeno mondiale. Ha dimensioni politiche, economiche, sociali, culturali e psicologiche».

In particolare, le idee della sostituzione e dell’invasione e le fantasie paranoiche sull’espansione e la migrazione di europei non bianchi sono centrali nella tradizione fascista argentina. Le famigerate dichiarazioni del generale Albano Harguindeguy, ministro dell’Interno sotto la dittatura argentina, possono essere comprese solo in questa prospettiva storica. Nel 1978 Harguindeguy parlò della necessità di incoraggiare l’immigrazione europea. Per il generale questa era una preoccupazione urgente perché l’Argentina potesse «rimanere uno dei tre paesi più bianchi del mondo».

Questo razzismo esplicito ha preso la forma di un aperto riconoscimento della necessità di sradicare altre espressioni “non europee” dalla nazione. La profondità e la portata di questo desiderio si sono manifestate, ancora una volta, nei campi di concentramento in cui razzismo e antisemitismo sono stati protagonisti. La lotta contro il nemico non aveva limiti.

La cooperazione internazionale tra fascisti e organizzazioni di suprematisti bianchi è continuata dopo la Guerra fredda. Se prima combattevano per sconfiggere il comunismo in Angola, Cile o Nicaragua, ora il nemico era l’islam in Croazia o in Afghanistan, e il multiculturalismo, che nel delirio antisemita si pensa sia finanziato dal mondo ebraico.

Gli attentati di Utoya, Monaco, Pittsburgh, El Paso, Christchurch e ora Buffalo, tra gli altri, sono la continuazione della violenza fascista contro le minoranze, alle quali sono attribuite, in un delirio ideologico, la futura distruzione della civiltà occidentale e dei valori cristiani. Questo genere di attentati si sono verificati anche in Italia. Nel 2011 un neofascista ha ucciso due migranti senegalesi a Firenze e, più recentemente, un altro neofascista, ex leghista, ha sparato ad alcuni immigrati nigeriani a Macerata. In entrambi i casi, erano guidati da nozioni deliranti di invasione e sostituzione.

Il fascismo è ed è stato transnazionale. Non si può comprendere questa storia americana nelle idee di eccezionalismo, perché non c’è quasi nulla dell’eccezionalismo nella tradizione fascista americana. A ogni modo, è comprensibile che si sia data molta attenzione alle dimensioni locali del fenomeno, se non tanto alla storia americana. Ciò che finora è stato completamente ignorato però sono le storie globali del fascismo dietro questi attacchi.

FEDERICO FINCHELSTEIN ED EMMANUEL GUERISOLI

Così la sinistra Usa strumentalizza la strage di Buffalo. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 17 maggio 2022.

Tredici persone, di età compresa tra 20 e 86 anni, 11 delle quali nere e 2 bianche, sono state uccise nel corso di una sparatoria in un supermercato di Buffalo, stato di New York, sabato scorso, in un massacro che le autorità ritengono possa essere di matrice razziale. Il sospetto omicida – Payton S. Gendron, un ragazzo bianco di 18 anni – ha viaggiato per ore prima di aprire il fuoco nel negozio Tops Friendly Markets in un quartiere prevalentemente popolato da afroamericani, ha detto il sindaco di Buffalo Byron Brown. Secondo la Cnn, gli investigatori starebbero esaminando un lungo manifesto di 180 pagine pubblicato online nella giornata di sabato, che fornisce non pochi spunti interessanti sulla personalità controversa dello stragista di Buffalo.

Il presunto omicida si definisce un “eco-fascista” e nel documento pubblicato online incolpa l’immigrazione, colpevole di creare danni all’ambiente. “Per troppo tempo abbiamo permesso alla sinistra di cooptare il movimento ambientalista per soddisfare i propri bisogni”, si legge nel il manifesto del presunto killer di Buffalo. “La sinistra ha controllato tutte le discussioni sulla conservazione dell’ambiente, presiedendo contemporaneamente alla continua distruzione dell’ambiente naturale stesso attraverso l’immigrazione di massa e l’urbanizzazione incontrollata, senza offrire una vera soluzione a nessuno dei due problemi”. Attenzione però, perché è difficile incasellare precisamente il pensiero di un folle. Nello stesso manifesto, Gendron si descrive come un “autoritario di sinistra” e un “populista” (“Rientro nella categoria di una sinistra autoritariamoderata, e preferirei essere chiamato populista” spiega). Come nota Toni Capuozzo in un post, c’è un altro dettaglio interessante: “Buona parte dell’informazione italiana ha ieri evitato di notare che il simbolo dello stragista di Buffalo era lo stesso sole nero nazista che sta sullo sfondo del simbolo di Azov, vanno di fretta”. Sole nero nazista che è infatti presente anche sulla prima pagina di questo folle manifesto. 

Nei suoi post, inizialmente scritti sull’app di messaggistica Discord e condivisi sul forum online 4chan, il sospettato ha affermato di aver visitato tre volte il Tops Friendly Market l’8 marzo per esaminare l’ambiente nei momenti della giornata in cui c’erano più clienti. Ha pianificato il suo attacco per metà marzo, anche se ha ritardato più volte l’esecuzione, fino a sabato scorso. Il 18enne è stato arrestato subito dopo ed è sotto sorveglianza dopo essersi dichiarato non colpevole, secondo quanto riportato dalle autorità. Secondo gli ultimi sviluppi, il sospettato ha visitato un supermercato il giorno prima dell’attacco: Gendron era al Tops Friendly Market venerdì, il giorno prima della sparatoria, “per fare una ricognizione”, ha spiegato il commissario della polizia di Buffalo Joseph Gramaglia.

La tragedia ha scosso la comunità di Buffalo e tutto il Paese: nella giornata di martedì 17 maggio, il presidente Joe Biden e la first lady Jill Biden hanno visitato la città e incontrato le famiglie delle vittime della sparatoria, i primi soccorritori e i leader della comunità. “Continuiamo a indagare su questo caso come un crimine d’odio, un crimine d’odio federale e come un crimine perpetrato da un estremista violento di matrice razziale”, ha dichiarato domenica Stephen Belongia, agente speciale responsabile dell’ufficio sul campo dell’FBI di Buffalo. Questi i fatti.

L’opinione pubblica di sinistra e alcuni illustri quotidiano hanno immediatamente incolpato il partito repubblicano e soprattutto il noto anchorman di Fox News Tucker Carlson dell’accaduto in qualità di “mandante morale”. Tuttavia, questa è una strumentalizzazione politica, con i corpi ancora caldi: non vi è alcuna prova, infatti, che il presunto omicida fosse un seguace di Carlson, né tantomeno un militante del Gop .”Letteralmente tutti hanno avvertito Fox News e Tucker Carlson che questo sarebbe accaduto ma ci hanno riso sopra”, ha affermato Andrew Lawrence di Media Matters mentre Emmanuel Felton del Washington Post ha sottolineato che l’assassino di Buffalo “ha aderito alla teoria della Grande Sostituzione propagandata da élite conservatrici come Tucker Carlson e alla quale crede quasi la metà degli elettori del Gop”. “Vedete se riuscite a capire la differenza tra [il manifesto di Gerdon su ‘White Replacement’] e ciò che afferma Tucker Carlson”, ha aggiunto il professor Don Moynihan della Georgetown. “Il massacro razzista di Buffalo riposa [sic] ai piedi di Donald Trump, Tucker Carlson e del Gop”, ha infine sottolineato Rob Reiner. L’assassino è stato ispirato da “una teoria del complotto nazionalista bianco che Tucker Carlson ha difeso nel suo show”, è stato il verdetto di Philip Lewis dell’Huffington Post meno di sei ore dopo l’inizio della sparatoria. Rolling Stone si è spinto oltre, definendo l’assassino di Buffalo non come un “lupo solitario” ma come un “repubblicano mainstream”. Curioso: i “lupi solitari” possono essere i terroristi islamici, ad esempio, ma non i bianchi.

Come nota il giornalista Glenn Greenwald sul suo blog, che Carlson sia il principale responsabile dei morti di Buffalo è stato affermato nonostante il fatto “non vi sia alcuna indicazione che Gendron sapesse nemmeno chi fosse Carlson, che avesse mai visto il suo spettacolo, che fosse stato influenzato da lui in qualche modo, o che lo ammirasse”. Al contrario, Gendron descrive esplicitamente il suo disprezzo per il “conservatorismo politico” di cui il conduttore di Fox News è espressione. In una sezione  del suo manifesto intitolata “il conservatorismo è morto, grazie a Dio”, afferma: “Niente è stato conservato a parte i profitti aziendali e la ricchezza sempre crescente dell’1% che sfrutta le persone a proprio vantaggio. Il conservatorismo è morto. Grazie Dio. Ora seppelliamolo e passiamo a qualcosa di degno”. Contrariamente a ciò che affermano gli opinionisti della stampa liberal che strumentalizzano politicamente questa vicenda, come scrive Greenwald Carlson sostiene che il governo degli Stati Uniti “debba proteggere i i cittadini americani di tutte le razze”. Al contrario, Gendron afferma esplicitamente che “qualsiasi cittadino non bianco di un Paese europeo è automaticamente un “invasore” che deve essere ucciso e/o deportato per rendere il Paese al 100% bianco”. Sono differenze sostanziali, ma i liberal non hanno potuto fare a meno di strumentalizzare una tragedia per delle precise finalità politiche.

Texas, sparatoria in una scuola. Ragazzo uccide bambini e adulti. Lo sfogo di Joe Biden. Il Tempo il 25 maggio 2022.

Sono almeno 21 i morti, 19 bambini e due adulti, della strage alla Robb Elementary School a Uvalde, in Texas. Lo riporta la Cnn, sulla base delle notizie confermate dal Department of Public Safety del Texas. L’autore, che secondo le autorità risponde al nome di Salvador Ramos, è morto e si ritiene abbia agito da solo. Stando al governatore del Texas, Greg Abbott, il 18enne sospettato aveva frequentato la Uvalde High School. E, secondo fonti della Cnn, prima di dirigersi alla scuola elementare avrebbe sparato alla nonna, ricoverata in ospedale in condizioni critiche.

Dopo la strage alla Robb Elementary School a Uvalde, in Texas, Joe Biden denuncia «un altro massacro», chiede leggi più severe sulle armi perché è «tempo di agire». «Quante decine di bambini, che hanno assistito a quello che è accaduto, vedono i loro amici morire come se fossero su un campo di battaglia? - ha detto il presidente americano - Come Paese dobbiamo chiederci: quando, in nome di Dio, ci opporremo alla lobby delle armi?». «Questo genere di sparatorie di massa raramente accadono altrove nel mondo. Perché? - ha aggiunto - Questo genere di sparatorie di massa non accadono mai con la stessa frequenza con cui avvengono in America». «Perché siamo disposti a convivere con questa carneficina?», ha detto ancora il presidente americano, secondo il quale non tutto può essere fermato con leggi più severe sulle armi, ma «è ora di trasformare questo dolore in azione».

Strage scuola Texas, news sulla sparatoria di oggi. Morti 19 bambini, due insegnanti e il killer. Biden: dobbiamo agire sulle armi. Giuseppe Sarcina, Guido Olimpio, Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.

Le notizie di mercoledì 25 maggio sulla sparatoria alla scuola elementare Robb di Uvalde, in Texas, in diretta 

• Intorno a mezzogiorno di mercoledì 24 maggio un diciottenne ha aperto il fuoco nella Robb Elementary School di Uvalde, in Texas, un grande complesso che ospita circa 600 studenti, in Texas: in un primo momento si era parlato di 14 morti, ma il bilancio si è aggravato con il passare delle ore. Lo sparatore è stato ucciso

• Il responsabile dell’attacco è Salvador Ramos, studente del liceo che fa parte del complesso scolastico. Prima di compiere la strage, il giovane ha sparato alla nonna: una 66enne che si trova in gravi condizioni

• La strage di Uvalde è la più grave tra quelle consumate in una scuola negli Stati Uniti. Anche peggiore di quella di Columbine, nel 1999.

• Quella degli assalti armati nelle scuole è una lunga scia di sangue che tormenta gli Stati Uniti dal 1966: qui l’elenco dei massacri più terribili degli ultimi anni

Ore 23.50 - Sparatoria in una scuola in Texas, strage di bambini

Diciotto bambini e tre adulti. Un numero non precisato di feriti, compresi due poliziotti. Alcuni in gravi condizioni. È il primo bilancio, purtroppo provvisorio, di una nuova sparatoria, una nuova strage americana. Questa volta è accaduto in una scuola elementare a Uvalde, un villaggio rurale del Texas, a metà strada tra San Antonio e il confine messicano.  

Ore 01:16 - Biden: «Sparatoria nella scuola in Texas atto di violenza senza senso»

«Un atto di violenza senza senso». Così il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha commentato la strage nella scuola Uvalde. Il presidente americano ha ordinato che le bandiere della Casa Bianca, degli edifici federali e delle postazioni militari sventolino fino a sabato a mezz’asta per le vittime.

Ore 01:30 - Senatore Gutierrez alla Cnn: morti 18 bambini e tre adulti

Il senatore del Texas Roland Gutierrez ha detto alla Cnn che i ranger dello stato lo hanno informato che il bilancio della sparatoria nella scuola di Uvalde è più alto di quanto finora riportato: le vittime sono 21, 18 bambini e tre adulti.

Ore 01:42 - Kamala Harris: è troppo, dobbiamo avere il coraggio di agire

«Il presidente ed io stiamo monitorando da vicino la situazione. Anche se non conosciamo tutti i dettagli, sappiamo che ci sono genitori che hanno perso figli, famiglie che hanno perso bambini e molti altri che sono stati feriti». Così la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris ha commentato la strage alla Robb Elementary School di Uvalde, in Texas. «Ogni volta che accade una tragedia come questa, i nostri cuori si spezzano ma non sono niente in confronto ai cuori spezzati di quelle famiglie. Eppure, continua ad accadere», ha spiegato. «E’ troppo. Come nazione dobbiamo avere il coraggio di agire e garantire che niente del genere accada mai più».

Ore 01:52 - Salvador Ramos prima della strage ha sparato anche alla nonna

Salvador Ramos, , il 18enne ritenuto responsabile della strage alla scuola di Uvalde, ha sparato anche a sua nonna, prima di recarsi all’istituto scolastico dove ha poi ucciso almeno una ventina di persone. Lo riferisce il sito della Cnn, citando fonti delle forze dell’ordine.

Ore 02:03 - Il messaggio di cordoglio dei Dallas Cowboys

Fra i tanti messaggi di cordoglio, anche quello dei Dallas Cowboys, la squadra di football americano che sul proprio profilo ufficiale Twitter ha scritto: «L'intera organizzazione dei Dallas Cowboys è in lutto con la comunità di Uvalde e con tutte le persone colpite dal tragico evento di oggi. Mentre piangiamo la perdita di vite innocenti, i nostri cuori e le nostre preghiere sono con le famiglie delle vittime, i loro cari, i docenti e il personale della Robb Elementary».

Ore 02:07 - La polizia ha confermato la morte di Salvador Ramos, l'autore della strage

La polizia ha confermato la morte di Salvador Ramos, autore della strage nella scuola di Uvalde.

Ore 02:12 - L'attacco a due giorni dalla fine dell'anno scolastico

«L'anno scolastico è finito» per gli studenti di Uvalde, in Texas. Lo afferma la polizia rilasciando una breve dichiarazione sulla sparatoria alla scuola Robb Elementary: «Tutte le attività nell'area sono sospese». Il killer ha colpito a due giorni dalla fine dell'anno scolastico, che si doveva chiudere giovedì.

Ore 02:35 - L'ultimo bilancio: uccisi 18 bambini e un insegnante

Secondo l'ultimo aggiornato bilancio sono 18 i bambini uccisi nell'attacco, oltre a un insegnante. Anche il killer è morto.

Ore 02:42 - Il killer indossava un giubbotto antiproiettile

Il killer della scuola in Texas indossava un giubbotto antiproiettile. Lo riportano i media americani citando alcune fonti vicine agli investigatori.

Ore 02:49 - Biden: sono stanco, dobbiamo agire sulle armi

«Sono stanco, dobbiamo agire» sulle armi. Lo afferma Joe Biden rivolgendosi agli americani dopo la strage nella scuola elementare del Texas, dove un 18enne ha ucciso 18 bambini. «L'idea che un 18enne possa entrare in un negozio e acquistare un fucile è sbagliata».

E, ancora: «Perché queste sparatorie non accadono in altre parti del mondo? Perché vogliamo vivere con queste carneficine? È il momento di trasformare il dolore in azione e agire sulle armi. Come nazione dobbiamo chiederci, in nome di Dio, quando ci opporremo alla lobby delle armi». Il presidente ha parlato avendo al proprio fianco la First Lady Jill Biden.

Ore 02:59 - Il governatore del Texas nel 2015 invitava ad acquistare più armi

«Sono imbarazzato. Il Texas è solo al secondo posto per gli acquisti di nuove armi dietro alla California. Texani aumentiamo la velocità». È il tweet del 2015 del governatore del Texas Greg Abbott, rispuntato in queste ore dopo la sparatoria alla scuola elementare di Uvalde. La partecipazione di Abbott è attesa venerdì a Houston nell'ambito dll'assemblea annuale della National Rifle Association, la potente lobby delle armi americana.

Ore 03:25 - Nel 2018 a Uvalde sventato il piano per un massacro in un'altra scuola

C'è un sinistro precedente quasi premonitore della sparatoria in Texas, nella stessa città, Uvalde. Nel 2018 la polizia arrestò due teenager di 13 e 14 anni sventando un piano per un massacro in una scuola della cittadina ispirandosi ai due autori della strage di Columbine. Inizialmente i due volevano mettere a segno l'assalto il 20 aprile, anniversario della strage di Columbine, del 2022, anno in cui si sarebbero diplomati. Poi uno dei due convinse l'altro ad entrare in azione quell'anno stesso alla scuola superiore Morales Junior, frequentata dal 14enne. La coppia intendeva rubare le armi ai vicini, far esplodere ordigni all'inizio dell'attacco, dare la caccia agli studenti che avevano segnato in una lista e poi colpire indiscriminatamente gli altri, prima di togliersi la vita. Un alunno della scuola però venne a sapere del piano e lo riferì ai dirigenti dell'istituto, che avvisarono la polizia. I due si erano ispirati ai killer di Columbine, Eric Harris e Dylan Klebold, a tal punto da chiamarsi con quei nomi.

Ore 03:31 - Il killer su Instagram aveva scritto: «Sto per...»

Poche ore prima di compiere la strage nella scuola elementare di Uvalde, in Texas, il killer ha inviato un messaggio criptico a una sconosciuta su Instagram nel quale affermava: «sto per..». Lo riportano i media americani, sottolineando che su Instagram Salvador Ramos era conosciuto come `salv8dor_´. Sul suo account, bloccato non appena è stato diffuso il suo nome, aveva pubblicato un selfie e altre foto di armi, di cui una con due fucili uno a fianco all'altro. Al messaggio «sto per..», inviato alle 5.43 del mattino di martedì, la ragazza aveva risposto: «cosa?». Il killer le aveva risposto: «te lo dirò prima delle 11». Un'ora dopo le aveva scritto ancora: «ho un piccolo segreto che voglio dirti». Il suo ultimo messaggio alla ragazza era stato alle 9.16.

Ore 04:49 - Si aggrava il bilancio: morti 19 bambini, un insegnante e il killer

Si aggrava ancora il bilancio della strage nella scuola elementare di Uvalde, in Texas. I morti sono in tutto 21, di cui 19 bambini e due adulti (un insegnante e il killer stesso, ucciso dalle forze di polizia). Lo riporta Cnn.

Ore 04:53 - Ramos ha sparato alla nonna perché lei voleva fermarlo

La nonna di Salvador Ramos avrebbe tentato di fermare il nipote e per questo lui l’ha ferita. E’ questa la ricostruzione della polizia. La donna è ricoverata in gravi condizioni in ospedale.

Ore 04:58 - Il killer ha avuto un incidente d'auto subito prima di entrare nella scuola

Il killer della scuola elementare del Texas ha prima sparato alla nonna e poi ha avuto un incidente d'auto vicino alla Robb Elementary School. Lo riferiscono alcune fonti della polizia a Cnn, sottolineando che il killer dopo l'incidente è sceso dall'auto con un fucile ed ha tentato di entrare nella scuola quando alcuni agenti hanno tentato di fermalo. Il killer è riuscito lo stesso a farsi strada ed entrare nell'edificio dove ha sparato in diverse classi.

Ore 05:00 - Obama: il Paese è paralizzato dalla lobby delle armi

«Il nostro Paese è paralizzato non dalla paura ma da una lobby delle armi e da un partito politico che non hanno mostrato alcuna volontà di agire per prevenire queste tragedie». Lo afferma l'ex presidente Barack Obama intervenendo sulla strage della scuola elementare del Texas. «Io e Michelle siamo a fianco delle famiglie di Uvalde. Ma siamo anche arrabbiati. È scaduto il tempo per agire, per qualsiasi tipo di azione».

Ore 05:33 - Ramos aveva mandato foto di armi a un amico pochi giorni fa

Salvador Ramos aveva inviato qualche giorno della sparatoria foto di armi e munizioni a un suo ex compagno di classe. Lo ha riferito lo stesso ex compagno alla Cnn. «Mi ha mandato una foto di un Ar che stava usando con delle munizioni», ha detto, aggiungendo che il killer veniva deriso da altri studenti del liceo per gli abiti che indossava e la situazione finanziaria della sua famiglia.

Ore 06:19 - Ramos lavorava in un ristorante. «Era un tipo silenzioso»

Salvador Ramos, il killer della scuola elementare del Texas, lavorava da Wendy’s, catena di ristoranti americana con un punto vendita non lontano dal luogo della strage. «Era un tipo silenzioso, non diceva molto e non socializzava con altri dipendenti», riferisce il manager del locale Adrian Mendes.

 Ore 06:45 - In dieci anni negli Usa oltre 900 sparatorie nelle scuole

«Sono passati 3.448 giorni, 10 anni, da quando sono andato in una scuola del Connecticut, una scuola elementare, dove un altro uomo armato massacrò 26 persone, di cui 20 scolari, alla Sandy Hook Elementary School. Da allora ci sono state oltre 900 sparatorie nelle scuole» e «la lista cresce quando si includono sparatorie in luoghi come teatri, chiese, o 10 giorni fa un negozio di Buffalo». Lo ha detto il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, nel suo discorso alla nazione dopo che un 18enne armato ha ucciso almeno 19 bambini e due adulti in una scuola primaria di Unvalde, in Texas. Quella della scuola Sandy Hook a Newtown, Connecticut, nel 2012, è la sparatoria con più vittime in una scuola elementare degli Usa da, appunto, circa 10 anni.

Ore 07:28 - Chi era Salvador Ramos, il killer della sparatoria nella scuola in Texas

(Giuseppe Sarcina) Il Killer è un ragazzo di 18 anni. Si chiamava Salvador Ramos e aveva frequentato la stessa scuola elementare dove è tornato da assassino , da stragista, prendendo di mira bambini tra i 7 e i 10 anni. Lo conosciamo ancora poco. Le notizie sono frammentarie. Abbiamo, però, una sua foto: capelli lunghi corvini, occhi puntati sul cellulare. La pelle con i segni di qualche impurità. Il viso di un ragazzino che sta per diventare un uomo. E poi un’altra traccia: il suo account su Instagram. Un’altra immagine, postata quattro giorni prima dell’attacco alla scuola. Si vedono due fucili i semiautomatici, con il caricatore innestato. (Qui l’articolo completo)

Ore 08:12 - Si aggrava il bilancio della sparatoria: 19 bambini e 2 adulti morti

Il bilancio della strage di Uvalde si aggrava: il 18enne Salvador Ramos ha ucciso 19 bambini e due insegnanti. Lo riporta un’agenzia Reuters.

Ore 08:27 - Le vittime: chi erano i bambini e le maestre uccisi da Ramos

Nella sparatoria compiuta da Salvador Ramos nella Robb Elementary School sono morti 19 bambini e due maestre, secondo l’ultimo bilancio disponibile. Qui tutte le informazioni sulle vittime.

(ANSA il 26 maggio 2022) - Pochi minuti prima di compiere la starge a Uvalde, Salvador Ramos ha inviato una serie di messaggi a una ragazza in Germania annunciandole "vado a sparare in una scuola elementare" e che aveva "appena sparato alla testa a sua nonna". 

La notizia dei messaggi era già uscita, ma la Cnn rivela il contenuto di quegli scambi. La ragazza ha 15 anni, vive a Francoforte e aveva conosciuto il killer tramite una piattaforma social il 9 maggio. I messaggi inquietanti sono stati inviati alle 11.21 ora locale, le 17.21 in Italia, poco prima del massacro. Nei giorni precedenti Samos aveva detto alla ragazza che gli erano arrivate delle munizioni.

Texas: arrestato studente con due armi vicino a una scuola

(ANSA il 26 maggio 2022) - All'indomani della strage alla Robb Elementary School di Uvalde, la polizia ha arrestato - sempre in Texas - uno studente con una pistola stile Ak-47 (il Kalashnikov) e un fucile stile Ar-15, il più usato nelle sparatorie in Usa. L'arresto è avvenuto all'esterno della scuola superiore Berkner di Richardson, 560 km a nord di Uvalde. Ad allertare la polizia è stato un testimone che aveva visto una persona con un fucile vicino alla scuola.

Texas, problemi di identità sessuale. Il motivo della strage di bambini. Affari Italiani.it il 25 maggio 2022. 

Strage Texas, Salvador Ramos discriminato. Lo ha fatto per vendetta

Salvador Ramos, il killer 18enne che ha ucciso 19 bambini e due maestre in una scuola del Texas, soffriva per un difficile rapporto con la sua identità sessuale. Ci sarebbe questo dietro al folle gesto compiuto e rivendicato sui social. Sul suo profilo Instagram le foto con abiti femminili. L'omicida della scuola di Uvaled, in Texas, è rimasto all'interno dell'istituto per circa 40 minuti prima di essere ucciso,. Lo ha detto alla CNN il direttore del dipartimento di pubblica sicurezza del Texas, Steven McCraw, durante una conferenza stampa. restano comunque senza risposta diverse domande sulla sequenza temporale degli eventi.

Un giovane studente è stato arrestato alla periferia di Dallas, nel Texas, per essersi recato al suo istituto scolastico con due fucili nel suo veicolo. Lo ha riferito il dipartimento di polizia di Richardson, località che si trova a 560 km da Uvalde dove ieri si è verificata la strage da parte di un ragazzo di 18 anni che ha ucciso 19 bambini e due maestre. La polizia ha ricevuto una chiamata alle 10.55 ora locale per avvertire che un giovane stava camminando con un fucile verso il Berkner Institute.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 25 maggio 2022. 

Una bambina di 10 anni uccisa a colpi di arma da fuoco mentre cercava di chiamare i soccorsi. È una delle vittime del massacro alla Robb Elementary, la scuola elementare di Uvalde, in Texas, dove ieri mattina il 18enne Salvador Ramos ha aperto il fuoco uccidendo 19 studenti tra i 7 e i 10 anni e due insegnanti. 

La piccola si chiama Amerie Jo Garza, frequentava la quarta elementare, e quando il 18enne è entrato nella sua classe, armato di una pistola, un fucile e protetto da un giubbotto antiproiettile, ha annunciato loro: «State per morire». 

A quel punto Amerie ha preso il telefono e ha cercato di telefonare al 911, ed è stata subito freddata da Ramos. Lo ha raccontato la nonna al Daily Beast, aggiungendo che la sua migliore amica è stata «ricoperta dal suo sangue».

«L’uomo armato è entrato e ha detto ai bambini: “Morirete”. Amerie aveva con sé il suo telefono e ha chiamato il 911. Ma invece di prenderglielo e romperlo, o portarglielo via, le ha sparato. Era seduta proprio accanto alla sua migliore amica. Era ricoperta del suo sangue». 

Alla fine Ramos è stato fermato da un agente della guardia di frontiera che stava presidiando un posto vicino e si è precipitato nella scuola: è rimasto ferito ma è riuscito ad uccidere il ragazzo. 

La follia omicida di Ramos è iniziata quando ha sparato a sua nonna in una casa a Uvalde. Secondo quanto riferito a far scattare la lite sarebbe stata la sua mancata laurea. Rapporti contrastanti suggerivano che la donna fosse in condizioni critiche o che fosse morta per le ferite riportate.

Giorni prima il diciottenne aveva inviato un messaggio diretto a una conoscente su Instagram taggandola in una foto con dei fucili. «Pubblicherai nuovamente le foto della mia pistola». 

«Cosa devono fare le tue pistole con me», ha risposto venerdì la giovane. «Volevo solo taggarti», ha detto lui. 

Poi alle 5:43 di martedì, @salv8dor_ le ha inviato un messaggio dicendo: «Sto per farlo». La ragazza ha chiesto «che cosa» e lui ha risposto: «Te lo dico prima delle 11». 

Ha detto che le avrebbe mandato un messaggio entro un'ora e l'ha esortata a rispondere. «Ho un piccolo segreto che voglio dirti», ha scritto con un'emoji sorridente che gli copriva la bocca.

«Sii grata di averti taggato», ha scritto. Ha risposto: «No, è solo spaventoso», aggiungendo: «Ti conosco a malapena e mi tagghi in una foto con alcune pistole?». 

Il suo ultimo messaggio alle 9:16 di martedì è stato «Ima air out» (cioè «vado a prendere una boccata d’aria»). Il massacro è iniziato intorno alle 11:32. 

La donna ha reagito con orrore quando ha saputo cosa aveva fatto. «È uno sconosciuto, non so nulla di lui, ha deciso di taggarmi nel suo post sulle armi», ha scritto. «Sono così dispiaciuta per le vittime e le loro famiglie che non so davvero cosa dire». 

Ha poi aggiunto: «L'unico motivo per cui gli ho risposto è perché avevo paura di lui, vorrei essere rimasta sveglia per cercare almeno di convincerlo a non commettere il suo crimine. Non lo sapevo». Quando un utente di Instagram le ha chiesto se fosse la sua ragazza, lei ha risposto: «Non lo conosco e non vivo nemmeno in Texas». 

Guido Olimpio per il Corriere della Sera il 25 maggio 2022.   

Adam Lanza prima di sparare sui bimbi nella scuola di Sandy Hook, nel 2012, ha freddato la madre. La donna che aveva cercato di aiutarlo, ma che aveva anche assecondato la sua passione per le armi. Salvador Ramos, 18 anni, ha colpito la nonna prima di aprire il fuoco sugli studenti delle elementari in Texas.

Stragi lontane e vicine in un'America dove le scuole sono bersagli come in nessun altra parte del mondo. Anche se non sono gli unici luoghi a diventare teatro di violenza cieca. Pochi giorni fa un altro diciottenne, suprematista bianco, ha seminato morte a Buffalo, subito dopo c'è stato il raid di un taiwanese-americano in una chiesa in California, per fortuna con conseguenze minori. E qualche settimana prima Raymond Spencer, per motivi ancora sconosciuti, ha preso di mira un istituto scolastico a Washington e si è poi tolto la vita. È un fronte interno, simile a una guerra dove il nemico è spesso «invisibile».

Sono pagine di sangue, parte di un ciclo inarrestabile, dall'eccidio nel liceo di Columbine - aprile 1999, tredici morti - a quello nelle vie di Las Vegas, nel 2017. Solo per ricordarne alcuni. Una minaccia profonda, come racconta un rapporto diffuso lunedì dall'Fbi: un'analisi dedicata agli «active shooters», ossia persone che aprono il fuoco in modo indiscriminato in scuole, posti di lavoro, negozi e provocano una o più vittime.

 Uno studio drammatico che lascia fuori dal conteggio azioni legate alle faide tra gang, alla difesa personale, a liti familiari. Nel 2021 i casi censiti sono stati 61, con un aumento rispetto ai 40 del 2020 e ai 30 dell'anno prima. Un'indicazione chiara di una tendenza. E secondo la Cnn , nell'anno in corso ci sono state almeno 39 sparatorie in istituti scolastici o università.

In diverse occasioni si tratta di attacchi multipli: lo sparatore ha colpito in fasi diverse e luoghi diversi. Spesso i protagonisti tendono a prepararsi sul piano «militare». Il responsabile dell'attentato di Buffalo si è travestito da senzatetto per poter osservare meglio l'obiettivo, un supermarket. Raymond Spencer ha affittato un appartamento vicino al suo target e lo ha trasformato in una postazione da cecchino. L'Fbi evidenzia come i killer abbiano un'età compresa tra i 12 e i 67 anni, tutti maschi con una sola eccezione. La metà di loro ha scelto come bersaglio aree commerciali.

Trenta degli assassini sono stati catturati, undici si sono uccisi, quattordici sono stati colpiti a morte dalle forze di sicurezza. Un'esperta ha parlato di «contagio», dopo un attacco ne seguono subito degli altri. Non è soltanto emulazione, ma una molla che innesca delle bombe a tempo. Alcuni dei killer potevano essere fermati, dalle famiglie e dalle autorità: se avessero reagito con prontezza ad alcuni segnali, se avessero avuto anche un sistema in grado di gestire individui con problemi mentali o tendenze violente ai quali non è stato impedito di acquistare una pistola.

Salvador Ramos, il killer della sparatoria in Texas. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.  

Salvador Ramos, 18 anni, studente alle superiori della stessa scuola, ha ucciso almeno 19 bambini e due insegnanti: prima di uscire aveva sparato anche alla nonna.

Il killer è un ragazzo di 18 anni. Si chiamava Salvador Ramos e aveva frequentato la stessa scuola elementare dove è tornato da assassino , da stragista, prendendo di mira bambini tra i 7 e i 10 anni. Ne ha uccisi almeno 19, oltre a due insegnanti. 

Lo conosciamo ancora poco, le notizie su di lui sono frammentarie. Abbiamo, però, una sua foto: capelli lunghi corvini, occhi puntati sul cellulare. La pelle con i segni di qualche impurità. Il viso di un ragazzino che sta per diventare un uomo. 

E poi un’altra traccia: il suo account su Instagram. Un’altra immagine, postata quattro giorni prima dell’attacco alla scuola. Si vedono due fucili i semiautomatici, con il caricatore innestato. Abbiamo anche lo spezzone di un dialogo che una giovane donna ha pubblicato ieri, pochi minuti dopo aver saputo della strage alla Robb Elementary School. La conversazione era cominciata il 12 maggio scorso: i due non si conoscevano. 

Venerdì scorso, Salvador condivide il fotogramma con questa ragazza, avvertendola: «rispondimi entro un’ora perché voglio rivelarti un segreto».

Dopo aver visto le armi, la ragazza chiese a quell’inquietante interlocutore: «Che cosa hanno a che fare i tuoi fucili con me?».

Ramos risponde: «Volevo solo condividere le immagine con te e sapere se le posterai». 

Ora la ragazza commenta: «L’unico motivo per cui gli avevo risposto era perché mi faceva paura. Adesso mi resta il rammarico di non essere rimasta sveglia a parlare con lui per cercare di evitare questo crimine».

Toccherà agli investigatori mettere insieme i pezzi di una personalità evidentemente ossessionata dai mitragliatori, dalle munizioni. In ultima analisi dalla forza, dalla violenza. Capire se era una personalità disturbata, con problemi mentali. Oppure se intossicata dai veleni, dalle teorie cospirative che scorrono indisturbate sui social. Purtroppo è un profilo fin troppo comune, in un Paese dove le reti di prevenzione e di assistenza per le persone in difficoltà sono di fatto inesistenti. Non abbiamo ancora elementi per capire se Salvador volesse «punire» la comunità dei latinos, degli immigrati, di cui forse, a giudicare dal cognome, faceva anche parte.

Si scaverà nella sua vita famigliare. Prima di uscire per la sua folle missione, Salvador ha sparato anche a sua nonna, per uccidere. 

La donna, 66 anni, è ricoverata in un ospedale di San Antonio: non si hanno ancora informazioni precise sulla sua condizione. 

Il ragazzo, probabilmente, aveva preparato uno schema. Forse la nonna aveva capito le sue intenzioni. Forse lo aveva visto uscire con le armi. Salvador è salito in macchina, con sconcertante freddezza. Ha guidato fino alla sua vecchia scuola elementare. 

Una telecamera di sicurezza lo riprende, mentre sta per entrare nell’edificio. È vestito di nero. Sembra voler nascondere il volto con il cappuccio di una felpa. La clip, che circola sui social, è sgranata. Ma sembra di intravedere un mitragliatore semi automatico. 

Il governatore del Texas, Greg Abbott, ha dichiarato che l’assassino «impugnava una pistola e forse un fucile». 

Ma un fatto è chiaro: questa è un’altra strage studiata a tavolino, premeditata. Un diciottenne si trasforma in killer, pronto a mettere sul piatto anche la sua vita. Salvador ha ucciso 19 bambini e due adulti, prima di essere abbattuto dal fuoco dei poliziotti.

Salvador Ramos, il bullizzato e la strage in Texas: Voleva uccidere «come i Marines». Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 25 Maggio 2022.  

La balbuzie, i tagli sulla faccia, la madre tossica. A una ragazza aveva quasi confidato i piani. Ritratto di uno sterminatore «normale», che si era più volte confidato, forse chiedendo aiuto.

Salvador Ramos non era mutante, uno che devia dal sentiero normale della vita per trasformarsi in un killer. No, lo sterminatore ha mostrato comportamenti che forse rappresentavano il tentativo di indicare i demoni che lo agitavano. Scelta non rara, messaggi indiretti non sempre facili da cogliere.

Un’indagine dell’Fbi ha stabilito che avviene nel 50 per cento dei casi di sparatori di massa, con una scala di segnali: al primo posto l’instabilità mentale, poi le interazioni personali durante le quali possono tradire spinte violente, quindi il riferimento esplicito ad attacchi. Salvador ha percorso alcuni di questi gradini senza però farsi notare dalle autorità: nessun precedente serio, nessun riferimento a turbe, ha precisato il governatore Abbott. Alle spalle, comunque, un’esistenza difficile. Nato 18 anni fa in Nord Dakota, Salvador si è trasferito con la mamma a Uvalde, località ad un’ora di auto dal confine messicano e lontana dal Texas ricco. Salvador era preso in giro a scuola per le sue condizioni economiche, per il modo in cui si vestiva e soprattutto per la balbuzie. Un bullismo incessante, iniziato alle medie e proseguito con un dileggio sulle tendenze sessuali dopo che aveva postato una foto che lo ritraeva con gli occhi truccati. Un dettaglio che alcuni ritenevano fosse una provocazione.

La frattura è cresciuta con gli anni, accompagnata da gesti poco rassicuranti. Una volta si è presentato con il volto tagliuzzato, forse piccoli sfregi di autolesionismo. Lo consideravano strano, era un adolescente ai margini e aveva un profilo TikTok con la frase «i ragazzi devono essere spaventati nella vita reale». I contatti sporadici erano intervallati da lunghe ore davanti ai videogiochi. Frequenti le liti tra le pareti domestiche, la madre — sembra con guai legati agli stupefacenti — lo rimproverava perché non studiava, minacciava di cacciarlo. Scontri che avevano richiesto l’intervento della polizia, beghe che lo hanno spinto a trasferirsi dalla nonna.

La traiettoria — comune ad altri assassini — è proseguita anche quando ha trovato un lavoro in un fast food. Dalle 11 della mattina alle 17, tutti i giorni. Di lui non hanno un buon ricordo: indisponente, aggressivo, poco rispettoso verso le ragazze. E poi — di nuovo una costante — la passione per le armi. Una volta aveva espresso il desiderio di arruolarsi nei Marines così avrebbe potuto uccidere. Una frase emersa in altri gesti di sparatori: vogliono imparare a maneggiare fucili e pistole. È un aspetto, quello della preparazione, ormai ricorrente nel profilo degli assassini. Le bocche da fuoco sono lo strumento per eseguire la loro «vendetta», per portare avanti la «rivoluzione», come dicevano i due di Columbine o Elliot Rodger, il misogino estremista autore della strage di Santa Barbara. Chi attacca si veste da militare o in nero, indossa corpetti tattici o giubbetti anti-proiettile, l’abbigliamento adatto ad un’uscita di scena sanguinosa.

Salvador ha atteso di raggiungere la maggiore età per dotarsi del suo arsenale, composto da due fucili, caricatori lunghi e 357 proiettili. Trofei che ha esibito in contatti con donne conosciute sui social alle quali stava quasi per rivelare il suo segreto, il suo piano criminale. Invece si è richiuso nel silenzio, ha ingaggiato l’ultima disputa con la nonna per il mancato diploma e le ha sparato. Con le ultime mosse annunciate 15 minuti prima su Facebook, compreso l’assalto alla sua ex scuola. È entrato in una classe delle elementari, ha gridato ai piccoli «state per morire», li ha falciati con l’AR 15 come fece Adam Lanza a Sandy Hook. Allora si disse che forse si era accanito sugli innocenti che rappresentavano la felicità che lui non aveva avuto. Una tesi che solo l’omicida avrebbe potuto confermare. Adam si è tolto la vita, Salvador è stato ucciso da un agente. Prenderli vivi avrebbe aiutato a capire il nemico interno. Forse.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 maggio 2022.

È stato pubblicato un nuovo video della strage alla Robbery Elementary School di Uvalde, in Texas, dove Salvador Ramos ha ucciso 19 bambini tra i 7 e i 10 anni e due insegnanti prima di essere freddato dalla squadra tattica. Nel filmato si vedono gli agenti impegnati a trattenere i genitori che vogliono entrare nella scuola per salvare i loro figli. 

Quando Ramos arriva, alle 11.30, finisce con la sua auto dentro un fosso. Così attira subito l’attenzione di un agente, che prova inutilmente a fermarlo, seguito da altri due poliziotti, anche questi impotenti. A quel punto Ramos entra nella scuola e si barrica in una quarta elementare. Passano 90 minuti prima che la polizia dichiari finita la sparatoria. 

Intanto fuori si è radunata una folla, e molti poliziotti. Secondo alcuni gli agenti hanno perso tempo a discutere su come raggiungere la classe senza la chiave della porta. Poi un agente di pattuglia di frontiera è riuscito a entrare e ha messo fine alla strage. Erano le 13:06.

Durante tutto quel tempo Ramos ha compiuto il massacro. Un bambino ha raccontato di aver sentito a un certo punto la polizia dire, dall'esterno: “Urla se ti serve aiuto”. Così una sua compagna ha urlato. Ramos è entrato e le ha sparato. 

Durante quei 90 minuti i genitori dei bambini si sono radunati fuori dalla scuola: volevano entrare per salvare i loro figli. Ma gli agenti li hanno trattenuti. Nel video si vede un genitore inchiodato a terra da un ufficiale, mentre un altro poliziotto con un taser si aggira nelle vicinanze. 

In un altro video si vedono i genitori implorare gli agenti: «Che cosa fate? Entrate nell’edificio!”. Una donna urla: «Sono intrappolati dentro”».

(ANSA il 26 maggio 2022) - Diversivo per spostare forze dell'ordine dal confine con il Messico? Macabra sceneggiata per indignare il pubblico sul diritto di portare armi? I genitori delle 19 piccole vittime? "Erano attori". E lo stragista, Salvador Ramos? "Un trans", oppure "un migrante". 

Nelle ore dopo la strage di Uvalde, costata la vita a 19 bambini e due maestre, la disinformazione vola sul Web. Personaggi dell'estrema destra hanno propagato le bufale su piattaforme come Gab, 4chan e Reddit, ma anche Twitter, senza fornire prove o con prove chiaramente false.

Era successo dieci anni fa, dopo il massacro di 27 persone tra cui 20 bambini alla scuola elementare Sandy Hook di Newtown in Connecticut: Alex Jones, uno dei più noti complottisti d'America, lanciò la teoria che quel massacro fosse stato orchestrato dalle forze federali con attori nella parte dei sopravvissuti e dei parenti delle vittime. 

Jones ci ha campato per anni, ma la bufala, a scoppio ritardato, gli è costata cara: il complottista ha perso - ma solo l'anno scorso - quattro cause dei parenti delle vittime e ha visto il suo sito Infowars finire in bancarotta. 

Sandy Hook fu una palestra per i burattinai della disinformazione: per anni i genitori dei bambini uccisi sono stati tormentati dai seguaci di Jones che li accusavano di aver approfittato sulla tragica vicenda.

Da allora è diventato un motivo ricorrente ad ogni sparatoria di massa: negare che la strage sia avvenuta come strategia di chi, dietro le quinte, si oppone a modifiche delle leggi sulle armi. 

Altre agende sono entrate in gioco dopo Uvalde: ore dopo l'attacco, un post sulla piattaforma di estrema destra 4Chan ha sostenuto che Ramos fosse un trans accompagnando la bufala con foto di un uomo vestito da donna. 

A rilanciare l'affermazione sono stati canali Telegram di gruppi di estrema destra come i Proud Boys dove la causa della sparatoria è stata attribuita a una terapia ormonale andata male.

"Non abbiamo prove, ma con tutte queste foto? Qui gatta ci cova", ha detto Stacy Washington, conduttore sulla radio satellitare SiriusXM dello show "Stacy on the Right". 

Attacco ai trans dunque, i cui diritti in questi giorni sono minacciati in tribunale e sulla strada, ma anche ai migranti, tema rovente per il Texas del muro di Donald Trump. "Ha varcato illegalmente il confine?", ha chiesto Code for Vets, un'organizzazione di reduci su Twitter, additando "la grave crisi di sicurezza dell'America", nonostante le autorità, tra cui il senatore statale Roland Gutierrez, avessero confermato che Ramos era nato in North Dakota.

Porta fiori alla scuola della strage ma ha un malore, morto il marito della maestra uccisa in Texas. “Stavano insieme dai tempi del liceo e lui non ha retto al dolore della morte della sua amata” hanno dichiarato i familiari. La coppia lascia quattro figli. A cura di Antonio Palma su Fanpage il 26 maggio 2022.

Era andato davanti alla scuola dove si è consumata la strage in Texas per portare dei fiori in memoria delle vittime ma non ha retto al dolore e poco dopo si è accasciato a terra per un malore che lo ha ucciso. Così è morto Joe Garcia marito di Irma Garcia, una delle due maestre uccise dal 18enne Salvador Ramos alla scuola di Uvalde, in Texas, insieme a 19 tra bimbi e bimbe. A darne notizia è stata la famiglia dei due coniugi che erano insieme da oltre 25 anni. Un nuovo lutto che ha gettato nello sconforto tutti i parenti e l'intera comunità dove la coppia viveva ed era conosciuta.

Come ha spiegato il nipote della coppia, John Martinez, la morte dell'uomo è avvenuta in pochi attimi nella mattinata di giovedì. L'uomo ha visitato il memoriale della strage dove tutti stanno portano dei fiori e così ha fatto anche lui ma ha iniziato a sentirsi male. Il tempo di arrivare a casa ed è caduto a terra esanime senza più riprendersi. Nonostante le cure dei paramedici, purtroppo  Joe Garcia è morto, stroncato da un infarto 48 ore dopo l'assassinio della moglie. "Stavano insieme dai tempi del liceo e lui non ha retto al dolore della morte della sua amata" hanno dichiarato i familiari. 

La coppia lascia quattro figli di cui la più piccola ancora alle elementari e l più grande che sta completando il campo di addestramento dei marine. Un altro figlio frequenta la Texas State University University mentre la terza a va al secondo anno delle superiori. Una famiglia distrutta in poche ore e per la quale ora i parenti hanno lanciato una campagna di raccolta fondi.

La campagna era partita inizialmente per la maestra 43enne della Robb Elementary di Uvalde, ma due giorni dopo purtroppo all'elenco si è aggiunto il marito. "Per favore, mantenete la nostra famiglia nei vostri pensieri e nelle vostre  preghiere. Credo davvero che Joe sia morto di crepacuore e che perdere l'amore della sua vita di oltre 25 anni sia stato troppo da sopportare" ha scritto la cugina di Irma Garcia, aggiungendo: "Per favore, dona tutto ciò che puoi per aiutare la loro famiglia. Il 100% del ricavato andrà alla famiglia Garcia per spese varie.

Strage Texas, morto d’infarto il marito di una delle due insegnanti uccise: «Aveva il cuore spezzato». Valentina Santarpia su Il Corriere della Sera il 26 maggio 2022.  

È morto di infarto, con il cuore spezzato, dicono ora i suoi parenti, Joe Garcia, il marito di Irma Garcia, 49 anni , una delle insegnanti morte nella strage di Uvalde, in Texas.Garcia, 50 anni, è stato stroncato da un attacco cardiaco giovedì dopo aver visitato il memoriale di sua moglie e averle lasciato dei fiori, ha detto suo nipote al New York Times . «È tornato a casa, si è seduto a tavola con la famiglia, e dopo tre minuti è collassato. Mia madre ha provato a fargli il massaggio cardiaco. Hanno chiamato un’ambulanza e lo hanno portato in ospedale: non è più tornato». La coppia, insieme dai tempi del liceo, era sposata da 24 anni e ha lasciato quattro figli, di 23, 19, 15 e 13 anni. 

Sua moglie aveva perso la vita due giorni prima, per difendere gli studenti dal killer che ha sparato a bruciapelo nella sua classe di quarta elementare, uccidendo due maestre e 19 bambini, prima di essere colpito e ucciso dalla polizia. Martinez, studente universitario, ha raccontato che l’hanno trovata abbracciata ai suoi bambini, per proteggerli fino all’ultimo.

«Sono davvero senza parole su come ci sentiamo tutti, per favore prega per la nostra famiglia, Dio abbi pietà di noi, non è facile», ha twittato il nipote della coppia, John Martinez, 21 anni, parlando di «troppo dolore da sopportare».

Irma Garcia ha insegnato alla Robb Elementary per 23 anni. La pagina di presentazione sul sito web del distretto scolastico raccontava i suoi hobby: amava ascoltare musica, fare passeggiate in campagna e barbecue con suo marito. «Era un’ottimista ed era sempre affettuosa con tutti», ha aggiunto il nipote, ricordando come alle riunioni di famiglia facesse battute e cantasse le canzoni rock classiche.

Chi sono le vittime della strage di Uvalde, in Texas

I familiari hanno raccontato al Washington Post che Irma era una cuoca incredibile e che lei e Joe invitavano spesso la loro famiglia allargata a cena. In una pagina GoFundMe iniziata in onore della famiglia, la cugina di Irma l’ha definita una «persona meravigliosa» che «farebbe letteralmente qualsiasi cosa per chiunque... senza fare domande». «Credo davvero che Joe sia morto di crepacuore e perdere l’amore della sua vita di oltre 25 anni è stato troppo da sopportare», ha scritto. 

Strage in Texas, lacrime finte e killer trans : le bugie come a Sandy Hook. Greta Privitera su Il Corriere della Sera il 26 maggio 2022.  

Su Telegram, e su 4chan — un sito frequentato dall’estrema destra — qualche ora dopo, già si leggeva: «Il killer della strage di Uvalde era transgender». Affermazione falsa con allegate prove, naturalmente false: decine di foto che mostravano un ragazzo in abiti femminili rubate a un utente su Instagram. Poi sono arrivati i , il gruppo di suprematisti bianchi diventati famosi dopo l’attacco al Campidoglio. «Certo, la sparatoria è il risultato della terapia ormonale», hanno scritto nelle loro chat. A chiudere il cerchio — anzi, ad allargarlo — ci si è messo Paul Gosar, un repubblicano dell’Arizona, membro della Camera dei Rappresentanti, che su Twitter ha postato (e poi rimosso): «È un transessuale, straniero clandestino di sinistra di nome Salvador Ramos. Il genere di spazzatura che piace a voi».

Nemmeno il tempo di contare i morti, che sui social già le teorie del complotto sulla strage di Uvalde — dove il diciottenne Salvador Ramos ha ucciso 21 persone, tra cui 19 bambini — si sono fatte largo tra le bacheche di migliaia di americani, aggiungendo un’altra analogia con il massacro di Sandy Hook, avvenuto dieci anni fa a Newtown, in Connecticut. Allora il ventenne Adam Lanza aveva ucciso 27 persone, 20 delle quali erano bimbi di età compresa tra i sei e sette anni.

Non bastavano la scuola elementare, i piccoli morti tra i banchi e i corridoi, la giovane età del killer ed ex alunno. Non bastavano le immagini delle famiglie distrutte dal dolore nel parcheggio della scuola ad accomunare queste due cittadine della provincia americana, geograficamente lontanissime (3.200 chilometri, trenta ore di macchina). A completare la tragica somiglianza sono arrivate le fake news. Quello che è successo alle famiglie di Sandy Hook sta succedendo ora a quelle di Uvalde. Oltre al dolore per la perdita dei loro figli, i genitori del Connecticut hanno dovuto affrontare per dieci anni l’umiliazione di doversi difendere dalle accuse false e infamanti dei cospirazionisti. Ormai capita per ogni fatto di cronaca, ma a Sandy Hook i complottisti hanno diviso una comunità, rovinato vite già messe alla prova dal destino.

Nel 2012 Telegram non esisteva ancora. In quel caso era iniziato tutto da un gruppo chiuso di Facebook, frequentato da una decina di persone. L’immagine della pagina era quella di un bambino con gli occhi cerchiati di nero, un dito sporco di fango premuto sulle sue labbra. Hanno iniziato a chiedersi se la strage fosse vera, se non fosse architettata dal governo federale, dallo Stato. C’era chi si scambiava le foto dei bambini uccisi per confrontarle con altri che incontravano per strada, cercando di dimostrare che le vittime fossero ancora vive, che fosse tutta una montatura. C’era chi sosteneva di averli visti ai loro funerali. Per esempio, Lenny Pozner e sua moglie erano i genitori di Noah, un bambino di sei anni ucciso nella strage. Sono stati accusati di essere attori, di aver pianto a comando davanti alle telecamere. Per convincere che la morte del figlio era vera, si sono trovati costretti a pubblicare il referto dell’ospedale. «Ma più cercavo di spiegare la verità, e più i complottisti mi attaccavano», ha raccontato Pozner. Sono stati sommersi di minacce e alla fine hanno dovuto cambiare casa.

A Uvalde il copione si ripete. Oltre alla falsa notizia del killer transgender, c’è chi sostiene che la sparatoria sia stata orchestrata per allontanare le impegnate sul confine con il Messico e permettere così a trafficanti di droga e criminali di varcare la frontiera. Come per Sandy Hook, c’è chi ha scritto sui social che i genitori delle vittime non fossero abbastanza disperati, che fossero in realtà attori che interpretavano un ruolo. Sempre su Telegram, gruppi di estrema destra hanno diffuso un’altra fake news su Salvador Ramos. Hanno scritto che era un immigrato senza documenti, anche dopo che Roland Gutierrez, un senatore del Texas, ha confermato che era nato in Nord Dakota.

Strage in Texas, la polizia ammette: «Abbiamo aspettato troppo». Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 27 Maggio 2022.   

Il responsabile per la sicurezza dello Stato: «È stata una decisione sbagliata». Il killer ha cominciato a sparare alle 11,33, due minuti dopo 7 agenti sono nel corridoio ma non intervengono.

Il colonnello Steven McCraw è il direttore della Pubblica sicurezza del Texas. La massima autorità di polizia dello Stato. Si presenta a Uvalde e la sua conferenza stampa, trasmessa in diretta tv, stordisce l’America: «La polizia non è intervenuta subito, durante la sparatoria. È stata una decisione sbagliata». Le domande dei reporter sono affilate, perché intanto la ricostruzione della strage nella Robb Elementary School, è sempre più precisa. McCraw è visibilmente provato: «Penso alle famiglie delle vittime. Se servisse a qualcosa, chiederei scusa».

Così l’intera nazione passa da un trauma all’altro. Da una parte le ricerche sui social fanno luce sulla personalità disturbata di Salvador Ramos, un diciottenne alla deriva. Aveva lasciato la scuola, era in rotta con la madre, si era sistemato dalla nonna. Lavorava saltuariamente in un fast food e, soprattutto, era ossessionato dalle armi. Dall’altra la scuola elementare di Uvalde, una cittadina nel Texas più profondo, non lontana dal confine messicano. Atmosfera di festa, a due giorni dalle vacanze. E poi gli agenti di polizia, incerti, incredibilmente maldestri e forse anche passibili di incriminazione, se gli elementi raccolti finora saranno confermati dagli inquirenti. C’è un precedente: il 14 febbraio 2018 l’agente di guardia, Scot Peterson, tardò a intervenire mentre si sparava all’interno di un liceo di Parkland. Il poliziotto fu arrestato ed è ancora sotto processo.

La sequenza degli eventi comincia con un video girato alle 11.28 di martedì 24 maggio. Si vede un insegnante uscire e lasciare aperta la porta posteriore dell’edificio. Un minuto dopo il pick-up di Ramos finisce nel fosso che delimita la strada e alle 11.30 il 911, il numero di emergenza, riceve la prima chiamata: venite, c’è un tizio armato di fucile. Ancora giovedì, Daniel Rodriguez, capo del Dipartimento della polizia di Uvalde, aveva diffuso una nota in cui sosteneva che «gli agenti erano intervenuti in pochi minuti». Vero, ma il punto è che non hanno neanche provato a fermare l’assassino, come ha spiegato il colonnello McCraw. Ramos penetra indisturbato nella palazzina incustodita. Comincia a sparare alle 11.33, in due aule. Alle 11.35 sette agenti, compreso il vice sceriffo, prendono posizione in un corridoio, ma non agiscono. Passa una mezz’ora cruciale. Il giovane killer spara nel mucchio con un fucile semi-automatico. Alla fine si conteranno almeno 100 proiettili. Alle 12.03 nella scuola si trovano 19 tutori dell’ordine: aiutano gli studenti e gli insegnanti a fuggire, ma nessuno ancora affronta Salvador, nonostante il 911 sia ormai tempestato di telefonate. Sono gli insegnanti barricati nelle aule, oppure alcuni bambini straordinariamente lucidi. A quel punto, probabilmente, Ramos ha già compiuto la carneficina: 19 scolari e scolare, due docenti.

Ma le autorità continuano tragicamente a sbagliare. Alle 12.15 sopraggiunge la squadra speciale dei Border Patrol, la guardia di frontiera. Pronti a fare irruzione nella stanza dove si è nascosto l’assalitore. Ma il comandante della polizia di Uvalde, cioè Daniel Rodriguez, li ferma. Per quale motivo? «Lo dobbiamo ancora accertare — ha risposto ancora McCraw — probabilmente pensava che non ci fosse più pericolo per i bambini e che si potesse catturare il killer. È stata una decisione sbagliata». Solo alle 12.50 il team degli specialisti sfonda la porta e uccide Salvador Ramos.

Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 29 maggio 2022. 

«Abbiamo preso la decisione sbagliata. Con il senno di poi posso dirlo: non abbiamo scuse per gli errori che abbiamo fatto».Il capo del dipartimento di pubblica sicurezza del Texas, Steven McCraw, cede alla commozione mentre ammette in piena conferenza stampa il fallimento della polizia cittadina nel rispondere al blitz omicida alla Robb di martedì scorso di Salvador Ramos. 

Deve interrompere il discorso per trattenere le lacrime, ma gli occhi sono rossi e tradiscono il dolore profondo che prova nel pronunciare le parole. La verità è che ancora oggi nemmeno i poliziotti sanno se i bambini erano vivi o morti quando gli agenti sono arrivati sulla scena, e per oltre un'ora hanno aspettato prima di fare irruzione nelle due aule comunicanti: la 111 e la 112, dove l'assassino si era rinchiuso con i piccoli studenti e le due maestre.

Ramos era scappato da casa della nonna alle 11 dopo averle sparato alla testa al termine di una lite. Ventotto minuti dopo si è infilato con la vettura in un fosso in prossimità della scuola, a velocità sufficiente per rompere i semiassi anteriori della vettura. È uscito dal lato del passeggero con il giubbotto antiproiettile addosso e uno dei due fucili automatici in mano. Ha notato qualcuno che lo stava guardando di fronte alla porta di un'agenzia di pompe funebri e ha sparato i primi colpi in quella direzione, senza per fortuna raggiungere l'obiettivo. 

Poi si è infilato nella porta posteriore della scuola, che era aperta in violazione del codice scolastico. L'agente di sicurezza che avrebbe dovuto essere lì davanti si era allontanato con la sua auto ed è accorso solo dopo aver sentito l'allarme via radio. Ma quando è arrivato, lui e l'altro collega assegnato alla scuola sono stati fermati dal fuoco di sbarramento del ragazzo. A quel punto erano le 11:33. Ramos è entrato indisturbato nelle aule e poco dopo ha iniziato a sparare: in tutto un centinaio di colpi. 

Sette agenti della polizia locale sono entrati nei corridoi della scuola e hanno raggiunto la porta delle classi, dove di nuovo sono stati accolti dai proiettili che Ramos sparava attraverso le pareti di cartongesso. «Cosa avremmo dovuto fare? Rischiare di essere uccisi, e lasciare via libera allo sparatore perché potesse entrare in altre classi?» è la misera difesa che tenta il luogotenente Chris Olivarez.

Il codice di comportamento richiedeva esattamente questo, che i poliziotti attirassero su di sé le pallottole, per evitare che lo stragista le indirizzasse verso le sue vittime. Quanti bambini sono stati uccisi negli ottantasette minuti successivi, mentre i poliziotti ricevevano rinforzi da squadre speciali e tiratori scelti, ma restavano inerti in attesa?

 Dall'interno dell'aula i bambini hanno continuato a chiamare disperati il numero di pronto soccorso della polizia: «Mandateci i poliziotti, subito!», «Non possiamo scappare, lui ha chiuso la porta!».Ramos ha sparato gli ultimi colpi alle 12:21 e solo mezz' ora dopo tre tiratori scelti sono entrati nell'aula, preceduti da un agente che imbracciava un grosso scudo antiproiettile.

Nella sparatoria finale uno dei poliziotti è stato appena toccato alla testa da un proiettile che gli ha lacerato il cuoio capelluto. «Il comandante sul posto riteneva che non ci fossero bambini in pericolo - l'amara chiusura di McCraw - Ovviamente sbagliava».

La rabbia delle famiglie nei confronti dei tutori dell'ordine è evidente, ma soppressa per ora dal cordoglio. Ieri avrebbe dovuto essere il primo giorno delle vacanze estive e della festa per la fine della scuola. Genitori e parenti sono invece occupati dai preparativi per i funerali, e in attesa delle bare che l'unico costruttore degli Usa specializzato per l'infanzia sta personalizzando con le misure di ognuno dei corpicini.

A Houston nel frattempo è iniziata la conferenza annuale della lobby delle armi. Doveva essere una festa di celebrazione del secondo emendamento della costituzione; gli organizzatori dicono che invece sarà l'occasione per commemorare le vittime, alla presenza di oratori illustri come Donald Trump e il senatore Ted Cruz. Ma lo stand della Daniel Defense, costruttrice dell'Ar15 che ha sparato a Uvalde, è vuoto. Al suo posto ci sono una macchina per popcorn e una che distribuisce bibite ghiacciate.

"Ho saltato il recinto e salvato i miei figli". Il racconto choc sulla strage in Texas. Valentina Dardari su Il Giornale il 29 Maggio 2022.   

Angela Rose Gomez, che lavora come manager in una fattoria, è stata definita una madre coraggio dopo che ha saltato il recinto ed è corsa a salvare i suoi figli. Oggi andranno a farle visita il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e la first lady. A loro chiederà che venga fatta giustizia per quei 19 bambini e quelle due insegnanti che sono morti nella strage alla Robb elementary school di Uvalde in Texas, per mano del 18enne Salvador Ramos.

“I poliziotti potranno tornare a casa dai figli, noi no” è il grido lanciato dai genitori che in quel tragico attacco hanno perso i loro bambini. Quando ha saputo cosa stava accadendo alla scuola elementare frequentata dai suoi due figli, la Gomez è subito salita a bordo della sua auto e ha guidato fino alla struttura scolastica, distante una settantina di chilometri, per arrivare all’edificio nel minor tempo possibile. Quando è giunta ha visto decine di poliziotti fermi davanti all’edificio, coma da lei stessa raccontato al Wall Street Journal: “Non facevano niente, se ne stavano fuori, senza entrare, senza andare da nessuna parte”.

La risposta degli agenti ai genitori

Insieme ad altre madri ha chiesto agli agenti di intervenire ma è stato risposto loro che non potevano se continuavano a intromettersi. La Gomez è stata perfino arrestata perché stava intralciando il lavoro della polizia, ma poco dopo è stata rilasciata grazie a un amico poliziotto intervenuto in sua difesa. La donna non si era però lasciata intimorire e, una volta allontanatasi dagli altri genitori presenti, è corsa in direzione della scuola e ha saltato la recinzione.

Un padre che aveva provato a fare la stessa cosa era stato fermato con dello spray al peperoncino. Impresa invece riuscita alla Gomez che, entrata nell’edificio, ha recuperato i suoi due figli e li ha condotti all’esterno, sani e salvi. Tra l’irruzione del folle omicida nella scuola e la sua morte per mano della polizia c’è un’ora e venti minuti di blocco, nonostante il protocollo di sicurezza esistente.

Un buco di un'ora e 20minuti

Come ricostruito dalla stampa americana e dalla polizia, il 18enne ha sparato alla nonna ed è poi salito sul pickup Ford e alle 11,28 ha abbattuto una barriera in prossimità della scuola elementare frequentata soprattutto da bambini ispanici. L’omicida ha quindi sparato, ferendole, a due persone incontrate lungo la strada, utilizzando il suo fucile AR-15. Erano le 11,33 quando Ramos è entrato nella struttura attraverso una porta sul retro che era stata lasciata aperta. Si è poi fermato davanti alle aule 111 e 112, tra loro comunicanti. Irma Garcia, insegnante e madre di quattro figli, stava guardando con i bambini un film della Disney, 'Lilo & Stitch', e quando è uscita nel corridoio per vedere cosa stava succedendo, non ha fatto in tempo a rientrare in aula per mettere in salvo la classe. Il killer le ha ordinato di rientrare e l’ha subito freddata.

Sono un centinaio i colpi sparati in pochi minuti. Se i poliziotti avessero fatto irruzione subito con ogni probabilità qualche bambino si sarebbe potuto salvare, ma questo non si può sapere con certezza. Si sa invece che i poliziotti, diciannove, hanno aspettato l’arrivo degli agenti speciali della Patrol Border, che sono giunti alla fine di un viaggio lungo quaranta minuti dalla frontiera con il Messico. Alle 12,10 Ramos era ancora vivo. Alcuni bambini si sono salvati perché si erano finti morti e si erano sporcati vestiti e corpo con il sangue dei compagni di classe deceduti.

Altri avevano telefonato al 911 chiedendo aiuto, tra loro anche un bimbo che avvertiva che 8-9 suoi amichetti erano ancora vivi. Poi la chiamata di una bambina alle 12,19 subito interrotta, un’altra dopo due minuti con tre spari in sottofondo. L’ultima, quella di una bimba alle 12,47 che supplicava sottovoce: “Per favore, mandate la polizia ora”. Finalmente, alle 12,50 gli agenti speciali hanno deciso di agire nonostante la polizia locale dicesse loro di aspettare. Sono entrati con la chiave data del custode, hanno aperto la porta dell'aula e ucciso il killer.

Eva e Irma, le maestre crivellate di colpi per far scudo agli alunni. Francesco Semprini su La Stampa il 25 maggio 2022. 

Ogni strage ha i suoi eroi. È l’amara cronaca che accompagna quasi sempre le mattanze americane, specie se compiute, come non di rado è accaduto, in scuole o università. Alla Robb Elementary School di Uvalde, città del Texas ai margini, gli eroi, o meglio le eroine, sono state le maestre. Due insegnanti di quarta elementare che si sono immolate nel tentativo disperato di proteggere i propri alunni dalla follia armata di Salvador Ramos. La prima è Irma Garcia, maestra da 23 anni, ne aveva 46, ha fatto scudo con il proprio corpo ai piccoli allievi - ha riferito la polizia - e pagato con la vita per questo atto di coraggio. Lascia quattro bambini. Nel 2019 era stata nominata maestra dell'anno. La mia «Tia» non ce l'ha fatta, si è sacrificata proteggendo i bambini nella sua classe, vi prego di pensare alla mia famiglia quando pregate, IRMA GARCIA È IL SUO NOME ed è morta da EROE. Era amata da molti e ci mancherà davvero», scrive di lei il nipote sui social. L'amica Lisa G Salazar ha condiviso uno scatto di sé stessa mentre abbracciava Garcia sulla sua pagina Facebook, provocando un’esplosione di emozioni da parte di familiari e amici colpiti. Un’altra, l'amica Danielle Boone, ha pubblicato un tributo a Garcia su Facebook, scrivendo: «Non ci sono parole. Irma Garcia era un'anima dolce, divertente e meravigliosa. Il mio cuore soffre per la sua straordinaria famiglia. Ho il cuore spezzato. Signore, per favore, sii con tutti loro durante questo incubo». L'omicidio di Garcia è stato confermato poche ore dopo quello della collega, l’altra maestra eroina è Eva Mireles, 44 primavere, insegnava alla Robb da 17 anni, ed era sposata con un ufficiale di polizia e aveva una figlia che frequenta il college. In una breve biografia pubblicata sul sito web del distretto scolastico, aveva scritto di avere «una famiglia solidale, divertente e amorevole» composta da suo marito, sua figlia laureata e «tre amici pelosi». Nel tempo libero Mireles amava correre, fare passeggiate, andare in bicicletta e godersi la famiglia. Il coniuge, Ruben Ruiz, è un agente di polizia del distretto scolastico, lo stesso bureau che indaga sul massacro, sono stati i suoi colleghi a informarlo della morte della donna. Solo qualche giorno fa aveva partecipato a un’esercitazione scolastica simulando l’attacco di un uomo armato con i bambini stesi per terra che fingevano di essere morti o feriti. «Mamma sei un’eroina. Continuo a ripetermi che non è vero, voglio solo risentire la tua voce», scrive sui social la figlia. «Voglio che torni a casa da me, mamma, mi manchi in un modo che le parole non possono esprimere», ha aggiunto Adalynn. «Non so come farò a vivere senza di te ma mi prenderò cura di papà - ha detto ancora - ripeterò sempre il tuo nome così che verrà sempre ricordato». È stata la zia di Mireles, Lydia Martinez Delgado, la prima a confermare l'identità della vittima: «Non avrei mai immaginato che questo sarebbe potuto succedere a un familiare» ha dichiarato alla Cnn, dicendosi «furiosa per il fatto che le sparatorie continuano, questi bambini innocenti, con fucili che non dovrebbero essere così facilmente disponibili, in una comunità come la nostra con meno di 20mila abitanti». Domani Garcia e Mireles avrebbero celebrato con i loro alunni la fine dell’anno scolastico e l’inizio delle vacanze estive.

Fra. Sem. per “la Stampa” il 26 maggio 2022.

Ogni strage ha i suoi eroi. È l'amara cronaca che accompagna quasi sempre le mattanze americane, specie se compiute, come non di rado è accaduto, in scuole o università. Alla Robb Elementary School di Uvalde, città del Texas ai margini, gli eroi, o meglio le eroine, sono state le maestre. Due insegnanti di quarta elementare che si sono immolate nel tentativo disperato di proteggere i propri alunni dalla follia armata di Salvador Ramos. 

La prima è Irma Garcia, maestra da 23 anni, ne aveva 46, ha fatto scudo con il proprio corpo ai piccoli allievi - ha riferito la polizia - e pagato con la vita per questo atto di coraggio. Lascia quattro bambini. Nel 2019 era stata nominata maestra dell'anno. La mia «Tia» non ce l'ha fatta, si è sacrificata proteggendo i bambini nella sua classe, vi prego di pensare alla mia famiglia quando pregate, IRMA GARCIA È IL SUO NOME ed è morta da EROE. Era amata da molti e ci mancherà davvero», scrive di lei il nipote sui social.

L'amica Lisa G Salazar ha condiviso uno scatto di sé stessa mentre abbracciava Garcia sulla sua pagina Facebook, provocando un'esplosione di emozioni da parte di familiari e amici colpiti. Un'altra, l'amica Danielle Boone, ha pubblicato un tributo a Garcia su Facebook, scrivendo: «Non ci sono parole. Irma Garcia era un'anima dolce, divertente e meravigliosa. Il mio cuore soffre per la sua straordinaria famiglia. Ho il cuore spezzato. Signore, per favore, sii con tutti loro durante questo incubo».

L'omicidio di Garcia è stato confermato poche ore dopo quello della collega, l'altra maestra eroina è Eva Mireles, 44 primavere, insegnava alla Robb da 17 anni, ed era sposata con un ufficiale di polizia e aveva una figlia che frequenta il college. In una breve biografia pubblicata sul sito web del distretto scolastico, aveva scritto di avere «una famiglia solidale, divertente e amorevole» composta da suo marito, sua figlia laureata e «tre amici pelosi». 

Nel tempo libero Mireles amava correre, fare passeggiate, andare in bicicletta e godersi la famiglia. Il coniuge, Ruben Ruiz, è un agente di polizia del distretto scolastico, lo stesso bureau che indaga sul massacro, sono stati i suoi colleghi a informarlo della morte della donna. Solo qualche giorno fa aveva partecipato a un'esercitazione scolastica simulando l'attacco di un uomo armato con i bambini stesi per terra che fingevano di essere morti o feriti.

«Mamma sei un'eroina. Continuo a ripetermi che non è vero, voglio solo risentire la tua voce», scrive sui social la figlia. «Voglio che torni a casa da me, mamma, mi manchi in un modo che le parole non possono esprimere», ha aggiunto Adalynn. «Non so come farò a vivere senza di te ma mi prenderò cura di papà - ha detto ancora - ripeterò sempre il tuo nome così che verrà sempre ricordato». 

È stata la zia di Mireles, Lydia Martinez Delgado, la prima a confermare l'identità della vittima: «Non avrei mai immaginato che questo sarebbe potuto succedere a un familiare» ha dichiarato alla Cnn, dicendosi «furiosa per il fatto che le sparatorie continuano, questi bambini innocenti, con fucili che non dovrebbero essere così facilmente disponibili, in una comunità come la nostra con meno di 20mila abitanti». Domani Garcia e Mireles avrebbero celebrato con i loro alunni la fine dell'anno scolastico e l'inizio delle vacanze estive. 

Simona Siri per “la Stampa” il 26 maggio 2022.

Aveva appena compiuto 18 anni, un'età nella quale negli Stati Uniti non si possono comprare alcolici. Armi invece sì. E infatti, pochi giorni dopo il suo compleanno avvenuto il 16 maggio, Salvador Rolando Ramos ha comprato legalmente due fucili automatici AR-15 e con quelli martedì scorso ha compiuto una strage, uccidendo diciannove bambini e due adulti della Robb Elementary School vicino a Uvalde, cittadina di quindicimila abitanti in Texas. Prima, a casa, aveva sparato e ferito la nonna. 

Un particolare che rende la dinamica di questa carneficina molto, troppo simile a quella avvenuta nella scuola elementare di Sandy Hook, a Newtown Connecticut, dove il 14 dicembre 2012 il ventenne Adam Lanza massacrò venti bambini e sei adulti, dopo che a casa aveva ucciso la madre Nancy.

Solitario e vittima di bullismo a causa della balbuzie di cui aveva sofferto da piccolo: è così che amici e parenti descrivono Ramos alla stampa, ai giornalisti accorsi in Texas per cercare di spiegare l'inspiegabile, per trovare una parvenza di movente. «Eravamo amici, fino a quando il suo comportamento ha iniziato a deteriorarsi», ha dichiarato Santos Valdez Jr al Washington Post. 

I due si conoscevano fin da bambini, passavano ore a giocare a Fortnite o Call of Duty. Fino a quando Ramos un giorno si è presentato a un appuntamento con l'amico con la faccia piena di tagli: se li era fatti da solo, con un coltello, per divertimento. Nella prima infanzia, sostengono gli amici, era stato soprannominato «pelon», che in spagnolo significa calvo, per i suoi capelli incredibilmente corti. Entrato nell'adolescenza, aveva incominciato a farseli crescere, forse proprio per dimenticare e far dimenticare il se stesso da piccolo.

Altri conoscenti riportano di una famiglia piena di problemi, una madre dipendente dalla droga, le frequenti visite della polizia, la nonna con cui Ramos era andato a vivere ma con cui non andava d'accordo. 

«Due mesi fa ha pubblicato una storia su Instagram in cui urlava contro sua madre, che secondo lui stava cercando di cacciarlo di casa» ha raccontato Nadia Reyes, una compagna della scuola superiore. «Nel video si vedevano i poliziotti in casa e lui che chiamava sua madre troia. Urlava e parlava con sua madre in modo davvero aggressivo».

«Non era una persona molto sociale o almeno aveva smesso di esserlo dopo essere stato vittima di bullismo», ha dichiarato la cugina Mia. «Penso che a scuola non fosse mai stato a suo agio con nessuno».

Altri lo descrivono timido e riservato, spesso vestito di nero, troppo spesso preso in giro per come parlava, si vestiva o perché usava il mascara, fatto che gli aveva tirato addosso i soliti termini denigratori che si usano per le persone che si pensa siano omosessuali. «Da quando non andava più a scuola era peggiorato», ha detto sempre al Washington Post un altro amico, sottolineando come le troppe assenze gli avevano impedito di diplomarsi quest' anno insieme al resto della sua classe.

Da febbraio aveva incominciato a lavorare presso la catena di fast food Wendy. I colleghi hanno dichiarato al Daily Beast che era spesso aggressivo e che inviava messaggi inappropriati alle dipendenti donne. «Tranquillo e antisociale», sono i termini usati per descriverlo «e a volte era molto scortese con le ragazze».

E poi la passione per le armi. Su Instagram già un anno fa Ramos aveva postato le foto di due fucili automatici AR-15 che erano nella sua «lista dei desideri».

Quattro giorni fa, le immagini dei due fucili con la didascalia: «Le mie armi». Il suo profilo è stato bloccato dalle autorità subito dopo la strage, non prima di aver svelato particolari inquietante. Secondo gli investigatori prima di recarsi alla Robb Elementary School Ramos avrebbe preannunciato l'attacco su Facebook e taggato sulla foto dei fucili una giovane donna con cui poi si sarebbe scambiato dei messaggi. «Ritieniti fortunata», si legge nello scambio che è stato ripreso dal New York Post. La risposta: «No, mi fai solo paura. Ti conosco appena e metti il mio nome sopra a una foto di armi».

«Sto per farlo», si legge nel messaggio successivo scritto da Ramos qualche ora più tardi. E poi «te lo dico prima delle 11» in risposta al messaggio della donna che gli chiedeva che cosa stesse per fare. L'ultimo messaggio di Ramos è delle 9.16 del mattino della strage. Il primo colpo all'interno della stessa classe, quella dove moriranno diciannove bambini, viene sparato alle 11.30. «Lo conoscevo appena», ha dichiarato la donna. «L'unico motivo per cui gli ho risposto è che avevo paura». 

Il nonno, Ronaldo Reyes, a ABC News ha detto che non sapeva che suo nipote avesse acquistato due fucili né che li tenesse in casa. In quanto persona con precedenti condanne penali, a Reyes non è permesso avere armi e se avesse saputo avrebbe denunciato il nipote alla polizia.

«Non so neanche come abbia imparato a usarle», ha detto. Il primo acquisto risale al 17 maggio: un fucile AR-15 acquistato online sul sito Daniel Defense. Il giorno successivo, Ramos ha acquisto 375 munizioni, secondo fonti citate da Click2Houston. Il 20 maggio ha comprato un altro fucile da un rivenditore locale. Questo secondo fucile è stato trovato all'interno dell'auto abbandonata martedì in un fosso prima della strage. L'altro, quello acquistato online, è stato ritrovato all'interno della scuola, dove Ramos è stato colpito e ucciso dalla polizia. Sul sito web Yubo, racconta il The Daily Dot, ci sarebbe ancora la ricevuta dell'acquisto. Prezzo pagato: 1,780 dollari.

Francesco Semprini per “La Stampa” il 27 maggio 2022.

Rabbia per i presunti ritardi della polizia e indignazione per l'immobilismo sulla circolazione selvaggia delle armi. L'America si ritrova a fare i conti con sé stessa dinanzi alle 19 piccole vittime della Robb Elementary School, di Uvalde in Texas, a cui si aggiungono le due insegnanti morte mentre facevano da scudo ai loro alunni dalla follia omicida del 18enne Salvador Ramos. 

Il marito di una di loro è morto il giorno dopo di infarto, mentre Joe Biden e la first lady Jill domenica saranno in Texas per incontrare le famiglie delle vittime. 

Una strage annunciata sui social dallo stesso killer che, nei giorni passati, aveva inviato una serie di messaggi a una ragazza in Germania annunciandole «vado a sparare in una scuola elementare» e che aveva «appena sparato alla testa a sua nonna». La ragazza, su cui indagano gli inquirenti, ha 15 anni, vive a Francoforte e aveva conosciuto il killer tramite una piattaforma social il 9 maggio. Nei giorni precedenti Samos aveva detto alla ragazza che erano arrivate le munizioni.

Ed è proprio sulla tempistica che esplode la rabbia delle famiglie delle vittime, un'ora sarebbe trascorsa dall'ingresso del killer nel complesso scolastico della cittadina tra il confine con il Messico e San Antonio e la sua uccisione. «Entrate! Entrate!», urlavano disperati agli agenti i genitori accorsi fuori dalla scuola, nei video di quei momenti terribili ripresi da testimoni e abitanti. 

Javier Cazares, la cui figlia di otto anni Jacklyn è stata uccisa nell'attacco, ha detto che era pronto con altri tre o quattro padri a entrare nella scuola. «I poliziotti erano impreparati, stavano lì in piedi senza fare nulla», ha accusato, devastato dal dolore. «C'erano molti agenti armati là fuori, potevano entrare, poteva finire tutto in pochi minuti», è l'accusa del 43 enne. E invece ne sono passati dai 40 a oltre un'ora. Angeli Rose Gomez, madre di due bambini, sarebbe invece riuscita a sfondare le recinzioni e a mettere in salvo i suoi piccoli dopo che era stata persino ammanettata dagli agenti.

La polizia del Texas ha fornito una ricostruzione della dinamica del massacro. Ramos si è prima «confrontato» con una guardia di sicurezza della scuola, Erick Estrada, fuori dall'edificio, poi si è imbattuto in altri due agenti nell'atrio che ha colpito e ferito. La polizia non ha spiegato l'entità dello scontro a fuoco, ma si è limitata a dire che i due agenti colpiti «hanno ripiegato chiamando i rinforzi».

A rispondere è stata la Border Patrol Tactical Unit, il reparto dell'autorità di frontiera specializzato nel rispondere a minacce terroristiche di tutti i tipi. Qui si ferma la ricostruzione della polizia ma gli interrogativi restano. 

A sbloccare la situazione, svelano alcuni media Usa, sarebbe stato proprio un agente Btpu che peraltro non era in servizio. L'uomo, la cui identità rimane riservata, pur senza copertura si è introdotto nell'istituto ingaggiando uno scontro a fuoco col killer, il quale lo ha ferito alla testa. Nonostante questo, l'agente non ha desistito riuscendo a raggiungere Ramos e uccidendolo. 

Una prova di audacia che però non placa la rabbia per i presunti ritardi. A cui si somma l'indignazione per l'immobilismo sulle armi da fuoco, proprio mentre i repubblicani al Senato respingono una proposta di legge sul terrorismo interno che avrebbe aperto un dibattito sulle armi da fuoco.

Centinaia di persone sono attese in piazza nei pressi del George R. Brown Convention Center, a Houston, dove ieri pomeriggio si è aperta la fiera annuale della National Rifle Association (Nra), la potente lobby delle armi. Tra i partecipanti figurano l'ex presidente Donald Trump e il governatore repubblicano del Texas Greg Abbott (che oggi però ha fatto sapere che non parteciperà, ndr). Il sindaco di Houston Sylvester Turner, intanto, ha spiegato che un contratto vincolante vieta alla città di annullare unilateralmente la conferenza della Nra. 

Mentre il leader della maggioranza dem al Senato Chuck Schumer in un duro attacco in aula ha definito Abott un «truffatore assoluto» dopo i suoi commenti sulla strage e la sua decisione di partecipare alla convention. Il gruppo di attivisti «March for Our Lives», fondato nel 2018 in risposta alla sparatoria in una scuola superiore di Parkland, in Florida, che ha provocato la morte di 17 persone, sta pianificando manifestazioni in tutti gli Stati Uniti. Il regista-attivista Michael Moore ha invece chiesto all'America di abolire il Secondo Emendamento.

«Perché no?», dice il regista di «Bowling for Columbine», il documentario premio Oscar sulla sparatoria in un liceo del Colorado che 23 anni fa inaugurò la lunga scia di sangue nelle scuole d'America. Anche la maggior parte degli americani vuole leggi più rigide sulle armi, suggerisce un sondaggio Reuters/Ipsos. Su 940 intervistati, l'84% è a favore di controlli sul profilo di chi vuole acquistare pistole e fucili, il 70% appoggia misure che consentono alle autorità di confiscare armi a persone considerate una minaccia.

Da “la Stampa” il 27 maggio 2022.

Il marito di Irma Garcia, la maestra della scuola elementare di Uvalde, uccisa mentre faceva scudo col suo corpo ai piccoli allievi, è morto oggi d'infarto, due giorni dopo la strage che è costata la vita alla moglie e ad altri 19 bambini. Joe Garcia «è morto per il dolore», hanno detto membri della famiglia che ora si trova a dover organizzare, non uno, ma due funerali. Joe e Irma erano sposati da 24 anni e avevano quattro figli, il maggiore Cristian appena entrato nei Marines, la minore Alysandra ancora alle medie.

In mezzo Jose, alla Texas State University, e Lyliana, al penultimo anno di liceo, secondo la biografia che Irma aveva postato sul sito della scuola. A Uvalde, una cittadina di 15 mila abitanti, si conoscono tutti: Irma e Joe erano andati alla stessa high school e lì si erano innamorati.

«Zia Irma era da trent'anni l'amore della sua vita, quest'anno avrebbero celebrato le nozze d'argento. Credo davvero che sia morto di cuore spezzato», ha detto Debra Austin, una cugina. Ad annunciare la morte di Joe è stato il nipote John Martinez su Twitter: «Pregate per noi. E Dio abbia pieta. Non è facile». Irma Garcia aveva 49 anni.

Tre anni fa era stata finalista per il Trinity Prize for Excellence in Teaching assegnato dalla Trinity University ai migliori insegnanti dell'area di San Antonio. Una raccolta di fondi GoFundMe a sostegno della sua famiglia e per le spese del funerale ha raccolto oltre 170 mila dollari nelle prime 12 ore: «Ha sacrificato se stessa per proteggere i bambini della classe. Una vera eroina», si legge sulla pagina della donazione.

Con la morte di Joe Garcia sale indirettamente il bilancio delle vittime della strage: Salvador Ramos, il diciottenne sparatore, ha ucciso a colpi di fucile automatico, oltre a Irma, la sua collega Eva Mireles e 19 bambini della quarta elementare di età compresa tra i nove e i dieci anni.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 maggio 2022.

Il repubblicano del Texas Tony Gonzalez ha detto che Salvador Ramos, il 18enne autore della strage alla scuola elementare di Uvalde, è stato arrestato quattro anni fa quando era ancora minorenne dopo aver detto alle persone che aveva intenzione di sparare in una scuola una volta compiuti i 18 anni. 

Gonzalez ha rilasciato le sue dichiarazione su FOX News questa mattina. «Non è una diceria. L'ho capito ieri sera a tarda notte: "L'assassino è stato arrestato anni fa, quattro anni fa, perché andava dicendo che aveva questo piano: ‘quando sarò all'ultimo anno nel 2022, sparerò a una scuola”».

«Qualcosa è caduto tra le crepe tra allora e oggi per permettere che ciò accadesse. Dobbiamo scrollarci di dosso tutti i fatti. Dobbiamo capire cosa è successo. Dove è stato il buco e dobbiamo assicurarci che non succeda di nuovo.  Ma se le forze dell'ordine, sai, lo hanno identificato quattro anni fa come una minaccia, dobbiamo capire perché non lo era - sai, come è stato rimosso da quella lista», ha detto. 

Gonzales in seguito ha aggiunto: «Ho l'impressione che lui e un'altra persona stessero conversando, pianificando le cose. Secondo Gonzales, il ragazzo è stato anche detenuto in un carcere minorile. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 maggio 2022.

I poliziotti del Texas hanno provato a difendersi dalla rabbia dei parenti delle vittime della strage di Uvalde, che li accusano di aver perso tempo e di non essere intervenuti a salvare i bambini e le due maestre. Ieri il tenente del Dipartimento per la sicurezza Chris Olivarez si è lasciato intervistare dalla Cnn. 

Al giornalista Wolf Blitzer che gli chiedeva se «le migliori pratiche attuali» non richiedessero agli agenti di intervenire per disarmare un tiratore il più rapidamente possibile, indipendentemente dal numero degli agenti presenti sul posto, Olivarez ha risposto: «Nella situazione di un tiratore attivo, vuoi fermare l'omicidio, vuoi preservare la vita. Ma una cosa che il popolo americano deve capire è che gli agenti non sapevano dove fosse l’uomo armato, sentivano gli spari ed erano stati colpiti anche loro».

«A quel punto, se fossero andati oltre non sapendo dove fosse il sospettato, avrebbero potuto essere fucilati, avrebbero potuto essere uccisi, e a quel punto quell'uomo armato avrebbe avuto l'opportunità di uccidere altre persone all'interno di quella scuola». 

«Sono stati in grado di isolare l’uomo armato all’interno di quell’aula in m odo che non potesse andare da nessuna altra parte» ha detto Olivarez.

Ma gli esperti hanno criticato la decisione di aspettare la squadra speciale. «Aspettare un'ora è disgustoso. Se ciò si rivela vero, allora è un fatto disgustoso», ha detto alla NBC Sean Burke, un funzionario delle risorse scolastiche in pensione del Massachusetts che ora è il presidente dello School Safety Advocacy Council. 

«Se pensi che ci sia qualcuno attivamente coinvolto nel danneggiare le persone o nel tentativo di fare del male alle persone, il tuo obbligo come agente di polizia è fermare immediatamente quella persona e neutralizzare quella minaccia. Non ci aspettiamo che gli agenti di polizia si suicidino nel farlo.  Ma l'aspettativa è che se qualcuno sta per fare del male a qualcuno, in particolare ai bambini, si agisca immediatamente per fermarlo», ha aggiunto Don Alwes, un ex istruttore della National Tactical Officers Association.

I chirurghi dell'ospedale di Uvalde hanno suggerito che il ritardo nella risposta alla sparatoria potrebbe essere costata la vita ad alcuni bambini. Non è chiaro esattamente quanti bambini fossero in classe quando l'assassino ha aperto il fuoco, quanti siano stati uccisi immediatamente e quanti fossero ancora vivi ma feriti quando è arrivata la polizia. 

L'Uvalde Memorial Hospital ha ricevuto due bambini che erano morti quando sono arrivati in ospedale. Ora, i medici stanno sottolineando l'importanza di curare le ferite da arma da fuoco non appena si verificano. «Non puoi aspettare che i pazienti vadano in un centro traumatologico. Devi agire in fretta», ha detto il dottor Ronald Stewart, chirurgo traumatologico senior presso l'ospedale universitario di Antonio.

Chi è Salvador Ramos, l'assassino di Uvalde: prima ha sparato alla nonna, poi la strage dei bambini. La Repubblica il 24 maggio 2022.

Si chiamava Salvador Ramos (o per alcune fonti Salvador Roma) il 18enne che ha fatto la strage nella scuola elementare di Uvaldete, in Texas. Un gesto "atroce e incomprensibile", ha detto il governatore Abbott.

Si sa poco finora su Ramos, se non che era uno studente del liceo di Uvalde, nello stesso complesso in cui c'è anche una scuola elementare in cui ha ucciso 14 bambini e un insegnante.

Secondo le prime ricostruzioni Ramos è arrivato da solo, con la sua auto. Ha poi abbandonato il veicolo ed è entrato nella scuola con una pistola e un fucile e ha aperto il fuoco. Secondo quanto riferito da Abbott, sarebbe stato ucciso dalla polizia intervenuta. Prima di essere ucciso avrebbe ferito due agenti.

Prima di andare alla scuola, avrebbe sparato anche a sua nonna, 66 anni, che è in condizioni critiche in ospedale.

Texas, strage di bambini in una scuola elementare: uccisi 19 studenti e tre adulti.  Massimo Basile. Colpito a morte l'assassino, il 18enne Salvador Ramos, studente del vicino liceo. "Ha agito da solo". La Repubblica il 24 maggio 2022.

Una nuova Sandy Hook, dieci anni dopo. Stavolta a Uvalde, Texas, città di quindicimila abitanti a trenta chilometri dal confine con il Messico. Un ragazzo ha parcheggiato l'auto, si è avviato a piedi nel campus di una scuola elementare, la Robb Elementary School, armato di fucile e pistola semiautomatica, e ha sparato uccidendo quindici persone, quattordici bambini e un insegnante.

Le scene che sono seguite sono state quelle dell'ennesima tragedia americana: l'arrivo di decine di macchine degli agenti, le prime troupe televisive, la scuola isolata e la lunga drammatica attesa di centinaia di genitori, in pena per il destino dei loro figli. La Robb ospita seicento alunni.

Sandy Hook doveva restare il caso isolato della follia umana: la scuola elementare di Newtown, Connecticut, dove un giovane era entrato la mattina del 14 dicembre 2012 e aveva sparato, uccidendo ventisei persone, tra cui venti bambini tra i sei e i sette anni. Prima di avviarsi per la strage, l'assassino, Adam Lanza, 20 anni, aveva ucciso la madre.

Anche stavolta il killer è un ragazzo e anche lui, prima di uscire da casa, ha sparato a chi aveva vicino: la nonna.

Il bilancio di questo nuovo massacro è cresciuto con il passare delle ore. Prima si era parlato di due feriti, poi di numerosi feriti, poi di una decina di feriti e due morti. Lo sceriffo della contea ha poi detto ai giornalisti in attesa che "dovevano aspettarsi un alto numero di vittime". Abc News ha dato per prima la notizia dei quattordici morti, in maggioranza bambini, più un insegnante, tutti colpiti dal killer, un ragazzo di diciotto anni, Salvador Ramos, studente liceale.

Pochi minuti dopo è arrivata la conferma del bilancio direttamente dal governatore del Texas, Greg Abbott: "Lo sparatore - ha annunciato - non è più vivo. Lo sparatore si chiamava Salvador Ramos, maschio, 18 anni, e abitava a Uvalde". Nella notte il bilancio peggiora ancora e sale a 22 morti, di cui 19 bambini e tre adulti.

Strage in una scuola elementare del Texas. Un ragazzo di 18 anni ha aperto il fuoco e ha ucciso 15 persone, di cui 14 bambini e un insegnante. Si tratta una delle peggiori stragi della storia d'America che riporta alla memoria il massacro di Sandy Hook del 2012, quando il 20enne Adam Lanza aprì il fuoco e uccise 26 persone di cui 20 bambini.

Il ragazzo, che all'inizio sembrava fosse stato arrestato, è morto dopo una sparatoria in cui due poliziotti sono rimasti feriti, ma non in modo grave. Abbott è il conservatore di ferro, l'anti-abortista, il "difensore della vita", l'uomo che un anno fa, con il sostegno di tutti i Repubblicani, ha autorizzato i texani a girare liberamente armati senza bisogno di licenza. Quell'atto era stato salutato come il "trionfo della libertà", ma da settembre ha finito per armare chiunque, anche un ragazzo di diciotto anni che, dicono adesso i media locali, aveva mostrato segnali inquietanti nelle ultime settimane, era rimasto incollato ore al computer.

Probabilmente durante il lockdown è andato in crisi. Potrebbero emergere messaggi inquietanti e sconclusionati, forse chat in cui preannunciava il massacro, come avvenuto a Buffalo, New York, dove un ragazzo come lui è salito in auto, ha percorso quattrocento chilometri, è entrato in un supermercato frequentato da afroamericani e ha ucciso dieci persone.

In serata è partito il circuito di sempre: le polemiche sui social, le "preghiere" inviate ai familiari delle vittime, le richieste di mettere al bando le armi, a cominciare da quelle da guerra, che in molte zone d'America si trovano ancora negli store al fianco delle confezioni di soda. Poi tutto passerà. I Repubblicani si opporranno alle restrizioni. La vita riprenderà, tutti dimenticheranno. Fino alla prossima strage.

La lunga scia di sangue nelle scuole americane Da Columbine a Sandy Hook, la strage delle armi da fuoco. La Repubblica il 24 maggio 2022.

La strage di Uvalde, in Texas, è la peggiore sparatoria in una scuola dal massacro di Sandy Hook nel 2012. Una nuova tragedia che va ad allungare la scia di sangue negli Stati Uniti e riaccende il dibattito sulle armi.

Queste le alcune delle maggiori stragi degli Stati Uniti.

14 MAGGIO 2022, BUFFALO: Il suprematista 18enne Payton Gendron entra in un supermercato di Buffalo e uccide 10 persone.

16 MARZO 2021, ATLANTA: Robert Aaron Long, 21 anni, irrompe in tre diverse sale massaggio che frequentava e uccide otto persone, di cui sei donne di origine asiatica. Il giovane nega il movente razziale e sostiene di aver agito per rimuovere le tentazioni sessuali che lo ossessionavano.

26 FEBBRAIO 2020, MILWAUKEE: un dipendente licenziato penetra nel campus di Molson Coors, il colosso della birra, e uccide sei persone prima di togliersi la vita.

4 AGOSTO 2019, DAYTON: il 24enne Connor Betts fa strage in un bar in Ohio uccidendo 9 persone e ferendone altre 17, quindi viene eliminato dalla polizia. Ha agito sotto l'effetto di cocaina, alcol e antidepressivi.

3 AGOSTO 2019, EL PASO: Patrick Crusius, 21 anni, entra in un affollato supermercato della catena Walmart e ammazza 23 persone ferendone altrettante. Una strage indagata come crimine d'odio contro i latinos.

14 FEBBRAIO 2018, PARKLAND: Nikolas Cruz, 19 anni, un passato da suprematista bianco, entra armato nella sua ex scuola e uccide 17 tra studenti e docenti, ferendo altre decine di persone. E' una delle peggiori stragi scolastiche in Usa, anche di quella di Columbine.

2 OTTOBRE 2017, LAS VEGAS: Un uomo di 64 anni, Stephen Paddock, apre il fuoco durante al Route 91 Harvest Music Festival a Las Vegas. Il bilancio è di almeno 50 morti e 400 feriti.

12 GIUGNO 2016, ORLANDO: Il 29enne Omar Saddiqui Mateen spara all'interno del Pulse, un locale gay di Orlando, e uccide 49 persone ferendone altre 50.

2 DICEMBRE 2015, SAN BERNARDINO: 14 persone vengono uccise e 22 ferite gravemente in un attacco all'Inland Regional Center. I due killer, un uomo e una donna sposati e simpatizzanti dello Stato islamico vengono uccisi dalla polizia San Bernardino.

14 DICEMBRE 2012, SANDY HOOK: Un ventenne, Adam Lanza, entra nella scuola elementare di Sandy Hook a Newtown, in Connecticut, e apre il fuoco uccidendo 27 persone, fra i cui 20 bambini.

20 LUG 2012, AURORA - La prima mondiale del film di Batman, 'The Dark Knight Rises', si trasforma in un bagno di sangue: un uomo di 24 anni con una maschera come quella del 'cattivo' del film, entra in un cinema di Denver, Colorado, nel quartiere di Aurora, durante la proiezione e uccide 12 persone e ne lascia 70 a terra ferite.

5 NOVEMBRE 2009, FORT HOOD: Un soldato americano di origine palestinese, uno psichiatra di 39 anni, apre il fuoco a Fort Hood, in Texas, e fa 13 morti e 42 feriti.

3 APR 2009, NEW YORK - Un uomo di 42 anni di origini vietnamite spara in un centro di accoglienza per gli immigrati a Binghamton, a 200 chilometri da New York: il bilancio finale è di 13 morti.

20 APR 1999, COLUMBINE - Due studenti della Columbine High School di Denver (Colorado) - Eric Harris, 18 anni, e Dylan Klebold, 17 - aprono il fuoco e uccidono 12 loro compagni ed un insegnante prima di togliersi la vita

16 OTTOBRE 1991, TEXAS: Il 35enne George Hennard si schianta a bordo del suo pick up contro la caffetteria Luby's a Killeen, in Texas. Uscita dall'auto apre il fuoco e uccide 23 persone

20 AGOSTO 1986, OKLAHOMA: il dipendente part-time delle poste americane, Patrick Henry Sherrill, uccide 14 persone in 10 minuti e poi si toglie la vita.

18 LUGLIO 1984, CALIFORNIA: a San Ysidro il 41enne James Hubert uccide 21 persone in un McDonald's locale e fugge. Un'ora dopo il gesto folle viene ucciso dalla polizia.

1 AGOSTO 1966, TEXAS: L'ex marine Charles Joseph Whitman sale sulla torre dell'Università del Texas e, come un cecchino, apre il fuoco. Il bilancio è di 16 morti e 30 feriti.

Quella lunga scia di sangue negli Stati Uniti. Valentina Dardari il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

La sparatoria nella scuola elementare di Uvalde è la seconda più sanguinosa nella storia d'America in una scuola.

Un ragazzo di 18 anni, identificato in Salvador Ramos, ha aperto il fuoco nella Robb elementary school a Uvalde, Texas, poco distante dalla grande città di San Antonio. Le vittime sono almeno 21, delle quali 19 bambini. Quella di ieri è solo l’ultima strage che riaccende il dibattito sulla detenzione di armi negli Stati Uniti. La sparatoria nella scuola elementare di Uvalde, con i suoi 21 morti, è la seconda più sanguinosa nella storia d'America in una scuola. Solo il massacro di Sandy Hook nel 2012 ha presentato un conto più salato con 27 morti, 20 dei quali erano bambini di età compresa tra i 6 e i 7 anni.

14 MAGGIO 2022, BUFFALO: Il suprematista 18enne Payton Gendron entra in un supermercato di Buffalo, nello Stato di New York, e uccide 10 persone.

16 MARZO 2021, ATLANTA: Robert Aaron Long, 21 anni, irrompe in tre diverse sale massaggio che frequentava e uccide in totale otto persone, di queste sei sono donne di origine asiatica. Il giovane nega il movente razziale e sostiene di aver agito per rimuovere le tentazioni sessuali che lo ossessionavano.

26 FEBBRAIO 2020, MILWAUKEE: un dipendente che era stato licenziato entra nel campus di Molson Coors, il colosso della birra, e uccide sei persone prima di togliersi la vita.

4 AGOSTO 2019, DAYTON: il 24enne Connor Betts fa strage in un bar in Ohio uccidendo 9 persone e ferendone altre 17, viene poi eliminato dalla polizia. Ha agito sotto l'effetto di cocaina, alcol e antidepressivi.

3 AGOSTO 2019, EL PASO: Patrick Crusius, 21 anni, entra in un affollato supermercato della catena Walmart e uccide a sangue freddo 23 persone ferendone altrettante. Una strage indagata come crimine d'odio contro i latinos.

14 FEBBRAIO 2018, PARKLAND: Nikolas Cruz, 19 anni, un passato da suprematista bianco, entra armato nella sua ex scuola e uccide 17 tra studenti e docenti, ferendo altre decine di persone. Si tratta di una delle peggiori stragi scolastiche in Usa, anche di quella di Columbine.

2 OTTOBRE 2017, LAS VEGAS: Un uomo di 64 anni, Stephen Paddock, apre il fuoco durante al Route 91 Harvest Music Festival a Las Vegas. Il bilancio è di almeno 50 morti e 400 feriti.

12 GIUGNO 2016, ORLANDO: Il 29enne Omar Saddiqui Mateen spara all'interno del Pulse, un locale gay di Orlando, e uccide 49 persone ferendone altre 50.

2 DICEMBRE 2015, SAN BERNARDINO: 14 persone vengono uccise e 22 ferite gravemente in un attacco all'Inland Regional Center. I due killer sono un uomo e una donna, marito e moglie, simpatizzanti dello Stato islamico. La coppia viene uccisa dalla polizia San Bernardino.

14 DICEMBRE 2012, SANDY HOOK: Un ventenne, Adam Lanza, entra nella scuola elementare di Sandy Hook a Newtown, in Connecticut, e apre il fuoco uccidendo 27 persone, tra le quali 20 bambini.

20 LUG 2012, AURORA - La prima mondiale del film di Batman, 'The Dark Knight Rises', si trasforma in un bagno di sangue: un uomo di 24 anni con una maschera come quella del 'cattivo' del film, entra in un cinema di Denver, Colorado, nel quartiere di Aurora, durante la proiezione e uccide 12 persone e ne lascia 70 a terra ferite.

5 NOVEMBRE 2009, FORT HOOD: Un soldato americano di origine palestinese, uno psichiatra di anni 39, apre il fuoco a Fort Hood, in Texas, e uccide 13 persone, ferendone 42.

3 APR 2009, NEW YORK - Un uomo di 42 anni di origini vietnamite spara all'interno di un centro di accoglienza per gli immigrati a Binghamton, a circa 200 chilometri da New York: il bilancio finale è di 13 vittime.

Prima la violenza sulla nonna, poi l'assalto alla scuola: la furia di Salvador Ramos, il killer di Uvalde. Mauro Indelicato il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Descritto come ragazzo taciturno e poco socievole, frequentava il liceo situato nello stesso plesso della scuola dove ha compiuto la strage.  

Uvalde è una comunità di poco più di 15mila abitanti, dunque tutti si conoscono e tutti sanno più o meno le caratteristiche del prossimo. Di Salvador Ramos, l'autore della strage nella locale scuola elementare, tutti sapevano che il ragazzo fosse poco socievole. Alla Abc ad esempio, il suo datore di lavoro ha detto che il diciottenne non legava con nessuno.

Lavorava in un ristorante della catena Wendy's, il cui titolare per l'appunto lo ha descritto come un ragazzo piuttosto strano. "Era un tipo silenzioso, non diceva molto e non socializzava con altri dipendenti", ha detto a chi è andato a intervistarlo nel locale poco distante dalla scuola della strage. Una zona abitata soprattutto da cittadini di origine ispanica. Il confine con il Messico dista infatti pochi chilometri, Uvalde è una delle tante cittadine di frontiera del Texas, con tutti i pregi e tutti i difetti delle periferie delle regioni meridionali degli Stati Uniti.

La strage nella scuola del Texas: uccisi 19 bimbi e due insegnanti

Forse proprio per via del lavoro, Ramos andava poco a scuola. I docenti non lo vedevano spesso e l'istituto lo aveva adocchiato come ragazzo effettivamente problematico. Ma nessuno ha mai pensato che potesse arrivare a compiere una strage. Non c'erano state segnalazioni alle autorità oppure richieste di intervento di natura psicologica.

Si sapeva appunto che fosse strano, ma come possono esserlo tanti ragazzi della sua età. Aveva di certo la passione delle armi. Nel suo account Instargam, chiuso subito dopo la strage, ha postato tante foto di armi e fucili. A una ragazza che non stava nemmeno in Texas contattata prima della strage, aveva chiesto di condividere le foto delle pistole da lui pubblicate.

La ragazza, saputa la notizia sulla strage, si è detta in un post rammaricata per non aver fermato la strage ma di certo non poteva immaginare quello che stava per accadere. I due non si conoscevano e, a detta della giovane, lei ha risposto a qualche suo messaggio in quanto vedeva con sospetto il comportamento social di Ramos. I suoi messaggi erano molto brevi, come quello scritto poche ore prima. "Sto per...", si legge. Alla domanda della ragazza su maggiori dettagli, lui poi ha detto che poco dopo le avrebbe rivelato un "piccolo segreto".

Probabilmente la giovane è l'ultima persona con cui ha parlato. Poi ha preso le sue armi e, prima di uscire di casa, ha sparato alla nonna. Lei ha 66 anni e, hanno fatto sapere fonti locali, forse ha provato a fermarlo. Adesso è ricoverata in gravi condizioni a San Antonio, poco distante da Uvalde. Da quella città diventata da qualche ora come nuovo simbolo della disputa negli Usa tra chi chiede la regolamentazione delle armi e chi difende il diritto di possederla senza grosse restrizioni.

La strage nella scuola del Texas: uccisi 19 bimbi e due insegnanti. Francesca Galici il 25 Maggio 2022 su Il Giornale.

Un giovane ha aperto il fuoco in una scuola elementare vicino a San Antonio: i media locali riferiscono che l'autore è morto.

Ancora una sparatoria negli Stati Uniti, dove un ragazzo di 18 anni ha aperto il fuoco in una scuola elementare del Texas. 19 bambini sono morti sotto i colpi di pistola. Il tutto si è svolto nella Robb elementary school a Uvalde, non distante dalla grande città di San Antonio, che ospita 600 studenti ogni giorno. Tra i morti c'è anche un docente 45enne, che è stato raggiunto da un proiettile, un altro insegnante e il killer.

Il ragazzo che ha sparato all'interno della scuola si era barricato nell'edificio ma la polizia è riuscita a intervenire rapidamente per fermarlo. A sparare è stato un ragazzo di 18 anni, identificato in Salvador Ramos, uno studente 18enne della Uvalde High School. Sarebbe arrivato in auto da solo e l'avrebbe abbandonata non distante, per poi fare ingresso a scuola con una pistola e un fucile. L'assalitore è morto sotto i colpi della polizia durante l'intervento, che si è concluso con una sparatoria nella quale sono rimasti feriti due agenti.

Le motivazioni che hanno spinto l'uomo ad aprire il fuoco non sono chiare. La polizia è arrivata nel giro di pochi minuti e ha fermato l'aggressore intorno alle 13.06. Fra la chiamata al 911, effettuata nel momento in cui l'uomo è stato intercettato armato all'interno della scuola, e l'arrivo degli agenti, l'uomo ha avuto modo di uccidere, sparando a raffica all'interno della scuola. Il distretto scolastico di Uvalde ha dichiarato nel frattempo che tutte le scuole del distretto sono state chiuse a causa di spari nell'area. Tutti i campus sono stati isolati a causa di "colpi di arma da fuoco nell'area" e gli studenti e il personale "portati al sicuro in altri edifici".

Durante la conferenza stampa, il governatore del Texas, Greg Abbott, ha dichiarato che l'assalitore "ha sparato e ucciso in modo orribile e incomprensibile 19 studenti e ucciso un insegnante". Inoltre, Salvador Roma, stando a quanto riportato il governatore ha anche sparato alla nonna prima di arrivare a scuola e aprire di nuovo il fuoco secondo. Salvador Ramos ha colpito in un'area prevalentemente di ispanici, non lontano dal confine con il Messico.

"Il presidente Joe Biden è stato tenuto informato" sulla strage, riferisce la portavoce presidenziale Karine Jean-Pierre. "Le sue preghiere vanno alle famiglie colpite da questo terribile evento". La sparatoria nella scuola elementare del Texas è stato un "atto di violenza senza senso. È tempo di agire", ha detto il presidente Usa, Joe Biden, che ha ordinato bandiere a mezz'asta fino a sabato nel tardo pomeriggio in ricordo delle vittime della scuola elementare del Texas. Il presidente ha ribadito che chiederà al Congresso di intervenire per avviare restrizioni sulle armi.

I volti di una classe cancellata per intero. Maria Sorbi su Il Giornale il 26 maggio 2022.   

Il mondo dei bambini delle elementari è fatto di cose piccole e sogni bellissimi, di braccialettini costruiti a mano e regalati durante l'intervallo, di collezioni di pupazzetti di plastica dimenticati nelle tasche dei grembiulini, di fogli stropicciati con gli schemi per fare goal. Dettagli sacrosanti a dieci anni. Spazzati via in una manciata di secondi. Senza senso.

«State per morire» li ha guardati negli occhi il loro assassino prima di cominciare a sparare. E si è portato via tutto: la gioia di Jose - che dopo il premio per i suoi bei voti camminava a mezzo metro da terra tutto fiero - l'esuberanza di Xavier - di cui rimarranno i video di Tik Tok in cui ballava come un matto con i suoi fratellini. Makenna e i suoi cerchietti con i fiocchi per tenere a posto i bellissimi capelli biondi, Annabella e i suoi buchi nelle orecchie che la facevano sentire «una delle medie». Nulla, non rimane più nulla, solo zaini sporchi di sangue e genitori straziati dal dolore.

Amerie Jo è stata la prima a morire: quando l'uomo armato è entrato a scuola, la bambina ha sfoderato tutto il suo coraggio, ha preso il cellulare che aveva nella cartella e ha chiamato il numero di emergenza, lanciando l'allarme. E sperando per un attimo di mettere in salvo tutta la classe. Lui le ha sparato per prima. Ora il suo papà, via Facebook, scrive post che cercano di dare un minimo di senso alla voragine con cui dovrà convivere a vita: «Purtroppo mia figlia è stata trovata. Il mio piccolo amore ora vola con gli angeli. Per favore, non date mai nulla per scontato. Abbracciate la vostra famiglia. Dite ai vostri figli che li amate. Ti amo Amerie Jo. Proteggi il tuo fratellino per me».

La mamma di Xavier mostra la foto del figlio, con i palloncini sullo sfondo, mentre stringe il suo diploma di studente modello: «Amore mio, non dimenticherò mai il suo sorriso». E ora gli stessi genitori che si sono conosciuti fuori da scuola, aspettando il pullman al ritorno dalla gita, che si sono scambiati sguardi commossi agli spettacoli di fine anno, condividono ore di atrocità nel tendone allestito di fianco alla scuola. Assieme a loro anche le famiglie delle due maestre uccise. Irma Garcia, 46 anni, nominata insegnante dell'anno nel 2019, si è lanciata sui suoi alunni per cercare di proteggerli. «Era amata da molti e ci mancherà davvero» scrive il nipote sui social. Eva Mireles invece aveva 44 anni. «Mamma, sei un eroe - le dice ora la figlia piangendo con lo sguardo rivolto al cielo - Continuo a ripetermi che non è vero, voglio solo risentire la tua voce. Non so come farò a vivere senza di te». È stata la zia di Eva Mireles, la prima confermare l'identità della vittima: «Non avrei mai immaginato che questo sarebbe potuto succedere a un mio familiare». E nessuna di quelle famiglie avrebbe mai pensato di utilizzare una foto dei propri figli, scattata durante compleanni o una giornata qualunque, per una lapide. Tanto meno avrebbe mai pensato di vederla pubblicata sui quotidiani di tutto il mondo. Eppure, in un paese in cui si contano 900 sparatorie in 10 anni, non si può escludere che lasciare i propri figli a scuola possa equivalere a esporli a un rischio del genere. Quando le loro uniche preoccupazioni dovrebbero essere qualche sgridata in famiglia e la litigata con l'amichetto da risolvere con le filastrocche per far pace. A 10 anni dovrebbe funzionare così.

Amerie, la piccola che ha chiamato il 911. Alessandro Ferro su Il Giornale il 25 maggio 2022. 

I piccoli innocenti uccisi barbaramente da Salvador Ramos sono tutti angeli ai quali è stata ingiustamente strappata la vita che gli si prospettava davanti per colpa di un pazzo entrato a scuola con un'arma da fuoco. Tra le 19 vittime della scuola in Texas c'era anche Amerie Jo Garza, che a soli 10 anni è da considerare un'eroina. La bimba frequentava la quarta elementare della "Robb Elementary" nella città di Uvalde: quando il killer ha fatto irruzione non si è persa d'animo ed ha pensato come poter provare a difendere se stessa e i suoi compagni di classe da quello che sarebbe accaduto in breve tempo.

"State per morire"

Al quotidiano inglese Daily Beast, la nonna di Amerie, Berlinda Irene Arreola, ha raccontato gli attimi primi della tragedia. Ramos fa irruzione in classe gridando agli studenti "state per morire": nonostante la frase e l'uomo armato, Amerie non si sarebbe persa d'animo riuscendo a comporre il 911 sul proprio telefonino, numero che corrisponde ai servizi di emergenza. La piccola era seduta accanto alla sua migliore amica che sarebbe rimasta "ricoperta dal suo sangue" secondo le affermazioni della nonna. A quel punto, il killer si è accorto che la bambina aveva il telefono in mano con cui probabilmente stava chiedendo aiuto: invece di sottrarglielo dalle mani o romperlo, ha deciso di ucciderla. "È morta da eroe cercando di ottenere aiuto per lei e per i suoi compagni di classe", ha aggiunto la nonna, che ricorda la nipote come una bambina "super estroversa" e un "animale domestico dell'insegnante" a cui piaceva eccellere nelle sue lezioni. Quella mattina sarebbe anche stata fotografata con un certificato in un suo onore: solo un'ora e mezza dopo, Ramos sarebbe entrato nella scuola per compiere una strage.

Il ricordo del padre

Disperato, il padre su Facebook le ha dedicato alcuni post con foto che li ritraevano felici. "Grazie a tutti per le preghiere e l'aiuto nel tentativo di trovare la mia bambina. È stata trovata. Il mio piccolo amore ora sta volando alto con gli angeli in alto. Per favore, non date un secondo per scontato. Abbracciate la vostra famiglia. Dite loro che li amate. Ti amo Amerie Jo. Proteggi il tuo fratellino per me". Diversi genitori hanno detto alla Cnn di essere stati sottoposti ad un test del Dna per determinare eventuali relazioni con le vittime.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 26 maggio 2022.

Un alunno di quarta elementare sopravvissuto alla strage alla scuola di Uvalde, in Texas, ha raccontato di essersi salvato solo perché lui e altri quattro compagni si sono nascosti sotto a un tavolo coprendosi con della stoffa. 

Il bambino ha ricordato di essersi buttato a terra dopo aver sentito che Salvador Ramos, il 18enne che ha ucciso 19 bambini e 2 insegnanti, aveva sparato contro la porta di una classe vicino. «Ho detto al mio amico di nascondersi sotto qualcosa in modo che non ci trovasse. Mi stavo nascondendo. E ho detto al mio amico di non parlare, perché ci avrebbe ascoltato».

Lo studente sostiene che Ramos è entrato nella loro classe dopo aver sparato contro la porta di un'altra classe. A questo punto, fuori dalla scuola erano arrivati dozzine di poliziotti. Prosegue il bambino: «Abbiamo sentito i poliziotti che gridavano: “Urla se hai bisogno di aiuto”. Una delle mie compagne ha urlato. Il ragazzo ha sentito, è entrato e le ha sparato. Ha aperto la porta e ha detto: “Morirete tutti”». 

Alla fine «un poliziotto ha fatto irruzione in classe. Il ragazzo ha sparato al poliziotto. E altri poliziotti hanno iniziato a sparare». Ha raccontato di essere rimasto nascosto fino a quando non sono finiti gli spari. «Sono uscito con il mio amico perché sapevo che era la polizia. Ho visto la divisa e lo scudo». Ha detto che le due insegnanti, Irma Garcia, 46 anni, ed Eva Mireles, 44, si sono sacrificate per proteggere gli studenti. «Erano brave insegnanti. Si sono messe davanti ai miei compagni per aiutarli, per salvarli».

Un’insegnante che era in un’altra classe ha raccontato che stavano guardando un film Disney quando Ramos ha fatto irruzione nella scuola. «Si esercitano per questo giorno da anni», ha detto, facendo riferimento alle esercitazioni che ormai da anni sono diventate uno standard nelle scuole americane. «Sapevano che non si trattava di un’esercitazione. Sapevamo che dovevamo stare zitti, altrimenti ci saremmo traditi». La donna ha detto che sono stati i «35 minuti più lunghi della mia vita». 

Ha raccontato che i suoi studenti hanno cercato di rimanere in silenzio mentre sentivano le urla dei loro compagni che venivano massacrati nell’aula accanto. Seduta sul pavimento in mezzo alla stanza, ha cercato di essere forte: ha attirato a sé i bambini che piangevano, li ha consolati e invitati al silenzio, cercando di tranquilizzarli. Finita la sparatoria, li ha fatti uscire uno alla volta dalla finestra. «I nostri figli non se lo meritavano. Erano amati. Non solo dalle loro famiglie, ma anche dalla scuola».

Secondo la ricostruzione della polizia, Ramos ha usato un fucile semiautomatico che aveva legalmente acquistato qualche giorno prima del massacro, subito dopo il suo diciottesimo compleanno. Insieme alle armi, il ragazzo aveva fatto scorte anche di proiettili: ne aveva comprati 375. Prima di arrivare alla Robb Elementary School di Uvalde, Ramos aveva sparato in faccia alla nonna dopo una discussione, forse per delle bollette non pagate, forse perché la donna gli aveva chiesto conto dei suoi studi.

Arrivato davanti alla scuola, ha affrontato una prima sparatoria con un poliziotto all’esterno dell’edificio, ha ferito lui, e poi altri due agenti che si sono avvicinati, ed è entrato nella scuola. Intanto fuori dalla scuola aveva iniziato a radunarsi una piccola folla: tutti hanno iniziato a sollecitare la polizia he intanto era accorsa, a entrare nell’edificio, ma nessuno si è mosso. 

La prima chiamata ai servizi di emergenza è stata ricevuta 90 minuti prima che la squadra tattica mettesse fine alla strage, quando il ragazzo, appena arrivato, si era schiantato con l’auto fuori dalla scuola. 

Il padre di una delle vittime ha raccontato: «C’erano almeno 40 poliziotti armati fino ai denti, ma non hanno fatto niente finché non è stato troppo tardi. La situazione poteva essere risolta più velocemente se avessero avuto una formazione tattica migliore, e noi come comunità abbiamo assistito in prima persona». La follia omicida è finita infatti solo dopo che una squadra tattica si è fatta strada nell'aula dove si era rintanato Ramos e lo ha ucciso. 

La vittima che si fa carnefice. Karen Rubin su Il Giornale il 26 maggio 2022. 

Pur di vendicarsi delle sue ferite, inferte dai bulli della scuola quando era un ragazzino, Salvador Ramos si è trasformato e da studente è diventato un killer freddo e senza pietà. La strage, in cui hanno perso la vita 19 bambini oltre a due insegnanti ed in fine sé stesso, disposto a morire per percepirsi aggressore e non più vittima, l'ha desiderata e studiata a tavolino. Con una determinazione da criminale efferato è uscito da casa e ha ripercorso la strada che faceva per andare alle elementari. La scuola dove c'erano i cattivi da eliminare. Stavolta senza la paura di essere umiliato perché armato fino ai denti e finalmente, nel suo delirio, non soltanto capace di difendersi ma anche e soprattutto di vendicarsi in modo definitivo e totale. Un processo mentale che descrisse molto bene Anna Freud definendolo «Identificazione con l'aggressore».

La vittima, spiegò la figlia del noto fondatore della psicoanalisi, introietta l'aggressore, assimila l'esperienza angosciante, si identifica in lui assumendo il suo ruolo e i suoi attribuiti, trasformandosi da minacciato in minacciante. È un meccanismo che si realizza notoriamente quando un bambino abusato sessualmente da adulto diventa a sua volta pedofilo abusatore. Il bambino è un soggetto indifeso e troppo fragile per protestare anche soltanto verbalmente. La violenza dell'altro lo paralizza, blocca il pensiero e non viene metabolizzata. È espressa attraverso un malessere generale, a volte attraverso corpo e disturbi psicosomatici. Se la famiglia si accorge del cambiamento in negativo e si affianca in sua difesa, gli fornisce gli strumenti per capire e contrapporsi alla situazione traumatizzante, per non percepirsi vittima senza speranza e trasformarsi a sua volta nel carnefice che lo ha torturato. Salvador Ramos aveva un pessimo rapporto con la madre che faceva uso di sostanze stupefacenti. Con ogni probabilità la donna non è stata in grado di notare il disagio nel figlio.

Il ragazzo è ipotizzabile abbia imparato a sopravvivere alla paura obbedendo all'aggressore introiettato, prevedendo le sue mosse, studiando nel dettaglio i suoi desideri fino ad identificarsi e sostituirsi a lui. 

Dal Killer oltre 100 colpi. E la polizia ammette: "Un errore non fare irruzione". Marco Leardi il 27 Maggio 2022 su Il Giornale.

Strage alla Robb Elementary School: il colonnello McCraw ha vuotato il sacco sugli errori commessi dalla polizia texana. L'ufficiale in comando sul luogo del massacro riteneva che "non c'erano bambini in pericolo".  

Il killer andava fermato subito. Non farlo "è stata una decisione sbagliata. Punto". Il colonnello Steven McCraw non ha potuto fare altro che ammettere l'errore. Dopo giorni di silenzi e di imbarazzi, è arrivato così il mea culpa della polizia texana su quella strage che si sarebbe potuta evitare. Perché nella gestione della folle sparatoria alla Robb Elementary School, gli errori ci sono stati. Eccome. Ritardi, omissioni, scelte sbagliate: clamorose inavvertenze hanno trasformato la follia omicida di Salvador Ramos in una vera e propria carneficina.

"È stato un errore non fare irruzione nell'aula", ha ammesso il colonnello McCraw, capo del dipartimento di pubblica sicurezza dello Stato. Nessun tentativo giustificatorio, nessuna scusa: in un'attesa conferenza stampa tenuta davanti a una fitta schiera di microfoni, il funzionario di polizia ha spiegato che il comandante in loco non riteneva ci fossero bambini a rischio. "Era convinto che il killer si fosse barricato e di avere più tempo per accedere all'aula. Ovviamente sbagliava", ha ammesso il colonnello, senza nominare esplicitamente il comandante in questione. La sua - ha sentenziato McCraw - "è stata una decisione sbagliata. Punto. Non ci sono scuse".

Secondo i media locali, il responsabile a cui spettava la decisione sul da farsi è il capo della polizia scolastica, una forza locale formata da quattro poliziotti e un detective. Figure rivelatesi del tutto inadeguate a gestire la folle azione del killer. Il colonnello McCraw, poi, ha anche riconosciuto gli errori che da giorni i genitori delle vittime imputavano alla polizia: ritardi, scarso coordinamento, valutazioni sbagliate. Una volta arrivate le forze speciali della Border Patrol Tactical Unit dal confine con il Messico, gli agenti scolastici li avevano persino costretti ad aspettare fuori dalla scuola per circa un'ora. E intanto, all'interno dell'istituto, Ramos seminava la morte.

Il dettaglio ancor più incredibile, poi, è quello legato all'azione stessa degli incursori, che - entrari nella scuola - hanno cercato il bidello per farsi aprire la porta dell'aula in cui si era rinchiuso il killer. La notizia, circolata nei giorni scorsi, è stata confermata dal capo del dipartimento di sicurezza, che a un tratto - incalzato dalle domande dei giornalisti - ha ceduto allo sconforto e alla commozione. Secondo quanto emerso dalla ricostruzione del colonnello, nemmeno gli operatori del numero d'emergenza 911 erano stati pronti a rispondere alle chiamate provenienti dalla scuola, come quella della piccola Amerie, scoperta e uccisa dal killer.

Travolto dalle storie dolorose della tragedia consumatasi a Uvalde, il colonnello ha vuotato il sacco, fornendo anche un'ulteriore notizia sul mistero dell'agente scolastico che doveva essere di guardia alla Robb Elementary. In un primo momento la polizia aveva detto che l'uomo si era confrontato con il killer fuori dall'istituto e non lo aveva fermato, mentre McCraw ha riferito di una sua assenza. Così, tra errori e incompetenze, gli oltre 100 colpi sparati dall'omicida hanno ucciso anche la reputazione delle forze locali di sicurezza.

Uvalde: l'esercitazione prima della strage. Piccole Note il 27 maggio 2022 su Il Giornale.

L’America si sta interrogando sul perché la polizia abbia ritardato così tanto il suo intervento contro l’attentatore che ha fatto strage nella scuola elementare di Uvalde, in Texas.

Non è ancora chiaro se il ragazzo, Salvador Ramos, sia entrato indisturbato nel complesso scolastico o abbia avuto uno scontro a fuoco preliminare con una guardia che lo vigilava. Certo è che il ragazzo, dopo aver sparato alla nonna che l’ospitava, ha preso un veicolo, lo ha mandato a sbattere contro un esercizio di pompe funebri e ha cominciato a sparare contro alcune persone che si trovavano nelle vicinanze.

Secondo ricostruzioni attendibili, prima di entrare nella scuola, avrebbe sparato per 12 minuti. Quindi è entrato, si è asserragliato in una classe e vi è rimasto chiuso oltre 40 minuti prima che la polizia intervenisse. Secondo quanto dichiarato dalla polizia, il ritardo sarebbe dovuto al fatto che non riuscivano a trovare la chiave della classe, poi consegnata loro da un addetto della scuola.

L’altra cosa che si sa è che i genitori dei ragazzini e alcuni passanti, giunti sul posto, vedendo che la polizia che circondava la zona non faceva assolutamente nulla, hanno chiesto a viva voce di fare irruzione.

Questo si sa, del resto non si sa nulla, dal momento che le autorità non hanno rilasciato un rapporto ufficiale sull’accaduto, anzi hanno dovuto correggere precedenti informazioni, come quella che lo stragista indossasse un giubbotto anti-proiettile, cosa non vera. Né è ancora certo il fatto che l’assassino abbia iniziato a sparare appena entrato in aula o se la strage sia avvenuta in seguito, mentre era asserragliato all’interno.

Tanti i misteri di questo eccidio. Non solo il ritardo nell’irruzione, ma anche il motivo del ritardo, cioè l’affannosa ricerca della chiave della classe, che contrasta con l’idea che ci eravamo fatti della polizia americana, incapace si sfondare una porta.

Anche il ritardo dell’intervento in zona, 12 minuti prima che la polizia arrivasse, suscita domande, tenendo presente che Uvalde non è una metropoli tentacolare, ma un paesone di circa 16mila abitanti (con poche strade e poche scuole da controllare). 

Domande che sono aumentate quando abbiamo letto un resoconto del New York Post, che riportiamo di seguito.

“Immagini inquietanti mostrano studenti che fingono di essere morti durante una recente esercitazione di ‘uomo armato’ nella scuola superiore del Texas dove si è verificata la strage, condotta da un poliziotto sposato con una delle insegnanti uccise”.

“Ruben Ruiz, un poliziotto del distretto scolastico di Uvalde e marito dell’insegnante di quarta elementare della Robb Elementary School Eva Mireles, uccisa nell’attacco, ha tenuto questa esercitazione agghiacciante e profetica il 22 marzo alla Uvalde High School, dove studiava anche l’attentatore Salvador Ramos, di 18 anni” [la strage è avvenuta nella scuola elementare, non in questa ndr].

“‘Il nostro obiettivo è quello di formare tutti gli agenti delle forze dell’ordine dell’area di Uvalde in modo che possiamo prepararci al meglio per qualsiasi situazione di emergenza’, ha affermato l’agente di polizia sulla sua pagina Facebook”.

“Il veterano della polizia, 16 anni di servizio, ha pubblicato delle foto su Facebook che mostrano lui e altri ufficiali che si esercitano in sparatorie e altre in cui si rivolge agli studenti per spiegare loro come reagire a tali emergenze”.

Al netto di altre possibili considerazioni, si può constatare che non si erano preparati bene come reputavano.

Per concludere, riportiamo che all’eccidio, che finora contava 21 vittime – 19 bambini e due insegnanti – si deve aggiungere un’altra vittima. Joe Garcia, marito dell’altra insegnante assassinata, è morto a poche ore dalla tragedia, sembra di crepacuore.

Da repubblica.it il 4 luglio 2022.

Lunedì mattina, durante la parata per i festeggiamenti per il 4 luglio, c'è stata una sparatoria a Highland Park, nella zona nord di Chicago, ha confermato la polizia locale. Non è ancora chiaro il numero delle vittime. Alcuni testimoni parlano di tre copri stesi sull'asfalto e coperti da lenzuola bianche.  

Le forze dell'ordine e i soccorritori sono sul posto. La parata era iniziata alle 10 del mattino, ma è stata sospesa poco dopo. Diversi testimoni hanno raccontato di centinaia di partecipanti, alcuni visibilmente insanguinati, in fuga dal percorso. 

La polizia ha chiesto ai cittadini di evitare il luogo dell'incidente. Secondo fonti dei media locali, il governatore dell'Illinois, JB Pritzker, che aveva partecipato al raduno di Hyde Park, si è poi allontanato. 

Da corriere.it il 4 luglio 2022.  

Sparatoria a Highland Park, un sobborgo a nord di Chicago, durante una parata del 4 luglio. Ne ha dato notizia la polizia locale, esortando a stare lontani dalla zona. Le forze dell’ordine e i soccorritori sono sul posto. 

Almeno cinque persone sarebbero rimaste uccise e altre 16 sono state portate in ospedale, secondo quanto riferisce il sito del municipio locale. Il 4 luglio, come è noto è la festa dell’indipendenza degli Usa. Anche la sindaca di Highland Park, Nancy Rotering ha confermato che la polizia ha risposto a un aggressore mentre la manifestazione era in corso. Il governatore dell'Illinois Jay Pritzker ha dichiarato che le persone raggiunte dai proiettili sono nove. L'attentatore è ancora in fuga.

Pochi istanti dopo l’inizio della sfilata sono stati uditi ripetuti spari che hanno costretto gli spettatori a una precipitosa fuga in cerca di un riparo. Un testimone oculare ha riferito ai media locali di aver visto alcuni corpi, almeno cinque, «stesi a terra e coperti di sangue». Gli stessi testimoni hanno raccontato di aver udito «almeno 20-25 spari in rapida successione». La polizia di Lake County ha raccomandato ai residenti nella zona di non ostacolare il lavoro degli agenti. 

Un altro testimone ha raccontato di aver visto lo sparatore: «Sparava accovacciato sul marciapiede, aveva un atteggiamento molto militare: ha sparato e ricaricato l'arma»

Flavio Pompetti per il Messaggero il 5 Luglio 2022.

Nuovo record dell'orrore nelle stragi che devastano gli Usa. La follia omicida ha colpito ieri la parata più sacra del Paese, quella del quattro di luglio, per festeggiare l'Indipendenza. Un cecchino, identificato come Robert E. Crimo, suprematista di 22 anni, si è appostato sul tetto di un palazzo che fiancheggia il percorso della processione ad Highland Park, una cittadina di circa 30.000 abitanti a nord di Chicago, sulla riva del lago Michigan, e da lì ha sparato sulla folla che sfilava, uccidendo sei persone sul colpo e ferendone almeno 31. 

Una singola raffica di una cinquantina di colpi, che in un primo mento molti hanno preso per fuochi d'artificio. Ma si è formato un lago di sangue mentre le persone cadevano a terra: era una pioggia di proiettili. Chi ha sparato era intenzionato a stabilire un nuovo primato, attirare su di sé la massima attenzione, e infliggere il danno più alto possibile.

L'ATTENTATORE L'attentatore in un primo momento è riuscito a sottrarsi all'arresto. Più tardi è stato identificato: Robert E. Crimo, un residente della zona di 22 anni. A dare un nome all'assassino sono state le autorità locali, citate dalla Cnn, avvertendo che il giovane, che si è dato alla fuga su una Honda Fit, è «armato e molto pericoloso». Il 22enne è anche un rapper, con lo pseudonimo di Awake. Sul suo profilo Facebook, ora oscurato, compare un'immagine che lo ritrae a una manifestazione del Patriot Front, un'organizzazione suprematista bianca. Secondo una prima ricostruzione, Crimo avrebbe abbandonato l'arma dopo aver sparato. 

Poi si sarebbe dato alla fuga, scendendo dal tetto da cui ha colpito attraverso una scala rimasta appoggiata al muro. «Quello che è successo oggi ci dice che niente è garantito, niente è scontato. Bisogna lottare per quello che abbiamo», ha detto il presidente Joe Biden, aprendo le celebrazioni del 4 luglio alla Casa Bianca. L'obiettivo e il giorno scelto dallo stragista non potrebbero essere più crudeli. 

La festa del 4 di luglio è la più felice del calendario Usa, perché cade in mezzo all'estate, quasi sempre in una giornata di cielo radioso come lo era ieri ad Highland Park. È la festa delle famiglie, e si celebra paesino per paesino, con l'identica ripetizione dei dettagli. La banda, le majorette, i pompieri; il cocomero fresco e l'immancabile barbecue che va avanti fino a sera inoltrata, quando scende il buio e volano verso il cielo i fuochi d'artificio. 

La parata di Highland Park era partita alle dieci di mattina, alla presenza delle autorità cittadine, e avrebbe dovuto sfilare in un percorso rettilineo di circa un chilometro e mezzo. L'attentatore era appostato nella parte iniziale.

Ha atteso che la folla si compattasse dietro il passo lento dei suonatori della banda, in modo da avere sotto di lui il bersaglio più corposo possibile, poi è entrato in azione. 

L'ARMA La polizia dice di aver recuperato un fucile, ma i testimoni sono tutti concordi nel dire che l'arma della strage è stata una mitragliatrice automatica. I racconti di chi era presente sono terrificanti: bambini insanguinati tra le braccia dei genitori, corpi inerti distesi in una pozza di sangue sulla strada. 

Un padre è stato visto tentare di mettere al sicuro la sua bambina all'interno di un contenitore pubblico dell'immondizia, per poi correre a cercare il resto della famiglia dalla quale era stato separato dal parapiglia. Gli amministratori di alcuni dei paesi vicini hanno cancellato le parate concomitanti, ma in molte altre città grandi e piccole nel resto del Paese era troppo tardi per modificare il programma. Sono state potenziate le misure di sicurezza nelle poche ora che ancora restavano: più agenti nelle strade, unità cinofile dispiegate per rilevare presenze sospette, telecamere panoramiche.

Laura Zangarini per corriere.it il 4 Luglio 2022. 

«Le mie azioni saranno valorose. So cosa fare. È il mio destino»: parola di Robert «Bobby» E. Crimo III, il 22enne arrestato poche ore dopo gli spari sulla parata del 4 luglio, ad Highland Park, un sobborgo benestante alla periferia di Chicago. Il giovane, che una pagina di IMDb descrive come rapper, cantante, cantautore, attore e regista di Chicago», lo scriveva in una delle sue canzoni. Ma la sua figura, peraltro abbastanza presente sui social network, resta per ora ancora nebulosa. I video collegati a quel nome online, alcuni dei quali presentano il volto di Crimo, mostrano immagini inquietanti e violente, per esempio l’animazione del profilo di un uomo con una lunga pistola e persone ferite.

Sui social sono anche emerse foto in cui il giovane sfilava a manifestazioni pro-Trump, ma non è chiaro se fosse un sostenitore del tycoon o di un altro partito. Una foto pubblicata su Twitter mostra Crimo che indossa una bandiera di Trump come un mantello; ma lo stesso account poi commenta positivamente un video del presidente Joe Biden. Nelle foto il giovane arrestato appare con una figura molto esile, la barbetta a chiazze e tatuaggi sul viso e sul collo, di cui uno sopra il sopracciglio sinistro con la scritta «Awake», lo pseudonimo che utilizzava quando pubblicava canzoni rap online.

Alphabet (proprietario di YouTube), Meta (proprietario di Instagram), Twitter e Discord hanno rimosso i siti web di Crimo dalle loro piattaforme. Su Spotify, che ha mantenuto attivo il suo account «Awake the Rapper», Crimo aveva 56 delle sue canzoni in tre album, il primo nel 2017 intitolato «Messages», seguito da «Observer» del 2018 e dall’omonimo «Awake the Rapper» del 2021. In uno dei video, per la canzone «Toy Soldier», si vede un’animazione con una figura stilizzata di un uomo che spara con una lunga pistola e poi appare riverso a faccia in giù in una pozza di sangue apparentemente colpito dalla polizia. Il testo recita: «Voglio solo urlare/Fottiti questo mondo/Vivere il sogno».

Il giovane è stato intercettato dalla polizia a North Lake Forest, alla periferia di Chicago, poco dopo le 19.00 ora locale: un poliziotto ha avvistato la Honda Fit argento su cui era stato visto l’ultima volta alla guida e lo ha fermato. Il video dell’arresto girato da un passante mostra l’auto ferma a un semaforo, Crimo che esce dal veicolo, eseguendo gli ordini della polizia e viene bloccato a terra a faccia in giù dalla polizia. Le motivazioni del gesto sono ancora un mistero.

Si sa che il padre si era candidato senza successo alla carica di sindaco di Highland Park contro un esponente liberal che «correva» per una piattaforma a favore del controllo delle armi. 

Bob Crimo è il proprietario di Bob’s Pantry and Deli proprio ad Highland Park: intervistato dal «Chicago Tribune» nel 2018 e fotografato con sua moglie Denise, descriveva la sua gastronomia come un «negozio a conduzione familiare e orientato alla famiglia». Il fratello di Bob, Paul, zio del presunto killer, ha detto di non essere a conoscenza che il nipote avesse particolari opinioni politiche. «È un ragazzo tranquillo. Di solito è da solo. È una persona sola e tranquilla. Tiene tutto per sé». Il giorno della strage nella scuola a Uvalde nel maggio 2022, al padre di Crimo era piaciuto un tweet che diceva: «Proteggi il Secondo Emendamento come se la tua vita dipendesse da esso». 

Da Ansa il 5 luglio 2022.

Il killer della parata del 4 luglio alla periferia di Chicago, dopo aver sparato da un tetto, si è mescolato alla folla indossando vestiti da donna. Lo ha detto la polizia in conferenza stampa.

Da adnkronos.com il 5 luglio 2022.  

Noto come "Awake the Rapper", Robert E Crimo, il 22enne arrestato per la strage di ieri durante la sfilata del 4 luglio a Highland Park - un sobborgo di Chicago - pubblicava video inneggianti alla violenza, com immagini di uccisioni di massa. Ed anche foto ai comizi di Donald Trump nel 2020. 

Sulla sua pagina di Spotify, il rapper dilettante registrava oltre 16mila ascoltatori al mese con un guadagno di 100mila dollari. Anche sui social media Crimo, noto come Bobby, disseminava messaggi di violenza, come il recente video pubblicato su YouTube in cui inscenava il 'dopo' di una strage in una scuola, mostrandosi drappeggiato in una bandiera americana.

Nel 2020 ha pubblicato una sua foto ad un comizio di Trump in cui si era presentato vestito come uno dei personaggi di “Where’s Waldo?”, una serie di libri per bambini. In un'altra appare indossare una bandiera con il logo di Trump come un mantello, riportando i media americani che sottolineano comunque che Crimo aveva messo anche un like ad un video di Joe Biden. 

Sulla pagina riservata a Crimo sul sito Imdb, il "fenomeno dell'hip hop" viene descritto come "il figlio di mezzo di tre figli di una famiglia di origine italiana". Il padre, Bob Crimo, è il proprietario di una gastronomia che nel 2019 si era candidato senza successo sindaco a Highland Park, il sobborgo dove ieri il figlio ha ucciso 6 persone e ne ha ferite oltre 20.

Subito dopo la strage nella scuola elementare di Uvalde, Crimo senior, che ha 58 anni, aveva twittato il suo sostegno al secondo emendamento che tutela il diritto a possedere armi: "Proteggete il secondo emendamento come la vostra vita dipendesse da questo", ha scritto. La madre, Denis Pesina, di 48 anni, è di fede mormone e specializzata in terapie alternative. 

Intervistato da Fox 23, lo zio Paul Crimo ha detto che la famiglia non ha visto "nessun segnale" che potesse indicare quello che è successo. "Nessun segnale di problemi, se li avessi visti avrei detto qualcosa", ha aggiunto. Secondo la descrizione, e le foto fornite dall'Fbi, il giovane fermato ha un tatuaggio di un tally mark, un sistema di conteggio veloce, sbarrato e sul sopracciglio la scritta "Awake", ''risvegliato" come il suo nome d'arte.

Estratto dell'articolo di Flavio Pompetti per il Messaggero il 5 luglio 2022.

Nuovo record dell'orrore nelle stragi che devastano gli Usa. La follia omicida ha colpito ieri la parata più sacra del Paese, quella del quattro di luglio, per festeggiare l'Indipendenza. Un cecchino, identificato come Robert E. Crimo, suprematista di 22 anni, si è appostato sul tetto di un palazzo che fiancheggia il percorso della processione ad Highland Park, una cittadina di circa 30.000 abitanti a nord di Chicago, sulla riva del lago Michigan, e da lì ha sparato sulla folla che sfilava, uccidendo sei persone sul colpo e ferendone almeno 31 (...) 

Laura Zangarini per corriere.it il 5 luglio 2022.  

«Le mie azioni saranno valorose. So cosa fare. È il mio destino»: parola di Robert «Bobby» E. Crimo III, il 22enne arrestato poche ore dopo gli spari sulla parata del 4 luglio, ad Highland Park, un sobborgo benestante alla periferia di Chicago. Il giovane, che una pagina di IMDb descrive come rapper, cantante, cantautore, attore e regista di Chicago», lo scriveva in una delle sue canzoni. Ma la sua figura, peraltro abbastanza presente sui social network, resta per ora ancora nebulosa. I video collegati a quel nome online, alcuni dei quali presentano il volto di Crimo, mostrano immagini inquietanti e violente, per esempio l’animazione del profilo di un uomo con una lunga pistola e persone ferite.

Sui social sono anche emerse foto in cui il giovane sfilava a manifestazioni pro-Trump, ma non è chiaro se fosse un sostenitore del tycoon o di un altro partito. Una foto pubblicata su Twitter mostra Crimo che indossa una bandiera di Trump come un mantello; ma lo stesso account poi commenta positivamente un video del presidente Joe Biden. Nelle foto il giovane arrestato appare con una figura molto esile, la barbetta a chiazze e tatuaggi sul viso e sul collo, di cui uno sopra il sopracciglio sinistro con la scritta «Awake», lo pseudonimo che utilizzava quando pubblicava canzoni rap online.

Quattro foto di Crimo dai suoi profili social

Alphabet (proprietario di YouTube), Meta (proprietario di Instagram), Twitter e Discord hanno rimosso i siti web di Crimo dalle loro piattaforme. Su Spotify, che ha mantenuto attivo il suo account «Awake the Rapper», Crimo aveva 56 delle sue canzoni in tre album, il primo nel 2017 intitolato «Messages», seguito da «Observer» del 2018 e dall’omonimo «Awake the Rapper» del 2021. In uno dei video, per la canzone «Toy Soldier», si vede un’animazione con una figura stilizzata di un uomo che spara con una lunga pistola e poi appare riverso a faccia in giù in una pozza di sangue apparentemente colpito dalla polizia. Il testo recita: «Voglio solo urlare/Fottiti questo mondo/Vivere il sogno».

Il giovane è stato intercettato dalla polizia a North Lake Forest, alla periferia di Chicago, poco dopo le 19.00 ora locale: un poliziotto ha avvistato la Honda Fit argento su cui era stato visto l’ultima volta alla guida e lo ha fermato. Il video dell’arresto girato da un passante mostra l’auto ferma a un semaforo, Crimo che esce dal veicolo, eseguendo gli ordini della polizia e viene bloccato a terra a faccia in giù dalla polizia. Le motivazioni del gesto sono ancora un mistero.

Si sa che il padre si era candidato senza successo alla carica di sindaco di Highland Park contro un esponente liberal che «correva» per una piattaforma a favore del controllo delle armi. 

Bob Crimo è il proprietario di Bob’s Pantry and Deli proprio ad Highland Park: intervistato dal «Chicago Tribune» nel 2018 e fotografato con sua moglie Denise, descriveva la sua gastronomia come un «negozio a conduzione familiare e orientato alla famiglia». Il fratello di Bob, Paul, zio del presunto killer, ha detto di non essere a conoscenza che il nipote avesse particolari opinioni politiche. «È un ragazzo tranquillo. Di solito è da solo. È una persona sola e tranquilla. Tiene tutto per sé». Il giorno della strage nella scuola a Uvalde nel maggio 2022, al padre di Crimo era piaciuto un tweet che diceva: «Proteggi il Secondo Emendamento come se la tua vita dipendesse da esso». 

Da repubblica.it il 5 luglio 2022.

Urla di terrore, la folla che scappa. A poche ore dalla strage alla festa per l'Indipendenza americana alla periferia di Chicago, è caccia all'uomo a Philadelphia dopo che qualcuno ha aperto il fuoco contro le persone che partecipavano ai festeggiamenti per il 4 luglio, con concerto e spettacolo pirotecnico finale. 

Due poliziotti sono stati feriti e trasportati in ospedale, mentre il panico è dilagato nell'area della Benjamin Franklin Parkway. Su Twitter circolano video in cui si sentono gli spari e si vede la folla disperdersi, mentre sullo sfondo continua lo spettacolo dei fuochi d'artificio.

L'emittente locale NB10 Philadelphia era lì con i suoi reporter e le sue telecamere per le interviste tra la gente e ha ripreso il momento in cui la folla impaurita ha cominciato a scappare.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 6 luglio 2022. 

Gli sparatori di massa sono come i terroristi. Spesso annunciano le loro intenzioni, magari solo sul web mentre in casa restano chiusi nel loro guscio protettivo. Poi esplodono. È ciò che ha fatto Robert Crimo, il cecchino responsabile della strage di Highland Park, in Illinois. Sei i morti.

Ventidue anni, origini italiane, il killer ha coltivato fin da piccolo la passione per la musica e si è trasformato in Awake The Rapper, nome d'arte con la quale ha lanciato sempre in rete alcune delle sue creazioni. Dure. Le note ritmate sono diventate il contenitore di messaggi dedicati alla violenza, al suicidio, all'uso delle armi. «Sono come un sonnambulo So cosa devo fare, non solo per me ma anche per gli altri. Non c'è passato o futuro, solo il presente Devo solo agire, nulla mi può fermare». 

A corredo della canzone «Toy Soldier» ha infilato un disegno inequivocabile di un individuo che spara, quindi resta a terra trafitto dalle pallottole. Quindi altri testi aspri, di rottura con il mondo, descrivendosi come «un valoroso» che deve seguire il proprio «destino». E poi segnali politici confusi, riferimenti vaghi all'estrema destra, una foto con la bandiera di Donald Trump, un commento in favore di Biden, una sorta di «manifesto» cifrato, immagini bizzarre, la pagina dedicata a Lee Oswald, l'uomo accusato di aver ucciso il presidente Kennedy sparando dall'alto di un palazzo a Dallas.

Forse un'emulazione di un episodio storico lontano ed eclatante, un riferimento indiretto a quanto è avvenuto poi durante la parata del 4 luglio, con gli innocenti finiti sotto il fuoco.

Robert è salito sul tetto di un edificio con l'aiuto di una scala, quindi ha preso di mira gli spettatori della parata usando un fucile «ad alto potenziale» acquistato legalmente. Gli audio hanno registrato la rapida successione dei colpi, almeno 70. Il cecchino è scappato ed è stato bloccato verso le 19 a bordo della sua auto, vicino ad un semaforo. Si era travestito da donna per mescolarsi alla folla. Un ulteriore indizio, precisano gli inquirenti, di un piano preparato per settimane.

La cattura è stata seguita dai controlli di rito, a cominciare dalla famiglia. Uno zio ha affermato che il nipote aveva perso il lavoro durante la pandemia e passava molto tempo nella sua stanza, da solo, senza amici. Il padre, titolare di un minimarket e che nel 2019 si era presentato senza troppa fortuna alle elezioni di sindaco, avrebbe confidato a un vicino possibili problemi «emotivi» del figlio. La madre, Denise, esperta di medicina alternativa, era stata arrestata per una lite stradale. Sono però i soliti tratti iniziali, le indagini potranno trovare altro in un caso che ha sconvolto l'America nel giorno della festa nazionale: nessun dato, per ora, sulle motivazioni.

Crimo avrebbe potuto confinare la sua rabbia nelle composizioni musicali e invece ha intrapreso quello che gli esperti definiscono «il sentiero che porta alla violenza». 

Gli attacchi diventano il punto finale di un processo mentale, non sempre evidente all'esterno. L'uccisione non è un evento, bensì la fase conclusiva del percorso, assassinare diventa l'unico modo per uscire dall'angolo. I protagonisti degli assalti vedono loro stessi come guerrieri e non di rado assumono atteggiamenti da militanti. Ostentano le armi, ma soprattutto le usano come fossero dei guerriglieri e trasformano una strada di una tranquilla cittadina statunitense nel loro campo di battaglia.

Usa, il killer di Higland Park aveva minacciato di sterminare la famiglia. Kamala Harris a sorpresa in Illinois.  La Repubblica il 5 luglio 2022.

Malgrado fosse stato preso in carico dai servizi psichiatrici Robert E. Crimo aveva acquistato legalmente ben cinque tra fucili e pistole. Morta una delle 39 persone rimaste ferite: sale a sette il numero delle vittime. La vicepresidente a sorpresa sul luogo della strage

Si aggrava il bilancio dell'attacco avvenuto ad Highland Park, nell'area di Chicago, durante la parata del 4 luglio: una delle 39 persone ferite è morta in ospedale e il numero delle vittime è così salito a sette. Robert E. Crimo, meglio noto come 'Bobby', 22 anni, è formalmente accusato di 7 omicidi di primo grado. Lo ha riferito il procuratore della contea di Lake, Eric Rinehart. Il procuratore ha dichiarato che il 21enne, Robert Crimo di Highwood dovrà affrontare "decine di altre accuse" e che se sarà condannato, dovrà scontare l'ergastolo senza condizionale. "In aula - ha spiegato - cercheremo il massimo della pena, non perché vogliamo vendetta ma perché la giustizia e il processo di guarigione lo richiedono".

Ad Highland Park è arrivata a sorpresa la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris: si è diretta sul luogo della strage dopo aver parlato ad un evento a Chicago, chiedendo al Congresso di "avere il coraggio" di bandire le armi d'assalto e di "mettere fine alla protezione" dei produttori di armi. Ad attendere la numero due di Joe Biden la sindaca Nancy Rotering e alcuni parlamentari dell'Illinois.

La segnalazione per problemi psichiatrici

Sul fronte delle indagini, il portavoce della polizia Christopher Covelli ha reso noti nuovi inquietanti particolari sul giovane arrestato. Si sa che nell'aprile del 2019 tentò il suicidio e fu preso in carico dai servizi psichiatrici. Poi, nel settembre dello stesso anno, la minaccia di "uccidere tutti" rivolta ai familiari. In quell'occasione gli agenti sequestrarono 16 coltelli, una spada e un pugnale ma non procedettero con l'arresto perché non c'era un valido motivo e i parenti del giovane non sporsero denuncia.  La polizia aveva segnalato "immediatamente" l'episodio alla polizia di stato dell'Illinois. Il caso era stato gestito dal servizio di salute mentale, Crimo era stato sottoposto a una serie di incontri, ma non era stato preso alcun provvedimento speciale.

L'acquisto delle armi e gli abiti da donna

In conferenza stampa Covelli ha detto anche che Crimo aveva acquistato legalmente cinque armi da fuoco, tra fucili e pistole, e che gli inquirenti hanno lanciato un appello per trovare una testimone, una donna che avrebbe visto il killer far cadere un oggetto in una coperta rossa prima di entrare in azione e sparare 70 colpi sulla folla. Quella stessa folla cui si è unito dopo aver lasciato l'arma sul tetto da cui aveva fatto fuoco. Indossava vestiti da donna, forse anche una parrucca, per nascondere i tatuaggi che ha sul viso e collo.

Chicago, sparatoria durante parata del 4 luglio: il momento dell'attacco e la fuga delle persone

L'attacco pianificato

Quindi Crimo è andato a casa della madre e ha preso la sua Honda prima di essere fermato dalla polizia che sull'auto ha trovato un altro fucile. Una sequenza di eventi molto ben studiati, che fanno pensare che l'attacco fosse "premeditato da settimane", eppure senza un obiettivo preciso. Al momento, infatti, la polizia non ha trovato un movente e ha escluso motivazioni religiose o razziste. Tutto lascia pensare all'attacco di uno squilibrato. L'analisi dei profili social di Crimo, noto con il nickname di 'Awake the Rapper', rivela propensione alla violenza, frustrazione, emarginazione, oltre ad ammirazione per Donald Trump.

DAGONEWS il 6 luglio 2022.

La mela marcia non cade mai tanto lontano dall’albero. Emergono dettagli inquietanti su Robert "Bobby" Crimo III, il 21enne che ha ucciso sette persone alla parata del 4 luglio a Highland Park, sobborgo di Chicago. Il padre, che ora si dice addolorato dalla tragedia, lo ha aiutato a comprare armi dopo che aveva minacciato di “ammazzare tutti”. 

In un comunicato i genitori di Crimo hanno parlato di “tragedia”: «Siamo tutti madri e padri, sorelle e fratelli, e questa è una terribile tragedia per molte famiglie, le vittime, la parata, la comunità. I nostri pensieri e preghiere vanno a tutti» 

Ma martedì è emerso che Bob Crimo aveva sponsorizzato la richiesta del figlio per un permesso per armi nel 2020, anche dopo che l'assassino aveva minacciato di uccidere se stesso e la sua famiglia.

Nel settembre 2019, la polizia dell'Illinois ha ricevuto una segnalazione di "pericolo" relativo alla famiglia di Robert Crimo: il ragazzo aveva minacciato di uccidere se stesso e la sua famiglia. all’epoca i poliziotti hanno sequestrato una serie di coltelli che, però, in un secondo momento gli sono stati restituiti. Crimo, che all'epoca aveva 19 anni, non fu arrestato. Aveva due anni sotto l'età minima legale per richiedere la carta di identificazione del proprietario dell'arma da fuoco (FOID) necessaria per ottenere legalmente un'arma. 

Ma nonostante le minacce di omicidio-suicidio, il padre di Crimo lo ha sponsorizzato per una carta FOID nel dicembre 2019: la richiesta è stata approvata un mese dopo, nel gennaio 2020. I funzionari dicono di aver approvato il permesso perché c'erano "fondamenti sufficienti" per ritenere Crimo pericoloso. L’unico precedente nel suo fascicolo riguardava una violazione per possesso di tabacco nel 2016. Questo vuol dire che Crimo ha legalmente acquistato l’arma usata nel massacro.

Su di lui adesso pendono sette capi di accusa per omicidio di primo grado. Rischia l'ergastolo.

Sparatoria del 4 luglio, il killer Robert E. Crimo incriminato con sette capi d’accusa. YOUSSEF HASSAN HOLGADO su Il Domani il 06 luglio 2022

È accusato di omicidio di primo grado. Sulla sparatoria emergono nuovi dettagli: il giovane aveva ricevuto un’arma nonostante fosse già stato attenzionato dalla polizia

Il giovane rapper 21enne che ha sparato sulla folla durante la parata del 4 luglio a Highland Park – uccidendo sei persone e ferendone oltre trenta – è stato incriminato con sette capi d’accusa di omicidio di primo grado.

Con il passare delle ore gli investigatori stanno scoprendo nuovi dettagli su come è stato condotto l’attacco. Robert E. Crimo III, questo il nome del killer rivelato dalle forze dell’ordine, avrebbe pianificato la sparatoria già da settimane. Da una prima ricostruzione, per non essere riconosciuto si è coperto i suoi tatuaggi sul collo con una bandiera americana, poi è salito sul tetto di un edificio commerciale edificio commerciale che si trovava nel luogo di passaggio delle celebrazioni dell’Indipendence day da dove ha sparato sulla folla e infine per disperdersi nel caos generale ha utilizzato abiti da donna.

L’ARMA PESANTE

Oltre alla dinamica dell’accaduto, gli investigatori americani stanno cercando di capire in che modo si sia procurato il fucile pesante con il quale Robert E. Crimo III ha ucciso sei persone. «Non so da dove provenisse l’arma, ma so che è stata ottenuta legalmente», aveva detto ai giornalisti la sindaca di Highland Park, centro urbano a nord della città di Chicago. Dichiarazioni che per il momento sono confermate anche da chi sta conducendo le indagini.

La polizia di stato dell’Illinois – che secondo esperti e analisti è il sesto paese degli Stati Uniti ad avere le leggi più stringenti in materia di armi – ha concesso a Crimo di possedere un’arma nel 2019, tre mesi dopo che alcuni agenti hanno fatto irruzione in casa sua e gli hanno sequestrato 16 coltelli, un pugnale e una spada in seguito alle segnalazioni dei suoi famigliari: il giovane ha tentato il suicidio e minacciato di uccidere i suoi parenti.

Le autorità hanno difeso la loro decisione di concedere il possesso delle armi al giovane killer, suscitando polemiche tra la popolazione locale e inasprendo il dibattito pubblico sul tema del controllo delle armi. Non è il primo caso a cui vengono consegnate legalmente delle armi nonostante dei precedenti dubbiosi. 

IL MOVENTE

Non è chiaro ancora il movente che abbia spinto Crimo a sparare sulla folla con un fucile pesante ottenuto quando aveva poco più di 18 anni. Sembra per il momento esclusa la pista suprematista o di matrice razzista, dato che la demografia di Highland Park è prevalentemente composta da cittadini americani bianchi. Forse sarà lui stesso a chiarirlo mercoledì 6 luglio quando è atteso già davanti ai giudici per il processo. 

YOUSSEF HASSAN HOLGADO

OLTRE 315 SPARATORIE NEL 2022. La lunga carneficina delle sparatorie di massa negli Stati Uniti. YOUSSEF HASSAN HOLGADO Il Domani il 05 luglio 2022

Negli Stati Uniti il 4 luglio sarà ricordato anche come il giorno in cui si commemoreranno le sei vittime della sparatoria di massa avvenuta a Highland Park.

Le sparatorie del 4 luglio sono soltanto le ultime in ordine cronologico di un trend che negli ultimi anni è in crescita.

Stando alle statistiche del Gun violence archive, un ente di ricerca no-profit che elabora report basandosi sui documenti della polizia, notizie giornalistiche e altre fonti aperte, dal 1° gennaio 2022 al 5 luglio ci sono state 315 sparatorie di massa.

Negli Stati Uniti il 4 luglio non sarà più ricordato semplicemente come la data in cui nel lontano 1776 il paese ha adottato la Dichiarazione d’indipendenza dalla Gran Bretagna, ma anche come il giorno in cui si commemoreranno le sei vittime della sparatoria di massa avvenuta a Highland Park, a nord di Chicago nello stato dell’Illinois. Oltre ai sei decessi le autorità sanitarie locali hanno prestato soccorso a trentuno feriti, di età compresa tra gli 8 e 85 anni.

Dopo otto ore di ricerca i reparti speciali della Swat e la polizia locale schierata per presidiare la parata del 4 luglio hanno fermato il presunto killer di 22 anni, accusato di aver sparato contro la folla con un fucile da un tetto limitrofo al luogo delle celebrazioni. Non è ancora chiaro il movente alla base dell’attacco ma la sindaca di Highland Park, Nancy Rotering, ha detto in un’intervista rilasciata a Today show che l’arma pesante è stata ottenuta in maniera legale: «Non so da dove provenisse l’arma, ma so che è stata ottenuta legalmente». La demografia dell’area non fa pensare che sia un attacco a sfondo razziale, scrive il New York Times. Stando all’ultimo censimento, l’84,7 per cento della popolazione di Highland Park è bianca, seguita dai latino americani (8,9 per cento) e dagli asiatici (2,9 per cento). Gli afroamericani sono solo l’0,8 per cento dei residenti.

I DATI

Sempre lo scorso 4 luglio, a poco meno di 800 miglia di distanza, a Philadelphia, c’è stata un’altra sparatoria. Il bilancio è di due agenti feriti, ma la polizia locale non è ancora riuscita a identificare e arrestare chi ha sparato sulla folla, che anche qui – come a Highland Park – stava festeggiando l’Independence day.

Le sparatorie del 4 luglio sono soltanto le ultime in ordine cronologico di un trend che negli ultimi anni è in crescita. Stando alle statistiche del Gun violence archive, un ente di ricerca no-profit che elabora report basandosi sui documenti della polizia, notizie giornalistiche e altre fonti aperte, dal 1° gennaio 2022 al 5 luglio ci sono state 315 sparatorie di massa, dove per queste si intende un evento in cui almeno quattro persone vengono rimaste ferite o uccise. Sempre secondo l’organizzazione, la sparatoria di Highland Park è stata la quindicesima di quest’anno in cui almeno quattro persone sono state uccise negli Stati Uniti (nel 2020 la conta si è fermata a 28). Nel 2021 si sono verificati 692 sparatorie di massa, un aumento rispetto alle 611 del 2020 e soprattutto alle 417 del 2019.

Negli Stati Uniti al 2014 al 2019 non si sono mai superate le 400 sparatorie di massa per anno e negli ultimi tre anni i dati dimostrano che la media è sempre più alta. I numeri di quest’anno sono in linea con il massimo dell’anno scorso se si confrontano i dati fino al 5 luglio. Dal 2020 a oggi è aumentato anche il numero delle vittime. 105 nel 2020, 153 nel 2021 e 87 solo fino al 4 luglio di quest’anno (incluse anche le sei vittime accertate dell’attacco a Highland Park). 

LE ALTRE SPARATORIE

La pesante cronologia sanguinaria del 2022 è iniziata lo scorso 23 gennaio a Milwaukee quando la polizia ha trovato sei persone morte uccise a colpi di pistola all’interno di un’abitazione. Si ricorda poi quella del 3 aprile a Sacramento quando cinque uomini armati hanno ucciso sei persone e ferito altre 12.

Il 12 aprile a New York è stata sfiorata la tragedia quando un uomo, arrestato nelle ore seguenti dalla polizia e ora accusato di attentato terroristico, ha sparato all’interno di uno dei vagoni della metropolitana ferendo dieci persone. Altre 16 persone sono rimaste ferite in una sparatoria avvenuta sempre a Milwaukee il mese seguente.

Sempre a maggio, il 14, un giovane ha sparato contro 13 persone in un supermercato di Buffalo ferendone a morte dieci. Per gli investigatori l’aggressione è “racially motivated”, ovvero a sfondo razziale. Le vittime erano tutte afroamericane. Dieci giorni più tardi, a Uvalde, in Texas, si è consumata la strage peggiore avvenuta in una scuola dal 2012 quando nella Sandy Hook elementary school (in Connecticut) sono stati uccisi 20 bambini e sei adulti. A Uvalde un giovane è entrato con armi pesanti nella Robb elementary school e ha ucciso 19 bambini e due insegnanti. 

Il primo giugno sono state uccise cinque persone vicino al San Francis hospital a Tulsa, mentre tre giorni più tardi a Filadelfia in una sparatoria sono morte quattro persone altre 12 sono rimaste ferite. Una lunga lista che si è aggiornata anche ieri, quando in Wisconsin una persona è stata uccisa e quattro sono rimaste ferite nella 315esima sparatoria di massa dell’anno. 

PREVENZIONE

A ogni strage torna al centro del dibattito pubblico americano il tema della prevenzione e del controllo delle armi. Ma il caso dell’Illinois è singolare. In un articolo del New York Times si legge che questo stato è al sesto posto tra quelli che hanno adottato leggi più severe in tema di sicurezza delle armi mentre è al nono posto per il tasso di possesso di armi. A Highland park, invece, nel 2013 un’ordinanza locale ha vietato le armi d’assalto come gli Ak-47.

Tra gli ultimi provvedimenti c’è la legge approvata dal Congresso a un mese dalla strage di Uvalde. Il testo prevede l’aumento dei controlli sul possesso di armi degli aspiranti acquirenti condannati per violenza domestica o crimini giovanili significativi. Il giorno della firma della legge il presidente Joe Biden aveva detto: «Se Dio vuole, salverà molte vite». 

YOUSSEF HASSAN HOLGADO. Giornalista di Domani. È laureato in International Studies all’Università di Roma Tre e ha frequentato la Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Fa parte del Centro di giornalismo permanente e si occupa di Medio Oriente e questioni sociali. 

Laura Pertici per repubblica.it il 4 luglio 2022.

I video non fermano le pallottole ma evitano che la morte di qualcuno finisca nell'oblio. Stavolta le immagini, definite dalla stessa polizia "sconvolgenti" e "difficili da vedere", sono quelle che documentano la morte di Jayland Walker, 25 anni, ex dipendente Amazon, ucciso dai poliziotti, che gli hanno scaricato addosso almeno una sessantina di colpi dopo un inseguimento in auto. 

È successo ad Akron, Ohio, città dove è nato il campione di basket LeBron James, che ha commentato: "Prego per la mia città". Centinaia di persone sono scese in strada per contestare la brutalità della polizia. 

L'episodio è avvenuto lunedì, ma il caso è diventato nazionale dopo che la polizia ha annunciato il rilascio del video shock registrato dalle body cam in dotazione ai poliziotti. Video poi diffusi. Walker, che lavorava per un'app di consegne di cibo a domicilio, era a bordo di un'auto quando, per un'infrazione stradale, non si è fermato all'alt della polizia. 

Da quel momento è partito l'inseguimento. La polizia sostiene che Walker abbia sparato con una pistola, ma i familiari dicono che non è vero. Dopo un breve inseguimento, il giovane afroamericano è uscito di corsa dall'auto e si è messo a correre lungo un parcheggio. Qui gli agenti lo hanno raggiunto.

Due avrebbero provato a fermare Walker usando il Taser, la pistola paralizzante, prima che in otto sparassero una novantina di colpi, dei quali almeno sessanta andati a segno. Walker è morto subito. Tutti e otto i poliziotti sono stati sospesi in attesa che l'inchiesta ricostruisca l'episodio. Negli Stati Uniti, a meno che non si sia bianchi o platealmente arresi, i poliziotti non mirano mai alle gambe, ma al petto, alla testa. 

È successo così anche stavolta. L'avvocato della famiglia della vittima, Bobby DiCello, ha confermato il ritrovamento di novanta bossoli. "Ci sono ferite in tutte le parti del corpo", ha aggiunto DiCello.

La polizia ha detto di aver recuperato la pistola usata dal giovane, ma i familiari contestano questa versione. Un'arma spunta spesso quando qualcuno viene ucciso dagli agenti. Adesso restano il dolore e la rabbia, amplificati dal video, la cui diffusione potrebbe infiammare la protesta. Il sindaco di Akron, il democratico Daniel Horrigan, ha annullato la festa in programma per il 4 luglio, Independence Day.

"Questa - ha spiegato - è la festa in cui si riuniscono le famiglie e gli amici. Non è il momento per una celebrazione". Secondo il Washington Post, l'anno scorso sono state 1.040 le persone uccise dalla polizia. Metà erano bianche, ma gli afroamericani sono colpiti in una misura sproporzionata: negli Stati Uniti sono soltanto il 13 per cento della popolazione, ma muoiono il doppio dei bianchi per mano della polizia. E nella maggior parte dei casi non c'è un video che possa aiutare a chiedere giustizia.

Stragi di massa, perché non è solo colpa delle armi e dei Repubblicani. Stefano Magni su Inside Over il 26 maggio 2022.

Robb Elementary School, Uvalde, Texas, Salvador Ramos, un diciottenne con evidenti problemi psicologici (fra cui l’autolesionismo), si barrica in una classe. È armato con due fucili regolarmente acquistati al suo compleanno della maggiore età. A casa aveva già sparato alla nonna che aveva cercato di fermarlo. A scuola trucida 21 persone, due adulti e diciannove bambini, prima di essere a sua volta ucciso dalla polizia.

Secondo il presidente Joe Biden, la responsabilità principale è della “lobby delle armi”, di cui il governatore texano Gregg Abbott, repubblicano, è un sostenitore e membro influente. In base alla legge 1927, promulgata in Texas nel settembre 2021, tutti possono portare armi da fuoco, anche fuori casa, anche se non provvisti di licenza o senza avere una formazione per il loro uso. Per la stampa liberal americana, e per buona parte di quella italiana, è Gregg Abbott il responsabile a monte della strage commessa da Salvador Ramos. A marchiare la sua “infamia” rispunta un tweet del 2015 in cui sosteneva, con ironia da macho: “Sono imbarazzato. Il Texas è solo al secondo posto per gli acquisti di nuove armi dietro alla California”.

Se però vogliamo vedere le responsabilità della strage di Uvalde, da un’altra prospettiva, perché nessun uomo armato è intervenuto a difendere i bambini dallo stragista? Nelle lettere inviate dai lettori al Wall Street Journal, nel dibattito lanciato dal prestigioso quotidiano sul Secondo Emendamento (diritto dei cittadini di possedere e portare armi), la prima risposta può apparire sbalorditiva agli occhi di chi è abituato a pensare all’europea: “Proteggere il Secondo Emendamento perché i secondi sono importanti”, titola il lettore, “Nel 2016, le mie due sorelle più giovani sono state testimoni dell’omicidio della cantante Christina Grimmie, quando erano in fila per incontrarla dopo un concerto. L’assassino di Grimmie è entrato indisturbato con due pistole cariche, due caricatori e un grande coltello. Non è stato fermato dalla sicurezza, ma dal fratello di Christina”. Se solo ci fossero state più armi… “In molte situazioni la polizia impiega qualche minuto ad arrivare, ma atti di violenza che possono cambiare la vita per sempre, avvengono in secondi”.

Senza entrare nel merito delle origini incomprensibili delle stragi di massa, una peculiarità della storia criminale americana, in Europa siamo abituati a ragionare in termini di monopolio statale pressoché assoluto delle armi. E tendono a sfuggirci alcuni dettagli importanti. Ad esempio, che le stragi di massa avvengono quasi sempre in luoghi in cui le armi sono proibite, come nelle scuole. I killer sanno di affrontare vittime indifese, sanno di essere gli unici armati e di poter agire indisturbati.

Il Texas è uno degli Stati con le leggi più permissive sul porto d’armi. Ma, in generale, non è uno degli Stati in cui si contano più morti per omicidi commessi con armi da fuoco. È nella media degli Stati Uniti. Ai vertici della triste classifica si collocano altri Stati del Sud: Louisiana, Mississippi, Alabama, Missouri, stranamente anche lo spopolato e paradisiaco (dal punto di vista naturale) Wyoming. Più violenti del Texas sono anche New Mexico, Oklahoma, Arkansas, Tennessee, Kentucky, South Carolina e (altri due casi inspiegabili) gli Stati dell’estremo nord Montana e Alaska. Il Texas, insomma, non è un caso speciale, né disperato, a causa delle sue leggi molto permissive sulle armi.

Lo è dal punto delle stragi di massa, un fenomeno molto più raro, nelle scuole o altri luoghi pubblici. Il Texas si colloca secondo dopo la California (23 stragi dal 1982) e alla pari con la Florida, contando 12 stragi negli ultimi 40 anni. Nemmeno questo dipende, però, dal grado di controllo sulle armi. La California, infatti, ha la legislazione più severa di tutti gli Usa, eppure… Anche la Florida ha leggi molto più restrittive rispetto a quelle del Texas, ma registra lo stesso numero di stragi di massa.

Insomma, è facile puntare il dito contro il Secondo Emendamento, le lobby delle armi e i loro sostenitori, specie se repubblicani (e trumpiani, magari, come Abbott). Ma la realtà non è così lineare, non si presta a facili politicizzazioni. Basti pensare che l’ultima strage di massa, la settimana scorsa, al supermercato Tops è avvenuta a Buffalo, Stato del New York. Governatrice democratica e liberal: Kathy Hochul. Ma in quel caso la responsabilità è ricaduta interamente sullo stragista, suprematista bianco, razzista.

Marco Contini per “la Repubblica” il 25 maggio 2022. 

Dal 1° settembre dello scorso anno, a chiunque risieda in Texas è consentito non solo possedere, ma anche portare con sé per strada, un'arma da fuoco, anche senza porto d'armi e senza aver avuto alcuna formazione sul corretto uso delle armi. 

È il risultato di una legge - la 1927 del 2021 - fortemente voluta dal governatore repubblicano dello Stato, Greg Abbott, dei più ferventi sostenitori del Secondo emendamento, la clausola della Costituzione americana che sancisce il diritto a essere armati.

«Forse direte che ho appena firmato una legge per la protezione dei diritti dei possessori di armi - dichiarò con fierezza nel giugno del 2021, appena dopo l'approvazione del provvedimento -. Ma in realtà oggi ho firmato una legge che rafforza le libertà nello Stato della stella solitaria ("The Lone Star State", uno dei nomignoli del Texas, ndr.)

Ora, alla luce dell'ennesima strage in una scuola - con 14 bambini e un'insegnate falciati da un diciottenne, che prima di fare irruzione nella Uvalde Elementary School aveva appena ucciso la propria nonna - il fantasma della legge 1927 potrebbe tormentare il governatore Abbott per gli anni a venire.

Ma i primi segnali non sono quelli di un pentimento. Parlando a caldo nell'immediatezza della strage, Abbott ha come da prassi parlato di «tragedia orribile», di lutto «non solo per le famiglie delle vittime ma per tutto il Texas» e della necessità di «impedire che tragedie analoghe possano ripetersi». Ma non ha mostrato alcun segno di rimorso, o perlomeno di dubbio per il fatto che la sua legge abbia potuto agevolare la strage di ieri. 

Del resto, la legge 1927 era stata approvata appena due anni dopo altre due stragi simili avvenute proprio in Texas: il 3 agosto del 2019, a El Paso, un ventunenne aveva ucciso 23 persone e ferito altre 25 in un supermercato della catena Wal-Mart, dopo aver pubblicato online una sorta di manifesto razzista; e quattro settimane dopo, il 31 agosto, un altro giovane, anche lui razzista dichiarato e con una storia di disturbi mentali alle spalle, aveva lasciato 7 morti e 25 feriti per le strade delle città gemelle Midland-Odessa.

Se non altro, il razzismo non sembra essere stato il movente della strage di ieri, visto che il pluriomicida era di origini ispaniche, così come l'80 per cento dei circa 15 mila abitanti di Uvalde, cittadina del Texas centro-occidentale a 135 chilometri di distanza da San Antonio. 

Sarà interessante a questo punto, vedere cosa deciderà di fare Abbott venerdì prossimo. Il 27, infatti, è in programma a Houston, sempre in Texas, il meeting annuale della National Rifle Association, la principale tra le numerose lobby delle armi americane.

E naturalmente, nella doppia veste di supporter e di padrone casa, Abbott figura - assieme all'ex presidente Donald Trump - nella lista degli invitati a parlare dal palco. Se deciderà di andare, è presto per dirlo. Nel 2020, ultimo anno di cui sono disponibili dati completi, negli Stati Uniti 45,222 persone sono state uccise da un'arma da fuoco. 

Secondo Emendamento, da dove viene e perché protegge il diritto di portare armi. Inside Over il 28 maggio 2022.

Il “Secondo Emendamento” torna ad essere al centro dell’attenzione, negli Usa e all’estero, dopo ogni strage commessa con le armi da fuoco. Ma di cosa stiamo parlando, esattamente?

Il fatto che si parli di “emendamento” e non di una “legge” già rende la questione più complessa. I primi dieci emendamenti vennero introdotti con il Bill of Rights come specifica alla Costituzione degli Stati Uniti d’America, nel 1791. La Costituzione stessa era entrata in vigore appena due anni prima. L’aggiunta del Bill of Rights venne fortemente voluta dagli Stati fondatori per proteggere i diritti individuali, e gli stessi diritti degli Stati, da possibili abusi del governo centrale. Convincere gli Stati originari, le 13 ex colonie, a formare una federazione, con un governo centrale, non era stato un compito facile. Fu un lungo negoziato, accompagnato da una grande opera di persuasione da parte dei padri fondatori. Il Bill of Rights venne introdotto proprio per rassicurare gli americani, appena liberatisi dall’Impero Britannico, che erano protetti dal nuovo governo e che questo non avrebbe avuto modo di trasformarsi in una nuova tirannia.

Il Primo Emendamento, architrave dei diritti di libertà individuale, protegge la libertà religiosa. Secondo il testo, il Congresso non può emettere leggi che la limitino la libertà di praticare il culto e che limitino la libertà di espressione. Grazie alla sensibilità per la libertà religiosa, dunque, venne protetta anche la libertà di espressione.

Il Secondo Emendamento garantisce invece i mezzi per proteggere questa libertà, anche in caso di aggressione fisica: “A well regulated Militia being necessary to the security of a free State, the right of the people to keep and bear Arms shall not be infringed.” Traducibile con: “Essendo necessaria alla sicurezza di uno Stato libero una ben organizzata milizia, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto”. La milizia oggi è limitata a un fatto di costume o di tradizione politica, ma allora era la spina dorsale delle nascenti forze armate statunitensi. Durante la guerra di indipendenza, la milizia proteggeva il suo Stato, la coalizione di milizie aiutava l’esercito continentale (antenato dell’esercito federale). Il modello militare si basava su cittadini armati, il “minuteman” (uomo pronto all’azione in un minuto) doveva disporre di un’arma pronta all’uso ed essere sempre in grado di usarla.

Durante la Guerra Civile (1861-65) almeno nel primo anno furono le milizie degli Stati Confederati ad iniziare la guerra, contro l’esercito federale, attaccando Fort Sumter, a Charleston, Sud Carolina. Nelle prime battaglie, come Bull Run, furono le milizie sudiste a combattere contro milizie nordiste. Le armi di difesa locale vennero dunque impiegate (costituzionalmente, secondo i sudisti, in modo sovversivo secondo i nordisti) contro il governo di Washington. Nonostante la centralizzazione che seguì la sconfitta del Sud, le milizie rimasero legali, così come restò il diritto a portare armi.

Il problema che si pose, semmai, fu nell’interpretazione del diritto individuale di portare armi: solo se inquadrati in una milizia o anche personalmente? E quest’ultimo diritto individuale a portare armi doveva considerarsi come costituzionale o come una norma emendabile da una legge ordinaria?

Il problema rimane complesso e le sentenze storiche della Corte Suprema sono molto contraddittorie. La prima di queste risale al 1886, Presser vs. Illinois: la Corte stabilì che il Secondo Emendamento vietasse agli Stati di vietare ai cittadini il diritto di detenere e portare armi “privando così gli Stati Uniti della loro giusta risorsa di preservazione della sicurezza pubblica”. Anche non in un contesto di guerra e al di fuori delle milizie, dunque, il diritto di portare armi era difeso perché utile al mantenimento dell’ordine pubblico.

Il quadro si complicò ai tempi dell’amministrazione Roosevelt. Nel 1934 venne emessa la National Firearms Act, una legge molto più restrittiva sul porto d’armi individuale. Nel 1938, due delinquenti comuni, intenti ad attraversare il confine fra gli Stati dell’Oklahoma e dell’Arkansas, vennero arrestati e furono sequestrati loro due fucili a canne mozze detenuti senza porto d’armi. La corte d’appello li assolse dall’accusa di detenzione illegale di armi, perché protetti dal Secondo Emendamento, ma la Corte Suprema, nel 1939, con la sentenza United States vs. Miller, ribaltò il verdetto, affermando che un fucile a canne mozze, lungo meno di mezzo metro, non fosse da considerare parte dell’equipaggiamento militare, dunque non adatto a una milizia e illegale. Si aprì di nuovo un periodo di incertezza che durò fino al 2008.

Quell’anno, una causa intentata da sei cittadini di Washington DC contro le leggi proibizioniste delle armi da fuoco in vigore nel Distretto, finì con una sentenza storica della Corte Suprema. Con un voto di 5-4, determinato dal conservatore Antonin Scalia (redattore del parere di maggioranza) stabilì il diritto individuale a portare armi. Scalia era un giudice letteralista, dunque non accettava che la Costituzione, incluso il Bill of Rights potesse essere interpretata alla luce dello “spirito dei tempi”, come è invece tipico dei giudici liberal.

Interpretando la Costituzione in base allo spirito originario, Scalia giunse alla conclusione che: la clausola di prefazione indica lo scopo del Secondo Emendamento (protezione di uno Stato libero), ma la clausola operativa stabilisce chiaramente il diritto individuale a detenere e portare armi.

Per questo, sbalordendo noi europei, abituati come siamo al monopolio della violenza da parte dello Stato, negli Usa portare un’arma è un diritto, a prescindere dai limiti dell’azione di legittima difesa. È un diritto in sé, parte del progetto costituzionale, istituzionale, nato da una rivoluzione, di una società libera unica al mondo.

Usa, AR-15: l’arma usata nelle stragi degli ultimi 10 anni. Perché è così micidiale. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022.

Nella strage alla scuola elementare di Uvalde, Texas, è stato usato l’AR-15: un fucile semiautomatico progettato dagli americani per il conflitto in Vietnam. Si tratta di un’arma micidiale che spara a raffica proiettili piccoli e velocissimi, colpiscono l’obiettivo a 800 metri al secondo, con caricatori da 45 o 60 colpi. Quando il proiettile colpisce una parte dura, perde stabilità e traiettoria dentro al corpo umano devastandolo. Se colpisce una spalla, il foro di uscita lo trovi dietro la schiena all’altezza del fegato. È un’arma da guerra, ma venduta negli Usa anche come arma da caccia o difesa personale. L’AR-15 è stato utilizzato per compiere la strage di Aurora, Colorado, nel luglio 2012 (14 vittime); Newtown, Connecticut, dicembre 2012 (27 vittime alla scuola elementare «Sandy Hook» di cui 20 bambini tra i 6 e i 7 anni); San Bernardino, California, dicembre 2015 (14 vittime); Orlando, Florida, giugno 2016 (49 vittime); Parkland, Florida, febbraio 2018 (17 studenti al liceo «Marjory Stoneman Douglas»). E infine i 19 bambini e 2 insegnanti di Uvalde. Nessun poliziotto armato di pistola può fronteggiare un soggetto con in mano un AR-15. 

Il Secondo emendamento della Costituzione americana risale al 1791, e proclama il diritto dei singoli cittadini a possedere armi per difendersi. Nel 1934 il governo statunitense interviene per la prima volta con una interpretazione restrittiva della norma imponendo limiti e controlli con il National Firearms Act: registrazione di alcune categorie di armi (fucili a canna rigata e fucili a canna liscia inferiore a 18 pollici, armi con silenziatore, mitragliatrici), il divieto di possedere fucili senza il porto d’armi e ne scoraggia l’uso con una tassa di 200 dollari. Nel 1968 c’è un nuovo intervento normativo con il Gun Control Act che vieta trasferimenti interstatali di armi da fuoco e l’acquisto di pistole e fucili per corrispondenza.

Reagan e la lobby delle armi

La storia si allenta negli anni 80, quando Reagan, il primo presidente eletto con l’appoggio della lobby delle armi, la NRA, presenta il «Firearm Owners’ Protection Act», legge che abroga parzialmente le limitazioni, ma stabilisce il divieto della vendita libera di fucili automatici ai civili. Nel 1992 tornano i democratici al potere e Bill Clinton vara il «Brady Bill», che rende più difficile l’acquisto di una pistola, e «l’Assault Weapons Ban», bando sulle armi d’assalto come i fucili semiautomatici tipo l’AR-15, e limita anche il numero di proiettili per caricatore. Nel 2004 l’amministrazione Bush non rinnova il bando, ma la svolta arriva tra il 2008 e il 2010 con le sentenze «District of Columbia v Heller» e «McDonald v City of Chicago». La corte Suprema, presieduta dal conservatore Antonin Scalia stabilisce che possedere armi per la difesa personale è un diritto fondamentale dei cittadini su tutto il territorio nazionale. 

Da allora è esplosa la produzione e vendita di pistole, fucili e armi semiautomatiche. In piena epoca trumpiana è stato approvato il Constitutional Carry, che sancisce il diritto di portare con sé ovunque un’arma a vista oppure nascosta. Norma ratificata da 19 Stati su 25 dal 2017 in poi. Dal 2016 in Iowa anche i bambini possono possedere e usare armi sotto la supervisione dei genitori.

Statistiche inquietanti

Secondo i dati del «Bureau of Alcohol, Tobacco, Firearms and Explosives» se nel 2008 i produttori nazionali dichiaravano di aver fabbricato 4,5 milioni di armi, nel 2020 la cifra ha raggiunto gli 11,3 milioni. A cui vanno aggiunti i 6,3 milioni di armi importate, mentre le esportazioni sono molto basse: 650.4825. Un rapporto di Small Arms Survey, organizzazione con sede a Ginevra, spiega che gli americani possiedono 393,3 milioni di armi, a fronte di una popolazione di 330 milioni di abitanti. Uno studio del Pew Research Center rileva che tre adulti su dieci hanno una pistola e almeno un altro vive con qualcuno che ne detiene una. I possessori di fucili e pistole sono principalmente maschi (un uomo su 4 dichiara di possedere una pistola contro il 22% delle donne) e prevalentemente bianchi (il 36% contro il 24% dei neri e il 15% degli ispanici). In media gli Stati Uniti hanno 120,5 armi ogni 100 residenti, contro le 19,6 di Francia e Germania. 

La legislazione federale

La legge federale consente oggi ai cittadini diciottenni di acquistare fucili a canna rigata, a canna liscia e semiautomatici con ricaricatore anche modificabile. Per acquistare una pistola invece bisogna aver compiuto i 21 anni. È vietata la vendita a persone con condanne di almeno 1 anno, ordinanze restrittive e accuse di stalking o violenza domestica, a immigrati irregolari, a persone con problemi di salute mentale o che fanno uso di stupefacenti. Le armi possono essere acquistate online, durante fiere dedicate a pistole e fucili, da privati, in armerie e in negozi che spesso si trovano in specifiche aree dei supermercati. La procedura prevede che l’acquirente compili un’autocertificazione, dichiarando le generalità e l’assenza di precedenti penali. Il venditore a sua volta deve avviare il controllo preventivo da parte dell’Fbi per verificare che il cliente sia idoneo all’acquisto dell’arma. 

Il 90% dei casi si conclude all’istante, ma la normativa prevede che se entro tre giorni non arriva l’ok dell’Fbi, il venditore deve consegnare comunque l’arma al cliente. Secondo i dati dell’Fbi i controlli preventivi negli Usa, nell’intero 2021, hanno sfiorato i 39 milioni. Solo tre anni fa i controlli preventivi erano 10 milioni in meno (28,3 milioni) e ciò conferma come con la pandemia siano aumentate le richieste di acquisto di armi. La procedura dei controlli preventivi però vale solo presso i rivenditori federali autorizzati, non è richiesta se acquisti da venditori privati, online o alla fiere di armi. Ragion per cui non si conosce il numero esatto di armi circolanti è solo stimabile. 

La legislazione statale

Gli Stati Uniti sono un Paese federale e anche in materia d’armi ogni Stato ha le sue regole. Gli Stati a tradizione repubblicana hanno norme pro-armi ispirate alla deregolamentazione, i secondi invece leggi più restrittive. Ad esempio in Alabama, Arizona, Indiana, Kentucky basta avere 18 anni per poter acquistare una pistola, tre anni in meno rispetto al limite federale. In Alaska puoi possedere una pistola a 16 anni, in Louisiana a 17. In Texas, Wyoming, Ohio, New Hampshire, Montana e Maine si può acquistare qualsiasi tipo di armi una volta maggiorenni, anche l’AR-15. Invece per l’acquisto di un fucile nel Connecticut, Hawaii, Illinois, Maryland, Massachusetts, New Jersey, New Mexico, New York, Washington e il Distretto di Columbia ci vogliono 21 anni, tre anni in più rispetto a quanto impone la legge federale. Per quel che riguarda la licenza di porto d’armi, la legge federale non la richiede. Tuttavia 7 Stati la richiedono per tutte le armi (California, Connecticut, Distretto di Columbia, Hawaii, Illinois, Massachusetts, New Jersey), 6 solo per possedere una pistola (Maryland, Michigan, Nebraska, New York, Carolina del Nord, Rhode Island) e uno (Washington) per i fucili semiautomatici. In 25 Stati la legge permette ai titolari di punti vendita privati di non effettuare controlli preventivi. Dall’altra parte 22 Stati li impongono, e prima che siano consegnati pistole o fucili possono passare 180 giorni ( New York) o tempi «indefiniti» ( Pennsylvania). Stesso discorso per la vendita di armi d’assalto semiautomatiche: nei territori più conservatori si possono comprare tante armi quante se ne desiderano, mentre in otto Stati (California, Connecticut, Distretto di Columbia, Hawaii, Maryland, Massachusetts, New Jersey, New York) la vendita di armi d’assalto è vietata e in altri due (Minnesota e Virginia) è severamente regolata. Queste norme sono considerate dagli Stati repubblicani una sorta di attentato alla libertà personale. In generale la maggior parte delle armi non è registrata, e solo due Stati (Hawaii e Distretto di Columbia) mantengono un database con tutte le armi presenti sul proprio territorio. 

Più armi più morti

Il 2020, secondo i dati diffusi dai Centers for Disease Control and Prevention, è stato l’anno con più morti provocati da arma da fuoco: 45.222 persone (il 54% suicidi, il 43% omicidi). Nel 2010 erano 31.672, il 30% in meno. 

Gli Stati Uniti hanno in media 11,9 vittime per arma da fuoco ogni 100 mila abitanti. La Svizzera, secondo Paese occidentale con la media più alta si ferma a 2,8 vittime, l’Italia a 1,2. Ma quali Stati americani hanno la maggior media di morti violente? Ai primi posti ci sono Alaska (23,4 ogni 100 mila), Mississippi (23,4), Alabama (22,4), Wyoming (21,2), Montana (19,7), Arkansas (19,8): territori che sono anche tra quelli con i tassi più alti di possesso di armi. All’opposto Stati che presentano una legislazione sulle armi molto restrittiva hanno tassi di mortalità per arma da fuoco molto bassi rispetto alla media: Connecticut (5,2 decessi ogni 100 mila abitanti), New York (4,3), Hawaii (3,8) e Massachusetts (3,5).

Problema politico

Nel corso dell’ultimo decennio l’inasprimento del dibattito e le divisioni sempre più profonde nel Paese hanno portato repubblicani e democratici ad esasperare la lotta politica. Più volte il Congresso ha provato, invano, a far passare una legge che limitasse la circolazione delle armi. Ma ogni volta è stata bloccata dall’ostruzionismo parlamentare del partito repubblicano, sempre più sensibile alle richieste dei produttori: la NRA dichiara di essere sostenuta da 5 milioni di iscritti. Nelle prossime settimane il partito democratico ci riproverà con una legge che si propone di estendere a 10 giorni i controlli preventivi a tutti i compratori. Anche stavolta il tentativo di trovare un compromesso è destinato a fallire. Al meeting dell’NRA, tre giorni dopo la strage di Uvalde, Donald Trump ha proposto la sua soluzione: presidio armato davanti alle scuole, o insegnanti armati. Accolta con l’acclamazione dei produttori e della maggior parte dei repubblicani. In nessun Paese occidentale è permessa la proliferazione di una così vasta gamma di armi per difesa personale. E in nessun Paese occidentale si è verificata una carneficina comparabile. La strage di Uvalde è stata la 212esima sparatoria di massa dal 2022, la 27esima in una scuola e il numero sale a 39 se si aggiungono le università. Nell’ultimo decennio sono stati oltre 900 gli attacchi con armi da fuoco a complessi educativi. Dalla tragedia di Columbinedel 1999 sono stati uccisi 169 studenti.

Strage di Uvalde, la giornalista che ha perso la figlia: «Posso scrivere il suo necrologio?». «Ti diamo una pagina». Irene Soave su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.

Il «New Yorker» ha ricostruito il giorno più difficile della redazione dell’«Uvalde Leader-News», il giornale locale della cittadina texana dove è avvenuta la strage. E il dolore di Kimberly Rubio, cronista, che nella scuola elementare ha lasciato per sempre la sua Lexi.

«Posso avere due foto invece di una?» «Puoi avere tutta la pagina». Un dialogo così, nelle redazioni dei giornali dove le notizie da scrivere sono sempre infinite, e le pagine no, avviene di rado. Negli uffici dell’«Uvalde Leader-News», il giornale locale della cittadina in Texas dove ha avuto luogo l’ultima strage in una scuola, la Robb Elementary School, con un bilancio di 19 bambini e due insegnanti morte, ha avuto luogo pochi giorni fa. A parlare col direttore era Kimberly Rubio, l’ex segretaria di redazione poi diventata cronista per il giornale, e il dialogo, via sms, è stato riportato dal «New Yorker». La figlia di Kimberly Rubio, Lexi, è tra i 19 bambini uccisi dal killer Salvador Ramos. E sul giornale che il giorno dopo la strage è uscito con una copertina tutta nera — in segno di lutto, ma anche di riservatezza nel dolore — una pagina è dedicata al ricordo di lei.

A ricostruire quello che è avvenuto nella redazione dell’«Uvalde Leader-News», altrimenti sonnolenta come quella di qualsiasi giornale locale di un posto prospero e tranquillo, è il «New Yorker». La notizia arriva sullo scanner radio sintonizzato sulle frequenze di polizia, un arnese da vecchia scuola della cronaca che molte redazioni tengono ancora acceso. Il direttore, e fotografo, Pete Luna (45 anni), va subito sul posto. Racconta che anche mentre guidava verso la scuola pensava ancora all’apertura di prima pagina preventivata fino a quel momento: un grave incendio domestico, con un presunto morto. Quando Luna è arrivato vicino alla scuola, il killer era ancora dentro. Luna continua a fare foto. Conosce quasi tutti: i bambini, che ha fotografato sui campi sportivi, i soccorritori, molti poliziotti. Si preoccupa, racconta al giornale, «quando vedo arrivare i tiratori scelti della polizia. Continuavano ad arrivare decine e decine di agenti». I bambini vengono fatti uscire. Molti genitori in un sollievo indicibile lasciano il prato della scuola. Chi non ha ancora ritrovato il suo bambino, invece, resta lì. «Ho smesso di fare foto perché eravamo sempre meno, e sempre più terrorizzati, su quel prato».

Tra i genitori che non hanno più ritrovato un loro figlio, c’è Kimberly Rubio. L’editore, Craig Garnett, racconta anche «che ero molto preoccupato di prendere dei buchi», cioè, in gergo giornalistico, di non avere una notizia che altri hanno «perché quando sei un giornale locale non sempre osi chiedere ai tuoi concittadini domande scomode». Il direttore, Luna, chiede di poter non pubblicare la foto del killer. «Lo vedremo ovunque, io non voglio contribuire». C’è una riunione per la prima pagina: si sceglie una pagina nera, la cui foto fa il giro del mondo. Una scelta forte, per un giornale diretto da un fotografo. I primi necrologi. Già nel pomeriggio, Kimberly Rubio aveva scritto al direttore, chiedendo di poter scrivere lei, in poche righe, l’addio alla sua bambina. «Puoi avere l’intera pagina», le ha scritto il direttore, e Kimberly Rubio si è messa al lavoro. 

Florida, arrestato bambino di 10 anni: aveva minacciato sparatoria di massa. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.

Il bambino, studente della Patriot Elementary School di Cape Coral, è stato ammanettato e portato via. «Non è il momento di agire come un piccolo delinquente, non è divertente», ha detto la polizia. 

Un bambino di 10 anni è stato arrestato in Florida per aver minacciato una sparatoria di massa tramite dei messaggini. Lo riferisce il New York Post citando la polizia. Il bimbo, studente di una scuola elementare di cape Coral, è stato ammanettato e portato via.

«Non è il momento di agire come un piccolo delinquente, non è divertente. Questo bambino ha lanciato una falsa minaccia e ora ne sta pagando le vere conseguenze», afferma lo sceriffo Carmine Marceno. La minaccia segue la strage alla scuola elementare del Texas, dove un diciottenne ha aperto il fuoco e ucciso 21 persone.

«La condotta di questo studente è rivoltante, specie dopo la recente tragedia di Uvalde, in Texas. È imperativo assicurarci che i nostri figli siano al sicuro», ha dichiarato lo sceriffo della contea di Lee, Carmine Marceno.

L’allarme era scattato sabato, come si legge sul post Facebook dell’ufficio di Marceno, quando lo sceriffo della contea di Lee è venuto a conoscenza di un messaggio con un testo minaccioso inviato dallo studente di quinta elementare della Patriot Elementary School di Cape Coral. Il team per l’analisi delle minacce scolastiche è stato immediatamente allertato e ha iniziato ad esaminare il caso. Gli investigatori hanno interrogato il sospetto e hanno ipotizzato il suo arresto, con l’accusa di aver minacciato per iscritto di voler portare a termine una sparatoria di massa.

Il presidente Usa Joe Biden, intanto, ha ipotizzato con le autorità della città texana di Uvalde la possibilità di radere al suolo la scuola elementare Robb teatro della strage e di costruirne una nuova.

Strage in Texas, la maestra di Uvalde al telefono col marito poliziotto che non ha potuto intervenire. Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera Giorno il 2 Giugno 2022.

Lei dentro in classe, colpita mentre tentava di proteggere i suoi alunni; lui si è precipitato fuori dalla scuola non è potuto entrare a soccorrerla. Nuove ombre sulla ricostruzione ufficiale del massacro. 

Gli ultimi istanti prima di morire la maestra Eva Mireles li ha passati al telefono con suo marito. A dividerli c'era soltanto un muro della Robb Elementary School, la scuola teatro di una strage di bambini assurda, la scorsa settimana. Lei dentro, in classe, colpita mentre tentava di proteggere i suoi alunni dai proiettili; lui, Ruben Ruiz, poliziotto in servizio nello stesso distretto scolastico, fuori a raccogliere l'sos della moglie senza poter intervenire. Una situazione paradossale, surreale, che rende ancora più assurdo e inaccettabile questo massacro.

«Lei in classe e lui fuori. È terrificante», ha commentato il giudice della contea di Uvalde, Bill Mitchell, dopo essere stato informato dai vice dello sceriffo che erano alla sparatoria che ha causato la morte di 19 alunni e due insegnanti nella scuola di Ubalde, in Texas. 

La notizia della telefonata della maestra al marito poliziotto, rivelata dal New York Times, è un dettaglio importante per l'inchiesta: indica che almeno uno degli agenti arrivati sul posto aveva ricevuto informazioni direttamente dall'interno delle aule. Informazioni che avrebbero potuto avere un peso sulla decisione della polizia di ritardare l'ingresso nella scuola: sono passati 78 minuti tra le prime chiamate arrivate al numero di emergenza 911 e il momento in cui una squadra tattica della Border Patrol si è precipitata in classe e ha ucciso il killer.

Più volte dalla scorsa settimana, le ricostruzioni presentate dai funzionari come fatti nelle conferenze stampa sono state poi modificate o completamente ritrattate, sconvolgendo ulteriormente una comunità già colpita e minando la fiducia di molti texani nei confronti della versione ufficiale di ciò che è accaduto.

L'agente Ruiz finora si è rifiutato di rilasciare interviste. Ha parlato invece una zia della moglie, Lydia Martinez Delgado: Eva è stata uccisa a colpi di arma da fuoco mentre cercava di proteggere i suoi studenti, ha riferito. A suo marito, che si era precipitato sul posto, è stato impedito di entrare, altri agenti di polizia glielo hanno impedito, ha aggiunto. «Non poteva entrare nell'aula dove si trovavano le vittime della sparatoria». 

Eva Mireles aveva 44 anni. Era un'appassionata escursionista oltre che una maestra orgogliosa di insegnare in una scuola prevalentemente ispanica. Lascia una figlia adolescente che ha affidato ai social il suo dolore: «Mamma sei un'eroina, non so come farò a vivere senza di te. Ripeterò sempre il tuo nome così che verrà sempre ricordato: Eva Mireles, insegnante di quarta alla Robb Elementary che senza pensare a se stessa si è messa di fronte ai suoi alunni per salvare la loro vita».

Strage di Uvalde: le tante domande sulle falle della sicurezza. Piccole Note il 30 maggio 2022.

Si infittiscono i misteri sulla strage di Uvalde, Texas, dove un diciottenne ha ucciso 19 bambini e due insegnanti. La polizia alla fine, incalzata dalle proteste dei genitori, ha dovuto ammettere il gravissimo ritardo dell’irruzione nell’aula dove si era barricato lo stragista. Praticamente gli agenti non hanno fatto nulla per più di un’ora, anzi hanno bloccato i cittadini che volevano intervenire, permettendo a Salvador Ramos, questo il nome dell’attentatore, di fare quel che voleva all’interno della scuola.

Un mea culpa, quello della polizia, che non scioglie tutti i misteri. In altra nota avevamo riportato la notizia che, circa un mese prima della strage, la polizia di Uvalde aveva condotto un’esercitazione specifica per far fronte a un attacco contro una scuola locale, una simulazione svolta proprio nella scuola frequentata dall’attentatore.

Ora si scopre che il distretto scolastico autonomo di Uvalde aveva anche acquisito un sofisticato sistema di monitoraggio di internet, chiamato Social sentinel, che, grazie all’AI, è in grado di rilevare con accuratezza eventuali minacce circolanti sul web.

A darne notizia è l’autorevole Politico, che non specifica il nome del software. Più dettagliato il report del Daily mail, che, oltre a dare un nome al programma, ricorda come Ramos abbia acquistato online le armi e gli oltre 300 proiettili usati per la strage e abbia orgogliosamente postato sui social le foto dei suoi acquisti, oltre ad aver inviato alcune e-mail prima di compiere l’attentato. Pubblicazioni che avrebbero dovuto essere rilevate dal programma e che forse, rilevate, sono state ignorate dagli addetti.

La domanda suddetta si pone con forza, anche se si considera che non dovrebbe essere difficile monitorare una cittadina piccola come Uvalde (16mila abitanti, di fatto un paese).

Nonostante un apparato preventivo e di sicurezza tanto sofisticato, corroborato da esercitazioni specifiche, interpella non poco la mancata prevenzione e/o contenimento dell’accaduto.

La polemica sull’accesso delle armi che sta lacerando l’America e che divide quanti giustamente chiedono limitazioni al loro acquisto e maggiori controlli da quanti si oppongono alle restrizioni in nome del secondo emendamento della Costituzione, affronta solo una parte del problema.

C’è da capire perché l’America sia particolarmente colpita da questa singolare follia, destinata a procrastinarsi anche con una limitazione all’acquisto delle armi (si può uccidere anche con una pistola). E perché, a volte, come nel caso di Columbine e in quello attuale, le forze dell’ordine Usa, in genere alquanto severe, abbiano dimostrato una leggerezza tanto sconcertante. Leggerezza ancor più grave nel caso di Uvalde perché ormai l’America sa perfettamente che le sue scuole sono un obiettivo strategico della follia stragista.

Domande tante, risposte poche e insufficienti.

Da repubblica.it il 14 luglio 2022. 

Due testate giornalistiche del Texas hanno pubblicato il video di sorveglianza che riprende il momento in cui i poliziotti sono entrati nella scuola elementare di Uvalde mentre il killer era barricato in un'aula con alunni e insegnanti lo scorso gennaio. All'inizio del filmato si vede anche Salvador Ramos arrivare nella scuola armato del suo fucile d'assalto, percorrere il corridoio e cominciare a sparare. 

La telecamera di sorveglianza riprende anche un bambino uscire dal bagno, affacciarsi al corridoio, sentire gli spari e scappare. Nella parte che riguarda gli agenti, le immagini mostrano decine di poliziotti entrare nel corridoio, sentire il rumore di spari dentro l'aula e fermarsi, senza agire. Che gli agenti avessero aspettato ben 70 minuti prima di fare irruzione, mentre il killer massacrava 19 studenti e due insegnanti, era emerso qualche giorno dopo la strage, ma vederne il filmato è ancora più inquietante.

Strage scuola di Uvalde, inchiesta: "C'erano 376 agenti, da loro errori sistematici. Redazione Tgcom24 il 17 luglio 2022.

Furono 376 gli agenti accorsi per la sparatoria che ha causato la morte di 21 persone (19 bambini e 2 insegnanti) nella scuola elementare di Uvalde in Texas, ma "fallimenti  sistematici" e una "eclatante cattiva capacità decisionale" crearono una scena caotica che durò 77 minuti prima che il killer fosse affrontato e ucciso. E' quanto emerge da un rapporto investigativo diffuso dai media Usa. Nel mirino non solo le autorità locali ma anche le forze dell'ordine federali e statali, la stragrande maggioranza di quelle presenti.

(ANSA il 18 luglio 2022) - Nuovo video sconcertante sul caos della risposta della polizia durante la sparatoria nella scuola elementare di Uvalde, Texas. Lo ha diffuso tramite la Cnn il sindaco della cittadina, sfidando il divieto del procuratore incaricato delle indagini. Le immagini di una body cam mostrano la totale mancanza di coordinamento e azione degli agenti. Uno dei poliziotti chiede invano un paio di volte al killer di arrendersi senza poi agire, un altro armeggia con un paio di chiavi per aprire una porta lungo il corridoio che portava alle classi dove l'assalitore stava sparando.

Si sente anche un centralinista della polizia riferire di un bimbo in linea dalla "stanza 12" che parla di "una stanza piena di vittime". Quasi mezzora prima l'insegnante Eva Mirales aveva chiamato l'agente Ruben Ruiz, arrivato sul posto, dicendogli che era ferita, prima di diventare una delle 21 vittime.

Strage di Uvalde, un rapporto evidenza le problematiche dell’intervento della polizia. Il Domani il 18 luglio 2022

L’inchiesta della commissione della Camera del Texas ha evidenziato le falli sistemiche nell’intervento della polizia per proteggere gli studenti della scuola elementare di Uvalde, dove lo scorso 24 maggio un killer ha uccise 19 bambini e 2 docenti

L’intervento della polizia nella sparatoria di massa avvenuta lo scorso 24 maggio alla Robb Elementary school di Uvalde è stato insufficiente. Un rapporto di 77 pagine della Camera del Texas conferma quello che era apparso agli occhi dei testimoni che si trovavano fuori dall’istituto scolastico dove Salvador Ramos ha ucciso 19 bambini e 2 docenti con un’arma pesante ottenuta appena compiuto la maggiore età.

Le accuse iniziali provenivano direttamente dai vertici delle autorità locali e dello stato del Texas che hanno confermato un certo immobilismo nell’intervento degli agenti per neutralizzare il giovane killer. La scorsa settimana è stato diffuso anche un video delle telecamere di sicurezza della scuola in cui si vedevano gli agenti fermi per quasi un’ora all’interno dell’edificio prima di fare irruzione all’interno dell’aula dove si trovava Ramos insieme ai bambini. 

IL CONTENUTO DEL RAPPORTO

Secondo la commissione speciale della Camera del Texas che ha presentato il rapporto stilato a quasi due mesi dalla strage ci sono stati dei «fallimenti sistemici» che hanno lasciato la scuola non adeguatamente protetta e gli agenti a rispondere con un intervento confuso e inadeguato.

Durante la sparatoria sono arrivati sul posto circa 400 agenti. Ma soltanto un piccolo gruppo è intervenuto, tra l’altro quello composto da poliziotti di frontiera, mentre avrebbero potuto farlo molto prima gli altri colleghi presenti.

Tuttavia, il rapporto ha anche rilevato che una risposta diversa della polizia non avrebbe salvato la maggior parte delle vittime. Un elemento che resta comunque molto complicato da verificare. Alcune delle vittime sono morte durante il tragitto verso l’ospedale, si legge nel rapporto in cui è specificato che «è plausibile che alcune vittime sarebbero potute sopravvivere se non avessero dovuto aspettare» i soccorsi.

«Se c’è una sola cosa che posso dirvi è che ci sono stati molteplici fallimenti sistemici», ha detto domenica in una conferenza stampa il rappresentante dello Stato Dustin Burrows, che ha guidato l’indagine. «Diversi agenti nel corridoio o nell’edificio sapevano o avrebbero dovuto sapere che c’era un morto in quell’aula e avrebbero dovuto fare di più, agire con urgenza».

Massimo Basile per repubblica.it il 18 luglio 2022.  

Un ragazzo di 22 anni, che girava armato di domenica in un centro commerciale, in qualsiasi posto sarebbe stato una presenza inquietante, ma non a Greenwood, Indiana. Da ieri è il 'Good Samaritan' d'America, il 'buon samaritano': è stato lui a uccidere il killer e a rendere meno grave il bilancio dell'ennesima strage americana, che conta quattro morti, compreso l'assassino, e due feriti.

È avvenuto nel sobborgo di Indianapolis, nello Stato dove dal primo luglio, in base alla nuova legge firmata dal governatore repubblicano, si può girare armati e senza bisogno di avere la licenza. L'approvazione del testo, simile a quello del Texas, era stato accompagnato da polemiche, ma l'intervento decisivo del 'Good Samaritan' finirà per rilanciare la campagna dei difensori delle armi in nome del Secondo Emendamento. Se la strage non ha avuto un bilancio più grave è grazie al ragazzo.

La ricostruzione dei fatti

Intorno alle 6 di pomeriggio una persona, di cui non sono stati indicati ancora nome e età, è entrata nel centro commerciale affollato di persone e si è diretta nella zona dei pub e ristoranti. Qui, armato di fucile d'assalto, e con caricatori con centinaia di colpi, il killer ha cominciato a sparare sulla folla, uccidendo tre persone e ferendone due. Una bambina è stata colpita alla schiena, ma non sarebbe in pericolo di vita. Testimoni hanno parlato di decine di colpi sparati, mentre la gente fuggiva terrorizzata.

Scene ormai frequenti nei weekend americani ma con un epilogo diverso: il piano del killer è stato interrotto quasi subito, grazie a un giovane. Il ragazzo ha tirato fuori la pistola e sparato sull'assassino, uccidendolo. La polizia è arrivata quando ormai tutto era praticamente già concluso, anche se per alcune ore la zona è stata chiusa, perché c'era il sospetto che uno zaino lasciato poco distante potesse contenere esplosivo. L'allarme è rientrato, ma resta l'ennesima strage del 2022, la 347ª in appena 193 giorni. 

Il "Buon Samaritano"

"Questa tragedia - ha commentato il sindaco di Greenwood, Mark Meyers - colpisce al cuore la nostra comunità. Ho fatto il poliziotto per gran parte della mia vita, ma non avevo mai visto una cosa del genere". Il sindaco ha ringraziato pubblicamente il 'Buon Samaritano': "Questa persona ha salvato vite. A nome della città gli sono grato per l'eroismo mostrato in questa situazione". "Il ragazzo - ha aggiunto il capo della polizia locale, Jim Ison - veniva da Bartholomew County, quaranta chilometri a sud dal centro commerciale, ed era armato, nel pieno rispetto della legge".

L'America torna Far West Spara e uccide 3 persone. Un passante lo ammazza. Gaia Cesare il 19 Luglio 2022 su Il Giornale.

È successo in Indiana, dove da inizio luglio si può girare armati senza avere la licenza

Sembra il Far West, ma in realtà è Greenwood, sud di Indianapolis, Midwest degli Stati Uniti. È qui che si è consumata, in una tranquilla domenica di metà luglio, l'ennesima sparatoria nell'America che non smette di interrogarsi sull'abuso di armi ma non riesce davvero a mettere un freno al loro dilagare, alle sparatorie quotidiane e alla violenza senza limiti. Quattro morti, stavolta nello Stato dell'Indiana a guida repubblicana, dove dal primo luglio i residenti possono girare armati anche senza avere il porto d'armi. Tre persone sono state uccise da un uomo che ha aperto il fuoco con un fucile in un centro commerciale. La quarta vittima è il killer, assassinato a sua volta da un cittadino armato, che è intervenuto per fermarlo con la sua pistola. Altre due persone sono rimaste ferite, una delle quali è una ragazzina di 12 anni. Non si conoscono ancora le motivazioni all'origine della sparatoria.

«Il vero eroe del giorno è questo cittadino che portava legalmente un'arma da fuoco e che ha potuto fermare il killer che sparava, poco dopo che quest'ultimo aveva iniziato ad aprire il fuoco», ha spiegato il capo locale della polizia, Jim Ison. Ed è nell'intervento «eroico» di quest'uomo che sta il paradosso di un Paese che si affida a un cittadino armato per fermare la violenza di un altro cittadino armato. Scosso si dice il sindaco della città, Mark Myers, che ha ricordato: «Sono stato un agente di polizia per gran parte della mia vita», ha detto in un'intervista. «Tuttavia, quel che è accaduto è incredibilmente scioccante, non solo per me ma per tutta la nostra comunità». E via anche lui a elogiare il passante entrato in azione per chiudere la sparatoria: «Qualcuno che chiamiamo il buon samaritano è stato in grado di sparare all'aggressore e fermare ulteriori spargimenti di sangue", ha detto Myers. «Sono grato per la sua azione rapida e per il suo eroismo in questa situazione».

Nessuno ha svelato, tuttavia, il nome dell'uomo della salvezza (armato), di cui si sa solamente che ha 22 anni, è della contea di Bartholomew, a circa 35 miglia a sud del centro commerciale, e possedeva legalmente la pistola. Dopo l'attacco, le forze dell'ordine hanno voluto accertarsi che nell'area non ci fosse anche dell'esplosivo.

Dal primo luglio l'Indiana, con l'entrata in vigore dell'House Bill 1296, permette ai cittadini sopra i 18 anni di età di portare con sé, nascondere o trasportare una pistola in pubblico, senza che vengano controllati i precedenti né venga effettuato alcun controllo per l'acquisto dell'arma. È il 23esimo Stato con leggi di questo genere negli Usa, insieme all'Ohio che ha introdotto la misura questo mese. Eppure ogni anno circa 40mila persone muoiono uccise da armi da fuoco negli Stati Uniti, secondo il Gun Violence Archive. E una commissione della Camera dei rappresentanti dovrebbe votare questa settimana, per la prima volta in quasi 20 anni, un provvedimento per bandire le armi d'assalto.

A giugno, il presidente Joe Biden ha firmato una legge che, pur non soddisfacendo del tutto le aspettative della Casa Bianca, è intervenuta sulla questione armi dopo molti anni, riducendo la possibilità che finiscano nelle mani di individui considerati pericolosi e cercando di bloccare la vendita di pistole agli accusati di violenze domestiche. La misura, però, non è intervenuta sulla vendita di fucili di assalto né su quella dei caricatori ad alta capacità. Il 4 luglio, durante la parata per il Giorno dell'Indipendenza, un giovane armato di fucile automatico ha sparato dal tetto di un palazzo sulla folla, in un sobborgo di Chicago, uccidendo 7 persone e ferendone una quarantina. E appena qualche giorno fa Manuel Olivier, padre del giovane Joacquin, ucciso insieme ad altre 17 persone nel liceo di Parkland, in Florida, nel 2018, ha interrotto il discorso che Biden teneva alla Casa Bianca per celebrare la storica stretta sulle armi varata dal Congresso e ha accusato il presidente di non aver fatto abbastanza: «Sono anni che provo a dirtelo, anni», ha urlato. Biden lo ha invitato ad ascoltarlo finire il suo intervento. Ma l'uomo è stato scortato fuori dalla White House dal Secret Service.

(ANSA il 19 luglio 2022) - La Nra non perde tempo e approfitta di un evento tragico come l'ultima sparatoria in Indiana per tirare acqua al suo mulino. 

La potente lobby delle armi Usa ha infatti salutato come un "eroe" il cittadino che ha sparato al killer uccidendolo ed evitando che il bilancio delle vittime fosse più grave. Intanto la polizia ha reso noto il nome dell'assalitore, Jonathan Sapriman, bianco di 20 anni, e quello del 'buon samaritano', Elisjsha Dicken, 22 anni.

Le vittime sono un uomo di 30 anni e una coppia seduta in un ristorante. Tre le persone ferite nel centro commerciale di Greenwood, tra le quali una ragazzina di 12 anni. "Lo diciamo di nuovo: l'unico modo per fermare un cattivo con una pistola è un bravo ragazzo con una pistola", ha scritto la Nra sul suo account Twitter.

Gaia Cesare per “il Giornale” il 19 luglio 2022.  

Sembra il Far West, ma in realtà è Greenwood, sud di Indianapolis, Midwest degli Stati Uniti. È qui che si è consumata, in una tranquilla domenica di metà luglio, l'ennesima sparatoria nell'America che non smette di interrogarsi sull'abuso di armi ma non riesce davvero a mettere un freno al loro dilagare, alle sparatorie quotidiane e alla violenza senza limiti. Quattro morti, stavolta nello Stato dell'Indiana a guida repubblicana, dove dal primo luglio i residenti possono girare armati anche senza avere il porto d'armi.

Tre persone sono state uccise da un uomo che ha aperto il fuoco con un fucile in un centro commerciale. La quarta vittima è il killer, assassinato a sua volta da un cittadino armato, che è intervenuto per fermarlo con la sua pistola. Altre due persone sono rimaste ferite, una delle quali è una ragazzina di 12 anni. Non si conoscono ancora le motivazioni all'origine della sparatoria. «Il vero eroe del giorno è questo cittadino che portava legalmente un'arma da fuoco e che ha potuto fermare il killer che sparava, poco dopo che quest' ultimo aveva iniziato ad aprire il fuoco», ha spiegato il capo locale della polizia, Jim Ison.

 Ed è nell'intervento «eroico» di quest' uomo che sta il paradosso di un Paese che si affida a un cittadino armato per fermare la violenza di un altro cittadino armato. Scosso si dice il sindaco della città, Mark Myers, che ha ricordato: «Sono stato un agente di polizia per gran parte della mia vita», ha detto in un'intervista. «Tuttavia, quel che è accaduto è incredibilmente scioccante, non solo per me ma per tutta la nostra comunità». 

E via anche lui a elogiare il passante entrato in azione per chiudere la sparatoria: «Qualcuno che chiamiamo il buon samaritano è stato in grado di sparare all'aggressore e fermare ulteriori spargimenti di sangue", ha detto Myers. «Sono grato per la sua azione rapida e per il suo eroismo in questa situazione». Nessuno ha svelato, tuttavia, il nome dell'uomo della salvezza (armato), di cui si sa solamente che ha 22 anni, è della contea di Bartholomew, a circa 35 miglia a sud del centro commerciale, e possedeva legalmente la pistola. 

Dopo l'attacco, le forze dell'ordine hanno voluto accertarsi che nell'area non ci fosse anche dell'esplosivo. Dal primo luglio l'Indiana, con l'entrata in vigore dell'House Bill 1296, permette ai cittadini sopra i 18 anni di età di portare con sé, nascondere o trasportare una pistola in pubblico, senza che vengano controllati i precedenti né venga effettuato alcun controllo per l'acquisto dell'arma. È il 23esimo Stato con leggi di questo genere negli Usa, insieme all'Ohio che ha introdotto la misura questo mese.

Eppure ogni anno circa 40mila persone muoiono uccise da armi da fuoco negli Stati Uniti, secondo il Gun Violence Archive. E una commissione della Camera dei rappresentanti dovrebbe votare questa settimana, per la prima volta in quasi 20 anni, un provvedimento per bandire le armi d'assalto. A giugno, il presidente Joe Biden ha firmato una legge che, pur non soddisfacendo del tutto le aspettative della Casa Bianca, è intervenuta sulla questione armi dopo molti anni, riducendo la possibilità che finiscano nelle mani di individui considerati pericolosi e cercando di bloccare la vendita di pistole agli accusati di violenze domestiche.

La misura, però, non è intervenuta sulla vendita di fucili di assalto né su quella dei caricatori ad alta capacità. Il 4 luglio, durante la parata per il Giorno dell'Indipendenza, un giovane armato di fucile automatico ha sparato dal tetto di un palazzo sulla folla, in un sobborgo di Chicago, uccidendo 7 persone e ferendone una quarantina.

E appena qualche giorno fa Manuel Olivier, padre del giovane Joacquin, ucciso insieme ad altre 17 persone nel liceo di Parkland, in Florida, nel 2018, ha interrotto il discorso che Biden teneva alla Casa Bianca per celebrare la storica stretta sulle armi varata dal Congresso e ha accusato il presidente di non aver fatto abbastanza: «Sono anni che provo a dirtelo, anni», ha urlato. Biden lo ha invitato ad ascoltarlo finire il suo intervento. Ma l'uomo è stato scortato fuori dalla White House dal Secret Service.

USA, sparatoria durante la consegna dei diplomi all’Università della Louisiana: il drammatico bilancio. Valentina Mericio il 31/05/2022 su Notizie.it.

Una vittima e almeno due feriti. Questo è il bilancio della sparatoria avvenuta all'università della Louisiana. indagini in corso. 

Una tragedia è avvenuta all’Università della Louisiana. La cerimonia della consegna dei diplomi della Xavier University è stata macchiata da una sparatoria. Il bilancio sarebbe drammatico: si parla per il momento di una vittima e almeno due feriti.

USA, sparatoria all’università della Louisiana: cosa è successo

Stando a quanto riportano le testate locali il dramma sarebbe stato consumato a seguito di una violenta discussione degenerata poi in spari. La sparatoria in particolare è avvenuta all’esterno del Convocation Center, edificio che viene utilizzato in questo periodo dell’anno per le cerimonie di diploma. Alcuni testimoni inoltre – sentiti da Fox 8 – hanno dichiarato di aver sentito dai 5 ai 12 spari.

Per il momento non sarebbe stata resa nota l’identità della vittima.

Si sa che si tratta di una donna anziana, ma non è possibile stabilire se si tratti o meno della nonna di uno studente (o una studentessa). Il vice superiore della Polizia di New Orleans Christopher Goodly a tale proposito non ha fatto sapere quale sia l’età delle due persone ferite di sesso maschile. Sappiamo tuttavia che hanno riportato ferite a gamba e spalla e che per fortuna non sono in pericolo di vita.

Nel frattempo la Polizia di New Orleans ha provveduto a fornire una serie di aggiornamenti sul profilo istituzionale di Twitter.

Si legge: “Indagine in corso sulla sparatoria nel campus della Xavier University, nell’area del Convocation Center. Le informazioni iniziali mostrano tre vittime di ferite da arma da fuoco trasportate all’ospedale locale tramite EMS. Il soggetto è stato fermato sul posto”.

In seguito ha poi dato l’annuncio della morte della donna: “Una delle vittime di questo incidente – una donna – è stata dichiarata morta in un ospedale locale. L’incidente è ora indagato come omicidio”.

Goodly che ha definito la sparatoria un “atto di violenza insensato” ha infine affermato che gli investigatori stanno cercando di capire chi e quante sono state le persone a commettere questo folle gesto. Da chiarire inoltre se si sia trattato di studenti o ancora amici e parenti dei laureati.

Paolo Foschi per corriere.it l'1 giugno 2022.

Voleva colpire un medico, ha fatto una strage. E alla fine si è tolto la vita. Una nuova sanguinosa sparatoria sconvolge l'America e riaccende le polemiche sulle troppe armi in circolazione negli Stati Uniti. Questa volta teatro del conflitto a fuoco non è una scuola, ma un campus ospedaliero a Tulsa, in Oklahoma, e il bilancio è drammatico: 5 persone sono morte, compreso il killer. Almeno altre dieci persone sono rimaste ferite. 

Secondo quanto emerso finora, poco prima delle cinque ora locale il killer, un afroamericano armato di fucile semiautomatico e pistola, è salito al secondo piano del Natalie Medical Building, uno degli edifici del campus del St Francis Hospital, e ha aperto il fuoco colpendo a morte 4 persone prima di togliersi la vita. Il capitano di polizia Richard Meulenberg, intervenuto sul luogo della strage, ha parlato di «scena catastrofica», come riportato dai media americani. «Siamo intervenuti in tre minuti dalla chiamata ricevuta» ha aggiunto, ma nonostante l’intervento rapidissimo degli agenti, non è stato possibile evitare la strage. 

Secondo quanto riferito dalla Cnn, Joe Biden è stato immediatamente informato dell'accaduto. Il presidente poco prima della sparatoria aveva ricordato su twitter l’anniversario di quello che è conosciuto come il massacro di Greenwood, dal nome del quartiere afroamericano di Tulsa che fra il 31 maggio e il primo giugno del 1921 fu attaccato da un gruppo di suprematisti bianchi che appiccarono incendi e colpirono gli abitanti della zona, causando decine di morti (39 le vittime accertate anche il numero reale probabilmente era di gran lunga più alto) e oltre 800 feriti. 

Questo episodio avviene a distanza di pochi giorni dalla strage di Uvalde, in Texas, dove un ragazzo armato di un fucile automatico ha ucciso 22 persone in una scuola.

Strage di Tulsa, sparatoria in ospedale. Perché l'uomo ha ucciso i medici. Il Tempo il 02 giugno 2022.

L’uomo che ha ucciso 4 persone in un ospedale di Tulsa, Oklahoma, prima di togliersi la vita, si era lamentato per i dolori alla schiena, postumi di un intervento chirurgico. Secondo la polizia è questa la motivazione che ha portato Michael Louis, afroamericano di 45 anni, a presentarsi nel pomeriggio nel centro ortopedico Warren Clinic dov'era stato operato il 19 maggio, a cercare il suo chirurgo, Preston Phillips, e a vendicarsi.

Louis era stato dimesso il 24 maggio ma aveva continuato a sentire dolori alla schiena. L’uomo aveva telefonato più volte al centro clinico per segnalare la sua situazione. Louis ha chiamato per l’ultima volta Phillips, chiedendogli un aiuto. Poi, una volta messo giù il telefono, insoddisfatto della risposta è andato in uno store e ha acquistato un Ar-15, il fucile d’assalto tristemente famoso per essere stato usato nelle ultime stragi, come quella nel supermercato di Buffalo, New York, che ha lasciato dieci morti, e alla scuola elementare di Uvalde, Texas, con ventuno vittime, diciannove bambini e due insegnanti. Louis ha acquistato anche una pistola Smith & Wesson calibro 40.

Arrivato al centro clinico, l’uomo si è diretto al secondo piano, quello del reparto di ortopedia, avvertendo le persone che erano lì per una visita di andare via. «Non ce l’ho con voi», ha detto. Quando si è trovato di fronte Phillips, gli ha sparato, uccidendolo, poi ha rivolto l’arma verso un’altra ortopedista, Stephanie Husen. Le altre due vittime sono Amanda Glenn, che stava alla reception, e William Love, un paziente. Glen e Love, secondo la ricostruzione della polizia, avevano tentato di fermare il killer. Il paziente aveva tenuto aperta la porta per permettere a un ferito di scappare. Il killer gli ha scaricato la pistola addosso.

Prima dell’arrivo della polizia, Louis ha telefonato alla moglie e le ha detto quello che aveva appena fatto, poi si è rivolto contro la Smith & Wesson e si è ucciso. Si era sparsa la voce che l’uomo avesse lasciato a casa una bomba innescata, ma non è stato trovato alcun congegno. La moglie ha detto che non era a conoscenza del piano del marito. È stato trovato un foglio in cui l’uomo ha spiegato che aveva deciso di andare al centro clinico per uccidere Phillips e chiunque gli si fosse messo di fronte. Nel messaggio aveva lanciato accuse al chirurgo.

Phillips era uno specialista da molti anni, capo della sezione di chirurgia ortopedica della Warren Clinic. Laureato a Harvard, afroamericano, si era specializzato in problemi alla spina dorsale e nella ricostruzione ossea. I pazienti lo descrivono come una persona «gentile», «attenta». Di recente aveva dato vita a una raccolta di protesi da inviare in Togo. 

Sparatoria fuori a una chiesa in Iowa, tre morti tra cui l'aggressore. Redazione Tgcom24 il 3 giugno 2022.

Tre persone sono state uccise a colpi di arma da fuoco in un parcheggio fuori a una chiesa di Ames, in Iowa, secondo quanto riferito alla stampa locale dallo sceriffo della contea di Story. Uno dei tre morti sarebbe l'aggressore. Il capitano dello sceriffo ha detto che i servizi di emergenza hanno ricevuto diverse chiamate, mentre nella chiesa era in corso un evento periodico per la sua pastorale giovanile. La sparatoria è avvenuta nel parcheggio della chiesa mentre altre persone erano all'interno dell'edificio. 

La polizia ha riferito che un uomo adulto ha sparato uccidendo due donne e poi si è tolto la vita.

Il sospetto killer sembra essere morto per una ferita da arma da fuoco autoinflitta, ha detto lo sceriffo della contea di Story, il capitano Nicholas Lennie, sebbene le indagini sull'accaduto siano appena agli inizi. Non è stata neanche resa nota l'età delle due vittime né è stata individuata l'arma utilizzata nella sparatoria.

Ames, 30 miglia a nord di Des Moines, è il centro principale di un'area metropolitana ed è la sede della Iowa State University. È anche sede di importanti strutture di ricerca del Dipartimento dell'agricoltura degli Stati Uniti. 

Usa: spari durante un funerale in Wisconsin, cinque feriti. ANSA il 2 giugno 2022.

Spari nel corso di un funerale in Wisconsin. Lo riporta Nbc citando fonti della polizia. I feriti sarebbero almeno cinque. La sparatoria è avvenuta al Graceland Cemetery, dove diverse persone stavano dando l'ultimo saluto al 37enne Da'Shontay Lucas King Jr. "Alle 14.26 locali diversi colpi di arma da fuoco sono stati sparati al Graceland Cemetery. Le indagini sono in corso", dice la polizia. Secondo indiscrezioni a essere colpiti sono stati alcuni familiari del defunto.

Il funerale teatro della sparatoria in Wisconsin era per Da'Shontay King Jr, ucciso dalla polizia il 20 marzo. Lo riferiscono alcuni media locali, secondo il quali l'uomo era stato ucciso nei pressi di un posto di blocco della polizia che lo aveva fermato nell'ambito di un'indagine sulle armi. (ANSA).

Il dramma a Florence. Tiro al bersaglio contro le auto, spara a caso e uccide bimbo di 8 anni: terrore negli Stati Uniti. Fabio Calcagni su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

Un omicidio che lascia senza parole e che sconvolge gli Stati Uniti, già alle prese con una escalation di violenza e di morti per sparatorie e stragi. È quello avvenuto sabato scorso a Florence, in South Carolina, dove un bambino di 8 anni è stato ucciso mentre viaggiava in auto col padre.

Come ricostruito dalle indagini, il Quarius Naqua Dunham e suo padre sono stati colpiti da proiettili sparati a casaccio da un uomo bianco, che aveva innescato una sorta di tiro al bersaglio contro alcune auto di passaggio.

Giunti sul posto dopo le segnalazioni degli spari, forze dell’ordine e personale medico hanno trovato padre e figlio feriti. Entrambi portati d’urgenza in ospedale, il bambino è morto per le conseguenze delle ferite riportate. Il padre, che stava guidando e che è stato centrato da un proiettile alla gamba sinistra, è ricoverato ma le sue condizioni non sono gravi. 

La giovanissima vittima, alunno di terza elementare alla Little Harbour School di Portsmouth, stava andando in vacanza col genitore.

La polizia ha rapidamente individuato e arrestato il killer del bambino. L’uomo, 40 anni, si chiama Charles Montgomery Allen: è di Florence ed è conosciuto dalla polizia per aver avuto, in passato, problemi con la droga.

Charles Montgomery Allen è stato arrestato nel suo appartamento, dopo aver tentato di opporre resistenza, ed è stato già incriminato. Secondo la polizia, per ora non è stato ancora chiarito il motivo del gesto.

“Non ci sono parole per esprimere lo shock e la tristezza con la quale riceviamo questa terribile notizia. Appena la settimana scorsa ci eravamo riuniti in una veglia di preghiera per i diciannove bambini che avevano visto la loro vita spezzata in Texas. Abbiamo provato a immaginare come si sarebbero sentiti quei genitori. Ora le tenebre sono calate su Portsmouth”, ha commentato il sindaco di Floence, Deaglan McEachern.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Da lastampa.it il 5 giugno 2022.

Tre persone sono state uccise e altre 11 ferite in una sparatoria in una strada a Filadelfia. Lo ha riferito la polizia. E’ successo nella notte di sabato 4 giugno nell'area vicino all'incrocio tra la Third Street e la South Street, la zona della movida locale. «Sappiamo che quattordici persone sono state raggiunte da colpi di arma da fuoco e portate negli ospedali della zona», ha riferito l'ispettore D. F. Pace. Sette di loro al Thomas Jefferson University Hospital, le altre in diversi altri ospedali della zona. «Tre di queste persone, due uomini e una donna, sono state dichiarate decedute dopo l'arrivo negli ospedali, con ferite multiple da arma da fuoco». 

«C'erano centinaia di persone che si stavano semplicemente godendo South Street, come fanno ogni singolo fine settimana, quando è scoppiata la sparatoria», ha  proseguito l’ispettore. Secondo quanto riporta il Washington Post, l’ispettore ha parlato di «diversi sparatori».

Un poliziotto avrebbe sparato a uno degli assalitori, mettendolo in fuga. Non è chiaro se l’uomo, che ha lasciato la pistola a terra, sia ferito. La polizia ha recuperato due pistole, ma per ora non ha effettuato nessun arresto.Allo stesso tempo, la polizia di Filadelfia sta indagando su un'altra sparatoria avvenuta vicino al luogo della tragedia: gli agenti hanno trovato 13 bossoli a pochi isolati di distanza, ma al momento non è chiaro se le due sparatorie siano collegate.

Le testimonianze

«Pensavo non si fermassero più», ha dichiarato al Philadelphia Inquirer Joe Smith, 23 anni, che si trovava fuori dal Theatre of the Living Arts a sud tra la terza e la quarta strada, quando è iniziata la sparatoria. «Era il caos totale», gli ha fatto eco Eric Walsh, che stava chiudendo la sala all'aperto di O'Neals, un bar vicino a Third and South e che ha testimoniato di aver visto una giovane donna crollare a terra all'angolo. 

Gli americani continuano ad armarsi, gli americani continuano a sparare. Dopo la strage alla scuola di Uvalde, in Texas, dove il 29 maggio la follia di un diciottenne ha visto la morte di 19 bambini e due insegnanti, e dopo l’ennesimo richiamo del presidente Biden al Congresso («Basta carneficine, dobbiamo regolamentare la vendita di armi») il paese a stelle e strisce continua a contare, con un ritmo praticamente quotidiano, sparatorie e morti.

Sparatoria anche nel Teennessee

Tre persone sono morte ed altre 14 sono rimaste ferite nella notte in un'altra sparatoria in Usa, vicino ad un nightclub a Chattanooga, in Tennessee. Lo riferisce la polizia. 

Due persone sono morte in seguito alle ferite d'arma da fuoco, una dopo essere stata travolta da un'auto mentre tentava di fuggire. Tra le persone colpite anche un minore. Da una prima ricostruzione ci sarebbero stati più tiratori. La polizia ritiene che si tratti di un episodio isolato e ha lanciato un appello a chiunque possa fornire informazioni. Ignoto per ora il movente della sparatoria. 

Dal 29 maggio ad oggi, 5 giugno, in America si sono verificati altri 5 episodi gravi.

Il 2 giugno colpi d’arma da fuoco sono stati sparati da uno sconosciuto durante un funerale a Graceland, nel Wisconsin. Cinque i feriti. 

Lo stesso giorno un uomo ha aperto il fuoco in un ospedale di Tusla, in Texas. Quattro le vittime. L’aggressore si è poi tolto la vita.

Il 3 giugno sparatoria davanti a una chiesa in Iowa: tre morti, due donne e l’aggressore.

Sempre il 3 giugno a Florence, in South Carolina. un uomo spara a caso contro un'auto di passaggio e ne colpisce una con una famiglia in vacanza, uccidendo un bimbo di 8 anni e ferendo il padre che era alla guida.

Il 4 giugno il terrore si sparge in un centro commerciale di Phoenix: il bilancio dell’ennesima sparatoria è di un morto e 8 feriti.

Dall’inizio del 2022 a metà del mese di maggio in America, riportano i dati dell’organizzazione indipendente “Gun Violence Archive” ci sono state 198 sparatorie di massa (termine usato per definire un attacco in cui sono morte 4 o più persone), con una media di circa 10 attacchi a settimana.

L’anno scorso, il 2021, sono state perpetrate ben 693 stragi: più o meno due al giorno

Non si placa la violenza armata nel Paese. Altre due sparatorie negli Stati Uniti: morti e feriti a Phoenix e Philadelphia. Roberta Davi su Il Riformista il 5 Giugno 2022. 

Ancora morti a causa delle armi negli Stati Uniti, dopo i massacri avvenuti pochi giorni fa a Tulsa e nella scuola di Uvalde, in Texas. Una nuova serie di sparatorie ha scosso il Paese nelle ultime ore.

Sabato 4 giugno a Phoenix, in Arizona, una persona è morta e altre 8 sono rimaste ferite dopo essere state colpite mentre si trovavano in un centro commerciale. Mentre il bilancio provvisorio della sparatoria avvenuta questa notte a Philadelphia è di tre morti e 11 feriti. 

Le sparatorie

Secondo la ricostruzione fornita dalla polizia, circa 100 persone si erano raccolte per una sorta di festa a Phoenix quando, intorno all’una di notte, è scoppiata una lite fra diversi gruppi e si sono verificate delle sparatorie sia all’interno dell’edificio, che nel posteggio e in strada. Le persone colpite sarebbero di età compresa fra 18 e 24 anni. Il responsabile non è stato arrestato. Degli 8 feriti, due sarebbero in gravi condizioni.

Nel centro di Philadephia, in Pennsylvania, la sparatoria è avvenuta sulla folla a South Street, la zona della movida. Le pallottole hanno raggiunto almeno 14 persone, trasportate immediatamente in ospedale. Tre di queste, due uomini e una donna, sono deceduti a causa delle gravissime ferite riportate.

Poco prima della mezzanotte una pattuglia in servizio ha udito degli spari ed è stata testimone di “diversi assalitori attivi”, come spiegato in una conferenza stampa della polizia. Un agente ha aperto il fuoco contro uno dei presunti assalitori, ma non è chiaro se sia stato colpito. Sul posto le autorità hanno rinvenuto due pistole, di cui una con un caricatore. 

L’appello di Biden

Nel suo messaggio al Congresso di appena due giorni fa, il presidente Joe Biden aveva lanciato un nuovo appello affinché si intervenga sul fronte legislativo per arginare la violenza armata nel Paese, dopo le sanguinose sparatorie di massa delle ultime settimane. Negli Stati Uniti si verifica più di una sparatoria al giorno:  sono già 8.000 le persone uccise da armi da fuoco nel 2022.

“Quanti altri massacri siamo disposti a tollerare? Cogliamo questa occasione per fare finalmente qualcosa“, ha sottolineato il presidente. “Dobbiamo vietare le armi d’assalto e i caricatori ad alta capacità. E se non possiamo vietare le armi d’assalto, allora dovremmo alzare l’età per l’acquisto da 18 a 21 anni, rafforzare i controlli in background, emanare leggi sullo stoccaggio sicuro e sulle bandiere rosse, abrogare l’immunità che protegge i produttori di armi dalle loro responsabilità” ha tuonato. 

Biden ha assicurato che l’introduzione di misure di controllo non vuole sequestrare le armi a nessuno, né svilire i proprietari, ma piuttosto avrebbe l’obiettivo di “proteggere il nostro diritto di andare a scuola, in un negozio, in una chiesa senza essere uccisi”.

Dagotraduzione dal New York Post il 7 giugno 2022.

Solo pochi giorni fa Joe Biden ha chiesto al Congresso americano di approvare nuove misure di controllo sulle armi dopo le sparatorie che hanno insanguinato l’America in questi ultimi giorni. E questa mattina il New York Post ha pubblicato un nuovo video del figlio del presidente, Hunter, che si agita nudo con una pistola in mano e la punta contro la telecamera. Mai tempismo fu migliore. 

Secondo Radar Online, che per primo ha rivelato l’esistenza del filmato, è stato registrato il 17 ottobre 2018. Nel video insieme a Hunter Biden si vede una donna, che, secondo le fonti, sarebbe una prostituta. 

La pistola invece sarebbe una calibro.38 acquistata cinque giorni prima nel Delaware. Ne aveva parlato l’anno scorso “Politico”. Come aveva denunciato il quotidiano americano, per comprare l’arma Biden aveva dovuto mentire, dichiarando di non essere un consumatore «di marijuana o di qualsiasi sedativo, stimolante, stupefacente o altre sostanze».

Biden ha divorziato dalla moglie nel 2017 proprio per via dei suoi problemi di dipendenza e per i suoi tradimenti. Tre anni prima era stato dimesso dalla US Navy Reserve dopo essere risultato positivo alla cocaina. 

Poche settimane dopo aver acquistato illegalmente l'arma, l'amante di Biden Jr., Hallie, vedova del suo defunto fratello Beau Biden, ha buttato la pistola nel bidone della spazzatura di un supermercato, scatenando un'indagine dei servizi segreti e dell'FBI. Non sono state presentate accuse. La pistola è scomparsa nel cassonetto davanti al Janssen's Market a Greenville, nel Delaware, dall'altra parte della strada rispetto alla Alexis I. DuPont High School, che ha circa 800 studenti. 

«Ha rubato la pistola dalla serratura del mio bagagliaio e l'ha gettata in un bidone della spazzatura pieno fino in cima a Jansens. Poi mi ha detto che era un mio problema da affrontare», ha ammesso Hunter in un messaggio del 2019, riportato per la prima volta dal New York Post.

«Poi, quando la polizia, l'FBI [e] i servizi segreti sono entrati in scena, lei ha detto che mi ha preso la pistola perché aveva paura che mi sarei fatto del male a causa del mio problema di droga e alcol e della nostra relazione instabile e che aveva paura per i bambini». 

Su Hunter Biden, nel Delaware, è in corso anche un’indagine del Gran Giurì federale su possibili frodi fiscali, riciclaggio di denaro e violazione della legge sulle lobby. 

Usa, ancora sparatorie nelle strade. Almeno quattro morti in Maryland, Un morto anche in Alabama.  Massimo Basile su La Repubblica il 9 giugno 2022.

Un uomo ucciso mentre tentava di entrare in una scuola elementare in Alabama. Quattro morti in una sparatoria avvenuta in una fabbrica nel Maryland. Mentre il Congresso resta diviso su quali misure adottare per limitare l'accesso alle armi, per le strade americane la gente continua a sparare. La cronaca quotidiana della violenza registra due nuovi episodi a poche ore uno dll'altro.

A Smithsburg, paese di tremila abitanti a un centinaio di chilometri da Baltimora, nel Maryland, intorno alle 02.30 del pomeriggio un uomo è entrato nello stabilimento della Columbia Machine, una manifattura di prodotti in cemento e lastricati, uccidendo almeno tre persone. L'aggressore, di cui ancora non è stato fornito il nome, ha tentato la fuga, ma è stato intercettato dalla polizia statale del Maryland, che lo ha ucciso dopo un breve e violento scontro a fuoco. Un agente è rimasto ferito, ma non sembra in pericolo di vita. "Stiamo monitorando la situazione - ha scritto su Twitter il rappresentante locale del Congresso David Trone - se abitate in zona, per favore tenetevi lontano dall'area".

Un video finito in rete mostra l'arrivo a tutta velocità di tre macchine della polizia, seguito da una serie di colpi d'arma da fuoco. Nella zona c'erano auto e persone di passaggio. Lo sceriffo della contea di Washington ha parlato di numerose persone colpite, senza indicare il numero, e ha aggiunto che il killer "non è più una minaccia". Si parla, al momento, di quattro morti, ma non si sa se nel conteggio c'è anche l'assalitore.

Stati Uniti, altra sparatoria: 3 morti e 11 feriti a Filadelfia

Poche ore prima a Gadsden, una città di circa centomila abitanti, in Alabama, un episodio che ha riportato alla strage di Uvalde, Texas, dove due settimane fa un ragazzo di diciotto anni, armato di AR-15, un fucile da guerra, ha ucciso diciannove bambini di una scuola elementare e due insegnanti, prima di essere ammazzato dalla polizia. Stamani un uomo è stato visto tentare inutilmente di entrare in una scuola elementare di Gadsden dove era in corso un campus estivo a cui stavano partecipando trentaquattro bambini. L'uomo ha provato ad aprire una serie di porte, senza riuscirsi. Una persona che vive vicino alla scuola ha dato l'allarme. All'arrivo di una macchina della polizia, il sospettato si è avventato contro gli agenti, che gli hanno sparato, uccidendolo. Un poliziotto è rimasto ferito, ma non sarebbe in pericolo di vita.

L'uomo è stato identificato come Robert Tyler White, 32 anni, di Bunnlevel, North Carolina. Non era armato, ma non è ancora chiaro che cosa stesse cercando di fare. Per ore la scuola è stata circondata da decine di auto della polizia e da uomini delle varie agenzie federali della sicurezza, compresa l'Fbi. I bambini e le insegnanti che erano al campus sono stati portati via, ma molti di loro non si erano accorti di niente. "È una fortuna - ha commentato il sovrintendente scolastico, Tony Reddick - che nessun bambino sia rimasto coinvolto in questa storia. Tutti hanno seguito il protocollo di sicurezza che avevamo creato". 

I due episodi arrivano dopo un weekend segnato da sparatorie in cui sono rimaste uccise undici persone e ferite cinquantaquattro. Nell'ultimo mese ci sono state tre stragi, a Buffalo, nello Stato di New York, Uvalde, Texas, e Tulsa, in Oklahoma, con trentacinque morti. Dall'inizio del 2022 sono passati 160 giorni e ci sono già stati 254 sparatorie che hanno coinvolto, tra morti e feriti, almeno tre persone. Dal giorno della strage alla scuola elementare di Uvalde, il 24 maggio, ci sono state altre 41 sparatorie. Mercoledì sera la Camera ha approvato un pacchetto di leggi che limitano l'accesso alle armi. Tra i punti chiave, l'innalzamento dell'età da 18 a 21 anni per poter acquistare o possedere un fucile da guerra, e il divieto di vendita di armi con ampia potenza di caricatori. Ma al Senato, dove i repubblicani - contrari alle restrizioni - occupano metà dei seggi, la legge sembra destinata a non superare l'esame.

Ennesima "mass shooting" in poche settimane. Irrompe e apre il fuoco in chiesa: due morti e un ferito nella sparatoria in Alabama. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

Altro dramma delle armi negli Stati Uniti, questa volta in una chiesa in Alabama. È di almeno due morti e un ferito il bilancio della sparatoria che si è verificata nella Chiesa episcopale di San Esteban a Vestavia Hills, nello Stato sudorientale. Secondo ABC News tre persone sono state colpite all’interno della Chiesa. La polizia ha fatto sapere che una persona sospettata, un uomo, è stata fermata.

Vestavia Hills è un sobborgo di Birmingham, una delle due città più popolose dell’Alabama. Stando a quanto ricostruito finora la persona bloccata avrebbe fatto irruzione in chiesa ieri sera poco dopo le 18:00, durante una riunione, e avrebbe cominciato a sparare. Era solo. Era in corso un cosiddetto “potluck”, pasto comunitario in cui tutti portano un piatto e mangiano insieme.

“Voglio chiarire che il sospetto coinvolto in questo evento è sotto custodia della polizia e che non siamo a conoscenza di ulteriori minacce”, ha dichiarato l’ufficiale del dipartimento di polizia di Vestavia Hills, Shane Ware, in un punto stampa. Non è stata resa nota l’identità della persona che avrebbe aperto il fuoco e non è stato fornito neanche il movente o altri dettagli sulle circostanze che avrebbero scatenato la violenza.

Il dipartimento di polizia di Vestavia Hills, riferisce la Cbs, ha dichiarato di aver ricevuto la telefonata che segnalava un uomo sparare nella chiesa episcopale di Santo Stefano verso le 18:22. ora locale. Le due persone ferite sono entrambe ricoverate in ospedale. La polizia ritiene che al momento non ci siano ulteriori minacce per la comunità.

La sparatoria nella Chiesa in Alabama arriva dopo settimane in cui il dibattito sulle armi negli Stati Uniti è tornato all’ordine del giorno dopo le stragi di Buffalo, Uvalde, Philadelphia. L’attacco arriva un mese dopo la sparatoria che ha causato un morto e cinque feriti in una chiesa nel sud della California e quasi sette anni dopo l’uccisione di nove persone durante il Bible study alla Emanuel AME Church a Charleston, in South Carolina, a opera di un suprematista bianco. Intorno alla chiesa, a Vestavia, fedeli si sono riuniti in preghiera

Antonio Lamorte.Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Sparatoria a Washington durante un raduno musicale: un morto e tre feriti. Giampiero Casoni il 20/06/2022 su Notizie.it il 20/06/2022

Sparatoria a Washington durante un raduno musicale: una 15enne perde la vita in circostanze misteriose ed un agente di polizia è in ospedale

Sparatoria a Washington durante un raduno musicale, il bilancio è di un morto e tre feriti, scoppiano disordini vicino al Moechella Music Festival e un’adolescente perde la vita negli scontri marginali all’evento. Un agente e almeno due civili sono rimasti colpiti nella serata del 19 giugno in una sparatoria a Washington Dc, nell’area nordoccidentale della capitale.

Il fatto si è verificato vicino al Moechella Music Festival e in un altro conflitto a fuoco pare non innescato dagli eventi del Moechella è stata uccisa una ragazzina di 15 anni.

Sparatoria a Washington durante un raduno musicale

Lo riferisce la polizia, che sta indagando sull’accaduto. I media Usa spiegano che subito dopo quegli spari c’è stato il panico e il fuggi fuggi generale. Lo documentano bene le immagini postate sui social dai presenti.

Sempre il dipartimento di Polizia di Washington spiega che l’agente ferito è ricoverato in condizioni stabili. Il Moechella Music Festival, organizzato tra la 14ma e U street, prevedeva una serie di concerti in occasione del Juneteenth, la nuova festività nazionale che ricorda la fine della schiavitù negli Usa.

La giornata contro la schiavitù e la tragedia

Ma cosa è successo nello specifico? Pare che alcuni partecipanti all’evento abbiano promosso manifestazioni contro la polizia per ricordare i “soprusi” messi in atto contro la popolazione di colore e che la cosa sia degenerata.

In un’altra sparatoria, sempre a Washington Dc, è stata uccisa una ragazzina di 15 anni. Al momento, secondo gli organi di polizia, sembra che nessun sospettato sia in custodia e non ci sarebbero elementi di collegamento certo fra i due episodi.

La vittoria della lobby delle armi Usa alla Corte suprema. Il Domani il 23 giugno 2022.

Con un voto 6 a 3, la Corte suprema degli Stati Uniti ha dichiarato incostituzionale una legge dello stato di New York che, da oltre un secolo, vietava di girare in pubblico armati senza valide motivazioni. La causa era stata intentata da due privati cittadini sostenuti dalla potente lobby delle armi Nra. 

Secondo i giudici della Corte, prevedere speciali regole per consentire ai cittadini di circolare armati rappresenta una violazione del Secondo emendamento della Costituzione, quello che stabilisce il diritto a possedere armi. Anche se non sono molti gli stati che hanno divieti simili, quasi tutti prevedono divieti di portare armi in luoghi particolari. Ora, dicono gli esperti, un’interpretazione letterale della sentenza mette a rischio queste restrizioni in tutto il paese.

Secondo gli esperti, si tratta della più importante espansione del diritto di portar armi da decenni a questa parte. Steve Vladeck, analista della Corte suprema del network Cnn e professore di legge all’università del Texas, ha detto che la decisione avrà «conseguenze monumentali». 

I tribunali dei vari stati ora dovranno tenere conto della decisione della Corte suprema nel valutare le leggi sulle armi, comprese quelle attualmente in discussione al Congresso. La decisione della Corte suprema arriva infatti in un momento delicato, in cui il dibattito sulle armi è tornato al centro dell’agenda politica dopo la strage di Uvalde, in Texas. 

RITONO ALLE ARMI

Negli ultimi anni, la Corte suprema aveva quasi sempre evitato di occuparsi di casi che riguardavano il Secondo emendamento. Le ultime sentenze significative in materia risalgono al 2008 e al 2010, quando la Corte ha affermato e poi ribadito il diritto ad avere armi destinate all’autodifesa nella propria abitazione.

Il fatto che da allora la Corte non si sia più occupata del diritto a possedere armi ha fatto infuriare le lobby delle armi e ha causato proteste anche da alcuni giudici conservatori. Ma dopo l’arrivo dei nuovi giudici nominati dai repubblicani durante la presidenza di Donald Trump, la Corte ha mostrato un nuovo interesse ad occuparsi della materia.

Attualmente la Corte suprema ha una netta maggioranza di giudici conservatori, sei contro tre. La Corte si è spostata ulteriormente a destra dopo la morte nel settembre 2020 della giudice Ruth Bader Ginsburg, nominata nel 1993 da Bill Cliton e sostituita a tempo di record dal presidente Trump e dal Senato a maggioranza repubblicana.

CIRCOLARE ARMATI

Nello stato di New York era necessario possedere un permesso per circolare armati. Il permesso veniva concesso solo se chi ne faceva richiesta era in grado di dimostrare una valida motivazione, come ad esempio «un pericolo particolare per la propria vita».

Soltanto altri sei stati possiedono una legislazione simile a quella appena dichiarata incostituzionale nello stato di New York. Si tratta California, Delaware, Hawaii, Maryland, Massachusetts e New Jersey. Ora, questi divieti sono a rischio. Metà degli stati americani, invece, consentono di circolare armati senza alcun tipo di limitazione. 

Secondo emendamento. Per la Corte Suprema anche i newyorchesi hanno il diritto di portare armi da fuoco in pubblico. L'Inkiesta il 23 Giugno 2022.

I giudici hanno stabilito a maggioranza che qualunque cittadino statunitense può girare fuori di casa con una pistola o fucile senza dover dare alcuna motivazione, rendendo così incostituzionale la legge dello Stato di New York che poneva severe restrizioni sulle licenze.

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che è un diritto fondamentale dei cittadini americani portare armi da fuoco nei luoghi pubblici, annullando così una legge dello Stato di New York che imponeva ai cittadini di dimostrare uno speciale bisogno di protezione per portare pistole e fucili fuori dalla propria abitazione. Per la Corte il provvedimento è incostituzionale perché viola il secondo emendamento.

Con questa sentenza per la prima volta la Corte Suprema si esprime su come il diritto si applica alle armi da fuoco nei luoghi pubblici. E la decisione, come spiega anche il New York Times, ha implicazioni di vasta portata, «in particolare nelle città che avevano cercato di affrontare i crimini con armi da fuoco ponendo restrizioni su chi può trasportarli». La decisione arriva tra l’altro a seguito di una serie di sparatorie di massa che ha riacceso il dibattito sul controllo delle armi.

DOPO LE SPARATORIE. Usa, il Senato approva legge sulla restrizione delle armi. Il Domani il 24 giugno 2022

Per Biden la nuova legge aiuterà a proteggere i bambini e chiede l’approvazione rapida alla Camera dove sarà inviata oggi. Questo è il primo intervento sul controllo delle armi ad essere approvata in tre decenni e arriva lo stesso giorno in cui la Corte suprema ha ribadito il diritto a girare armati

Un pacchetto bipartisan di misure di sicurezza delle armi è passato al Senato degli Stati Uniti giovedì, una notizia arrivata lo stesso giorno in cui la Corte Suprema ha stabilito che gli americani hanno il diritto costituzionale di portare armi in pubblico per autodifesa.

L’approvazione della nuova legge promossa dai democratici ha convinto una parte dei repubblicani  dopo le sparatorie di massa a Uvalde, Texas, e Buffalo, New York, che hanno ucciso più di 30 persone, inclusi 19 bambini.  Adesso passerà alla Camera dei Rappresentanti.

IL VOTO

Il disegno di legge del Senato, riporta Reuters, ha avuto un’ampia maggioranza: 65-33, ed è il primo intervento sul controllo delle armi ad essere approvata in tre decenni, in un paese con il più alto possesso di armi pro capite al mondo e il più alto numero di sparatorie di massa all'anno tra le nazioni ricche.

«Questa legislazione bipartisan aiuterà a proteggere gli americani. I bambini nelle scuole e nelle comunità saranno più al sicuro per questo», ha affermato il presidente Joe Biden dopo il voto. «La Camera dei Rappresentanti dovrebbe prontamente votare e inviarlo alla mia scrivania».

UNA LEGGE MODESTA

Il disegno di legge che ha come passaggio più importante l’aumento dei controlli sul possesso di armi degli aspiranti acquirenti di armi condannati per violenza domestica o crimini giovanili significativi.

I repubblicani si sono rifiutati di scendere a compromessi su misure di controllo delle armi più radicali favorite dai democratici, incluso Biden, come il divieto di fucili d'assalto o caricatori ad alta capacità.

Nella votazione del Senato alla fine di giovedì, 15 repubblicani si sono uniti a tutti i 50 democratici nel votare per il disegno di legge.

La presidente della Camera democratica Nancy Pelosi felicitandosi per il disegno di legge ha detto che arriverà alla Camera venerdì, cioè oggi, e la votazione sarà fissata il prima possibile. 

IL DISCORSO DI BIDEN

L'azione del Senato è arrivata settimane dopo un appassionato discorso di Biden, in cui ha dichiarato "basta" con le armi da fuoco e ha esortato i legislatori ad agire. Il presidente aveva ricordato le stragi. A partire dalla più remota: Columbine, in Colorado. risalente al 1999, quando due studenti uccisero dodici compagni di scuola e un insegnante, strage oggetto del documentario di Michael Moore del 2002, vincitore dell’Oscar del 2003.

Poi la scuola elementare di Sandy Hook, in Connecticut, strage accaduta nel dicembre 2012 con la morte di 27 alunni, dopo la quale ci fu il vano tentativo di Barack Obama di varare nuove regolamentazioni. 

Si prosegue con il massacro della chiesa di Charleston, in South Carolina, dove il suprematista bianco Dylan Roof uccise 9 fedeli afroamericani nel giugno 2015, con l’attacco terroristico di Omar Mateen, lupo solitario dichiaratosi seguace dell’Isis, che uccise 49 persone in un locale gay.

Per concludere con la sparatoria di Las Vegas dell’ottobre 2017, dove un cecchino provocò 61 vittime tra gli spettatori di un concerto di musica country e infine la strage nella scuola di Parkland nel 2018. Biden aveva ribadito l’esito finale: non hanno portato ad alcuna riforma. Adesso invece gli Stati uniti si sono mossi, anche se la portata della riforma, commenta Reuters, è molto limitata.

I giudici Usa: armi più facili. Ira Biden. Valeria Robecco il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

Esteso il diritto di difesa, esulta la lobby. La governatrice di New York: "Scandaloso".

New York. La Corte Suprema assesta un duro colpo al controllo su pistole e fucili negli Usa, e decide che portare le armi in pubblico è un diritto. I nove saggi (a maggioranza conservatrice) hanno annullato una legge di New York che prevedeva regole stringenti per girare armati, affermando che il Secondo Emendamento si applica anche fuori dalla propria abitazione. La norma bocciata prevedeva la necessità di avere una licenza per portare un'arma in pubblico, ma la maggioranza dei giudici (6 a 3, in linea con la divisione tra conservatori e progressisti) hanno spiegato che la «giusta causa» prevista a New York viola la Costituzione.

La decisione consacra di fatto il diritto al porto di armi e apre alla possibilità che un maggior numero di persone possano legalmente portare pistole e fucili in strada, proprio mentre il Senato sta facendo qualche passo avanti sul progetto di legge che impone norme più stringenti, superando il voto procedurale con l'appoggio necessario per approdare in aula per il via libera finale. Il presidente americano Joe Biden si è detto «profondamente deluso dalla decisione della Corte Suprema, che contraddice il buon senso e la Costituzione, e dovrebbe preoccuparci». Ricordando poi che «fin dal 1911 lo stato di New York ha richiesto a coloro che volevano portare un'arma nascosta in pubblico di acquistare una licenza e di farlo solo per autodifesa». E mentre esulta la National Rifle Association (Nra), la potentissima lobby delle armi che dichiara «vittoria» su Twitter, arriva una durissima reazione dalle massime autorità di New York. La governatrice Kathy Hochul definisce «vergognoso» che in un momento come quello attuale la Corte Suprema decida di bocciare la legge che limita il porto di armi in pubblico, mentre il sindaco della Grande Mela Eric Adams avverte che la sentenza espone i newyorkesi a «ulteriori rischi» e a una nuova ondata di violenza causata dalle armi da fuoco. Dalla California intanto il governatore Gavin Newsom parla di un «giorno buio per gli Usa e di una decisione pericolosa» da una Alta Corte che spinge «un'agenda ideologica radicale e infrange i diritti degli stati di proteggere i loro cittadini».

Massimo Basile per “la Repubblica” il 20 luglio 2022.  

Otto degli ultimi undici autori di stragi di massa negli Stati Uniti hanno comprato legalmente fucili da guerra appena compiuto diciotto anni e postato video in cui mostravano al mondo la voglia di far conoscere la loro rabbia. Ex studenti, bullizzati, razzisti, gender fluid. Giovani, isolati, arrabbiati, armati. Tutti hanno agito prima di compiere 22 anni. Fino a metà anni '90 le stragi venivano compiute da gente di venticinque, trenta, quarant' anni. 

L'età si è abbassata: i 18 di Payton Gendron, suprematista bianco, che il 14 maggio 2022 ha ucciso dieci afroamericani in un supermercato; i 18 di Salvador Ramos, che il 24 maggio nella scuola elementare di Uvalde, Texas, ha ucciso diciannove bambini e due insegnanti; i 21 di Robert Eugene Crimo, che a Highland Park, Illinois, ha sparato dal tetto di un edificio sulla parata del 4 luglio, uccidendo sette persone e ferendone più di trenta.

Domenica a Greenwood, Indiana, Jonathan Sapirman, 20 anni, si è chiuso per un'ora nel bagno di un centro commerciale, preparandosi all'atto di guerra con un Sig Sauer M400 e cento munizioni. È uscito, si è diretto al centro di un'area ristoranti e ha cominciato a sparare, uccidendo tre ispanici. Ma ha trovato sulla sua strada un coetaneo, Elisjsha Dicken, 22 anni, armato di pistola semiautomatica Glock. 

Dicken ha avuto il sangue freddo di avvicinarsi al killer e scaricargli addosso dieci colpi. Sapirman ha provato a rientrare in bagno, ma è crollato a terra, morto. I genitori, come spesso accade, non sapevano niente. Alcuni, per la vergogna, lasciano il posto dove vivono e cambiano nome. Dicken, ragazzone bianco, resterà invece il "Good Samaritan", il buon samaritano che ha salvato vite, dice il capo della polizia James Ison. «Non ha fatto addestramento con noi - ha aggiunto - e non ha preparazione militare, ma si è mosso come un veterano». 

 Il buon samaritano verrà usato dalle lobby delle armi come prova che un "bravo ragazzo" armato può fermarne uno "cattivo". Così gli americani, ogni volta andranno a fare la spesa o al ristorante, potranno coltivare due speranze: non incrociare un cattivo ragazzo armato, e, nel caso, sperare ce ne sia uno buono. Ma a Uvalde quattrocento "bravi ragazzi" in divisa non sono bastati.

 E da lunedì in Florida si è aperto il primo processo della storia in cui l'imputato ha ucciso almeno diciassette persone: Nikolas Cruz aveva 19 anni quando il 14 febbraio 2018 entrò nel liceo di Parkland e uccise quattordici studenti e tre adulti. Anche lì il "good guy" della security non servì: si era nascosto. La procura ha chiesto la pena di morte per il killer, i suoi legali l'ergastolo, spiegando che il ragazzo era vittima dei suoi demoni.

La procura non li seguirà e per ribadirlo ha mostrato in aula il video registrato da Cruz tre giorni prima della strage: «Ciao - diceva - il mio nome è Nik, diventerò il prossimo autore di una strage a scuola del 2018. Il mio obiettivo è uccidere almeno venti persone. Sarà un grosso evento. Quando mi vedrete nei notiziari, saprete chi sono». Poi aveva aggiunto: «Morirete tutti. Oh, sì , non vedo l'ora».

ARMI DA FUOCO NEGLI USA. Continuano le sparatorie, a Los Angeles due morti e cinque feriti. Il Domani il 25 luglio 2022 • 16:28

Il trend in aumento delle sparatorie continua a interessare gli Stati Uniti. Questa volta, un ipotetico scontro a colpi di arma da fuoco tra gang, ha causato due morti e cinque feriti in un parco di Los Angeles durante un evento automobilistico

C’è stata un’altra sparatoria negli Stati Uniti, questa volta in una strada di Los Angeles, in California. Secondo quanto riportato dalle autorità locali il bilancio sarebbe al momento di due morti e cinque feriti L’episodio è avvenuto a Peck Park, nel distretto di San Pedro, a circa 30 chilometri a sud dal centro della città.

ERA IN CORSO UN EVENTO

Il capitano della polizia, Kelly Muniz, ha detto ai giornalisti che al momento della sparatoria circa 500 persone erano presenti nel parco per un evento automobilistico, con partite di baseball e altre attività all’aperto.

SCONTRO FRA GANG

La polizia non ha ancora spiegato le dinamiche che hanno portato alla sparatoria, ma si ipotizza possa essere scaturita da uno scontro tra gang. 

SPARATORIE NEGLI USA

Quella di Los Angeles è soltanto l’ultimo episodio in ordine cronologico di un trend che negli ultimi anni è in crescita. Stando alle statistiche del Gun violence archive, un ente di ricerca no profit che elabora report basandosi sui documenti della polizia, notizie giornalistiche e altre fonti aperte, dal primo gennaio 2022 al 5 luglio ci sono state 315 sparatorie di massa.

REGOLAMENTAZIONE DELLE ARMI

È del mese scorso il disegno di legge che prevede la restrizione delle armi e ha come passaggio più importante l’aumento dei controlli sul possesso di armi degli aspiranti acquirenti condannati per violenza domestica o crimini giovanili significativi.

Da Ansa il 30 luglio 2022.

La Camera americana ha approvato di misure la legge per vietare la vendita di armi d'assalto negli Stati Uniti, scaduto nel 2004 e mai rinnovato. Lo riporta il New York Times. 

La speaker Nancy Pelosi ha definito la misura, passata con 217 voti contro 213, un "passo cruciale nella lotta contro l'epidemia mortale della violenza armata nella nostra nazione".

Solo due repubblicani, Brian Fitzpatrick della Pennsylvania e Chris Jacobs di New York, hanno votato a favore assieme con i democratici. Cinque i dem che si sono apposti. Il provvedimento ora passa al Senato, dove è destinato a fallire a causa dell'opposizione dei repubblicani.  La legge passata alla Camera - che vieta la vendita, la produzione e il trasferimento delle armi d'assalto e delle munizioni ad alta capacità - non ha nessuna chance di essere approvata dal Senato, dove sarebbe necessario l'appoggio di 10 repubblicani. 

Tuttavia, la vittoria alla Camera è per i democratici un modo per dimostrare agli elettorali gli sforzi per combattere la violenza delle armi in vista delle elezioni di Midterm a novembre, dopo una serie di stragi tra le quali quella nella scuola elementare di Uvalde in Texas, in cui il killer ha usato proprio un fucile d'assalto.

Armi e Dna. Alessandro Bertirotti il 30 maggio 2022 su Il Giornale.

È tutta questione di… scelte.

Negli ultimi giorni, i media italiani hanno condotto una serie di servizi dedicati all’ultima strage avvenuta nel Stati Uniti, nella quale sono morti 19 bambini e 2 insegnanti. Qualche giorno dopo, il marito di un’insegnante uccisa è morto a sua volta di infarto, lasciando 4 figli.

Il criminale assassino, giovanissimo, ha una storia psicopatologica evidente, ora che la conosciamo tutti. E, certo, la sua storia individuale non è solo il risultato di una responsabilità personale, perché, come nel caso di ogni essere umano, l’esistenza individuale è sempre la sintesi della propria biografia genetica e di ciò che si incontra nel mondo in cui si vive.

Ecco, proprio rispetto a questo mondo voglio proporvi alcune considerazioni.

Nei servizi mediatici cui accennavo prima, abbiamo ascoltato, svariate volte, la frase: “le armi sono nel DNA degli statunitensi, perché rappresentano la conquista della democrazia e della liberazione dal Vecchio Mondo, durante la colonizzazione del territorio dell’America Settentrionale”. Una frase che sembra voler giustificare, legittimare e consolidare un rapporto con le armi che continua ad essere cercato, veicolato e prodotto culturalmente, facendo appello al patrimonio genetico di quelle popolazioni.

Ebbene, dal punto di vista scientifico il genotipo (ossia tutto ciò che fa parte della nostra precablatura genetica) trova la sua espressione (ossia codificazione) nel fenotipo, che è il risultato dell’incontro di questa precablatura con il sistema della cultura, ossia con l’ambiente esterno. Per esempio: se io nasco, per familiarità genetica, da genitori che praticano costantemente il ciclismo, sarò in grado di diventare ciclista, ma alla sola condizione di incontrare nel mio percorso di vita una bicicletta, ed avere qualcuno che mi insegni ad utilizzarla. Senza occasione evolutiva nessuna precablatura genetica si manifesta.

Sulla base di questa nozione scientifica, continuare ad affermare che il DNA comanda inesorabilmente è semplicemente mistificatorio e antiscientifico, mentre sarebbe opportuno, attraverso gli anni a venire, modificare le occasioni ambientali che portano ad utilizzare le armi, affinché avvenga, a sua volta, una modificazione del “presunto gene statunitense” all’uso delle armi stesse.

Non solo il DNA influisce sull’ambiente e su noi stessi, ma anche i nostri comportamenti e i nostri pensieri influiscono sulla lenta trasformazione, attivazione o meno, del nostro patrimonio genetico.

Certo, se però è necessario, per motivazioni economiche, alimentare le lobbies delle armi, questo non accadrà mai, ed anche noi italiani abbiamo (e sappiamo di avere) un certo primato nella costruzione e commercializzazione di questi strumenti di morte.

Ho voluto solo precisare come stanno le cose, almeno rispetto alle attuali conoscenze scientifiche che cercano di comprendere l’interazione tra genoma e ambiente.

Asociali e frustrati: chi sono gli stragisti d’America. Roberto Vivaldelli Inside Over il 26 maggio 2022.

Persone con gravi problemi psichici mai affrontati, emarginate e alienate, lupi solitari, estremisti di vario genere: la diffusione delle armi automatiche non è l’unico problema degli Stati Uniti, a giudicare dai profili degli stragisti che hanno insanguinato il Paese nell’ultimo decennio: è un problema sociale, che scuote la culla del capitalismo e le sue periferie. Profili di killer spesso solitari, con pochissimi amici e relazioni sociali estremamente difficoltose e limitate, a cominciare dalla famiglia. Nella maggior parte dei casi, adolescenti annoiati e arrabbiati con il mondo. L’ultimo è il diciottenne Salvador Ramos, autore dell’ennesima strage, alla Robb Elementary School di Uvalde in Texas, dove ha ucciso 19 bambini e due adulti. Come riportato dal Daily Mail, il diciottenne rimaneva spesso nella sua stanza in Hood Street, dove colpiva ripetutamente un sacco da boxe da solo, come ha rivelato il fidanzato di sua madre, Manuel Alvarez.

Chi è lo stragista di Uvelda

“Salvador era un solitario” ha aggiunto. “Non aveva molti amici. Di tanto in tanto veniva un “amico”‘, ha continuato, ma l’ultima volta che ne aveva visto uno era circa sei mesi fa. “Non mi sarei mai aspettato che facesse quello che ha fatto. È tranquillo e sta per conto suo la maggior parte del tempo. Ho avuto davvero solo una manciata di conversazioni con lui”, ha detto Alvarez. Dopo aver litigato con sua madre per un problema con il Wi-Fi, circa una settimana fa, il giovane stragista ha fatto le valigie si è trasferito da sua nonna, Celia Gonzalez, a poche miglia di distanza, rimasta gravemente ferita anche lei nella tragica sparatoria. La famiglia di Salvador Ramos non è certo la classica famiglia modello: suo padre, Salvador Ramos, 42 anni, e Adriana Martinez Reyes, 39 anni, hanno entrambi precedenti penali, secondo il Daily Mail. I vicini affermano che il rapporto del giovane Salvador Ramos con sua madre non era buono.

Secondo il vicino di Ramos, Ruben Flores, 41 anni, l’assassino e sua madre avrebbero avuto non di rado discussioni molto accese e la polizia sarebbe intervenuta in più occasioni. Un ex compagno di classe che vuole rimanere anonimo, come riferito la Cnn, ha detto che Ramos “sarebbe stato vittima di bullismo e preso in giro pesantemente” a scuola nonché deriso per gli abiti che indossava e per la situazione economica della sua famiglia.

Le idee radicali di Payton S. Gendron

Salvador Ramos è coetaneo di Payton S.Gendron, autore della strage in un supermarket di Buffalo del 14 maggio scorso nella quale sono morte tredici persone, di età compresa tra 20 e 86 anni, 11 delle quali nere e 2 bianche. Durante il primo lockdown per il coronavirus, nella primavera del 2020, come ricostruito da El Pais, un annoiato Gendron ha iniziato a scendere negli angoli più bui di Internet, passando da un gruppo di chat sulle armi a un altro sull’estremismo politico, fino a finire nei forum che mettevano in guardia la popolazione sull’estinzione della razza bianca. Nel giugno dell’anno successivo, quando stava terminando gli studi in una scuola superiore a Conklin, una cittadina dove il 90% della popolazione è bianca, agli studenti è stato chiesto di spiegare cosa intendevano fare dopo il diploma.

Il ragazzo, allora 17enne, ha risposto che stava pianificando un “omicidio-suicidio”, un atto di violenza diventato sin troppo comune negli Stati Uniti: uno uccide più persone possibili e poi si toglie la vita. La scuola ha chiamato la polizia, ma Gendron ha detto che era tutto uno scherzo. Due settimane dopo, si è laureato ed è uscito fuori dal radar della polizia. Gendron ha pubblicato controverso manifesto politico che, nella sostanza e nella forma, nota El Pais, risulta essere una sorta di imitazione di quello scritto dal 28enne australiano Brenton Tarrant, che nel 2019 uccise 51 musulmani in due moschee a Christchurch, in Nuova Zelanda. Episodio che a sua volta ricorda la sparatoria di massa perpetuata da Patrick Crusius nel 2019 a El Paso, in Texas, dove vennero uccisi 23 latino-americani.

Ci sono però altri dettagli interessanti, come abbiamo già sottolineato su InsideOver. L’omicida si definisce un “eco-fascista” e nel documento pubblicato online incolpa l’immigrazione, colpevole di creare danni all’ambiente. “Per troppo tempo abbiamo permesso alla sinistra di cooptare il movimento ambientalista per soddisfare i propri bisogni”, si legge nel il manifesto del presunto killer di Buffalo. “La sinistra ha controllato tutte le discussioni sulla conservazione dell’ambiente, presiedendo contemporaneamente alla continua distruzione dell’ambiente naturale stesso attraverso l’immigrazione di massa e l’urbanizzazione incontrollata, senza offrire una vera soluzione a nessuno dei due problemi”. Nello stesso manifesto, Gendron si descrive come un “autoritario di sinistra” e un “populista” (“Rientro nella categoria di una sinistra autoritaria moderata, e preferirei essere chiamato populista” spiega).

Solitari e annoiati: chi sono i killer d’America

Noia, disperazione, rabbia, solitudine. Sono gli elementi peculiari dei killer d’America che si ritrovano pressoché in tutti i profili. Basti pensare ad Adam Lanza: aveva appena 20 anni quando il 14 dicembre 2012 sparò a sua madre, Nancy Lanza, e poi si recò alla Sandy Hook Elementary School (Connecticut) dove massacrò 20 alunni di prima elementare e sei educatori prima di togliersi la vita. Tra i fattori che potrebbero aver causato l’ansia che ha portato alla follia omicida di Lanza c’era l’ipotesi di trasferirsi con la madre e un “litigio” con il suo – unico migliore amico. “Lanza conosceva un altro adolescente con cui giocava regolarmente al videogioco Dance Dance Revolution“, afferma il rapporto che ha fatto luce su quella strage.

“Si incontravano alcune volte al mese per giocare al videogame o per andare al cinema. Lanza e il suo amico parlavano di molteplici argomenti, inclusi computer, natura umana, moralità, pregiudizi e talvolta della sua famiglia. Lanza disse al suo amico che aveva una relazione tesa con sua madre”. E aggiunge: “Lanza ha dovuto affrontare sfide di sviluppo significative sin dalla prima infanzia, comprese difficoltà nella comunicazione e sensoriali, ritardi nella socializzazione e comportamenti ripetitivi”, afferma lo stesso rapporto. Gravi problematiche che sembrano riguardare e colpire tutti i giovani stragisti negli Stati Uniti.

Strage Usa, i numeri non mentono: vietare le armi non serve. La retorica mainstream sulla limitazione delle armi in America è confutata dai fatti. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 28 Maggio 2022.

In occasione di ogni strage, negli Stati Uniti o in qualsiasi altra parte del mondo, subentra a gamba tesa la solita retorica mainstream sulla limitazione delle armi, sulla necessità di legiferare norme più rigide e severe per l’acquisto di armi da fuoco. È successo dopo la carneficina di Anders Breivik, terrorista e neonazista norvegese, che nel 2011 ha provocato la morte di 76 persone con una bomba; si è riproposto dopo l’omicidio di George Floyd e, infine, con la recente strage in una scuola elementare dell’Uvalda, Texas, dove 21 americani hanno perso la vita.

Nel racconto anti-Usa d’eccellenza, in gran parte alimentato anche dalla stampa mainstream italiana, si sviluppa una principale corrente di pensiero: il problema è l’eccessiva libertà nell’acquisto delle armi, in contrapposizione alla meravigliosa normativa italiana ed europea. Anzi, i pistoleri per nome e per fatto sono i repubblicani, il cui partito è direttamente finanziato dalla National rifle associaton, la principale lobby a favore dei detentori di armi da fuoco. Ma siamo sicuri che sia proprio così? Il Republican Party è un movimento composto da soli “John Wayne” e “Steve Mcqueen”, mentre la normativa degli Stati democratici costituisce la panacea di tutti i mali? La risposta è un secco no. 

La figura sopra, ripresa dal periodico mensile Iriad, mostra il numero di armi vendute negli Usa, per un arco temporale dal 2000 al 2016. Si denotano almeno due aspetti fondamentali. Da una parte, i tre picchi storici nell’acquisto di armi da fuoco sono stati raggiunti nei due mandati presidenziali del Nobel per la pace Obama. Dall’altra, guarda caso con l’elezione di Donald Trump, la vendita di armi ha conosciuto una tendenza discendente, calando di oltre undici punti percentuali rispetto al precedente biennio obamiano.

Nell’accurata analisi, ci aiuta anche Alessandro Rico, giornalista de La Verità, che mostra inconfutabilmente come la realtà sia ben diversa rispetto ai fatti narrati. Rico prende in esame il caso della California, Stato con le norme più stringenti del Paese, ma che conta ben “23 sparatorie di massa: praticamente, quelle di Florida e Texas messi insieme, a dispetto dei loro regolamenti più laschi”. Non solo: la sparatoria più sanguinosa della storia, con oltre cinquanta persone uccise, è avvenuta nella sicura Las Vegas. Eppure, argomenta Rico: “Secondo la classificazione di World population review, il corpus legislativo sulle armi del Nevada appartiene alla categoria C+, su una scala che va dai severissimi Stati di fascia A, come il New Jersey, agli Stati «pistoleri» della fascia F, come lo stesso Texas”.

Ma non finisce qui. Rico sviscera un altro dato rilevante: in otto delle dieci metropoli americane con più omicidi, la popolazione prevalente è quella afroamericana. Si badi bene: con ciò non intendiamo dire che i neri abbiano un istinto naturale nel compiere atti criminali, ma “per motivi legati alla povertà e all’emarginazione, hanno una più alta propensione a delinquere ed a commettere crimini violenti”. I dati del 2019 dell’Fbi lo confermano: seppur gli afro siano poco meno del 14 per cento della popolazione Usatotale, sono stati responsabili del 56 per cento degli omicidi.

I dati si riflettono anche in Italia. Su un totale di 54 mila detenuti, più di 17 mila (31 per cento) sono stranieri, seppur questi ultimi costituiscano circa il dieci per cento della popolazione totale. Ed ecco spiegati anche i dubbi di una politica migratoria “a porte aperte”: il rischio di ospitare tutti, senza alcun limite richiesto, è un danno sia per “noi” che per “loro”, privi di mezzi per inserirsi nella società, per costruirsi una nuova vita, trascinandoli nel circuito della criminalità per sopravvivere.

È evidente, quindi, che “ad un inasprimento delle leggi non corrisponda una diminuzione della violenza”. E che, ad un inasprimento delle pene, non corrisponda una proporzionale diminuzione degli atti criminali – si badi sempre agli Usa, Paese dove è in vigore la pena di morte, ma che vanta percentuali di assassinii superiori rispetto a Stati senza l’esecuzione capitale.

No, cari lettori: non è colpa né dei repubblicani, né della destra pistolera e fascista. L’analisi di qualsiasi piaga sociale richiede un approccio distaccato, imparziale, terzo, senza il rischio di essere presi dalla foga emergenziale e criminalizzatrice. Ancora una volta, la narrazione mainstream è sbugiardata dai dati, quelli reali, obiettivi, concreti. Chissà come sarà il racconto della prossima strage americana. Si analizzerà il fenomeno oppure si isseranno le bandierine politiche? Noi un’idea ce la siamo già fatta. Matteo Milenesi, 28 maggio 2022

La reazione politica. Strage a scuola in Texas, la folle reazione dei Repubblicani Usa: “Armiamo gli insegnanti”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

L’ennesima strage negli Stati Uniti, l’ennesimo episodio di ‘mass shooting’ causato dalla libertà di circolazione delle armi, non ha sposato di un millimetro il Partito Repubblicano dal ‘no’ netto a qualsiasi tentativo di imporre restrizioni sull’accesso alle armi, tradendo così il secondo emendamento. 

Il massacro della Robb Elementary School di Uvalde (Texas), dove lo studente 18enne Salvador Ramos, armato di un fucile semiautomatico AR-15 ha aperto il fuoco e ucciso 19 alunni tra i 9 e 10 anni e due maestre, non fa compiere retromarce ai rappresentanti repubblicani del Texas, Stato dove è già in vigore una delle leggi più permissive degli Stati Uniti.

Dallo scorso anno nella roccaforte Repubblicana è in vigore una legge, firmata dal governatore Greg Abbott, che ha messo fine alla necessità di avere un porto d’armi, consentendo praticamente a chiunque abbia più di 21 anni di avere sempre con sé un’arma. Una legge che ha inoltre eliminato l’obbligo di tenere le armi con cinture in vita o a spalla, mentre quella precedente consentivano già il trasporto delle armi senza particolari limitazioni, con la possibilità di avere con sé fucili senza porto d’armi e di portare alcuni tipi di armi nei campus scolastici. Texas che non a caso vanta sia il primato per il maggior numero di morti in sparatorie di massa sia il maggior numero di armi registrate nel 2021 negli Stati Uniti, un milione.

Il presidente Joe Biden, commentando la strage in un discorso alla nazione, aveva sottolineato che “l’idea che un 18enne possa entrare in un negozio e acquistare un fucile è sbagliata” e che è il momento di “trasformare il dolore in azione” e agire per fermare la diffusione di armi nel paese. “Possiamo fare di più e dobbiamo fare di più. Quando per l’amor del cielo affronteremo la lobby delle armi?“, ha detto Biden.

Parole al vento, vista la reazione dei Repubblicani. Ted Cruz, che rappresenta il Texas al Senato degli Stati Uniti, ha parlato di “strumentalizzazione” da parte dei Democratici e dei media, che vorrebbero “limitare i diritti costituzionali dei cittadini rispettosi della legge. Non funziona. Non è efficace nel prevenire il crimine”. Per Cruz infatti lo strumento “più efficace” per proteggere i bambini nelle scuole è disporre più forze dell’ordine armate nei campus.

Più estreme sono invece le parole di Ken Paxton, procuratore generale del Texas e vicino all’ex presidente Donald Trump. “Newsmax. “Preferirei di gran lunga avere cittadini rispettosi della legge armati e addestrati, in modo che possano reagire quando succede qualcosa del genere, perché non sarà l’ultima volta”, ha detto in una intervista a Newsmax.

Per poi rincarare la dose davanti ai microfoni di Fox News, dove ha fatto una proposta impensabile per gli standard europei: “Non possiamo fermare i cattivi quando fanno cose brutte. Ma possiamo armare e preparare gli insegnanti a rispondere rapidamente. Secondo me questa è la strategia migliore”.

Anche la potente lobby delle armi, la National Rifle Association (NRA), si è auto-assolta da ogni responsabilità per il massacro, denunciandolo come “atto di un criminale isolato e disturbato”. NRA che nei prossimi giorni terrà proprio in Texas, a Houston, la sua convention annuale.

Incontro al quale parteciperà Donald Trump. “L’America ha bisogno di soluzioni reali e di una vera leadership in questo momento, non di politici e partigiani”, ha scritto l’ex presidente su Truth Social. “Ecco perché manterrò il mio impegno di lunga data di parlare in Texas alla Convenzione Nra e di tenere un discorso importante in America”.

Anche il governatore Greg Abbott e il senatore texano Ted Cruz interverranno al congresso della principale lobby pro-armi degli Stati Uniti.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Da “la Stampa” il 26 maggio 2022.  

L'AR-15 utilizzato da Salvador Rolando Ramos per fare strage nella Robb Elementary School vicino a Uvalde è un fucile semiautomatico statunitense, sviluppato e prodotto dalla Armalite. Il nome sarebbe un acronimo di «Armalite rifle, design 15».

 (ANSA il 26 maggio 2022) - Nelle ore dopo la strage di Uvalde, Michael Moore ha chiesto all'America di respingere il Secondo Emendamento. "Perche' no?", si è chiesto il regista di "Bowling for Columbine", il documentario premio Oscar sulla sparatoria in un liceo del Colorado che 23 anni fa inauguro' la lunga scia di sangue nelle scuole d'America. "Sono a favore di tutte le leggi contro le armi. Non ci serve nessun compromesso. Servono norme dure che proteggano noi stessi e i nostri bambini", ha detto Moore alla MsNbc.

Il regista ha puntato i riflettori sulla "innata violenza" dell'America, "paese nato sul genocidio dei nativi e costruito sul lavoro degli schiavi con la pistola puntata alla schiena". Secondo Moore, "se Jefferson, Madison e Washington avessero saputo che sarebbe stata inventata la pallottola una cinquantina d'anni dopo, non avrebbero scritto l'Emendamento in quel modo. Non sapevano neanche cosa fosse una pallottola. Se avessero avuto un'idea che ci saremmo trovati in mezzo a questa carneficina, siate certi che i padri Fondatori non l'avrebbero approvato".

 (ANSA il 26 maggio 2022) - Il gruppo di attivisti per il controllo delle armi 'March for Our Lives' sta pianificando numerose proteste negli Stati Uniti in seguito alla sparatoria nella scuola elementare del Texas, dove sono morti 19 bambini e 2 adulti. L'organizzazione è stata fondata nel 2018 in risposta alla sparatoria in una scuola superiore di Parkland, in Florida, che ha provocato la morte di 17 persone, e quell'anno ha organizzato una delle più grandi proteste della storia americana, chiedendo la fine della violenza armata.

Ora sta pianificando una nuova marcia a Washington per l'11 giugno, insieme ad altre manifestazioni in tutto il Paese. "Nel 2018 avete marciato con noi per porre fine alla violenza armata - ha scritto l'organizzazione su Twitter -. Quattro anni dopo, stiamo marciando di nuovo".

 (ANSA il 26 maggio 2022) - Il musicista americano Don McLean ha annunciato che dopo la strage in Texas non canterà' più' alla convention del fine settimana a Houston della Nra, la potente lobby della armi. "Ho deciso che sarebbe irrispettoso e doloroso per me esibirmi. Sono certo che anche tutte le persone che intendono partecipare a questo evento sono scioccate e rattristate" dal massacro, ha scritto in una nota. 

McLean è l'autore della canzone American Pie che nel 1972 raggiunse la prima posizione nella Billboard Hot 100 per quattro settimane e che è considerata uno dei capolavori della musica leggera statunitense, rilanciato nel 2000 da una cover di Madonna. Resta confermata invece la partecipazione di Donald Trump, del senatore Ted Cruz e del governatore del Texas Gregg Abbott, tutti ferventi sostenitori del secondo emendamento della costituzione americana sul diritto all'autodifesa.

Armi e violenza. Strage in Texas è la punta dell’iceberg: negli Usa ogni anno oltre 20mila omicidi. Valerio Fioravanti su Il Riformista il 26 Maggio 2022. 

Su una cosa Biden ha certamente ragione: i matti esistono in tutto il mondo, eppure solo negli Stati Uniti si mettono a sparare a caso. “Quello che mi colpisce è che questi tipi di sparatorie di massa nelle altre parti del mondo si verificano raramente. Perché? Anche negli altri paesi ci sono persone con problemi di salute mentale, con liti familiari, o persone che si sono completamente perse. Ma solo in America questo tipo di sparatorie avviene con tanta frequenza”.

Già, persone arrabbiate esistono in tutto il mondo, ma solo negli Stati Uniti organizzano sparatorie, e solo lì vanno alla ricerca delle vittime più innocenti possibile, chi le cerca in un cinema, chi nelle chiese, nei supermercati, e chi nelle scuole. Hanno iniziato nei licei, e con un po’ di fantasia si può anche capire che qualche adolescente abbia rancore nei confronti dei coetanei. Poi sono “scesi” alle scuole medie, e ora alle scuole elementari, evidentemente alla ricerca della massima innocenza, come se il loro desiderio fosse causare lo scandalo maggiore possibile. Giusto qualche settimana fa, leggendo sulla Russia per cercare di avere un quadro sull’invasione dell’Ucraina, mi sono imbattuto in una citazione di un collaboratore di Stalin, Nikolaj Krylenko: «Non bisogna eliminare soltanto i colpevoli; eliminare gli innocenti fa molta più impressione».

Evidentemente i giovanissimi statunitensi che, ne sono più che certo, non hanno la minima idea che sia mai esistito un tipo chiamato Stalin, pensano anche loro che colpire gli innocenti fa più impressione, si passa “alla storia” con più facilità, si esprime con più nettezza il proprio odio contro tutto e tutti. Certo, la cattiveria non è una prerogativa solo statunitense, abbiamo avuto anche noi le nostre guerre, anche le guerre civili, e anche il terrorismo. Però ha ragione Biden: da noi sono stati fenomeni intensi, ma tutto sommato brevi, e poi si sono conclusi. In America no, la rabbia giovanile è rimasta irrisolta. Io però su questa specifica materia ho una mia esperienza personale, e anche una lavorativa, visto che per Nessuno tocchi Caino seguo i crimini negli Stati Uniti da ormai 25 anni, e vorrei mettere 4 idee in fila.

Le armi c’entrano. Ma c’entra anche un uso diffusissimo della violenza a tutti i livelli, compresa la polizia. E c’entra quel concetto tra lo spartano e il darwinismo sociale per cui non si stanziano fondi per il disagio mentale ma si attende che il matto commetta un qualche reato, e poi lo si chiude in galera per tutta la vita. E un po’ c’entrano anche i videogiochi una cui categoria non a caso viene definita “spara-spara”.

A curare i matti negli Usa proprio non ci pensano, costa troppo, soldi sprecati. Al limite qualche psicofarmaco, ma anche nelle famiglie benestanti che hanno le assicurazioni sanitarie private è difficile ottenere i rimborsi per le cure mentali, le assicurazioni, se proprio sono di manica larga, ti rimborsano una settimana di ricovero nelle fasi acute, non certo terapie più lunghe, più esaustive.

Tanto è solo questione di tempo, il matto farà qualcosa (a proposito, lo so che “matto” è una definizione datata che molti considerano addirittura offensiva, ma sono sicuro che così ci capiamo) e troverà qualcuno che gli spara, così la pratica è chiusa. O se no lo carcerano, e anche così la pratica è chiusa. Dicevamo anche che le armi c’entrano sicuramente. Sì, ma non solo nelle sparatorie nei fast-food o nelle scuole, c’entrano in tutto il modello Usa. I dati più recenti del Fbi calcolano 21.500 omicidi nel 2020. Sono tanti. Per fare un confronto, in Italia nel 2020 ne abbiamo contati 287. Come popolazione noi siamo 5,5 volte di meno, quindi in proporzione loro si uccidono 13 volte e mezza in più di quanto facciamo noi. Ma degli omicidi Usa “solo” il 77% è fatto con armi da fuoco. Il che vuol dire che anche senza pistole gli americani si ammazzano molto più di quanto facciamo noi.

E qui veniamo all’impostazione “nazionale”: il famoso “Secondo Emendamento” che garantisce il diritto ad ogni cittadino di difendersi da solo parte dal presupposto, in teoria non impossibile, che se ogni cittadino circolasse armato sarebbe come se in giro ci fossero tantissimi poliziotti, e un criminale ci penserebbe due volte prima di tirare fuori una pistola. L’idea di per sé non è del tutto assurda, però, evidentemente, non funziona. “Tutti armati” non significa affatto “tutti più sicuri”. Infatti da quando studio le loro statistiche, loro hanno una media di reati violenti che è cinque volte più alta dell’intera media europea. Noi in Europa abbiamo nazioni dove la polizia porta le pistole in una cassafortina nel portabagagli, e se vuole tirarle fuori deve avvertire la centrale, che manderà un impulso di sblocco della serratura, e registrerà a che ora è stata estratta l’arma, e a che ora è stata riposta. Possiamo anche sembrare (ancora quel termine) matti, però evidentemente il nostro sistema, il nostro “impianto” di fortissima limitazione della circolazione delle armi, funziona. Il loro no. Valerio Fioravanti

Ogni maledetta strage. La violenza americana è americana, ma stiamo attenti anche noi. Christian Rocca su L'Inkiesta il 25 Maggio 2022.

Diciotto bambini uccisi in Texas. Solo quest’anno, negli Stati Uniti, sono state 212 le sparatorie con più di 4 vittime. La causa è la facilità di accesso alle armi, assieme alla cultura della frontiera di un paese ancora giovane e ingenuo. Ma attenzione, perché il linguaggio dell’odio è diffuso anche di qua dell’Atlantico.

Nel 2022 sono state 212 le stragi da armi da fuoco in America, secondo Gun Violence Archive, un’associazione non-profit che definisce sparatoria di massa gli incidenti con quattro o più persone ferite o uccise. I morti sono oltre 6300, solo quest’anno, con un conteggio esatto ancora impossibile perché ancora si contano le vittime, per ora sono 18 bambini, della strage alla scuola elementare in Texas di ieri.

Ogni volta, ogni maledetta volta, la domanda che tutti si pongono è per quale motivo le stragi a mano armata succedano con tale frequenza soltanto negli Stati Uniti. È colpa dell’America o della facilità di accesso alle armi, o forse di entrambi?

Come capita inesorabilmente dopo ogni strage, anche dopo l’ultimo massacro di bambini in Texas, negli Stati Uniti parte il solito rimbalzo di responsabilità tra chi si batte da anni per regole più severe sulla vendita di pistole e di fucili, fino a chiedere il divieto di vendita di armi da guerra, e chi spiega invece che le armi non c’entrano niente e che la colpa è soltanto degli squilibrati che sparano, magari dei videogiochi e di qualche altro disagio provocato dalla società contemporanea. Col risultato che, dopo il dolore e l’indignazione, non succede niente.

Eppure è autoevidente che le malattie mentali esistono in tutti i paesi del mondo, così come ovunque si gioca con i videogame violenti, ma poi si spara a raffica e con tale frequenza solo negli Stati Uniti. L’unica cosa che differenzia l’America dal resto del mondo è la facilità di accesso alle armi e la mancanza di controlli incrociati su chi le acquista: su questo c’è poco da discutere, malgrado cinquanta senatori repubblicani rifiutino esattamente di discuterne al Congresso, impedendo qualsiasi provvedimento federale.

Ci sono però anche altre specificità americane, culturali e politiche, a spiegare l’inesorabile violenza nichilista: questo tipo di stragi non sono un fatto isolato, ma quasi un codice di protesta, un rituale per denunciare la rabbia e l’alienazione sociale, una specie di antidoto all’aggregazione e, più recentemente, allo stile paranoico della vita digitale.

L’accesso alle armi facilita questi gesti estremi, anche se in America il possesso delle armi non è il prodotto caricaturale di una cultura bullista, ma è collegato al principio della libertà che è alla base degli Stati Uniti e a quello della difesa personale garantito dalla Costituzione.

Va ricordato ogni volta: l’America è una nazione giovane, priva delle astuzie europee e per questo più ingenua, e adolescenziale. Non conosce le alchimie del razionalismo europeo (che a sua volta genera altri tipi di mostri su scala più ampia) ed è un paese di grandi illusioni e di fermenti religiosi, di laicismo esasperato e di attesa dell’Armageddon.

L’America vive ancora la psicologia della frontiera, è violenta e perentoria, è capace di moralismi assoluti e di totale indecenza. Questa è la sua caratteristica fin dalla fondazione e con essa convive da oltre duecento anni.

Un’epica fanciullesca che è allo stesso modo la grandezza e la tragedia dell’America.

Le armi e la cultura americana sono una traiettoria specifica degli Stati Uniti che solo gli americani potranno modificare, ma in realtà tutta la società contemporanea di qua e di là dell’Atlantico è permeata da un comune linguaggio d’odio espresso dai leader politici e dai propagandisti nelle istituzioni, nei talk show, sui social. Sarebbe il caso di rendersene conto e di fermarsi in tempo.

Sebastiano Messina per “la Repubblica” il 26 maggio 2022.  

I grandi misteri degli Usa sono tre. Il primo è l'Area 51. Il secondo è l'assassinio di Jfk. Il terzo è quale logica giuridica spinga lo stesso Stato che punisce con dieci anni di carcere la donna che abortisce un feto appena concepito a considerare il libero acquisto di un fucile d'assalto capace di fare una strage di bambini un diritto sacro, naturale e inscalfibile.

Michele Serra per “la Repubblica” il 26 maggio 2022.

Queste stragi di bambini negli Stati Uniti (più di 45mila morti all'anno per armi da fuoco!) sono abominevoli quanto una guerra, e senza nemmeno le ragioni, pretestuose o meno, di una guerra. Non c'è un torto da vendicare, non il fantasma di una nazione da resuscitare: c'è la morte, solo la morte da celebrare, in un giorno qualunque. 

Quelle stragi nelle scuole sono il pozzo dal quale non c'è risalita, il male che non sente nemmeno il bisogno di definirsi, il più irrimediabile presagio di estinzione, la pazzia al potere, Satana che si manifesta persino a chi non crede che esista.

Una società che genera, in forma oramai strutturale, questo orrore, e non è capace di fermarsi, e ripensarsi daccapo, dalle radici, è una società che non ha domani. Il governatore del Texas, e tutti gli uomini di potere che, contro l'evidenza, continuano a benedire le armi da fuoco come simulacro della libertà americana, evidentemente considerano gli americani, bambini compresi, carne da macello, e la cosiddetta libertà un feticcio, un totem, un idolo al quale fare sacrifici umani. 

Non c'entra niente il pregiudizio antiamericano, c'entra il giudizio sulle azioni umane. Un Paese nel quale è lecito rimpinzare di armi ogni casa, e comprare un fucile da guerra è un gesto alla portata di qualunque ragazzino, non è un Paese che può esercitare una leadership morale credibile.

Una legge che metta fine a questa abominevole libertà di sparare sarebbe un segnale di speranza per il mondo intero: ma da quanti anni la aspettano inutilmente, gli americani pacifici, e con loro gli esseri umani che odiano la violenza? 

Marco Molendini per Dagospia il 6 maggio 2022.

Il nemico giurato di Billie Holiday era il figlio di un barbiere di origine svizzere, Harry Jacob Anslinger: da due anni era a capo del Federal bureau of narcotics, nato per combattere il traffico di alcol, ma il suo ufficio rischiava di chiudere. 

Quando, nel '33, il proibizionismo viene abolito, per Anslinger è una pessima notizia e deve trovare un nuovo motivo al suo incarico. Fanatico ambizioso, razzista, senza scrupoli, alle spalle ha un suocero potente, Andrew Mellon, ministro del tesoro per tre governi, e James Hoffa il boss dell’Fbi tutto sommato è fatto della sua stessa pasta: sono figli di un’America intollerante e bieca. 

A salvare il suo ufficio arriva la più intensa, la più infelice delle cantanti, distrutta dalla vita, dall'alcol, dalle dipendenze, Billie Holiday. E' la storia che racconta il film The United states versus Billie Holiday, diretto e prodotto da Lee Daniels (regista di The Butler), che ora è arrivato in sala (impigliato nella crisi del covid ha debuttato prima sulla piattaforma Hulu).

Anslinger è l'altro protagonista della storia, nel film ha un ruolo secondario, in realtà è stato il vero antagonista feroce della vita di Lady Day. Un avversario senza scrupoli che, nella sua battaglia contro le droghe, era partito con un alleato potente come la neonata industria delle fibre sintetiche (di mezzo c'era Citizen Kane, l'editore Hearst) decisa a boicottare la concorrenza delle fibre naturali e, in particolare, della canapa. 

Sono le fabbriche di tessuti in poliestere a finanziare una durissima campagna contro la marijuana associando il consumo di questa pianta ai più atroci fatti di cronaca nera di quel tempo. Il Federal bureau mette sotto controllo l'intero mondo dello spettacolo. In particolare l’ambiente della musica (negli archivi sono stati trovati files anche su Duke Ellington e Louis Armstrong). 

Anslinger, nel 1937, durante un'audizione al Congresso degli Stati Uniti, dichiara: «Ci sono centomila fumatori di marijuana negli Stati Uniti, e la maggior parte sono negri, ispanici, filippini e gente dello spettacolo; la loro musica satanica, jazz e swing, è il risultato dell'uso di marijuana. Il suo uso causa nelle donne bianche un desiderio di ricerca di relazioni sessuali con loro».

Quell’anno il presidente Roosevelt firma il Marijuana Tax Act che vieta la coltivazione di qualsiasi tipo di canapa, anche a scopo medicamentale e Anslinger si mette a capo della crociata, battezzando la marijuana the killer drug, la droga che porta al piacere di uccidere senza motivo. 

E’ in quel momento che nella sua missione, animata da intolleranza e razzismo, appare Billie Holiday, perfetto simbolo da crocifiggere: ha successo, è nera, ha un lato debole che si presta al lavoro da fare. Ma, per questo incarico, ci vuole un agente che possa muoversi liberamente in quel mondo, così Anslinger chiama Jimmy Fletcher e gli ordina di metterla sotto controllo.

Fletcher è nero, Anslinger detesta i neri, al bureau non può neppure salire in ufficio, deve fermarsi fuori dalla porta. La persecuzione viene innescata da una canzone che sa di sedizione e di droga: Strange fruit, composta da Abel Meeropol, scrittore ebreo e comunista, e adattata da Billie e dal suo pianista Sonny White: è il racconto cupo dell’America dei linciaggi, dei «Black bodies swingin' in the Southern breeze/ Strange fruit hangin' from the poplar trees («Corpi neri che oscillano nella brezza del sud/Strani frutti appesi ai pioppi»).

Jimmy Fletcher, in un primo momento, si presenta a Lady Day nelle vesti del fan poi, su ordine di Anslinger, l'arresta (non per la canzone ma per la droga) e alla fine diventa suo amante: è il masochismo che ha incatenato Billie a uomini tremendi, e Fletcher era addirittura il meno peggio. Una vocazione al martirio confessata e cantata in tante canzoni come Fine and mellow: «Il mio uomo non mi ama, mi tratta in modo orribile, è l'uomo peggiore che abbia mai visto, ma quando comincia ad amarmi, è così bello e caldo». 

Anslinger non mollerà mai Billie fino alla fine, non importa se con prove vere o costruite. Lo dichiara perfino nei documenti ufficiali dell’Fbi: “È politica di questo ufficio quella di creare discredito per i personaggi del calibro e della notorietà di Billie Holiday, perchè la loro notorietà diventa una scusa per i giovani consumatori”. 

Il Federal bureau of narcitucs cercherà di incastrarla fino al letto di morte, al Metropolitan Hospital di New York City: l'accusano di avere tre grammi di eroina in una busta di alluminio. La minacciano, se non rivela il suo spacciatore, sarà portata direttamente in prigione.

Le sequestrano fumetti, radio, giradischi, fiori, cioccolatini e riviste, l'ammanettano al letto, mentre due poliziotti si piazzano davanti alla porta. Sulla strada fuori dall'ospedale il reverendo Eugene Callender, un pastore di Harlem raduna un gruppo di manifestanti che agitano cartelli di protesta, “Let Lady Live": vorrebbe farla trasferire nella sua chiesa dove ha costruito una clinica per eroinomani. Ma Anslinger non molla. E Billie Holiday muore cosí a 44 anni, ammanettata al suo letto con quindici biglietti da cinquanta dollari legati alla gamba che aveva intenzione di dare alle infermiere che l'avevano accudita, per ringraziarle.

Due anni dopo la morte di Lady Day Anslinger viene premiato dal presidente Kennedy e confermato a capo della sezione narcotici, anche se ha 70 anni e dovrebbe andare in pensione. Così la sua crociata va avanti in una sorta di delirio crescente. Arriva a sostenere che la dipendenza dalle droghe sia contagiosa. Malato, sofferente di cuore chiude la sua vita diventando a sua volta dipendente dalla morfina. Negli stessi anni della persecuzione verso Billie Holiday, si è scoperto poi, Anslinger forniva di morfina il senatore Joseph McCarthy a spese del bureau. 

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 29 aprile 2022.

Starbucks apripista delle campagne per i matrimoni gay con parità di diritti, Patagonia contro il presidente Trump per la riduzione delle tutele nei parchi e nelle riserve naturali, Nike a sostegno delle proteste silenziose contro il razzismo di Colin Kaepernick che prima delle partite di football si inginocchiava. 

Due anni fa, dopo la morte di George Floyd soffocato da un poliziotto che lo stava arrestando, la reazione dell'America nera, diventò una campagna che coinvolse tutto il Paese anche grazie al sostegno a Black Lives Matter (Blm) delle grandi corporation , da McDonald's ad Apple passando per la finanza di Chase e Bank of America.

Il capitalismo americano, fin lì impegnato solo a produrre reddito, sembrava voler cambiare rotta puntando anche alla promozione dei diritti civili: un ruolo di supplenza rispetto a una politica sempre più polarizzata e, quindi, spesso incapace di decidere. 

Due anni dopo i leader dei grandi gruppi stanno scoprendo che, se è stato giusto spostare l'attenzione dagli interessi esclusivi degli shareholder (solo fare profitti per gli azionisti) a quelli degli stakeholder (produrre benefici economici anche per i consumatori, i dipendenti e la comunità nella quale un'azienda è inserita), il coinvolgimento in battaglie politiche e culture wars comporta grossi rischi per l'azienda senza svelenire i conflitti politici e sociali. 

Col tempo il sostegno a Blm si è raffreddato (e da inchieste giornalistiche emerge che il grosso dei miliardi stanziati contro il razzismo è fatto di mutui sui quali le banche guadagnano) mentre, pressati dai loro dipendenti, alcuni gruppi hanno preso posizione su questioni complesse - leggi elettorali, diritti delle minoranze, perfino educazione sessuale - finendo per diventare bersaglio di accuse contrapposte.

Dall'opposizione di Delta e Coca Cola, le maggiori aziende della Georgia, alle nuove norme dello Stato che restringono i diritti di voto, al recente scontro tra la Disney e il governatore della Florida sulla legge che vieta di discutere nelle scuole di sessualità e omosessualità coi bambini delle elementari (lo Stato punisce il gruppo per le sue interferenze mentre i dipendenti gay lo accusano di non fare abbastanza), le corporation scoprono che, anziché contribuire a risolvere problemi, rischiano di portare al loro interno le crisi d'identità che spaccano la società americana.

Chi è Ketanji Brown Jackson, la prima giudice afroamericana della Corte suprema. MARIKA IKONOMU su Il Domani l'08 aprile 2022

Confermata dal Senato con 53 voti a favore, di cui tre repubblicani, Jackson ha avuto una brillante carriera ed ha giocato un ruolo importante come avvocato d’ufficio, vincendo molte cause contro il governo, tra cui un’importante caso sulla detenzione a Guantánamo 

Ketanji Brown Jackson è la prima giudice donna afroamericana della Corte suprema statunitense, nominata dal Senato con 53 voti a favore, di cui tre repubblicani, e 47 voti contrari. Fortemente voluta dal presidente Joe Biden, Jackson sostituirà Stephen Breyer, giudice nominato nel 1994 da Bill Clinton, che aveva annunciato il suo ritiro a fine gennaio 2022.

«È un momento storico per la nostra nazione», ha detto il presidente statunitense, che ha definito la nomina di Jackson «un altro passo nel rendere la nostra Corte un luogo che rifletta le diversità dell’America». 

51enne, la neogiudice della Corte suprema è stata preferita a Leondra Kruger, 45 anni, e Michelle Childs, 55 anni. Jackson sarà la Justice più giovane tra i nove membri della Corte e ciò permetterà, essendo il mandato a vita, ai democratici di avere per lungo tempo un giudice progressista.

LA CARRIERA

Ketanji Brown Jackson è nata a Washinghton ed è cresciuta a Miami. Laureata ad Harvard con il massimo dei voti, la neogiudice, prima di entrare in magistratura, è stata reporter nel 1992 e 1993 della rivista Time.

Jackson, come sottolinea la Cnn, è la prima giudice in trent’anni ad aver lavorato come avvocata d’ufficio, figura che garantisce il diritto di difesa ai meno abbienti, per «aiutare le persone bisognose e promuovere i valori costituzionali fondamentali», aveva sottolineato, «come il diritto alla rappresentanza legale per chiunque sia accusato di condotta criminale dal governo, indipendentemente dalla ricchezza e nonostante la natura del accuse».

Un ruolo in cui ha vinto battaglie non comuni contro il governo, fa notare il Washington Post, riuscendo a ridurre o cancellare lunghe pene detentive. Come difensore d’ufficio infatti si è occupata principalmente di difendere gli imputati davanti alla Corte d’appello. 

È stata molto contestata dai repubblicani per aver difeso i detenuti di Guantánamo Bay – campo di prigionia di massima sicurezza sull’isola di Cuba dove sono state recluse persone sospettate di aver preso parte all’attacco terroristico dell’11 settembre, e dove vengono sistematicamente violati i diritti dei detenuti. Presentando una memoria alla Corte suprema, la giudice aveva contestato con successo le modalità di detenzione da parte del governo di chi si trovava nel campo di prigionia.

Entrata a far parte del tribunale distrettuale a Washington nel 2013, scelta dall’ex presidente Barack Obama, è rimasta in carica per 8 anni, fino a che non è stata nominata da Joe Biden, appena insediato alla Casa Bianca, membro della Corte d’appello federale di Washington. È stata anche membro dell’organo direttivo dell’università di Harvard.

LA CORTE SUPREMA

Con la nomina di Ketanji Brown Jackson, la Corte suprema in maggioranza repubblicana è stata leggermente ribilanciata, vista l’età della neogiudice che rimarrà in carica a vita, o fino a che non si dimetterà, e garantirà una presenza progressista per lungo tempo. È la prima candidata di un presidente democratico ad essere riconfermata in 12 anni: l’ultima fu Elena Kagan nel 2010, nominata da Barack Obama. Tre dei nove membri della Corte, invece, sono stati nominati dall’ex presidente Donald Trump, in soli quattro anni. 

La Corte suprema è giudice di ultimo grado per le controversie civili e penali e ha il compito di tutelare e interpretare la Costituzione. Esercita inoltre un importante controllo sul potere del governo ed è chiamata a decidere su controversie rilevanti per la società statunitense, come quelle sui diritti civili e sociali. 

MARIKA IKONOMU. Giornalista freelance e videomaker. È laureata in Giurisprudenza e ha frequentato la scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Collabora con Questione Giustizia

A Boston i funerali di Sacco e Vanzetti. «La Gazzetta di Puglia» del 28 agosto 1927. Torremaggiore, il cronista intervista, sei anni dopo, il padre di uno dei due anarchici giustiziati negli Usa nel 1921. Annabella De Robertis su La Gazzetta del mezzogiorno il 28 Agosto 2022.

«Oggi si terranno a Boston i funerali di Sacco e Vanzetti»: è l’annuncio che appare su «La Gazzetta di Puglia» del 28 agosto 1927. Nicola Sacco, nato a Torremaggiore, e il piemontese Bartolomeo Vanzetti erano stati accusati di aver ucciso una guardia e un cassiere nel corso di una rapina nel Massachusetts. I due anarchici, emigrati negli Stati Uniti, furono condannati a morte nel 1921. A nulla servì la mobilitazione di capi di Stato, intellettuali e gente comune da ogni parte del mondo contro quello che nei fatti fu un processo politico, svoltosi in un Paese in cui regnava un clima di odio per lo straniero e una diffusa «paura dei rossi». La sentenza fu eseguita il 23 agosto 1927.

«Sacco e Vanzetti sono stati giustiziati. Giustiziati? È stata fatta giustizia? Ecco l’angoscioso interrogativo che ancora oggi ci rivolgiamo» – si legge sul quotidiano. «Mentre da ogni parte del mondo, dai testimoni, si adducevano nuove prove, si accumulavano nuovi alibi, mentre centinaia di uomini illustri, europei e americani, facevano appello a Coolidge, il Supremo Collegio di Washington respingeva il ricorso, e il Governatore Fuller negava la grazia. I due italiani morivano sulla sedia elettrica. Non spetta a noi dare un giudizio intorno a questa sentenza; ma ci sia permesso domandarci: se a tanti, a tantissimi, a milioni di uomini che avevano seguito da vicino le vicende giudiziarie dei due disgraziati, era sorto il dubbio che fossero innocenti; come e perché quel dubbio non ha mai toccato i cuori le menti dei giudici del Massachusetts? [...] Forse giustizia è stata fatta, ma forse, anche, è stato commesso uno spaventoso errore giudiziario».

Il primo a morire sulla sedia elettrica è stato il portoghese Celestino Madeiros, che invano aveva cercato di salvare Sacco e Vanzetti con la sua confessione. Il giorno in cui è arrivata la notizia, il cronista della «Gazzetta» era a Torremaggiore, dove viveva ancora l’anziano padre di Sacco: «Si sforza di apparire sereno, ma si tradisce. E quasi mi interroga con gli occhi. Invoca da me una parola di assicurazione perché ormai anche la sua fede vacilla. L’ultima lettera del suo Ferdinando, recapitatagli or son pochi giorni dalle pietose dame americane, e lettagli, me presente, gli suona forse ancora dolce: “Sii forte, babbo, la mia innocenza sarà provata ed io ritornerò ad abbracciarti..”. Gli comunico che devo andare al telefono ed egli mi lascia allontanare, seguendomi fissamente con lo sguardo. Quando ritorno dalla redazione mi è stata trasmessa la tragica nuova: il vecchio intuisce. Nessuna domanda mi rivolge. Piega il mento sul petto e abbassa le palpebre, ha i pugni stretti sulle gambe».

Il caso Sacco e Vanzetti: dibattito alla Camera. Pugliese uno dei due condannati a morte in Usa: la questione è riportata sul «Corriere delle Puglie» del 21 marzo 1922. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Marzo 2022. 

È il giorno in cui a Roma si discute il caso di Sacco e Vanzetti. L’intero dibattito parlamentare, svoltosi il giorno prima alla Camera dei deputati, è riportato sul «Corriere delle Puglie» del 21 marzo 1922. Tra le interpellanze più rilevanti c’è quella presentata dell’on. Mucci al Ministro degli Esteri Schanzer: riguarda il caso Sacco e Vanzetti.

Leone Mucci, deputato socialista di San Severo, si è battuto strenuamente per sollecitare l'intervento istituzionale italiano in difesa dei due anarchici condannati a morte negli Stati Uniti nel 1921. Nicola Sacco, nato a Torremaggiore, in provincia di Foggia, è stato accusato, insieme al piemontese Vanzetti, di aver ucciso una guardia e un cassiere nel corso di una rapina nel Massachusetts. Appare subito chiaro all’opinione pubblica, non solo italiana, che si tratta di un processo politico, svolto in un clima d’isteria xenofoba. A fianco dell’odio per lo straniero, dopo la Grande guerra si era scatenata negli Usa una diffusa «paura dei rossi»: si temeva che l’ondata di scioperi in atto provocasse una rivoluzione sul modello di quanto accaduto in Russia nel ‘17. Mucci, in questo che non sarà il suo ultimo intervento sull’argomento alla Camera, auspica che l’Italia operi affinché non venga eseguita la condanna a morte dei due connazionali. Il processo non si è svolto con imparzialità, sostiene il deputato, non si è tenuto conto di testimonianze di alcune persone, solo perché italiane: si è voluto insomma punire la propaganda politica che i due facevano negli Stati Uniti, con l’imputazione di un reato mai commesso. Il Sottosegretario agli Esteri Tosti di Valminuta, leggiamo sempre sul «Corriere», risponde all'interpellanza assicurando il massimo impegno delle autorità diplomatiche nella difesa di Sacco e Vanzetti. Non basterà: la sentenza sarà eseguita il 23 agosto 1927.

Un altro titolo riguarda la città di Andria, che si rivela essere in Puglia epicentro dei furti di bestiame. L’abigeato è tra i reati più remunerativi, si legge sul «Corriere» del 20 marzo, in quanto garantisce impossibilità di identificazione e, quindi immunità. Non stupisce che sia Andria ad avere questo primato: «i focolai d’infezione sono proprio nelle grandi città, ove accanto alle forze produttive, vi sono nuclei di parassiti che vivono percorrendo le vie del vizio», scrive amaro il cronista. Lungo l’elenco dei sequestri di animali, effettuati dalle forze dell'ordine: cavalli, muli e asini, spariti dalle contrade, vengono ritrovati nelle abitazioni dei ladri. Il vice commissario di Pubblica Sicurezza ha disposto più frequenti perlustrazioni nelle campagne della provincia.

Sacco e Vanzetti, novant'anni fa la condanna a morte che cambiò la storia. I due anarchici italiani furono ingiustamente condannati e uccisi nel 1927 sulla sedia elettrica negli Usa, scrive il 23 agosto 2017 "La Repubblica". Novant'anni fa divennero il simbolo dell'ingiustizia contro le proteste sociali. Accusati di un duplice omicidio nel corso di una rapina, dopo un processo farsa, gli emigrati anarchici italiani Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti furono processati negli Usa in un clima antisindacale e xenofobo, e condannati alla sedia elettrica. Entrambi facevano parte del collettivo anarchico italo-americano in lotta contro il razzismo. A nulla valse la confessione di un detenuto che aveva partecipato al colpo e che disse di non averli mai visti. La sentenza fu eseguita a Charlestown il 23 agosto 1927. Nel 1977 il governatore del Massachusetts, Michael Dukakis, riconobbe ufficialmente l'errore giudiziario e riabilitò la memoria di Sacco e Vanzetti. In occasione dei 90 anni dalla loro morte e dei 40 anni dalla loro completa riabilitazione, diverse le iniziative anche nella Granda, Bartolomeo Vanzetti era di Villafalletto. Sacco, un calzolaio, e Vanzetti, un pescivendolo, sono state vittime di un'ondata repressiva che investì l'America di Woodrow Wilson. In Italia, comitati e organizzazioni contrari alla sentenza spuntarono come funghi non appena fu annunciata. Non c'è probabilmente un solo quotidiano italiano che non abbia dedicato un articolo a questo caso, ogni 23 agosto, dal 1945 a oggi. La storia di "Nick e Bart", di "Tumlin", come conoscevano Vanzetti a Villafalletto, continua a essere oggetto di ricerche, libri e manifestazioni. Nel 2014, nel cortile della casa natale di Vanzetti è stato proiettato il video "clandestino" dei funerali perché erano state vietate foto e riprese, e nel 2015, il sindaco Pino Sarcinelli ha assegnato la cittadinanza onoraria di Villafalletto a Giuliano Montaldo, regista del film Sacco e Vanzetti con Gian Maria Volontè e la colonna sonora di Ennio Morricone.

La storia dei due anarchici è stata ripresa da cinema e teatro. La loro morte, 80 anni fa, è destinata a rimanere nella nostra mente.

Sacco e Vanzetti, una sporca faccenda nell'America della pena capitale, scrive Andrea Camilleri il 24 agosto 2007 su “La Repubblica". Il secolo che ci siamo lasciati alle spalle appena sette anni fa è stato brillantemente descritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm "il secolo breve". Una definizione forse più esatta, però, sarebbe "il secolo compresso", perché mai un periodo di 100 anni ha visto così tante guerre mondiali, così tanti progressi scientifici e tecnologici, così tante rivoluzioni, così tanti eventi epocali ammonticchiati l'uno sull'altro. Il secolo passato sembra come una valigia troppo piccola per contenere tutto quello che è successo: è troppo piena di vestiti vecchi, e ce ne sono alcuni che ci impediscono di chiuderla e metterla via in soffitta una volta per tutte. Uno di questi è il caso di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti. Nel secolo trascorso, milioni di uomini e donne sono morti in guerre, epidemie, genocidi e persecuzioni, e purtroppo la loro memoria corre serissimo rischio di scomparire. Eppure la morte di Sacco e Vanzetti sulla sedia elettrica 80 anni fa, così come la morte di John e Robert Kennedy sotto i proiettili dei killer, sono destinate a rimanere nella nostra mente. Forse perché, come per i fratelli Kennedy, troviamo ancora difficile accettare le ragioni, o la mancanza di ragioni, della loro morte. E in Italia, dove l'omicidio insensato (o fin troppo sensato) è stato per lungo tempo un elemento del panorama politico, questo disagio lo si avverte con asprezza. Nel caso di Sacco e Vanzetti, sembrò subito chiaro a molti, in Europa e negli Stati Uniti, che il loro arresto, nel 1920 - inizialmente per possesso di armi e materiale sovversivo, poi con l'accusa di duplice omicidio commesso nel corso di una rapina nel Massachusetts - i tre processi che seguirono e le successive condanne a morte erano pensati per dare, attraverso di loro, un esempio. E questo nonostante la completa mancanza di prove a loro carico, e a dispetto della testimonianza a loro favore di un uomo che aveva preso parte alla rapina e che disse di non aver mai visto i due italiani. La percezione era che Sacco, un calzolaio, e Vanzetti, un pescivendolo, fossero le vittime di un'ondata repressiva che stava investendo l'America di Woodrow Wilson. In Italia, comitati e organizzazioni contrari alla sentenza spuntarono come funghi non appena essa fu annunciata. Quando la sentenza fu eseguita, nel 1927, il fascismo era al potere in Italia da quasi cinque anni e consolidava brutalmente la propria dittatura, perseguitando e imprigionando chiunque fosse ostile al regime, inclusi naturalmente gli anarchici. Eppure, quando Sacco e Vanzetti furono giustiziati, il più grande quotidiano italiano, il Corriere della sera, non esitò a dedicare alla notizia un titolo a sei colonne. In bella evidenza tra occhielli e sottotitoli campeggiava un'affermazione: "Erano innocenti". Non c'è probabilmente un solo quotidiano italiano che non abbia dedicato un articolo a questo caso, ogni 23 agosto, dal 1945 a oggi. Nel 1977 fu dato grande risalto alla notizia che Michael Dukakis, all'epoca governatore del Massachusetts, aveva riconosciuto ufficialmente l'errore giudiziario e aveva riabilitato la memoria di Sacco e Vanzetti. In Italia, la loro storia diventò il soggetto di uno spettacolo teatrale, che ebbe grande successo prima di venire trasformato, nel 1971, in un bellissimo film, diretto da Giuliano Montaldo, con splendide interpretazioni e una colonna sonora di Ennio Morricone, che comprendeva anche canzoni di Joan Baez. (Anche l'album di Woody Guthrie, Ballads of Sacco and Vanzetti, del 1960, ebbe un grande successo in Italia.). E nel 2005, la Rai, la televisione pubblica italiana, ha prodotto un lungo programma sui due italiani giustiziati. (Stranamente, per qualche ragione, la Rai non ha mai trasmesso, nonostante ne abbia acquisito i diritti molto tempo fa, The Sacco-Vanzetti Story, un film per la televisione girato nel 1960 da Sydney Lumet.) E adesso un sito italiano ospita una vivace discussione sul caso dei due anarchici. Uno dei tanti partecipanti al dibattito scrive: "L'unica colpa di quei poveracci era di lottare contro il razzismo e la xenofobia". E un altro: "Che cosa è cambiato? La pena di morte in America esiste ancora, certe volte perfino per degli innocenti, e il razzismo e la xenofobia sono in aumento". E un terzo: "È impossibile fare paragoni fra quel periodo e questo. Oggi i tribunali fanno errori, errori gravi, ma comunque errori, mentre allora fu commesso un omicidio bello e buono, a fini esclusivamente politici. E anche se il razzismo è ancora vivo e vegeto negli Stati Uniti, sono stati fatti grandi passi avanti". Infine, una conclusione: "Fu una faccenda sporca in un'epoca difficile". Una faccenda sporca davvero se gli italiani, solitamente indulgenti verso la terra che ha accolto così tanti loro concittadini bisognosi che partivano emigranti, ci si soffermano ancora, dopo tutti questi anni. Il dibattito, a quanto sembra, è tuttora in corso. Un segnale, forse, che la ferita non si è ancora cicatrizzata. E che ancora, per quanto ci sforziamo, non riusciamo a chiudere quella valigia. Copyright The New York Times Syndicate. Traduzione di Fabio Galimberti.

23 agosto 1927, Sacco e Vanzetti: storia di due emigrati italiani condannati a morte. I due anarchici sono condannati alla sedia elettrica con l’accusa di omicidio durante una rapina. La faziosità del verdetto suscita proteste in tutto il mondo. Per molti la condanna rientra nella «politica del terrore» promossa dal Ministro della Giustizia Usa. Nel 1977 il governatore del Massachusetts ammette gli errori fatti nel processo e ne riabilita la memoria, scrive Silvia Morosi il 22 agosto 2017 su “Il Corriere della Sera".

L’accusa di omicidio. Assassini per l’America, eroi per l’Europa. Esempio di «giustizia crocefissa» (come titolò un giornale), celebrati da Woody Guthrie e Joan Baez, ricordati da Giuliano Montaldo nel 1971 con due indimenticabili Gian Maria Volontè e Riccardo Cucciolla. E’ il 23 agosto 1927. Ferdinando Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, anarchici italiani emigrati negli Stati Uniti, venivano condannati alla sedia elettrica con l’accusa di aver ucciso, nel corso di una rapina, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril. I dubbi sulla loro responsabilità e la confessione di un detenuto portoricano che li mostrava innocenti non valsero a nulla: Sacco e Vanzetti furono condannati a morte. Nel penitenziario di Charlestown, a distanza di sette minuti l’uno dall’altro, furono legati alla sedia elettrica e vi persero la vita in un giorno di agosto di 90 anni fa (qui l’approfondimento «Sacco e Vanzetti: la giustizia crocifissa»).

I due protagonisti. Sacco era un ciabattino della provincia di Foggia; Vanzetti un pescivendolo del cuneese. Il 23 agosto 1977, a cinquant’anni esatti dalla loro morte, Michael Dukakis, durante il suo primo mandato di governatore del Massachusetts, riabilitò la memoria di Sacco e Vanzetti ammettendo che con ogni probabilità, nel giudicare i due anarchici, erano stati commessi errori e ingiustizie. «Al centro immigrazione ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America». E in seguito scrisse: «Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era la Terra Promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando e non rispondeva niente. Le automobili e i tram passavano oltre senza badare a me», dirà Vanzetti al processo, ricordando l’arrivo a New York sulla nave «La Provence» il 19 giugno 1908, quando ha vent’anni.

Il clima di terrore. Era proprio «ingiustizia» la parola che dominava le opinioni sulla vicenda: la sensazione generale era che alla base del verdetto di condanna di Sacco e Vanzetti vi fosse nient’altro che la politica del terrore che caratterizzava il clima politico statunitense di quegli anni, instaurata indiscriminatamente contro anarchici, operai, sindacalisti e masse popolari che auspicavano un riscatto sociale.

Il processo. La morte di Sacco e Vanzetti volle essere allora, probabilmente, una dimostrazione esemplare. Su di loro si rovesciava il pregiudizio nei confronti degli immigrati: durante il processo, il giudice li chiamò più volte «bastardi». Vanzetti, che conosceva l’inglese meglio di Sacco, pronunciò al giudice queste parole: «Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra, ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole». Riportiamo qui un passaggio dall’epistolario di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti: «Mai, vivendo l’intera esistenza, avremmo potuto sperare di fare così tanto per la tolleranza, la giustizia, la mutua comprensione fra gli uomini» (Bartolomeo Vanzetti, alla giuria che lo condannò alla pena di morte).

Il sostegno di Mussolini. Quando la condanna a morte fu resa nota, le strade si riempirono di gente, e le voci della manifestazione accompagnarono Sacco e Vanzetti fino al giorno della loro morte, dieci giorni dopo. Anche l’Italia fu scossa: Benito Mussolini, nonostante l’ideologia politica lo allontanasse da Sacco e Vanzetti, si adoperò perché i due italiani fossero risparmiati. Anche numerosi intellettuali, tra cui Albert Einstein e Bertrand Russell, sostennero con una campagna Sacco e Vanzetti. Ma ogni iniziativa fu inutile: i due trovarono la morte su una sedia elettrica, scatenando indignazione e rivolte.

La confessione e le manifestazioni. Nemmeno la confessione di un gangster, Celestino Madeiros, che ha ammesso di essere stato lui l’autore della rapina insieme a due complici, porta alla riapertura del processo. Petizioni e manifestazioni si susseguono, in America Latina, negli Stati Uniti, in Europa. Le ambasciate Usa sono assediate. Folle immense manifestano a New York, Detroit, Philadelphia. I funerali sono seguiti da 400.000 persone che portano un bracciale dove è scritto: «La giustizia è stata crocifissa. Ricordatevi del 23 agosto 1927». E’ a causa delle loro idee – che non hanno mai rinnegato durante tutti i lunghi sette anni che hanno preceduto l’esecuzione – che i due militanti sono stati uccisi. Ed è grazie a questa loro fedeltà alle proprie convinzioni che sono entrati nella leggenda del movimento operaio.

La sedia elettrica come strumento di morte. La sedia elettrica fu introdotta negli Stati Uniti nel 1888 per sostituire l’impiccagione, considerata troppo cruenta. Il tempo massimo di sopravvivenza, legati a una sedia elettrica, è di quindici minuti: durante questo arco di tempo, il condannato, colpito da potenti scariche elettriche, muore per arresto cardiaco o crisi respiratoria. Meno cruento, come metodo? La pena di morte è in sé argomento molto dibattuto: in ventuno stati è stata abolita; otto stati sono in moratoria. Lo stato più attivo in questo senso, con il numero più alto di esecuzioni capitali, attualmente è il Texas. Gli Stati Uniti vedono, nella storia delle esecuzioni capitali, l’utilizzo di diversi metodi: dall’impiccagione, alla camera a gas, alla sedia elettrica, all’iniezione letale. Esiste metodo più “umano” di un altro, quando si condanna a morte qualcuno? Senza contare l’effettività del rischio di giustiziare degli innocenti.

Il memoriale. Nel 1977 sono stati completamente riabilitati quando il governatore dello Stato del Massachusetts Michael s. Dukakis riconobbe gli errori giudiziari commessi nei loro confronti. A distanza di quasi 90 anni, Sacco e Vanzetti sono ancora una ferita nella storia americana. Nel 1977 il governatore Dukakis istituì anche il «Sacco and Vanzetti memorial day», celebrato da allora ogni 23 agosto. «Il processo e l’esecuzione di Sacco e Vanzetti - scrisse - devono ricordarci sempre che tutti i cittadini dovrebbero stare in guardia contro i propri pregiudizi e contro l’intolleranza verso le idee non ortodosse, con l’impegno di difendere sempre i diritti delle persone che consideriamo straniere per il rispetto dell’uomo e della verità».

La vicenda al cinema. Boston, 1920. Due immigrati italiani, Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, vengono accusati di rapina a mano armato e di omicidio... La storia viene raccontata anche da Giuliano Montaldo nel 1971, in un film che passa alla storia. Nel cast Gian Maria Volontè, Riccardo Cucciolla, Cyril Cusak e Geoffrey Keen. Realizzata quando in Italia era ancora vivo l’eco della strage di Piazza Fontana del 1969 — con l’accusa dei due anarchici Valpreda e Pinelli — la pellicola fa esplicito riferimento a questo avvenimento, nello stesso tempo non si appiattisce sul presente il fulcro della narrazione sono i due anarchici italiani.

Il mistero (svelato) delle ceneri. L’occasione per ritornare sulla vicenda arriva anche dalla pubblicazione del libro di Luigi Botta, «La marcia del dolore» (Nova Delphi, 2017), nome con il quale è comunemente noto il funerale dei due. Questo nuovo volume, contrariamente a quanto si è detto e scritto per decenni spiega come le ceneri di Sacco e Vanzetti – accusati di aver ucciso nel corso di una rapina a mano armata, il cassiere e la guardia giurata del calzaturificio Slater and Morril che trasportavano 16.000 dollari – non siano state mescolate. Bensì suddivise in due urne, che per l’uno e per l’altro hanno seguito strade autonome. Le due metà di Vanzetti sono a Villafalletto e a Boston; una metà di Sacco è a Torremaggiore e l’altra si è persa a casa della moglie Rosa Sacco.

Nicola e Barth sono così lontani? Scrive Piero Sansonetti il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Li uccisero dopo un processo farsa perchè erano anarchici, ma soprattutto perchè erano italiani. Provarono a salvarli in tanti. Da Mussolini a Einstein. Ma non ci fu niente da fare. 1927, 23 agosto: l’establishment americano aveva deciso che quei due italiani dovevano morire sulla sedia elettrica. Siamo sicuri che Sacco e Vanzetti siano così lontani nel tempo? Pensate un po’, per salvarli si mossero personalità molto, molto distanti tra loro: Benito Mussolini, Albert Einstein, Bertrand Russel. Cioè il capo del fascismo e due dei più grandi intellettuali di sinistra del novecento. E poi altre milioni di persone, che manifestarono, furiose, in tutto il mondo. A Boston, a New York, a Parigi, a Roma a Foggia. Ma il governatore del Massachusetts, che si chiamava Alvan Fuller, ed era un repubblicano di sinistra, fu irremovibile, non concesse la grazia. Così come non concesse la grazia il presidente degli Stati Uniti, repubblicano anche lui, Calvine Coolidge. La mattina del 23 agosto del 1927, giusto novant’anni fa, Nicola Sacco, operaio pugliese, e Bartolomeo Vanzetti, pescivendolo piemontese, furono accompagnati nella camera della morte della prigione di Charlestown, vicino Boston, legati alla sedia elettrica e uccisi. Erano stati condannati a morte quattro mesi prima da una corte del Massachusetts. Nicola aveva 37 anni, fu ucciso per primo. Barth ne aveva 39, fu ucciso sette minuti dopo la morte del suo amico. Erano anarchici, ma soprattutto erano italiani: immigrati italiani. Erano arrivati in America da poco meno di vent’anni. Nicola parlava bene l’inglese. Bartolomeo appena appena. Li accusavano di una rapina e di un duplice omicidio avvenuti a Boston, in una fabbrica di scarpe, sette anni prima. Ma loro erano innocenti: assolutamente innocenti. Al processo non fu portata una mezza prova bucata della loro colpevolezza. E fu scartata la testimonianza- confessione di un gangster americano, un certo Celestino Madeiros, il quale aveva ammesso di essere sta- to lui, insieme a due complici, a fare quella rapina sanguinosa. E aveva detto che lui, in tutta la sua vita, Sacco e Vanzetti non li aveva mai visti. Ci vollero 50 anni perché lo Stato del Massachusetts riconoscesse l’errore. Successe nell’agosto del 1977, quando il governatore Mike Dukakis, futuro candidato alla presidenza (sconfitto da Bush padre) firmò la riabilitazione, e diede il via alla costruzione di un museo, e alla realizzazione di una scultura. Dukakis era un tipo che non amava affatto la giustizia sommaria. Era un intellettuale liberal. Tra i tanti candidati alla Presidenza degli Stati uniti, negli ultimi due secoli e mezzo, forse è stato l’unico che si pronunciò a voce altra contro la pena di morte. E pagò caro. In uno degli incontri ufficiali con Bush, in Tv, al quale partecipavano anche i giornalisti, un giornalista gli chiese: «Se un bandito uccide tua moglie, tu sei favorevole o no alla pena di morte per quel bandito?». Dukakis scosse la testa. «No», disse. In pochi minuti, nei sondaggi, Dukakis, che era in testa, perse 10 punti e non li recuperò mai più: la corsa alla casa Bianca si fermò li, il voto di novembre fu una formalità. La storia di Sacco e Vanzetti negli anni settanta fu raccontata in Italia in un film molto commovente e vibrante di Giuliano Montaldo. I due anarchici erano interpretati da Gian Maria Volontè e da Riccardo Cucciolla. La colonna sonora l’aveva scritta Ennio Morricone: erano delle canzoni e le cantò Johan Baetz. Ebbe un grande successo. Andò nelle sale poco più di un anno dopo la strage di piazza Fontana e la morte di Pino Pinelli (anarchico ingiustamente sospettato per la strage) e mentre Pietro Valpreda, anche lui anarchico e anche lui ingiustamente sospettato, era ancora in carcere. Il processo a Nicola e Barth fu un inno al razzismo e al giustizialismo dell’epoca. Il razzismo e il giustizialismo, di solito, vanno a braccetto. Non c’era sostanza giuridica, in quel processo, ma c’era molta, molta politica. La politica subiva un vento di intolleranza, e di fastidio per l’ondata di migranti italiani, che avevano invaso (come si dice adesso) il New England. Una parte della popolazione, soprattutto nei settori più reazionari, non li sopportava, voleva qualcosa di esemplare. E come spesso succede in questi casi, la politica lascia alla magistratura il compito di agire e di compiere atti esemplari. Adopera i giudici come uomini di mano. Al processo si usarono continuamente termini, un testimone riferì che era certo della colpevolezza di Sacco, perché lo aveva visto da dietro. Da dietro? Si, disse lui, ma non c’è dubbio che camminasse con una andatura da straniero. Anzi da italiano. Fu preso in parola. Naturalmente trnare a parlare di Sacco e Vanzetti, della loro storia atroce, serve a ricordarci quando ignobile, ancora oggi, sia la pena di morte. E a sollevare degli interrogativi seri su questo atroce punto debole della democrazia americana. Però a me viene in mente anche qualche altra suggestione. Mentre scrivo del sistema giustizia che rinuncia allo Stato di diritto e si mette a servizio di una campagna politica contro gli immigrati, non riseco a non pensare, un po’, a certi toni, a certe ventate reazionarie di oggi. La giuria di Boston calcolò che la vita di quei due pezzenti italiani valeva molto meno di una campagna politica. Oggi magari non sarà più così. Però. Però… Siamo sicuri che siano così lontani, nel tempo Nicola e Barth?

Sacco e Vanzetti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.» (Il proclama del 23 agosto 1977, con il quale l'allora governatore del Massachusetts Michael Dukakis assolveva i due anarchici italiani dal crimine a loro attribuito, esattamente 50 anni dopo la loro esecuzione sulla sedia elettrica).

Ferdinando Nicola Sacco (Torremaggiore, 22 aprile 1891 – Charlestown, 23 agosto 1927) e Bartolomeo Vanzetti (Villafalletto, 11 giugno 1888 – Charlestown, 23 agosto 1927) sono stati due attivisti e anarchici italiani. Sacco di professione faceva l'operaio in una fabbrica di scarpe. Vanzetti, invece, che gli amici chiamavano Tumlin, dopo aver a lungo girovagato negli Stati Uniti d'America facendo molti lavori diversi, rilevò da un italiano un carretto per la vendita del pesce; ma fece questo lavoro per pochi mesi. I due furono arrestati, processati e condannati a morte con l'accusa di omicidio di un contabile e di una guardia del calzaturificio «Slater and Morrill» di South Braintree. Sulla loro colpevolezza vi furono molti dubbi già all'epoca del loro processo; a nulla valse la confessione del detenuto portoghese Celestino Madeiros, che scagionava i due. I due furono giustiziati sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927 nel penitenziario di Charlestown, presso Dedham. A cinquant'anni esatti dalla loro morte, il 23 agosto 1977 Michael Dukakis, governatore dello Stato del Massachusetts, riconobbe ufficialmente gli errori commessi nel processo e riabilitò completamente la memoria di Sacco e Vanzetti.

L'incontro. Nicola Sacco viaggia sulla motonave «Romanic» verso gli Stati Uniti d'America e giunge a Boston il 12 aprile del 1909; Bartolomeo Vanzetti, invece, raggiunge New York su «La Provence» il 19 giugno 1908, quando ha vent'anni; i due non si conoscono. Vanzetti, al processo, descriverà così l'esperienza dell'immigrazione: "Al centro immigrazione ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America". Poi, in seguito scriverà: "Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era per me come la Terra Promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando e non rispondeva niente. Le automobili e i tram passavano oltre senza badare a me".

Sacco nacque a Torremaggiore, in provincia di Foggia, il 22 aprile del 1891 da una famiglia di produttori agricoli e commercianti di olio e vino. Trovò lavoro in una fabbrica di calzature a Milford dove, nel 1912, sposò Rosina Zambelli, con la quale andò ad abitare in una casa con giardino ed ebbe un figlio, Dante, e una figlia, Ines. Lavorava sei giorni la settimana, dieci ore al giorno. Nonostante ciò, partecipava attivamente alle manifestazioni operaie dell'epoca, attraverso le quali i lavoratori chiedevano salari più alti e migliori condizioni di lavoro. In tali occasioni teneva spesso dei discorsi. A causa di queste attività fu arrestato nel 1916.

Vanzetti nacque a Villafalletto, in provincia di Cuneo, l'11 giugno del 1888, primogenito dei quattro figli di Giovanna Nivello (1862-1907) e Giovanni Battista Vanzetti (1849-1931), modesto proprietario terriero e gestore di una piccola caffetteria. Pur non vivendo in ristrettezze economiche, a spingerlo a emigrare negli Stati Uniti furono soprattutto l'improvvisa e tragica morte dell'amata madre, che lo portò quasi alla follia, e probabilmente una consuetudine familiare (anche il padre era stato emigrante per un breve periodo, dal 1881 al 1883 in California). Fece molti lavori, accettando tutto ciò che gli capitava. Lavorò in varie trattorie, in una cava, in un'acciaieria e in una fabbrica di cordami, la Plymouth Cordage Company. Spirito libero e indipendente, era un avido lettore soprattutto delle opere di Marx, Darwin, Hugo, Gorkij, Tolstoj, Zola e Dante. Nel 1916 guidò uno sciopero contro la Plymouth e per questo motivo nessuno volle più dargli un lavoro. Più tardi, nel 1919, si mise in proprio facendo il pescivendolo fino al momento dell'arresto.

Fu in quell'anno, il 1916, che Sacco e Vanzetti si conobbero ed entrarono entrambi a far parte di un gruppo anarchico italo-americano. Allo scoppio della Grande Guerra, tutto il collettivo fuggì in Messico per evitare la chiamata alle armi, poiché per un anarchico non c'era niente di peggio che uccidere o morire per uno Stato. Nicola e Bartolomeo fecero ritorno nel Massachusetts al termine del conflitto, non sapendo però di essere stati inclusi in una lista di sovversivi compilata dal Ministero di Giustizia, così come di essere pedinati dagli agenti segreti statunitensi. Nella stessa lista era incluso anche un amico di Vanzetti, il tipografo Andrea Salsedo, originario dell'isola di Pantelleria. Questi, il 3 maggio del 1920, fu trovato sfracellato al suolo alla base del grattacielo di New York dove al quattordicesimo piano aveva sede il Boi (Bureau of Investigation), dove Salsedo era tenuto illegalmente prigioniero ormai da lungo tempo, insieme a Roberto Elia. Vanzetti organizzò un comizio, su invito di Carlo Tresca, per protestare contro la vicenda, comizio che avrebbe dovuto avere luogo a Brockton il 9 maggio, ma insieme a Sacco fu arrestato prima, perché trovati in possesso entrambi di una rivoltella e Vanzetti di alcuni appunti da destinarsi alla tipografia per l'annuncio del comizio di Brockton. Pochi giorni dopo furono accusati anche di una rapina avvenuta a South Braintree, un sobborgo di Boston, poche settimane prima del loro arresto; in tale occasione erano stati uccisi a colpi di pistola il cassiere della ditta (il calzaturificio «Slater and Morrill») e una guardia giurata.

Verdetto condizionato. A parere di molti, alla base del verdetto di condanna, da parte di polizia, procuratori distrettuali, giudice e giuria vi furono pregiudizi e una forte volontà di perseguire una politica del terrore suggerita dal ministro della giustizia Palmer e culminata nella vicenda delle espulsioni. Sotto questo aspetto, Sacco e Vanzetti erano considerati due agnelli sacrificali, utili per testare la nuova linea di condotta contro gli avversari del governo. Erano infatti immigrati italiani con una comprensione imperfetta della lingua inglese; erano inoltre note le loro idee politiche radicali. Il giudice Webster Thayer li definì senza mezze parole due bastardi anarchici. Il Governatore del Massachusetts Alvan T. Fuller, che avrebbe potuto impedire l'esecuzione, rifiutò infine di farlo, dopo che un'apposita commissione da lui istituita per riesaminare il caso riaffermò le motivazioni della sentenza di condanna.

Si trattava di un periodo della storia statunitense caratterizzato da un'intensa paura dei comunisti, la paura rossa del 1917-1920. Né Sacco né Vanzetti si consideravano comunisti e Vanzetti non aveva nemmeno precedenti con la giustizia, ma i due erano conosciuti dalle autorità locali come militanti radicali coinvolti in scioperi, agitazioni politiche e propaganda contro la guerra.

Dall'ultimo discorso di Vanzetti alla corte prima della pronuncia della sentenza. Sacco e Vanzetti si ritenevano vittime del pregiudizio sociale e politico. Vanzetti, in particolare, ebbe a dire rivolgendosi per l'ultima volta al giudice Thayer: «Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste creature ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano [...] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già.» (dal discorso di Vanzetti del 9 aprile 1927, a Dedham, Massachusetts)

La protesta. Quando il verdetto di morte fu reso noto, si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, a Boston. La manifestazione durò ben dieci giorni, fino alla data dell'esecuzione. Il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown. La polizia e la guardia nazionale li attendevano dinanzi al carcere e sopra le sue mura vi erano mitragliatrici puntate verso i manifestanti.

L'intervento del governo italiano. Il caso di Sacco e Vanzetti scosse molto l'opinione pubblica italiana di allora e anche il governo fascista prese posizione e si mosse attivamente a sostegno dei due connazionali, nonostante le loro idee politiche. Anche Benito Mussolini riteneva il tribunale statunitense «pregiudizialmente prevenuto» nel giudicare Sacco e Vanzetti e, a partire dal 1923 fino all'esecuzione della condanna a morte nel 1927, i funzionari del Ministero degli Esteri, l'ambasciatore italiano a Washington e il Console italiano a Boston operarono presso le autorità degli Stati Uniti per ottenere prima una revisione del processo e poi la grazia per i due italiani. Lo stesso Mussolini un mese prima dell'esecuzione scrisse direttamente una lettera in cui chiedeva all'ambasciatore statunitense a Roma Henry Fletcher di intervenire presso il Governatore del Massachusetts per salvare la vita dei due condannati a morte.

Intellettuali pro Nick e Bart ed epilogo. Molti famosi intellettuali, compresi George Bernard Shaw, Bertrand Russell, Albert Einstein, Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, John Dewey, John Dos Passos, Upton Sinclair, H. G. Wells e Arturo Giovannitti (il quale fu protagonista di un caso simile) sostennero a favore di Nick e Bart (come venivano chiamati) una campagna per giungere a un nuovo processo. Perfino il premio Nobel francese Anatole France invocò la loro liberazione sulle pagine del periodico "Nation", paragonando l'ingiustizia da loro subita a quella di Alfred Dreyfus. Purtroppo tutte queste iniziative non produssero alcun risultato rilevante per la grazia dei due condannati. Il 23 agosto 1927 alle ore 00:19, dopo sette anni di udienze, i due uomini vennero uccisi sulla sedia elettrica a distanza di sette minuti l'uno dall'altro (prima toccò a Sacco, poi a Vanzetti). La loro esecuzione innescò rivolte popolari a Londra, Parigi e in diverse città della Germania. Una bomba di probabile matrice anarchica, nel 1928 devastò l'abitazione del giudice Webster Thayer, il responsabile della condanna di Sacco e Vanzetti; il giudice era assente e la bomba non colpì l'obiettivo, ferendo però la moglie e una domestica. I corpi dei due anarchici furono cremati e le due urne contenenti le ceneri furono trasportate da Luigina Vanzetti in Italia, dove sono custodite nei cimiteri dei loro comuni d'origine: Torremaggiore per Sacco e Villafalletto per Vanzetti; le ceneri di quest'ultimo sono conservate nella tomba dove riposano i genitori, le sorelle e il fratello. I due comuni hanno dedicato ciascuno una via ai due anarchici. e una scuola a Bartolomeo Vanzetti. Nel 2016 Amnesty International ha lanciato una campagna per i diritti umani nel mondo, in memoria di Sacco e Vanzetti e caratterizzata dalla canzone Here's to You dedicata da Joan Baez ai due anarchici nel 1971.

Il proclama di Dukakis. Il 23 agosto 1977, esattamente 50 anni dopo l'esecuzione, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, affermando: «Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti». Questa dichiarazione non significò però il riconoscimento dell'innocenza dei due italiani (negli ultimi cento anni, nessun condannato a morte statunitense è stato riabilitato dopo l'esecuzione).

DAGONEWS il 17 maggio 2022.

I documenti fiscali inchiodano definitivamente Patrisse Cullors, co-fondatrice di Black Lives Matter, che ha usato dell’organizzazione mettendoli in tasca a parenti e amici. 

Al fratello sono andati 840mila dollari per il servizio di sicurezza, al padre del figlio ha messo in tasca 970 mila euro per generici servizi creativi. Per non parlare dei 2.1 milioni di dollari pagati a una società di consulenza gestita dall’amico e regista Shalomyah Bowers. A questi si aggiungono i soldi per casi e voli. BLM ha chiuso il suo anno fiscale - che va dal 1 luglio 2020 al 30 giugno 2021 - con uno straordinario patrimonio netto di 42 milioni di dollari. 

Cullors si è dimessa da BLM l'anno scorso quando è scoppiato lo scandalo. Sul caso ci stanno lavorando due procuratori generali.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 5 aprile 2022.

Secondo i rapporti pubblicati, i leader dell'organizzazione Black Lives Matters avrebbero speso 6 milioni dei dollari donati al gruppo di attivisti per acquistare una villa di 2.000 metri quadrati nel sud della California. 

La notizia dell'acquisto, perfezionato nel 2020, è stata lanciata dal New York Magazine lunedì. L'organizzazione sperava di mantenere segreta l'esistenza della casa, nonostante tre delle sue ex leader si fossero filmate in una serie di video mentre cenavano e bevevano champagne fuori dalla tenuta la scorsa primavera.

Non è chiaro esattamente dove si trovi l'opulenta proprietà, ma secondo il New York Magazine vanta più di mezza dozzina di camere da letto e bagni, camini multipli, un palcoscenico, una piscina e bungalow e un parcheggio per più di 20 auto. 

La notizia arriva mentre la fondazione è sotto indagine dei federali per un presunto uso improprio dei fondi donati e dopo che la co-fondatrice, Patrisse Cullors, è stata costretta a dimettersi a maggio dell’anno scorso accusata di aver speso milioni di dollari per una sfilza di case sontuose.

Secondo quanto riferito, documenti e comunicazioni interne rivelano che la proprietà di lusso è stata gestita in modi che «offuscano i confini» tra l'uso di beneficenza e quelli a beneficio di alcuni dei leader dell'organizzazione, tra cui Cullors. La donna a giugno aveva condiviso il video di lei che si godeva un lussuoso brunch fuori dalla tenuta con i colleghi funzionari Alicia Garza e Melina Abdullah, che da allora hanno entrambe lasciato l'organizzazione.

La tenuta di sette camere da letto è stata acquistata da un uomo di nome Dyane Pascall due settimane dopo che BLM ha ricevuto 66,5 milioni di dollari dal suo sponsor fiscale nell'ottobre 2020. 

Pascall è il manager finanziario della "Janaya e Patrisse Consulting", una LLC gestita da Cullors e da sua moglie, Janaya Khan, secondo quanto riportato dal New York Magazine. Una settimana dopo l'acquisto, la proprietà è stata trasferita a una LLC nel Delaware, in modo che il nome del proprietario non venisse divulgato. 

Non è ancora chiaro quale scopo dovesse avere la villa, soprannominata "Campus", per gli scopi della fondazione. Quello che si sa, però, è che la proprietà è stata acquistata per poco meno di 6 milioni di dollari in contanti nell'ottobre 2020, con denaro che era stato donato al gruppo.  

Usa, se l'anti razzismo penalizza gli asiatici. Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 20 febbraio 2022.

Secondo l'enciclopedia Treccani, l'affirmative action - "azione positiva" - rappresenta quell'insieme di misure che possono essere intraprese da imprese o da altre istituzioni, quali università o istituzioni politiche, volte alla rimozione degli ostacoli che di fatto contrastano la realizzazione delle pari opportunità in ambito lavorativo ed educativo. Negli Stati Uniti è in corso un dibattito sul futuro delle affirmative action nelle Università e dei college: l'abuso di questo strumento normativo a favore di una minoranza razziale piuttosto che di un'altra sta infatti innescando un vero cortocircuito, nel quale la minoranza gli studenti afroamericani si ritrovano a essere fortemente avvantaggiati rispetto ad altre etnie, come gli asiatici. A parità di merito uno studente cinese, infatti, ha molte meno probabilità di entrare a Harvard rispetto a un afroamericano.

I dati parlano chiaro: il 12,7% degli studenti asiatici riesce ad essere ammesso, rispetto al 56,1% dei loro coetanei neri con capacità simili. Ciò è dovuto principalmente alle scarse valutazioni personali che le commissioni d'ammissione di Harvard assegnano costantemente ai candidati asiatici sulla base di valutazioni del tutto soggettive. Non è ingiusto e inutilmente discriminatorio? È in armonia con i valori di libertà e uguaglianza occidentali e americani? Il razzismo è solo quello contro gli afroamericani?

Usa, la battaglia contro l'Affirmative Action

È un paradosso tipico del politicamente corretto liberal e dell'isteria woke, dove la società viene atomizzata in tante piccole minoranze in competizione fra loro. Fomenta ulteriori divisioni, generando una società tutt'altro che unita e solidale. Secondo la stampa americana, ora la Corte Suprema a maggioranza conservatrice potrebbe presto dichiarare che l'ammissione al college su base razziale "incostituzionale". Students for Fair Admissions, un'organizzazione che si batte contro l'affirmative action fondata da Edward Blum, ha citato in giudizio l'Università di Harvard e l'Università della Carolina del Nord per presunta discriminazione nei confronti degli studenti asiatici americani e bianchi nelle ammissioni.

Lo scorso gennaio la Corte Suprema ha deciso di prendere in esame i due casi e di riesaminare l'efficaca dell'affirmative action. I tribunali di grado inferiore si erano pronunciati a favore di Harvard e dell'Università della Carolin nel Nord rispettivamente nel 2019 e nel 2021, spiegando che le università consideravano la razza senza mantenere le quote razziali, il che è legale ai sensi della decisione della Corte Suprema dell'Università della California contro Bakke del 1978. Ora però la palla passa alla Corte Suprema. Linda Greenhouse, docente e ricercatrice senior presso la Yale Law School, citata dal Yale Dale News, spiega che è "estremamente improbabile" che la corte si schieri con le università e sostenga l'affirmative action.

Se il politicamente corretto discrimina gli asiatici

Nell'estate del 2020, come scriveva Federico Rampini su La Repubblica, l'Università della California, il più grande sistema universitario pubblico degli Stati Uniti, annunciava la decisione di riabilitare l'affirmative action - eliminato nel 1995 - per venire incontro al movimento Black Lives Matter e all'onda emotiva dell'assassinio di George Floyd, ripristinando le contestate corsie di accesso preferenziali agli studenti di colore nell'istruzione superiore. A protestare furono non tanto gli studenti bianchi, quanto gli asiatici, primo gruppo etnico dell'ateneo. Secondo Crystal Lu, la presidente dell'associazione dei cinesi nella Silicon Valley, l'università pubblica dello stato progressista per antonomasia stava andando "a retromarcia nella storia", verso il "ritorno al favoritismo razziale".

In attesa della decisione della Corte Suprema, il tema continua a dividere l'opinione pubblica americana. La deputata di origini sudcoreane Young Kim, rappresentante della California per il partito repubblicano, osserva su Fox News che "dobbiamo giudicare gli individui in base ai loro meriti, e non possiamo guardare alla razze o all'etnia solo per soddisfare le minoranze. Tutti hanno bisogno di lavorare sodo, e questa è l'America. Sono un'immigrata. Quando sono venuta negli Stati Uniti da giovane, Non parlavo una parola di inglese, ma questo non mi ha impedito di lavorare sodo", ha detto Kim. Parole di buon senso in una società dove la "vittimizzazione" a ogni costo è la norma.

"Abbiamo lavorato coi documenti desecretati su Martin Luther King". Massimo Balsamo il 16 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il regista del docu-film "Martin Luther King vs FBI" ai nostri microfoni tra l'eredità dell'attivista di Atlanta e l'America di oggi.  

La battaglia condotta da Martin Luther King continua a vivere nell’America di oggi, ma non è tutto oro quel che luccica. Il regista Sam Pollard ha acceso i riflettori sull’ossessivo controllo dell'FBI nei confronti dell’attivista di Atlanta, grazie a nuovi documenti resi accessibili dal Freedom of Information Act. L’allora direttore dei servizi segreti John Edgar Hoover ha usato ogni mezzo a disposizione per delegittimarlo, puntando sulle frequenti infedeltà coniugali – ma anche sul presunto legame con il comunismo – per denigrare la sua immagine pubblica. Vincitore di un Emmy Award con “By the People: The Election of Barack Obama” e nominato agli Oscar per “4 Little Girls”, Sam Pollard è intervenuto ai nostri microfoni per presentare il suo docu-film "Martin Luther King vs FBI", nelle sale italiane con Wanted Cinema e il patrocinio di Amnesty International Italia.

Tra realtà e fake news, che ruolo ha avuto il comunismo nel percorso di Martin Luther King?

"Il dottor King non ha mai nutrito interesse per il Partito Comunista, nonostante l’FBI avesse questa impressione per il fatto che avesse legami con Stanley Levison e altri intorno a lui avessero responsabilità all’interno del movimento comunista".

Quanto è stato difficile mettere insieme tutti i documenti desecretati su Martin Luther King?

"Il processo richiede tempo, ma non è stato particolarmente difficile raccogliere il materiale consultando il Freedom of Information Act (legge sulla libertà d’informazione, ndr)".

Le pratiche di John Edgar Hoover restano un brutto ricordo oppure ancora oggi c’è il rischio di situazioni simili?

"Ciò che Hoover e l’FBI hanno fatto non dovrebbe essere considerato come qualcosa accaduto nel passato: i servizi segreti ricorrono tutt’ora a tali metodi come quelli per indebolire e danneggiare persone e organizzazioni. Hanno l’impressione che distruggeranno l’idea della democrazia americana".

Considerando che il docu-film affronta aspetti personali ed extra-coniugali della vita di Martin Luther King, ha avuto un confronto con la sua famiglia prima di iniziare a lavorare?

"No, non abbiamo avuto alcun contatto con la famiglia del dottor King in alcun momento durante le riprese".

I mass media e le chiese non hanno dato grande importanza all’elemento intimo e scandalistico legato a Martin Luther King, mentre oggi la situazione sembra cambiata, sia negli Usa che nel resto del mondo. Perché secondo lei?

"Non sono d’accordo: i media, secondo me, dedicano meno tempo all’aspetto privato e più tempo ad erigere il dottor King a Santo, dimenticandosi come fosse percepito da molti americani quando era in vita".

Martin Luther King e John Edgar Hoover si sono proposti come difensori del sogno americano: come valuta questa contrapposizione?

"Sì, entrambi si sono proposti come difensori del sogno americano, ma bisogna chiedersi cosa significasse il sogno americano per King e cosa significasse per Hoover. Questo è un qualcosa su cui questo Paese discute tutt’oggi: il 6 gennaio 2021, l'assalto alla Casa Bianca, è un esempio perfetto".

Il docu-film pone interrogativi degni di nota: secondo lei cosa significa “libero” in America nel 2022?

"È una domanda complicata, la risposta varia a seconda di dove uno colloca se stesso nella traiettoria della storia americana".

E cosa vuol dire “americano”?

"Lo chieda ad un afroamericano e ad un uomo bianco e avrà due risposte drasticamente differenti".

Nonostante l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca al posto di Donald Trump, continuano le violenze della polizia contro i neri. Come se lo spiega?

"Guardi il lascito, l’eredità di questo Paese e otterrà la sua risposta".

Oggi i no vax usano il termine di segregazione: qual è la sua opinione?

Massimo Balsamo. Nato nel Torinese diversi anni fa. Collaboro con giornali cartacei e online: mi occupo di cinema, ma anche di politica e di cronaca. Ho lavorato a vari progetti nel mondo della comunicazione e ho scritto il libro "Cinema - Riflessioni e proiezioni". Vietato criticare in mia presenza The Office, Camera Cafè, i bassotti e Aldo, Giovanni e Giacomo.

Joseph La Palombara per formiche.net il 15 febbraio 2022.  

Il razzismo è in calo negli Stati Uniti? Le generazioni più giovani sono meno razziste di quelle più vecchie? E il tempo renderà questo Paese meno razzista? 

La risposta positiva a queste domande suggerisce che, prima o poi, un problema così radicato in America possa trovare una soluzione. 

Che gli americani, i bianchi in particolare, possano un giorno sposare quel che afferma la Dichiarazione di Indipendenza, e cioè che tutti gli uomini sono creati uguali.

Oggi in verità in America la verità è ben altra. I poveri, le persone di colore, chi fa parte di una minoranza sono esposti a ogni tipo di discriminazione.

Non succede solo in America, intendiamoci, ma i dati non mentono. Le donne, ad esempio, sono ancora molto discriminate. I sondaggi mostrano come lo stesso lavoro, in America, sia pagato meno a una donna che a un uomo. 

L’atteggiamento della polizia nel Paese è un altro segnale eloquente di questo trend. I dati più recenti mostrano come negli ultimi la polizia americana abbia ucciso, solitamente in scontri a fuoco, una media di mille persone all’anno. E fra questi gli americani di colore sono in larga maggioranza.

Ma lo stesso vale per le prigioni sovraffollate: un uomo di colore ha ben più chance di finire chiuso in prigione rispetto a un uomo bianco, che può considerare l’eventualità come piuttosto remota. 

Oggi sono le tasse, domani è la qualità della scuola, un altro giorno si tratterà di qualche altra amenità. Le stesse catene commerciali notoriamente sono solite riempire i loro scaffali a seconda che il vicinato sia più o meno benestante. Queste forme di discriminazione sono facili da osservare, e si osservano un po’ ovunque in America.

Una serie di emendamenti approvati all’indomani della Guerra civile americana tentarono all’epoca di rendere gli americani di colore cittadini a pieno titolo. Questi emendamenti sono stati ampiamente ignorati, in alcuni Stati più di altri. I movimenti per i diritti civili, i sit-in non servirebbero, se non versassimo in questa situazione. 

Certo, sono stati fatti progressi. Ci sono leggi federali contro la discriminazione. Le persone di colore, le donne e gli anziani sono ora protetti dalla legge. Detta in altre parole, chi in America rimane convintamente razzista oggi deve fare un po’ più di attenzione. 

Deve nascondere i suoi impulsi e le sue pulsioni dal pubblico e magari dai sondaggisti. Anche per questo affidarsi ai sondaggi per avere un’idea del razzismo e della sua diffusione è un’illusione. A confronto, meglio fare riferimento alle intenzioni di voto.

In diversi degli Stati controllati da una maggioranza di Repubblicani e in assemblee locali la discriminazione riaffiora a tratti tra trucchi e manipolazioni in aula. 

Ci sono Stati in cui vengono approvate leggi disegnate per rendere più difficile il diritto di voto alle persone di colore e ai più poveri. A volte perfino per negarlo. 

Corti con giudici piazzati dai Repubblicani che convalidano queste leggi. E una speranza non vana che le stesse leggi siano dichiarate valide da una Corte Suprema conservatrice. 

C’è poi un’altra ragione del nuovo rigoglio del razzismo americano e ha un nome e cognome: Barack Obama. Difficilmente il suo successore sarebbe entrato nello Studio Ovale se quattro anni prima gli Stati Uniti non avessero eletto un uomo di colore come presidente degli Stati Uniti. La rabbia contro quella presidenza si può ancora toccare con mano. I razzisti, in America, non l’hanno mai digerita.

Intendiamoci: gli Stati Uniti hanno fatto enormi passi avanti sin dalla loro fondazione e sarebbe assurdo il contrario. Ma questo progresso non dovrebbe essere gonfiato, come a mio parere hanno fatto alcuni sondaggi in tempi recenti. 

La schiavitù, in tutte le sue forme, rimarrà un problema serio per la società americana. Nessuno potrà parlare di vero progresso finché un uomo di colore non potrà uscire di casa la mattina senza chiedersi se tornerà sano e salvo a casa la sera stessa. 

Il caso Whoopi Goldberg e le battaglie culturali incrociate dell’America. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 02 febbraio 2022.

Durante una puntata del talk show The View, l’attrice ha detto che l’Olocausto non riguarderebbe «la razza». È stata sospesa. Gli attori di Hollywood sono bravissimi a pronunciare frasi scritte da altri, e approvate da produttori e registi. Quando parlano a ruota libera, può succedere un po’ di tutto. L’ultima vittima del fenomeno che i nostri antenati avrebbero visto come molto bizzarro — l’attore considerato maître à penser dalle masse: fino a qualche secolo fa erano tenuti ai margini della società — è Whoopi Goldberg, che durante una puntata del fortunatissimo talk show The View, che conduce con altre colleghe, ha detto che l’Olocausto non riguarderebbe «la razza» ma più genericamente «l’inumanità dell’uomo verso l’uomo». Frase ovviamente senza senso, che però prima dei social media e della mitologica «cancel culture» forse sarebbe anche passata sotto silenzio. Adesso invece l’ha fatta sospendere per due settimane dal programma e riprendere dalla presidente del network Kim Godwin (afroamericana come Goldberg), che ha definito le sue dichiarazioni «sbagliate e offensive».

«Se da un lato Whoopi ha chiesto scusa, dall’altra le ho chiesto di prendersi del tempo per riflettere e imparare, i suoi commenti hanno avuto un impatto. L’intera organizzazione di Abc News è in solidarietà con i nostri colleghi, amici, famigliari di religione ebraica, e l’intera comunità», ha spiegato Godwin. Goldberg si era anche scusata con un comunicato via Twitter, ma le scuse non sempre bastano. Non è stata «cancellata» — le sue credenziali progressiste la proteggono dal licenziamento — ma semplicemente messa in castigo: è comunque faticoso da comprendere per gli osservatori non americani come si sia arrivati a questo punto. Da una parte gli attori che si avventurano su terreni scivolosi per chi non ha letto — studiato — abbastanza: terreni come le radici del nazismo, l’ascesa di Hitler, il milieu antisemita tedesco nel quale Mein Kampf trovò terreno fertile. Dall’altra la cosidetta «wokeness», l’attivismo militante progressista americano che fa dell’identità un feticcio e per sua stessa natura ha continuamente bisogno di colpevoli da mettere alla berlina.

La sinistra americana gioca male questa partita mediatica, ormai da decenni: affida i suoi messaggi a celebrità a volte — spesso? — poco attrezzate, andando a scovare esempi di razzismo un po’ ovunque (esempi che, tristemente non mancano perché il problema esiste ed è enorme) e buttando tutto in caciara sui social. La destra lavora invece sotto traccia, nei poco mondani ma importantissimi «school board» locali ormai largamente in mano a repubblicani che dettano le regole nelle scuole, creando scandali che non esistono per togliere dal curriculum e a volte anche dalle biblioteche scolastici i libri non graditi, giudicati cioè poco patriottici. Aspettano i nemici di sinistra sulla proverbiale riva del fiume: tanto le «celebrities» democratiche prima o poi qualche passo falso lo fanno, grande o piccolo.

Enorme come quello della «comedian» che si fece fotografare agitando una finta testa mozzata di Trump, alla maniera dell’Isis. O, appunto, come quello molto sgradevole di Goldberg, mandata in punizione — in ginocchio sui ceci come Fantozzi? — in attesa dell’inevitabile perdono. Cose di altri mondi per noi. Ma che forse aiutano a capire — anche — come mai i democratici fanno così fatica a comunicare decentemente il loro messaggio, con messaggeri di questo tipo. E come mai Joe Biden ha in quest’anno e un mese di governo messo a segno un boom occupazionale storico ma ha un indice di approvazione del 33%, peggiore di quello di Trump tra un impeachment e l’altro.

 Whoopi, bufera sull'Olocausto. Pier Luigi del Viscovo il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

"Con effetto immediato, sospendo Whoopi Goldberg per due settimane per i suoi commenti sbagliati e nocivi ". «Con effetto immediato, sospendo Whoopi Goldberg per due settimane per i suoi commenti sbagliati e nocivi - ha detto Kim Goodwin, presidente della ABC, importante network americano -. Le ho chiesto di prendersi il tempo di riflettere e imparare dall'impatto dei suoi commenti». Invece il Primo Emendamento della Costituzione Americana recita che «il Congresso non emanerà alcuna legge (...) per limitare la libertà di espressione o di stampa». Il potere politico no, ma il potere del marketing sì. Sta tutta qua la vicenda. La sospensione è motivata da commenti non illegali ma solo inopportuni per la sensibilità di alcune persone. Eccoli. «L'Olocausto non fu una questione razziale, ma di disumanità dell'uomo verso l'uomo. È questo il problema. Non importa se sei nero, bianco o ebreo». Poi si è scusata: «Ho detto che l'Olocausto non riguarda la razza ma la disumanità. Avrei dovuto dire che riguarda entrambe». Nel merito, la Goldberg ha ragione e torto. Ha ragione, perché tecnicamente l'ebraismo non è una razza ma una religione e infatti lei spiega che erano tutti bianchi, vittime e carnefici. Ha anche torto, perché nella sostanza non la vedevano così i tedeschi - e nemmeno gli italiani, non ce lo dimentichiamo mai. La persecuzione era fondata sulla differenza, tutta razziale, tra ariani ed ebrei. Però la Goldberg offre una lettura più profonda, antropologica prima che culturale. La capacità di compiere gesti tanto efferati, pur nel nome della razza o della religione, non è la realizzazione cruenta di un'idea, ma una patologica degenerazione dell'uomo. E non dipende dal colore della pelle o dalla fede, come la storia ha dimostrato. Tuttavia, resta un'opinione. Ciò che invece pare devastante è il bavaglio imposto in spregio al Primo Emendamento. Quasi che la differenza tra una grande testata giornalistica del Mondo libero e i terroristi che hanno colpito Charlie Hebdo stia solo nell'uso della lettera invece del mitra. L'obiettivo è lo stesso: mettere a tacere una voce che urta delle sensibilità. L'informazione esiste non per compiacere ma per conoscere i fatti e confrontare le opinioni. Fuori dal perimetro dell'istigazione al crimine, le opinioni vanno criticate, non censurate. Purtroppo, ciò che viene difeso dall'ingerenza del potere politico viene poi assoggettato alle leggi della convenienza commerciale, che suggerisce di non inimicarsi gruppi influenti. Se non è Medioevo questo? Pier Luigi del Viscovo

Che cos’è la Fratellanza Ariana. Pietro Emanueli su Inside Over il 19 Febbraio 2022.

Era dai tempi della battaglia per i diritti civili degli anni Sessanta che gli Stati Uniti non erano così divisi su linee di faglia etno-razziali. I nazionalismi etnici proliferano, il terrorismo domestico va diventando una minaccia crescente e persino il discorso politico, sia a destra sia a sinistra, ha ceduto al fascino perverso della dialettica dell’odio.

Quanto fosse frammentata la società americana lo si è potuto capire, tanto in patria quanto nel mondo, all’indomani della morte di George Floyd, l’afroamericano morto durante un’operazione di polizia il 25 maggio 2020. Gli incidenti scaturiti da quell’evento, oltre ad aver giocato un ruolo nella sconfitta di Donald Trump alle successive elezioni, hanno fatto piombare gli Stati Uniti in una sorta di guerra civile a bassa intensità di cui continua a non intravedersi la fine.

La nuova guerra civile che ha avvolto gli Stati Uniti è combattuta da una costellazione variegata di attori, tra i quali i celeberrimi Antifa e Black Lives Matter, e vede il mondo del cosiddetto nazionalismo bianco giocare un ruolo da co-protagonista. Un mondo che, rispetto al passato, non è più guidato dal Ku Klux Klan, moribondo e diviso, ma da nuovi movimenti, brulicanti di vita e ricchi di membri, come le Nazioni Ariane, i Proud Boys, il movimento Boogaloo, il Fronte patriottico e la Fratellanza Ariana.

La fondazione

La Fratellanza Ariana (Aryan Brotherhood) nasce tra le celle del famigerato Penitenziario di San Quintino negli anni Sessanta. Erano i tempi della segregazione razziale, delle lotte del movimento per i diritti civili, e le carceri non erano immuni dalla tensione che attanagliava le strade.

La Fratellanza Ariana nacque, inizialmente, come un gruppo carcerario di autodifesa privo di connotazioni politiche. Non aveva un nome, non possedeva un’ideologia, ma per aderirvi era necessario soddisfare un requisito: essere bianchi. I detenuti afroamericani avevano formato la temibile Famiglia della guerriglia nera (Black Guerrilla Family) e avevano rapidamente assunto il controllo di San Quintino, seminando il panico tra i bianchi, i quali erano sì maggioritari, ma disorganizzati e disinteressati a fare politica.

In breve tempo, complici le tensioni interrazziali e la natura politica del confronto con la Famiglia della guerriglia nera, il gruppo carcerario di autodifesa dei bianchi sarebbe divenuto il cuore pulsante del nazionalismo bianco dietro le sbarre, a San Quintino come nel resto della nazione.

La trasformazione del gruppo divenne chiara negli anni Ottanta, età caratterizzata da una pioggia di omicidi a sfondo razziali e di violenze antipoliziesche perpetrate dalla Fratellanza. In principio fu il caso Robert Chappelle, un detenuto afroamericano ucciso nel 1981 dai due suprematisti Thomas Silverstein e Clayton Fountain nel penitenziario di Marion. Due anni più tardi, la Fratellanza avrebbe cominciato a prendere di mira le guardie, come palesato dal brutale assassinio di Merle Clutts – ucciso con quaranta coltellate –, diventando l’«incubo delle prigioni americane».

Ideologia, struttura e composizione

La Fratellanza Ariana, con il passare del tempo, è uscita dalle carceri e si è avventurata nella conquista delle strade. Non più una realtà penitenziaria, circoscritta a San Quintino, oggi la Fratellanza è un’organizzazione destrutturata, orizzontale e presente da costa a costa.

Le autorità stimano che la Fratellanza abbia tra i diecimila e i ventimila membri, buona parte dei quali si trova nelle prigioni per scontare delle condanne a vita, e la ritengono una delle realtà più attive e vibranti del nazionalismo bianco per varie ragioni:

Ha stabilito contatti, o meglio alleanze, con le principali organizzazioni del suprematismo bianco degli Stati Uniti, come il KKK, le Nazioni Ariane (Aryan Nations) e la Milizia del Montana (Militia of Montana);

Ha stabilito dei rapporti di collaborazione con le grandi organizzazioni criminali presenti nelle carceri nazionali, in particolare con le bande latinoamericane e con Cosa nostra americana, con le quali conduce affari, pianifica omicidi e organizza rivolte;

Non ha un capo unico, perché orizzontale, ma è composta da una serie di cellule a livello penitenziario, ciascuna dotata di una gerarchia e di un comune metodo di reclutamento e funzionamento, che interagiscono tra loro e permettono all’organizzazione di superare le barriere fisiche.

Entrare nella Fratellanza Ariana non è facile. L’ingresso va «meritato», dove per meritato si intende che l’aspirante fratello ariano deve dimostrare la lealtà alla causa, la volontà di appartenenza, commettendo delle gesta piuttosto gravi e pericolose, che spaziano dall’aggredire a sangue freddo un poliziotto all’uccidere un afroamericano a caso.

Una volta superata la prova del fuoco, al fratello ariano sono richieste altre due cose: la dedizione allo studio e la sua carne. Lo studio di libri come il Mein Kampf e Il Principe di Niccolò Machiavelli. La sua carne da marchiare a vita con tatuaggi inneggianti ad Adolf Hitler, al Terzo Reich e, in generale, al nazismo.

Potere bianco o potere al denaro?

La Fratellanza Ariana, pur figurando nell’elenco delle organizzazioni dell’odio del Southern Poverty Law Center, viene descritta da quest’ultimo come un’entità più interessata al denaro che all’ideologia.

I fratelli ariani sono noti per i vistosi tatuaggi denotanti la passione per il nazismo, nonché per gli innumerevoli crimini d’odio a sfondo razziale, ma questo non impedisce loro di fare affari con le bande latinoamericane, con Cosa nostra americana e coi gruppi criminali asiatici.

A metà tra l’organizzazione estremistica che predica l’odio e l’organizzazione criminale che fa affari con (quasi) tutti, la Fratellanza ariana è nota per il coinvolgimento in una vasta gamma di attività illecite, tra le quali il traffico di sostanze stupefacenti, l’estorsione, la prostituzione, le rapine e gli omicidi su commissione. Attività che intraprende quando singolarmente e quando in collaborazione con le famiglie mafiose italoamericane, con i cartelli della droga latinoamericani e coi gruppi criminali asiatici.

L’alleanza con Cosa nostra americana, più precisamente con la famiglia Gambino, sembra essere nata negli anni Novanta, in coincidenza con l’entrata in carcere dell’allora padrino John Gotti. Gotti, dopo essere stato aggredito da un detenuto afroamericano nel Penitenziario di Marion, aveva offerto alla Fratellanza del denaro in cambio dell’omicidio del suo assalitore.

La pecunia più che l’ideologia, in sintesi, sembra essere il motivo conduttore delle azioni dei fratelli ariani, dentro e fuori le sbarre, che alternano l’evangelizzazione dei carcerati – perché le prigioni sono e restano le loro basi operative – e la conduzione di attività criminose con chiunque, eccezion fatta per gli afroamericani, proponga loro un affare illecito.

Hitler, Rockwell e il Partito Nazista Americano. Pietro Emanueli su Inside Over il 29 gennaio 2022.

Gli Stati Uniti sono la terra delle opportunità per antonomasia; il luogo in cui tutto è possibile e dove chiunque ha il diritto, quasi sconfinato, di predicare ciò che vuole. Un diritto che ha permesso, ad esempio, alla Nazione dell’Islam di fare propaganda a favore del separatismo nero. Che ha permesso al Ku Klux Klan di riapparire a cadenza regolare, nonostante i linciaggi, gli omicidi e il terrorismo. E che ha permesso a tal George Lincoln Rockwell, negli anni Sessanta, di evangelizzare il popolo americano al credo nazista.

Il fondatore

Non si può scrivere e comprendere quel fenomeno più unico che raro che è stato il Partito Nazista America senza una previa introduzione a colui che lo fondò: George Lincoln Rockwell.

Nato il 9 marzo 1918 a Bloomington, stato dell’Ilinois, Rockwell era un membro della cosiddetta galassia WASP, in quanto di origini inglesi, francesi e tedesche. Cresciuto tra il New Jersey e il Maine, perché diviso tra i genitori divorziati, avrebbe tentato la carriera universitaria prima di arruolarsi nella Marina degli Stati Uniti.

Dopo l’attacco di Pearl Harbour, casus belli dell’entrata dell’America nella Seconda guerra mondiale, Rockwell avrebbe prestato servizio sia nell’Atlantico sia nel Pacifico, alternando mansioni logistiche, organizzative e azione – pilotaggio di aerei – e risaltando agli occhi dei superiori per la preparazione e l’efficienza.

Nel 1950, allo scoppio della guerra di Corea, Rockwell fu richiamato per servire la patria in qualità di tenente comandante, occupandosi di addestrare i piloti della Marina. E in questi anni, profondamente influenzato dal maccartismo, sarebbe diventato un sostenitore del nazismo, un nostalgico di Adolf Hitler, ritenendo l’ideologia della svastica l’unica forza in grado di fermare l’avanzata del comunismo negli Stati Uniti.

Dal dopo-Corea al 1959, coerentemente con il nuovo credo adottato, Rockwell avrebbe passato il tempo a persuadere esercito e opinione pubblica che il nazismo fosse la via. E dopo due tentativi fallimentari, la rivista U.S. Lady e il Comitato nazionale per liberare l’America della dominazione ebraica, avrebbe infine costituito il Partito Nazista Americano.

La nascita e l'espansione

Il Partito Nazista Americano viene fondato ufficialmente nel marzo 1959, ma assumerà quel nome soltanto un anno più tardi. Nel primo anno di vita, infatti, si sarebbe chiamato Unione mondiale dei nazionalsocialisti per la libera impresa.

Con sede ad Arlington, nell’Illinois, il Partito fu concepito come la replica all’americana dell’originale, dal quale mutuò gergo, iconografia, vestiario e, naturalmente, ideologia. Dopo alcuni anni di magra, a partire dal 1965, e fino al 1967, Rockwell sarebbe divenuto una sorta di icona culturale, per quanto negativa, e il Partito l’oggetto dell’attenzione della grande stampa (e della polizia federale). Il motivo? La bizzarra scenicità del Partito, frutto della teatralità e dell’inventiva di Rockwell.

A partire dal 1965, e fino al 1967, tutti avrebbero parlato di Rockwell. Rockwell l’anti-integrazionista, il nazionalista bianco, il neonazista. E alcuni, i più impavidi – o meglio, i più avidi di lettori –, come Playboy, lo avrebbero persino intervistato, adibendo le loro colonne ad uno spazio inconsapevole di proselitismo.

Tutti parlavano di Rockwell, perché, del resto, era impossibile ignorarlo. Era il creatore dei “bus dell’odio”, il promotore degli anniversari della nascita di Hitler, l’inventore del termine “potere bianco” e il fondatore dell’Unione mondiale dei nazionalsocialisti – l’organizzazione ombrello, ancora oggi esistente, che riunisce i principali partiti neonazisti del pianeta. Era colui che aveva convinto un militante ad assaltare Martin Luther King durante un comizio pubblico nel 1962, premiandolo ad aggressione avvenuta. Era colui che aveva stretto un’alleanza con la Nazione dell’Islam, figurando ad una loro marcia nel 1961 e parlando ad un loro evento l’anno dopo. Era colui che, contrariamente ad ogni aspettativa, era arrivato quarto alle elezioni governatoriali della Virginia nel 1965.

Il declino

Intuendo la possibilità di una popolarizzazione su larga scala, complice il clima dell’epoca – il risveglio del KKK, le tensioni interrazziali, l’ascesa della destra religiosa, l’albeggiare delle guerre culturali –, Rockwell, nel 1966, avrebbe dato un nuovo nome alla sua creatura: Partito nazionalsocialista della gente bianca. L’obiettivo? Superare definitivamente il nazismo, poiché ostacolo alla crescita, in favore di un più accettabile e moderato nazionalismo bianco.

Ma la transizione che avrebbe dovuto assicurare a Rockwell la simpatia di più ampie sezioni dell’opinione pubblica, magari permettendo al Partito di vincere qualche elezioni, non avrebbe mai avuto luogo. Il 25 agosto 1967, poco dopo aver annunciato la trasformazione della sua creatura, Rockwell fu assassinato da una vecchia conoscenza: John Patler, un nazista che era stato espulso dal Partito per aver tentato di diffondere idee marxiste.

Matthias Koehl, numero due del Partito e nebuloso personaggio legato all’internazionale nera – in contatto, tra gli altri, con Savitri Devi –, avrebbe rispettato le ultime volontà di Rockwell, proseguendo sulla via della ristrutturazione della piattaforma ideologica e dello stile comunicativo.

L’emergere di divisioni, in parte causate dal forte dissenso verso la svolta moderata e in parte dall’inabilità di Koehl di mediare conflitti e differenze, avrebbe progressivamente condotto il Partito alla morte per scissioni interne. Più vicini all’impianto ideologico e al modus operandi del KKK che alla moderatezza e al misticismo di Koehl, i nazisti americani sarebbero andati incontro ad una crescente radicalizzazione nel corso degli anni Settanta. E acme di questo processo di estremizzazione fu indubbiamente il massacro di Greensboro, ovvero l’uccisione di cinque attivisti comunisti, in concorso con membri del KKK, il 3 novembre 1979.

Disilluso dai compagni, che riteneva incapaci di cogliere i lati più profondi e metafisici del nazismo, in quanto esclusivamente interessati a commettere crimini d’odio, Koehl avrebbe deciso di trasformare la creatura di Rockwell nel Nuovo Ordine (New Order) nel 1983. Un’organizzazione apartitica e dal nome eloquente, indicativo della netta cesura con il passato e riflettente il focus sul lato mistico del nazismo, e che è sopravvissuta fino ai giorni nostri.

Le ragioni del senatore statunitense. Cosa è il maccartismo, che cosa significa il termine riferito al senatore McCarthy. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'8 Giugno 2022. 

McCarthy… McCarthy, questo nome non mi è nuovo. Ah, ecco, sì: fu quando la Presidente della Rai Letizia Moratti negli anni Novanta mi disse di volermi indicare come nuovo direttore del Tg3. “Ma devi farti dare il placet da D’Alema” aggiunse il suo direttore generale, Gran Vizir dei Protocolli segreti. E allora: pronto, signor segretario D’Alema, mi dicono che per poter diventare direttore del Tg3 servizio pubblico in quota ex Pci avrei bisogno del suo placet. E allora? Placet? “No, rispose il segretario: non mi placet perché una tua nomina a direttore del Tg3 sarebbe vissuta da quella redazione come un episodio di maccartismo”. Annotare la parola: maccartismo. Annotare anche: cancellata la mia nomina per maccartismo. Ricoverare nella cartella “memoria”.

Salutai e ringraziai senza chiedere perché un editorialista e inviato della Stampa e prima di Repubblica dovesse essere considerato un maccartista. Forse il senso del ridicolo. Poiché resi pubblica questa brevissima conversazione, D’Alema mi applicò sul muso un nuovo cono d’ombra e fece da allora finta di non vedermi salvo quando fui costretto ad “audirlo” nella mia qualità di Presidente di una Commissione bicamerale d’Inchiesta sugli agenti dei sovietici in Italia (sia russi che italiani) durante il periodo storico della Guerra Fredda che va dal celebre discorso di Winston Churchill nell’università di Fulton in Usa nel marzo 1946 – “America e Regno Unito devono agire come guardiani della pace e della stabilità contro la minaccia comunista sovietica che ha fatto scendere un sipario di ferro dal Baltico a Trieste sull’Adriatico…”– fino alla caduta pilotata dell’impero sovietico, ora in fase di sanguinosa restaurazione.

La fine che fu inflitta mediaticamente ad una Commissione del Parlamento repubblicano che esprimeva tutti i partiti presenti nel Parlamento della Repubblica con ogni mezzo, ogni inganno, ogni uso canagliesco della disinformazione fino all’assassinio di alcuni collaboratori della mia Commissione, dal celebre e povero mio collaboratore Sasha Litvinenko (per il cui omicidio testimoniai davanti a Scotland Yard e al procuratore della Regina Sir Robert Owen) al generale Trofimov, è una delle pagine più oscure e luride della storia della nostra Repubblica su cui è ora di riaccendere le luci e riportare a galla la realtà se non tutta la verità, ormai avariata. Ma non perdiamo troppo il filo e torniamo a Joseph Raymond McCarthy, classe 1908, Senatore repubblicano del Winsconsin, creatore e animatore della famosa caccia alle streghe sospette di simpatie comuniste e dunque filosovietiche specialmente a Hollywood, celebrata nel celebre lavoro teatrale The Crucible, il Crogiolo, di Arthur Miller, ex marito di Marylin Monroe la quale finì la sua vita assassinata da una potente supposta ai barbiturici somministrata passando da un letto all’altro non soltanto dei dioscuri Robert e John Fitzgerald Kennedy, entrambi assassinati il primo come Ministro della Giustizia di suo fratello John, Presidente, eletti entrambi grazie a un accordo che il loro padre, il magnate irlandese Patrik Joseph Kennedy (ambasciatore americano a Londra, noto filotedesco e fornitore di whisky in valigia diplomatica durante il proibizionismo) fece con il sindacalista gangster Giancana che chiese di vedere bruciato il suo dossier degno di quello del Makie Messer, alias Make The Knife dell’Opera da Tre Soldi di Brecht.

In genere quando si parla di MacCarthy, si parla soltanto del ridicolo, grottesco senatore anticomunista che vedeva dappertutto agenti sovietici e che massacrò migliaia di artisti gettando il mondo della cultura americana in un vortice di angoscia e persecuzione. Il che è quasi tutto vero, tanto che – essendo gli Stati Uniti d’America il Paese con la più potente provvista di anticorpi costituzionali – lo stesso senatore si scavò da solo la fossa davanti a una stampa libera e scatenata, che sopravviveva benissimo in un clima che era da pre-guerra. McCarthy fu un crociato ossessivo dell’anticomunismo sicché il suo ricordo è sopravvissuto come quanto di più odioso, meschino e patologico l’America abbia prodotto e poi arrossendo distrutto. Oggi, proprio oggi mentre voi leggerete, è impossibile distribuire giudizi a un tanto al chilo, il Presidente russo part time in alternanza con Putin, Medvedev ha detto pubblicamente di odiarci, di odiare proprio noi occidentali come cultura e come genere, come se avesse detto odio l’Islam, o odio gli ebrei e si è detto in guerra con noi occidentali.

Scusate, non voglio coinvolgervi: sono in guerra con quelli che odiano chi è come me orgoglioso figlio dell’Occidente da cui derivano i diritti dell’uomo e della donna, registrati come diritti dell’intera umanità. E so che l’Italia era ed è ancora piena non di povere spie da quattro soldi che contrabbandano la foto del sottomarino o seducono la cameriera del console, ma agenti di tutt’altro genere: gli quelli detti “d’influenza” che agiscono per conto e per interesse russo nel mondo dell’economia, delle università, del personale di governo, nei media e lo hanno sempre fatto. Sempre. Torniamo a MacCharty. Pochi sanno, anche se basta sapere leggere, che il piccolo ma potentissimo Partito Comunista degli Stati Uniti aveva dal 1939 reclutato la quasi totalità degli intellettuali americani per convocarli ad una continua pressione a favore della pace, ovvero della fine della guerra contro la Germania nazista seguendo le direttive di Mosca fin dal primo settembre del 1939, quando Stalin garantì ad Hitler spalle coperte per invadere la Polonia.

Il Pcus organizzò tutte le manifestazioni e scioperi contro la guerra (ad Hitler) e fece promuovere ogni sciopero possibile per allentare e sabotare i convogli che dal porto di New York partivano al soccorso della Gran Bretagna assediata dai nazisti, convogli che venivano silurati dagli U-Boot tedeschi che andavano a fare il pieno di petrolio russo nel Mar Nero prima di prendere la rotta atlantica. Tutta l’intellighenzia americana si lasciò travolgere da un’ondata di perentorio richiamo alle armi del pacifismo, cioè ad opporsi alla guerra contro i tedeschi, chiedendo anzi la pace immediata con il Terzo Reich. Di fatto l’America non dichiarò mai guerra alla Germania, nemmeno dopo averla dichiarata al Giappone dopo l’attacco proditorio alla flotta americana alla fonda alle Hawaii. Fu Hitler, beffardamente. a dire tanto vale che la dichiari io perché gli americani sperano di cavarsela spedendo convogli agli inglesi.

Capovolti i fronti a causa del voltafaccia anti- Urss dell’alleato Hitler, anche il Pcus si scatenò per la politica guerrafondaia con l’elmetto a protezione della casa madre sovietica e non il senatore McCarthy, ma tutta l’opinione pubblica americana, specialmente quella democratica – ieri come oggi – vedeva ovunque agenti d’influenza dei russi. Da notare che mentre in America accadevano questi eventi angosciosi che distrussero ingiustamente una quantità di ingegni e personalità, simmetricamente dall’allora parte dell’oceano al di là dell’Europa la controparte russa non si limitava a far perdere il lavoro ai rarissimi filoccidentali, ma sterminava con un colpo alla nuca un numero mai definitivamente calcolato di persone, ma non inferiore agli ottocentomila. Si sa solo dai registri autografi che Josef Stalin in persona dedicava le serene e digestive ore del dopocena a compilare gli elenchi di coloro che faceva mettere a morte il mattino dopo, prelevati dagli agenti che li conducevano al famoso montacarichi della Lubianka da cui scendevano legati e bendati per essere messi in ginocchio davanti a una tavola di quercia che assorbiva il colpo alla nuca quando usciva dalla fronte.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

KKK, le origini dell’odio. Pietro Emanueli su Inside Over il 29 gennaio 2022.

Croci a fuoco, costumi spettrali e violenze indicibili hanno cristallizzato il Ku Klux Klan nell’immaginario collettivo americano, rendendolo sinonimo di morte e terrore, e lo hanno popolarizzato nel resto del mondo, macchiando indelebilmente la storia della più grande democrazia multirazziale del mondo: gli Stati Uniti.

Oggi non è che un’ombra di ciò che fu, una cartolina sbiadita di un’epoca tanto vicina quanto lontana, eppure studiare le origini e le ragioni del Ku Klux Klan è quanto mai necessario. Perché se è vero che l’America non è il Ku Klux Klan, è altrettanto innegabile che esso è stato ed è l’incarnazione massimalistica del malessere e delle fobie di una frazione tutt’altro che irrilevante della società americana, quella iperconservatrice, nativista, proibizionista, puritana e WASP.

Il primo KKK

Sebbene si scriva e si parli di Ku Klux Klan (KKK) come di un’organizzazione unica, unita e unitaria, la verità storica è molto più complessa e sfaccettata. La verità storica esige che non si scriva del KKK, quanto dei KKK, perché non ne è esistito uno, bensì tre.

La storia del KKK, il primo e originale, ha inizio a Pulaski, nel Tennessee, alla vigilia di Natale del 1865. Ed è la storia di una società fondata e composta da reduci della Guerra civile, sostanzialmente di provenienza e/o ispirazione sudistico-confederata, avente quale obiettivo la promozione dei valori WASP nell’Era della ricostruzione.

I membri del primo KKK si ritenevano dei vigilanti. Il loro compito? Impedire che negli ex stati secessionisti, da un giorno all’altro popolati da freedman (liberti afroamericani), venisse meno l’egemonia suprematistica dei bianchi anglosassoni e protestanti. Ma gli afroamericani non erano l’unico obiettivo del KKK, che impiegava la stessa violenza contro i simpatizzanti dell’unionismo e i lincolniani.

Volevano evitare a tutti i costi, e con ogni mezzo, che gli schiavi divenuti liberti utilizzassero i diritti improvvisamente acquisiti per dare vita ad un movimento politico mirante ad una reale e integrale emancipazione – preludiata dallo stabilimento dell’Ufficio dei Liberti (Freedman’s Bureau). L’epoca dei linciaggi e delle bombe contro le chiese dei neri protestanti era ancora lontana, visto che il primo KKK avrebbe avuto una predilezione per i pestaggi e le spedizioni punitive, ma l’obiettivo di ritardare – di più o meno un secolo – il dibattito e il percorso dell’emancipazione afroamericana sarebbe stato conseguito con successo, tra una minaccia e un’uccisione.

Privo di un’organizzazione centralizzata, nonché carente di capi carismatici, il KKK sarebbe andato incontro ad un graduale e inevitabile declino con il passare del tempo, complice anche il reclutamento di banditi e criminali che, più interessati al sadismo fine a se stesso che alla politica, avrebbero attirato l’attenzione e l’antipatia di autorità e legislatori.

Complice l’aumento smisurato delle violenze contro gli afroamericani – condotte da squadroni in abiti spettrali –, nonché i tentativi di destabilizzare i governi in carica nel Sud, il KKK sarebbe stato trattato come un’organizzazione terroristica a partire dal 1871, anno del Ku Kux Klan Act, e duramente represso, fino all’annichilimento, da forze dell’ordine e milizie agli ordini degli stati federati.

Il secondo KKK

La storia del secondo KKK ha inizio nella suggestiva Stone Mountain nel 1915. L’idea di riportare in vita i vigilanti al servizio della causa sudista e della supremazia WASP è di un predicatore, William Joseph Simmons, che intravede nel successo de La nascita di una nazione un segno dei tempi.

Il secondo KKK, inizialmente, si dedica più al proselitismo che alla violenza interrazziale. Non predica né il suprematismo né il nostalgismo sudista, ma il puritanesimo dei Padri pellegrini e il nativismo dei patrioti nordamericani dell’Ottocento. È l’epoca, del resto, del Proibizionismo e delle nuove ondate migratorie di italiani, irlandesi, polacchi ed ebrei, delle “minacce” alle quali il KKK vuole porre argine fomentando un risveglio spirituale nell’America WASP.

Plasmato dalla visione del mondo del proprio fondatore, un fondamentalista protestante, il nuovo KKK investe denaro nella conduzione di “campagne morali” destinate all’opinione pubblica – delle veridiche crociate contro l’integrazione nella società di ebrei e cattolici e a favore della continuazione della politica del proibizionismo –, nella produzione di merchandising e nella fabbricazione di grandi croci in legno da bruciare. Non delle croci qualunque, ma delle croci latine – dunque associate al Cattolicesimo –, che da allora in avanti sarebbero entrate nell’immaginario collettivo, americano e mondiale, come un segno distintivo del KKK.

Memore delle ragioni alla base del fallimento del primo KKK, cioè l’assenza di una struttura definita e lo scemare nella violenza indiscriminata, Simmons avrebbe dotato l’entità di un corpo ben organizzato e lavorato alla costruzione di un’immagine pubblica rassicurante. Gli eventi successivi avrebbero dato ragione al predicatore: entro la metà degli anni Venti, all’acme della popolarità, il KKK dichiarò di avere più di quattro milioni di tesserati.

Il canto del cigno, questa volta, non sarebbe provenuto né dalla mancanza di leadership né dal reclutamento di banditi, quanto da una scissione interna. Nel 1923, insofferente nei confronti del modus operandi paternalistico e pacioso di Simmons, David Curtis Stephenson avrebbe guidato una scissione e magnetizzato vari capitoli statali del KKK.

Del KKK, a partire dal 1923, si sarebbe scritto e parlato con riferimento (quasi) esclusivo a Stephenson. Perché apertamente suprematista. Perché apologeta della violenza interrazziale. E perché lui stesso coinvolto in episodi di inaudita ferocia, come lo stupro e l’omicidio di Madge Oberholtzer.

Nulla poterono Simmons e i successori per evitare la morte del secondo KKK, dato che l’opinione pubblica e la stampa non facevano più alcuna distinzione tra le due sigle. Gli oltre quattro milioni del 1924 sarebbero divenuti trentamila nel 1930, comportando la perdita di ogni capacità di condizionamento politico – Simmons era stato in grado di far eleggere decine di politici “di fiducia” all’apogeo del secondo KKK. E nel 1944, preso atto dell’impossibilità di portare avanti le attività dell’organizzazione, l’allora stregone imperiale James Colescott ne firmò l’atto di scioglimento.

Il terzo KKK

La storia del terzo (e ultimo) KKK ha inizio nel 1946, a soli due anni dalla fine dell’epopea del secondo. L’autore della resurrezione si chiama Samuel Green, che, quell’anno, presiede una cerimonia inaugurale a Stone Mountain – segnale di continuità con il passato – per rifondare il KKK.

Inizialmente baricentrato nello stato della Georgia, e non privo di problemi a livello di dirigenza – tre stregoni imperiali in quattro anni –, il nuovo KKK riuscirà ad espandersi a livello nazionale, ritrovando la perduta notorietà, soltanto a partire dal 1959, anno dell’arrivo alla presidenza di Roy Davis, un veterano delle cause waspiste che, negli anni Dieci e Venti, aveva militato nel KKK del predicatore Simmons.

Davis sarebbe riuscito nell’obiettivo di rendere l’organizzazione una realtà nuovamente nazionale, curando l’apertura di capitoli in vari stati, ma il clima socio-politico dell’epoca avrebbe lavorato contrariamente ai suoi piani. Erano gli anni Sessanta, della Grande contestazione, dell’assassinio di JFK e, soprattutto, del Movimento per i diritti civili degli afroamericani; replicare il copione delle crociate morali e nonviolente in stile Simmons si sarebbe rivelato impossibile.

Molto presto, complice il disaccordo su come affrontare il movimento emancipatorio della comunità afroamericana, il KKK sarebbe stato travolto dal fenomeno delle scissioni, diventando nient’altro che un termine ombrello all’interno del quale racchiudere una galassia di sigle, tutte caratterizzate dall’impiego delle tre K, sorte dal 1964 in avanti. Nel 1965, secondo un censimento targato FBI, negli Stati Uniti sarebbero stati presenti ben quattordici KKK – tutti in competizione tra loro.

All’acme della popolarità, toccato tra gli anni Sessanta e i Settanta, l’universo KKK sarebbe stato composto da almeno trentamila membri e da circa duecentocinquantamila simpatizzanti. Ognuno di questi gruppi aveva un proprio capo, egemonizzava un certo stato e tentava di espandersi in un altro, ma a livello ideologico non vigeva alcuna differenza: il mezzo era la lotta armata, il fine il mantenimento degli afroamericani in una condizione di semi-cittadinanza.

La violenza organizzata fu l’elemento distintivo di questa epoca. Non bande impegnate in spedizioni punitive e talvolta sadismi fini a se stessi come ai tempi del primo KKK, e neanche brutalità commesse indistintamente su bianchi e neri come all’epoca del KKK scissionista di Stephenson, ma una violenza logica, su larga scala e, a volte, consumata con il tacito assenso di istituzioni locali infiltrate dai klanisti.

L’epoca d’oro del terzo KKK è passata alla storia per le bombe alle chiese dei protestanti neri, per gli attentati alle residenze degli afroamericani, per i linciaggi e per l’omicidio di attivisti politici, e anche per la reazione fisiologica e prevedibile provocata dall’altro lato della barricata, dove l’apparire di entità come le Pantere Nere e la Nazione dell’Islam avrebbe vertiginosamente escalato verso l’alto il livello della tensione interrazziale.

L’elenco degli atti di sangue compiuti nel nome del suprematismo bianco è lungo, in quanto relativo ad un trentennio di quasi-guerra civile interrazziale, ma si ricordano per il clamore suscitato:

I cinquanta attentati dinamitardi compiuti contro la comunità afroamericana di Birmingham (Alabama) tra il 1947 e il 1965, che valsero alla città il soprannome Bombingham.

1951. L’uccisione degli attivisti Harry e Harriette Moore dell’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore (NAACP), la cui casa fu colpita da una bomba il giorno di Natale.

1957. L’istigazione al suicidio di Willie Edwards Jr, un ventiquattrenne afroamericano costretto a gettarsi da un ponte da uno squadrone di klanisti.

1963. L’attentato alla Chiesa battista della 16esima strada di Birmingham, causa di quattro morti e ventidue feriti. 

1963. Il noto rapimento, seguito dall’omicidio, degli attivisti James Chaney, Andrew Goodman e Michael Schwerner.

1966. L’assassinio di Vernon Dahmer del NAACP. 

1979. Il massacro di Greensboro, ovverosia l’uccisione di cinque dimostranti del Partito Comunista da parte di klanisti e membri del Partito Nazista Americano.

1981. Il linciaggio di Michael Donald.

Dalla terza età ad oggi

L’epidemia di violenza degli anni Sessanta e Settanta, a destra scatenata dal KKK e a sinistra dai suprematisti neri, avrebbe spinto la Casa Bianca ad agire, con durezza e fermezza, nei confronti di entrambi. I vari KKK furono smembrati ricorrendo a strumenti pre-esistenti, come gli Enforcement Acts e il Klan Act, a mezzo di campagne di infiltrazione da parte della polizia federale – condotte nell’ambito della maxi-operazione COINTELPRO – e comitati investigativi in sede congressuale.

A partire dal dopo-COINTELPRO, cioè dagli anni Ottanta ad oggi, l’universo KKK si è liquefatto ulteriormente, frammentandosi in una costellazione di sigle – dalle trenta alle cinquanta – che, come in passato, risultano essere in costante competizione per la spartizione di un numero esiguo di membri – dai tremila agli ottomila. Rispetto al passato, però, l’universo KKK ha cessato di essere il punto di riferimento del suprematismo bianco, di cui rappresenta, invece, soltanto uno dei suoi tanti volti.

America, 1993: l’anno della rottura. Pietro Emanueli su Inside Over l'1 febbraio 2022.

Nel lunario di ogni impero esistono delle date più rilevanti di altre, perché storiche e di colore rosso, in quanto scritte con un inchiostro particolare e difficilmente lavabile: il sangue. Sono le date del destino, che sono imbibite di storia e costituiscono il displuvio che separa un’epoca dall’altra. A partire da quel momento, che sia pari ad un istante o lungo una giornata, i popoli non avranno che una certezza: nulla sarà più come prima, perché è come se fra un giorno e l’altro fosse trascorso un secolo. Una dilatazione spazio-temporale impercettibile al tatto, eppure lampante.

L’America si nutre di un’epicità tragica da quando è al mondo ed è per questo, forse, che è una fertile genitrice di credi millenaristi e culti apocalittici. Una peculiarità che l’ha plasmata e resa unica sin dall’età dei Padri Pellegrini, arricchendone gli annali di date del destino, di momenti in cui si è scoperta improvvisamente diversa, che l’hanno resa diversa. In occasione delle presidenziali del 1900, ad esempio, l’America scoprì quale fosse il suo fato: essere un impero – impero della libertà. E quasi un secolo più tardi, nel 1993 – altra data del destino –, si sarebbe guardata allo specchio scoprendosi disunita, intollerante e postdemocratica.

La strage di Waco

Waco, Texas, 19 aprile 1993. Un gigantesco incendio doloso riduce in cenere un complesso all’interno del quale vivono i davidiani, i membri di una setta apocalittica capitanata dal carismatico profeta e autoproclamato messia David Koresh. Muoiono settantasei persone, tra cui venticinque bambini e lo stesso Koresh. È la fine del cosiddetto assedio di Waco, che da quasi due mesi vedeva fronteggiarsi davidiani e autorità – ATF, FBI, Guardia nazionale e Texas Ranger –, e di uno degli ultimi rimasugli della rivoluzione controculturale degli anni Sessanta, forse il più celebre, senza dubbio il più mediatico.

Gli agenti rimetteranno sempre ogni responsabilità al mittente, rispondendo a quanti li accusano di negligenza e massacro voluto che l’incendio è scaturito dall’interno della comune, probabilmente acceso dallo stesso Koresh, ma le dimensioni della tragedia sono tali da dare il via ad una stagione di proteste da parte della società civile e da monopolizzare l’attenzione dei media per settimane, mesi.

Vano ogni tentativo della stampa allineata e degli influenzatori del Partito Democratico di fare breccia in quel monolite che è improvvisamente diventata l’opinione pubblica americana. Da destra a sinistra, traversando e trascendendo le barriere ideologiche, etniche e religiose, tutti sono concordi nell’esigere la messa in stato d’accusa dell’amministrazione Clinton per strage di Stato e nel richiedere le dimissioni di Janet Wood Reno, titolare del Ministro della Giustizia.

Il caso Foster

La mobilitazione dell’opinione pubblica, supportata per ragioni elettorali dai repubblicani, avrebbe messo a dura prova la tenuta della neonata amministrazione Clinton. Quel massacro era la prova che qualcosa era cambiato, sostenevano i dimostranti. Che un nuovo vento era prossimo a investire la terra delle libertà. Un vento di repressione del dissenso e del diverso, di sorveglianza di massa e di legalizzazione della brutalità poliziesca. Un vento che andava combattuto.

Il clima era pesante. Bill Clinton era alla ricerca di una persona o più sulle quali scaricare la responsabilità della penosa gestione dell’affare Waco o comunque di un diversivo funzionale a distrarre l’opinione pubblica, così da chiudere la vicenda e potersi concentrare sui fascicoli realmente importanti, come il monitoraggio dell’Iraq postguerra e della Iugoslavia in frantumi. Alla fine, avrebbe optato per il diversivo: il Travelgate.

Intenzionato a ripristinare la credibilità della Casa Bianca, nonché della sua stessa persona, a partire dal mese di maggio, cioè ad un mese dall’assedio di Waco, Clinton avrebbe cominciato a licenziare dipendenti e ufficiali governativi presumibilmente coinvolti in “crimini contro l’etica”, come ad esempio violazioni del codice di condotta e uso improprio del denaro pubblico. Al centro di quello che la stampa si affrettò a definire il Travelgate, perché inizialmente coinvolgente personale dell’Ufficio Viaggi della Casa Bianca, sarebbe finito Vince Foster, viceconsigliere dell’amministrazione, apprezzato dall’opinione pubblica e amico d’infanzia del presidente.

Foster rigettò ogni addebito, proclamandosi innocente da ogni accusa fin dal principio, ma gli inseguimenti coi paparazzi, l’isolamento nell’ambiente di lavoro e il clima d’odio non gli avrebbero dato tregua. Caduto in depressione, complice l’abbandono da parte dell’amico di lunghissima data e presidente, il 20 luglio dello stesso anno decise di porre fine alla propria vita con un colpo di pistola in bocca. Fine della storia. No.

Un circolo vizioso

Il caso Foster, inaspettatamente, avrebbe gettato nuove ombre sull’operato della presidenza Clinton, dando adito a nuove proteste e alimentando nuove teorie del complotto. E motivi per dubitare della versione ufficiale, effettivamente, i dimostranti e i familiari di Foster ne avevano. Perché non soltanto una sentenza della Corte suprema avrebbe successivamente stabilito l’inammissibilità della pubblicazione delle foto della scena del suicidio, ma, cosa altrettanto inquietante, dall’ufficio di Foster sarebbero spariti tre faldoni di documenti relativi al caso Waco.

Stragi di cittadini, scandali di carta per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica, apparenti suicidi e smarrimenti di documenti scottanti hanno reso il 1993 una delle date del destino dell’Impero americano. Data, nella fattispecie, che ha consacrato la transizione degli Stati Uniti da democrazia popolare e libertaria a post-democrazia elitaria e securitaria. Una transizione che di lì a breve, non sorprendentemente, sarebbe stata accompagnata dall’emergere di una nuova forma di contestazione: il terrorismo domestico di stampo antigovernativo. Contestazione sanguinaria e intrinsecamente sovversiva di cui Timothy McVeigh (attentato di Oklahoma City) e Theodore Kaczynski (Unabomber) sarebbero stati i pionieri, avendo agito il primo per denunciare la fine dell’ordine libertario e il secondo per manifestare contro sorveglianza e tecnologizzazione.

Tutto ciò che è venuto dopo il 1993, a partire dai suoi atti primi – l’attentato di Oklahoma City e il terrorismo liquido di Unabomber –, fino ad arrivare ai giorni nostri – dallo sdoganamento della sorveglianza di massa con il pretesto della lotta al terrorismo alla polarizzazione sociale in opposti estremismi –, non è che manifestazione della maturazione post-democratica cominciata quell’anno, da qualche parte tra l’assedio di Waco e il caso Foster.

Oklahoma, 1995: attacco al potere. su Inside Over l'1 febbraio 2022.

I turbolenti anni Novanta dell’America, cominciati con la guerra in Iraq e terminati con l’intervento in Iugoslavia, costituiscono una delle epoche più bistrattate e incomprese dalla storiografia contemporanea. Decade del momento unipolare per alcuni, principio dell’egemonia politico-culturale del Partito Democratico per altri, età di fondamentale translatio imperii per pochi o nessuno.

Gli anni Novanta andrebbero riscoperti, ristudiati da cima a fondo, perché sono il tempo in cui ha avuto inizio la trasformazione dell’America da democrazia popolare e libertaria a post-democrazia elitaria e securitaria, da campione del mondo libero ad alfiere dei regimi di sorveglianza.

Atto fondativo di questo epocale processo trasformativo, oggi più che mai visibile – come dimostrato dall’America post-Patriot Act, dal caso Edward Snowden e dalla normalizzazione della censura –, è stato sicuramente l’assedio di Waco del 1993. E uno dei fenomeni di accompagnamento più distintivi di questa fase di transizione è stato il mutare radicale dell’espressione del dissenso antigovernativo, divenuto da un giorno all’altro destabilizzante, mortifero e terroristico. Un mutare avvenuto e fermentato nel silenzio, all’ombra di una pace sociale soltanto apparente e della cui rilevanza le autorità si sarebbero rese conto il 19 aprile 1995 a Oklahoma City.

Il contesto storico

L’attentato di Oklahoma City è e resta ancora oggi il più grave atto terroristico condotto sul suolo statunitense da attori domestici guidati da moventi antigovernativi. 168 morti e 700 feriti; tante furono le vittime dell’odio cieco nutrito da Timothy McVeigh nei confronti delle istituzioni, del cosiddetto establishment. Soltanto Osama bin Laden, sei anni dopo, cioè l’11 settembre 2001, sarebbe riuscito a provocare più dolore e distruzione agli Stati Uniti.

Come McVeigh diventò l’attentatore di Oklahoma City è storia: storia nota. Reduce della guerra in Iraq, dove aveva servito con coraggio ma era rimasto traumatizzato dal celeberrimo attacco aereo sulle truppe iraqene in ritirata lungo l’autostrada 80, non sarebbe mai riuscito a reintegrarsi nella società a causa di una sensazione di profondo malessere provata nei riguardi dello Stato.

Vittima di un possibile disturbo da stress post-traumatico, McVeigh sarebbe rapidamente caduto in un vortice depressivo, accentuato dallo sviluppo di una ludodipendenza, e avrebbe cominciato a serbare un rancore crescente verso il fisco – perché ritenuto favorevolmente calibrato in direzione dei ricchi – e le forze dell’ordine – alcuni episodi di cui era stato spettatore inerme, come il caso Ruby Ridge, lo avevano convinto che servissero più ad opprimere l’onesto cittadino che a reprimere il criminale.

Il punto di svolta, per McVeigh, sarebbe arrivato il 19 aprile 1993, giorno in cui un incendio doloso di dubbia origine pose fine all’assedio di Waco – un confronto tra i membri di una setta apocalittica, i Davidiani, e le autorità – provocando la morte di settantasei persone, tra cui venticinque bambini. Waco fu la prova, agli occhi di McVeigh, che gli Stati Uniti avevano cessato di essere l’Impero della Libertà e che un nuovo regime era stato instaurato: antidemocratico, anti-libertario, securitario, totalitario.

A partire dal dopo-Waco, insieme ad un ex commilitone, Terry Nichols, McVeigh avrebbe cominciato a raccogliere materiale utile a consumare un attentato spettacolare. Non sapeva bene chi, cosa e dove colpire, ma di una cosa era più che certo: l’obiettivo avrebbe dovuto essere governativo.

L'attentato

Prima che la scelta ricadesse sull’edificio federale Alfred P. Murrah – un colosso di cemento ospitante gli uffici di diverse agenzie, tra le quali ATF, DEA e USSS –, McVeigh aveva ponderato l’assassinio della procuratrice generale Janet Reno o del tiratore scelto Lon Horiuchi, rispettivamente protagonisti dell’assedio di Waco e del caso Ruby Ridge.

La scelta dell’obiettivo, alla fine, sarebbe ricaduta sull’Alfred Murrah per una questione di dimensione del danno: McVeigh non voleva eliminare una persona, rischiando che la vendetta si fermasse lì in caso di arresto, ma privare l’establishment di quanti più servitori possibili. E avrebbe scelto una data simbolica per consumare l’attentato: il 19 aprile, anniversario dell’assedio di Waco e della battaglia di Lexington.

McVeigh, con il supporto fondamentale di Nichols, avrebbe trascorso il 1994 a raccogliere materiale utile a provocare il collasso dell’erculeo edificio multipiano. Materiale che, per motivi di economia e per non destare sospetti, sarebbe stato trovato nel nitrato di ammonio e nel nitrometano e conservato all’interno di un magazzino in affitto.

Guardate alle persone come se fossero i soldati imperiali in Guerre stellari: potrebbero anche essere innocenti se prese singolarmente, ma ciò che le rende colpevoli è il servire l’Impero Galattico.

La mattina del 19 aprile 1995, come da programma, McVeigh parcheggiò davanti all’Alfred Murrah un camion contenente una micidiale bomba a base di più di due tonnellate di nitrato di ammonio, miscelate con mezza tonnellata di nitrometano e più di un quintale di tovex, e attese le nove per la detonazione – un omaggio ad un episodio-chiave dei The Turner Diaries, la Bibbia dei suprematisti bianchi.

L’esplosione, che avviene alle 9 e 2 minuti, è devastante, terrificante. Un terzo dell’edificio Alfred Murrah collassa immediatamente, dove era parcheggiato il furgone si apre una voragine profonda tre metri e larga nove, l’onda d’urto crea danni a più di trecento edifici circostanti e causa la distruzione di quasi cento vetture, i sismometri registrano una magnitudo 3 sulla scala Richter. A terra 168 morti e circa 700 feriti.

McVeigh sarebbe stato arrestato sull’interstatale 35, in fuga da Oklahoma City, a neanche due ore dall’attentato. La polizia aveva piazzato controlli ovunque, pur avendo in mente un altro genere di attentatore – jihadisti o narcos –, e a McVeigh fu trovata un’arma non registrata in auto ed un bigliettino compromettente inerente un ordine di TNT. Una settimana più tardi sarebbe giunto il momento di Nichols, all’interno della cui abitazione furono trovate più prove che indizi: nitrato di ammonio, manuali su come costruire bombe artigianali, materiale antigovernativo, una mappa di Oklahoma City.

Nel 1997, un anno e mezzo dopo l’attentato, McVeigh fu condannato a morte e Nichols all’ergastolo. Mai pentitosi del massacro, il cui movente avrebbe dettagliato durante e dopo il processo, McVeigh fu giustiziato l’11 giugno 2001 mediante iniezione letale.

L'eredità

L’attentato di Oklahoma City avrebbe lavorato in senso contrario alla speranza-aspettativa di McVeigh: nessuna insurrezione del popolo contro le istituzioni, ma, al contrario, avvio di una campagna investigativa su scala nazionale avente come obiettivo la caccia agli estremisti domestici e introduzione di leggi più restrittive in materia di acquisto di determinati beni, come il fertilizzante.

A partire dal dopo-Oklahoma, inoltre, i nuovi edifici federali vengono edificati rispondendo a nuovi criteri di sicurezza – materiale resistente a possibili aggressioni con mezzi pesanti e localizzazione strategica, cioè lontana da aree trafficate e vulnerabili ad attentati con veicoli.

L’edificio Alfred Murrah, oggi, non esiste più. Ciò che sopravvisse a quella detonazione cataclismica fu successivamente buttato giù mediante una demolizione controllata. Al suo posto, invece, si trova il Memoriale nazionale di Oklahoma City, dove ogni anno, la mattina del 19 aprile, gli abitanti della metropoli si recano per osservare un minuto di silenzio alle 9 e 2 minuti.

Per quanta riguarda McVeigh, che durante la prigionia all’ADMAX diventò oggetto di idolatria anche tra i detenuti jihadisti – celebri i tentativi del qaedista Ramzi Yousef di convertirlo all’Islam –, il suo legato è tutt’altro morto con lui. Il suo gesto, invero, ha fatto sì che cominciasse a essere venerato come un martire dai nazionalisti bianchi di tutta l’America, in particolare da coloro che credono nell’esistenza del cosiddetto “governo di occupazione sionista”, che da quel 19 aprile 1995 hanno un dio minore al quale prostrarsi, al quale ispirarsi.

Qual è il crocevia del mondo. Elohim, la “città privata” dei separatisti bianchi. Pietro Emanueli su Inside Over l'1 febbraio 2022.

Quando si scrive e si parla di nazionalismo bianco a stelle e strisce, spesso e volentieri, gli argomenti cardine del discorso sono il Ku Klux Klan, la destra alternativa e lo spettro spaventevole e sempreverde della guerra razziale. Uno spettro che vari attori hanno provato a stuzzicare nel corso del tempo, dalla Famiglia Manson all’Unione Sovietica, nella speranza-aspettativa di dare vita ad un poltergeist che trasformasse gli Stati Uniti in una hollywoodiana terra distopica e post-apocalittica.

Non è stato e non è sempre vero, però, che i suprematisti del potere bianco abbiano cercato e cerchino, sempre e comunque, di far scoppiare una distruttiva guerra razziale. Perché altri, una minoranza poco rumorosa, sono stati e sono più interessati alla traslazione in realtà di un sogno, più che di un incubo: la costruzione di un etnostato bianco all’interno degli Stati Uniti. Un sogno che alcuni sono riusciti a realizzare. Questa è la storia di Elohim, la prima “città privata”, popolata interamente da bianchi, degli Stati Uniti.

Dalla nascita ad oggi

La storia di Elohim è la storia di Robert Millar, un predicatore mennonita di origine canadese, classe 1925, che negli anni Cinquanta si trasferì negli Stati Uniti, più precisamente a Oklahoma City, per dare vita ad una propria chiesa. Trascorse gli anni Cinquanta e Sessanta muovendosi ed evangelizzando tra l’Oklahoma e il Maryland, profittando del fermento culturale dell’epoca per fare proseliti, per provare a diventare uno dei tanti profeti fai da te in circolazione.

Nel 1973, di ritorno nell’Oklahoma, Millar diede vita ad una comune nella contea di Adair, ribattezzandola Elohim. Inizialmente popolata da una ventina di persone, alcune delle quali erano donne legate sentimentalmente al profeta poligamo, Elohim avrebbe vissuto un piccolo boom demografico negli anni successivi, arrivando a contare tra i 200 e i 300 abitanti.

Il momento della popolarità, per Millar e la sua creatura, sarebbe giunto nel 1986, anno in cui venne dato asilo ad una donna canadese in fuga coi propri figli dalla giustizia. La donna avrebbe dovuto cedere la custodia della prole all’ex marito, ma, non volendo dare seguito all’ordine del tribunale, trovò riparo a Elohim. La comune diventò popolare, venendo innalzata a faro di libertarismo in un’era di crescente sorveglianza, quando le guardie (armate) impedirono l’ingresso alle forze dell’ordine.

Alla morte di Millar, avvenuta nel 2001, la gestione della micro-città privata è stata spartita tra figli e nipoti, che, assieme, costituiscono circa la metà della popolazione totale. Di questa enclave di quattrocento acri nel cuore degli Stati Uniti, che vive di regole proprie e in un orizzonte temporale a se stante, non è dato sapere nient’altro: la famiglia Millar controlla entrate e uscite – deliberando su naturalizzazioni ed espulsioni – e i giornalisti possono farvi ingresso sporadicamente, previa autorizzazione degli Anziani – il comitato direttivo della città –, scortati da accompagnatori dall’inizio alla fine del loro tour.

Vivere a Elohim City

A Elohim vige un sistema economico di natura autarchica: non si produce per il consumo di massa, si produce per autosussistenza. I Millar gestiscono alcune delle principali attività produttive, come una segheria ed una ditta di furgoni, e si occupano del dialogo con le autorità – per garantire, ad esempio, la continuità nell’erogazione di elettricità e internet.

La sicurezza è garantita da un gruppo di vigilanti, anche se, in realtà, la tutela della collettività viene ritenuta un diritto-dovere ricadente su ognuno. Una ragione, quella di cui sopra, che spiega perché tutti gli abitanti possano circolare liberamente, negli spazi pubblici, con armi da fuoco.

L’istruzione è garantita da un istituto educativo, la Bethel Christian School, presso la quale piccoli e adolescenti studiano le stesse materie dei coetanei del resto della nazione, ma con una differenza: centro del curricolo scolastico è la storia delle civiltà bianche. Perché Elohim non è una comune come le altre: qui il nazionalismo bianco è religione di stato. Nello specifico, gli abitanti di Elohim aderiscono ad una forma eterodossa di protestantesimo evangelico, la cosiddetta identità cristiana, le cui principali caratteristiche sono le seguenti:

Gli ebrei hanno perduto il titolo di popolo eletto con l’arrivo di Gesù, che da allora è passato ai bianchi, più precisamente agli anglosassoni (israelismo britannico), e nel diciottesimo secolo, con la nascita degli Stati Uniti, al popolo americano.

Dell’ebraismo, comunque, viene accettata una grande varietà di rituali, convinzioni e pratiche, essendo il Vecchio Testamento il loro principale punto di riferimento. Ad esempio, è il sabato, non la domenica, il giorno del riposo.

Viene operata una netta distinzione tra l’ebraismo e il sionismo, con il primo che costituisce la fede primigenia, madre dei profeti e ventre del cristianesimo e con il secondo che sarebbe un nemico del cristianesimo, degli stessi ebrei e degli Stati Uniti. Gli abitanti di Elohim si riferiscono a questi ultimi come ad un “governo di occupazione sionista”.

Interpretazione razzialistica della maledizione di Cam.

Le mille ombre della città privata

Non è per la convinzione che i bianchi siano superiori al resto dell’umanità, e neanche per il fatto di essere una comune amish in salsa suprematista, che Elohim risulta essere nel mirino degli inquirenti sin dagli anni Ottanta. Perché il fatto che sia stata concepita come un rifugio per soli bianchi ne ha inevitabilmente causato la trasformazione in un magnete per combattenti, elementi radicali e terroristi.

Tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, come appurato da innumerevoli inchieste, Elohim ha fornito un tetto a un numero indefinito di fuggitivi e criminali appartenenti all’estremismo di destra, tra i quali James Ellison (fondatore di The Covenant, The Sword, and the Arm of the Lord), George Eaton (creatore di The Present Truth Ministries), Chevie Kehoe (pluriomicida, membro della Repubblica Popolare Ariana), Willie Ray Lampley (capo della Milizia Costituzionale dell’Oklahoma e della Chiesa Universale di Yahweh), Dennis Mahon (guida del capitolo oklahomense del KKK e affiliato della Resistenza Ariana Bianca) e i capifila dell’Esercito repubblicano ariano, un’organizzazione a metà tra il terroristico e il criminale, Michael William Brescia, Kevin McCarthy, Scott Stedeford e Mark Thomas.

Preoccupato dal via vai di criminali, latitanti e ideologi del potere bianco, nonché dalle indiscrezioni sul coinvolgimento della famiglia Millar nel traffico di sostanze stupefacenti, il Federal Bureau Investigations infiltrò due informatori a Elohim tra il 1994 e il 1995, Carol Howe e Richard Schrum, affidando loro il compito di raccogliere prove utili a giustificare un’operazione in stile tabula rasa. Perché il governo americano, dopo il tragico assedio di Waco, non poteva e non voleva condurre altre (sanguinose) azioni alla cieca contro delle comuni in odore di criminalità.

Schrum non trovò nulla, scrivendo nel rapporto conclusivo di non essere stato testimone di nessuna attività illecita durante il tempo trascorso a Elohim. La Howe, invece, realizzò una relazione completamente diversa. Legata sentimentalmente a Mahon, nonché conoscente di Millar padre, la donna avvisò gli agenti Fbi dell’esistenza di un feroce odio antigovernativo da monitorare, aumentato a dismisura nel dopo-Waco, e di un possibile preparativo d’attacco contro gli edifici federali di Oklahoma City.

Le soffiate della Howe, per quanto obiettivamente gravi, non furono tenute in considerazione. Al contrario, con la Howe, poiché ritenuta mentalmente instabile e probabilmente alla ricerca di vendetta nei confronti di Mahon – con il quale si era lasciata –, la polizia federale cessò ogni rapporto. Di lì a breve, il 19 aprile 1995, l’ex veterano di guerra Timothy McVeigh avrebbe fatto esplodere un furgone bomba contro l’edificio federale Alfred Murrah, nel centro di Oklahoma City, provocando 168 morti e 672 feriti.

Non è dato sapere che ruolo abbia giocato Elohim nell’attentato, ma è chiaro che qualcosa, in questa enclave per soli bianchi, abbia avuto luogo tra il 1994 e il 1995. Non si spiegherebbe, altrimenti, perché alla Howe fosse giunta voce di un possibile attentato e perché tra i nomi citati nel processo a McVeigh vi fossero vari residenti stabili della comune, tra i quali Michael Fortier, Kerry Noble e Andreas Strassmeir. E non si spiegherebbe perché, come documentato dal New York Post, le strade di Elohim siano costellate di immagini di McVeigh, l’eroe che ha tolto vite, e il martire che ha pagato con la propria, sfigurando quel governo di occupazione sionista da loro visceralmente odiato.

Merito degli stati abolizionisti. Usa, pena di morte ai minimi storici ma sempre ‘razzista’. Valerio Fioravanti su Il Riformista il 14 Gennaio 2022.  

Undici esecuzioni in un anno è il numero più basso dal 1988 e 19 condanne a morte è una in più dell’anno scorso, che era il numero più basso dal 1972. Da vent’anni Nessuno tocchi Caino traduce in italiano e sintetizza i principali “rapporti di fine anno” che gli statunitensi dedicano al tema della pena di morte. Potrebbe sembrare un punto di vista limitato, ma da come un Paese si occupa dei propri cittadini “peggiori” si ricavano elementi interessanti.

Dicevamo che il 2021 è stato, per la pena di morte negli Stati Uniti, l’anno “migliore” dell’ultimo mezzo secolo. C’entra il Covid: i processi sono stati rallentati dall’adozione delle videoconferenze e le attività legali a valle e a monte dei processi sono state rallentate, compresi i ricorsi “dell’ultimo minuto” a cui hanno diritto i condannati a morte subito prima dell’esecuzione. Nessuno sa calcolarne l’incidenza effettiva, ma sicuramente il Covid ha contribuito a tenere basse le cifre dell’ultimo anno. Forse, però, meno di quanto possa sembrare. A settembre avevamo segnalato che nel 2020, anche a causa del Covid, negli Usa gli omicidi erano aumentati del 29%, salendo a 21.500. Considerato che in media un processo per omicidio arriva a sentenza 12 mesi dopo il crimine, in tempi normali all’aumento di omicidi avrebbe dovuto corrispondere un aumento di pene capitali. Così non è stato.

Il merito va a diversi nuovi Procuratori Distrettuali, che in campagna elettorale avevano promesso che non avrebbero utilizzato le procedure costosissime della pena di morte e avrebbero utilizzato il denaro risparmiato per altre cose, soprattutto programmi sociali di prevenzione e più lavoro su casi considerati “minori”. Il combinato disposto tra politici innovativi che negli ultimi tre anni hanno abolito la pena di morte in Virginia, Colorado e New Hampshire, Corti Supreme “garantiste” che hanno dichiarato incostituzionali le leggi capitali degli stati del Delaware e di Washington e pubblici ministeri più “sociali”, ha portato al livello attuale. Undici esecuzioni in una nazione che ha una media di 15.000 omicidi l’anno, e 330 milioni di abitanti, non sono tante. Però gli Stati Uniti sono l’unico Paese delle Americhe in cui è ancora in vigore la pena di morte. Non c’è in Canada, non c’è in Messico e non c’è in nessuno Stato del Centro e Sud America. Quindi sì, 11 esecuzioni sono ancora tante. E sono esecuzioni “razzialmente sbilanciate”.

Undici dei 19 condannati a morte nel 2021 erano neri o latinoamericani; 6 su 11 dei giustiziati erano neri. L’83% delle condanne a morte e la metà delle esecuzioni che coinvolgono uomini neri erano per reati contro bianchi, così come tre delle quattro condanne inflitte agli imputati latino-americani. Quattordici delle 19 condanne a morte riguardavano una vittima bianca, e nessuna persona bianca è stata condannata o giustiziata per una vittima nera. I dati “razziali” stanno migliorando, ma sono ancora molto sbilanciati. Un complicato ma prezioso calcolo che fa il Legal Defense and Educational Fund ci dice che il numero di detenuti neri (1.018) e bianchi (1.050) nei bracci della morte è praticamente uguale, ma i bianchi costituiscono il 70% della popolazione della nazione, mentre i neri sono il 13%. La proporzione “migliora” se si guarda alle persone giustiziate: il 55% era bianco, il 34 nero. Ma i dati tornano a sbilanciarsi fortemente quando si considerano le vittime. Le 1.534 persone giustiziate dal 1977 a oggi erano state condannate per un totale di 2.246 omicidi. Le vittime di questi omicidi erano nel 75% dei casi bianche e solo nel 15% dei casi nere.

L’ultimo dato contenuto nei rapporti è l’inazione di Biden. Politici “minori” hanno abolito la pena di morte in tre Stati in tre anni, Corti Supreme di Stato hanno dichiarato illegale la pena di morte in altri due stati, e dei “piccoli pubblici ministeri di contea” rinunciano alla facile gloria di far condannare a morte i criminali locali. Manca il Presidente. Sia Biden che la sua vice, Kamala Harris, in compagna elettorale avevano speso grandi parole contro la pena di morte. Si diceva che entro i primi 100 giorni avrebbero proclamato una moratoria e poi commutato le condanne a morte federali. Il 20 gennaio sarà passato un anno dal loro insediamento e al momento non hanno fatto niente. Si può fare campagna “progressista” quanto si vuole, ma negli Usa abolire la pena di morte richiede un coraggio che evidentemente i politici “grandi” non hanno. Già, perché prima di Biden, Obama aveva avuto due mandati di tempo per fare qualcosa, e non ha fatto niente. E niente aveva fatto Clinton. Qui le analisi degli esperti si fermano. Sconsolate. Valerio Fioravanti

Le Guerre. Camelot, ovvero l’arte del colpo di stato. Emanuel Pietrobon il 23 Ottobre 2022 su Inside Over.    

I libri di storia sono un susseguirsi di pagine che raccontano di popoli in rivolta contro l’iniquità al potere, rivoluzioni per la terra e il pane e  regicidi in pubblica piazza. Se la storia dell’Uomo insegna qualcosa, in effetti, è che fame, rancore e paura sono i grandi motori del cambiamento ab immemorabili.

Quello che i manuali scolastici – e persino universitari – non insegnano, anche se dovrebbero, è che nulla è più strumentalizzabile della fame, del rancore e della paura. Una conoscenza di cui i decisori dei decisori, cioè i Richelieu di ogni epoca, hanno sempre avuto piena cognizione e che ha fatto la loro fortuna. Una conoscenza che è stata l’inchiostro della storia. Una conoscenza che gli Stati Uniti, durante la Guerra fredda, provarono ad ampliare e a raffinare dando vita all’ambizioso progetto Camelot.

Il contesto storico e geopolitico

La mente è destinata a giocare un ruolo crescentemente importante nelle scienze strategiche, perché gli avanzamenti nelle neuroscienze e l’aggravamento della competizione tra grandi potenze hanno accelerato l’inevitabile ascesa dell’era delle guerre cognitive, ma la verità è che irrilevante non lo è stata mai.

È da quando Sigmund Freud ha inventato la psicoanalisi che gli strateghi al servizio di Casa Bianca, Langley e Pentagono arruolano esperti della mente nei loro dipartimenti – come (di)mostrato dalla composizione del Comitato di Informazione Pubblica istituito dalla presidenza Wilson durante la Grande guerra. E la storia del progetto Camelot, in effetti, non è che una storia (avvincente) di psicologi reclutati dagli Stati Uniti in uno dei loro periodi più complicati e sensibili: la guerra fredda. 

Charles Douglas Jackson, lo psico-guerriero della Casa Bianca

Edward Bernays, il pubblicitario capace di manipolare le masse

Era dagli anni Quaranta che il governo federale finanziava progetti in materia di guerra psicologica, propaganda e osservazione del comportamento umano, ma il confronto con l’Unione Sovietica aveva persuaso gli Stati Uniti che fosse necessario fare qualcosa di più. E fu così che, dalle ceneri dell’ambizioso progetto Troy – una ricerca del MIT sulla creazione artificiale di instabilità sociopolitica – e del Gruppo dello Smithsonian – un gruppo variegato di think tank e associazioni di psicologi accomunati dall’obiettivo di predire il comportamento delle masse –, nacque Camelot.

Se al nebuloso Camelot può essere affibbiata una data di nascita, questa è certamente il 1956. L’anno in cui presso l’American University, su iniziativa dell’Ufficio di guerra psicologica dell’Esercito, fu fondato l’Ufficio di ricerca sulle operazioni speciali (SORO, Special Operations Research Office). Un ente che, inizialmente focalizzato sullo studio della controguerriglia, entro gli anni Sessanta sarebbe diventato il cuore pulsante del vibrante settore delle guerre psicologiche e il ricettore di ben due milioni di dollari l’anno di fondi federali.

Conosci il tuo nemico, studia il terreno di scontro

Al Soro, nell’estate del 1964, fu avanzata dall’Esercito la classica proposta impossibile da rifiutare: proseguire gli studi di previsione sociale e controguerriglia del progetto Troy e del Gruppo Smithsonian, i cui risultati sarebbero stati messi a piena disposizione degli psicologi dell’American University.

L’obiettivo del Soro, a mezzo della conduzione del progetto Camelot, sarebbe stato molto più elevato di quello ricercato dai due predecessori: la realizzazione di uno studio a trecentosessanta gradi sulle cause del conflitto in un insieme selezionato di casi studio, in larga parte paesi della Latinoamerica, propedeutico all’elaborazione di un modello predittivo sul collasso sociale.

Il Soro ricevette dai quattro ai sei milioni di dollari per esperire il progetto, che l’Esercito avrebbe voluto terminato entro quattro anni. Una cifra enorme. Ma, del resto, enormi erano anche le aspettative del Pentagono, che attraverso le teorie, le conoscenze e i progressi di neuroscienze, sociologia e psicologia delle masse sperava di capire se e come fosse possibile creare una rivoluzione dal nulla, anche in contesti socialmente coesi – come il Cile – ed economicamente avanzati – come la Francia.

Al richiamo di Camelot, alla luce del compenso offerto, del prestigio conseguibile e della significatività delle implicazioni pratiche, risposero alcuni dei più eminenti studiosi dell’epoca: dall’esperto di teoria dei giochi Thomas Schelling al sociologo James Samuel Coleman.

Mockingbird, obiettivo manipolazione di massa

Agli psicologi del Soro fu dato mandato di studiare nel dettaglio, di disaminare approfonditamente, ogni aspetto socioculturale dei principali teatri dell’America centromeridionale, in particolare di Argentina, Bolivia, Brasile, Colombia, Cuba, Messico, Perù e Venezuela. Altre squadre, invece, si sarebbero occupate di altri fronti caldi, ma più lontani, come l’Africa – Nigeria –, l’Europa – Francia, Grecia –, l’islamosfera – Egitto, Iran, Turchia – e l’Estremo Oriente – Corea del Sud, Indonesia, Malesia, Tailandia.

Gli investigatori del Soro avrebbero dovuto studiare le società dei paesi indicati dal Pentagono da vicino, preferibilmente e possibilmente sul campo, erogando sondaggi, intervistando colleghi e gente comune, interessandosi alla loro letteratura e respirandone e assorbendone usi, costumi e credenze. La pratica etnografica dell’osservazione partecipante pionierizzata da Bronisław Malinowski applicata alla psicologia delle masse.

La macchina di processamento dati costruita nell’ambito del progetto Camelot era mastodontica: realizzazione di rapporti periodici da parte degli psicologi, trasmissione dei dati raccolti sul campo ad un centro computerizzato di analisi, interpretazione e smistamento, studio di rapporti e dati ai fini dell’edificazione di un maxi-database sulle società del globo e della formulazione dell’agognata teoria predittiva sull’instabilità sociale.

Con lo scorrere del tempo, secondo il sociologo Irving Louis Horowitz, Camelot sarebbe diventato il “progetto Manhattan delle scienze sociali”. Un’esperimento sociale a cielo aperto, sebbene coperto dalla fitta nebbia del segreto militare, senza equivalenti né precedenti nella storia.

La fine e l'eredità

Il coinvolgimento del Pentagono nella più vasta indagine sociale per fini militari della storia dell’umanità non sarebbe rimasto segreto a lungo. Perché alcuni accademici cileni, straniti da un’inusuale proposta di collaborazione lanciata da un antropologo proveniente dagli Stati Uniti, Hugo Nutini, riuscirono a risalire alle origini e alle ragioni di Camelot – scoperchiando il vaso di Pandora.

Con l’aiuto di Johan Galtung, un professore dell’Istituto latinoamericano di scienze sociali del Costarica che aveva intuito gli scopi militari di Camelot, l’accademia cilena esercitò un crescendo di pressioni su Nutini fino a quando quest’ultimo, esasperato dal clima venutosi a creare, vuotò il sacco sul progetto in una lettera all’editore inviata al Review of Sociology. Era il 1965.

Il caso Nutini, o meglio il caso Camelot, avrebbe avuto ripercussioni diplomatiche. Il governo cileno, peraltro politicamente e ideologicamene vicino agli Stati Uniti, protestò ufficialmente e fu aperta un’indagine allo scopo di capire se il progetto non fosse la punta di un iceberg, ovvero l’indizio di un colpo di stato in divenire.

Presto, complice il rilancio dello scandalo da parte della stampa sovietica – e, in linea di successione, dei partiti socialisti e comunisti dell’Occidente –, gli Stati Uniti annunciarono la chiusura del progetto e una revisione complessiva dei fondi dedicati alla ricerca nella politica estera. Ma la storia di Camelot non finì quell’anno.

L'ombra di Camelot sul presente

L’11 settembre 1973, a otto anni di distanza dalla fine del progetto, le forze armate cilene fecero irruzione nella Moneda, il palazzo della presidenza, dando vita ad un assedio durante il quale trovò la morte Salvador Allende e a seguito del quale fu instaurata una delle più dure e durature dittature militari dell’America meridionale.

All’epoca, a causa della disinformazione imperante, la grande stampa di mezzo mondo, con l’eccezione di quella comunista, veicolò l’idea che il colpo di stato fosse stato voluto dai cileni e che fosse stato provocato dalla malapolitica e dalle aspirazioni dittatoriali di Allende. Una menzogna.

La giustizia del tempo e le indagini del Commissione Church avrebbero portato la verità a galla, svelando il ruolo determinante giocato dagli Stati Uniti nel creare le condizioni per il golpe attraverso tre anni di operazioni psicologiche, guerre informative, polarizzazione teleguidata della società, terrorismo e guerra economica. Tre anni di operazioni di ingegneria sociale volte a distruggere l’economia più sviluppata e a dividere la società più coesa dell’America meridionale. Tre anni di applicazione pratica dei risultati emersi sul Cile dalle ricerche degli inquirenti di Camelot, i quali, nel 1965, avevano sentenziato: lo spettro di una guerra civile e la sensazione di avere una presidenza guidata da disegni autoritari avrebbero convinto i cileni a invocare un golpe militare e le forze armate a consumarlo – cosa poi accaduta.

Più di mezzo secolo è trascorso da quando il Pentagono decise di dar vita a Camelot, il più grande e ambizioso esperimento sociale per scopi militari della storia, ma il mondo sembra essersene dimenticato. Nella memoria collettiva dell’umanità non si trova ricordo del progetto Manhattan delle scienze sociali – è stato rimosso. Eppure, essendo questa l’epoca delle guerre ibride e senza limiti, dove tutto è o può essere un’arma, è più che legittimo chiedersi se e come il progetto Camelot abbia inciso sulla traiettoria dell’umanità, cambiandola per sempre, e quanto la sua eredità pesi, sebbene impercettibilmente, su tutti noi.

Programma Phoenix, fino all’ultimo Viet Cong. Emanuel Pietrobon il 23 Ottobre 2022 su Inside Over.    

La guerra del Vietnam ha rappresentato uno dei capitoli più importanti della Guerra fredda e, a latere, dell’intera storia novecentesca. Tra le giungle dell’Indocina fu combattuto il più lungo, esteso e sanguinoso conflitto per procura tra Stati Uniti e Unione Sovietica. Che si concluse, come è noto, con la (sudata) vittoria di quest’ultima.

Gli Stati Uniti alla fine si ritirarono, su suggerimento di Henry Kissinger, ma soltanto dopo aver percorso ogni via ritenuta praticabile e dopo aver impiegato ogni arma. Si ritirarono, sì, ma lasciando a Ho Chi Minh l’onere di ripulire il terreno da oltre venti milioni di galloni di erbicidi e da più di 325mila tonnellate di napalm. Si ritirarono dopo aver raso al suolo il 6% dell’intero territorio boschivo vietnamita. E dopo aver sterminato buona parte dei Viet Cong nel corso del programma Phoenix.

Il contesto storico

Ho Chi Minh aveva un’armata, i cui soldati erano noti come Viet Cong, composta da un numero imprecisato di persone. Sicuramente almeno 100mila. Ma, forse, persino di più. Impossibile quantificare con esattezza il numero dei militari del Vietnam del Nord. Gli Stati Uniti sapevano soltanto una cosa: i bombardamenti a tappeto non erano sufficienti.

Oltre ai Viet Cong, poi, Ho Chi Minh poteva contare su un esercito di collaboratori civili, composto dalle 80mila alle 150mila persone, che supportava la causa nordvietnamita in vari modi: indottrinamento, intelligence, logistica, operazioni psicologiche, reclutamento e proselitismo nel Vietnam meridionale.

Erano i civili Viet Cong, più che le loro controparti militari, a rappresentare il vero problema. Si espandevano nei villaggi controllati da Saigon, convertendone gli abitanti – spediti nei campi di rieducazione – e corrompendone i capi – minacciati di morte. Poco alla volta, uno dopo l’altro, l’ala civile dei Viet Cong stava conquistando il Vietnam meridionale senza colpo ferire. Il Programma Phoenix nacque per fermarne l’avanzata.

La messa in atto

Il programma Phoenix, noto in vietnamita come Chiến dịch Phụng Hoàng, ebbe luogo tra il 1967 e il 1972 e fu portato avanti dal Civil Operations and Revolutionary Development Support della Central Intelligence Agency, in combutta coi servizi segreti australiani e con l’esercito sudvietnamita.

Descritto dalla CIA come un “insieme di programmi per attaccare e distruggere l’infrastruttura politica dei Viet Cong”, Phoenix avrebbe perseguito il duplice scopo di cui sopra seguendo una scaletta rigorosa: infiltrazione nei villaggi, cattura dell’obiettivo, interrogatorio, tortura e assassinio.

Furono create delle Unità di riconoscimento provinciale, deputate all’infiltrazione degli agenti nei villaggi, e dei centri di interrogatorio regionali, dal nome autoesplicativo. L’efficacia del programma era misurata sulla base dell’indice di neutralizzazione dei Viet Cong civili tradotti nei centri di interrogatorio. E l’efficacia, numeri alla mano, fu elevatissima: 81.740 catturati, dei quali 26.369 successivamente uccisi.

A guidare gli interrogatori, basati su una combinazione di torture e psicologia, un veterano delle forze armate degli Stati Uniti: Peer de Silva. Un uomo con alle spalle la partecipazione al progetto Manhattan, alla guerra di Corea e ad operazioni sovversive in Asia. Un uomo universale, con esperienza nella ricerca militare, nei colpi di stato, nelle guerre urbane e negli interrogatori.

Fu de Silva, un profondo conoscitore della mentalità dei popoli asiatici, a pionierizzare un nuovo metodo di interrogatorio, concepito per estrapolare il maggior numero di informazioni dai vietnamiti. E tanta fu l’intelligence raccolta dagli specialisti formati al metodo de Silva che, ad un certo punto, nell’ambito di Phoenix fu istituito il Programma di sfruttamento e coordinamento dell’intelligence (ICEX, Intelligence Coordination and Exploitation Program).

Alla fine, nonostante il dispiegamento di un piccolo esercito – più di 700 agenti Phoenix nel 1970 –, l’operazione avrebbe seguito il destino dell’intera campagna militare. Ed entro il 1972, complice la progressiva ritirata degli Stati Uniti, sarebbe stata abortita.

L'impatto

Il programma Phoenix non ribaltò le sorti della guerra, ma certamente contribuì a complicare la resistenza di Ho Chi Minh all’invasore statunitense, privandolo di componenti essenziali dell’infrastruttura civile Viet Cong.

La lista nera di Phoenix era in continua evoluzione: chiunque poteva finire nel mirino degli specialisti di de Silva. E, difatti, vi finirono quasi 100mila persone. Secondo William Colby, direttore della CIA dal 1973 al 1975, i rapporti di intelligence comprovarono l’utilità di Phoenix: il periodo più duro per i Viet Cong fu il 1968-72, cioè quello coincidente con la campagna di rapimenti e omicidi supervisionata da de Silva.

Alla fine i Viet Cong prevalsero, ma per un breve periodo ebbero paura di sporgersi eccessivamente nei villaggi del Sud, divenuti dei veri e propri campi minati dove chiunque poteva essere un agente sul libropaga della CIA. Fare ritorno alla base dopo un interrogatorio col metodo de Silva, poi, non assicurava la fiducia dei capi e il ritorno alla normalità. I Viet Cong non si fidavano dei superstiti, perché consapevoli del fatto che il metodo de Silva implicava stupri, elettroshock, waterboarding, utilizzo di animali – dai serpenti ai cani. Il superstite era, per forza di cose, una persona che aveva parlato – probabilmente tanto. La sua eliminazione, per mano dei Viet Cong, un’inevitabilità.

La storia del programma Phoenix, una macchia indelebile per la reputazione degli Stati Uniti, emerse per la prima volta nel 1970. A portarla a galla, nonostante il silenzio stampa imposto da Kissinger, Ed Murphy e Frances Fitzgerald. Un anno dopo, a operazione ancora in corso, il duo sarebbe riuscito a portare l’argomento al Congresso – con l’aiuto di testimoni diretti dell’accaduto.

K. Barton Osborne, un operativo di Phoenix, scioccò il Congresso raccontando di non aver visto un solo vietnamita sopravvivere ad uno degli interrogatori col metodo de Silva. Ma Phoenix, del resto, era stata concepita come “un programma di assassinii, sterilizzazioni e spoliazione dell’identità”. Due i risultati ammessi: la morte dell’interrogato o la sua spersonalizzazione. Un formato successivamente entrato a far parte dell’armamentario della CIA e mai più abbandonato, come hanno dimostrato i vari scandali sulle violazioni dei diritti dei detenuti esplosi durante la Guerra al Terrore.

Chaos, alle origini della sorveglianza di massa. Emanuel Pietrobon il 23 Ottobre 2022 su Inside Over.    

Sorvegliare per punire. Sorvegliare per prevenire. Sorvegliare per controllare. Sorvegliare per comandare. La sorveglianza di massa accompagna l’Uomo dalla notte dei tempi e morirà insieme a lui. Impossibile scinderne i destini. Impossibile invertire la rotta tracciata dal progresso tecnologico.

La sorveglianza di massa esiste dall’antichità, come ricordano i circuiti di raccolta di intelligence dell’Impero romano, perciò le società tecnologiche ed industriali non hanno inventato nulla di nuovo. Hanno ampliato e rafforzato, indubbiamente, ma non creato. Occhi robotici al posto di occhi umani. Orecchie artificiali in luogo di orecchie umane.

Si suole identificare le origini della sorveglianza di massa nell’età tecnologico-industriale con la Guerra fredda, epoca della costruzione di abnormi regimi polizieschi dalla Germania Est della Stasi alla Romania della Securitate, ma la realtà è (molto) più complessa delle ricostruzioni superficiali della storia mainstream.

La realtà è che i semi della sorveglianza di massa della contemporaneità, emblematizzata dalle città delle telecamere e dalle leggi in stile Patriot Act, sono stati piantati nel corso dell’intero Novecento da una costellazione variegata di attori, dall’Unione Sovietica del periodo interguerra – musa ispiratrice di George Orwell – agli Stati Uniti in lotta col comunismo e paranoicamente sospettosi della loro cittadinanza. Gli Stati Uniti delle operazioni SHAMROCK, MINARET, CHAOS e COINTELPRO.

Le origini e il contesto storico

Scrivere dell’operazione CHAOS è raccontare degli Stati Uniti in lotta con l’Unione Sovietica, e con la loro stessa cittadinanza, nel corso di quello scontro egemonico epocale per l’egemonia globale che fu la Guerra fredda. Erano gli anni delle proteste dei movimenti per i diritti civili, della resurrezione del Ku Klux Klan, delle maxi-mobilitazioni dei pacifisti, e la Casa Bianca aveva un pessimo sentore: che dietro quel fermento potesse esserci la longa manus degli agenti del caos del Cremlino.

La presidenza Johnson, allo scopo di appurare le reali origini delle dimostrazioni e di capire se alcuni movimenti sociali e politici fossero legati in qualche modo a Mosca, nel 1967 diede mandato a Richard Helms, l’allora direttore della Central Intelligence Agency, di realizzare una piattaforma per la raccolta dati su individui ed entità in odore di collaborazionismo con l’Unione Sovietica. Piattaforma che avrebbe assunto il nome di CHAOS.

L’operazione fu esperita tra il 1967 e il 1973, sopravvivendo all’amministrazione Johnson e venendo potenziata da Richard Nixon, risultando particolarmente utile perché svolta in concomitanza con COINTELPRO del Federal Bureau of Investigations. Gemelli separati alla nascita, ma uniti da un comune destino: il controllo della cittadinanza.

Nomen omen

Tra il 1967 e il 1969, nel corso della fase Johnson, agli 007 della CIA fu dato ordine di monitorare i movimenti internazionali, fisici e bancari, degli attivisti antiguerra. Johnson voleva sapere dove si recavano, con chi parlavano e quali cifre si trovavano sui loro conti correnti.

Gli attivisti venivano seguiti a distanza ravvicinata, tramite forme di pedinamento classico, e da remoto, ossia con dispositivi elettronici, ignari di essere osservati e ascoltati da uno stuolo di spie in grado di agire mondialmente. Le stazioni della CIA all’estero ritrasformate a tale scopo. Gli 007, in precedenza addestrati per scovare controparti del KGB, chiamati ad utilizzare le loro conoscenze e competenze nel camuffamento per infiltrare i movimenti del pacifismo del paese e persino alcuni all’estero. Obiettivo: capire se esistesse una cospirazione internazionale volta a gettare nel caos gli Stati Uniti.

Gradualmente, sul finire dell’era Johnson e l’inizio dell’amministrazione Nixon, gli obiettivi nel mirino dei microfoni e delle telecamere di Chaos sarebbero stati aumentati. Non soltanto gli attivisti dei movimenti contro la guerra, ma anche i comitati del femminismo – Women Strike for Peace –, le ambasciate – come quella di Israele – e gli estremismi religiosi – come B’nai B’rith – e razziali – le Pantere Nere.

La fine

L’operazione CHAOS fu tra le vittime collaterali del Watergate, tra gli scandali politici più gravi della storia degli Stati Uniti, che incoraggiò la presidenza Nixon a chiederne la conclusione nel 1973. Conclusione avvenuta nel più totale silenzio, si intende, perché se oggi il mondo è a conoscenza del programma è solo grazie a delle gole profonde che, nel 1974, si rivolsero al giornalista investigativo Seymour Hersh per denunciare quanto accaduto negli anni precedenti.

Le rivelazioni delle gole profonde, condensate da Hersh nello storico Huge CIA Operation Reported in US Against Antiwar Forces, Other Dissidents in Nixon Years, pubblicato per il New York Times, avrebbero scoperchiato un vaso di Pandora, contribuendo in maniera determinante all’istituzione della Commissione sulle attività della CIA negli Stati Uniti, altresì nota come la Commissione Rockefeller.

Nel complesso, secondo gli inquirenti della commissione Rockefeller, l’impianto di sorveglianza aveva portato alla costruzione di un database con all’interno informazioni su circa trecentomila cittadini, più di settemila dei quali schedati in maniera dettagliata, e mille gruppi. Database parallelo, ma complementare, a quello eretto nell’ambito di COINTELPRO, sorella gemella di CHAOS, entrambi rivelatisi fondamentali nell’annichilimento delle varie minacce per l’alto provenienti dal basso, in particolare le Pantere Nere.

Il popolo dei veterani delle guerre americane. Marco Valle su Inside Over il 21 gennaio 2021.

Diciannove milioni di uomini (89%) e donne (11%) sparsi attraverso gli States e territori associati, una “lunga linea grigia” stesa tra il Maine e l’Alaska, la Virginia e Portorico, il Texas e le Hawaii. È il popolo dei veterani delle tante guerre americane, i reduci del secondo conflitto mondiale (nel 2021 ancora 220.000, l’1%) e della Corea (5%), i sopravvissuti del Vietnam (31%) e i tanti che hanno combattuto negli ultimi trent’anni sui vari fronti — Iraq, Somalia, Afghanistan etc.— improvvidamente aperti e malamente chiusi dai vari presidenti di Washington. Sono i più giovani e i più numerosi (63%).

Dato interessante è la composizione etnica della galassia dei reduci, numeri che riflettono i mutamenti in corso negli Stati Uniti. I bianchi rappresentano ancora il 74% del totale mentre i neri sono il 13, gli ispanici l’8 e gli asiatici il 2%. Equilibri destinati a mutare nei prossimi vent’anni quando i bianchi scenderanno al 62%, gli ispanici saliranno al 16 e gli afroamericani al 15.

A tutti loro cerca di provvedere l’Us Department of Veterans Affairs, il ministero per gli ex combattenti, che coordina una serie di servizi —pensioni, cure, assicurazioni, inserimenti lavorativi, formazione —, gestisce 1500 ospedali e cura (in Patria e all’estero) 151 cimiteri. Una macchina enorme e molto dispendiosa: 387.000 dipendenti (di cui un terzo veterani) con un budget annuale di 243 miliardi di dollari. Impegni e cifre importanti che fortunatamente non disturbano i molto patriottici contribuenti, anzi. Un sondaggio del Pew Reserch Centre ha infatti rivelato che il 72% degli americani ritiene che l’aiuto ai vecchi soldati è una priorità nazionale e che gli investimenti a loro favore andrebbero rafforzati ulteriormente.

Un sentimento diffuso ben raccolto alla politica anche grazie alla potente lobby di veterani presente nei palazzi del potere: 91 dei 538 senatori e deputati eletti a Washington hanno indossato in gioventù (o, in alcuni casi, sino alla pensione) la mimetica e ben 991 dei 7559 eletti nei parlamenti degli Stati federali rivendicano orgogliosamente un passato militare. Ovviamente la grandissima maggioranza di loro milita nel partito repubblicano e gode del sostegno di associazioni benemerite e popolarissime come VoteVets o l’America Legion. Da qui i programmi di sostegno governativi che facilitano l’ingresso dei reduci nelle amministrazioni pubbliche e nella polizia (19% della forza effettiva) oppure nella sicurezza privata.

Una somma di provvedimenti che ha permesso (in controtendenza rispetto al trend americano) di abbassare i tassi di disoccupazione al 3,8% e ridurre in nove anni il numero (dai 74.000 del 2010 ai 37.000 del 2019) degli homeless, i veterani poverissimi, i senza casa e senza futuro. Una piaga che ha tutt’oggi il suo epicentro nella Virginia occidentale e si estende dall’Indiana al Missouri, dal New Mexico al Montana e all’Oregon.

Altrettanto problematica rimane la questione sanitaria. Nel 2020 il rapporto dell’US Department of Veterans Affairs contava una percentuale del 41% di mutilati tra i reduci dell’Iraq e dell’Afghanistan — i volontari post-11 settembre 2001 —, gente ancora giovane ma ormai inabile o quasi al lavoro e un numero altrettanto alto (44%) di reduci traumatizzati dai combattimenti. Un segmento di disperazione che oscilla nella depressione quotidiana con cadute nell’alcolismo, nelle droghe o peggio. Ogni anno più di seimila ex militari, attanagliati dai loro fantasmi, scelgono di suicidarsi. La guerra, ogni guerra, è una brutta bestia. 

False flag per attaccare Cuba: la storia dimenticata dell’Operazione Northwoods. Pietro Emanueli su Inside Over il 21 gennaio 2021.

“Ricordati con chi confini” è il promemoria da non dimenticare mai, ed è la regola da osservare sempre, di ogni stratega meritevole di tale titolo. Trascurare la rilevanza di questa legge non scritta, o peggio scordarla, potrebbe costare allo stratega la carriera e alla sua nazione la vita. In breve, in pace come in guerra, la messa in sicurezza dei confini fisici e dell’estero vicino è più che importante: è tutto.

Le potenze giovani, cioè senza esperienza di gestione di crisi e conduzione di guerre, o quelle che peccano di vanità, non investendo nell’incastellamento, poco o nulla si curano di sigillare frontiere e circondario, pagandone il prezzo salato al momento del redde rationem. Ma per le potenze più anziane, quelle che hanno alle spalle una vita di conflitti e intrighi, la securizzazione di fortezza e dintorni è un imperativo sacro e da perseguire a qualsiasi costo.

Cosa succede quando una potenza dalla mentalità imperiale assiste alla caduta di un avamposto geostrategico, magari localizzato in prossimità della cittadella? Uno stratega che si rispetti, tenendo a mente il comandamento “ricordati con chi confini”, farebbe tutto il possibile per riconquistare il distaccamento perduto, utilizzando esperienza, ingegno e diabolicità per inventare un casus belli al tempo opportuno.

La storia insegna che uno stratega disposto a tutto pur di riappropriarsi dell’avamposto smarrito non si farebbe scrupoli ad assassinare dei propri connazionali qualora si potesse attribuire la responsabilità di ciò a colui che minaccia i confini, avendo così il motivo di dichiarargli guerra. Questa è la storia della folle operazione Northwoods.

Attaccare Washington per invadere L’Avana

Stati Uniti, 1962. È passato un anno dal clamoroso fallimento dell’invasione della Baia dei Porci, che all’amministrazione Kennedy è costato la credibilità internazionale e che ad Allen Welsh Dulles è costato la direzione della Central Intelligence Agency, e tra il Pentagono e Langley si continua a pensare ad una cosa sola: il rovesciamento del regime rivoluzionario di Fidel Castro.

Il presidente Kennedy continua ad essere adirato coi vertici della sicurezza nazionale, che ritiene (a ragione) responsabili degli accadimenti dell’anno precedente, perciò i Richelieu dello Stato profondo, che hanno giurato vendetta a Castro, cominciano a studiare qualcosa di innovativo. Vogliono un piano che non abbia precedenti nella storia degli Stati Uniti, che sia tanto persuasivo a livello contenutistico quanto eccezionalmente produttivo al momento dell’applicazione. E lo avrebbero concepito, sebbene non portandolo a compimento, stupendo di nuovo, e negativamente, l’inquilino della Casa Bianca.

I tentativi di ricucire lo strappo con lo scettico e persistentemente adirato Kennedy avrebbero assunto la forma dell’operazione Northwoods, di cui l’opinione pubblica a stelle e strisce è venuta a conoscenza soltanto negli anni Novanta. In breve, stando a quanto riferito dai documenti declassificati, il Pentagono avrebbe voluto appaltare alla Cia la conduzione di una serie di operazioni sotto falsa bandiera (false flag) sul suolo patrio, colpendo obiettivi civili e militari e facendone ricadere la responsabilità su L’Avana.

Gli strateghi più revanscisti erano pronti a tutto pur di rovesciare Castro, pur di mettere in sicurezza il confine sudorientale degli Stati Uniti, perciò produssero un elenco di possibili crimini e atti terroristici da compiere contro il popolo americano. Crimini e atti terroristici di proporzioni tali da scioccare l’opinione pubblica e da giustificare un invasione su larga scala dell’isola ribelle. Crimini e atti terroristici come:

Dirottamento e abbattimento di aerei di linea;

Affondamento di navi;

Attentati nelle principali città statunitensi, da Miami a Washington.

Lezioni da Northwoods

Il piano Northwoods giunse sulla scrivania di Kennedy nel 1962, arrecante la firma di Lyman Lemnitzer, generale pluridecorato, presidente dei capi di stato maggiore congiunto e futuro comandante supremo dell’Alleanza Atlantica. Sbigottito, più che infuriato, Kennedy rifiutò categoricamente quel folle piano di auto-attentati, massacri di civili americani e terrorismo di Stato, mettendo in guardia i funzionari dal presentare ulteriori proposte di simile natura.

Se Northwoods insegna qualcosa è che uno stratega messo alle corde è capace di tutto pur di invertire le sorti dell’incontro, compreso il terrorismo di Stato. E se è vero che all’epoca i forcaioli del Pentagono e di Langley incontrarono un ostacolo insormontabile nell’intransigenza di John Fitzgerald Kennedy, lo è altrettanto che la storia recente è ricca di esempi di presunte e vociferate operazioni sotto falsa bandiera condotte dai governi contro i loro cittadini inconsapevoli, inermi e manipolabili, dalle bombe nei palazzi in Russia del 1999 all’attentato di Barcellona del 2017.

Gli spettatori degli accadimenti non hanno che un modo per evitare di cadere nel tranello mefistofelico della falsa bandiera: sviluppare il pensiero critico. Perché a distinguere un osservatore passivo, e dunque volubile e condizionabile, da uno attivo, perciò non circuibile, è il possesso delle capacità di osservare le cose per ciò che sono, e non per come appaiono, e di saper il discernere il vero dal falso nell’epoca delle post-verità.

Suicidi, dossier e misteri: il mito dell’operazione Philadelphia. Pietro Emanueli su Inside Over il 21 gennaio 2021.

Quando si scrive e si parla di armi segrete e sperimentazioni militari durante la Seconda guerra mondiale, spesso e volentieri, la mente va subito al Terzo Reich e all’Impero giapponese. Berlino e Tokyo, separate dalla geografia ma unite dall’ideologia, dalla passione per gli esperimenti sugli esseri umani e dalla ricerca di super-armi di distruzione di massa.

Se la mente corre a subito all’Asse quando si scrive segreti militari è perché, del resto, non potrebbe essere altrimenti. Perché Berlino e Tokyo, insieme, diedero i natali ai più temibili scienziati pazzi dell’epoca: da Josef Mengele a Shiro Ishii dell’Unità 731.

Un paragrafo a parte, ad ogni modo, andrebbe dedicato anche agli Stati Uniti, i quali non furono da meno quanto ad esperimenti militari. Furono loro, del resto, a vincere la corsa all’atomica. Furono loro ad inaugurare gli studi sulla cosiddetta bomba tsunami. E sarebbero stati sempre loro, secondo una teoria del complotto dura a morire, a spianare la strada agli studi sull’invisibilità. Questa è la storia dell’esperimento Philadelphia.

Suicida o suicidato?

Miami, 20 aprile 1959. Dei passanti notano che all’interno di un’autovettura giace, privo di sensi da diverse ore, un uomo di mezza età. Ha gli occhi chiusi, sembra che stia dormendo, ma qualcuno preferisce avvertire le forze dell’ordine. È accasciato lungo i sedili in una posizione innaturale, scomoda. Troppo scomoda per non disturbarne il sonno, per non svegliarlo. Forse ha avuto un malore. I poliziotti, una volta giunti sul luogo, scopriranno la verità: è deceduto respirando il gas di scarico del veicolo.

La notizia dell’uomo morto, molto presto, fa il giro degli Stati Uniti. Perché quell’uomo non era un cittadino ordinario, una persona comune: era Morris Jessup, un conosciuto e popolare autore di libri fantascientifici ed ufologici. L’ufologia e l’archeologia misteriosa erano divenute di tendenza grazie alle opere di Jessup, che nei quattro anni precedenti aveva messo la firma su quattro libri – tra i quali il best seller The Case for the UFO – e, si vociferava, fosse in procinto di scriverne di nuovi.

Da almeno un anno, Jessup si era dato alla macchia. Era diventato schivo. Il divorzio con la moglie, del resto, lo aveva distrutto emotivamente. E sarebbe stata proprio la rottura con la moglie che, secondo gli inquirenti, lo avrebbe spinto a farla finita, ad entrare in macchina e ad uccidersi respirandone il gas di scarico. Caso chiuso, risolto. No. Il caso Jessup, di lì a breve, avrebbe sollevato un polverone negli ambienti del cospirazionismo nordamericano. Jessup non si era suicidato: era stato suicidato. E il motivo, per loro, era evidente: aveva portato l’opinione pubblica a conoscenza dell’esperimento Philadelphia, erudendo i profani dei segreti del sacro.

Philadelphia, la storia di un mito duro a morire

L’opinione pubblica statunitense aveva avuto modo di conoscere Morris Jessup fra il 1955, anno della pubblicazione del best seller The Case for the UFO, e il 1957, anno della sua richiesta di comparizione all’Ufficio per le ricerche navali (ONR, Office of Naval Research) del governo degli Stati Uniti.

L’incredulo Jessup fu chiamato dai militari proprio per discutere del suo libro, o meglio di una copia del suo libro. Qualcuno, qualche tempo dopo l’ingresso nelle librerie di The Case for the UFO, ne aveva inviato una copia alla posta dell’ONR. Nulla di male, se non fosse che quel qualcuno aveva riempito il libro di annotazioni deliranti su dischi volanti, razze aliene e viaggi nello spaziotempo, ammonendo chi di dovere che Jessup sarebbe stato prossimo a rivelare la verità sull’esperimento Philadelphia.

L’autore delle annotazioni non fu difficile da rintracciare: Carl Meredith Allen, anche conosciuto come Carlos Miguel Allende. Un ex membro della Marina mercantile degli Stati Uniti che in passato aveva avuto una corrispondenza con Jessup ruotante attorno ad un esperimento militare ultrasegreto di cui sarebbe stato testimone nell’ottobre 1943: l’invisibilizzazione del cacciatorpediniere di scorta USS Eldridge.

L’esperimento, condotto sotto l’egida di alcuni dei più eminenti cervelli dell’epoca – incluso Albert Einstein –, avrebbe condotto alla smaterializzazione dello USS Eldridge e al suo teletrasporto dai cantieri navali del Philadelphia a quelli di Norfolk, in Virginia. La vicenda, a detta di Allen, avrebbe avuto un epilogo tragico: metà dell’equipaggio scomparsa nello spaziotempo, l’altra metà viva ma impazzita.

La copia di The Case for the UFO con le annotazioni dell’elusivo Allen avrebbe avuto una notorietà maggiore dell’originale di Jessup, ispirando un’intera generazione di teorici del complotto, cercatori del mistero e ufologi. I più scettici, che avevano visto nell’esplosione del caso Philadelphia un’operazione pubblicitaria architettata da Allen e Jessup, sarebbero stati smentiti dagli eventi successivi: il primo non ricercò mai la visibilità, continuando a nascondersi dietro a pseudonimi e ad evitare giornalisti e interviste, il secondo dichiarò pubblicamente di non credere alla storia, spiegando di essere stato danneggiato dall’intera vicenda in quanto finito sotto i riflettori dell’ONR e ostracizzato dai colleghi – Jessup era un astronomo.

Ma perché i cospirazionisti avevano legato e continuano a legare il suicidio di Jessup con l’esperimento di Philadelphia? Perché verso la fine del 1958, dopo aver ripreso in mano il fascicolo Philadelphia e dato una lettura approfondita a quel The Case for the UFO targato Allen, lo scrittore e astronomo aveva annunciato di avere intenzione di dedicare un libro all’argomento. Aveva rivalutato il caso, spiegando di aver trovato delle prove a supporto delle dichiarazioni di Allen, ed era pronto a denunciare l’insabbiamento operato dalle autorità. Un insabbiamento che non avrebbe mai denunciato, come è noto, perché morto suicida il 20 aprile 1959. E da quel giorno, complice anche il tipo di decesso, l’esperimento Philadelphia è leggenda.

(ANSA il 25 marzo 2022) - L'ex presidente americano Donald Trump ha fatto causa contro Hillary Clinton, il Comitato nazionale dei democratici e altre 26 persone ed enti per aver "cospirato per minare la sua campagna del 2016 attribuendogli falsi legami con la Russia". Lo riporta la Cnn.

Tra le persone denunciate da Trump ci sono l'ex direttore dell'Fbi, James Comey ,e altri funzionari dell'agenzia federale, l'ex spia britannica Christopher Steele e diversi consulenti della campagna elettorale di Clinton.

Nelle oltre 108 pagine depositate in tribunale l'ex presidente inveisce contro molti dei suoi avversari politici accusando democratici e funzionari del governo di diversi reati, dalla cospirazione alla frode informatica, chiedendo oltre 24 milioni di dollari di danni.

Trump sostiene che Clinton e alti funzionari del partito democratico hanno "assoldato avvocati e ricercatori per creare ad arte i suoi legami con la Russia" e poi "hanno spacciato quelle bugie ai media e al governo degli Stati Uniti, nella speranza di minare le sue possibilità di vincere le elezioni del 2016". John Podesta, il capo della campagna elettorale di Clinton nel 2016 e uno dei denunciati da Trump, ha liquidato la causa su Twitter ironizzando sul fatto che l'ex presidente potrebbe chiamare a testimoniare Vladimir Putin. "Sarà uno spasso", ha scritto.

Lo Spionaggio. Dagospia il 15 aprile 2022. Da The Debrief.org.

In qualità di Direttore dell'intelligence per la difesa del Pentagono e alto dirigente presso l'Ufficio del Sottosegretario alla Difesa per l'intelligence e la sicurezza OUSD(I&S), Garry Reid era responsabile di tutte le operazioni di controspionaggio, sicurezza e forze dell'ordine all'interno del Dipartimento della Difesa. 

Questo, oltre a dirigere l'Afghanistan Crisis Action Group, l'ufficio incaricato di evacuare i rifugiati afgani durante il ritiro dell'America dall'Afghanistan. 

Ora, in esclusiva, The Debrief ha appreso che Reid è stato recentemente licenziato dalle sue responsabilità all'interno del governo degli Stati Uniti.

Prima di essere estromesso dalla carica di Direttore dell'Intelligence della Difesa, Reid era stato oggetto di un'indagine durata quasi due anni da parte di The Debrief . Parlando in condizione di anonimato, diversi dipendenti attuali ed ex del Pentagono hanno detto a The Debrief che Reid si era impegnato per anni in cattiva condotta e corruzione ad ampio raggio.   

Negli ultimi quattro anni, l'ufficio dell'ispettore generale del Dipartimento della Difesa aveva indagato su Reid su numerose accuse, tra cui il mantenimento di una relazione sessuale con un dipendente subordinato, le molestie sessuali e la promozione di un ambiente di lavoro ostile. 

Nel 2020, l'Ufficio IG ha scoperto che Reid aveva violato i regolamenti etici congiunti creando l'apparenza di una relazione inappropriata o di un trattamento preferenziale con una subordinata donna e la cattiva gestione delle informazioni non classificate controllate. 

Nel maggio 2021, Reid è stato nominato in un altro reclamo formale di IG, questa volta coinvolgendo l'ex direttore del personale di gestione speciale dei programmi nazionali presso OUSD (I&S), Luis Elizondo. 

Nella sua denuncia, Elizondo ha accusato Reid di svolgere un ruolo centrale nell'offuscare le informazioni riguardanti il ritrovato interesse del Pentagono per i "fenomeni aerei non identificati", più comunemente noti come UFO. 

Reid è stato anche accusato di aver fuorviato maliziosamente il pubblico sul coinvolgimento di Elizondo con il programma UFO quasi segreto del Dipartimento della Difesa, l'Advanced Aerospace Threat Identification Program (AATIP). 

Non è del tutto chiaro cosa abbia portato al recente licenziamento di Reid. Tuttavia, diversi funzionari della difesa che hanno familiarità con la situazione hanno detto a The Debrief di ritenere che il peso delle numerose accuse passate, il disastroso ritiro dei rifugiati dall'Afghanistan e le attuali indagini sulla cattiva condotta fossero troppo significative e alla fine hanno portato al suo licenziamento.   

«Tra Trump e Putin un “accordo” per l’invasione dell’Ucraina»: la rivelazione del New York Times. Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022.

Il presidente russo avrebbe offerto a Trump, in cambio del suo avallo all’«operazione militare speciale», il supporto degli hacker di Mosca nella sua campagna elettorale del 2016, che in effetti vinse 

Un «accordo», o almeno un intreccio di interessi d’affari tra Donald Trump e Vladimir Putin: sul piatto, da un lato, il provvidenziale intervento degli hacker russi a favore del primo nella campagna presidenziale 2016; dall’altro, nientemeno, l’invasione dell’Ucraina. Un’inchiesta del New York Times sembra unire i puntini, tra Manhattan e Mosca.

È il 28 luglio 2016. Hillary Clinton accetta la nomination dei democratici: correrà per la Casa Bianca. Paul Manafort, lobbista e consulente di Donald Trump per la campagna elettorale, sta per incontrare il russo che dirige la sua sede di Kiev della sua società di consulenza. Konstantin Kilimnik, così si chiama il russo, gli parlerà di un piano: il «Piano Mariupol». Che contiene già tutto: l’invasione dell’Ucraina; la creazione di una repubblica autonoma nell’Est del Paese; la presidenza di quella repubblica assegnata all’ex presidente ucraino Vyktor Yanukovych, deposto dalle rivolte. Per il New York Times il ruolo di Trump in questo patto era quello di «garante»: se il Cremlino gli avesse garantito la vittoria, il «piano Mariupol» sarebbe filato liscio.

Le notizie in diretta sulla guerra in Ucraina

Poi non tutto è filato liscio: la vittoria di Joe Biden alle presidenziali del 2020, per esempio, secondo le ricostruzioni del New York Times avrebbe complicato i piani; e così la condanna di Paul Manafort per bancarotta fraudolenta. Ma l’invasione prevista Putin l’ha compiuta lo stesso, anche senza più amici alla Casa Bianca.

Jim Rutenberg, per il New York Times, ricostruisce a ritroso la genesi del piano, citando documenti che vanno fino al 2005. Il più vecchio, di quell’anno, è una nota inviata a un oligarca russo, Oleg Deripaska, citata in un report della commissione Intelligence del Senato. Già lì Manafort suggeriva di «solidarizzare» con Yanukovych, sostenendone le elezioni «a beneficio di Putin».

Le elezioni ucraine Yanykovych poi le vinse, prima di venire deposto dalla piazza nel 2014. Poi si va avanti, e Trump è presidente: appoggia la Nato solo tiepidamente, considera la possibilità di riconoscere la Crimea russa. Blocca, infine, aiuti militari a Kiev. Mosse che lette ex post sembrano, nell’inchiesta del New York Times, il saldo di un debito.

Spunta il Russiagate 2.0, ma qualcosa non torna. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 3 Novembre 2022. 

A pochi giorni dal voto delle midterm, il New York Times pubblica la classica “bomba” pre-elettorale: una versione rielaborata del “Russiagate” che vede come protagonisti, manco a dirlo, il presidente russo Vladimir Putin e l’ex presidente Usa Donald Trump, protagonista, quest’ultimo, di queste elezioni di metà mandato per via del suo appoggio a decine di candidati repubblicani. “La storia non raccontata del ‘Russiagate e la strada verso la guerra in Ucraina. Le interferenze russe nella politica dell’era Trump furono più direttamente connesse all’attuale guerra di quello che si era capito prima”: è questo il titolo, come riporta l’Ansa, del lunghissimo articolo in cui il New York Times collega le ingerenze di Mosca nelle presidenziali americane del 2016 con il conflitto in Ucraina, ipotizzando che l’aiuto del Cremlino per l’elezione di Donald Trump mirasse fondamentalmente ad ottenere l’appoggio del tycoon per uno smembramento dell’Ucraina.

La ricostruzione del quotidiano si basa sulla revisione di centinaia di pagine di documenti dell’indagine sul Russiagate del superprocuratore Robert Mueller, della commissione intelligence del Senato, delle udienze di impeachment di Trump, nonché su interviste con quasi 50 persone in Usa e Ucraina. Tuttavia, in questo Russiagate 2.0 c’è più di una cosa che non torna, a cominciare dalla scarsità di prove fornite e di elementi del tutto vaghi e fumosi. Vediamo perché.

Gli hackeraggi russi ai danni del Comitato nazionale dem

Il primo elemento a destare perplessità, nell’articolata tesi del New York Times, riguarda i fantomatici “hackeraggi russi” alla sede del Comitato nazionale democratico del 2016. Tutto nascerebbe la notte del 28 luglio 2016, quando Hillary Clinton stava accettando la nomination dem per la Casa Bianca a Philadelphia: in quelle ore Paul Manafort, presidente della campagna di Trump, ricevette una email dell’amico e socio russo Konstantin Kilimnik, che chiese e ottenne un incontro urgente con lui. I due si incontrarono al Grand Havana Room, un luogo di ritrovo del mondo legato a Trump in cima alla torre a Manhattan di proprietà di Jared Kushner, il genero del tycoon. Qui Kilimnik avrebbe illustrato il ‘Piano Mariupol’, che prevedeva in cambio della pace la creazione di una repubblica autonoma nell’Ucraina dell’est guidata dal deposto presidente Viktor Ianukovich. Da lì in poi ci sarebbero stati gli attacchi hacker russi al server del Comitato Nazionale Democratico. E qua la teoria del New York Times comincia già a vacillare.

Non vi sono prove, tuttavia, del fatto che dietro l’hackeraggio del DNC vi sia effettivamente la Russia e che i due eventi siano legati. In una testimonianza del Congresso risalente al 2020, il presidente di Crowdstrike Shawn Henry ha infatti ammesso che “non ci sono prove concrete” che presunti hacker russi avessero effettivamente preso le e-mail dai server DNC. “Ci sono prove circostanziali, ma nessuna prova che siano stati effettivamente esfiltrati”, ha detto Henry. Per quanto concerne Manafort e i suoi rapporti con i russi, non sembra affatto che l’ex collaboratore di Trump stesse lavorando per il Cremlino. Kilimnik potrebbe tranquillamente aver illustrato il presunto piano a Manafort senza che il faccendiere abbia dato seguito ad alcunché.

Secondo documenti e testimonianze giurate, Manafort avrebbe cercato di spingere il suo cliente, l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovich, ad entrare nell’Unione Europea e ad allontanarsi dalla sfera d’influenza della Russia. Come ha testimoniato l’ex partner di Manafort, Rick Gates , Manafort ha elaborato “la strategia per aiutare l’Ucraina a entrare nell’Unione Europea”, in vista della crisi di Euromaidan del 2013-2014. Gli obiettivi, ha spiegato Manafort in diverse note, erano “incoraggiare l’integrazione dell’UE con l’Ucraina “in modo che quest’ultima non “cada alla Russia” e “rafforzare il messaggio geopolitico chiave” di come “l’Europa e gli Stati Uniti non dovrebbero rischiare di perdere l’Ucraina a favore della Russia”. Quando la sua strategia ha preso piede, Manafort ha sottolineato ai colleghi, compreso Kilimnik, l’importanza di promuovere “le azioni costanti intraprese dal governo ucraino per soddisfare le richieste occidentali” e “le modifiche apportate per conformarsi all’accordo di associazione dell’UE”, lo stesso accordo a cui la Russia si è opposta. Come si lega tutto questo al “Piano Mariupol?”: un “particolare” omesso dall’inchiesta del Nyt.

Il Nyt ripesca l’inchiesta flop

L’inchiesta condotta da Robert Mueller fu un vero flop. Attesa dai democratici come la prova che vi fu una “collusione” fra la Federazione russa e l’entourage di Donald Trump, dimostrò semmai il contrario, cioè che non vi fu alcuna “collusione”. Tanto che i democratici, che hanno presentato due richieste di impeachment contro Donald Trump, su quella vicenda non fecero proprio nulla perché non avevano elementi sufficienti per procedere con la messa in stato d’accusa del presidente. L’inchiesta del New York Times mette insieme dunque vecchie notizie e documenti già noti, ipotizzando un accordo di “spartizione” dell’Ucraina che non c’è stato, smentito dai fatti e da ciò che ha fatto Trump durante la sua presidenza.

Che sul dossier Ucraina fu più duro e intransigente del suo predecessore, Barack Obama. Come rilevato da Ted Galen Carpenter su The National Interest, i fatti dimostrano che Donald Trump ha portato avanti una politica estera spesso aggressiva nei confronti della Federazione Russa – che certamente non ha fatto piacere a Putin, come la decisione di ritirare gli Usa dal trattato Inf (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), siglato a Washington l’8 dicembre 1987 da Ronald Reagan e Michail Gorbacev, a seguito del vertice di Reykjavík. Nel settembre 2019, l’allora Segretario alla Difesa James Mattis ammise che Stati Uniti stavano addestrando unità militari ucraine in una base nell’Ucraina occidentale. Come se non bastasse, Donald Trump approvò la vendita di armi a Kiev e anche un pacchetto di assistenza militare: la prima transazione risaliva al dicembre 2017 ed era limitata alle armi leggere, accordo che includeva l’esportazione di fucili M107A1 e munizioni, per una vendita del valore totale di 41,5 milioni di dollari. La transazione dell’aprile 2018 è ben più seria.

Non solo è più onerosa (47 milioni di dollari), ma include anche armi letali, in particolare 210 missili anti-carro Javelin – il tipo di armi che l’amministrazione di Barack Obama si era rifiutata di fornire a Kiev. Comportamento curioso per un ex presidente dipinto come un “colluso”. Quanto al pacchetto da 250 milioni di dollari in assistenza militare, il Congresso votò per due volte il sostegno militare a Kiev durante gli ultimi anni dell’amministrazione di Obama, ma la Casa Bianca ne bloccò l’attuazione. L’amministrazione Trump, al contrario, lo approvò e la cosa di certo non fece piacere a Putin. Anzi. Faceva anche questo del grande complotto Putin-Trump? Armare l’Ucraina fino ai denti come ha fatto The Donald?

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora. ROBERTO VIVALDELLI

Bomba di Durham: il russo fonte del dossier anti-Trump era a libro paga dell’Fbi. Roberto Vivaldelli il 15 Settembre 2022 su Inside Over.

Nuova rivelazione del Procuratore speciale John Durham nell’ambito della sua inchiesta sulle origini del Russiagate e sul presunto “complotto” ai danni dell’ex Presidente Usa, Donald Trump. Secondo quanto rivelato da Durham, citando alcuni atti giudiziari, l’Fbi avrebbe pagato un uomo d’affari russo come “fonte” mentre indagava sulla campagna di Donald Trump, nel 2016, e i presunti rapporti di quest’ultimo con Mosca, nonostante l’imprenditore in fosse legato, in passato, ai servizi d’intelligence di Mosca. Si tratta di Igor Danchenko, un’analista russo che vive negli Stati Uniti.

Secondo Durham, Danchenko avrebbe consapevolmente mentito all’Fbi circa le informazioni che ha passato all’ex spia britannica Christopher Steele, autore del famoso dossier (screditato) sui presunti rapporti tra Trump e il Cremlino: dossier che poi si è rivelato essere completamente infondato. Sempre secondo l’accusa, l’analista russo incriminato da Durham – uscito su cauzione, e ora sotto processo – avrebbe inventato le informazioni che ha fornito o ottenuto parti di esse da una persona molto vicina ai Clinton, Charles Dolan Jr; quest’ultimo avrebbe a sua volta mentito all’analista russo sui rapporti fra Trump e la Federazione Russa, menzionando incontri tra The Donald e i russi che nella realtà non sono mai avvenuti. Danchenko è stato a libro paga dell’Fbi per più di tre anni fino alla fine del 2020, quando è stato licenziato per aver mentito agli agenti.

Russiagate, le ultime rivelazioni

Danchenko è accusato di cinque capi di imputazione per aver mentito al Bureau e dovrà essere processato il mese prossimo presso un tribunale federale di Washington DC. “Nel marzo 2017, l’Fbi ha ingaggiato l’imputato come fonte umana riservata”, ha rivelato per la prima volta il deposito del tribunale citato da John Solomon su Just the News. “L’Fbi ha interrotto la sua relazione con l’imputato nell’ottobre 2020. Come affermato più dettagliatamente di seguito, l’imputato ha mentito agli agenti dell’Fbi durante molte di queste interviste”. Piuttosto sorprendente il fatto che l’Fbi abbia assoldato Danchenko come fonte, visto che lo stesso business man russo era stato oggetto di un’indagine federale, come nota lo stesso Durham.

“Come è stato pubblicamente riportato, l’imputato è stato oggetto di un’indagine di controspionaggio dell’Fbi dal 2009 al 2011”, ha scritto Durham. “Alla fine del 2008, mentre l’imputato era impiegato presso importante e influente centro studi a Washington, DC, ha chiesto a due colleghi se uno dei dipendenti potesse essere disposto o in grado in futuro di fornire informazioni riservate in cambio di denaro”. Sulla base di queste informazioni, prosegue il Procuratore speciale, i federali hanno avviato “un’indagine preliminare’ sull’imputato”.

Una vicenda sempre più torbida

Successivamente il Bureau ha appreso che l’imputato “aveva avuto contatti precedenti con l’ambasciata russa e con noti ufficiali dell’intelligence russa”. L’Fbi ha chiuso quell’indagine di controspionaggio nel 2010, ma solo dopo aver “erroneamente creduto che l’imputato avesse lasciato il paese”, ha detto Durham alla corte. “Durante il suo colloquio del gennaio 2017 con l’Fbi, l’imputato ha inizialmente negato di avere contatti con i servizi segreti russi, ma in seguito, come notato dagli agenti, si è contraddetto e ha dichiarato di aver avuto contatti con due persone che credeva fossero collegate quei servizi”, ha scritto Durham.

Come accennato poc’anzi, Danchenko aveva contatti con il “clintoniano” Charles Dolan Jr. Quest’ultimo, infatti, è un uomo di fiducia dei Clinton: ha condotto le campagne di Bill Clinton del 1992 e del 1996, è stato consigliere della campagna presidenziale di Hillary Clinton del 2008 e ha attivamente partecipato a serate ed eventi come volontario per conto di Hillary Clinton nel 2016. Prosegue dunque il lavoro di John Durham, nominato nel 2020 dal Dipartimento di Giustizia come consulente speciale per indagare sull’inchiesta del governo federale sulla presunta collusione tra la Russia e la campagna presidenziale di Trump del 2016. 

Autore ROBERTO VIVALDELLI

Il pm del Russiagate: “La Clinton pagò una società per collegare Trump a Mosca”. Redazione su Nicolaporro.it il 14 Febbraio 2022

Cosa sarebbe successo se – ipotizziamo – un procuratore avesse accusato Donald Trump di aver pagato una società per infiltrarsi nei server della Casa Bianca per cercare di creare un legame fittizio tra Hillary Clinton e Vladimir Putin? Probabilmente lo avrebbero già mediaticamente crocifisso. Invece – almeno in Italia – è passata un po’ in sordina la notizia (questa sì vera) delle accuse mosse allo staff della Clinton da John Durham, procuratore speciale della contro-inchiesta sul Russiagate: nei documenti depositati agli atti si sostiene che i collaboratori di Hilary avrebbero pagato una società per infiltrarsi nei server della Trump Tower e dello Studio Ovale per creare presunti collegamenti tra il Tycoon e lo Zar di Russia.

Certo, il procuratore in questione è stato nominato dall’allora amministrazione Trump. Ma in America funziona così e questo non può certo tradursi in un’automatica dichiarazione di poca imparzialità del giudice. I fatti sono esplosivi. Possibile che la Clinton abbia cercato di incastrare Trump, facendolo passare per sodale di Putin? Nei quattro anni di presidenza trumpiana di accuse ne sono state mosse a bizzeffe, a partire dai presunti contatti tra la Russia e lo staff dell’ex presidente durante le elezioni del 2016. L’inchiesta fu condotta da Robert Mueller e ampiamente amplificata dalla stampa liberal, ma che alla fine non ha incriminato l’ex presidente: se ingerenza russa ci fu, non è dimostrabile che The Donald l’abbia cercata.

Di tutt’altro peso invece le accuse rivolte a Hillary Clinton. Trump parla di “rivincita” ed esulta di fronte a quelle che considera le “prove” dello spionaggio subito “nel tentativo di fabbricare un legame completamente falso con Mosca”. Il Tycoon rievoca lo scandalo del Watergate, quando emissari della campagna elettorale di Nixon cercarono di intercettare il quartier generale del Comitato elettorale democratico. E chiede un’indagine penale ai danni dello staff democratico.

Sullo sfondo, ovviamente, ci sono le manovre per preparare la sua ridiscesa in campo. L’obiettivo di Trump resta la ricandidatura per i Repubblicani alle elezioni del 2024. Curiosità: la sua ex avversaria parlerà alla convention democratica del 17 febbraio prevista a New York. C’è chi ipotizza la Clinton che possa essere la “candidata fantasma” in grado di scippare il posto a Joe Biden e alla stella (cadente) Kamala Harris. Ci aspetta un nuovo confronto Trump-Hillary?

Hillary Clinton in tv: «Restare nel mio matrimonio, la cosa più coraggiosa». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 26 Agosto 2022.

La ex first lady si confessa. E anche altre donne si sono divise tra la «restanza» e l’abbandono. Casati Modignani: «Se tornassi giovane non mi sposerei manco morta»

La soluzione c’è e l’ha trovata uno che si è sposato (e separato) due volte: le «non nozze». Come quelle tra Silvio Berlusconi e Marta Fascina : festa, torta, musica ma niente carte bollate. Perché dopo questa ferale estate in cui si sono disfatti letti nuziali leggendari come Totti e Blasi o Piqué e Shakira , non ci resta che la negazione. Non nozze, non giuramento. Già, «restare dentro un matrimonio» è complicatissimo e lo ha detto due giorni fa una che ci è rimasta così convintamente da diventare il simbolo di «quelle che se lo riprendono»: Hillary Clinton. In onda su Apple tv nella serie Coraggiose (dove, assieme alla figlia Chelsea, intervista donne accomunate dall’audacia) Clinton ha osservato: «Una delle cose più coraggiose che io abbia mai fatto è stata restare nel mio matrimonio». Evidentemente la sua quasi omonima, Ilary (Blasi), non la pensa così.

«Non è la decisione più giusta per tutti» 

Ma la cosa più interessante la ex first lady l’ha sibilata poco dopo: «Non è la decisione giusta per tutti». Postilla da applauso secondo la narratrice degli amori difficili, Sveva Casati Modignani, 84 anni, 36 dei quali passati accanto a Nullo Cantaroni, fino alla morte di quest’ultimo, nel 2004. Anni non sempre felici (soprattutto gli ultimi), non solo per i problemi di salute del marito, ma anche per un «probabile tradimento, di cui non ho le prove. Però non era quello il problema: restare in un matrimonio è sempre complicato. Spesso le donne lo fanno per pietà: noi sappiamo stare da sole, ma loro senza di noi che fanno?». E oggi si risposerebbe? «Manco morta. Se tornassi giovane me ne andrei a zonzo da sola con un materasso sulle spalle». Forse in Italia la «restanza» (copyright Vito Teti) più elegante e colta è stata quella di Cristina Parodi. Nel 2005, quando il tradimento del marito Giorgio Gori finì sui settimanali scandalistici, la giornalista dichiarò a Vanity Fair: «Da questa montagna di spazzatura io e Giorgio siamo usciti più uniti di prima. Non sopporterei di avere vicino una persona che non mi ama follemente. E io sono sicura che Giorgio mi ama follemente».

Ma la «restanza» non è solo quella da tradimento. 

Rosanna Lambertucci, per esempio, è una che è rimasta accanto al marito, Alberto Amodei, nonostante i dissapori, i problemi, un allontanamento ufficiale «e nonostante il fatto che la scelta di assisterlo in un momento delicatissimo della sua vita abbia compromesso la mia carriera. Per stargli vicino rinunciai a un impegno importante in Rai, ma sa che cosa le dico, oggi? Lo rifarei. Alla fine che cosa ci rimane se non quello che abbiamo dato e ricevuto dalle persone più care?». Lo teorizza anche Massimo Recalcati nel suo libro Non è più come prima (Raffaello Cortina): vogliamo una storia perfetta, alla minima difficoltà abbandoniamo. La paziente «costruzione di un amore» cantata da Ivano Fossati però non sempre regge e allora ci sono quelle che se ne vanno. Perché «me ne ha messe di corna», come disse Paola Perego a proposito dell’ex marito Andrea Carnevale, in un’intervista a Belve, su Rai 1. O semplicemente perché non se ne può più. Come nel caso di Maria Shriver, che per anni ha perdonato le divagazioni sentimentali di Arnold Schwarzenegger ma poi, quando lui le rivelò di avere avuto un figlio dalla cameriera che per anni ha lavorato in casa loro, be’, allora Maria ha messo da parte la restanza. Insomma, restare dentro a un matrimonio è così complicato che una brillante battuta di Nora Ephron («È più facile essere colpiti da un terrorista che trovare marito dopo i quaranta») oggi mette i brividi: ma teneteveli, direbbero bellissime quaranta-cinquantenni. Certo, c’è chi si permette di liquidare tutto con un «Non credo a una parola di queste signorine», come ebbe a dire Victoria Beckham a chi insinuava che il marito si allenava parecchio e non in campo. Ma il matrimonio più bello, alla fine, resta quello che non si può raccontare. Come quello milanese, chiacchieratissimo, in cui la moglie chiamava a casa l’amante del marito raccomandandosi di fargli indossare la maglietta della salute, «ché lui resta sempre un mezzo impiastro».

Lo scandalo Watergate compie 50 anni: il caso che ha sconvolto la politica americana. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 17 Giugno 2022.

E' iniziato tutto con dei pezzi di scotch che hanno insospettito la guardia notturna. La breve storia della vicenda che ha sconvolto la politica americana.  

Quello che è passato alla storia come lo "scandalo Watergate" è iniziato il 17 giugno 1972 con l'arresto di cinque persone. L'accusa? Spionaggio ai danni del candidato democratico George Stanley McGovern. E la colpa è tutta dello scotch. La scena del crimine è l'immenso complesso di cinque costruzioni chiamato Watergate di Washington, in cui si trovano uffici e appartamenti, oltre a quello che all'epoca della campagna presidenziale era il quartier generale del comitato elettorale democratico.

Il primo ad accorgersi che qualcosa non andava fu Frank Willis, una guardia giurata di 24 anni che nella notte del 17 giugno notò che su diverse porte del Watergate Hotel erano stati messi dei pezzi di nastro adesivo per impedire alle porte di chiudersi. Willis decise di rimuoverlo, peccato che dopo un'ora lo scotch fosse di nuovo lì. Decise così di chiamare la polizia che al sesto piano dell'edificio scoprì i cinque responsabili, arrestandoli. Fu subito evidente che non si trattava di un tentativo di furto andato male: i fermati erano in possesso di materiale per le intercettazioni telefoniche.

Qualche giorno dall'arresto, emerse che uno dei cinque faceva parte dello staff della sicurezza del partito Repubblicano. Nonostante i tentativi dell'ex ministro della Giustizia John Mitchell di smentire la notizia pubblicata sul Washington Post, il legame tra lo scandalo Watergate e la campagna presidenziale repubblicana venne chiarito da un'altra rivelazione del quotidiano statunitense: uno degli arrestati aveva ricevuto un assegno da 25mila dollari che doveva essere destinato proprio a finanziare la campagna elettorale di Nixon.

Il Washington Post ha avuto un ruolo chiave nel far emergere la verità. Due mesi dopo pubblicò un altro articolo in cui rivelava il coinvolgimento di Mitchell nel controllo di un fondo segreto utilizzato per lo spionaggio dei democratici già nel periodo in cui aveva ricoperto la carica di ministro, tra il 1969 e il 1972. Merito della completa copertura data dal Washington Post alla vicenda era la presenza in redazione del giornalista Bob Woodward, che poteva contare su una fonte vicina all'amministrazione, il famoso "Gola profonda". Si tratta va dell'ex vicedirettore dell'Fbi Mark Felt, la cui identità venne svelata solo nel 2005, tre anni prima della sua morte.

Anche se al momento della conclusione delle indagini da parte dell'Fbi - che avvenne ad ottobre - era chiaro che l'intrusione fosse parte di un piano di sabotaggio dei democratici, non si riuscì a provare un legame con il presidente. Nixon venne anche rieletto trionfando sul rivale con il 60% e uno scarto di 18 milioni di voti. Già nel 1973 però si iniziarono a unire i puntini anche grazie alle dichiarazioni rese dall'ex consigliere della Casa Bianca John Dean che raccontò di aver parlato dell'insabbiamento del Watergate almeno 35 volte. Sarà solo l'8 agosto 1974 che Nixon deciderà di dimettersi, il primo presidente americano a farlo. Verrà graziato da ogni accusa dal suo successore Gerald Ford. Resta celebre l'intervista rilasciata da Nixon al giornalista britannico David Paradine Frost in cui ammise pubblicamente le sue responsabilità: «Ho tradito i miei amici e il mio Paese».

Lo scandalo del Watergate, mezzo secolo dopo. Andrea Muratore su Inside Over il 16 giugno 2022.

Washington, 17 giugno 1972: cinque uomini – Bernard Barker, Virgilio González, Eugenio Martínez, James W. McCord Jr. e Frank Sturgis – sono colti in flagrante dalla polizia della capitale americana e arrestati dopo il loro tentativo di fare irruzione alla sede del Comitato nazionale democratico (Dnc), quartier generale dei progressisti Usa intenti a sviluppare la loro campagna per le presidenziali di novembre. L’acume di Frank Wills, la guardia giurata che aveva notato i tentativi di effrazione dello stabile del Dnc, consentì l’arresto dei cinque uomini e l’inizio di una valanga che avrebbe finito per travolgere il Presidente degli Stati Uniti d’America. Willis lavorava come guardiano dello stabile ove il Dnc aveva sede, un hotel da cui prese il nome lo scandalo per antonomasia: il Watergate.

Lo "scasso" diventa uno scandalo nazionale

L’Fbi, da poco “orfana” del suo storico dominus John Edgar Hoover, per quarant’anni a capo dell’autorità investigativa fino alla morte sopravvenuta poche settimane prima, si accorse ben presto che i cinque arrestati non erano topi d’appartamento o incursori improvvisati. L’obiettivo dell’azione divenne ben presto chiara: impiantare apparati di ricezione e trasmissione messaggi nella sede del Dnc per tenere osservate le mosse del Partito Democratico che aspirava al ritorno alla Casa Bianca.

L’attenzione si concentrò in particolare sul fatto che un ex agente dell’Fbi e della Cia, James McCord, a lungo anche colonnello della riserva dell’aeronautica a stelle e strisce, fosse nel commando. McCord era un membro di primo piano del “Comitato per la rielezione del presidente” (Crp), un’organizzazione che sosteneva la riconferma di Nixon. Un altro degli arrestati, Howard Hunt, risultò addirittura avere in precedenza lavorato nello staff la Casa Bianca.

Importanti esponenti del Partito Repubblicano vicini a Nixon furono subito investiti dal fuoco di fila degli avversari politici e si scatenò una durissima campagna stampa guidata in particolar modo da due giovani reporter del Washington Post: Bob Woodward e Carl Bernstein. I due partirono dalla sostanziale negazione dello staff di Nixon (il portavoce della Casa Bianca Ron Ziegler, definì i fatti del Watergate uno “scasso di terza categoria”) circa la gravità dei fatti contestati ai cinque arrestati per provare a ricostruire la rete che collegava il Crp, esponenti repubblicani di peso e l’amministrazione in uno scandalo divenuto presto il più grande della storia d’America.

Le menti dell'operazione Watergate

L’inchiesta giornalistica di Woodward e Bernstein, presto seguiti anche dal New York Times e altre testate nazionali, avanzò più lentamente della constatazione di fatti penalmente rilevanti agli arrestati e della scoperta del fatto che il Watergate non era che la punta dell’iceberg di un sistema complesso di condizionamento della politica Usa. Ragion per cui a novembre, quando si arrivò alle elezioni, Nixon conquistò la riconferma trovandosi però a gestire la bomba Watergate nel suo secondo mandato.

Venne gradualmente fuori allo scoperto il perimetro dell’Operazione Gemstone, l’azione di infiltrazione del Dnc studiata dal Crp presieduto dal direttore John Newton Mitchell con il sostegno dell’eccentrico G. Gordon Liddy, estremista di destra legato alla nuova ala iper-conservatrice dei Repubblicani e a lungo dipendente dell’Fbi, che avrebbe materialmente programmato l’azione.

Nixon riuscì a evitare in un primo momento l’onda dello scandalo per il formidabile lavoro del consigliere legale John Dean, che provò a creare un muro divisorio tra gli autori del tentato scasso al Dnc e il Partito Repubblicano. Ma presto l’inchiesta del quotidiano della capitale americana smontò questa ricostruzione mano a mano che Woodward e Bernstein iniziarono a valersi dell’opinione di un misterioso funzionario del governo federale che si presentava come “Gola Profonda” (Deep Throath) e che nel 2005 si rivelò essere Mark Felt, allora vicedirettore dell’Fbi. Felt, con tempismo e gradualità, aiutò i giornalisti a presentare una complessa rete di finanziamenti e di ibridazione tra la presidenza, gli apparati federali e lo staff privato di Nixon che aveva promosso spostamenti di denaro per milioni di dollari a apparati come il  Crp mobilitando figure ambigue come Liddy, McCord e Hunt.

Definita “volgare e ignobile” da Nixon, l’inchiesta arrivò a presentare nell’autunno 1972 l’estratto di un rapporto classificato dell’Fbi fornito da “Gola Profonda” in cui si leggeva chiaramente che era in corso “una campagna massiccia di spionaggio e sabotaggio politico diretta da alti funzionari della Casa Bianca e del Comitato per la rielezione del presidente” e che tra il 1971 e il 1972 molti episodi avessero preceduto il fallito raid del Watergate.

La svolta del 1973

Nixon aveva gestito una presidenza complessa in cui stava cercando di chiudere, senza strappi, la partita del Vietnam, aveva dovuto nel 1971 sospendere la convertibilità tra dollaro e oro stabilita a Bretton Woods, affrontava i cambiamenti decisi della società americana e le rivendicazioni dei movimenti pacifisti, guidava il campo occidentale in un rinnovato confronto con l’Unione Sovietica che avrebbe prodotto direttamente il formidabile riavvicinamento alla Cina e indirettamente alimentato i fuochi della strategia della tensione contro l’ascesa delle sinistre in Europa.

Il timore del Presidente era che i Democratici, tornati alla Casa Bianca in caso di vittoria, usassero l’istituzione come un “tribunale” da cui processare il suo operato; quello del Partito Republicano di essere messo in minoranza mentre si aprivano partite chiave per la supremazia americana. Si può dire che in un certo senso Nixon allevò involontariamente i propri demoni data la confusione in cui versava la sinistra Usa del tempo.

Il punto di svolta fu il 1973, anno in cui l’offensiva mediatica di Woodward e Bernstein si rafforzò e le rivelazioni di “Gola Profonda” presero di mira il cerchio magico del Presidente, che nel frattempo era stato eletto a valanga.

Il Senato era però rimasto sotto il controllo del Partito Democratico, che ne approfittò per usarlo come tribuna pubblica contro un Presidente messo sotto accusa anche in virtù della posizione di forza raggiunta col suo stesso successo. Forti di una maggioranza di 56 a 42, i Dem promossero una Commissione d’Inchiesta sul caso Watergate. Fu però un repubblicano, in seno ad essa, a porre le indagini sulla pista della Casa Bianca. In una sessione Howard Baker, Senatore conservatore del Tennessee si chiese: “Cosa sapeva il presidente e quando venne a saperlo?“, da allora pomo della discordia dello scandalo.

Si è lungo discusso se Nixon avesse, di persona, dato ordine dell’azione al Crp o se ne avesse sostanzialmente avallato il metodo senza volersi immischiare concretamente. Quel che è certo è che dalle rivelazioni e dai nastri di registrazioni di conversazioni avvenute alla Casa Bianca emerse un dato sicuro: Nixon ostacolò le indagini temendo il contraccolpo politico del Watergate per vincere le presidenziali del 1972. 

La caduta di Nixon

Dopo che i mandanti e gli esecutori materiali dei fatti del Watergate furono riconosciuti colpevoli della frode contro i Democratici, l’esito della Commissione d’Inchiesta fu un duro colpo per Nixon, accusato di abuso di potere e di aver circondato il suo staff di figure deputate alla pura e semplice dispersione della capacità dei magistrati di chiarire la realtà sul caso Watergate. L’entrata nella procedura di impeachment appariva cosa certa e si formalizzò nel 1974, a oltre due anni dal caso-Watergate.

Per la precisione il 27 luglio 1974 la Commissione Giudicante per la Camera dei Rappresentanti, alla cui testa vi era il dem del New Jersey Peter Wallace Rodino Jr., approvò l’avvio della procedura di impeachment di Nixon con 27 voti favorevoli e solo 11 contrari. Nixon fu accusato di oltraggio al Congresso e di aver ostacolato il corso delle indagini. Tre giorni dopo, il presidente rassegnò le dimissioni con una lettera al Segretario di Stato Henry Kissinger.

Il mandato rimanente fu completato da Gerald Ford, dal 1965 al 1973 capo Repubblicano al Congresso e nel 1973 giunto a ricoprire la carica di vicepresidente dopo le dimissioni di Spiro Agnew, eletto con Nixon nel 1972. Le dimissioni di Agnew erano giunte a seguito di gravi accuse (poi confermate) di corruzione e riciclaggio di denaro, mentre Ford, insediatosi il 9 agosto 1974, concesse immediatamente il perdono presidenziale a Nixon cancellando, tra le polemiche, ogni addebito penale potenzialmente imputabile al suo predecessore.

Lo scandalo indebolì per diversi anni la presidenza, che solo con l’ascesa di Ronald Reagan trovò la capacità di riaffermarsi come ente esecutivo e capace di agire. La stampa americana arrivò, negli anni del Watergate e sulla scia del precedente scoop dei Pentagon Papers, a raggiugnere un’influenza mai superata sulla vita pubblica nazionale. E ancora oggi, complice la curiosa coincidenza del suffisso del nome dell’hotel incriminato (“gate” in inglese significa scandalo) nel mondo anglosassone ogni grande caos politico-istituzionale è richiamato in assonanza al Watergate: si pensi a Datagate e Russiagate, per fare due esempi recenti. Questo a testimonianza dell’impatto di uno scandalo svelato dall’acume di una guardia cinquant’anni fa e poi ampliatosi sulla scia dell’esercizio della libertà di stampa. Capace di arrivare a travolgere il cuore del potere della superpotenza a stelle e strisce come mai era successo prima.

Matteo Persivale per corriere.it il 10 Giugno 2022.

Strano ma vero, il mitologico direttore del Washington Post che affondò la presidenza Nixon, Ben Bradlee, non amava il film «Tutti gli uomini del presidente»: gli pareva (correttamente) che l’interpretazione, straordinaria, di Jason Robards, forse l’unico uomo al mondo con un cipiglio più minaccioso del suo, l’avesse in qualche modo messo in ombra. 

Chi non ricorda «Bradlee» stravaccato con le gambe stese sulla scrivania durante le riunioni che sibila a Robert Redford (Bob Woodward) e Dustin Hoffman (Carl Bernstein) «cercate di essere fortunati, allora».

Un’altra leggenda del giornalismo americano dell’età dell’oro, Mike Wallace di «60 Minutes», carisma inimitabile e profilo da moneta romana, vide con dispiacere il film «The Insider» che raccontava il suo lavoro nel celebre scoop che mise all’angolo l’industria americana delle sigarette: per interpretare il suo ruolo venne scelto Christopher Plummer, gigante del teatro classico e del cinema — esattamente come capitò a Bradlee con Robards, Plummer era probabilmente l’unico attore che poteva eclissare lo sguardo fulminante e la mascella squadrata di Wallace.

Non stupisce allora, se Hollywood è così potente, che Barry Sussman, il «terzo uomo del Watergate» con Woodward e Bernstein, sia morto dimenticato dall’America e dal mondo qualche giorno fa, a 87 anni: nel film Sussman, che nella realtà ebbe un ruolo fondamentale, fu cancellato. 

Semplicemente per motivi di scorrevolezza della trama: lui era il capocronista, certo, quello che assegnò la storia di quella effrazione negli uffici del Watergate a Woodward-Bernstein, ma nella sceneggiatura c’erano già Howard Simons, il vicedirettore (interpretato da Martin Balsam, leggenda del teatro e straordinario caratterista per hollywood) e Harry Rosenfeld, vicecapo della cronaca metropolitana (nel film è il burbero ma bonario Jack Warden).

Così, per semplificare un po’ la vita agli spettatori che già dovevano seguire la trama di un film complicatissimo nel quale non ci sono inseguimenti ma lunghissime telefonate con le «fonti», Sussman fu cancellato. 

Era il suo destino: in origine, il libro «Tutti gli uomini del presidente» doveva essere firmato anche da lui. Woodward e Bernstein decisero che non serviva loro un editor come Sussman, e lo tagliarono fuori dal contratto (Sussman scrisse un libro tutto suo, che uscì qualche mese dopo quello dei colleghi, ebbe ottime recensioni e finì rapidamente fuori stampa dove rimane tuttora).

Disse – meglio tardi che mai – 32 anni dopo Woodward: «Il film è un racconto incredibilmente accurato di quello che è successo. Per limitare il numero di personaggi il ruolo di Barry Sussman è stato ‘fuso’ con quello di un altro personaggio (Warden-Rosenfeld, ndr). Questa cosa è deplorevole: Carl Bernstein e io avremmo dovuto batterci per Sussman, che ebbe un ruolo fondamentale nel guidare e dirigere il nostro lavoro». 

L’ammissione non emozionò più di tanto Sussman, che ad Alicia Shepard — autrice dell’ottimo «Woodward And Bernstein: Life in the Shadow of Watergate» del 2006 — ha dichiarato laconico: «Non ho niente di buono da dire su entrambi». 

Dopo aver lasciato il ruolo di capocronaca creò e diresse la redazione del Post, molto avanti rispetto alla concorrenza, che analizzava i sondaggi d’opinione dei quali Sussman aveva inteso in anticipo l’importanza. Nel 1987 lasciò il giornale che era stato così poco generoso con lui. 

Concluse la carriera, dal 2003 al 2012, insegnando a Harvard (ed è proprio la Fondazione Nieman per il giornalismo di Harvard a ricostruirne la strepitosa storia, in questo articolo di Joshua Benton): piccolo prestigioso risarcimento per una carriera tanto straordinaria quanto avara di gloria.

Giuseppe Sarcina per “La Lettura – Corriere della Sera” il 6 giugno 2022.

Garrett Graff, 40 anni, è uno dei giornalisti americani più brillanti della generazione di mezzo. Si è laureato ad Harvard. Nel 2005 fu il primo blogger a ottenere l'accredito alla Casa Bianca. Ha diretto le riviste «Politico magazine» e «Washingtonian», ha collaborato con diversi centri studi e oggi, tra l'altro, è direttore per le cyber initiatives all'Aspen Institute. 

Da sempre alterna giornalismo e ricerca storica. Ha scritto diversi libri, compreso un bestseller sull'11 settembre. Lo scorso febbraio ha pubblicato, con Simon & Schuster, Watergate. A New History . Risponde al telefono da Burlington, nel Vermont, il suo territorio di origine in cui è tornato a vivere, senza però perdere i contatti con il milieu politico-culturale della capitale.

Graff non era nato, quando il 17 giugno 1972 cinque uomini forzarono gli uffici del comitato elettorale del Partito Democratico, nel complesso del Watergate, una serie di palazzine bianche e tondeggianti, affacciate sul fiume Potomac, a Washington. Racconta di aver voluto ripercorrere la storia dello scandalo più famoso dell'era contemporanea, dopo aver seguito per quattro anni la presidenza Trump. «Sono partito dall'idea che ciò che accadde 50 anni fa ci potesse aiutare a comprendere meglio anche le dinamiche attuali della politica americana».

Inoltre, dice Graff, «mi sono reso conto che alcune cose andarono in maniera diversa rispetto alla versione consolidata di quella vicenda, alimentata da una valanga di volumi e di film». 

Ci riporti al contesto in cui maturò il Watergate. Richard Nixon era presidente dal 1969. Il Paese era lacerato dalla guerra in Vietnam...

«Molti pensano che il Watergate sia la storia di cinque individui sorpresi a scassinare gli uffici del Partito Democratico, in piena campagna elettorale. Ma con il passare del tempo è diventato chiaro che più che a un episodio ci troviamo di fronte a una mentalità, a un modo di concepire e praticare il potere. 

Il Watergate fu in realtà una specie di ombrello che copriva almeno una dozzina di scandali distinti, ma collegati dalla criminale paranoia di Nixon. Tutto ciò in un Paese precipitato nel caos dalla guerra in Vietnam, stordito dalle rivelazioni contenute nei Pentagon Papers , che svelarono gli intrighi, gli orrori del conflitto». 

Il primo punto, quindi, è proprio la figura di Nixon...

«Nixon, sotto tutti i profili, è stato uno dei due o tre presidenti americani più importanti del XX secolo. È stato una figura di enorme importanza sul piano internazionale per le aperture all'Urss e alla Cina. Non solo. Di fatto è il cardine su cui il secolo americano cambia verso. 

È il presidente che rompe la continuità con il New Deal (il piano di rilancio economico concepito da Franklin D. Roosevelt, ndr ), con la Great Society (progetto socio-economico di Lyndon Johnson, ndr ). Nixon orienta il Partito repubblicano verso una dottrina nazionalista, populista. Oggi si parla spesso di "rivoluzione reaganiana", ma dovremmo parlare di "rivoluzione nixoniana". Nixon voleva diventare un personaggio storico di rilievo mondiale e quasi raggiunse l'obiettivo. Solo che non poteva. Il suo lato oscuro, le sue ossessioni glielo impedirono.

Vedeva nemici dappertutto, persino al picco della sua popolarità, nella primavera del 1972. Ricordiamo che nell'autunno vinse le elezioni con il più grande vantaggio della storia americana (60% del voto popolare, conquistati 49 Stati su 50, ndr )». 

Ed eccoci al 17 giugno 1972. È sabato notte. Cinque uomini si introducono nell'ufficio di Lawrence O' Brien, il presidente del Comitato elettorale democratico. Ancora oggi non sappiamo che cosa cercassero. Si è scritto che probabilmente volessero recuperare i nastri registrati dai microfoni spia. O forse documenti che potessero compromettere George McGovern, l'avversario di Nixon. Che idea si è fatto?

«È incredibile, ma cinquant' anni dopo non sappiamo con certezza chi ordinò a quelle persone di scassinare gli uffici. Non fu Nixon. Non in quel caso. Probabilmente l'operazione faceva parte di una serie di iniziative illegali, organizzate dallo staff del presidente per recuperare materiale compromettente su McGovern o, anche, capire se i democratici avessero documenti che provassero qualche manovra sporca di Nixon.

Negli ultimi vent' anni sono state diffuse le registrazioni delle conversazioni private del presidente. Abbiamo scoperto che nel 1971 aveva ordinato un'irruzione nella sede della Brookings Institution, un centro studi di Washington, convinto che lì stessero raccogliendo materiale contro di lui». 

In ogni caso dal giugno del 1972 il presidente e lo staff si impegnano in una forsennata azione di depistaggio. Ma vengono smascherati grazie anche alle soffiate di Deep Throat, la «Gola profonda» di Bob Woodward e Carl Bernstein del «Washington Post», per tutti noi Dustin Hoffman e Robert Redford nel film «Tutti gli uomini del presidente». Nel suo libro, però, lei smitizza la figura del confidente...

«Sì, è una delle cose che più mi hanno sorpreso, scavando in questa storia. Deep Throat era Mark Felt, il vicedirettore dell'Fbi. Anch' io me l'ero immaginato, suggestionato dal film, come una persona eticamente motivata, disgustata dalla corruzione, dal gioco sporco dell'amministrazione Nixon.

 In realtà è venuto fuori che fosse un carattere a tutti noi più famigliare, una presenza comune nei posti di lavoro. Felt era un burocrate amareggiato perché non aveva ottenuto la promozione che pensava di meritare. Quando contattò i reporter del «Washington Post» il suo obiettivo era danneggiare il suo nuovo boss, Patrick Gray, che lo aveva scavalcato diventando direttore dell'Fbi. Non gli importava molto delle possibili conseguenze su Nixon». 

Il Watergate è stato un punto di svolta per il giornalismo politico?

 «Penso proprio di sì. Fino a quel momento i cronisti di Washington si limitavano a riportare le dichiarazioni dei presidenti o dei ministri. Era quasi un lavoro stenografico. Da lì in avanti sono cominciati i briefing con domande più aggressive e un lavoro di scavo sui retroscena politici». 

Qualche giorno fa Margaret Sullivan, editorialista proprio del «Washington Post», ha scritto che, se capitasse oggi, il Watergate avrebbe un esito diverso. I media sono troppo polarizzati per poter affondare anche una presidenza come quella di Nixon. È d'accordo?

«Sì. Lo abbiamo sperimentato con i due impeachment a carico di Donald Trump. I media dell'estrema destra, guidati da Fox News, non solo hanno difeso ciecamente il presidente, ma hanno condotto una durissima campagna contro chi lo accusava. Il risultato è che oggi gran parte dell'opinione pubblica non crede più che ci siano giornalisti di cui potersi fidare, come accadde con Woodward e Bernstein mezzo secolo fa». 

Da Kissinger agli italiani: chi c'era al Bilderberg (e di cosa hanno parlato). Roberto Vivaldelli il 6 Giugno 2022 su Il Giornale. 

Fra i partecipanti al meeting annuale del Gruppo Bilderberg svoltosi lo scorso weekend a Washington, l'ex Segretario di stato americano Henry Kissinger, il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg e Anne Applebaum.

Il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, l'ex Segretario di Stato americano Henry Kissinger, il direttore della CIA William J. Burns, la premier finalndese Sanna Marin, il Presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, il Ceo di Rynair Michael O'Leary e quello di Pfizer, Albert Bourla, la celebre editorialista di The Atlantic Anne Applebaum, oltre agli italiani Stefano Feltri, direttore del quotidiano Domani, e Francesco Starace, amministratore delegato di Enel S.p.a. Sono alcune delle personalità che hanno preso parte al meeting annuale del Club Bilderberg, svoltosi tra il 2 e il 5 giugno presso il Mandarin Oriental di Washington, Dc. I partecipanti alla 68esima edizione della conferenza del noto think-tank chiusa al pubblico e alla stampa, che riunisce i maggiori rappresentanti delle élite mondiali, del mondo della politica, della finanza, dell'industria, del mondo accademico e dei media sono stati 120, provenienti da 21 Paesi del mondo. Una sorta di World Economic Forum, ma a porte chiuse.

Ecco di cosa hanno parlato al meeting del Bilderberg

La guerra in Ucraina e le sfide geopolitiche non potevano non essere al centro del dibattito del forum di tre giorni svoltosi lo scorso weekend a Washington. Come riporta il sito ufficiale del Gruppo Bilderberg, i temi principali affrontati sono stati il riallineamento geopolitico, le sfide della Nato, la Cina e la competizione tecnologica sino-americana, la Russia, la sicurezza energetica e la sostenibilità, la salute post-pandemia, nonché la frammentazione delle società democratiche. Come scrive il Guardian, dopo un intervallo di due anni a causa della pandemia, il vertice globale dell'élite torna a svolgersi in un hotel blindato di Washington DC con i vertici della Nato, della CIA, del consiglio di sicurezza nazionale degli Stati Uniti, due primi ministri europei, i miliardi hi-tech ed Henry Kissinger.

In due anni il mondo è completamente cambiato, compreso quell'ordine liberale internazionale che il gruppo Bildergberg ha contributo a costruire. Nel 2019, l'ultima volta che il Bilderberg si era riunito, la conferenza era iniziata con temi perlopiù ottimistici sull'ordine mondiale: ora, con l'invasione russa dell'Ucraina, il panorama geopolitico è fortemente mutato e il sentimento prevalente è il pessismo verso un futuro incerto e pericoloso. A dire il vero, nota il giornale britannico, la conferenza di Washington è un consiglio di guerra di alto livello, presieduto dal segretario generale della Nato, "il veterano del Bilderberg Jens Stoltenberg. È stato raggiunto nel lussuoso hotel Mandarin Oriental dall'ambasciatore ucraino negli Stati Uniti, Oksana Markarova, e dal CEO di Naftogaz, la compagnia petrolifera e del gas ucraina di proprietà dello stato".

La storia del forum delle élite

Nato come progetto congiunto dell'intelligence britannica e statunitense, il primo incontro del Gruppo Bilderberg si svolse presso l'Hotel De Bilderberg a Oosterbeek, nei Paesi Bassi, dal 29 al 31 maggio 1954. Nel corso degli anni le riunioni annuali sono diventate un forum di discussione su un'ampia gamma di argomenti: dal commercio all'occupazione, alla tecnologia, dalla politica monetaria agli investimenti, dalle sfide ecologiche al compito di "promuovere la sicurezza internazionale". La tradizionale riservatezza che contraddistingue quest'appuntamento ha contribuito ad alimentare, nel corso dei decenni, varie teorie - più o meno cospirazioniste - su ciò che viene discusso nella tre giorni che raccoglie l'establishment occidentale. Fra mito e verità, l'unica cosa certa è che, anche quest'anno, solo i partecipanti sanno esattamente cosa è stato detto fra le mura del Mandarin Oriental di Washington, Dc.

Russiagate, Hillary Clinton rischia di fine nei guai per queste mail. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 15 maggio 2022.

Importante vittoria in tribunale per John Durham, il procuratore speciale che indaga sulle origini del Russiagate e sul presunto complotto ai danni dell’ex presidente Usa Donald Trump. Un giudice federale ha ordinato alla Fusion Gps, la società dietro al famigerato “dossier Steele” sul Russiagate, redatto dall’ex spia britannica Christopher Steele, di consegnare al procuratore speciale quasi due dozzine di e-mail che l’azienda ha scambiato con l’avvocato della campagna elettorale di Hillary Clinton, Michael Sussmann. Secondo il giudice federale di Washington DC, Christopher Cooper, Fusion Gps ha trattenuto in modo improprio 22 e-mail affermando che erano protette dal “segreto” avvocato-cliente.

Tesi smentita dal giudice Cooper secondo cui le e-mail, che consistono in gran parte in comunicazioni interne tra i dipendenti Fusion, “sembrano non essere state scritte in previsione di un contenzioso, ma piuttosto come parte del normale lavoro di relazione con i media“. Pertanto il giudice ha ordinato a Fusion Gps di consegnare le e-mail alla squadra di Durham nell’ambito del processo contro l’avvocato di Hillary Clinton. Steele lavorava per Fusion Gps, una società di investigazione privata che l’ex studio legale di Sussmann, Perkins Coie, aveva assunto per esaminare potenziali collegamenti tra la Campagna di Trump e la Russia. Marc Elias, un esperto in campagne elettorali e uno dei partner di Sussmann alla Perkins Coie, rappresentava la campagna di Clinton e assoldò Fusion Gps per indagare su Trump.

L’indagine contro l’avvocato di Hillary Clinton

Come scrive il Wall Street Journal, John Durham “ha già vinto”. In un deposito del tribunale risalente alla prima settimana di aprile, Durham ha diffuso nuove prove che sembrano inchiodare l’avvocato vicino all’ex Segretario di Stato, Michael Sussmann, accusato di aver rilasciato una falsa dichiarazione all’agente dell’Fbi, James Baker, durante un incontro risalente al settembre 2016. Sussmann, come già evidenziato da InsideOver, avrebbe omesso di rivelare i suoi veri clienti ai federali, che includevano la Clinton e la sua campagna presidenziale, quando si offrì di fornire al Bureau informazioni circa il rapporto tra il team di Trump e l’Alfa Bank, la più grande banca privata russa con sede a Mosca.

L’obiettivo di questa manipolazione era quello di tentare di incastrare Trump e provare, su più livelli, una falsa “collusione” fra lo stesso tycoon e la Federazione russa. L’ultimo deposito di Durham dimostrerebbe infatti che la sera prima dell’incontro l’avvocato di Clinton avrebbe inviato un messaggio a Baker, affermando: “Vengo da solo, non per conto di un cliente o di un’azienda, voglio aiutare il Bureau”. L’avvocato voleva dimostrare di agire per conto proprio, ma in realtà era sul libro paga di Clinton e della campagna del Partito democratico.

Le persone accusate da Durham

Sussmann è una delle tre persone accusate finora da Durham, che ha ottenuto una dichiarazione di colpevolezza da un avvocato dell’Fbi, Kevin Clinesmith, per aver mentito alla Corte Fisa (Foreign intelligence Surveillance Act) e aver inviato un’e-mail modificata al fine spiare l’ex funzionario della campagna di Trump, Carter Page. Quest’ultimo fu accusato di essere l’uomo dell’entourage di Trump più vicino al Cremlino e di aver incontrato, fra gli altri, Igor Sechin, amico di Putin, guida della petrolifera statale Rosneft, e Igor Diveykin, altro oligarca vicino al leader del Cremlino.

L’altro è Igor Danchenko, analista russo che vive negli Stati Uniti. Secondo quanto riportato dall’Economist, l’accusa sostiene che Danchenko abbia consapevolmente mentito all’Fbi circa le informazioni che ha passato all’ex spia britannica Steele. Finanziato in parte dalla Fusion Gps, dal Washington Free Beacon, dal Democratic National Committee e dalla campagna della Clinton, il dossier Steele contiene informazioni infondate secondo cui gli agenti dell’intelligence russa avrebbero filmato il presidente Trump con delle prostitute in un hotel di Mosca. Più Durham scava, e più la vicenda del Russiagare appare torbida e ricca di interrogativi. Il più importante è capire quanto la Clinton sia direttamente implicata in questa vicenda e se sia stata lei – o il suo entourage – a “orchestrare” un’indagine volta a delegittimare il suo avversario politico.

Michelle Obama: «Riesco ancora a volare alto (ma è sempre più difficile). La rabbia? Ho imparato ad usarla» Viviana Mazza su Il Corriere della Sera l11 Novembre 2022.

L’ex first lady torna in libreria con ‘La luce che è in noi’. L’amore per il marito che «c’è e ci sarà sempre», le figlie ora grandi, le «linee sulla sabbia» e l’impossibile che diventa possibile (grazie anche alla tv leggera)

Se c’è una frase di Michelle Obama che più di ogni altra fa parte nell’immaginario collettivo , stampata su magliette e tazze della colazione, è questa: «Quando gli altri volano basso, noi voliamo alto». Era il cuore del suo discorso alla convention nazionale democratica del 2016 a Filadelfia, quando Donald Trump era in corsa per la presidenza contro Hillary Clinton. «E quando ripenso a quel momento, non avrei mai potuto immaginare che quelle parole sarebbero diventate un sinonimo del mio nome», dice l’ex first lady, 58 anni, in un’intervista esclusiva con 7. A quel messaggio ritorna nel suo nuovo libro, La luce che è in noi, seguito del successo planetario Becoming, entrambi pubblicati in Italia da Garzanti.

L’ANTICIPAZIONE DAL NUOVO LIBRO

«La mia mente pavida» e le profezie tra ragazze. Ecco il seguito di ‘Becoming’, di Michelle Obama

Di fronte alle provocazioni e alle ingiustizie, alla pandemia e alle tensioni razziali, all’abolizione di Roe v. Wade con «i nostri stessi leader che si muovono per criminalizzare l’aborto», di fronte ai «funzionari repubblicani che continuano a diffondere falsità sulle elezioni» anche dopo l’assalto al Congresso («abbiamo visto una folla rabbiosa di rivoltosi irrompere con violenza nei nostri luoghi istituzionali più sacri, convinta che sfondando le porte e orinando sul tappeto di Nancy Pelosi avrebbe in qualche modo reso grande il nostro Paese») e in un clima in cui lei stessa ha confessato di aver sofferto di una leggera depressione, si può ancora volare alto? Michelle Obama ne ha discusso con noi.

Michelle LaVaughn Robinson Obama a 17 anni. E’ nata il 17 gennaio 1964

«Negli oltre sei anni che sono passati da quando ho pronunciato quelle parole, ho avuto tanto tempo per riflettere su questo concetto in modo più ampio, e la risposta alla sua domanda—se sia possibile o no volare alto — è ancora sì. È sempre sì. Ecco perché. Per lungo tempo, volare alto è stato un semplice mantra che Barack e io usavamo per incoraggiarci a vicenda. Era una semplificazione dei nostri ideali, una zuppiera piena di ingredienti, di cose che abbiamo ricavato dalla nostra educazione cotte a fuoco lento nel corso degli anni: di’ la verità, cerca di essere giusto con gli altri, guarda le cose in prospettiva, trova il modo di restare forte in tutto questo. Suona semplice, persino banale. Dalla sua domanda credo che lei capisca che non lo è».

«SONO STATA IN LUTTO. SONO STATA ARRABBIATA. POI HO PENSATO A QUELLO CHE POTEVO FARE PER PREPARARE IL TERRENO AI MIEI OBIETTIVI»

«Quando c’era gente là fuori a mettere in dubbio il certificato di nascita di Barack o quando gli articoli mi dipingevano come una donna nera arrabbiata per aumentare i clic, non era mai facile volare alto», continua. «E in un mondo di crescente cinismo, disinformazione e odio, non lo sarà mai. In questi giorni sento che è sempre più difficile». Come famiglia nera alla Casa Bianca, gli Obama hanno mostrato che qualcosa prima impossibile era diventato possibile, «nonostante il bigottismo e il pregiudizio così radicati nella vita americana—e forse anche in barba a questi», scrive Michelle Obama. Ma proprio per questo, quando lo stesso Paese che aveva eletto suo marito ha scelto di consegnare il ruolo a Trump, lei è rimasta ferita. Ci ha parlato alla vigilia del voto di midterm, mentre Barack volava per comizi da uno Stato in bilico all’altro, chiamato ad aiutare i democratici in difficoltà: l’ex presidente nei suoi discorsi avverte che la rabbia viene usata per mettere le persone l’una contro l’altra, in un ciclo di violenza alimentato dai politici e dai social.

«Per me volare alto ha acquistato il significato di tracciare una linea nella sabbia» riprende Michelle Obama «un confine che non oltrepasserò. Esserne consapevole mi dà lo spazio di fermarmi per un attimo, sentire il mio dolore e la mia rabbia e tornare con un piano d’azione. Così dopo l’assalto del 6 gennaio o quando la Corte suprema ha aperto la porta alla criminalizzazione dell’aborto, ho fatto un passo indietro e ho permesso ame stessa di sentire. Sono stata in lutto. Sono stata arrabbiata. E poi ho pensato a quello che potevo fare per preparare il terreno per l’obiettivo che volevo io. Quel processo ha riacceso la mia passione per incoraggiare le persone a partecipare alla nostra democrazia e registrarsi per votare».

Anche nel 2016 «volare alto» doveva essere una chiamata a raccolta per gli elettori, non solo perché «sentissero» ma perché «facessero» qualcosa. «Eravamo messi alla prova come nazione. Affrontavamo una sfida morale». Eppure «oltre novanta milioni di elettori rimasero a casa». Trump diventò presidente. «Dobbiamo essere chiari» sottolinea ora l’ex first lady: «Volare alto non significa non fare nulla. Non è disimpegno né semplicemente porgere l’altra guancia. È fare ciò che è necessario per far contare il tuo lavoro e far sentire la tua voce in un modo che sia autentico per te e, si spera, costruttivo per gli altri. È l’impegno di tutta una vita, a vivere con dignità e decoro, che illumina la via per come tratti gli altri e come ti presenti nel mondo».

Barack e Michelle sono diversi. «Lui e un nottambulo che ama le attività solitarie. Io sono mattiniera e mi piacciono le situazioni piene di gente», scrive Michelle in questo nuovo libro che sfiora anche temi (la terapia di coppia, le difficoltà a concepire) già toccati in Becoming: a chi le chiede consigli sull’amore spiega che il loro piccolo trionfo è «la semplice consapevolezza che l’altro è lì per restare».

La luce che è in noi è dedicato ai suoi genitori, Marian e Fraser Robinson, che con il loro amore incondizionato nel South Side di Chicago le hanno insegnato di avere una voce. Ma è chiaro che Michelle cresce anche insieme a Sasha e Malia, osservando come le figlie «imparano la vita».

Quando arrivarono alla Casa Bianca avevano 7 e 10 anni, ora Sasha fa l’università e Malia ha il primo lavoro come autrice tv. Hanno affittato insieme il loro primo appartamento da adulte a Los Angeles, scegliendo con cura i mobili al mercatino delle pulci. Quell’appello a «volare alto» era nato a casa, parlando con le sue bambine, spiegando che dovevano ignorare gli attacchi di chi, a partire da Trump, accusava loro padre di non essere nato negli Stati Uniti. Ora Michelle resta attonita a guardare Malia spolverare (pazienza se solo intorno agli oggetti, senza spostarli dagli scaffali) e Sasha usare sottobicchieri (dopo anni di segni sui tavoli, inclusi quelli della Casa Bianca). Stanno imparando, e si augura che restino «nel mercatino della vita», alla scoperta di flirt e amicizie, senza sentirsi in dovere di scegliere il matrimonio o la maternità prima di avere imparato chi sono veramente.

Che fare allora della rabbia?, chiediamo a Michelle. «Le emozioni così» replica lei «sono cose che senti, ma non dei piani. Non risolvono alcun problema, né correggono alcun torto. La rabbia, la collera e la frustrazione possono spingerci a scrivere frasi furiose sui nostri computer o telefonini e pubblicare o twittare quelle parole rivolgendoci a estranei su internet. Ma spesso ci fermiamo lì, invece di essere precisi e convinti del modo in cui andrebbero impugnate le nostre emozioni. Non dico che le persone non dovrebbero sentirsi arrabbiate. La rabbia è spesso giustificata, meritata, e necessaria. Ma quello che dobbiamo fare è incanalarla in un modo che la renda più di una reazione effimera o un rumore passeggero».

Quando le chiedono se intenda candidarsi in politica (spesso), Michelle risponde che non le interessa. Che ci sono altri modi per lasciare un segno. «Per me la scrittura è un modo grandioso per incanalare la rabbia. Comincio sempre lavorando a partire dai miei pensieri, senza fronzoli. Da lì, punto a quello che voglio davvero dire, quello che sento come la verità. E allora i pezzi di domino cominciano a cadere, i miei sentimenti vengono tradotti in parole sulla pagina e lavoro su di essi finché non sento che sono espressi nel modo più corretto. Così ho imparato ad articolare i pensieri con la mia squadra, la mia famiglia e a volte anche con il Paese. Ovviamente non devi fare un discorso per veicolare i tuoi sentimenti. Per te, il mezzo può essere l’arte o la protesta o ancora una conversazione con qualcuno che ami. C’è sempre un modo in cui la nostra fiamma può restare viva in noi senza distruggerci — possiamo liberarla su una pagina vuota, su una tela bianca o anche in un’urna da riempire».

Nel nuovo libro, l’ex first lady racconta storie: di politici come Stacey Abrams, che per due volte si è candidata alla carica di governatrice della Georgia, ma anche di talenti come le comiche Mindy Kaling (autrice anche di serie tv come la recente Non ho mai…), Ali Wong (Baby Cobra) o il compositore e attore teatrale Lin-Manuel Miranda (da Hamilton a Encanto). Barack dice che «guarda troppa televisione leggera»… ma le chiediamo se “i leader dell’intrattenimento” possano essere altrettanto potenti di chi vince le elezioni nell’educare alla diversità. «Sì, è vero» risponde lei. «Ovviamente non è che musicisti, attori e altre celebrità elaborino esattamente misure politiche, ma stanno davvero plasmando il modo in cui vediamo questo Paese e noi stessi. Quand’ero una ragazzina, guardavo le copertine delle riviste in edicola e potevo contare sulle dita di una mano il numero di volte che qualcuno aveva il mio aspetto. Questo mi ricordava implicitamente che i vertici della società non erano davvero aperti a ragazze come me, che eravamo outsider. Perciò è importante che persone come Lin-Manuel, Ali, Mindy e tanti altri appaiano da protagonisti nei programmi in streaming, nei canali di informazione e altrove. Ai ragazzi che crescono come me nella comunità nera o magari in una famiglia immigrata, vedere che ci sono persone di ogni retroterra ricorda implicitamente che cosa è possibile. E a chi vive in comunità dove non c’è grande diversità, dà la possibilità di condividere un po’ della nostra umanità anche con loro».

LE SIGNORE DELLA CASA BIANCA

FLOTUS (First Lady Of The United States) è il titolo dato alla moglie del presidente degli Stati Uniti d’America. Il suo ruolo non è mai stato codificato, ma la sua figura è stata decisiva in alcuni casi della storia americana, nella vita politica e sociale della nazione. Ecco le 46 protagoniste con accanto il nome del marito presidente di turno

1. MarthaWashington (1789-1797) GeorgeWashington

2. Abigail Adams (1797-1801) John Adams

3. Martha Jefferson (1801-1809) Thomas Jefferson

4. Dolley Madison (1809-1817) JamesMadison

5. Elizabeth Monroe (1817-1825) James Monroe

6. Louisa Adams (1825-1828) John Quincy Adams

7. Emily Jackson (1829-1837) Andrew Jackson

8. Angelica Van Buren (1837-1841) Martin Van Buren

9. Anna Harrison (1841-1841) WilliamHenry Harrison

10. Letitia Tyler (1841-1845) John Tyler

11. Sarah Polk (1845-1849) James K. Polk

12. Margaret Taylor (1849-1850) Zachary Taylor

13. Abigail Fillmore (1850-1853) Millard Fillmore

14. Jane Pierce (1853-1857) Franklin Pierce

15. Harriet Lane Johnston (1857-1861) James Buchanan

16. Mary Lincoln (1861-1865) Abraham Lincoln

17. Eliza Johnson (1865-1869) Andrew Johnson

18. Julia Grant (1869-1877) Ulysses S. Grant

19. Lucy Hayes (1877-1881) Rutherford B. Hayes

20. Lucretia Garfield (1881-1881) James A. Garfield

21. Mary Arthur (1881-1885) Chester A. Arthur

22. Frances C.Cleveland (1885-1889) Grover Cleveland

23. Caroline L. Harrison (1889-1893) Benjamin Harrison

24. Frances C. Cleveland (1893-1897) Grover Cleveland

25. Ida McKinley (1897-1901) William McKinley

26. Edith K. Roosevelt (1901-1909) Theodore Roosevelt

27. Helen Taft (1909-1913) William Howard Taft

28. Ellen Louise Wilson (1913-1921)Woodrow Wilson

29. Florence Harding (1921-1923)Warren Harding

30. Grace Anna Coolidge (1923-1929) Calvin Coolidge

31. Lou Hoover (1929-1933) Herbert Hoover

32. Anna E.Roosevelt (1933-1945) Franklin D. Roosevelt

33. Elizabeth “Bess” Truman (1945-1953) Harry S. Truman

34. Mamie G.Eisenhower (1953-1961) Dwight Eisenhower

35. Jacqueline Lee Kennedy (1961-1963) John F. Kennedy

36. Claudia Johnson (1963-1969) Lyndon B. Johnson

37. Thelma C.Nixon (1969-1974) Richard Nixon

38. Elizabeth Ford (1974-1977) Gerald Ford

39. Eleanor Rosalynn Carter (1977-1981) Jimmy Carter

40. Nancy Davis Reagan (1981-1989) Ronald Regan

41. Barbara Bush (1989-1993) George H.W. Bush

42. Hillary Clinton (1993-2001) Bill Clinton

43. Laura Bush (2001-2009) GeorgeW. Bush

44. Michelle Obama (2009-2017) Barack Obama

45. Melania Trump (2017-2021) Donald Trump

46. Jill Biden (2021-in carica) Joe Biden

La parabola discendente di Jill Biden, la First lady meno amata. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

Non è bella come Melania Trump, né carismatica come Michelle Obama o ambiziosa come Hillary Clinton: l’attuale First lady, Jill Biden, 71 anni, non sembra affatto scaldare i cuori degli americani, soprattutto da quando ha cominciato a collezionare una gaffes dietro l’altra – seppur lontana, per ora, dai livelli tragicomici del marito, re indiscusso delle brutte figure. Secondo l’ultimo sondaggio della Cnn, appena il 34% degli intervistati ha un’opinione favorevole della First lady, contro il 29% di chi, al contrario, ha un’opinione negativa e il 37% di incerti o che non sanno rispondere. Tradizionalmente, le First lady sono ammirate e amate in modo bipartisan e gli americani tendono ad avere un’opinione migliore di loro rispetto a quella del presidente in carica (in questo caso non sarebbe difficile visti i numeri disastrosi di Joe Biden).

Cosa dicono i sondaggi della First Lady

Rispetto alle passate inquiline della Casa Bianca, tuttavia, i numeri di Jill Biden sono molto meno positivi. Nel 2002, più o meno nello stesso periodo in cui era in carica, l’allora First lady Laura Bush era apprezzata dal 67% degli americani. Nel 2010, Michelle Obama, sempre nel medesimo periodo, era vista di buon occhio dal 62% degli intervistati mentre, nel giugno 2018, Melania Trump godeva del supporto del 51% degli americani contro il 29% dei critici. Certo, la società americana è sempre più polarizzata  e i paragoni con il passato vanno contestualizzati, ma sta di fatto che tra Jill Biden e gli americani non è scattata la classica “luna di miele”. E con il passare del tempo, è difficile che la situazione possa migliorare. “Piaciucchia”, e nulla di più, e non sfonda minimamente nell’elettorato repubblicano. 

A differenza di suo marito, Jill Biden non è mai stata conosciuta come una “macchina della gaffes”. Come First lady, ha mantenuto per un certo periodo la sua reputazione di essere generalmente “inoffensiva” (forse pure troppo). Almeno fino a poco tempo fa, quando ha goffamente cercato di trovare un modo culturalmente specifico per fare un complimento alla comunità latina associando, nello sconcerto generale, la diversità della comunità latinoamericana all’unicità dei tacos per colazione. A complicare ulteriormente le cose, ha poi pronunciato “bodegas” “Bogihdahs”, nella stessa frase.

Le sue osservazioni sono state “accolte con applausi nella sala conferenze gremita”, secondo la Cnn. Ma il 12 luglio scorso la National Association of Hispanic Journalists ha rilasciato una dichiarazione informando Biden e il suo team che gli ispanici “non sono tacos” e incoraggiandoli a non fare affidamento agli stereotipi. Da qui le scuse: “La First Lady si scusa per il fatto che le sue parole abbiano trasmesso tutt’altro che pura ammirazione e amore per la comunità latina”, ha detto Michael LaRosa, il suo portavoce, alla Cnn.

Pochi giorni fa, un’altra dichiarazione che ha fatto parecchio discutere, quasi un’ammissione delle gravi difficoltà che sta incontrando l’amministrazione Biden. A una raccolta fondi del Democratic National Committee a Nantucket, Jill Biden ha infatti dichiarato che l’agenda politica di suo marito è stata “sviata” da crisi inaspettate in patria e all’estero. “Il Presidente aveva così tante speranze e piani per le cose che voleva fare, ma ogni volta che si voltava, doveva affrontare i problemi del momento”, avrebbe detto la First lady a circa due dozzine di persone in una casa privata. In compenso, Jill Biden sembra cavarsela meglio con i contestatori. La scorsa settimana, durante una visita in Connecticut, la First lady non ha battuto ciglio dopo essere stata duramente contestata da alcuni passanti. “Tuo marito è il peggior presidente che abbiamo mai avuto. Ci devi dei soldi per la benzina”, ha gridato un uomo a Jill Biden mentre entrava nella gelateria Arethusa Farms a New Haven. Affiancata dal suo personale di sicurezza, Biden ha sorriso al gruppo, che era composto da almeno sette persone, e ha affermato: “Grazie! Grazie per il vostro supporto, grazie!”, prima di allontanarsi. Nel video si sente un altro uomo dire “fai schifo!”. La sua risposta ha provocato le risate di chi la circondava.

Joe Biden, "insabbiato tutto": Elon Musk, bomba sulla Casa Bianca. Libero Quotidiano il 04 dicembre 2022

Twitter avrebbe censurato notizie compromettenti su Hunter Biden in grado di condizionare, in negativo, la corsa alla Casa Bianca di suo padre Joe Biden. A rilanciare la tesi dell'insabbiamento pro-democratici è niente meno che Elon Musk, neo-proprietario di Twitter, che ha promesso una devastante campagna di trasparenza che potrebbe generare conseguenze politiche inimmaginabili a Washington.

Poche settimane prima delle elezioni presidenziali del 2020 (che Biden vinse sconfiggendo Donald Trump), il quotidiano conservatore New York Post pubblicò la storia del computer di Hunter Biden, figlio problematico e scavezzacollo dell'ex vice di Obama. Secondo l'articolo del Post il dispositivo conteneva diversi file, comprese e-mail potenzialmente incriminanti, riguardanti i rapporti d'affari del figlio dell'attuale presidente con Paesi e individui stranieri. A pubblicare su Twitter le mail che mostrano gli scambi tra i dipendenti della piattaforma online è il giornalista statunitense Matt Taibbi, in una serie di tweet condivisi dallo stesso Musk. Twitter, sostiene Taibbi, "ha adottato misure straordinarie per sopprimere la storia, rimuovendo collegamenti e pubblicando avvisi sulla loro possibile non sicurezza. Ne ha persino bloccato la trasmissione tramite messaggio diretto, uno strumento finora riservato a casi estremi, come la pornografia infantile". 

Il New York Post è stato il primo giornale a riferire del computer, abbandonato in un'officina di riparazioni di Wilmington, nel Delaware, e che presumibilmente apparteneva a Hunter Biden. L'oggetto conteneva diversi file, comprese e-mail potenzialmente incriminanti, riguardanti i rapporti d'affari del figlio dell'attuale presidente con Paesi e individui stranieri. In una delle email, Vadym Pozharskyi, cittadino ucraino e terzo al comando della compagnia energetica ucraina Burisma, ringraziava Biden per l'opportunità avuta di incontrare suo padre, allora vicepresidente, e per aver "trascorso del tempo con lui" ad aprile 2015. Hunter Biden, in quel momento, era membro del Consiglio di amministrazione della società. Circa 50 ex membri della comunità dell'intelligence hanno affermato che le informazioni erano "false" e create dai russi per interferire nelle elezioni. Lo scorso marzo, tuttavia, il New York Times ha riferito che il laptop e le informazioni incluse erano autentici e fanno parte di un'indagine in corso del dipartimento di Giustizia su Hunter Biden in merito ai suoi affari finanziari e fiscali.

Le rivelazioni dei Twitter-files: utenti in blacklist e post oscurati. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Dicembre 2022.

L'inchiesta del New York Times dimostra l'esistenza di un team di dipendenti di Twitter il cui scopo era “costruire liste nere, impedire ai tweet sfavorevoli di diventare di tendenza e limitare la visibilità di interi account o addirittura di argomenti di tendenza”. Nuova bufera per il più potente dei social network

Inizialmente lo scandalo con tanto di accuse reciproche e di cause legali sul reale numero degli utenti, dopo è arrivata la questione dei licenziamenti di massa successivamente in parte reintegrati con tanto di scuse, dopo gli uffici trasformati in dormitorio ed ora i “Twitter files”. Che l’ingresso di Elon Musk in Twitter non sarebbe stata semplice e indolore era prevedibile fin dal primo momento. Adesso però nella Twitter-story arrivano dettagli che potrebbero far cambiare radicalmente il modo in cui gli utenti guardano quello che è indubbiamente uno dei social network più potenti.

Le rivelazioni del quotidiano “New York Times”, le ultime in ordine di tempo arrivate nella notte, svelano un fitto e per nulla trasparente intreccio che politica e istituzioni e il social media. La giornalista Bari Weiss, con la “benedizione” del nuovo Ceo di Twitter, ha infatti pubblicato su lungo “thread” in cui si dimostra l’esistenza in passato di un team di dipendenti di Twitter il cui scopo era “costruire black list” cioè liste nere, impedendo ai tweet sfavorevoli di diventare di tendenza e limitare la visibilità di interi account o addirittura di argomenti di tendenza”. “Il tutto in segreto,– prosegue il post retwittato dallo stesso Musk – senza informare gli utenti”.

Le Blacklist di Twitter

Tra gli utenti finiti nella blacklist compare ad esempio Jay Bhattachary, professore dell’ Università di Stanford che sosteneva che i lockdown messi in atto per contenere la diffusione del Covid avrebbe potuto danneggiare i bambini (e per questo finito nella “trend blacklist” che impediva appunto ai suoi tweet di diventare virali) o l’account del presentatore di un popolare talk show Dan Bongino finito nella blacklist delle ricerche perché dichiaratamente di destra.

Nel mirino dei censori di Twitter era finito anche l’attivista conservatore Charlie Kirk (esplicativa la nota interna “Da non amplificare” allegata al suo profilo). Un sistema organizzato e strutturato, insomma, tutt’altro che qualche caso sporadico legato alle intemperanze dei singoli account. Secondo la giornalista del New York Times i vertici di Twitter chiavano questa politica VF cioè “Visibility Filtering” (“filtraggio di visibilità”) . “Pensate al filtro di visibilità come a un modo per sopprimere ciò che le persone vedono a diversi livelli. È uno strumento molto potente”, ha dichiarato un dipendente di vecchia data.

Altro caso è stato quello della pagina “Libs of TikTok” (1,6 milioni di follower) sospeso sei volte ufficialmente per incitazione all’odio nonostante un documento interno dimostri che i gestiri della pagina non hanno mai violato il regolamento interno di Twitter. Nella foto postata dalla giornalista americana si vede che proprio nella scheda di tale utente capeggiava in bella mostra il messaggio, in rosso, con scritto “Non prendere inizitive sull’utente senza consultare il Sip-Pes”, ovvero il “Site Integrity Policy, Policy Escalation Support,” il braccio operativo di questo tipo di operazioni.

Chi pensava che lo “scandalo Twitter” fosse limitato, alla vicenda legata al figlio di Biden, Hunter, e alle notizie (insabbiate) relative ad una non molto chiara consulenza con Paesi stranieri e frodi fiscali, sbagliava di grosso. La vicenda adesso si sta allargando a macchia d’olio e la stessa giornalista promette nuovi aggiornamenti a breve, anche grazie alla collaborazione offerta da altri colleghi e da altre testate.

Elon Musk ha fatto sapere che “Twitter sta lavorando a un aggiornamento del software che mostrerà il vero stato dell’account, in modo da sapere chiaramente se si è stati bannato, il motivo e le modalità per fare ricorso”.

Amazon e Apple scommettono su Twitter e investono in pubblicità

Gli incentivi all’attività di advertising decisi da Twitter hanno fatto centro, dal momento che hanno spinto molti inserzionisti a rilanciare le loro campagne sulla piattaforma. In cima alla lista ci sono due società big, come Amazon e Apple. La prima, come riporta la Reuters, si prepara a investimenti per 100 milioni mentre la seconda avrebbe pianificato di riprendere a pieno regime l’attività precedente stabilendo di fatto che maggiore è la quantità di denaro spesa sulla piattaforma, più verranno amplificati gli annunci, generando così un “valore aggiunto” (in termini di “impressions”).

In altri termini, se un inserzionista spende 200mila dollari, otterrà un valore aggiunto del 25%. Se ne spende 350mila, un valore aggiunto del 50%. Se invece investe 500mila, otterrà un valore aggiunto del 100%. Lo sforzo della piattaforma (secondo gli analisti si tratta di incentivi molto generosi) si è reso necessario in seguito all’allontanamento di molti inserzionisti a causa delle nuove policy imposte da Elon Musk al social network. Queste entrate rappresentano più del 90% del totale.

Nonostante gli inserzionisti di ritorno possano essere una buona notizia per Twitter, fonti interne hanno riferito al New York Times che le entrate pubblicitarie della terza settimana di novembre sono state inferiori dell’80% alle aspettative. Proprio il 20 novembre sono iniziati i Mondiali di calcio, storicamente un’occasione ghiotta per Twitter, con traffico record e un grande afflusso di pubblicità. Non questa volta. Le aziende restano prudenti, accettano di fare pubblicità solo per eventi circoscritti e con clausole in cui si afferma che possono cambiare idea per qualsiasi motivo. 

Tutti i numeri

I pesanti tagli al personale imposti dal tycoon, nel primo mese da proprietario della piattaforma, hanno coinvolto i dipendenti che si occupavano sulla moderazione dei contenuti, lasciando scoperta questa attività, con il conseguente proliferare di “fake news“, account falsi e odio online (situazione incentivata anche dal ripristino degli account bannati). Novembre è stato anche il mese del caos degli account verificati e della spunta blu a pagamento: molti utenti hanno approfittato della nuova funzionalità per impersonare account falsi e twittare messaggi pericolosi e dannosi per la reputazione del marchio “impersonato” (Twitter poi ha messo in pausa la funzione, promettendo un rilancio con nuove misure di sicurezza).

Di conseguenza, molte grandi aziende, tra cui il produttore di automobili General Motors, la società alimentare General Mills, il produttore di Oreo Mondelez International, Audi e la società farmaceutica Pfizer avevano interrotto o sospeso la pubblicità su Twitter. 

Secondo i dati di MediaRadar, a maggio Twitter contava 3.980 inserzionisti. A ottobre il numero è calato a 2.315, mai così pochi. Come da analisi di Media Matters, la metà dei primi 100 inserzionisti di Twitter ha ridotto poi le proprie spese nei giorni successivi all’acquisizione. Nella terza settimana di novembre, le vendite pubblicitarie dell’azienda in Europa, Medio Oriente e Africa sono diminuite di oltre il 50% rispetto alla seconda.

Redazione CdG 1947

Stefano Graziosi per “La Verità” il 5 dicembre 2022.

Ricordate quando Twitter censurò lo scoop del New York Post, che provava come Joe Biden fosse a conoscenza dei controversi affari di suo figlio all'estero? Era l'ottobre 2020 e, a pochi giorni dalle elezioni presidenziali americane, quell'articolo avrebbe potuto seriamente danneggiare l'allora candidato dem. Eppure, il social di San Francisco decise di bloccare la possibilità di condividerlo. 

Una scelta controversa, su cui ha finalmente gettato luce il giornalista Matt Taibbi. In un thread su Twitter, costui ha infatti chiarito alcuni aspetti della vicenda, basandosi su documentazione interna recentemente resa pubblica. Taibbi ha iniziato col sottolineare come la piattaforma ricevesse spesso richieste dal mondo politico per bloccare tweet considerati sgraditi: da quanto sostiene, tali richieste sarebbero pervenute sia dall'amministrazione Trump sia dal comitato elettorale di Joe Biden.

Il punto è che, prosegue Taibbi, «questo sistema non era bilanciato. Era basato sui contatti. Poiché Twitter era ed è composto in modo schiacciante da persone con un dato orientamento politico, c'erano più canali, più modi per lamentarsi, aperti a sinistra (cioè ai democratici) che a destra». E qui veniamo al primo nodo. 

La piattaforma poteva infatti vantare legami assai più solidi con il Partito democratico che con il Partito repubblicano. E attenzione: non si trattava solo di simpatia a livello ideologico. Come emerge dal sito Open Secrets, nei cicli elettorali del 2018 e del 2020 i dipendenti di Twitter versarono cospicui finanziamenti all'asinello, riservando invece briciole all'elefantino. In tutto questo, il Washington Examiner ha riferito che la maggior parte dei tweet, segnalati dalla campagna di Biden o dal Comitato nazionale del Partito democratico, non sono più disponibili.

Sia chiaro: i finanziamenti elettorali in sé stessi erano legali. Il punto è politico. Secondo Taibbi, Twitter si arrogò il diritto di censurare lo scoop del New York Post, facendo ricorso a strumenti fino ad allora utilizzati soltanto per casi oggettivamente gravissimi. 

«Twitter ha adottato misure straordinarie per sopprimere l'articolo, rimuovendo collegamenti e pubblicando avvisi che avrebbe potuto essere "non sicuro". Ne hanno addirittura bloccato la trasmissione tramite messaggio diretto: uno strumento finora riservato a casi estremi, per esempio la pedopornografia», ha scritto il giornalista.

Fu addirittura bloccato l'account dell'allora portavoce della Casa Bianca, Kayleigh McEnany, colpevole di aver postato lo scoop. Ora, la gravità non sta solo nel fatto che sul social cinguettavano allegramente figure a dir poco controverse, come Ali Khamenei e Nicolas Maduro. Ma che si trattasse di una circostanza potenzialmente lesiva del Primo emendamento fu sottolineato ai vertici di Twitter anche da Ro Khanna: deputato dem che, per la cronaca, risulta notevolmente spostato a sinistra e che non è quindi tacciabile di simpatie trumpiste. 

Ma gli aspetti inquietanti non si fermano qui. Una delle ragioni addotte per la censura fu che i materiali contenuti nello scoop fossero stati hackerati. Peccato che non ci fosse alcuna prova ufficiale della cosa. Non a caso, la questione suscitò dibattito anche tra le alte sfere di Twitter. 

In particolare, la decisione ultima di censurare fu presa dalla responsabile dell'ufficio legale dell'azienda, Vijaya Gadde (che è stata, anche per questo, licenziata dal nuovo Ceo, Elon Musk). Al contrario, Jack Dorsey non sarebbe stato coinvolto nell'affossamento dell'articolo né lo sarebbero stati apparati governativi. Non solo.

Secondo Taibbi un ex dipendente di Twitter avrebbe riferito che «l'hacking era la scusa, ma nel giro di poche ore praticamente tutti si sono resi conto che non avrebbe retto. Tuttavia, nessuno ha avuto il coraggio di invertire  la rotta». Che la base legale fosse fragile era quindi chiaro a tutti i dirigenti: d'altronde, in uno scambio di messaggi, il Deputy general counsel della società, Jim Baker, ammise che servivano «più fatti» per capire se il materiale provenisse da un hacking, ma aggiunse anche che, nel mentre, la «cautela era giustificata». 

Della serie: prove non ce ne sono, ma intanto blocchiamo tutto. Ricordiamo sempre che mancava meno di un mese alle elezioni presidenziali di allora e che Baker era stato assunto in Twitter a giugno 2020, dopo aver prestato servizio nell'Fbi e aver partecipato all'inchiesta federale sulla presunta collusione tra Donald Trump e la Russia. Non sentite anche voi puzza di cortocircuito?

In tal senso, il deputato repubblicano, James Comer, ha annunciato che a gennaio chiamerà in audizione alla Camera i responsabili della censura. Lo scoop del New York Post conteneva un'email di aprile 2015 rinvenuta nel laptop di Hunter Biden: un'email in cui un alto funzionario della controversa azienda ucraina Burisma ringraziava lo stesso Hunter per avergli presentato suo padre, che all'epoca era vicepresidente degli Stati Uniti. 

Pochi mesi dopo quella email, l'allora numero due della Casa Bianca fece pressioni sul presidente ucraino, Petro Poroshenko, per silurare il procuratore generale Viktor Shokin: una figura chiacchierata ma che aveva indagato proprio su Burisma. Ora, non sapremo mai se, senza questo atto di censura, l'esito delle ultime presidenziali americane sarebbe stato differente. Tuttavia, la gravità di quanto accaduto dovrebbe far riflettere sulla pericolosità insita in alcuni tanto decantati «meccanismi di moderazione» vigenti nei social. Ci sarebbe infine piaciuto che la Commissione europea, oggi tanto severa e occhiuta verso il Twitter di Musk, avesse detto qualcosa anche nel 2020. E comunque nuovi documenti potrebbero essere presto resi pubblici.

Da agenzianova.com il 26 agosto 2022.

Il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, ha dichiarato che fu il Federal Bureau of Investigation (Fbi) a sollecitare la censura da parte del social media delle notizie riguardanti il portatile personale del figlio dell’attuale presidente Usa Joe Biden, Hunter, prima delle elezioni presidenziali del 2020. 

Ospitato ieri dal podcast “The Joe Rogan Experience”, Zuckerberg ha affermato che l’Fbi contattò Facebook prima della pubblicazione del famigerato scoop del “New York Post” oscurato dai social media: l’agenzia federale mise in guardia Facebook dall’imminente circolazione di “propaganda russa” che includeva informazioni compromettenti sul figlio di Biden.

“L’Fbi di fatto arrivò da noi (…) e disse: ‘Hey, per vostra informazione, dovreste essere in stato di massima allerta. Pensiamo ci sia stata molta propaganda russa nelle elezioni del 2016, e abbiamo notato che circola roba simile”, ha affermato il fondatore di Facebook. 

Zuckerberg ha anche paragonato la reazione di Facebook a quella di Twitter, che bandì del tutto la notizia in merito al portatile di Hunter Biden e ai suoi compromettenti contenuti, poi rivelatisi autentici.

“I nostri protocolli sono diversi da quelli di Twitter. Per questo Twitter affermò di non poter condividere la notizia in maniera assoluta. Noi non abbiamo fatto lo stesso. La distribuzione su Facebook è stata circoscritta, ma agli utenti era ancora permesso condividerla”, ha affermato Zuckerberg.

Le dichiarazioni di Zuckerberg alimentano le polemiche in merito al presunto uso politico delle agenzie federali e dei social media che imperversano da settimane a Washington, specie dopo denunce di fonti anonime dell’Fbi e il raid di alto profilo effettuato dall’agenzia nella residenza privata dell’ex presidente Donald Trump. 

Questo mese, media statunitensi hanno accusato la Casa Bianca di aver praticato segretamente pressioni su Twitter affinché oscurasse Alex Berenson, un ex giornalista del “New York Times” critico nei confronti delle politiche contro il Covid-19 dell’amministrazione presidenziale.

A. Sim. per “la Stampa” il 29 luglio 2022.  

Al Dipartimento di Giustizia c'è un faldone, nessuno l'ha ancora preso in mano e affrontato seriamente, perché il materiale è imbarazzante e politicamente sensibile. È il dossier su Hunter Biden, il figlio del presidente Joe, le cui pendenze con il fisco, i debiti con le banche e altri comportamenti hanno da tempo attirato l'attenzione non solo degli aggressivi media della destra Usa, New York Post in testa, ma anche dei senatori repubblicani.

La Cnn ha però sollevato il velo e ha ingaggiato un esperto per verificare l'autenticità di centinaia di email scovate nel suo laptop - sequestrato qualche anno fa - e fare luce sui problemi con l'Irs (l'agenzia delle entrate Usa), la vita sopra le righe, il lusso in cui viveva e i legami con l'Ucraina.

Per anni Hunter Biden è stato un consigliere di amministrazione di Burisma, società energetica di Kiev dalla quale percepiva un "gettone di presenza" da 50mila dollari. E proprio gli intrecci di Hunter con Kiev fra il 2018 e il 2019 avevano portato Donald Trump a chiedere all'appena eletto presidente Zelensky in una telefonata di fare luce sul ruolo di Biden in Ucraina in cambio di aiuti. 

Legati ai compensi dall'Ucraina vi sono anche diverse incognite. Gli ispettori stanno cercando di capire la provenienza di alcune ricevute considerate "sospette". Ammontano a 550mila dollari, hanno il timbro della Burisma ma non è chiaro se siano frutto di compensi pattuiti o siano piuttosto un prestito che il figlio del presidente aveva pattuito. 

Hunter aveva accumulato un debito di quasi 500mila dollari fra il 2018 e il 2019, la maggior parte con l'Irs e circa 120mila dollari con le banche che gli avevano bloccato linee di credito e l'uso del bancomat. La sua ex moglie Kathleen Buhle ha più volte riferito che la sua carta veniva regolarmente bloccata e non accettata nei negozi. Il commercialista di Biden - si legge nella ricostruzione possibile grazie alle email verificate dalla Cnn- gli aveva comunicato ammanchi nel 2018, una compilazione del "730" americano parziale e un debito che già nel 2015 - quando il padre era vicepresidente - ammontava a 158mila dollari.

Arrivato appunto a quasi 500mila dollari pochi anni dopo. Il suo avvocato ha riferito che oggi Hunter - che ha risolto i problemi di dipendenza da droga e di alcolismo che ha svelato nel suo libro Beautiful Things - sta rispettando un piano di rientro pattuito con le agenzie federali, ma i debiti con le banche sarebbero ancora ingenti. È una vicenda che ha risvolti politici pericolosi per lo stesso presidente.

Non c'è nessun legame accertato fra gli affari come lobbista all'estero di Hunter e il padre Joe, ma quando nel 2020 il laptop del giovane Biden venne sequestrato e migliaia di email vennero gettate in pasto al Web da un zelante funzionario dell'amministrazione Trump, il socio in affari di Hunter, il 58enne britannico James Gilliard aveva scritto un messaggio - poi svelato dal New York Post - in cui in preda al panico faceva riferimento al "Big Guy", ovvero Biden allora impegnato nella corsa alla presidenza. «Se verrà eletto, tutto verrà messo a tacere - scriveva Gilliard - se invece perde avrà altro a cui pensare».

Joe Biden, il video del figlio completamente nudo: "Si droga a spese sue", uno choc. Libero Quotidiano il 09 luglio 2022

Più di Putin, Xi Jinping o Trump: il vero incubo di Joe Biden si chiama Hunter, suo figlio. Il Sun ha pubblicato un video imbarazzante e compromettente risalente al 2019 in cui Hunter Biden, 52enne rampollo "problematico" del presidente degli Stati Uniti d'America, è immerso in una luce verde, all'interno di una vasca di deprivazione sensoriale, completamente nudo e con tutto (ma proprio tutto) esposto in primo piano. 

Si tratterebbe di una tappa nel processo di disintossicazione finanziato proprio dal padre, preoccupato dalla dipendenza da alcol e droga del figlio, dalla sua vita sregolata e dagli eccessi che hanno rischiato, in passato, di compromettere anche la carriera politica di Sleepy Joe. Piccolo particolare: a giudicare dal filmato la disintossicazione di Hunter non sembra dunque aver proceduto nel migliore dei modi, oppure Joe ha buttato i suoi soldi letteralmente dalla finestra visto che il figlio inizia a fumare con disinvoltura quella che secondo il Sun ha tutta l'aria di essere una pipa da crack. 

Non pago, Hunter beve, e non sembra acqua minerale. Il video, 7 minuti di "follia", è stato girato stando a quanto riferisce il tabloid britannico al Blue Water Wellness di Newburyport, nel Massachusetts, dove Hunter aveva prenotato una sessione di terapia il 30 gennaio 2019. Due anni prima che il padre Joe si insediasse alla Casa Bianca.

Solo un mese prima, ricorda ancora il Sun, il rampollo aveva mandato un messaggio al padre lamentandosi della mancanza di soldi: "Ehi papà, ho cercato di risolvere alcuni problemi finanziari: gli alimenti e il conto per il programma, ma i soldi non arriveranno fino alla fine della settimana – scriveva Hunter il 4 dicembre 2018 – è possibile farmi un altro prestito? Ti ridarò tutto non oltre 10 giorni. Sono davvero imbarazzato a chiedertelo e so che è ingiusto da parte mia metterti in quella posizione in questo momento". Commovente la risposta del futuro presidente: "Hunter dimmi di cosa hai bisogno. Nessun problema. Posso pagare direttamente le tasse scolastiche e il loro alloggio e darti il resto".

Joe Biden, la bomba di Steve Bannon: "Ha preso tangenti dal Partito comunista cinese". Libero Quotidiano il 18 aprile 2022.

Joe Biden rischia l'impeachment. Steve Bannon, ex capo stratega della Casa Bianca ha detto infatti che il presidente degli Stati Uniti sarà "messo sotto accusa quando il Gop riprenderà il Congresso a novembre". Ha detto che sarà fatto sulla base del contenuto del portatile di Hunter Biden. Parlando con il conduttore di Sky News Sharri Markson, secondo quanto riporta il sito realclearpolitics Steve Bannon ha detto riguardo al ritorno di Donald Trump nel 2024. "Trump corre e Trump vincerà".

Riguardo all'impeachment, ha specificato che "Questo dossier mostra che il presidente Biden è compromesso con il Partito Comunista Cinese e, francamente, con altri, inclusa l'Ucraina. I tuoi spettatori rimarranno sbalorditi dalla quantità di dettagli della corruzione della Biden Crime Family".

"Ci sono prove incriminanti assolutamente sorprendenti", ha continuato Bannon. C'è "di tutto, dai bonifici agli assegni, che legano direttamente la famiglia Biden e lo stesso Joe Biden, ai soldi presi dal Partito Comunista Cinese", ha detto ancora l'ex guru di Donald Trump. E ancora, ha concluso: "Penso che vedrai la responsabilità". "In particolare - e lo dimostrerebbero le e-mail trovate sul suo computer portatile - Joe Biden ha ottenuto una riduzione del 10 per cento" degli affari esteri del figlio Hunter. L'accusa è chiara, dirompente, ovviamente tutta da dimostrare: Biden avrebbe preso tangenti dal partito comunista cinese.

Intervistato due settimane fa a Zona Bianca Bannon aveva detto che questa guerra non sarebbe potuta accadere durante la presidenza Trump. "Se Trump fosse stato presidente avrebbe visto che dal 2014 l’entrata della Russia in Ucraina aveva già causato 14.000 vittime e Trump avrebbe cercato un negoziato per evitare di arrivare a questo nuovo conflitto armato. La guerra è imprevedibile e stiamo giocando con il fuoco. Stiamo permettendo che un conflitto regionale possa andare in metastasi e diventare un conflitto globale. Ecco perché penso che dobbiamo stare molto attenti che i leader del mondo non spingano gli ucraini verso la loro fine".

Stefano Graziosi per “La Verità” il 15 aprile 2022.

Che gli affari di Hunter Biden siano significativamente controversi, non è più una novità. Continuano tuttavia a emergere «dettagli» interessanti. Fox News ha riferito ieri che ad aiutare il figlio dell'attuale presidente a intrattenere opachi collegamenti con il governo cinese è stato il suo socio Jim Bulger: nipote del noto gangster Whitey Bulger, morto nel 2018 mentre scontava un ergastolo per undici omicidi. 

Il padre di Jim, William, è stato presidente dem del Senato del Massachusetts e, molto vicino a John Kerry, fu criticato per le sue posizioni evasive sul fratello latitante: un comportamento che lo costrinse a dimettersi da presidente dell'Università del Massachusetts nel 2003.

Ora, Jim e Hunter avevano unito le forze per costituire Bhr: fondo di investimenti controllato da Bank of China e il cui Ceo era il businessman cinese Jonathan Li. Ebbene, in un'email datata 27 gennaio 2014, Jim proponeva a Hunter «un incontro con l'ambasciatore cinese a Washington per parlare del fondo». In un'altra email a Hunter, risalente al 23 maggio 2014, il nipote del gangster insisteva sulla «firma di un contratto di investimento con Gouxin o Boc o Picc». 

Secondo Fox News, per «Boc» si intende probabilmente Bank of China, mentre per «Picc» il riferimento sarebbe alla People' s insurance company of China: due enti che, neanche a dirlo, ricadono sotto il controllo del governo cinese. Piccola notazione: nel 2014, Joe Biden era vicepresidente degli Stati Uniti. È normale che il figlio intrattenesse simile legami con la Repubblica popolare? Tanto più che Hunter aveva ottenuto dalle autorità di Shanghai la licenza per costituire Bhr pochi giorni dopo aver accompagnato suo padre in una visita ufficiale a Pechino nel dicembre 2013.

Non solo: è infatti stato rivelato che a febbraio 2017 Biden aveva scritto, su richiesta di Hunter, una lettera di presentazione al figlio di Li per l'ammissione alla Brown University. Il che sconfessa la posizione dell'attuale presidente, che ha sempre detto di non essersi mai occupato degli affari di suo figlio. 

D'altronde, che questa versione facesse acqua era già stato dimostrato dal New York Post nel 2020, quando fu pubblicata un'e-mail, risalente ad aprile 2015, in cui Vadym Pozharskyi ringraziava Hunter per avergli organizzato un incontro a Washington col padre. 

Ricordiamo che Pozharskyi era un alto dirigente di Burisma, la controversa società ucraina in cui Hunter era entrato ad aprile 2014: nelle stesse settimane in cui, cioè, Joe Biden riceveva da Obama le deleghe per occuparsi della politica ucraina. Sarà un caso, ma proprio Joe premette sull'allora presidente ucraino, Petro Poroshenko, per ottenere il siluramento del procuratore generale Viktor Shokin: figura chiacchierata, sì, ma che aveva tuttavia anche indagato su Burisma per corruzione.

Strano anche che, sempre nel 2014, Hunter raccogliesse milioni di dollari per un appaltatore del Pentagono come Metabiota: società che - tramite lo stesso Hunter - aveva altresì avviato un'opaca partnership con Burisma in Ucraina. 

Inoltre, nonostante Mosca oggi accusi Hunter di essere coinvolto in presunte attività di sviluppo di armi biologiche in territorio ucraino, si intravede anche una «pista russa» negli affari del figlio di Biden. 

Il Wall Street Journal ha confermato che nel 2014 Rosemont Seneca (società co-fondata da Hunter) ricevette oltre 142.000 dollari da Kenes Rakishev: oligarca kazako che, secondo Le Media, risulterebbe amico intimo del leader ceceno Ramzan Kadyrov (che è un ferreo sostenitore di Vladimir Putin).

Il Washington Post ha inoltre rivelato che Hunter ha ricevuto 4,8 milioni di dollari dall'allora colosso cinese Cfec: realtà che vantava legami con l'Esercito popolare di liberazione e con lo stesso Cremlino. 

Infine, quando Trump - sulla base di un rapporto investigativo dei senatori repubblicani - accusò Hunter a ottobre 2020 di aver preso 3,5 milioni di dollari dalla moglie dell'ex sindaco di Mosca, il figlio dell'attuale presidente americano fu difeso da Putin in persona, che negò di essere a conoscenza di sue attività criminali in Ucraina e in Russia. 

Gli accaniti sostenitori del Russiagate contro Trump non hanno nulla da dire oggi su queste strane circostanze? Frattanto, mentre i deputati repubblicani hanno chiesto al Dipartimento di Giustizia di essere aggiornati in riferimento all'inchiesta penale in corso su Hunter, cattive notizie arrivano anche per Hillary Clinton.

L'altro ieri, il giudice Christopher Cooper ha respinto la richiesta del suo ex avvocato, Michael Sussmann, di bloccare il processo che il procuratore speciale John Durham sta istruendo contro di lui. In particolare, Durham ha accusato Sussmann di aver mentito all'Fbi quando, nel settembre 2016, non informò il Bureau di essere a libro paga della Clinton, mentre riferiva agli agenti l'esistenza di presunti legami tra Trump e l'istituto finanziario russo Alfa Bank (legami che, per inciso, si rivelarono successivamente infondati). Un brutto colpo per Hillary quindi.

Il processo a Sussmann si aprirà infatti il mese prossimo, mentre sembra proprio che l'indagine di Durham non sia campata in aria come dice qualcuno (tra l'altro il giudice Cooper non è tacciabile di essere filo-repubblicano, visto che è stato nominato da Obama nel 2013). Come nel caso di Hunter, anche qui ci sono ripercussioni potenzialmente esplosive per la Casa Bianca. A cavalcare l'infondata storia di Alfa Bank nel 2016 non fu infatti solo Hillary ma anche Jake Sullivan: ex stretto collaboratore dell'allora candidata dem e attuale consigliere per la sicurezza nazionale di Biden. Un Biden che forse non dorme sonni troppo tranquilli.

Stefano Graziosi per “la Verità” l'1 maggio 2022.

Due paperoni vicini ad Hunter, di cui uno già punito dai britannici, esclusi dalle sanzioni

La linea dura di Joe Biden contro Mosca è un po' a targhe alterne. Alcuni oligarchi russi sono stati messi sotto sanzioni dalla Casa Bianca, altri no. Uno che l'ha scampata è il miliardario Vladimir Yevtushenkov: come sottolineato dal New York Post, costui non è finito nel mirino del Dipartimento del Tesoro americano, pur essendo stato sanzionato dalla Gran Bretagna.  

Sarà un caso, ma questo oligarca ebbe un incontro con il figlio di Biden, Hunter, il 14 marzo 2012 presso l'hotel Ritz-Carlton vicino a Central Park: ricordiamo che all'epoca Joe era vicepresidente degli Stati Uniti. Fonti ascoltate dal New York Post hanno rivelato che il meeting avvenne «nell'ambito di un viaggio di lavoro di routine (di Yevtushenkov, ndr) negli Usa per esplorare potenziali opportunità di investimento». 

Da sottolineare che l'oligarca è il fondatore di Sistema, conglomerato russo attivo in numerosi settori. Ebbene, Reuters ha riferito che «la Gran Bretagna ha imposto il congelamento dei beni a Yevtushenkov mercoledì (13 aprile, ndr) come parte di un tentativo occidentale di punire Vladimir Putin per l'invasione dell'Ucraina». 

La domanda che sorge è: perché Londra ha sanzionato questo magnate e Washington no? Una tale domanda pone due questioni. A livello generale, emerge il problema - già trattato da questo giornale - delle sanzioni scoordinate: un nodo che, come riferito alcune settimane fa da Bloomberg, rischia di rendere inefficace la risposta occidentale alla Russia, danneggiando i Paesi più deboli del blocco euroatlantico (come l'Italia). 

L'altra domanda riguarda la misteriosa ragione per cui Yevtushenkov non è stato sanzionato da Washington. Una stranezza che andrebbe chiarita, visto che qualcuno in malafede potrebbe arrivare a ipotizzare un conflitto di interessi, che tiri in ballo i controversi affari di Hunter. D'altronde, questo non è l'unico bizzarro collegamento tra il figlio di Biden e la Russia. 

Il Washington Post ha rivelato che Hunter prese 4,8 milioni di dollari dall'allora colosso cinese Cfec: colosso che, secondo un rapporto dei senatori repubblicani, intratteneva legami con l'esercito popolare di liberazione e con lo stesso Cremlino. Il Wall Street Journal ha inoltre confermato che nel 2014 Rosemont Seneca (società co-fondata da Hunter) ricevette oltre 142.000 dollari da Kenes Rakishev: oligarca kazako che, secondo Le Media, sarebbe amico intimo di un ferreo sostenitore di Putin, come il leader ceceno Ramzan Kadyrov.

Infine, i senatori repubblicani nel 2020 riferirono che Hunter nel 2014 avrebbe ricevuto 3,5 milioni di dollari dalla moglie dell'ex sindaco di Mosca, Elena Baturina. E qui c'è un piccolo giallo. Come riportato dal New York Post, un cablogramma del governo americano pubblicato da Wikileaks riferì che la Baturina era la cognata di Yevtushenkov. Una circostanza che è stata però smentita alla stessa testata da un portavoce di Sistema.  

Chi dice la verità? Come che sia, quando, nell'ottobre 2020, Donald Trump accusò i Biden di aver preso soldi dalla Baturina, fu Putin a scendere in campo in loro difesa: era il 25 ottobre 2020, quando il capo del Cremlino disse di non essere a conoscenza di attività illegali di Hunter in Russia e Ucraina. In tutto questo, i deputati repubblicani hanno chiesto al Dipartimento del Tesoro per quale motivo la (ricchissima) Baturina non sia sotto sanzioni americane. Per carità: checché ne possano pensare i maligni, anche qui si tratterà di un caso. Ma quelli che ogni tre per due accusavano Trump di essere un agente russo non hanno proprio nulla da dire? 

DAGONEWS il 4 aprile 2022.

I servizi segreti americani stanno spendendo 30mila dollari al mese per la sicurezza di Hunter Biden, figlio del presidente statunitense. Un prezzo che l’agenzia sostiene da quasi un anno per affittare una villa a Malibu, in California, per tenere sotto controllo il figlio di “sleepy Joe”. 

Don Mihalek, agente dei servizi segreti in pensione, tuttavia, afferma che secondo la legge federale, l'agenzia ha una responsabilità protettiva obbligatoria per il presidente e i membri più vicini: «In genere, ovunque un protetto stabilisca la propria residenza, i servizi segreti sono costretti a trovare un posto in affitto nelle vicinanze al valore di mercato. Non è una novità. I servizi hanno dovuto farlo nelle amministrazioni passate e, sfortunatamente, il mercato immobiliare in questo momento ha fatto aumentare notevolmente i prezzi».

Il costo della protezione delle prime famiglie ha già creato non poche polemiche in passato.

Nel primo anno della presidenza di Donald Trump, i servizi segreti hanno richiesto 60 milioni di finanziamenti aggiuntivi per proteggere Trump e la sua famiglia, di cui circa 27 milioni per proteggerli nella loro residenza privata presso la Trump Tower a New York City. Non solo: durante la sua presidenza, Donald è stato preso di mira per essersi messo in tasca soldi dei servizi, costretti ad affittare proprietà dello stesso Trump per la protezione sua e dei suoi familiari.

L'importo totale che i servizi segreti hanno pagato fino ad oggi all'azienda di famiglia di Trump è difficile da definire, ma secondo un'analisi del Washington Post, i documenti mostrano che i servizi hanno speso almeno 1,2 milioni di dollari nelle varie proprietà di Trump, tra cui 650 dollari a notte per una stanza al Trump's Mar-a-Lago Club e 17.000 al mese per un cottage al Trump National Golf Club Bedminster nel New Jersey.

Numerosi viaggi d'affari all'estero fatti dai figli maggiori di Trump, Donald Trump Jr. ed Eric Trump, sono finiti sotto la lente di ingrandimento per essere costati centinaia di migliaia di dollari. E per proteggere Trump e Jared Kushner i servizi sganciavano 3mila dollari al mese per l'affitto di un monolocale di fronte alla casa della coppia a Washington. Stesso discorso per Obama: secondo le note spesa ottenute dal gruppo di controllo di destra Judicial Watch, il viaggio della famiglia Obama a Martha's Vineyard nell'agosto 2016 è costato ai servizi segreti ben 2,7 milioni di dollari, inclusi 2,5 milioni di dollari in hotel e 90.000 dollari in auto a noleggio, mentre l'ultimo Natale della famiglia il viaggio a Honolulu alla fine del 2016 è costato all'agenzia 1,9 milioni di dollari, inclusi 1,8 milioni di dollari in hotel.

Hunter Biden nei guai. I federali: "Abbiamo prove per incastrarlo". Il Tempo il 07 ottobre 2022

Per gli agenti federali vi sono abbastanza prove per incriminare Hunter Biden, il figlio del presidente americani, per crimini fiscali e relativi all’acquisto di un’arma. Lo scrive il Washington Post, citando fonti informate, ricordando che l’attorney general Merrick Garland al momento del suo insediamento al dipartimento di Giustizia aveva confermato il procuratore del Delware scelto ai tempi dell’amministrazione alla guida del caso sul figlio del presidente democratico i cui affari sono da anni obiettivo di accuse da parte di Donald Trump ed i suoi alleati.

L’inchiesta sul secondo figlio di Biden è stata avviata nel 2018, e le diverse accuse contro l’uomo d’affari, con diversi legami in Paesi caldi all’estero, tra i quali Cina ed Ucraina, sono stati al centro della campagna per la rielezione di Trump. Del resto il ruolo di Hunter nella società ucraina Burisma, era stato al centro delle pressioni che Trump fece sull’allora appena insediato Volodymyr Zelensky nella complessa vicenda del Kievgate che portò al primo impeachment di Trump nel 2019.

Secondo le fonti citate dal Post, gli agenti hanno determinato alcuni mesi fa di aver raggiunto prove sufficienti nei confronti di Hunter. Ma spetta al procuratore David Weiss decidere se incriminare veramente il figlio di Biden per reati fiscali e per aver dichiarato il falso riguardo all’acquisto di un’arma. Vista la delicatezza del caso, Garland ha assicurato che non vi saranno interferenze politiche e che lascerà a Weiss la completa supervisione. Un avvocato di Hunter Biden, Chris Clark, ha accusato gli investigatori della fuga di notizie, ricordando che «è un reato federale rivelare informazioni su un’inchiesta del grand jury come questa». E che non è compito degli agenti decidere delle incriminazioni «ma dei procuratori, che devono lavorare senza pressioni, senza che gli si faccia fretta o li si critichi».

In passato, Hunter Biden è stato filmato mentre fumava droghe e beveva in una vasca da bagno durante un periodo di disintossicazione pagata 75.000 dollari, proprio da suo padre. Il filmato, ottenuto dal The Sun, mostrava il figlio del presidente, che soffriva di gravi problemi, mentre si faceva un tiro da quella che sembrava essere una pipa di crack in un centro benessere di Newburyport, nel Massachusetts, nel gennaio 2019. Alla fine dell'inquietante video, Hunter fissava ossessivamente la telecamera con la luce verde fluorescente della vasca sensoriale che si rifletteva sul suo volto devastato dalla droga.

(ANSA il 12 ottobre 2022) - "Sono papà. Ti ho chiamato per dirti che ti amo. Ma devi farti aiutare. So che non sai cosa fare, nemmeno io". Lo diceva Joe Biden in un messaggio telefonico al figlio Hunter. Pubblicato in esclusiva dal Daily Mail, il messaggio, che risale al 15 ottobre del 2018, è stato trovato sul computer di Hunter, sequestrato dagli inquirenti. Secondo il tabloid, Biden sapeva della dipendenza dal figlio che, tre giorni prima aveva acquistato un'arma e mentito sull'uso di crack nel modulo da compilare per poterlo fare. L'episodio è uno dei potenziali crimini su cui le forze dell'ordine federali potrebbero incriminare il figlio del presidente Usa assieme a reati legati al fisco.

DAGONEWS l'1 giugno 2022.

La Guerra in Ucraina? L’espansionismo cinese nel Pacifico? Macché: il problema più grosso per Joe Biden è il figlio! Il “Daily Mail” pubblica nuove bombastiche rivelazioni sui vizi (e i vezzi) di Hunter. Questa volta non c’entrano i loschi affari con la Cina o con l’Ucraina, ma le preferenze sessuali del secondogenito di “Sleepy Joe”.

Innanzitutto, Hunter aveva un profilo Pornhub, con nickname “RHEast” (un simpatico gioco di parole con “Beast”, bestia?), dove caricava video amatoriali, stando bene attento a non far vedere la sua faccia. Ma la cronologia del buon Hunter dimostra che è praticamente ossessionato dal porno, con fantasie notevoli: cercava sui siti hard parole chiave come “18 anni”, “vedova solitaria”, “MILF crack cocaina”. Come ogni egomane che si rispetti, googlava in continuazione il suo nome, e cercava istruzioni su “come hackerare il cellulare di un amante”.

Sono tutti dettagli che emergono dall’ormai famoso laptop rotto nel marzo 2019 (e portato a sistemare in un negozio in Delaware”, e si tratta di ricerche fatte in sole sei giorni:  su 281 siti visitati in quella settimana, 98 erano porno. 

Nel computer ci sono anche decine di video di Hunter che fa sesso con prostitute, alcuni dei quali condivisi appunto su Pornhub. Sulla piattaforma Hunter chattava allegramente, e il 22 ottobre 2018 avrebbe addirittura condiviso con un altro utente un numero di telefono che aveva salvato sul cellulare come “Papà”.

Le ricerche sulle vedove

Una particolare ossessione di Hunter è quella per le vedove: cercava in continuazione video con quella parola chiave, incluse “Porno vedova fatto in casa", "Porno vedova solitaria fatto in casa" e "Porno vedova solitaria". È un dettaglio di non poco conto, considerando che Hunter ha avuto una relazione – piuttosto controversa – con la moglie del fratello Beau, morto nel 2015

I video con le prostitute

Il computer di Hunter era pieno di foto e video: selfie con il padre, autoscatti nudo, e soprattutto decine di video, compresi quelli in cui discute con delle prostitute dell’acquisto di crack, e poi ci fa sesso. Anche questo filmato è stato caricato su Pornhub, dove Hunter si presentava con una foto evocativa: due donne sedute su un letto in una stanza disordinata, con un piccolo cane bianco appollaiato sul letto sullo sfondo. Ma ci sono anche immagini di donne che armeggiano con il suo gingillo usando i piedi e altre in cui lui le stringe per il collo. 

Altra storia gustosa: Hunter era solito lasciare accesa la telecamera anche una volta finito l’atto sessuale. In un imbarazzante filmato, lo si vede fare una smorfia, piegarsi a sinistra e scoreggiare sonoramente. Un comportamento decisamente poco istituzionale, per il figlio del presidente degli Stati Uniti.

Angelo Zinetti per “Libero quotidiano” l'1 aprile 2022.

Manovra a tenaglia contro Hunter Biden, figlio del presidente degli Stati Uniti. Da Mosca si annuncia una inchiesta della Duma sui suoi affari in Ucraina, come chiesto giorni fa da Donald Trump, mentre il Washington Post, quotidiano molto influente in area democratica, ha pubblicato le prove che il 52enne avvocato e uomo d'affari ha ricevuto pagamenti dalla Cina. 

Quest' ultima vicenda è la più grave: un accordo firmato da Hunter e da top manager di una compagnia privata cinese è stato rivelato dal quotidiano di Jeff Bezos che ha trovato documenti che proverebbero la presenza di rapporti tra la famiglia Biden e dirigenti cinesi della Cefc, una delle dieci compagnie private più grandi della Cina. 

Per quattordici mesi, scrive il giornale americano, il conglomerato dell'energia e i suoi manager hanno versato 4,8 milioni di dollari a entità controllate da Hunter Biden e da uno zio, come risulta da alcuni documenti e dalle email conservate nella memoria di un computer e ritenuto appartenere proprio a Hunter.

Il Post non ha trovato prove che Joe Biden avesse beneficiato direttamente dalle transazioni, ma emergono accordi firmati dal figlio, Hunter, che avrebbe così approfittato della posizione pubblica del padre per guadagnare. 

Le attività estere del figlio del presidente sono al centro di un'inchiesta federale. L'obiettivo è capire se Hunter abbia nascosto al fisco gli introiti arrivati dalla Cina. Personale dello staff presidenziale ed ex membri dell'Intelligence americana ritengono che Hunter isaa innocente e che la memoria del suo computer possa essere stata manipolata dai russi al fine di compromettere la campagna del padre, ma i dati analizzati dal Post sarebbero coincidenti con quelli di altri documenti, tra cui attestati bancari.

Il figlio di Biden avrebbe ricevuto i 3,8 milioni di dollari dalla Cefc attraverso contratti di consulenza. Biden Jr avrebbe ricevuto un ulteriore milione di dollari per rappresentare negli Stati Uniti Patrick Ho, un manager del conglomerato cinese, finito poi sotto inchiesta per un caso di corruzione legato al Chad e all'Uganda. 

Questo accordo riporta le firme di Hunter e di Ho. Anche da Mosca arrivano brutte notizie per il rampollo presidenziale. La Duma di Stato russa ha infatti aperto una inchiesta su una presunta rete di bio laboratori controllati dagli Stati Uniti in Ucraina e riferirà delle conclusioni dei lavori al Presidente Putin e alle organizzazioni internazionali. 

La vicepresidente del parlamento russo, Irina Yarovaya, ha citato il coinvolgimento di Hunter Biden, con il suo fondo di investimenti Rosemont Seneca, e della sottosegretaria di Stato Usa per gli affari politici, Viktoria Nuland, a cui la Duma chiede formalmente spiegazioni. Pochi giorni fa era stato Donald Trump a chiedere a Putin di pubblicare le prove degli affari sporchi di Hunter in Ucraina. Subito esaudito.

Stefano Graziosi per “La Verità” il 7 aprile 2022.

La trasparenza non è esattamente una prerogativa del Partito democratico americano. L'altro ieri, l'asinello ha infatti affossato una richiesta di comparizione, avanzata dai deputati repubblicani, che chiamava a testimoniare il figlio di Joe Biden, Hunter, alla Camera dei rappresentanti. 

«I democratici hanno appena bloccato la nostra mozione per chiamare a testimoniare Hunter Biden», hanno twittato i componenti repubblicani della commissione Sorveglianza della Camera lunedì. «Si rifiutano di ritenere Hunter responsabile per i suoi loschi affari che ci rendono più dipendenti dalla Cina per le energie rinnovabili».

«Hunter ha venduto una miniera di cobalto statunitense a un'azienda cinese. Il cobalto è necessario per la produzione di auto elettriche», ha specificato il deputato repubblicano Andy Biggs. 

Il riferimento è a una rivelazione effettuata lo scorso novembre dal New York Times, secondo cui Bhr - società di cui lo stesso Hunter era membro fondatore - favorì la cessione dell'80% di un'importante miniera di cobalto, situata nella Repubblica democratica del Congo, da parte della società americana Freeport-McMoRan al colosso statale cinese China Molybdenum. 

Il costo complessivo dell'operazione è stato di 3,8 miliardi di dollari: in particolare, 2,65 miliardi erano stati messi dalla stessa China Molybdenum, mentre 1,14 miliardi sarebbero arrivati da Bhr: quella Bhr che era detenuta al 30% da Hunter e da due suoi soci americani, mentre il resto era «di proprietà o controllato da investitori cinesi che includono la Bank of China».

Ma il punto non è solo questo. Negli scorsi giorni, il Washington Post ha anche rivelato che Hunter ha ricevuto 4,8 milioni di dollari dal colosso cinese Cfec, che aveva legami con l'Esercito popolare di liberazione e con le alte sfere del Cremlino. In tutto questo, Fox News ha pubblicato ieri una serie di documenti ulteriormente compromettenti, che mostrano come Joe Biden in persona avrebbe scritto una lettera di raccomandazione in favore del figlio di un dirigente cinese strettamente legato a Hunter. 

In un'email datata 3 gennaio 2017 - quando Joe era ancora vicepresidente degli Stati Uniti - il Ceo di Bhr, Jonathan Li, chiedeva infatti a Hunter (e ai suoi stretti soci Devon Archer e Jim Bolger) una lettera di presentazione per far ammettere suo figlio Christopher ad un'università americana. 

Il 18 febbraio 2017, il presidente di Rosemont Seneca (società di cui Hunter era cofondatore), Eric Schwerin, rispose a Li, scrivendo: «Jonathan, Hunter mi ha chiesto di inviarti una copia della lettera di raccomandazione che ha chiesto di scrivere a suo padre a favore di Christopher per la Brown University». «L'originale», aggiunse, «è stato inviato da FedEx al dottor Paxson direttamente alla Brown».

«È semplicemente fantastico! Grazie mille! E anche a te Hunter, grazie mille», replicò Li. Il New York Post ha tra l'altro rivelato che Joe Biden avrebbe scritto una lettera di presentazione anche alla figlia del Ceo di Bhr. 

Nel luglio 2019, il New Yorker rivelò che Hunter aveva fatto incontrare Li con suo padre, durante una visita ufficiale compiuta in Cina da quest' ultimo nel dicembre 2013. Non solo: secondo quanto riferito da Nbc News, Hunter ottenne dalle autorità di Shanghai la licenza per costituire Bhr pochi giorni dopo quel viaggio.

E pensare che Joe Biden ha sempre detto di non essere mai rimasto coinvolto negli affari di suo figlio (appena martedì scorso, a chi le chiedeva conferma del fatto che non avesse mai parlato con Hunter di queste questioni, la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki replicava seccamente: «Sì»). D'altronde, che l'attuale presidente non fosse estraneo agli affari del figlio, era già emerso a ottobre 2020, quando il New York Post pubblicò un'email, datata aprile 2015, in cui un alto dirigente della controversa società ucraina Burisma ringraziava Hunter per avergli organizzato un incontro col padre.

Da “il Giornale”  l'1 aprile 2022.  

Le sanzioni contro la Russia dell'ultimo pacchetto «non saranno le ultime». Parola del vicecancelliere tedesco, Robert Habeck, che lo ha annunciato a margine del colloquio con il collega francese, Bruno La Maire, nel giorno in cui la Russia lancia la sua guerra del gas. Habeck ha spiegato che i due ministri hanno già individuato i punti che dovrebbero essere contenuti in un prossimo pacchetto.

 L'Europa non indietreggia, nonostante le minacce sul gas della Russia di Vladimir Putin e quelle dirette al figlio di Joe Biden, Hunter. Il ministero della Difesa russo sostiene di avere una corrispondenza tra Hunter Biden, e i dipendenti del Defense Threat Reduction Agency americana e gli appaltatori del Pentagono. 

I documenti confermerebbero - secondo quanto annunciato da Igor Kirillov, capo delle forze armate russe di protezione dalle radiazioni, chimiche e biologiche - il suo ruolo importante nella fornitura di finanziamenti per il lavoro con gli agenti patogeni in Ucraina. Secondo alcuni esperti americani, l'inchiesta già avviata negli Usa su una serie di attività commerciali e finanziarie di Hunter all'estero, in Ucraina e Cina, potrebbe portare a un'incriminazione. 

Accuse, controaccuse e minacce. Ecco il contesto. E i timori sulla Russia crescono in tutto il vecchio continente. In allarme la Svezia, dopo la scoperta che i due aerei russi che il 2 marzo scorso hanno violato lo spazio aereo svedese, vicino a Gotland, erano equipaggiati con armi nucleari.

 L'aviazione svedese, che a causa della guerra ha aumentato il livello di attenzione, ha notato in anticipo che i piloti russi si stavano dirigendo a Gotland. La violazione dello spazio aereo svedese è durata circa un minuto ed è considerata intenzionale dalle forze armate del Paese. In risposta, l'aviazione di Stoccolma ha fatto alzare in volo due caccia JAS 39 Gripen.

Nel frattempo, la Nato annuncia un'adesione rapida della Finlandia in caso di richiesta di adesione. «La Finlandia è un partner molto stretto della Nato - ha spiegato ieri il segretario generale dell'Alleanza Atlantica - Ho visitato la Finlandia e la Svezia e ho visto coi miei occhi quanto le loro truppe rispettino gli standard della Nato, quanto sappiano lavorare insieme a stretto contatto le truppe svedesi e finlandesi con quelle della Nato, e ovviamente se decidessero di fare domanda» di adesione «mi aspetto che siano benvenuti e che si trovi un modo per concordare velocemente sul protocollo di accesso. 

Ma sta alla Finlandia decidere e aspetteremo la sua decisione». In conferenza stampa Stoltenberg ha anche ribadito che «la Nato ha sempre sostenuto il diritto fondamentale di ogni Paese di scegliere il proprio percorso. È questo include il diritto di Svezia e Finlandia di non chiedere l'adesione alla Nato». «È stata la loro politica per decenni e l'abbiamo rispettata. Ma ovviamente rispetteremmo la Finlandia se cambiasse» linea «e dicesse di essere pronta per l'adesione. Questa è solo una decisione finlandese, una decisione sovrana.

Dagotraduzione dell’articolo di Michael Goodwin per nypost.com il 18 marzo 2022.  

A volte una storia di giornale è solo una storia su qualcuno. E a volte la storia rivela inavvertitamente molto di più sul giornale stesso. 

È il caso dell'articolo di giovedì del New York Times su Hunter Biden. Ciò che il lettore perspicace apprende sul Times è molto più importante di qualsiasi altra cosa sia stata rivelata sul figlio del presidente. 

L'unica notizia recente è che Hunter Biden ha preso un prestito per pagare al governo federale fino a 1 milione di dollari di tasse arretrate all’interno di un’inchiesta sulle sue iniziative imprenditoriali con società e individui stranieri. 

Ma questa notizia, che viene data nel primo paragrafo, è quasi oscurata dalla bomba che il Times spara successivamente. È solo nel paragrafo 24 che l’articolo menziona le e-mail che coinvolgono Hunter Biden e i suoi soci in quegli affari, con queste due frasi: "Quelle e-mail sono state ottenute dal New York Times da una cache di file che sembra provenire da un laptop abbandonato dal signor Biden in centro assistenza del Delaware. L'e-mail e gli altri documenti nella cache sono state autenticate da persone che hanno familiarità con i Biden e con l'indagine".

Il cuore si blocca! Al New York Times sono serviti quasi 17 mesi per riconoscere, a malincuore, solo una minima parte di ciò che i lettori del New York Post hanno appreso già nell'ottobre 2020. Ovviamente, anche i lettori del Times avrebbero appreso i fatti allora, se il loro giornale si occupasse ancora delle notizie invece di fare il galoppino dei democratici. 

Il Post ha rivelato quelle e-mail e molte altre cose dopo essere entrato in possesso del contenuto del disco rigido del computer di Hunter Biden. I lettori sanno anche che il Times faceva parte della cricca Big Government, Big Tech e Big Media che ha cercato di nascondere quelle e-mail al pubblico durante le elezioni presidenziali del 2020.

Il motivo di quell'insabbiamento era semplice: molte delle e-mail, da e verso Hunter Biden, implicavano Joe Biden nell'attività di traffico di influenze internazionale gestita da Hunter e dal fratello di Joe, Jim Biden. Se l'intero paese avesse saputo che Joe Biden stava usando in modo fraudolento il suo ruolo per aiutare la sua famiglia a fare affari, ora saremmo al secondo anno del secondo mandato di Donald Trump. Questo è un dato di fatto, perché l'8% degli elettori di Biden ha detto ai sondaggisti che avrebbe sostenuto Trump se avessero saputo prima del contenuto bomba nascosto in quel computer.

Ma il Times, Facebook, Twitter, la CNN e il deep state non potevano permettere che ciò accadesse. Avevano trascorso quattro anni a cercare di cacciare Trump dalla Casa bianca, sostenendo falsamente che aveva collaborato con la Russia per rubare le elezioni del 2016. Erano determinati a non fargli ottenere l’incarico per altri quattro anni. 

Quindi, oltre a diffondere fake news su Trump, quando avevano notizie vere sulla corruzione della famiglia Biden, invece di diffonderle e consentire agli utenti di condividerle sui social media, hanno cospirato per occultarle. Bisogna incolpare loro per la disastrosa presidenza di Joe Biden.

E ora il Times ha il coraggio di comportarsi come se avesse fatto un’eroica inchiesta sostenendo che le e-mail "sono state autenticate da persone che hanno familiarità con loro e con l'indagine". Oh per favore. 

A differenza del Times, The Post non ha fatto affidamento su fonti anonime, dicendo apertamente che Rudy Giuliani ha dato al giornale una copia del disco rigido del laptop. Giuliani ha detto che proveniva dal proprietario di un centro assistenza del Delaware, che anche The Post ha intervistato. Ha detto che un uomo che ha firmato la ricevuta con il nome di Hunter Biden gli ha lasciato il computer per le riparazioni e non l'ha mai recuperato.

Le storie nascoste in quel computer, complete di immagini di Hunter drogato che fa sesso con prostitute, erano esplosive di per sé – e questo ben prima che Tony Bobulinski entrasse in scena. L'ex wrestler e ufficiale della Marina è stato per breve tempo partner e CEO di una joint-venture che Hunter Biden ha creato con un comunista cinese a capo di una conglomerata dell’energia.

Bobulinski, nelle settimane precedenti alle elezioni di novembre, ha pubblicamente  riconosciuto come autentiche alcune delle email, che riportavano il suo nome, che erano nel pc. Tra queste ce n’era una, indirizzata a se stesso, a Hunter e Jim Biden e ad altri due soci su come avrebbero diviso il loro capitale nella nuova joint venture. 

Quattro, incluso Hunter, otterrebbero ciascuno il 20%, mentre Jim Biden avrebbe preso il 10%. L'e-mail incriminante diceva che quel "10" aggiuntivo sarebbe stato detenuto da H, cioè Hunter, "per il pezzo grosso". Bobulinski ha identificato Joe Biden come il “pezzo grosso”. E nessuno nella famiglia Biden l’ha mai smentito. Sarebbe anche sciocco se lo facessero visto che Bobulinski è andato all'FBI a cui ha consegnato tutti i suoi dispositivi elettronici. Da questa decisione, probabilmente l’inchiesta su Hunter ha trovato nuova linfa ed è stata prorogata.

Bobulinski ha anche rivelato pubblicamente, a me e ad altri, del suo incontro nel maggio del 2017 con Joe Biden sull'accordo con i cinesi e ha riferito che Joe Biden, che aveva appena lasciato la Casa Bianca da vicepresidente, era pienamente informato dei dettagli del piano messi a punto nei precedenti due anni. Cosa farà il New York Times al riguardo? Farà trascorrere altri 17 mesi per autenticare quel pacchetto di mail?

Ecco un'idea: perché non permette a Ken Vogel, uno dei tre giornalisti che ha firmato l’articolo ieri, di scrivere ciò che sa. Bobulinski ha detto a Vogel che l'e-mail del "pezzo grosso" era autentica già nell'ottobre 2020, ma il Times non ha mai ritenuto opportuno stampare questa notizia. E cosa farà il Times riguardo alla mail in cui Hunter si lamenta con sua figlia che suo padre gli prende metà delle sue entrate? O quello in cui un partner di altri affari, Eric Schwerin, scrive di spostare denaro tra i conti correnti di Hunter e Joe?

Quindi forse Joe Biden non ha semplicemente mentito sul fatto di non aver mai saputo degli affari di suo figlio. Forse stava ottenendo la sua fetta da quegli affari. 

Come ho scritto, il russo Vladimir Putin e il cinese Xi Jinping sanno tutto di questi accordi, incluso quanti milioni sono stati trasferiti da oligarchi e società legate ai comunisti a conti bancari controllati dai Biden. Sanno anche cosa hanno fatto i Biden per i soldi. Le uniche persone che non conoscono tutti i fatti sono gli americani. E per questo, possiamo ringraziare il New York Times e i suoi co-cospiratori corrotti.

Dopo che il New York Times ha verificato tardivamente le mail, l'addetto stampa della Casa Bianca Jen Psaki non si è nemmeno preoccupata di difendere la sua vecchia affermazione secondo cui l’articolo del New York Post sul pc di Hunter Biden non era altro che "disinformazione russa".

Psaki è stata pressata durante il suo solito briefing con i giornalisti sulle sue fuorvianti affermazioni e su quelle dell'allora candidato Joe Biden. 

"Il New York Times ha autenticato le e-mail che sembrano provenire da un laptop abbandonato da Hunter Biden nel Delaware", ha iniziato il giornalista di RealClearPolitics Philip Wegmannn. "Il presidente in precedenza ha affermato che la storia del New York Post era 'un mucchio di spazzatura' e che si trattava di una 'macchinazione russa'. Sostiene questa valutazione?". Psaki ha ciurlato nel manico senza rispondere.

Da agenzianova.com il 31 marzo 2022.  

Il figlio secondogenito del presidente degli Stati Uniti Joe Biden, Hunter, guadagnò 4,8 milioni di dollari tra il 2017 e il 2018 grazie a un accordo finanziario con la compagnia energetica cinese Cefc. 

Lo rivela una nuova inchiesta pubblicata oggi dal quotidiano “Washington Post”, basata su documenti governativi, fascicoli giudiziari, dati bancari e sulle email contenute in un computer portatile appartenuto al figlio del capo della Casa Bianca. 

L’affare, racconta l’inchiesta, fu concluso ufficialmente il 2 agosto del 2017 con le firme dello stesso Hunter Biden e di un dirigente cinese di nome Gongwen Dong. Pochi giorni dopo, milioni di dollari iniziarono a d approdare su un conto corrente appena aperto presso la Cathay Bank. L’intera operazione durò tuttavia poco più di un anno.

“Molti aspetti dell’accordo finanziario di Hunter Biden con Cefc China Energy sono stati già resi pubblici e inclusi in un rapporto stilato dal Partito repubblicano al Senato nel 2020. L’inchiesta ha confermato molti dettagli chiave e ha trovato ulteriori documenti che mostrano le interazioni tra la famiglia Biden e i dirigenti cinesi”, si legge nell’articolo. 

I documenti mostrano che nel corso di 14 mesi il conglomerato cinese e i suoi dirigenti versarono 4,8 milioni di dollari a entità controllate da Hunter Biden e da suo zio. Non risulta invece alcuna prova che l’attuale presidente Joe Biden abbia beneficiato personalmente delle transazioni con la Cefc, iniziate un anno dopo la conclusione della sua esperienza da vice di Barack Obama e ben prima dell’annuncio della sua candidatura per le elezioni presidenziali Usa del 2020. 

Tra i documenti rinvenuti dal “Washington Post” figurano il pagamento di un onorario da un milione di dollari e quello di 3,8 milioni per attività di consulenza. Secondo il quotidiano statunitense, essi mostrano “come la famiglia abbia goduto delle relazioni costruite da Joe Biden in decenni di servizio pubblico”. 

Hunter Biden è già stato oggetto di un’indagine federale per presunta evasione fiscale e al centro dell’attenzione sono finiti anche i suoi affari in Ucraina, legati alla compagnia energetica Burisma e citati dai repubblicani in relazione a un possibile conflitto d’interessi. La Cefc ha rappresentato tuttavia l’affare più remunerativo mai condotto all’estero dal figlio del presidente degli Stati Uniti.

I potenziali progetti energetici discussi da Hunter Biden con la compagnia cinese non sono mai stati resi pubblici, ma l’uomo d’affari statunitense ricevette almeno 3,79 milioni di dollari in contratti di consulenza. Biden guadagnò poi un altro milione di dollari difendendo Patrick Ho, dirigente della Cefc accusato dagli Usa di aver organizzato in uno schema multimilionario di corruzione che coinvolse anche il Ciad e l’Uganda e successivamente condannato a tre anni di carcere.

Miranda Devine per nypost.com il 31 marzo 2022.  

Le sorprese non finiscono mai. Prima il New York Times. Poi la CNN. Ora il Washington Post si è accorto della storia del portatile di Hunter Biden - soltanto 18 mesi dopo che il New York Post ha scoperto lo scandalo, e un po’ troppo tardi per le elezioni del 2020.

Ma ora, dopo che la nostra storia è stata censurata da Big Tech e respinta come "disinformazione russa" dal democratico Adam Schiff, e 51 ex spie guidate dall'ex direttore della CIA John Brennan, evidentemente è sicuro ammettere che il portatile è reale e che le e-mail che abbiamo pubblicato possono essere autenticate. 

Naturalmente, tutti evitano l'inevitabile conclusione da trarre dalle prove contenute nel portatile che il figlio tossicodipendente del presidente, Hunter, ha abbandonato in un negozio di riparazione nel Delaware nell'aprile 2019: che Joe Biden, quando era vicepresidente, era a conoscenza di, e intimamente coinvolto in, un corrotto, multimilionario, schema di traffico d'influenza internazionale gestito da Hunter, e dal fratello di Joe, Jim Biden, nei paesi per i quali Joe era uomo di punta nell'amministrazione Obama, come Russia, Ucraina e Cina.

Il computer portatile di Hunter è un grande pezzo del puzzle che porta ad una conclusione così scioccante. Ma pur riconoscendo che il materiale sul portatile ha mostrato che Hunter stava "commerciando sul nome di suo padre per fare un sacco di soldi", come ha detto John Harwood, corrispondente della CNN dalla Casa Bianca, sia il Washington Post che la CNN si sono preoccupati di assolvere Joe Biden da qualsiasi coinvolgimento. 

"Non ci sono prove che il vicepresidente Biden, o il presidente Biden, abbia fatto qualcosa di sbagliato in relazione a ciò che Hunter Biden ha commesso", ha detto Harwood. 

Il Washington Post ha dichiarato di "non aver trovato prove che Joe Biden abbia personalmente beneficiato o conosciuto i dettagli delle transazioni con CEFC (azienda energetica cinese), che hanno avuto luogo dopo che aveva lasciato la vice presidenza e prima di annunciare le sue intenzioni di correre per la Casa Bianca nel 2020".

Un pezzo del New York Times all'inizio di questo mese, che pure ha riconosciuto tardivamente la veridicità del portatile - al 24° paragrafo - non ha esplicitamente scagionato il presidente, ma ha semplicemente ripetuto le difese legali che Hunter potrebbe montare se fosse incriminato dal gran giurì del Delaware, che lo indaga su presunte evasioni fiscali, riciclaggio di denaro e violazioni del Foreign Agents Registration Act. 

Senza dubbio questi prestigiosi media che per un anno e mezzo hanno trattato la nostra storia con sogghignante disprezzo hanno le loro ragioni per saltare a bordo. Per prima cosa, il loro obiettivo originale di rimuovere Trump dalla carica è stato raggiunto molto tempo fa, e Joe Biden è ora così impopolare che la sua guardia pretoriana si sta sciogliendo, e riferire sulla sua famiglia è meno pericoloso per gli inviti alle cene della Beltway.

Per un'altra ragione, non possono tenere all’oscuro il loro pubblico, mentre il procuratore degli Stati Uniti nel Delaware completa la sua indagine su Hunter. Dio non voglia che i loro lettori e spettatori si sveglino sul fatto che sono stati ingannati e tenuti all'oscuro dai loro media di fiducia. 

Ma invece di fornire ai loro lettori tutta la verità, e nient'altro che la verità, il Washington Post ha curiosamente lasciato fuori i fatti cruciali in due storie dettagliate sul portatile, martedì, in un articolo di quasi 7.000 parole. Il pezzo principale era intitolata "Inside Hunter Biden's multimillion-dollar deals with a Chinese energy company”. Un articolo che conferma i dettagli chiave e offre nuova documentazione delle interazioni della famiglia Biden con i dirigenti cinesi". 

Entra nel dettaglio degli affari di Hunter Biden con il conglomerato energetico cinese, controllato dallo stato, CEFC - ma non menziona che era il braccio capitalista della Via della seta, il progetto che mira a intrappolare i paesi in via di sviluppo con prestiti massicci e superare gli Stati Uniti come potenza economica. 

Ma non menziona i 6 milioni di dollari che la CEFC ha versato sul conto bancario aziendale del fidato amico della famiglia Biden, Rob Walker, un ex funzionario dell'amministrazione Clinton, la cui moglie, Betsy Massey Walker, era stata l'assistente di Jill Biden quando era la seconda donna. Il 23 febbraio 2017 e il 1° marzo 2017, due bonifici, ciascuno per 3 milioni di dollari, sono stati inviati a Rob Walker da State Energy HK Limited, una società con sede a Shanghai collegata a CEFC. 

Quel denaro era un pagamento per il lavoro svolto da Hunter e dai suoi partner commerciali, durante gli ultimi due anni della vicepresidenza del padre Joe, in paesi come Romania  e Russia, usando il nome di Biden per aprire porte e trovare acquisizioni per CEFC.

Il Washington Post non menziona nemmeno la società SinoHawk Holdings, che è stata costituita il 15 maggio 2017, per una joint venture tra CEFC e Hunter e i suoi partner commerciali. Questo era l'affare per il quale Joe Biden doveva ottenere una quota del 10%, come citato in una famigerata e-mail del 2017 sul portatile, "10 [per cento] detenuto da H [Hunter] per il grande uomo." 

L'ex socio d'affari di Hunter, il CEO di SinoHawk, Tony Bobulinski, ha detto pubblicamente che Joe Biden è il "pezzo grosso". Ma il Washington Post curiosamente non menziona Bobulinski, anche se il suo nome è su tutte le e-mail e i documenti sul portatile relativi alla CEFC. Non menziona nemmeno che Bobulinski ha incontrato Joe Biden due volte nel 2017, per essere approvato come CEO di SinoHawk.

Considerando che il giornale dice di essere in possesso di una copia del disco rigido del portatile di Hunter del giugno 2021, queste sono omissioni curiose, che servono a sminuire il ruolo di Joe Biden. 

"E' chiaro che i media sono stati complici nell'aiutare a far eleggere Joe Biden sopprimendo quelle che sapevano essere storie dannose", dice il senatore repubblicano Ron Johnson del Wisconsin, che con il senatore GOP Chuck Grassley dell'Iowa ha condotto un'indagine su Hunter Biden ed è stato accusato dai democratici di spacciare "disinformazione russa" per il suo disturbo.

"La storia del Washington Post dovrebbe essere vista come ciò che i consiglieri di Nixon una volta definirono come un 'hangout limitato modificato'", dice, usando una frase di propaganda che significa rilasciare una piccola quantità di informazioni nascoste per nascondere i dettagli più importanti. 

Un altro pezzo del puzzle di Biden è stato fornito dall'inchiesta di Johnson e Grassley che ha avuto accesso ai "rapporti di attività sospette" confidenziali che le banche sono tenute a segnalare al Dipartimento del Tesoro, e ha permesso loro di rintracciare milioni di dollari da Cina, Russia, Ucraina e Kazakistan versati in conti associati a Hunter e Jim Biden e ai loro associati.

Johnson sostiene che la loro inchiesta è stata ostacolata dai democratici, che hanno organizzato falsi briefing dell'FBI per lui e poi hanno fatto trapelare dettagli alla stampa per mettere in dubbio i testimoni che voleva citare in giudizio, come Hunter e i suoi partner. 

Ma sono stati anche i membri del suo stesso comitato repubblicano a mettersi in mezzo, negando a Johnson i numeri di cui aveva bisogno per citare in giudizio i testimoni quando il suo partito aveva il potere. 

Johnson non li nomina, ma i senatori Mitt Romney e Rob Portman erano tra quelli che si sono opposti alla natura "politica" dei mandati di comparizione. 

Johnson e Grassley sono stati difesi ora, ma immaginate quanto sarebbe stata diversa la storia se fossero stati sostenuti dalla loro stessa squadra. Joe Biden probabilmente non sarebbe presidente oggi. 

Dagotraduzione dell’articolo di Michael Goodwin per nypost.com il 31 marzo 2022.  

A volte una storia di giornale è solo una storia su qualcuno. E a volte la storia rivela inavvertitamente molto di più sul giornale stesso. 

È il caso dell'articolo di giovedì del New York Times su Hunter Biden. Ciò che il lettore perspicace apprende sul Times è molto più importante di qualsiasi altra cosa sia stata rivelata sul figlio del presidente. 

L'unica notizia recente è che Hunter Biden ha preso un prestito per pagare al governo federale fino a 1 milione di dollari di tasse arretrate all’interno di un’inchiesta sulle sue iniziative imprenditoriali con società e individui stranieri. 

Ma questa notizia, che viene data nel primo paragrafo, è quasi oscurata dalla bomba che il Times spara successivamente. È solo nel paragrafo 24 che l’articolo menziona le e-mail che coinvolgono Hunter Biden e i suoi soci in quegli affari, con queste due frasi: "Quelle e-mail sono state ottenute dal New York Times da una cache di file che sembra provenire da un laptop abbandonato dal signor Biden in centro assistenza del Delaware. L'e-mail e gli altri documenti nella cache sono state autenticate da persone che hanno familiarità con i Biden e con l'indagine". 

Il cuore si blocca! Al New York Times sono serviti quasi 17 mesi per riconoscere, a malincuore, solo una minima parte di ciò che i lettori del New York Post hanno appreso già nell'ottobre 2020. Ovviamente, anche i lettori del Times avrebbero appreso i fatti allora, se il loro giornale si occupasse ancora delle notizie invece di fare il galoppino dei democratici. 

Il Post ha rivelato quelle e-mail e molte altre cose dopo essere entrato in possesso del contenuto del disco rigido del computer di Hunter Biden. I lettori sanno anche che il Times faceva parte della cricca Big Government, Big Tech e Big Media che ha cercato di nascondere quelle e-mail al pubblico durante le elezioni presidenziali del 2020.

Il motivo di quell'insabbiamento era semplice: molte delle e-mail, da e verso Hunter Biden, implicavano Joe Biden nell'attività di traffico di influenze internazionale gestita da Hunter e dal fratello di Joe, Jim Biden. Se l'intero paese avesse saputo che Joe Biden stava usando in modo fraudolento il suo ruolo per aiutare la sua famiglia a fare affari, ora saremmo al secondo anno del secondo mandato di Donald Trump. Questo è un dato di fatto, perché l'8% degli elettori di Biden ha detto ai sondaggisti che avrebbe sostenuto Trump se avessero saputo prima del contenuto bomba nascosto in quel computer.

Ma il Times, Facebook, Twitter, la CNN e il deep state non potevano permettere che ciò accadesse. Avevano trascorso quattro anni a cercare di cacciare Trump dalla Casa bianca, sostenendo falsamente che aveva collaborato con la Russia per rubare le elezioni del 2016. Erano determinati a non fargli ottenere l’incarico per altri quattro anni. 

Quindi, oltre a diffondere fake news su Trump, quando avevano notizie vere sulla corruzione della famiglia Biden, invece di diffonderle e consentire agli utenti di condividerle sui social media, hanno cospirato per occultarle. Bisogna incolpare loro per la disastrosa presidenza di Joe Biden.

E ora il Times ha il coraggio di comportarsi come se avesse fatto un’eroica inchiesta sostenendo che le e-mail "sono state autenticate da persone che hanno familiarità con loro e con l'indagine". Oh per favore. 

A differenza del Times, The Post non ha fatto affidamento su fonti anonime, dicendo apertamente che Rudy Giuliani ha dato al giornale una copia del disco rigido del laptop. Giuliani ha detto che proveniva dal proprietario di un centro assistenza del Delaware, che anche The Post ha intervistato. Ha detto che un uomo che ha firmato la ricevuta con il nome di Hunter Biden gli ha lasciato il computer per le riparazioni e non l'ha mai recuperato.

Le storie nascoste in quel computer, complete di immagini di Hunter drogato che fa sesso con prostitute, erano esplosive di per sé – e questo ben prima che Tony Bobulinski entrasse in scena. L'ex wrestler e ufficiale della Marina è stato per breve tempo partner e CEO di una joint-venture che Hunter Biden ha creato con un comunista cinese a capo di una conglomerata dell’energia.

Bobulinski, nelle settimane precedenti alle elezioni di novembre, ha pubblicamente  riconosciuto come autentiche alcune delle email, che riportavano il suo nome, che erano nel pc. Tra queste ce n’era una, indirizzata a se stesso, a Hunter e Jim Biden e ad altri due soci su come avrebbero diviso il loro capitale nella nuova joint venture. 

Quattro, incluso Hunter, otterrebbero ciascuno il 20%, mentre Jim Biden avrebbe preso il 10%. L'e-mail incriminante diceva che quel "10" aggiuntivo sarebbe stato detenuto da H, cioè Hunter, "per il pezzo grosso". Bobulinski ha identificato Joe Biden come il “pezzo grosso”. E nessuno nella famiglia Biden l’ha mai smentito. Sarebbe anche sciocco se lo facessero visto che Bobulinski è andato all'FBI a cui ha consegnato tutti i suoi dispositivi elettronici. Da questa decisione, probabilmente l’inchiesta su Hunter ha trovato nuova linfa ed è stata prorogata. 

Bobulinski ha anche rivelato pubblicamente, a me e ad altri, del suo incontro nel maggio del 2017 con Joe Biden sull'accordo con i cinesi e ha riferito che Joe Biden, che aveva appena lasciato la Casa Bianca da vicepresidente, era pienamente informato dei dettagli del piano messi a punto nei precedenti due anni. Cosa farà il New York Times al riguardo? Farà trascorrere altri 17 mesi per autenticare quel pacchetto di mail?

Ecco un'idea: perché non permette a Ken Vogel, uno dei tre giornalisti che ha firmato l’articolo ieri, di scrivere ciò che sa. Bobulinski ha detto a Vogel che l'e-mail del "pezzo grosso" era autentica già nell'ottobre 2020, ma il Times non ha mai ritenuto opportuno stampare questa notizia. E cosa farà il Times riguardo alla mail in cui Hunter si lamenta con sua figlia che suo padre gli prende metà delle sue entrate? O quello in cui un partner di altri affari, Eric Schwerin, scrive di spostare denaro tra i conti correnti di Hunter e Joe?

Quindi forse Joe Biden non ha semplicemente mentito sul fatto di non aver mai saputo degli affari di suo figlio. Forse stava ottenendo la sua fetta da quegli affari. 

Come ho scritto, il russo Vladimir Putin e il cinese Xi Jinping sanno tutto di questi accordi, incluso quanti milioni sono stati trasferiti da oligarchi e società legate ai comunisti a conti bancari controllati dai Biden. Sanno anche cosa hanno fatto i Biden per i soldi. Le uniche persone che non conoscono tutti i fatti sono gli americani. E per questo, possiamo ringraziare il New York Times e i suoi co-cospiratori corrotti.

Dopo che il New York Times ha verificato tardivamente le mail, l'addetto stampa della Casa Bianca Jen Psaki non si è nemmeno preoccupata di difendere la sua vecchia affermazione secondo cui l’articolo del New York Post sul pc di Hunter Biden non era altro che "disinformazione russa". 

Psaki è stata pressata durante il suo solito briefing con i giornalisti sulle sue fuorvianti affermazioni e su quelle dell'allora candidato Joe Biden. 

"Il New York Times ha autenticato le e-mail che sembrano provenire da un laptop abbandonato da Hunter Biden nel Delaware", ha iniziato il giornalista di RealClearPolitics Philip Wegmannn. "Il presidente in precedenza ha affermato che la storia del New York Post era 'un mucchio di spazzatura' e che si trattava di una 'macchinazione russa'. Sostiene questa valutazione?". Psaki ha ciurlato nel manico senza rispondere.

Da liberoquotidiano.it il 17 giugno 2022.

Kathleen Buhle vuota il sacco. L'ex moglie di Hunter Biden, il figlio del presidente Joe Biden, ha appena dato alle stampe il suo libro di memorie If We Break rendendo pubblico il lato oscuro del suo matrimonio durato 24 anni tra abuso di alcol, dipendenze, tradimenti.  In una serie d'interviste televisive la Buhle ha precisato: «Non avevo alcun controllo sulle nostre finanze, l'avevo ceduto tutto a mio marito. Mi piacevano le cose belle e non volevo pensare quanto costassero», raccontando però di aver scoperto la vera natura del rampollo Biden intorno al 2001 dopo la nascita del loro secondo figlio quando ha accettato un lavoro come partner in una società di lobbying a Washington, DC, il che lo ha portato a lunghi periodi lontani dalla loro casa nel Delaware. 

«Ho visto il suo bere passare da social a problematico», scrive. «Guardare quanto poteva bere mi ha spaventato... Per la prima volta, non mi fidavo di mio marito». Nell'autunno del 2003, Hunter è entrato in riabilitazione per la prima volta e, quando è tornato, dice Kathleen «sembrava più forte che mai». Ma dopo sette anni di sobrietà, Hunter è ricaduto di nuovo nell'alcolismo.

Dopo un secondo periodo di riabilitazione nel 2012, hanno riprovato a far funzionare la relazione, «dall'esterno, tutto era come avrebbe dovuto essere... Ma dentro, a casa, no. Non mi fidavo di mio marito. E lui non si fidava di me», dice Kathleen spiegando che le cose sono degenerate ancora una volta dopo che a Beau Biden, il primogenito del presidente, è stata diagnosticata una forma fatale di cancro al cervello. 

Buhle ha ricominciato a bere. «Per la prima volta, Hunter mi ha insultato», dice Kathleen costretta - come se affrontare l'alcolismo e la tossicodipendenza di Hunter non fosse una sfida sufficiente - ad ammettere un'altra sconcertante verità: suo marito l'aveva sempre tradita, anche prima che venisse sorpreso a tradirla con la moglie del suo defunto fratello, Hallie. A mettere a conoscenza Kathleen Buhle della cosa è stata la figlia teenager. Nel 2016 i due si sono separati e ora, con la mente lucida e la pace ritrovata, la ex signora Biden ha deciso di raccontare tutto.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 17 giugno 2022.

Nel libro di memorie sulla sua vita, l’ex moglie di Hunter Biden ha rivelato come ha scoperto che il marito la tradiva e, successivamente, si è insospettita della relazione che aveva con la cognata Hallie Biden, moglie del fratello Beau, morto di cancro. 

Kathleen Buhle, che è stata sposata con il figlio del presidente dal 1993 al 2017, ha condiviso nuovi dettagli sugli affari del marito e sulle sue battaglie contro la dipendenza nel suo libro “If We Break: A memoir of Marriage, Addiction and Healing” uscito martedì in libreria. 

La donna ha raccontato che la sua vita è cambiata per sempre il 4 luglio del 2014. All’epoca Hunter era stato in Messico e la famiglia di Kathleen si era trasferita a casa della coppia. Il fratello di Kathleen, Michael, stava guardando le foto del suo viaggio al Paris Four Seasons sull’iPad di Hunter quando improvvisamente si sono imbattuti nella foto di una donna che indossava un accappatoio dell’hotel.

«Il mio corpo si è congelato. Che cosa avevo appena visto?» scrive nel libro. «”Torno subito”, ho detto, e ho premuto l’iPad contro il petto mentre camminavo verso la mia camera da letto sul retro della casa. La foto riraeva una donna sul balcone di pietra di una stanza d’albergo molto simile alla nostra a Parigi, con indosso una vestaglia bianca del Four Seasons». 

«Era giovane, carina, con il mascara che le gocciolava negli occhi. La foto era un po’ sfocata, ma aveva un viso a forma di cuore con labbra rosse e capelli scuri» ha aggiunto. La foto successiva, scrive Kathleen, l’ha colpita «come un’onda per tutto il corpo». 

«Cacciatore. Il mio cacciatore. Il mio compagno. Il mio amore. Seduto con una vestaglia abbinata, mentre guarda qualcosa e apparentemente era inconsapevole di essere fotografato».

Mentre l'intricata vita amorosa e le relazioni scandalose di Hunter sono state ben documentate negli ultimi anni, Kathleen ammette che di «tutte le paure», l’infedeltà nei suoi confronti era «una cosa» di cui non si era mai preoccupata in quel momento. 

«Nei nostri 22 anni insieme non avevo mai messo in dubbio la sua fedeltà ai suoi voti», ha aggiunto.  Kathleen scrive che lei e Hunter avevano soggiornato al Four Seasons Hotel di Parigi un mese prima a giugno, settimane dopo che lui si era recato lì per un viaggio d'affari da solo.

Rivela che «l'unica altra persona» a cui ha parlato delle foto era Hallie, che era sposata con il fratello di Hunter, Beau. «Hallie e io avevamo trovato un terreno comune come nuore, madri e compagne di Biden, e con la malattia di Beau, ho visto la sua forza, dedizione e lealtà», scrive Kathleen. 

«Ma quando le ho parlato delle foto, non dimenticherò mai quello che ha detto: “Se lo lasci, Kathleen, troverà qualcun altro, e poi dovrai conviverci”». Quando lo ha affrontato per il suo tradimento, scrive Kathleen, Hunter ha confessato di essere stato per cinque volte con prostitute all'estero quando beveva. «So cosa hai fatto a Parigi. So che eri con un'altra donna. Ho visto le foto sul tuo iPad», ha detto a Hunter, secondo il libro. E lui ha risposto: «Ti amo Kathleen. Ti amo, lo prometto». 

«Non puoi più promettermelo, Hunter, perché non ti credo. Non so come ti crederò ancora», scrive. «Non ho fatto sesso con la donna nella foto. Prometto. L'ho incontrata in un club. Ero ubriaco... abbiamo scherzato ma non abbiamo fatto sesso», le ha detto lui. 

 È stato quando Kathleen gli ha chiesto di dirle "tutte" quelle con cui era andato a letto che Hunter ha finalmente chiarito alcune cose.   

«Sono state cinque volte», ha detto con convinzione. «Tutte prostitute. Tutto fuori dal paese. La prima è stata in Spagna. Un'amica d'affari ha mandato una massaggiatrice nella stanza e si è rivelata una prostituta. Non ero sobrio. È successo» ha detto Hunter a sua moglie secondo il libro. 

«La seconda è stata una prostituta in Messico o forse in Cina, o in Argentina o in Italia. Non riesco nemmeno a ricordare». «Riuscivo a sentire l'assurdità delle sue storie, eppure non mi sono tirata indietro. Secondo lui, queste non erano infedeltà emotive, erano solo fisiche. E aveva tradito solo quando aveva viaggiato fuori dal paese. Tradiva solo quando beveva».

«C'era ancora una domanda dentro di me che faceva male a tutto il mio corpo. Mi amava ancora? Quella era l'incertezza tagliente che portavo con me, nel profondo della mia anima. La domanda che non sono mai stata in grado di fare». 

Kathleen ha ufficialmente chiesto il divorzio da Hunter nel dicembre 2016, rivelando che la coppia si era separata nell'ottobre 2015, circa cinque mesi dopo la morte per cancro al cervello di suo fratello Beau. 

Ma a un certo punto tra la loro separazione e la richiesta di divorzio, Hunter aveva iniziato ad avere una relazione con Hallie. Kathleen ha detto che lei e Hallie erano amiche intime e che era stata al suo fianco durante la malattia di Beau. «Non importa cosa indossasse Hallie, è sempre stata bellissima», descrivendola in un capitolo come «Irritantemente bella».

Ma ha scritto che dopo il funerale di Beau, Hunter «ha iniziato a passare la maggior parte del suo tempo a casa di Hallie».  «Era sobrio e lucido, eppure mi trattava come un'intrusa. Quando chiamavo Hunter da Hallie, rispondeva alle mie chiamate ma sembrava distaccato. Ha detto che era suo dovere prendersi cura di Hallie e dei suoi figli, perché quando la madre e la sorella di Hunter sono morte, sua zia Val si era trasferita e aveva aiutato a crescere lui e Beau».

Russiagate: la Fake che ha fatto impazzire il mondo inguaia la Clinton. Piccole Note il 15 febbraio 2022 su Il Giornale.

Nuovo colpo si scena nel Russiagate. Il consigliere speciale John Durham, che ha l’incarico di indagare sulla vicenda, ha depositato una nuova tranche della sua inchiesta, contenente rivelazioni ancor più esplosive delle precedenti.

In precedenza aveva letteralmente fatto a pezzi il Russiagate, lo scandalo che vedeva Trump colludere con i russi per vincere le presidenziali del 2016. Aveva infatti rivelato che il dossier Steele, che aveva “documentato” tale collusione, era una bufala confezionata da tal Michael Sussmann, che si era avvalso come fonte principale di “un emigrato russo che lavorava a Washington” senza arte né parte, ma soprattutto senza alcuna informazione del caso.

Le dichiarazioni dell’emigrato erano state spacciate come verità rivelata e come tali erano state presentate all’Fbi che aveva recepito il dossier come veritiero prima che venissero fuori i primi dubbi, dopo aver alimentato per anni la campagna anti-Trump.

La vicenda, ha scoperto Durham, nascondeva un altro deficit di fondo, cioè che Sussmann lavorava per la campagna elettorale della Clinton, particolare che quest’ultimo aveva omesso all’Fbi, al quale si era presentato come privato cittadino senza alcuno scopo politico.

La nuova tranche d’inchiesta di Durham ha rivelato un altro particolare della campagna pro Russiagate, cioè che Sussmann ha incaricato “Tech Executive-1”, guidata da Rodney Joffe, ex patron della Neustar Inc. di monitorare il traffico internet di Trump sia presso le sue residenze private, la Trump Tower e l’appartamento di Central Park West, che intrufolandosi nei server protetti della Casa Bianca.

Secondo Durham “l’obiettivo” del signor Joffe era quello di creare un “legame” e una “narrativa” riguardante Trump per “soddisfare alcune” persone importanti, sia dello studio legale internazionale Perkins Coie, al quale era associato Sussmann, che dell’entrourage della Clinton”.

Un bel quadretto, riferito da Wall Street Journal, ma obliato da altri media mainstream Usa, che prendono tempo in attesa, presumibilmente, di riferire la vicenda con l’elusività del caso, a causa del loro diuturno ingaggio nel Russiagate, la Fake News che ha dominato i media mondiali per anni.

Il gioco si fa duro, dal momento che a questo punto la Clinton rischia di essere chiamata a deporre, o in Tribunale o al Congresso, perché si tratta di un crimine piuttosto grave per la legge americana.

La signora, idolatrata dei media globali nonostante le numerose defaillance, ha ancora tanto potere e tante frecce al suo arco e potrebbe così eludere anche questo scoglio, ma la vicenda è da seguire per le sue implicazioni. Non ci sono in gioco solo le elezioni americane di midterm, ma il destino stesso dell’Impero.

Che fine ha fatto Simona Mangiante, la “Mata Hari” del Russiagate. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 7 febbraio 2022.

Da presunta spia russa ad attrice di serie tv americane e designer di moda. È l’incredibile storia di Simona Mangiante, che a un certo punto della sua vita si era ritrovata al centro dell’attenzione mediatica internazionale e di un intrigo degno di un’appassionante spy story. Sposata con George Papadopoulos, ex consulente della Campagna di Donald Trump nel 2016, l’avvocato di Caserta, già collaboratrice di Gianni Pittella al Parlamento europeo, era finita, con suo marito, al centro dell’inchiesta riguardante la presunta intromissione di Mosca nelle elezioni che portarono all’elezione del candidato repubblicano. Con l’avvio dell’indagine di Robert Mueller, i media di tutto il mondo si scatenarono, arrivando a definirla una “spia russa” o un agente provocatore al servizio del Cremlino, anche se lei si è sempre definita innocente. I fatti le hanno dato ragione – anche perché non è mai stata accusata di nulla, formalmente – e, da allora, lo scenario è completamente cambiato: quell’indagine sulle interferenze russe si è definitivamente sgonfiata e ora il Procuratore speciale John Durham indaga – da ormai più di due anni – sulle origini del Russiagate e sul presunto complotto ordito ai danni di The Donald, in attesa che Joseph Mifsud, l’uomo chiave di tutta questa vicenda, si faccia vivo e racconti la sua verità. Per quanto riguarda Simona Mangiante e suo marito, George Papadopoulos, la loro vita ora prosegue tra gli Stati uniti e l’Italia, lontana da spie e 007, e più vicina ai set cinematografici. L’abbiamo raggiunta per capire cosa fa ora la “Mata Hari” del Russiagate, anche se lei dice di assomigliare più a Forrest Gump che a Geertruida Zelle.

Simona, è passato un po’ di tempo ormai da quando tu e tuo marito George Papadopoulos siete finiti al centro di una spy story internazionale che ha riempito le pagine dei giornali di tutto il mondo. Che ricordi hai di quei momenti travagliati?

Guardo a quei momenti con un sorriso ma anche con un certo sconcerto. Sorriso perché rivedo l’ingenuità con la quale mi sono sentita catapultata in una situazione molto più grande di me. Amo sempre rievocare la figura di Forrest Gump nella quale in una certa misura mi identifico, con il senno poi. Spesso scherzo con i miei amici più stretti e la mia famiglia su questo. Frequentavo George e il professor Mifsud, il famoso professore che all’epoca non era conosciuto praticamente da nessuno negli Stati Uniti. Quindi sono diventata una figura centrale che è stata ricoperta negli Stati Uniti di un’aura di mistero al punto tale da essere dipinta come una spia russa, seppur made in Italy. Sono entrata in contatto con gli ambienti politici di alto livello in una investigazione gigantesca che si riferiva al presidente degli Stati Uniti d’America, finendo ovunque, dal Washington Post a Tucker Carlson. Non solo come testimone dell’indagine di Robert Mueller, con la quale io non avevo nulla a che fare, ma caratterizzata anche da quest’aura di mistero in cui il popolo americano vedeva in me una spia russa, tanto da ignorare il mio accento e la mia fisicità tutta italiana.

Per favore, spiegati meglio…

Mi sono ritrovata magicamente al centro di tutto senza c’entrare nulla, a parte frequentare mio marito George, che era consigliere della campagna di Trump, e perché incidentalmente avevo conosciuto Mifsud al Parlamento europeo. Ricordiamo che oltre a essere apparsa su tutti i giornali americani, sono stata anche testimone del Congresso e dell’Fbi. Ricordo quando sono stata intervistata e c’erano Nancy Pelosi, Adam Schiff, e tutti i dem più “agguerriti” nel condurre la bufala del Russiagate, una grossa macchinazione che non è mai esistita. Guardo con un certo sconcerto a quel periodo anche perché ho provato sulla mia pelle la portata delle falsità con la queste informazioni vengono veicolate al pubblico fino a farle sembrare vere. È difficile, a distanza di anni, persuadere certe persone sul fatto che io sia italiana e non russa.

Pensi che la vicenda Russiagate si sia conclusa o il Procuratore John Durham, che indaga sul presunto complotto ai danni di Trump, scoprirà qualcosa di nuovo dopo aver incriminato l’ex avvocato di Hillary Clinton?

Non penso che l’investigazione di Durham si sia conclusa, anzi. Ad oggi non solo non è terminata ma ha prodotto risultati significativi un po’ sottovaluti dalla stampa internazionale perché non si riferiscono a nomi altisonanti come quelli che ci saremmo aspettati, come James Comey (Fbi) e la stessa Hillary Clinton. Si fa però riferimento a una serie di persone affiliate alla campagna elettorale di Clinton. Ricordiamo infatti che tra gli imputati di Durham c’è l’avvocato Michael Sussman, il quale avrebbe mentito ai federali circa il fatto di non rappresentare alcun cliente quando ha fornito la sua testimonianza all’Fbi stessa (l’avvocato avrebbe mentito circa i rapporti con la sua illustre cliente Hillary Clinton all’agente federale James Baker mentre raccontava all’Fbi di presunte prove digitali che avrebbero collegato i computer della Trump Tower alla banca russa Alfa, ndr).

Cioè?

Ci sono affiliati alla Campagna di Clinton come Sussman ma anche Igor Danchenko, che hanno fornito false informazioni all’Fbi sui rapporti fra Trump e la Russia per costruire quest’ipotesi di collusione e indurre i federali a seguire quella pista investigativa. Ora l’investigazione di Durham si sta articolando in due direzioni: la prima è, appunto, quella che individua soggetti affiliati alla campagna di Clinton che si sono attivati per fornire false informazioni all’Fbi in modo tale da creare uno schema di collusione che non è esistito fra Trump e la Russia. La seconda, si dirige direttamente sugli agenti federali e analizza quei documenti che sono stati manipolati per aprire delle investigazioni che altrimenti sarebbero state illegittime. Ricordiamo la lunga serie di Fisa. Sono molto fiduciosa del fatto che Durham porti a termine il suo lavoro, che è meno seguito dall’investigazione di Mueller, che contava su un apparato mediatico incredibile, tanto da indurre il pubblico americano a pensare che l’allora presidente americano fosse stato eletto grazie a una collusione con la Russia. Durham non ha ancora quell’impatto mediatico ma avrà un impatto giuridico molto più rilevante di Mueller. I fatti che già stanno emergendo sono di una portata molto significativa. Molto preoccupante che figure legate alla campagna elettorale della Clinton si fossero attivate già all’epoca per macchinare e falsificare questa bufala.

Sei sempre convinta che il nostro Paese sia stato in qualche modo coinvolto in un possibile complotto contro Donald Trump?

Le mie convinzioni al riguardo sono basate sui fatti e non sulle ipotesi. Il fatto che il personaggio chiave del Russiagate, il professor Joseph Mifsud, sia sparito nel nulla e non se ne trovi traccia se non la sua ultima residenziale italiana, mi fa pensare che ci sia sicuramente un coinvolgimento dell’Italia, quantomeno nella copertura di questo personaggio che aveva legami forti e tangibili con l’apparato d’intelligente italiano e con i politici italiani. Non so quanto l’Italia volesse opporsi a una presidenza Trump o a partecipare a questo movimento globalista che voleva contrastare l’affermazione di movimenti nazionalisti e conservatori in tutto l’Occidente. C’è un dato di fatto che fa pensare però a questo, come dicevo: ad oggi Mifsud non appare in nessun registro, né come persona viva, né come persona deceduta, il che è impossibile alla luce delle nostre leggi.

In questi ultimi anni ti sei dedicata alle tue passioni, al cinema e alla moda. Sei stata anche protagonista di un documentario dedicato all’Ucraina decisamente attuale. Ce lo puoi raccontare?

Come si dice, da ogni crisi nascono delle nuove opportunità. Sono stata fortunatissima perché Igor Lopatonok mi ha offerto di debuttare come intervistatrice in questo documentario intitolato Ukraine: The Everlasting Present e che fa parte della trilogia di documentari sulla storia politica dell’Ucraina preceduta da Revealing Ukraine e Ukraine on fire, in cui l’intervistatore principale è Oliver Stone. Igor Lopatonok è peraltro il produttore del documentario su Snowden, è una mente acuta, con una sensibilità particolare. È stato un grandissimo onore per me partecipare a questo progetto. Ukraine: The Everlasting Present è stato trasmesso da Russia Today e tradotto in sette lingue. Documentario particolarmente attuale perché ripercorriamo la storia degli ultimi 30 anni dell’Ucraina, partendo dalla firma di indipendenza dello stato dall’Unione Sovietica. Lo facciamo intervistando i leader politici dell’Ucraina indipendente. Ho avuto così l’onore di intervistare l’ex presidente Viktor Juščenko, l’economista Suslov ma anche il deputato Andriy Derkach, sanzionato recentemente dagli Usa per aver esposto gli affari di Biden e di suo figlio Hunter nel Paese. Nel documentario ho intervistato anche Rudy Giuliani, che ha collaborato proprio con Derkach. Un documentario molto interessante di come l’Ucraina sia diventato uno stato cliente degli Stati Uniti, conteso per motivi di equilibrio geopolitico.

Hai avuto altre esperienze cinematografiche?

Sì. Non avrei immaginato ai tempi del mio lavoro all’Unione europea di avere un ruolo nella serie televisiva americana Paper Empire, nell’episodio numero sette, in cui interpreto un agente dell’Fbi con un cast eccezionale. Mi sono ritrovata a recitare con Denise Richards a Miami, che per me era un’assoluta icona negli anni ’90, molto popolare nei film americani, una donna inarrivabile e bellissima. Interpreto poi il ruolo della Dea Afrodite in un film di fantasia americano intitolato Karma 2 che sarà nelle sale cinematografiche a novembre; il ruolo di una executive director in una serie Netflix parodia di Tiger King, interpretata fra gli altri da Andy Dick, e sarò anche in una serie tv ispirata al Russiagate chiamata Papa, che uscirà dopo le elezioni di midterm. Ho avuto anche l’opportunità di recitare in Italia in un piccolo progetto ma che per me ha un significato importante, intitolato T’ho aspettato da una vita diretto da James La Motta in cui affrontiamo la piaga sociale della malattia mentale che colpisce moltissime giovani donne frustrate dall’incapacità di diventare madri. Un messaggio bellissimo quello che il cortometraggio trasmette, cioè che sono amate a prescindere e che quest’amore si può veicolare in vari modi.

Da presunta spia russa a designer di moda…

Sì, ho lanciato una mia linea di moda, una collezione di vestiti che si chiama Agape By Simona. Agape dal greco antico significa forma di amore universale. Ho sempre avuto una passione per la moda e per il design, sin da bambina disegnavo modelli e vestiti, mi è sempre piaciuto interpretare la moda in modo molto personale. Durante il covid ero annoiata dal far nulla, perché tutto era bloccato negli Stati Uniti per via del lockdown, cosìmi è venuta in mente quest’idea imprenditoriale e ho creato una collezione. Così ho inviato i miei disegni alla settimana della moda di New York, a questa società che selezione talenti emergenti che mi ha dato l’opportunità di far sfilare i miei modelli in passerella. Da lì è nata Agape By Simona, la mia interpretazione creativa della femminilità che ha avuto un riscontro positivo, tant’è che sono tornata in passerella a luglio, a Miami, dove ho presentato una collezione di copricostumi. Ora sto lavorando a una nuova collezione per il 2022. Produco negli Stati Uniti, a Los Angeles.

È vero però che negli ultimi tempi ti sei avvicinata alla politica? Negli Stati Uniti o in Italia?

Sì, è vero. Sono un’attivista politica nell’ambito del Partito repubblicano in America, relatrice a diverse conferenze, come l’American Priority Conference a Miami. Ho partecipato a diversi rally a Washington, l’ultimo in occasione dell’elezione di Amy Barrett alla Corte Suprema. Non sono ancora cittadina degli Stati Uniti, sono permanent resident, per cui non posso essere parte attiva come candidata alle elezioni; ipotesi che però non escludo in futuro, nel momento in cui avrò maturato la cittadinanza. Sono sicuramente interessata anche alla vita politica italiana, il mio Paese, e avrei l’ambizione di dare un contributo, ma il fatto che ora risieda negli Stati Uniti non ha aiutato una mia presenza attiva sul territorio italiano. Ideologicamente sono vicina alla Lega e a Fratelli d’Italia.

C’è un leader politico italiano che ti ispira fiducia e a cui ti senti più vicina?

Sì, il leader politico che m’ispira più fiducia è Giorgia Meloni, credo sia una grandissima leader. Prima ancora che apprezzarla come donna, stimo la sua grinta e la sua naturale inclinazione a essere leader. Ha tutte le carte in regola per diventare Primo ministro nel nostro Paese, a mio modo di vedere. Sta facendo rinascere il patriottismo italiano, e penso che l’Italia sia un Paese di cui dovremmo essere maggiormente fieri.

Che cosa fa ora tuo marito, George?

Ora fa il commentatore politico per Newsmax, una rete televisiva nazionale seconda solo a Fox News. È relatore a diverse conferenze del partito repubblicano ed è sempre impegnato in politica e in un’imminente candidatura. Attendiamo le elezioni di medio termine per maggiori dettagli.

Un tuo giudizio sull’amministrazione Biden? Chi vincerà le elezioni di midterm?

Biden è stato un flop completo per l’America. Non solo ha portato avanti delle politiche identitarie che hanno esasperato le divisioni all’interno del Paese, ma ha addirittura nominato persone in posti amministrativi importanti sulla base del genere e della razza, senza tener conto dei meriti. Sappiamo inoltre che ha adottato una politica di apertura delle frontiere che sta portando a un aumento dei crimini e del traffico di droga negli Stati Uniti, per non parlare del suo catastrofico ritiro delle truppe dall’Afghanistan, che non ha bisogno di commenti. Sta creando un’America a immagine socialista però importando gli aspetti più deteriori del socialismo nella società. Sta creando un mostro. La maggior parte degli americani infatti non si riconosce nella sua America, e sta creando i presupposti per una rimonta repubblicana alle elezioni di medio termine.

Il Terrorismo. Frank R. James, chi è il sospettato dell’attentato alla metropolitana di New York. Emily Capozucca su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.

Si tratta di un 62enne afroamericano, che viene da Philadelphia. È il titolare della carta di credito usata per noleggiare il furgoncino legato all’attacco nella metropolitana di Brooklyn. 

Una ricompensa di 50.000 dollari è stata offerta dalla polizia a chiunque sia in grado di fornire informazioni che portino all’arresto del responsabile della sparatoria nella metropolitana di Brooklyn (New York). 

Attraverso la carta di credito persa durante la fuga, la polizia ha identificato un sospettato, diffondendo informazioni su di lui. 

Il suo nome è Frank R. James, ha 62 anni, è afroamericano, viene da Philadelphia, e ha usato la carta di credito usata per noleggiare il furgoncino legato all’attacco e trovato a pochi isolati dalla stazione di Sunset Park, a Brooklyn. 

Su James si sa al momento ben poco: ha residenza sia a Philadelphia, sia in Wisconsin; le indagini preliminari sulla sua presenza sui social hanno rivelato video «preoccupanti» in cui parlava del problema dei senzatetto, di New York e del suo sindaco Eric Adams. 

Come scrive Guido Olimpio in questa scheda, James «ammetteva di avere problemi mentali e accusava le donne di colore di essere responsabili della violenza tra gli stessi afro-americani: una figura certamente instabile che, con questi interventi, ha in qualche modo annunciato l’assalto». 

La polizia si limita a definire James una persona di interesse, specificando di non essere certa che sia l’autore dell’attacco. Il suo profilo però sembra coincidere con quanto comunicato dai primi testimoni dopo l’attacco. 

All’interno della stazione le telecamere non funzionavano e così la polizia è costretta a vagliare i video dei testimoni a caccia di indicazioni e per incrociare le informazioni a sua disposizione. 

Continuano intatto a emergere dettagli sui minuti di terrore e panico nella metropolitana: il sospetto era all’interno del vagone quando ha estratto dal suo zainetto una bomboletta fumogena. Poi ha indossato la maschera antigas e ha iniziato a sparare. 

Almeno 33 colpi sono stati esplosi, ma la pistola — una Glock 9 millimetri semiautomatica — si è inceppata e questo avrebbe evitato il peggio. A quel punto l’uomo, vestito come un addetto della metro, è scappato. 

Alla fermata oltre alla pistola usata, è stata trovata una borsa con le chiave del furgoncino affittato, munizioni, un’accetta, fuochi d’artificio e un contenitore con della benzina. 

«Siamo stati fortunati, poteva andare molto peggio», afferma il capo della polizia di New York Keechant Sewell, parlando dei 23 feriti. Nessuno di loro è in pericolo di vita. 

La polizia «non ha nessuno sotto la sua custodia» al momento: «Siamo alla ricerca di Frank James, che ha affittato il furgoncino».

Biagio Chiariello per fanpage.it il 13 aprile 2022.

Frank James, la persona ricercata dalla polizia di New York per la sparatoria nella metropolitana, è stato arrestato. 

Lo scrive la Cnn, dopo che nel pomeriggio l'Abc aveva scritto che il sospettato fosse in custodia, salvo poi correggere i tiro. Il 62enne non avrebbe opposto alcuna resistenza all'arresto. L'uomo è stato fermato nell'East Village, fra St. Marks e la First Avenue. Secondo l'emittente, James camminava in strada come se nulla fosse. Due agenti lo hanno visto e lo hanno arrestato.

Stando a quanto ricostruito, James ieri mattina avrebbe estratto dal suo zainetto una bomboletta fumogena, poi ha indossato una maschera antigas e ha iniziato a sparare. Almeno 33 colpi sono stati esplosi, 29 i feriti. Poi la pistola, una Glock 9 millimetri, si è inceppata. La polizia ha posto una taglia di 50 mila dollari su di lui.

"Volevo vedere le persone morire immediatamente davanti alla mia fottuta faccia", diceva Frank James, 62 anni, in uno dei diversi video che ha postato sui social in cui racconta che i medici gli hanno diagnosticato il disturbo post-traumatico da stress. "Ho fatto un sacco di c..te in cui posso dire che volevo uccidere le persone. Volevo vedere le persone morire immediatamente davanti alla mia fottuta faccia", ha detto nel suo ultimo video caricato il giorno prima della sparatoria, sottolineando di non voler andare "in nessun fottuto carcere".

"Sono il profeta della sventura, questo è il mio nome originale". Così Frank James si descrive in alcuni dei filmati postati online, e citati dai media americani. Video in cui l'uomo parla di politica e non solo, soffermandosi sul ceffone di Will Smith a Chris Rock durante la cerimonia degli Oscar e sulla nomina di Ketanji Jackson Brown alla Corte Suprema. James cita poi varie teorie complotto sull'11 settembre, definendo la tragedia il "giorno più bello". In alcuni dei video parla del sindaco di New York Eric Adams "destinato a fallire", in altri di razza, politica e violenza con le armi da fuoco.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 aprile 2022.

Frank R. James, il sospetto attentatore che ieri è stato autore di una sparatoria nella metropolitana di New York, tre settimane fa ha pubblicato un terrificante avviso su YouTube in cui ha annunciato di essere in partenza dal Wisconsin e «che non sarebbe mai più tornato vivo». 

James ha vissuto a Milwaukee, nel Wisconsin, fino a poco tempo fa, ma ha fatto le valigie il 20 marzo e ha lasciato lo stato. Ha guidato verso sud, prima attraverso l'Illinois , poi a Filadelfia, dove ha preso il furgone U-Haul che ha portato a New York City. 

Nel video del 20 marzo, intitolato "STOP ONE COMPLETE", ha avvertito dei suoi piani. Parlando dal posto di guida di un furgone noleggiato, ha detto: «Mentre lascio lo stato del Wisconsin, in procinto di tornare nello stato dell'Illinois, tutto ciò che posso dire è: buona liberazione. Non tornerò mai più vivo».

«Sto andando a Filadelfia. Ho fatto le valigie. Mi sono alzato, anche se piove, sono andato al mio magazzino, l'ho caricato e poi ho finito il mio appartamento stamattina. «Sto andando a Filadelfia. Dovrei essere lì... Mi prenderò il mio tempo però». 

«Questa è la prima tappa del mio viaggio, è passato molto tempo dall'ultima volta che ho dovuto guidare fino a qui. Lo scopriremo però. Tutta la mia guida su Instacart ha dato i suoi frutti o cosa. Lo scopriremo sicuramente». 

Due giorni prima della sparatoria, ha pubblicato un altro video in cui affermava che i neri erano stati costretti alla violenza dal razzismo.

Dagotraduzione dal New York Post il 13 aprile 2022.

Frank James, 62 anni, l’uomo ricercato per la sparatoria nella metro di Brooklyn a New York in cui sono rimaste ferite 10 persone, è passato dall’essere una «persona di interesse» a un «sospetto». La polizia lo ha individuato grazie a un mazzo di chiavi rinvenuto sulla scena del crimine e subito ricondotto a un furgone parcheggiato alla stazione di Sunset Park della linea N della metro. 

Indagando sul sospetto, la polizia ha scoperto che l’uomo si era scagliato contro il sindaco Eric Adams realizzando alcuni video pubblicati su Youtube. «Signor Sindaco – dice in uno dei filmati – sono una vittima del suo programma di salute mentale. Ora ho 63 anni e sono pieno di odio, pieno di rabbia e pieno di amarezza».

«Eric Adams, Eric Adams, cosa stai facendo fratello? Cosa sta succedendo con questa situazione di senzatetto» ha detto riferendosi ai numerosi barboni che affollano la metropolitana. «Ogni macchina in cui sono andato era carica di senzatetto. Era così brutto che non riuscivo nemmeno a stare in piedi. Ho dovuto continuare a spostarmi da una carrozza all’altra». 

Nei video James ha raccontato di aver avuto una diagnosi di malattia mentale e si è scagliato contro quello che ha definito lo «spettacolo dell’orrore» dei servizi di salute mentale della città. «Quello che sta succedendo in quel posto è violenza» ha detto a proposito di una struttura in cui era in cura. «Non la violenza fisica, ma il tipo di violenza che subisce un bambino alle elementari.. che lo spingerebbe a prendere una pistola e sparare alle madri».

Poi James si è lamentata delle questioni razziali e ha detto che l’invasione dell’Ucraina era la prova che i neri erano trattati con disprezzo nella società. «Queste madri bianche, è questo quello che fanno. Alla fine, si uccidono e commettono un genocidio l’uno contro l’altro. Cosa pensi che faranno al tuo culo nero?». 

Nella sua sconclusionata teoria del complotto, James afferma che in Europa, al conflitto sarebbe seguita una guerra razziale. «È solo questione di tempo prima che queste madri bianche decidano: “Ehi, ascolta. Quando è troppo è troppo. Questi negri devono andare» ha detto.

«E cosa hai intenzione di fare? Combatterai. E indovina cosa? Morirai. Perché a differenza del presidente [Zelensky] in Ucraina, nessuno ti guarda le spalle. Il mondo intero è contro di te. E sei contro il tuo fottuto io. Allora perché dovresti essere di nuovo vivo è la domanda del cazzo. Perché un niger dovrebbe essere vivo su questo pianeta? Oltre a raccogliere cotone o tritare la canna da zucchero o il tabacco». 

L'unica opzione che James ha individuato – diceva nel video - era commettere più violenza o diventare un criminale. 

«E quindi il messaggio per me è: avrei dovuto prendere una pistola e iniziare a sparare ai figli», ha detto. «Oppure avrei dovuto farmi un po' di droga e iniziare a sparare o iniziare a colpire morsi in testa, derubare vecchiette, sai che ca... è».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 aprile 2022.

Mentre a New York è in corsa una vera e propria caccia all’uomo per individuare il responsabile dell’attacco alla metro di Brooklyn, i media iniziano a raccogliere le testimonianze di chi era presente. Per il momento la polizia sta cercando Frank James, 62 anni, individuato come «sospetto» per la sparatoria in cui sono rimaste ferite almeno 10 persone. 

Il passeggero Fitim Gjeloshi ha ricordato il momento in cui l'uomo armato ha riempito di fumo la carrozza della metropolitana prima di aprire il fuoco. «L'ho guardato e ho visto che parlava da solo per un po', ho pensato, “Questo ragazzo deve essere drogato”», ha detto al New York Post.

«Quando [il treno] stava per arrivare alla 36a strada, ci siamo fermati per 5 minuti. Ha tirato fuori una maschera antigas da uno dei suoi piccoli bagagli. Ha aperto uno dei suoi serbatoi di gas e ha detto: "Oops, colpa mia". Ha tirato fuori un'ascia, l’ha lasciata cadere, poi ha tirato fuori una pistola, e ha iniziato a sparare». 

«Un ragazzo proprio accanto a me è stato colpito dai proiettili. Diceva: "Aiuto! Aiuto!"», racconta Gjeloshi. «Ho detto a una persona di aiutarlo, di coprirgli il sangue. Ho saltato, ho sbattuto contro la porta e l'ho presa a calci con la gamba». 

I passeggeri terrorizzati hanno cercato di cambiare carrozza mentre l'uomo armato stava sparando ai passeggeri, ma la porta era chiusa a chiave. Quando il treno si è fermato alla stazione della 36a strada a Sunset Park, i passeggeri feriti sono stati visti sdraiati sul pavimento striato di sangue mentre l'uomo armato è fuggito.

Almeno 23 persone sono rimaste ferite nell'attacco, ma non sono state segnalate vittime. La polizia ha detto che 10 persone sono state colpite direttamente da colpi di arma da fuoco, cinque delle quali ricoverate in ospedale in condizioni critiche ma stabili, mentre altre 13 hanno sofferto di problemi respiratori o sono rimaste ferite in altro modo nello schiacciamento di passeggeri frenetici in fuga dal vagone della metropolitana piena di fumo. 

Hourari Benkada, 27 anni, un altro sopravvissuto alla sparatoria che si sta riprendendo in ospedale dopo essere stato colpito al ginocchio, ha detto di essersi seduto proprio accanto all'uomo armato.   

Benkada è "scioccato" e "traballante" e non sa se potrà mai più prendere la metropolitana. «Ero sulla 59a strada sul treno R in trasferimento al treno N sulla 59a, quindi ero nella prima carrozza, gli ultimi posti».

«Non stavo prestando attenzione, quindi sono entrato e basta. Mi sono seduto e l’uomo era proprio accanto a me, e tutto ciò che ho visto è stato un fumogeno nero che esplodeva e poi la gente che si precipitava sul retro», ha detto Benkada alla CNN. 

Si è fermato per aiutare una donna incinta ed è stato spinto dalla folla in preda al panico. Gli hanno sparato dietro il ginocchio destro, ma i medici si aspettano che torni a cammini dopo qualche settimana con le stampelle. 

«Stavamo cercando di sfondare la porta e il treno ha impiegato un'eternità per raggiungere la stazione. Una volta che le porte si sono aperte alla 36th St., ho sofferto così tanto», ha detto Benkada in un'intervista al New York Daily News.

Un altro passeggero, Fitim Gjeloshi, ha detto di ricordare il momento in cui l'uomo armato ha tirato fuori il fumogeno e ha detto: «Oops, colpa mia». Gjeloshi dice che l'uomo armato ha iniziato a sparare e che un proiettile lo ha mancato di poco. Ricorda di essere saltato sui sedili e di aver urlato alle persone di cambiare carrozza, ma la porta non funzionava. Dice che “ha preso a calci la maniglia della porta e l'ha fatta esplodere”. Penso che l'abbia pianificato apposta perché sapeva esattamente cosa stava facendo", ha detto Gjeloshi. 

New York, arrestato Frank James: era ricercato per la sparatoria in metropolitana. Camminava in strada.  La Repubblica il 13 Aprile 2022.   

E' stato riconosciuto da un passante che lo ha fotografato e ha allertato la polizia. Non ha opposto alcuna resistenza. Era già finito in manette dodici volte, ora è accusato di terrorismo.

L'autore dell'attacco alla metropolitana di New York, Frank James, è stato arrestato. Dopo l'annuncio dato dall'Abc e poi smentito, arriva la conferma. James è stato arrestato mentre camminava in strada come se nulla fosse: era nell'East Village di Manhattan. E' stato un passante a riconoscerlo a Canal Street e a fotografarlo con il cellulare, dando poi l'allarme a una pattuglia di poliziotti che ha blocatto James a St. Marks Place, tra North Houston Street e l'Ukrainian Village.  Ora rischia di trascorrere il resto della sua vita in carcere. Una delle accuse che pesa su di lui è quella di reato terroristico federale.

Lo ha raccontato la polizia di New York, che ha indetto una conferenza stampa. Ventiquattr'ore prima James aveva lanciato due granate lacrimogene e sparato ai passeggeri di un treno della linea N, a Brooklyn, fino a che la pistola non si è inceppata, ferendo dieci persone e provocando il ferimento indiretto di altre tredici. Frank James non ha opposto alcuna resistenza all'arresto.

Tutti i precedenti di Frank James

James era stato segnalato nel 2019 al sistema di monitoraggio anti-terrorismo dell'Fbi. Il 62enne afroamericano che su Internet pubblicava video farneticanti in cui inneggiava alla guerra razziale e rivolgeva attacchi a tutti neri, bianchi, ebrei e messicani, ricercato per la sparatoria di ieri nella metropolitana di New York. Secondo quanto ha rivelato Newsweek, James era stato inserito nel "Guardian lead system", il sistema di allerta gestito dalla divisione anti-terrorismo dell'Fbi, ma poi scagionato dopo una serie di interrogatori.

Era già stato stato arrestato più volte in passato. "Nove precedenti arresti fra il 1992 e il 1998 a New York, e tre in New Jersey", così la polizia di New York. La pistola con cui James ha attaccato nella metropolitana di New York, una Glock nove millimetri, è stata acquistata in Ohio.

Gli attacchi al sindaco di New York

Tra i video pubblicati da James, a cui si stava dando la caccia da ieri, preoccupano quelli che contengono minacce al sindaco di New York, Eric Adams: "Signor sindaco, sono vittima del suo programma per la salute mentale, ho 63 anni e sono pieno di odio, di rabbia e di amarezza", afferma in un video in cui critica anche il sindaco per non fare di più per gli homeless: "Eric Adams: che stai facendo fratello, che sta succedendo con gli homeless?". La polizia newyorkese ha rafforzato la sicurezza del sindaco dopo che sono emersi questi video, in cui James afferma che gli è stata diagnosticata mentale e definisce "un show dell'orrore" il sistema per l'assistenza mentale della città.

"Quel posto è violenza - ha detto - non violenza fisica, ma quello che i ragazzi sperimentano a scuola e che li spinge a prendere una pistola e sparare a tutti". Nei video pubblicati su You Tube, più volte James ha espresso l'intenzione di uccidere: "Non dimenticate, ho dovuto affrontare un sacco di m..., posso dire che voglio uccidere persone, voglio vederle morire subito di fronte ai miei fottuti occhi", ha detto nel video "Domesticated Averages" in cui afferma di "non voler finire in una fottuta prigione

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 14 aprile 2022.

I suoi sentimenti di odio, rabbia, amarezza. Il suo scivolare verso il buco nero della violenza: «Sto entrando in zona pericolo». E poi, alla vigilia dell'attacco nella metropolitana di New York di martedì mattina, il suo folle desiderio di uccidere, di fare strage, ma senza finire in prigione: Frank James, arrestato ieri mentre passeggiava nell'East Village di Manhattan, a pochi chilometri dal Sunset Park di Brooklyn dove era stato protagonista della sparatoria sotterranea su un vagone della linea N, aveva detto tutto, pubblicamente, sul suo canale YouTube: username «Prophetoftruth88».

In realtà nei suoi videomessaggi questo afroamericano di 62 anni che ora è accusato di terrorismo e rischia l'ergastolo, si definiva profeta di sventura, più che di verità. E il 6 aprile, qualche giorno prima della tentata strage (decine di feriti ma nessuna vittima e 33 colpi sparati dalla sua Glock prima che la pistola si inceppasse) aveva scandito il suo desiderio di vedere più sparatorie di massa, aggiungendo: «Il problema non è chi spara ma il contesto nel quale è costretto a vivere». 

I precedenti

La polizia, che dopo l'attacco e la fuga di James è riuscita a scoprire la sua identità e a ricostruire tutti i suoi spostamenti recenti fino ad arrestarlo in una delle zone più trafficate di Manhattan, in precedenza non era stata messa in allarme dai deliranti messaggi da lui disseminati in rete.

Ieri sempre la polizia ha spiegato che l'uomo «era stato arrestato 9 volte a New York tra il 1992 e il 1998 e altre tre volte nel New Jersey: nel 1991, 1992 e 2007. Non aveva però condanne penali, ecco perché ha potuto acquistare una pistola». 

Nel 2019, inoltre, James era stato interrogato dall'Fbi in New Mexico, non si sa ancora per quale motivo. I detective, però, l'avevano poi lasciato andare.

Le autorità di quello Stato lo avevano inserito in una lista di persone da sorvegliare, ma lui se ne era ben presto andato dal West americano trasferendosi a Milwaukee in Wisconsin. 

Dove i suoi vicini, interrogati ieri mattina, lo hanno descritto come un personaggio burbero, scostante, trasandato, ma non vissuto come una minaccia nel quartiere. Anche la sorella, rapidamente rintracciata, ha parlato di un uomo disturbato del quale lei non aveva più notizie da tre anni.

Idee deliranti

Anche a Milwaukee non si era trovato bene e, affittato un furgone, aveva iniziato il suo viaggio verso sud, fissando tutto su YouTube: il riconoscimento di essere affetto da una malattia mentale, secondo lui curata male dai servizi sanitari, la volontà di non tornare, non da vivo comunque, «tra la fottuta gente del Wisconsin», l'inclinazione per le teorie cospirative («non credo che le Torri Gemelle siano state abbattute da due aerei, ma, comunque, fu il giorno più bello della mia vita»), le idee deliranti sull'invasione russa dell'Ucraina, per lui prova del razzismo dei bianchi.

Ma, soprattutto, la sua rabbia sociale e il rapporto ambivalente con gli altri americani di colore: il fastidio per gli homeless che riempiono le carrozze del metrò e gli impediscono di passare da un vagone all'altro, le donne nere che sarebbero istigatrici della violenza che segna la sua comunità; ma poi gli afroamericani nei suoi monologhi diventano vittime del razzismo dei bianchi: «Buoni solo per raccogliere tabacco e canna da zucchero. Dovremmo poter vivere in un Israele nero senza contatto coi bianchi ma non ce lo fanno fare. È il razzismo che ci rende violenti». 

Frank se la prende col sindaco nero di New York: Eric Adams si è appena insediato, ma per questo personaggio instabile è lui il colpevole delle cure psichiatriche violente alle quali è stato assoggettato e della mancata soluzione del problema degli homeless . Infine le previsioni più cupe, dalla Terza guerra mondiale nucleare all'America «nazione nata dalla violenza, tenuta in vita dalla violenza e che morirà di morte violenta».

Sembrava il preannuncio di una fine violenta anche della sua vita dopo una fuga in luoghi remoti. Invece l'aspirante stragista, che aveva seminato altri indizi lasciando sul luogo della sparatoria una carta di credito e le chiavi del suo furgone, è rimasto in pieno centro città e si è lasciato catturare senza opporre resistenza mente passeggiava per St Mark' s Place dopo aver mangiato in un McDonald's della First Avenue dove qualcuno l'ha riconosciuto e ha avvertito la polizia.

Valeria Robecco per “il Giornale” il 14 aprile 2022.  

Dopo una caccia all'uomo senza tregua durata oltre 24 ore è stato arrestato il sospetto autore della sparatoria nella metropolitana di New York. L'afroamericano 62enne Frank James è stato fermato nell'East Village, fra St. Marks e la First Avenue. La polizia ha fatto sapere che è ufficialmente accusato di terrorismo. 

Due agenti lo hanno visto mentre camminava per strada come se nulla fosse e hanno fatto scattare le manette, a cui lui non ha opposto resistenza. In mattinata i media ne avevano annunciato l'arresto, poi si erano corretti, e la polizia aveva offerto 50.000 dollari a chi fosse in grado di fornire informazioni che portassero alla sua cattura, perché nella stazione a Brooklyn le telecamere non funzionavano.

Già martedì era emerso che James era il titolare della carta di credito usata per affittare il furgoncino legato all'attacco e trovato a pochi isolati dalla stazione di Sunset Park: il mezzo è stato ritirato a Philadelphia, dove l'uomo ha una delle sue residenze. Il capo dei detective della polizia di New York, James Essig, ha reso noto che James era stato arrestato nove volte nella Grande mela dal 1992 al 1998 per una serie di crimini tra cui furto, possesso di strumenti da scasso, reati sessuali. Altre tre era stato catturato nel New Jersey per violazione di domicilio, furto e condotta disordinata. Nonostante questo ha potuto acquistare legalmente una pistola in Ohio, nel 2011.

Sui social media, in particolare su YouTube, era presente con il nome «prophet of truth 88», da cui è emersa una personalità complessa. «Soffro di stress post-traumatico a causa di tutte le cose che ho passato nella mia vita», ha ammesso James in uno dei filmati definendosi un «profeta di sventura» animato periodicamente dal desiderio di uccidere e convinto della necessità di «più sparatorie di massa». 

Nei suoi video l'uomo ha ripercorso fatti di attualità, ma il tema comune era la sua rabbia contro gli afroamericani. Fra questi il sindaco di New York Eric Adams, a suo parere «destinato a fallire». In alcune clip ha parlato di «guerra di razza», in altre del problema dei senzatetto e della Grande Mela. Inoltre sembrava raccontare di aver sperimentato il sistema di salute mentale della metropoli e di aver subito violenze emotive che avrebbero potuto spingere qualcuno a «impugnare la pistola e sparare».

Il giorno prima dell'attacco ha confessato la sua voglia periodica di uccidere spiegando però di non voler finire in carcere, ma particolarmente utile per gli investigatori è stato soprattutto un video del 20 marzo, in cui ha illustrato i suoi spostamenti, riferendo di aver impacchettato i suoi averi a Milwaukee e di essere diretto a Philadelphia, descritta come una «zona pericolosa» in grado di far scattare «molti pensieri negativi». 

Intanto stanno continuando ad emergere dettagli sui minuti di terrore nella metro: all'interno del vagone James ha estratto dal suo zainetto una bomboletta fumogena. Poi ha indossato la maschera antigas e ha iniziato a sparare. Almeno 33 colpi prima che la pistola, una Glock 9 millimetri, si inceppasse. A quel punto l'uomo è scappato. Alla fermata della metro oltre alla pistola è stata trovata una borsa con le chiavi del furgoncino, munizioni, un'accetta, fuochi d'artificio e un contenitore con della benzina. «Siamo stati fortunati, poteva andare molto peggio», ha commentato il capo della polizia di New York Keechant Sewell parlando dei 23 feriti, di cui nessuno è in pericolo di vita.

Valeria Robecco per “il Giornale” il 13 aprile 2022.

La sparatoria nella metropolitana di New York è solo l'ultimo episodio di violenza che ha sconvolto la Grande Mela e in generale le città americane, rilanciando ancora una volta il dibattito sulla sicurezza.

L'appello a riportare l'ordine è arrivato in questo caso dalla governatrice Kathy Hochul, la quale ha promesso che impegnerà «tutte le risorse dello stato per fermare il boom dei crimini e tornare alla normalità». 

Ma è anche l'obiettivo principale del neo sindaco Eric Adams, alle prese con una recrudescenza criminale che sta caratterizzando la città da anni e in particolare dopo la pandemia di Covid, riportando alla memoria la metropoli violenta degli anni Ottanta.

Adams, ex agente di polizia, ha fatto della lotta al crimine armato un obiettivo centrale della sua campagna elettorale prima e della sua amministrazione poi.

Di recente ha reintrodotto la controversa unità anti-crimine sciolta nel 2020 e ribattezzata Neighborhood Safety Teams, la squadra con agenti in borghese assegnati a 30 distretti di polizia in quartieri dove si verificano l'80% dei reati violenti a Nyc. 

Agenti che ha assicurato saranno addestrati per l'impiego dell'uso minimo della forza in modo da evitare di commettere gli errori del passato, quando sono stati accusati di eccessiva violenza. Intanto, però, la situazione della sicurezza a New York è drammaticamente peggiorata: un aumento di crimini arrivato dopo che la violenza armata ha raggiunto i minimi storici nel 2018 e nel 2019.

Dopo il lockdown per la pandemia, invece, i newyorkesi hanno ritrovato una metropoli decisamente più pericolosa di quanto non fosse prima del marzo 2020. E tanti, negli ultimi mesi, sono stati anche gli episodi di violenza avvenuti nella metropolitana di New York. In generale il trend è spaventoso, e ha portato il tasso di criminalità di New York ad aumentare del 45% nel febbraio 2022 rispetto allo stesso periodo del 2021. I crimini riguardanti i trasporti, per esempio, sono passati da 102 a 168, mentre le aggressioni sono salite del 13%. 

Secondo le statistiche dell'Nypd anche i reati d'odio hanno registrato un aumento enorme, segnando un +100% dalla fine dell'anno passato rispetto a quello precedente, creando un forte clima di violenza in città. Tra questi spiccano gli attacchi, immotivati e spesso barbari, contro gli asiatici -americani, tante volte commessi da afroamericani. 

Crimini aumentati esponenzialmente, anche in questo caso, dall'inizio della pandemia: nel 2021 rispetto al 2020, infatti, le persone di origine asiatica nella City hanno subito un incremento del 361% nelle aggressioni, che sono passate da 28 a 129. Mentre uno dei più alti dirigenti di Bank of America nei mesi scorsi ha fatto circolare un'email fra i dipendenti più giovani chiedendo di vestirsi sottotono quando vanno in ufficio in modo di dare nell'occhio il meno possibile, cercando di non diventare vittime dei delinquenti.

A far scattare la direttiva è stato un incidente avvenuto vicino alla sede centrale della banca, in prossimità del centralissimo Bryant Park, quando un uomo con in mano un coltello ha minacciato alcuni dipendenti della banca mentre varcavano il portone dell'edificio.

In realtà il boom di crimini riguarda tantissime grandi città americane: basti pensare che nel 2020 gli Stati Uniti hanno registrato il più alto incremento di omicidi dal 1960, quando si è cominciato a rilevare il numero al livello nazionale, con una crescita del 29% di casi.

Tra le cause sicuramente ci sono i problemi causati dalla pandemia, ma anche e soprattutto un l'aumento della sfiducia tra forze dell'ordine e parte della cittadinanza dopo l'omicidio dell'afroamericano George Floyd a Minneapolis, e le richieste del movimento Black Lives Matter di ridurre i finanziamenti alla polizia. Un trend che purtroppo ha contagiato anche New York dopo gli otto anni dell'amministrazione di Bill de Blasio con le sue scellerate politiche del «de fund the police» (tagliare i fondi della polizia), e che ora rappresenta una delle maggiori sfide del nuovo primo cittadino.

Da liberoquotidiano.it il 15 febbraio 2022.

Avril Haines, 52 anni, è prima donna della storia a capo delle spie americane: è la direttrice del National Intelligence che racchiude tutte le diciassette agenzie investigative d'America. 

Haines ha convinto il presidente Joe Biden del bluff dei generali russi, mostrando "le immagini riprese dai satelliti commerciali che documentano le manovre delle truppe al confine dell'Ucraina e il piano di Mosca di mettere in rete un finto video di atrocità per giustificare l'invasione", rivela Repubblica.

Nata a New York nel '69 Haines è cresciuta nell'Upper West Side di Manhattan, iscritta all'Università di Chicago per studiare fisica teorica, andò a Baltimora per studiare alla Johns Hopkins University, ma la lasciò subito per aprire una libreria indipendente che vinse il premio come migliore libreria indipendente e diventò un cult per la presenza di una ricca sezione di letteratura erotica.

"La gente vuole sempre più avere sesso senza farlo, cerca nuove fantasie per rianimare una relazione. La letteratura erotica offre spontaneità, brivido e a volte salva il rapporto", aveva detto all'epoca del suo lavoro in libreria.

Entrata nel circuito delle corti d'appello, divenne consigliere legale per il dipartimento di Stato. Nel 2013 il presidente Obama la chiamò per assegnarle, prima donna nella storia, il ruolo di vicedirettore della Cia.

Silurata da Donald Trump è stata consulente di politica estera per la campagna presidenziale di Biden. Da capo degli 007 è diventata esperta di Russia. "Conosce la forza della matematica, l'eros della letteratura e, proprio come Putin, un po' di judo. Non la migliore notizia per un uomo che a Mosca è considerato una rock star", scrive Repubblica. 

E chissà che il suo profilo sia quello giusto per provare ad arginare la crisi Russia-Ucraina, che spaventa molti. 

Allison Fluke-Ekren, chi è l’insegnante del Kansas che guidava un battaglione dell’Isis. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 30 gennaio 2022.  

Americana, 42 anni, era andata a vivere in Egitto, poi in Libia, infine in Siria, dove comandava un battaglione di donne e minori e pianificava un attentato in un college americano. Arrestata, è stata rimpatriata: rischia una dura condanna 

Aspirazioni da militante, madre e combattente, vedova nera, responsabile di un’unità femminile dello Stato Islamico: questo il percorso di guerra di Allison Fluke-Ekren, ex insegnante americana arrestata e riportata negli Usa. La storia inizia in Kansas, dove Allison è nata 42 anni fa. La sua professione è l’insegnamento ma la sua passione è un’altra, segue posizioni islamico-radicali e nel 2008 va vivere in Egitto, la prima tappa di una migrazione classica per chi insegue la Jihad. Il trasferimento rappresenta un passo per «unirsi alla carovana». Dopo tre anni si sposta in Libia e nel 2012 si muove ancora insieme al marito verso la Siria, una decisione legata ad un aspetto particolare che dice molto sulla personalità: all’epoca era nei ranghi della fazione Ansar al Sharia ma quando la dirigenza del gruppo assume una linea cauta lei cerca altri fronti, dove possa praticare realmente la lotta armata.

La statunitense, con al fianco il marito, si unisce all’Isis e porta in dote quasi 15 mila dollari con i quali compra armi. Da quel momento inizia la seconda fase. Il compagno assume la guida di unità di tiratori scelti mentre lei è impegnata in prima persona in attività militari. Per la coppia è una vita intensa, dura, fatta di battaglie, attività sul campo. Non c’è tregua, i militanti sono all’offensiva, tutti devono contribuire al sogno, a qualsiasi costo. Ed è ciò che accade: l’uomo è ucciso durante un assalto. La morte è messa in conto da chi abbraccia la causa, è solo un episodio che può persino rafforzare la determinazione. Allison si sposa di nuovo — questa volta ad un mujahed del Bangladesh esperto di droni — ma anche lui diventa presto un «martire».

L’americana non resta sola perché celebra un terzo matrimonio con un comandante del settore di Raqqa. Legami familiari rinsaldati dalla comune esperienza nel movimento perché la donna assume un ruolo significativo. Lo Stato Islamico affida all’ex insegnante la leadership del battaglione Khatiba Nusaybah, composto da donne e minori. Allison è attenta alla formazione delle reclute, secondo testimonianze addestra i bambini — compresi i suoi figli — all’uso di fucili e bombe a mano. Nel 2014 — altra accusa — progetta un piano per colpire con un’azione suicida un college negli Usa e lo presenta al Califfo, Abu Bakr al Baghdadi. Il numero uno – sempre secondo la ricostruzione – autorizza l’attentato, fornisce i fondi solo che l’operazione è annullata.

Allison è di nuovo incinta, impossibile portare avanti il progetto. Durante la sua permanenza nel territorio amico la donna ha contatti con la famiglia nel Kansas e, come altri volontari, cerca di diffondere la notizia di un suo decesso. Una tattica per allontanare sospetti e attenzioni. Ma la manovra non riesce perché alla fine l’hanno scovata. La terrorista è stata catturata in circostanze che per ora non sono state chiarite e le autorità federali statunitensi l’hanno subito presa in consegna per poi trasferirla in Virginia, dove ora l’attende un processo. Rischia una condanna pesante.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 6 febbraio 2022.  

Nel pomeriggio del 4 agosto 2001, il ventenne saudita Mohammed al-Qahtani atterrava a Miami con un volo proveniente da Dubai. L'ufficiale dell'immigrazione che studiò il suo passaporto trovò abbastanza elementi sospetti sul suo nome e sul suo visto da decidere di rimandarlo indietro con il volo seguente.

Quell'ufficiale ci aveva visto giusto. Lui non lo sapeva, ma ad accogliere al-Qahtani, in sala d'attesa, c'era Mohammed Atta, il leader della squadra terrorista che di lì a 38 giorni avrebbe colpito le Torri Gemelle a New York e il Pentagono a Washington. Al-Qahtani avrebbe molto probabilmente dovuto essere il quinto membro del manipolo che si impossessò del volo 93 della United, l'unico aereo dirottato da una squadra di quattro terroristi anzichè cinque come fu il caso degli altri tre. 

Invece, tornato a casa, il giovane si recò in Afghanistan per combattere gli americani insieme ai membri di al-Qaeda. Fu catturato nel dicembre 2001, e subito portato nella prigione di Guantanamo. E' stato detenuto 21 anni. Ma fra pochi mesi sarà riconsegnato all'Arabia Saudita. Il suo è uno dei casi più tragici e angoscianti fra i 700 casi di internati nella prigione extraterritoriale voluta da George Bush nel gennaio del 2002 e gestita dalla Marina. 

Il suo avrebbe potuto essere un caso esemplare per la giustizia, un processo diretto e facile. Ma al-Qahtani non è mai stato processato e non lo sarà mai. Fa parte di quei casi che la Cia torturò, inquinando il diritto della Giustizia di muoversi ufficialmente contro di lui. Il trattamento che gli agenti Cia riservarono al giovane terrorista fu così estremo che la funzionaria dell'Amministrazione Bush che aveva l'incarico di supervisionare l'attività delle Commissioni Militari (tribunali misti militari-civili) disse senza esitazioni: «Non può essere incriminato. Lo abbiamo torturato».  

Al-Qahtani aveva confessato, ma lo aveva fatto dopo settimane in cui era stato sottoposto a waterboarding (una tortura in cui si espone forzatamente l'individuo a un finto annegamento fino al momento in cui quasi perde i sensi), finte esecuzioni, privazione del sonno e dell'acqua, freddo intenso in totale nudità, umiliazioni sessuali. 

Già una persona normale resterebbe segnata psicologicamente in modo irreversibile da simili trattamenti, ma al-Qahtani aveva l'aggravante di soffrire di schizofrenia per una concussione cerebrale subita da bambino. Gli stessi psichiatri della base sono giunti alla conclusione che la sua instabilità mentale è stata gravemente peggiorata da questo trattamento. E comunque le confessioni estratte con la tortura non possono essere portate in tribunale. 

Dopo due decenni di prigionia senza speranza di una soluzione legale, una commissione di tutti gli enti della Sicurezza, incluso il Pentagono, è giunta dunque alla conclusione che l'unica strada per al-Qahtani è in rientro nella natia Arabia Saudita, dove la famiglia si prenderebbe cura di lui e le autorità lo ricovereranno in un centro psichiatrico specializzato nel recupero di estremisti. 

Sarà solo il secondo prigioniero di Guantanamo rilasciato da Biden, l'altro è stato il 56enne marocchino Abdul Latif Nasser, lo scorso luglio. Il presidente si è sempre detto favorevole alla chiusura di Guantanamo, e anzi durante la presidenza di Obama fu incaricato di facilitare personalmente il rientro di decine di prigionieri e contrattò con vari Paesi perché quest' ultimi potessero essere rimandati in patria. 

Ma la chiusura di questa prigione che Bush creò per poter incarcerare i terroristi senza portarli in territorio statunitense, è una spina nel fianco dei democratici. Bush stesso rimandò a casa quasi 500 degli uomini che vi aveva fatto rinchiudere. Obama tentò ripetutamente di liquidarla e trasferire quelli che restavano in un carcere di alta sicurezza negli Usa, a fu rintuzzato al Congresso che glielo vietò. Biden ha promesso a sua volta di farlo.  

Oramai in quella base navale Usa in un angolo dell'isola di Cuba rimangono solo 39 detenuti. Diciannove potrebbero essere rimandati a casa se non fosse che per almeno una decina di loro i Paesi di origine, Yemen e Somalia, non offrono garanzie. Altri dieci sono in attesa di processo o in corso di processo, e fra questi la mente dell'Undici Settembre, Khalid Sheik Mohammed. 

Un processo che va a rilento non solo per la pandemia, ma anche perché lui stesso fu torturato, e i legali devono destreggiarsi fra informazioni ammissibili in tribunale e quelle invalidate dal peccato originale delle sevizie.

Venti anni di Guantanamo: l’abisso creato dagli Stati Uniti. Lorenzo Vita su Inside Over l'11 gennaio 2022.

Torture, abusi, tute arancioni, filo spinato una guerra al terrorismo realizzata senza alcun rispetto del diritto dei detenuti. Per il mondo, Guantanamo è semplicemente questo: un campo di prigionia tra i peggiori al mondo. Un luogo di detenzione che il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e prima di lui Barack Obama, avevano promesso di chiudere. E che invece è rimasto. Quasi un monito: un continuum nel tempo. Guantanamo resiste, e con essa le contraddizioni e le storture del sistema americano che per anni ha trattato quei detenuti speciali come prigionieri di guerra, la “guerra al terrorismo” per l’appunto, senza alcun rispetto dei diritti.

Una macchia per una potenza che fa della sua essenza democratica e del rispetto dei diritti universalmente riconosciuti come emblema della sua leadership mondiale. Ed è anche in questa incoerenza di fondo che si cela un simbolo, pur drammatico, come appunto è stato e continua a essere il campo di Guantanamo. Un incrocio in cui si intersecano tutte le contraddizioni dell’America e che rendono quella baia, e la base al suo interno, uno dei grandi nodi di Washington agli occhi dell’opinione pubblica mondiale.

Guantanamo: simbolo di una storia

Per molti storici è proprio lì, nell’attuale base navale sull’isola di Cuba, che inizia quello che è chiamato l’imperialismo americano, cioè quella fase di interventismo e di espansione territoriale e di influenza che ha caratterizzato gli Stati Uniti dalla fine del XIXI a tutto il Ventesimo secolo. Per molti la sua importanza è soprattutto legata al periodo più recente e alle perplessità di come sia possibile che una potenza che si proclama baluardo dei diritti umani possa ammettere un luogo in cui il diritto non esiste. Dove tutto è lasciato a un senso di impunità, di ingiustizia e di senso di oppressione.

Ma forse è proprio questo a rendere Guantanamo qualcosa di più di un base o di un campo di prigionia. E la sua storia, come la sua triste fama, accompagna in un percorso parallelo e oscuro anche le scelte politiche della potenza democratica per eccellenza: gli Stati Uniti.

Guantanamo, infatti, per certi versi nasce insieme alla scoperta degli Usa come potenza continentale. Una base concessa dal governo di Cuba a Washington dopo quella guerra ispano-americana che condannò la Spagna al declino definitivo dei suoi possedimenti coloniali e che fece sorgere una nuova potenza – indiscussa e indiscutibile – all’interno del mondo americano. Talmente indiscutibile che l’America, un tempo intesa come continente, divenne sinonimo di un solo Paese, gli Stati Uniti appunto.

A Cuba e nel mondo è accaduto di tutto da quel lontano 1903, anno in cui il presidente cubano Tomás Estrada Palma ringraziò gli Stati Uniti concedendo in affitto perpetuo quel lembo di terra della sua patria. L’Avana, da capitale di una sorta di protettorato Usa, si è trasformata nella centrale del socialismo sudamericano in lotta contro l'”imperialismo” americano. C’è stata la crisi dei missili, è caduto il Muro di Berlino, l’Unione Sovietica si è dissolta e anche Cuba ha perduto Fidel Castro e quell’ortodossia che per decenni l’ha contraddistinta. Eppure la base è rimasta: anche a costo “zero” per Washington. Nessuno ha osato davvero toccarla, per evitare una guerra, certo, ma anche con la sensazione che Guantanamo per certi versi era e resta un avamposto di un mondo che non è solo una base navale, ma la fotografia di un sistema politico e di rapporti di forza.

Il campo di prigionia della “guerra al terrore”

La fama di Guantanamo si deve oggi soprattutto alla scelta dell’amministrazione di George W. Bush di utilizzare la base come un campo di prigionia per le persone arrestate dopo l’11 Settembre 2001. Era l’inizio della guerra al terrore. Il Terrore, quello con la T maiuscola, che aveva colpito al cuore gli Stati Uniti e per cui per la prima volta si scatenò un conflitto che non aveva solo l’idea della vendetta, ma anche dell’inizio di una campagna universale contro un nemico invisibile. L’avversario anonimo, quello della porta accanto, quello di cui nessuno più poteva fidarsi. Un nemico nuovo e senza uno Stato che si potesse combattere. Il suo centro era una organizzazione votata al terrorismo di matrice islamista. E per contrastare questo avversario, il governo aveva bisogno di un luogo in cui il prigioniero andava condotto per confessare e espiare la sua pena: con un metodo e in luogo che non doveva essere solo un monito per gli altri adepto ad Al Qaeda e alle organizzazioni del terrore, ma anche come garanzia verso l’opinione pubblica dell’azione delle forze Usa.

Dal 2002, esattamente venti anni fa, inizia così la nuova terribile vita di Guantanamo. Non più solo una base navale statunitense a Cuba, ma una prigione per i detenuti più pericolosi – o presunti tale – di questa guerra contro il terrorismo islamico. All’inizio tutto ruotava intorno a “Camp X-Ray”, chiuso dopo appena tre mesi”, e oggi tutto inserito all’interno del sistema di “Camp Delta” e di altri campi di prigionia.

Nel tempo si sono poi aggiunti altri luoghi resi pubblici solo dalle dichiarazioni di ex detenuti e di ex agenti che lavoravano all’interno del campo: tra tutti “Camp No”, uno dei luoghi più oscuri, collegato a episodi di detenuti poi dichiarati morti; e Penny Lane, il luogo dove Associated Press raccontò che venivano condotti i “combattenti” che potevano essere arruolati come spie.

Torture e privazioni: il “buco nero” degli Stati Uniti

Il governo americano fece subito capire che quello non era un centro di detenzione come gli altri. I primi detenuti, una ventina, arrivarono lì a bordo di un aereo militare e non avevano alcun tipo di diritto paragonabile a quello anche delle peggiori carceri in territorio americano. Da un punto di vista legale iniziarono immediatamente a circolare prima voi poi provvedimenti in cui di fatto Guantanamo era esclusa dalla giurisdizione Usa e che quei detenuti erano prigionieri di guerra che non avevano però possibilità di essere ricondotti sotto la convenzione di Ginevra. Un “buco nero” legale che nel tempo si è arricchito di prigionieri non solo spesso illegalmente catturati (erano gli anni delle “extraordinary renditions” ideate da Donald Rumsfield) ma anche innocenti e riconosciuti come tali solo dopo anni di abusi. In larga parte non vi sono stati nemmeno capi di imputazione o rinvii a giudizio. Violazioni delle più elementari regole processuali furono segnalate già all’inizio della vita di questo campo di prigionia direttamente dall’Organizzazione delle Nazioni Unite. Ma sono stati soprattutto i testimoni che hanno potuto lasciare la prigione a descrivere quello che accadeva a Guantanamo.

Impossibile elencare in modo esaustivo i metodi descritti dagli ex prigionieri che hanno passato anni nella base senza alcuna accusa. Per anni non avevano neanche diritto a un processo regolare, con l’eliminazione di uno dei diritti più sacri della Costituzione americana come quello dello habeas corpus. Molti detenuti, la maggior parte, per diverso tempo non hanno avuto nemmeno diritto a un rappresentante legale: erano uomini completamente in balia delle guardie carcerarie e dell’intelligence. Oltre a questa totale assenza di diritti processuali, si aggiungeva poi la pessima condizione di vita e i metodi utilizzati per estorcere informazioni ai prigionieri. L’annichilimento delle persone catturate e detenute nel campo era totale.

Chi ha potuto raccontarlo, ha parlato di “waterborading”, la tortura dell’acqua che prevede l’annegamento un attimo prima di rimanere completamente senza respiro, torture psicologiche e fisiche, violenze sessuali, pratiche degradanti, minacce, pestaggi, cambi repentini di temperature, dal caldo bollente al gelo, musica assordante, metodi di persecuzione religiosa. Chi non parlava, i più duri come chi non aveva semplicemente nulla da dire, veniva costretto in celle grandi quanto la propria persona e rimanere lì per giorni. C’è chi veniva costretto a digiuni prolungati, chi ha detto di essere stato drogato, chi torturato con sveglie nel cuore della notte e interrogatori senza fine per giorni. Tanti sono stati privati del sonno. In un rapporto della task force medica che si è occupata della condizione dei prigionieri di Guantanamo si è giunti alla conclusione che la Cia aveva costretto il personale sanitario a fare di tutto per controllare quelle torture, capire in che modo far sopravvivere le persone abusate e torturate, fino ad arrivare all’alimentazione forzata.

Le denunce il vero male del campo

Per anni queste torture sono state denunciate da giornali, politica, associazioni legali, associazioni per il rispetto dei diritti umani, e organizzazioni internazionali. Molti esponenti di spicco del Pentagono e delle amministrazioni statunitensi che si sono succedute nel tempo hanno promesso cambiamenti sensibili nel trattamento dei detenuti. Eppure quel mostro non è mai stato abbandonato e non ha mai interrotto il suo terrificante lavoro. Un campo che era partito con l’idea di essere il luogo in cui gli Stati Uniti avrebbero punito gli autori e i complici degli attentati dell’11 Settembre, e che invece si è trasformata nel simbolo di un Paese che non è riuscito a sfuggire alla logica della vendetta. Non un faro di civiltà in cerca di giustizia, ma un sistema assetato a sua volta di terrore.

Come ha scritto Domenico Quirico su La Stampa, “il peccato originale di Guantanamo e della guerra al terrorismo, è nel fatto che una democrazia non ha saputo trovare una forma di giustizia per punirli senza a sua volta commettere ingiustizie. Senza diventare come loro”. Purtroppo la storia sembra non avere avuto alcun tipo da lezione. L’Afghanistan è stato abbandonato dopo venti anni di guerra. Guantanamo, che doveva essere una sorta di laboratorio di giustizia interna, si è trasformata oggi nell’ultime eredità di una crociata, come era definita dai sostenitori del conflitto più duro, che non ha visto vincitori né vinti.

L’Ingiustizia. Philadelphia, la polizia rivela dopo 65 anni l'identità del bambino trovato morto in una scatola. Marco Bruna su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.  

Quello di Joseph Augustus Zarelli, quattro anni, era considerato «uno dei più antichi omicidi irrisolti». Adesso la svolta: sul caso di «Boy in the Box» è stato messo in campo un minuzioso lavoro investigativo e analisi approfondite del Dna. Le indagini sul possibile omicida sono ancora in corso

Un cold case che risale al 1957, una storia che ha per protagonista un bambino di quattro anni. Il suo corpo venne trovato in una scatola a Philadelphia. Il Dipartimento di polizia della città lo ha sempre definito uno «dei più antichi omicidi irrisolti». Fino a ora.

Quel corpo è stato infatti identificato: si tratterebbe di Joseph Augustus Zarelli. È la svolta che si aspettava da decenni, resa possibile grazie a un minuzioso lavoro investigativo e ad analisi approfondite del Dna con tecnologie all'avanguardia (sistemi che hanno permesso di mettere la parola fine a numerosi altri cold case).

Bisogna intanto riavvolgere il nastro alla fine di febbraio 1957, quando il corpo nudo e senza vita del bambino venne scoperto avvolto in una coperta dentro una scatola di cartone, con addosso segni che il commissario della polizia Danielle Outlaw ha definito «recenti e datati».

Il caso finì sui giornali, l'opinione pubblica inorridì. Il mistero diventò ancora più mistero perché nessuno denunciò la scomparsa di Joseph Augustus: quello era apparentemente un bambino senza genitori.

«Per sessantacinque anni, la storia del "bambino americano senza nome" ha perseguitato questa comunità, il dipartimento di polizia di Philadelphia, la nostra nazione e il mondo», ha detto Outlaw durante una conferenza stampa, giovedì. «Nonostante l'identità di Joseph Augustus Zarelli sia stata rubata, questo bambino non è mai stato dimenticato».

Il 25 febbraio 1957 Joseph fu ritrovato vicino a Susquehanna Road, in una zona boscosa della città. «Era chiaro», ha detto Outlaw ai giornalisti, «che il bambino aveva sperimentato orrori a cui nessuno, nessuno dovrebbe mai essere sottoposto». Era stato «pesantemente picchiato», i suoi capelli «tagliati in maniera grossolana».

L'autopsia ha confermato che Joseph Augustus Zarelli aveva intorno ai quattro anni e ha messo in evidenza «molteplici abrasioni, contusioni, emorragie e versamenti pleurici», ha continuato Smith. «Ferite causate da un corpo contundente».

Gli investigatori hanno inseguito e scartato centinaia di indizi: a un certo punto sembrava che il ragazzino fosse un rifugiato ungherese, una pista portava invece a un bimbo rapito fuori da un supermercato di Long Island nel 1955. Sotto la lente dei detective sono finiti una coppia di operai e una famiglia che gestiva un centro di adozioni. Ma ogni traccia portava in un vicolo cieco. Così, oltre mezzo secolo dopo, le indagini su chi si sia il responsabile sono ancora in corso.

«Abbiamo i nostri sospetti su chi potrebbe essere, ma sarebbe irresponsabile da parte mia rivelarli, poiché c'è un'indagine in corso», ha dichiarato il capitano Jason Smith dell'unità omicidi della polizia di Philadelphia. Spera che la scoperta dell'identità scateni la risposta e l'aiuto della popolazione, ma ha ammesso che la risoluzione del caso è ancora lontana.

«Magari non arresteremo mai nessuno, ma faremo tutto il possibile per mettere la parola fine a questa storia».

Da repubblica.it il 31 ottobre 2022.

Hanno trascorso 20 anni in carcere con una accusa infame. Aver assassinato nel febbraio 1965, con 21 colpi di pistola, il leader afroamericano e attivista dei diritti civili Malcolm X mentre arringava una piccola folla all'interno dell'Audubon Theatre di Harlem, New York. 

Mezzo secolo dopo, Muhammad Aziz e Khalil Islam, le persone che furono accusate di quell'orrendo crimine attraverso indagini sommarie e omissioni di prove da parte dell'Fbi e della polizia di New York riceveranno dalla città di New York circa 26 milioni di dollari più 10 milioni di dollari dallo stato di New York come risarcimento delle loro vite bruciate. O meglio, li riceverà Aziz, perché Islam è morto.

Già da tempo sono stati riconosciuti innocenti e un anno fa sono stati completamente riabilitati. Quei soldi saranno divisi fra Aziz, liberato nel 1985, che ora ha 84 anni. Mentre l'altra metà andrà al fondo creato in nome di Khalili Islam: rilasciato nel 1987 e morto nel 2009 a 74 anni "che non ha mai saputo mai che la sua reputazione è stata restaurata", come ha ricordato l'avvocato David Shanies, loro legale.

A tendere un'imboscata al leader nero in quel lontano 1965, fu un gruppo di uomini che iniziò a sparare proprio mentre Malcolm X si avviava sul palco. Uno di loro, Abdul Halim - allora conosciuto come Talmadge Hayer - fu ferito, bloccato e arrestato sul posto. Aziz e Islam furono invece fermati giorni dopo: riconosciuti sulla base di testimonianze pur contraddittorie e vaghe. All'epoca i due avevano 30 anni e 26 anni e facevano parte del "servizio d'ordine" della Nation of Islam, il gruppo religioso di cui Malcolm X era stato a lungo affiliato, salvo rompere pubblicamente (e platealmente) col suo controverso leader Elijah Muhammad.

Col tempo si è scoperto che non c'era nessuna prova che i due fossero legati ad Halim. Tanto più che pure questo ha sempre negato di aver cospirato con loro. Non basta: entrambi avevano alibi. Al momento dell'omicidio erano a casa con le famiglie e gli amici. Ma le loro testimonianze non vennero prese in considerazione. Aziz era addirittura ferito alle gambe, e impossibilitato a muoversi (a causa di un pestaggio subito dalla polizia). Con tanto di cartelle cliniche dell'ospedale a dire nero su bianco che era stato curato proprio il giorno dell'omicidio e che non era in grado di stare in piedi da solo.

Nonostante la mancanza di prove, Aziz e il signor Islam furono ugualmente condannati all'ergastolo nel 1966. E per quasi vent'anni sono rimasti rinchiusi, spesso in isolamento, nell'infame carcere di Attica, reso celebre da una violenta rivolta (raccontata anche in un famoso film). Solo nel 1977 Halim cominciò ad identificare i suoi veri compagni, accusando William Bradley, Leon Davis, Benjamin Thomas and Wilbur McKinley. Tutti legati alla moschea della Nation of Islam di Newark, New Jersey.

Ma ci volle ancora del tempo affinché i due innocenti, che nel frattempo avevano adottato nomi islamici, venissero rilasciati (e sulla parola, cioè ancora considerati sospetti). Negli anni, il lavoro di numerosi storici e giornalisti ha definitivamente determinato la loro innocenza. 

Da lastampa.it il 29 ottobre 2022.

Scagionato da un test del Dna dopo 38 anni di carcere in California per un omicidio che non ha commesso. Maurice Hastings, che ha sempre proclamato la sua innocenza, è stato rilasciato a 69 anni. Era stato accusato dell'omicidio di Roberta Wydermyer avvenuto nel 1983, e di due tentati omicidi. La condanna era stata pronunciata nel 1988 ma il giudice distrettuale della contea di Los Angeles, George Gascón, l’ha annullata lo scorso 20 ottobre.

«Quello che è accaduto ad Hastings è un’ingiustizia terribile», ha affermato Gascon. «Ho pregato per molti anni che questo giorno arrivasse. Al momento in me non c'è amarezza, ora voglio solo godermi quel che resta della mia vita», ha dichiarato invece Hastings, in una conferenza stampa dopo il rilascio. Aveva richiesto il test del Dna nel 2000, ma in un primo momento tale richiesta era stata negata. Lo scorso giugno, è emerso che il Dna recuperato sulla scena del delitto combacia con quello di un uomo morto nel 2020 mentre scontava una condanna per rapimento e stupro. 

L'omicidio di Roberta Wydermyer

La vittima era stata aggredita sessualmente e poi uccisa con un solo colpo di pistola alla testa. Il suo corpo era stato trovato nel 1983 nel bagagliaio del suo veicolo in un sobborgo di Los Angeles. Per l'omicidio era stato accusato Hastings, che però si è sempre professato innocente. L'accusa aveva chiesto per lui la pena di morte, ma poi era stato condannato all'ergastolo. Al momento dell'autopsia, sul corpo erano state rinvenute tracce di sperma: Hastings aveva chiesto un test del Dna nel 2000. Richiesta che però era stata respinta dal procuratore distrettuale.

A giugno di quest'anno, invece, è riuscito a ottenere il test, il quale ha dimostrato che il profilo del Dna corrispondeva a un altro uomo, già condannato per il rapimento di un'altra donna – anche lei ritrovata dentro il bagagliaio di un'auto – e che era morto in carcere nel 2020.

La storia dagli Stati Uniti. Adnan Syed, scarcerato 23 anni dopo le accuse di omicidio: il caso ‘riaperto’ grazie al podcast Serial. Carmine Di Niro su Il Riformista il 20 Settembre 2022 

Ci sono voluti 23 anni e soprattutto la ‘viralità’ di un podcast di estremo successo per ottenere giustizia e uscire dal carcere. È la storia che arriva dagli Stati Uniti e vede protagonista Adnan Syed, un uomo di 41 anni che dopo 23 anni dietro le sbarre per l’omicidio dell’ex fidanzata è finalmente uscito da un penitenziario. 

Ieri Melissa Phinn, giudice di Baltimora, ha rimesso Adnan in libertà. Aveva solo 18 anni quando venne condannato all’ergastolo per l’omicidio della liceale Hae Min Lee, una diciottenne di origine coreana che stata strangolata e seppellita in un parcheggio. Adnan, all’epoca dei fatti 17enne, professò immediatamente la sua innocenza: i giudici però non gli credettero, condannandolo al massimo della pena. 

Ventitré anni dopo, rispondendo a una mozione della parte civile, la giudice Phinn ha revocato la pena “nell’interesse della giustizia”. Syed è stato messo agli arresti domiciliari e non è ancora chiaro se la procura chiederà un nuovo processo o lascerà cadere le accuse.

A rendere la vicenda di Adnan un caso nazionale fu ‘Serial’, uno dei primi podcast di successo scaricabili via web. Una ‘serie’ da 12 episodi portata avanti dalla giornalista Sarah Koenig che portò in luce le inconsistenze del procedimento che si era concluso con la condanna di Syed all’ergastolo. “Non me lo aspettavo certamente“, ha detto la Koening dopo che la giudice Melissa Phinn ha rimesso Adnan in libertà.

Il podcast di Phinn fece emergere come all’epoca delle prime indagini su Syed furono commessi dagli investigatori errori grossolani. In particolare questi avevano messi gli occhi addosso ad altri due possibili sospetti, ma sia i difensori di Adnan, sia i giurati del processo, non furono informati della circostanza. 

“La procura non ha detto che Adnan sia innocente – ha spiegato la giornalista che ciò il podcast – non lo stanno scagionando, ma hanno ammesso che nel 1999 l’ufficio non indagò abbastanza e si basò su un testimone e su prove che non avrebbero dovuto essere ammesse. Il caso si è sgretolato non appena qualcuno si è preso la briga di guardarci più a fondo“. 

Il nuovo esame, spiega l’Ansa, è scattato quando il Maryland ha passato una legge che consentiva a uomini che avevano passato oltre 20 anni in prigione per un crimine commesso da minorenne di chiedere uno sconto di pena. Erano tornate così alla luce le inconsistenze messe in luce da “Serial”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Liberato dopo 23 anni di galera. Storia di Adnan Syed, scarcerato grazie alla stampa che non teme i Pm. Valerio Fioravanti su Il Riformista il 22 Settembre 2022. 

Una diciottenne di origini sudcoreane, Hae Min Lee, venne strangolata a morte nel gennaio 1999 a Baltimora, ordinata e ricca città più o meno a 150 chilometri da New York (a nord) e altrettanti da Washington (a sud). Venne sospettato un suo compagno di liceo, di qualche mese più giovane, con cui aveva avuto un flirt, Adnan Masud Syed. Il giovane Syed, di origini pachistane e famiglia musulmana, dicono fosse uno studente dotato, sportivo, popolare. Secondo l’ipotesi accusatoria aveva litigato con la ragazza perché era disturbato dal fatto di essere stato lasciato. Prove fisiche nessuna, alcuni elementi indiziari, e una telefonata anonima che aveva suggerito alla polizia di “attenzionarlo”. Un altro ragazzo della stessa scuola prima disse di non sapere niente, poi disse di sapere qualcosa, infine disse di aver aiutato Adnan a seppellire, sotto pochi centimetri di terra in un parco pubblico, il cadavere della ragazza. 20 giorni dopo il ritrovamento del corpo, il “pachistano” venne arrestato.

Dopo tutto, nella patria dei telefilm seriali, il movente “sentimentale” sembra ragionevole a tutti, e poi gravita sempre un pizzico di pregiudizio sul fatto che i musulmani proprio non sopportano il confronto paritario con una donna. La famiglia, per fortuna non povera, ha assunto tre avvocati per difendere il giovane, il quale però, nel febbraio 2000, venne condannato all’ergastolo + 30 anni. All’epoca in Maryland era ancora in vigore la pena di morte (verrà abolita nel 2013), ma almeno su questo Syed era stato fortunato: al momento dell’omicidio non aveva ancora compiuto 18 anni, e quindi almeno il braccio della morte gli è stato risparmiato. La famiglia licenziò gli avvocati e ne assunse altri. Trovarono tracce di un possibile alibi che nessuno aveva approfondito: una compagna di scuola che ricordava di averlo visto in biblioteca all’ora dell’omicidio. La pubblica accusa sostenne che non verificare l’alibi fosse stata una mossa intenzionale della “vecchia” difesa, una specie di “cartuccia di riserva” nel caso il processo fosse andato male.

In quanto “negligenza volontaria”, la nuova prova doveva essere scartata perché presentata troppo tardi. Un giudice d’appello però, forse vittima anche lui dei telefilm seriali, non deve aver considerato verosimile l’altruismo contemporaneo di tre avvocati disposti a farsi licenziare (e non pagare) pur di aiutare un giovane pachistano, e nel 2015 riconobbe il diritto di Syed ad ulteriori udienze nel corso delle quali circostanziare meglio le sue contestazioni. In queste udienze i nuovi difensori riuscirono a dimostrare che polizia e pubblica accusa erano stati volutamente ambigui nella ricostruzione, fatta attraverso le celle telefoniche dei cellulari, degli spostamenti di vittima e imputato. Con un approfondito “accesso agli atti” dimostrarono poi che la polizia aveva due piste alternative che non erano state comunicate né ai difensori, né men che mai alla giuria popolare, e, in ultimo, portarono in aula la compagna di scuola, Asia McClain, che confermò di aver parlato con Syed nella biblioteca della scuola nella fascia oraria in cui la pubblica accusa aveva collocato con certezza l’omicidio. Tra il 2016 e il novembre 2019 due volte il verdetto di colpevolezza venne annullato, e, contestando soprattutto i ritardi con cui la difesa portava le nuove prove, “ripristinato”.

Durante questo “ping-pong”, una giornalista bianca, Sarah Koenig, sollecitata e aiutata dai tre avvocati difensori (due donne, una di origini pachistane, e un uomo) aveva iniziato a seguire il caso con attenzione. La giornalista pensò che le molte cose che a suo avviso non tornavano nelle indagini e nei processi avrebbero richiesto un libro troppo tecnico, che inevitabilmente avrebbe attratto pochi lettori. Virò sull’idea del podcast, e nel 2014 (allora lo strumento era ancora poco diffuso) pubblicò 12 puntate sotto il titolo di Serial. Dopo una iniziale “ricostruzione”, la Koenig ricorse ad un artificio letterario ben collaudato (alla Rashomon verrebbe da dire): ogni puntata conteneva una lettura diversa di quelle che avrebbero potuto essere le ultime 24 ore della giovane Hae. Tutte ricostruzioni diverse, tutte verosimili, e coerenti con i pochi dati certi. Il podcast ha successo, molto successo: 300 milioni tra ascoltatori in streaming e download. Al punto che la Koenig fonda una vera e propria casa editrice, viene contattata da Spotify, e alla fine viene acquisita dal New York Times, scusate se è poco. Il 19 settembre, ormai superati i 40 anni d’età, Adnan Masud Syed è stato scarcerato su cauzione e cavigliera elettronica. Nelle foto all’uscita dal carcere è visibilmente contento (difficile pensare il contrario), indossa un copricapo islamico, un elemento ricorrente nell’iconografia penitenziaria Usa, dove il carcere riavvicina molti alla un tempo trascurata religione degli avi.

Cosa è successo? Avevamo lasciato Syed al termine di un ping-pong che apparentemente, seppure solo per motivi procedurali, vedeva la pubblica accusa in vantaggio. Ma il “peso” della visibilità che il podcast e alcuni approfondimenti televisivi avevano conferito al caso hanno indotto la pubblica accusa ad accettare una proposta dei difensori: ripetere le analisi sui reperti fisiologici utilizzando tecnologie che negli ultimi 20 anni sono certamente migliorate. Fatti i test del Dna, nessuna delle tracce rinvenute sul cadavere può essere ricondotta a Syed. L’ufficio del Procuratore ha ammesso che a questo punto il caso era veramente debole, e non si è opposto alla richiesta di scarcerazione dell’imputato. La procura non dice che l’imputato è innocente, ma sostiene di aver bisogno di tempo per riordinare le carte, e rifare il processo, e accetta che l’imputato nel frattempo rimanga “quasi libero”. Vedremo come finirà. Chi scrive segue, lavorando per Nessuno tocchi Caino, la cronaca giudiziaria statunitense da un quarto di secolo. Non succede tutti i giorni che un procuratore ammetta gli errori dei suoi predecessori, ma non è nemmeno un evento così incredibilmente raro come sarebbe in Italia.

Notiamo poi che negli Usa un test del Dna dopo 20 anni si può ripetere, perché, per legge, tutte le prove fisiologiche vengono conservate in locali appositi, dove non ammuffiscono. Anche questo in Italia purtroppo sarebbe impossibile. E poi l’elemento più importante di tutti: i giornalisti. Non che quelli americani siano tutti straordinari, ma qualcuno che riesce a contestare radicalmente un pubblico ministero c’è. Non esistono sistemi giudiziari perfetti, ma se i giornalisti non effettuano con la necessaria tranquillità la loro opera di verifica, alcuni sistemi giudiziari diventano molto peggio di altri. Il giornalista “giudiziariamente controcorrente” in Italia, da molto tempo, quasi non esiste più: il pm “criticato” fa causa a lui, al suo direttore e al suo editore, e la vince. Chi viene dopo sta molto attento a tenersi alla larga dalle polemiche. Certo ci sono eccezioni, Il Riformista lo sa, ma sono poche, molto poche. Valerio Fioravanti

Venticinque anni da innocente nel carcere più duro d’America. Cédric Dent condannato per un omicidio che non ha mai commesso. I pm nascosero le prove che lo scagionavano. Oggi è un uomo libero. Daniele Zaccaria il 14 Agosto 2022 su Il Dubbio.

Share on linkedin

La prigione di Angola in Louisiana svetta sulle rive del Mississippi in un’area di 7mila ettari, si chiama così per l’omonima piantagione di cotone in cui oltre un secolo fa si spaccavano la schiena migliaia di schiavi provenienti dal paese africano; è il carcere di massima sicurezza più grande degli Stati Uniti con 6500 detenuti e quasi duemila dipendenti.

È soprannominata l’ “Alcatraz del sud” per le durissime condizioni di prigionia e perché è praticamente impossibile evadere. Probabilmente negli ultimi decenni è diventata anche più famosa di Alcatraz, è nella sua cupa e sinistra struttura di cemento che ospita il braccio della morte più popoloso d’America che hanno ambientato film celebri sulla condizione carceraria come Dead Man Walking o Il Miglio Verde.

Ed è lì, nella grande città carceraria che il 47enne afroamericano Céderic Dent ha passato gli ultimi 25 anni della sua vita, accusato di un omicidio che non ha mai commesso, stritolato dalla negligenza delle autorità e dalla ferocia del sistema giudiziario americano.

Da lunedì scorso Dent è un uomo libero, un giudice del tribunale di New Orleans ha infatti deciso di annullare la sua condanna e il procuratore distrettuale ha rinunciato a perseguire il caso.

Dent fu vittima di un processo iniquo, viziato dal pregiudizio di alcuni giurati e dai metodi banditeschi utilizzati dai pubblici ministeri che hanno occultato tutte le prove che lo avrebbero scagionato, tra cui una testimonianza cruciale sulla descrizione dell’assassino che non corrispondeva minimamente con l’aspetto dell’imputato. Inoltre si è scoperto che il testimone chiave dell’accusa aveva cambiato più di una volta la sua versione in modo contraddittorio.

Dent fu così condannato all’ergastolo per la morte di un uomo, Anthony Milton, avvenuta nel 1997 all’uscita di un supermercato di New Orleans, raggiunto da due colpi di pistola alla schiena e alla nuca esplosi da uno sconosciuto con cui avrebbe avuto una lite all’interno del supermercato. Una dinamica confusa per una ricostruzione approssimativa da parte della polizia e della procura. Peraltro il verdetto di condanna è stato pronunciato da una giuria non unanime e la non unanimità delle giurie in caso di colpevolezza è un fattore che statisticamente fa lievitare la possibilità di una sentenza sbagliata. In molti Stati ci vuole ad esempio l’unanimità per condannare un imputato, non nella Lousiana del 1997.

È solo grazie alla tenacia degli avvocati dell’Innocence project, una ong che si occupa delle migliaia di errori giudiziari commessi ogni anno dai tribunali Usa, che il caso Dent è stato riaperto. Quando hanno preso in mano le carte piene di violazioni del diritto alla difesa e al giusto processo non c’ è voluto molto per far annullare la condanna.

E a quel punto qualsiasi giudice di buon senso non poteva far altro che rilasciare Dent. Ci sono voluti tanti anni perché le associazioni sono letteralmente sommerse di casi e non riescono materialmente a occuparsi di tutti.

Certo è che nessuno restituirà all’uomo il quarto di secolo che ha passato in prigione, tutti gli anni della sua giovinezza buttati via per lo zelo giustizialista dei procuratori e per la sciatteria con cui gli afroamericani vengono generalmente condannati a pene durissime anche in mancanza di prove e sulla base di semplici indizi.

«Cedric Dent è una vittima dei fallimenti del nostro sistema giudiziario che è stato incapace di proteggere i suoi diritti di persona accusata di un crimine: c’è un dipartimento di polizia che ha fatto il minimo indispensabile per indagare su un crimine grave come un omicidio; ci sono avvocati che non avevano risorse e mezzi per indagare sul suo caso e un ufficio del procuratore distrettuale che nascondeva prove che avrebbero dovuto essere consegnate e avrebbero aiutato il signor Dent a ottenere il verdetto di non colpevolezza che meritava al processo», spiega in un comunicato Meredith Angelson, avvocata di Innocence project che ha seguito il caso personalmente.

Andrea Marinelli per il "Corriere della Sera" il 19 febbraio 2022.

Dopo aver passato 44 anni dietro le sbarre per un tentato stupro di cui si era sempre dichiarato innocente, un 69enne afroamericano della Louisiana è stato scarcerato lunedì, lasciando il penitenziario statale di Angola, l'Alcatraz del Sud, pur senza essere dichiarato innocente. Specificando di non aver valutato la colpevolezza del detenuto, il giudice Bill Bennett ha stabilito infatti che l'uomo, Vincent Simmons, non aveva ricevuto un processo equo e ne ha ordinato uno nuovo, ma il procuratore distrettuale Charles Riddle III ha rinunciato, lasciando cadere le accuse contro di lui e rendendolo quindi un uomo libero a pochi giorni dal suo settantesimo compleanno.

«Se qualcuno ha dei dubbi, questa non è affatto una dichiarazione di innocenza», ha specificato Riddle. «Avevamo già provato a scarcerarlo mesi fa, perché ha passato abbastanza tempo in carcere. Archiviamo questo caso e lasciamo che le vittime non soffrano più».

Nel 1977 Simmons era stato giudicato colpevole da una giuria composta da 11 bianchi e un afroamericano, ed era stato condannato a 100 anni di carcere per tentata violenza sessuale ai danni di Karen e Sharon Sanders, gemelle bianche e quattordicenni di Marksville, nella Louisiana rurale. Da allora aveva provato per 16 volte a chiedere un nuovo processo e, nel 1998, la sua storia era stata raccontata in un noto documentario, The Farm: Angola, Usa . Soltanto nei giorni scorsi, però, Simmons ha ottenuto un'udienza grazie a un'inchiesta di Cbs News.

La rete televisiva ha scoperto che, all'epoca, i suoi avvocati non avevano ricevuto alcune prove fondamentali: la testimonianza del medico che aveva esaminato le ragazze e che aveva dichiarato di non aver riscontrato alcun segno di violenza sessuale, e la dichiarazione iniziale fornita dalle gemelle, che si recarono dalla polizia due settimane dopo lo stupro e dissero di non sapere chi le avesse assaltate, perché «tutte le persone nere si assomigliano».

Simmons ha lasciato lunedì il penitenziario di Angola, quello di Dead Man Walking e True Detective , ringraziando Dio. «Ha tenuto viva in me la speranza», ha detto alle telecamere che lo aspettavano all'uscita. «Oggi Dio ha fatto questo per me». Secondo i suoi legali, tuttavia, il merito è soprattutto della decisione presa dal procuratore distrettuale, che ha avuto lo stesso effetto di un'assoluzione.

«Finalmente - ha chiarito l'avvocato Justin Bonus - il tribunale gli ha reso giustizia». Anche le due gemelle, oggi 59enni, si sono dette d'accordo con il procuratore distrettuale. «Grazie a Dio abbiamo avuto 44 anni, siamo felici così», ha spiegato Sharon Sanders alla tv locale Kalb . «Ora siamo stanche, vogliamo lasciarci questa storia dietro alle spalle. È andato in carcere da colpevole, è ancora colpevole, e morirà colpevole».

Perché il crossover Scandal – Le Regole del Delitto Perfetto torna oggi più attuale che mai. Nel crossover fra Scandal e Le Regole del Delitto Perfetto emerge la condizione di perenne svantaggio e discriminazione contro cui le persone nere hanno ripreso a manifestare in queste settimane. Ambra Romanazzi su optimagazine.com il 12/06/2020.

La morte di George Floyd e le proteste che ne sono derivate hanno infuocato il dibattito sulla necessità di ripensare la natura stessa delle forze dell’ordine negli Stati Uniti. Ed è innegabile che la brutalità della polizia scateni tanta ingiustificata violenza verso i cittadini afroamericani, ma ciò non toglie che la condizione di svantaggio e discriminazione delle persone nere si avverta anche in altre declinazioni della società.

Nel corso delle sue sei stagioni Le Regole del Delitto Perfetto ha attraversato più volte i meandri della giustizia americana, raggiungendo picchi di cruda e dolorosa efficacia nel racconto della class action condotta da Annalise Keating fino alla Corte Suprema. Ed è in particolare nel crossover con Scandal che Le Regole del Delitto Perfetto lascia emergere fatti e dati tornati tristemente attuali in queste settimane di proteste.

Grazie all’aiuto di Olivia Pope (Kerry Washington), Annalise riesce a sostenere in modo brillante la sua argomentazione: lo stato della Pennsylvania non garantisce un supporto legale adeguato a chi non può permettersi un avvocato, dunque non rispetta la Costituzione. Di conseguenza i poveri, e in particolare i poveri afroamericani, finiscono spesso in carcere ingiustamente e sono costretti a scontare pene più lunghe di chi invece può permettersi un avvocato.

Le tesi che Olivia e Annalise portano dinanzi alla Corte Suprema non sono espedienti narrativi, ma parentesi di realtà che si fanno di volta in volta più ampie e pungenti. E ciò che emerge è proprio la condizione di perenne svantaggio e discriminazione contro cui le persone nere hanno ricominciato a manifestare in queste settimane.

Nel crossover, ad esempio, Olivia e Annalise rilevano come gli afroamericani siano colpiti più di ogni altra comunità dall’impossibilità di sostenere le spese legali. E se Le Regole del Delitto Perfetto si sofferma sugli avvocati d’ufficio, la realtà è ben più deprimente. Le spese da sostenere, infatti, riguardano anche le cauzioni, ed è possibile persino che non pagarle comporti un allungamento della pena.

Non avere un avvocato, fa notare inoltre Annalise nella serie, impedisce ai detenuti coinvolti nella class action di vedersi garantito un giusto processo. Ed è pura realtà che gli avvocati d’ufficio non possano fare miracoli. Il settore deve infatti fare i conti con la cronica mancanza di fondi e una mole enorme di casi da gestire. Chiaro, dunque, che errori e superficialità siano all’ordine del giorno.

Nella sua incursione nel mondo de Le Regole del Delitto Perfetto Olivia Pope sottolinea poi come molte persone nere, pur se accusate ingiustamente di aver commesso un reato, preferiscano dichiararsi colpevoli e scontare la pena. L’alternativa sarebbe attendere l’arrivo di un avvocato d’ufficio, affrontare un processo lungo e laborioso e vedersi condannati a sanzioni più salate e pene più severe.

Che la materia affrontata ne Le Regole del Delitto Perfetto tragga origine dalla realtà – e resti più attuale che mai – è evidente anche dalle basi su cui poggia l’intera class action di Annalise, e che richiama un caso simile affrontato nello stato di New York nel 2014. Una rara vittoria per la pubblica difesa, scrive il New York Times a tal proposito.

Chiudiamo quindi con il più potente dei passaggi da Le Regole del Delitto Perfetto 4×13, in cui la potenza evocativa di Viola Davis è il miglior veicolo di trasmissione di una realtà durissima e ancora doloramente attuale:

Il razzismo è nel DNA dell’America. E finché chiuderemo gli occhi dinanzi al dolore di chi ne è schiacciato non ci libereremo mai di quelle origini. L’unica protezione che le persone di colore hanno è il diritto a una difesa, e non riusciamo a garantir loro neppure questo. Ciò significa che la promessa dei diritti civili non viene mantenuta. A causa dal fallimento del nostro sistema giudiziario, e in particolare del nostro sistema di pubblica difesa, Jim Crow è vivo e vegeto.

Leggi per cui era illegale seppellire bianchi e neri nello stesso cimitero, per cui esistevano le categorie di mulatti e meticci, per cui si puniva una persona nera che chiedeva di essere curata in un ospedale per bianchi. Qualcuno potrebbe dire che la schiavitù non esiste più. Ma ditelo ai detenuti tenuti chiusi in gabbie e a cui viene negato qualsiasi diritto. Persone come il mio cliente, Nathaniel Lahey, e milioni di persone come lui, relegate a una sottoclasse dell’esistenza umana nelle nostre prigioni. Non c’è alternativa alla giustizia in questo caso. Non c’è un’altra opzione.

Pronunciarsi contro il mio cliente significa riempire le tasche dei proprietari delle carceri anziché garantire una difesa fondamentale a chi ci vive dentro. Ed è forse quella l’America in cui questa corte vuole vivere? Un’America in cui il denaro conta più dell’umanità? In cui la salute mentale è confusa per criminalità? Il sesto emendamento è stato ratificato nel 1791. Sono passati 226 anni da allora. È arrivato il momento di garantirne i diritti a tutti i nostri cittadini.

LE REGOLE DEL DELITTO PERFETTO. L’ingiustizia negli Usa. Sara Bellomo and Anna Ragone su sharing.school il 22 Marzo 2021.  

La discriminazione nei confronti degli afroamericani da parte del sistema giudiziario americano è un problema all’ordine del giorno. È proprio questo uno dei temi principali trattati dalla famosa serie televisiva ‘Le regole del delitto perfetto’. La protagonista, Annalise Keating, è una brillante avvocatessa e docente di diritto penale. Insieme ad alcuni dei suoi migliori studenti, si impegna nella difesa soprattutto di persone di colore.

La popolazione carceraria negli Stati Uniti

Secondo i dati, gli Stati Uniti sono il primo paese al mondo per numero di detenuti, di cui la grande maggioranza sono afroamericani. Nel 2018 i neri rappresentavano il 12-13% della popolazione adulta americana e il 33% di quella carceraria, praticamente il triplo della loro quota. I bianchi, che invece costituiscono il 61-63% della popolazione adulta totale, rappresentavano solamente il 30% dei prigionieri.

Se consideriamo i detenuti che attualmente si trovano nel braccio della morte, la percentuale degli afroamericani sale al 42%. L’etnia sembrerebbe quindi tuttora un fattore determinante quando si tratta di condannare a morte un uomo negli Stati Uniti. Inoltre, in molti casi, le giurie che determinano le condanne sono composte unicamente da bianchi.

La storia del razzismo negli Stati Uniti

I numeri parlano da soli, ma non è possibile capire il fenomeno senza considerare le sue origini. Per secoli infatti, pregiudizi e miti hanno associato il criminale all’uomo di colore. Per la National Association for the Advancement of Colored People, gli afroamericani hanno una probabilità cinque volte maggiore di essere fermati senza una giusta causa dalla polizia, rispetto a una persona bianca.

Tutto ciò costituisce un problema perché chi finisce in prigione ha meno possibilità di ottenere un lavoro o di ottenere dei benefici federali una volta usciti. Inoltre, l’alto tasso di incarcerazione va ad influire sull’esercizio dei diritti del cittadino. Per esempio, in 12 stati una condanna per reato comporta la perdita del diritto di voto. Se i numeri non dovessero calare, nei prossimi dieci anni, il livello di perdita dei diritti civili per le persone di colore sarà alto tanto quanto lo era prima del passaggio della legge sul diritto di voto, Voting Right act del 1965, quella legge per la quale lottarono John Lewis e i Big Six.

La class action di Annalise

Nella quarta stagione delle regole del delitto perfetto, Annalise Keating porta alla Corte Suprema una class action per dimostrare la disparità di trattamento nei confronti delle persone di colore da parte delle forze dell’ordine. Che la materia affrontata nella serie tv tragga origine dalla realtà – e resti più attuale che mai – è evidente anche dalle basi su cui poggia l’intera class action di Annalise, e che richiama un caso simile affrontato nello stato di New York nel 2014.

Annalise riesce a sostenere che lo stato della Pennsylvania non garantisce un supporto legale adeguato a chi non può permettersi un avvocato. Le tesi che Annalise porta dinanzi alla Corte Suprema non sono espedienti narrativi, ma parentesi di realtà che si fanno di volta in volta più ampie. Non avere un avvocato impedisce ai detenuti coinvolti nella class action di vedersi garantito un giusto processo. Ed è pura realtà che gli avvocati d’ufficio non possano fare miracoli. Il settore deve infatti fare i conti con la mancanza di fondi e una mole enorme di casi da gestire.

Nella sua arringa finale Annalise dice così:

"Il razzismo fa parte del DNA dell’America. E finché chiuderemo gli occhi dinanzi al dolore di chi ne è schiacciato non ci libereremo mai di quel patrimonio genetico. L’unica protezione che le persone di colore hanno è il diritto a una difesa, e non riusciamo a garantire loro neppure questo. Ciò significa che la promessa dei diritti civili non viene mantenuta." 

La classifica delle 10 serie legal drama più belle di sempre. Morbinati & Longo il 26 Dicembre 2018 su morbinatilongo.it.  

Il Natale è appena passato ma fortunatamente abbiamo ancora davanti a noi alcuni giorni di vacanza per goderci un po’ di sano relax, magari comodamente sprofondati sul divano di casa pronti per il binge watching! Eh sì, anche noi di “Morbinati &Longo Avvocati s.p.a.” amiamo le maratone di serie tv. Ecco quindi la nostra personalissima classifica con le dieci serie tv legal drama più belle di sempre: serie tv su avvocati… consigliate da avvocati veri!

Ma prima ecco qualche curiosità: Boston sembra essere una delle città preferite come sede per le vicende dei legal drama. Spesso sono le donne avvocato le vere protagoniste. Molti dei casi narrati in queste serie televisive si ispirano a casi realmente accaduti in Usa o in altri Paesi. Tre delle serie della nostra classifica sono state scritte dal medesimo autore, David E. Kelley, che forse non tutti sanno essere sposato con la divina Michelle Pfeiffer.

1 Better Call Saul 

Saul Goodman, conosciuto come l’avvocato delle cause perse in Breaking Bad, interpretato da uno strepitoso Bob Odenkirk, si è meritato senza ombra di dubbio una serie tutta per sé. In questa serie seguiamo le vicende di questo improbabile e grottesco avvocato, a tratti esilarante, ma che sa vivere con un pizzico di sano cinismo, in una sorta di flash back. La serie si apre, infatti, in un tempo successivo a quello narrato in Breaking Bad, salvo poi presentarci le origini di Saul, gli inizi della sua carriera quando ancora si faceva chiamare James McGill.

2 Ally McBeal 

È stato il legal drama più amato a fine anni ’90, una serie che ha portato al successo la bravissima Calista Flockhart e ha avuto il merito di ridare una spinta alla carriera di Robert Downey Jr, presenza fissa della quarta stagione. La serie si apre con una giovane avvocatessa costretta a lasciare lo studio dove lavora per le continue molestie sessuali dei capi, incontra per strada un ex compagno della scuola di legge che la assume nel suo studio appena aperto. Fra cause che affrontano temi anche delicati, divertenti siparietti dovuti alle allucinazioni di Ally e indimenticabili duetti sul palco del Maritini Bar, il locale dove si ritrovano gli avvocati a fine giornata, questa serie durata 5 stagioni è senza dubbio un pezzo da novanta fra le serie legal.

3 Suits

In molti la conoscono principalmente perché fra le sue interpreti c’è Meghan Markle, costretta a lasciare dopo il matrimonio con il principe Henry e l’ingresso nella famiglia reale britannica. Ma Suits è un legal drama avvincente che punta l’attenzione sulle vicende di un avvocato di grido Harvey Specter che assume come suo assistente un ex studente di legge, Mike Ross, che non ha finito gli studi ma ha un’incredibile memoria eidetica. Proprio questa caratteristica diventerà fondamentale per la gestione e la soluzione di molti casi!

4 The Good Wife 

Dopo Ally McBeal un’altra donna avvocato, al centro di una serie perfettamente cucita addosso all’attrice che la interpreta. The Good Wife vede come protagonista assoluta Julianna Margulies, famosa a partire dagli anni ’90 per un’altra serie di grande successo, E.R. Un ruolo che è valso all’attrice numerosi riconoscimenti e premi e che ha permesso agli autori di indagare la mente e il cuore di una donna avvocato, senza nascondere le sue fragilità. Lasciata la carriera di avvocato per dedicarsi alla famiglia e al sostegno del marito procuratore, dopo uno scandalo in cui viene pubblicamente umiliata per un tradimento proprio del consorte, Alicia Florrik, sceglie di riprendere le redini della propria vita assunta dallo studio di avvocati di un suo ex compagno di Università. Un lavoro che le cambierà la vita.

5 Law&Order 

Un vero e proprio cult che ha fatto la storia del legal in tv. Per la prima volta si mescolano i tratti tipici del legal e del police drama per raccontare i casi seguendone tutto l’iter investigativo, legale e giudiziario. Oggi Law & Order, la cui serie madre è andata in onda per 20 stagioni, è un vero e proprio franchising che coinvolge una decina di spin off, prodotti o ancora in produzione, con numerosi cross over, ovvero puntate in cui si incrociano le trame di due o più serie. Un successo che dopo quasi 30 anni non smette di attirare il pubblico!

6 The Practice 

Ambientato a Boston, proprio come Ally McBeal con cui ci fu anche un cross over molto apprezzato dal pubblico, The practice segue le vicende di un gruppo di avvocati penalisti intenti a difendere facoltosi clienti invischiati in crimini e omicidi. Curiosità: nella settima stagione entrano nel cast due volti noti di una delle serie medical più famose di sempre Grey’s Anathomy, Jessica Capshaw e Chyler Leigh, conosciute per i ruoli di Arizona e Lexie; mentre nell’ottava stagione fanno la loro comparsa James Spader e Rhona Mitra che diventeranno poi protagonisti dello spin off Boston Legal.

7 The Guardian 

Prima di diventare il mentalista più famoso della tv Simon Baker ha impersonato il fascinoso e imprevedibile avvocato Nick Fallin condannato a 1500 ore di servizi sociali per un’accusa di possesso di droga. La serie segue le vicende dell’avvocato di Pittsburgh, il suo impegno per risolvere i problemi personali e di dipendenza mentre aiuta persone in difficoltà e cerca di recuperare il rapporto con il padre, socio dello studio di avvocati, divenuto ancora più difficile dopo la morte della madre.

8 Le regole del delitto perfetto 

La serie televisiva narra le vicende dell’avvocato penalista Annalise Keating, interpreta magistralmente da Viola Davis, che si divide fra il lavoro in tribunale e quello di docente nell’Università di Philadelphia. Insieme ad un gruppo di studenti selezionati per aiutarla nella difesa dei casi più difficili. Una notte però un omicidio in cui perde la vita suo marito sconvolge la vita di Annalise. Casi avvincenti e svariate complicazioni rendono questa serie una vera chicca fra i legal drama, assolutamente da vedere.

9 Boston Legal 

Spin off di The practice, Boston Legal ci restituisce due personaggi molto amati, Alan Shore e Tara Wilson, oltre che il bravissimo William Shatner (chi non ricorda il capitano Kirk di Star Trek?), in uno studio legale dove spesso si affrontano casi difficili, in cui spesso etica e morale si scontrano con ciò che la legge impone di fare. Vicende avvincenti e dialoghi degni di nota per un legal drama di grande qualità!

10 American Crime Story: Il caso OJ Simpson 

Prima stagione di una serie legal antologica incentrata su fatti realmente accaduti che hanno destato grande partecipazione da parte dell’opinione pubblica statunitense, American Crime Story sviscera un caso lungo tutti gli episodi ogni stagione. La prima è dedicata proprio alla vicenda di OJ Simpson, uno dei casi mediatici forse più famosi degli ultimi 30 anni, che tutti ricordiamo per il lungo inseguimento in diretta tv. Lo storyline narra tutta la vicenda dall’omicidio della donna seguendo il lungo e complesso processo giudiziario che ne seguì.

Una menzione speciale… 

Come nei migliori festival, anche noi abbiamo la nostra menzione speciale: una serie che non è strettamente un legal drama ma che ha per protagonista un avvocato molto particolare, che qualunque studio vorrebbe avere nel proprio organico. Si tratta di Daredevil. Il celebre eroe della Marvel è magistralmente interpretato da Charlie Cox, capace di rendere il personaggio estremamente credibile sia nelle vesti del rispettabile avvocato non vedente Matt Murdock, sia nel suo alter ego che combatte i criminali. Splendida l’ambientazione, una Hell’s Kitchen senza tempo in cui si muove un degrado subdolo, in cui ogni città può facilmente riconoscersi. Bravi tutti gli attori, su cui svetta l’immenso, “cattivissimo” Vincent d’Onofrio. Non ci resta che augurarvi buona visione!

La serie sui clamorosi errori giudiziari. For Life e la storia di Isaac Wright Jr, il detenuto che diventò avvocato per dimostrare la sua innocenza dopo l’ergastolo. Giovanni Pisano su Il Riformista il 27 Gennaio 2022.

“Tutti meritano un giusto processo“. E’ una delle frasi che più ripetute da Aaron Wallace, il protagonista della serie “For Life“, scritta da Hank Steinberg e prodotta dal rapper 50 Cents che ha anche un ruolo, e non di poco conto, nei 13 episodi della prima stagione che da gennaio 2022 è possibile vedere su Rai 4 e Netflix. Una produzione che rimarca, se ancora ve ne fosse bisogno, tutte le storture del sistema giudiziario (non solo americano).

Dal razzismo alle violenze che avvengono all’interno delle prigioni con il benestare degli agenti, che nella serie scendono a patti prima con la colonia “nazista” del carcere, poi con quella “afro” per consentire l’ingresso della droga. Sempre nella serie la direttrice, riformista, del carcere viene continuamente ostacolata per l’idea di carcere aperto che ha: dai colloqui senza il vetro divisorio alle attività lavorative svolte all’interno del penitenziario alla palestra.

La serie, uscita negli Usa su Abc nel febbraio 2020 (c’è anche una seconda stagione con 10 episodi), riprende la storia di Isaac Wright Jr, che in carcere prende la licenza di penalista dopo la condanna all’ergastolo per un crimine che non aveva commesso (narcotrafficante). Con gli anni divenne un riferimento per tutti i detenuti, una ventina dei quali difesi con successo, ribaltando le ingiuste condanne che avevano ricevuto, prima di dimostrare la propria innocenza.

Wright Jr., nato nel 1962, era stato arrestato nel 1989 con l’accusa di essere il capo di una rete di pusher di cocaina nelle aree metropolitane di New York e New Jersey. Condannato all’ergastolo nel 1991, la sua condanna è stata annullata nel 1997 dopo che Wright, che nel frattempo studia legge e ottiene la licenza di penalista diventando avvocato-detenuto, ha dimostrato la corruzione all’interno della polizia (che aveva nascosto le prove che lo discolpavano) e la persecuzione del procuratore Nicholas Bissell (con la presentazione consapevole da parte del pubblico ministero di una testimonianza falsa al suo processo e le minacce rivolte agli altri testimoni), morto poi suicida quando la polizia ha cercato di catturarlo in una stanza d’albergo, dove si era rifugiato nel novembre del 1996 dopo aver violato la libertà provvisoria (e il braccialetto elettronico) in attesa del processo (rischiava una condanna a 8 anni).

Le restanti condanne di Wright (per un totale di 70 anni di carcere) furono invece annullate e, dopo aver trascorso più di sette anni in prigione, fu rilasciato e poi prosciolto da tutte le accuse, con La Corte Suprema del New Jersey ha confermato tale decisione. Nicholas Pinnock, l’attore che nella serie interpreta Aaron Wallace, ha raccontato che Isaac Wright Jr “era così concentrato sul suo unico obiettivo, ovvero uscire di prigione, che non aveva tempo per il dolore, non aveva tempo per la gioia, non aveva nemmeno tempo per la rabbia”. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

San Francisco. Riccardo Staglianò per “il Venerdì di Repubblica” il 16 aprile 2022.  

La scena più tremenda, nel film soft-horror che questa città è diventata, si materializza verso le sette di sera di un ordinario venerdì. Sotto alle vetrine piene di Rolex di Tourneau, nel baricentro commerciale di Market Street, c'è un uomo che striscia, a scatti, come tarantolato, con metà sedere fuori dai pantaloni e la faccia nell'angolo tra marciapiede e parete del negozio.

Un poliziotto lì vicino non fa niente, come non faccio niente io tranne restare pietrificato, né i passanti evidentemente abituati allo spettacolo. Quella stessa mattina, alla fermata Powell della metropolitana (come dire Piazza di Spagna o Montenapoleone) un altro vomita e barcolla pericolosamente sporgendosi sui binari.

Nel pomeriggio, la vicinissima South of Market è una piazza di spaccio a cielo aperto, con tante tende di polipropilene azzurro, quello delle buste dell'Ikea, piene di esseri al grado zero dell'umanità. Come un campo profughi qualsiasi, se il campo profughi fosse però pieno di tossici all'ultimo stadio e si trovasse nel cuore di una delle città più oscenamente ricche del pianeta. Qui, l'anno scorso, i morti per overdose sono stati più del doppio di quelli per Covid (697 contro 257).

A dicembre la sindaca ha dichiarato, non senza polemiche, lo "stato di emergenza" per il Tenderloin, la zona più centrale e più disastrata. Che oggi ospita il Linkage Center, un grande recinto dove i messi peggio ricevono il naloxone, una specie di metadone, in un tentativo disperato di non farli andare all'altro mondo. Noi, i ragazzi dello zoo di San Francisco potrebbe essere il seguito americano del film che colonizzò l'immaginario psicotropo dei ragazzi degli anni 80.

Che questo quartiere abbia una meritatissima cattiva reputazione è notizia vecchia quanto il suo nome. Affibbiatogli, spiega un cartello del Tenderloin Museum, da un capo della polizia che - spedito a bonificare l'allora quartiere a luci rosse - commentò ilare che, dopo tanti anni di bracioline economiche, avrebbe finalmente potuto permettersi il filetto (tenderloin) grazie alle più laute mazzette.

Prima la prostituzione, con le proto-battaglie per i trans, poi i migranti: qui la diversità è sempre stata religione laica. Che però spesso si tramuta in eresia immobiliare. Con tanti alberghi andati in malora e poi trasformati in Sro (Single room occupancy), dormitori per i poveri. Aggiungete istituzioni come la St. Anthony Foundation, una specie di Caritas, che sfama chiunque senza fare domande, e capirete perché tanti homeless l'hanno scelto come domicilio.

L'esercito di nuovi ricchi, stanchi della sonnacchiosa Silicon Valley, ha fatto lievitare gli affitti, sfrattando la middle class e mandando per strada, in un Paese dove il saldo medio sul conto è di 5000 dollari, i meno attrezzati (vari studi sostengono che all'aumento dell'1 per cento sui canoni d'affitto corrisponde pari aumento di homeless). Bastano questi vecchi addendi a fare il totale odierno? 

«No» risponde Katie Conry, antropologa nonché direttrice del museo su Leavenworth, una delle vie più acciaccate, che già alle dieci di mattina ha l'aspetto di un padiglione psichiatrico en plein air, «la novità è stata la pandemia che ha chiuso i ricoveri, ridotto la capacità degli Sro e tolto agli homeless molte delle strutture su cui avevano imparato a fare affidamento, come le biblioteche, dove magari caricare il cellulare, i bagni dei locali d'improvviso interdetti e altri luoghi che ne puntellavano l'esistenza. Dopo due anni in strada molte situazioni sono peggiorate e quello che vediamo è il risultato».

Ricordate quanto ci ha messo psicologicamente alla prova il lockdown, nelle nostre belle casette riscaldate? Ecco, ora provate a immaginarvi di averlo trascorso all'addiaccio. Conry, come altri intervistati, non sa se il fenomeno è numericamente peggiorato (l'ultimo censimento di poco più di 8000 senza dimora è del 2019) ma concorda che è più acuto.

Qualcosa, ovviamente, è stato fatto. «Il Comune ha affittato alberghi per trasformarli in shelter-in-place» mi spiega nel soggiorno adibito a ufficio Jennifer Friedenbach, direttrice della Coalition on Homelessness, «duemila posti rispetto agli ottomila che avevamo chiesto, pagati grazie a una legge che consente di tassare dello 0,5 per cento addizionale le fortune sopra i 50 milioni (l'ascetico Jack Dorsey di Twitter, con le sue sedute di meditazione, digiuni intermittenti, bagni gelati all'alba e patrimonio di 7 miliardi di dollari ha votato contro).

Ma ciò non cancella la tendenza decennale a criminalizzare i senza casa, con 10-20 mila denunce all'anno che ricevono per occupazione di suolo o minzione in pubblico e i sempre più frequenti repulisti con tanto di confisca dei loro averi». Nell'aver intensificato questi sweeps si sarebbe distinta anche London Breed, la sindaca dello stato di emergenza. Eppure, se c'è una con la sensibilità giusta per capire il problema, dovrebbe essere lei. Nera, cresciuta nelle case popolari, con un fratello in carcere per aver ucciso la fidanzata (la spinse fuori dall'auto durante una lite) e una sorella morta di overdose. 

La ascolto alla Public Library mentre, accanto al carismatico Cornel West, decano dei black studies, ricorda che i neri sono il 5 per cento della popolazione ma il 40 per cento degli homeless. L'incontro finisce con un rinfresco e, nel tempo che impiego a trangugiare il mio panino su un marciapiede assolato, tre persone mi chiedono se e dove distribuiscono quei cestini. Imbarazzato per averne accettato uno, li dirotto all'interno dove entrano con la stessa foga dell'assalto a Capitol Hill.

 Non è folle, tutto questo? Sembra una pagina di La fame, il monumentale libro di Martin Caparros, ma invece che in Niger siamo tra la biblioteca e il municipio di una metropoli in cui il 57,4 per cento delle case vale più di un milione di dollari. La novità è che una bella fetta della piazza che separa le due istituzioni è oggi occupata da un campo recintato di tende per accogliere disperati di varia estrazione. E così, a dispetto della sua biografia, la sindaca ha mandato più polizia a pattugliare il centro e ha esternalizzato il controllo del territorio alla ong Urban Alchemy. 

Con le loro pettorine nere e verdi li vedi a ogni angolo. Generalmente neri, generalmente ex galeotti, generalmente impegnati in un'indaffaratissima ammuina, tipo chiacchierare tra loro, salutare i passanti e dare solenni quanto occasionali colpi di ramazza. Pare che vengano pagati sui 18 dollari l'ora, quanto il/la barista che cercano a The Market, il bell'emporio accanto alla sede di Twitter.

Sono una soluzione, ma a un altro problema: quello del reinserimento dei carcerati, che poi magari diventano homeless, in quel perverso paso doble che Rebecca Solnit segnala su Harper' s, per cui i primi vivono fuori senza accesso a un dentro mentre i secondi vivono dentro senza accesso a un fuori ma entrambi «non hanno né privacy né un vero controllo sulle proprie esistenze».

Quello stesso articolo sfata un mito spesso ripetuto ("vengono a San Francisco da tutti gli Stati Uniti per la generosità dell'assistenza"): il 71 per cento viveva già qui prima di finire in strada e il grosso dei restanti viene dalla regione o dallo stato. E racconta come le ultime giunte abbiano intensificato la rimozione dei senza dimora sulle lamentele di aziende che non li volevano vicini.

Ed è così, che con un simbolismo toponomastico tanto perfetto da sembrare inventato, a centinaia sono finiti a Division Street, zona piena di parcheggi e sottoponti buoni per le tende dei vinti da cui però si vedono nitidi i grattacieli della cittadella dei vincitori. È il regno di Robert Gumpert, il fotografo che ne ha ricavato un libro straziante e che, nella via crucis che ha ripetuto per sei anni, mi presenta Tucks. Ex carcerato, come tanti homeless, fa qualche dollaro riparando bici.

L'ong Compass vorrebbe reclutarlo per una class action contro le confische del Comune ma lui non si fa illusioni. Non ho mai visto, né negli slum di Nairobi né nelle favelas brasiliane, mani così incrostate di uno sporco così materico che mi fa venire in mente i grumi di colore delle tele multimilionarie di Anselm Kiefer esposte al museo d'arte contemporanea a tre chilometri da qui.

D'altronde quattro anni fa, al termine di una passeggiata in centro, la relatrice speciale Onu, Leilani Farha, aveva commentato che «l'ultimo posto dove aveva visto cucinare sul marciapiedi era Mumbai».«In quello spiazzo» indica Gumpert «per anni sono rimaste indisturbate decine di tende. Poi, da un giorno all'altro, sono state fatte sloggiare. Pare che Airbnb, che ha sede lì vicino, si fosse lamentata». Da qui si vede benissimo il loro enorme cartellone pubblicitario che dice "Gli stranieri non sono poi così strani", la cui versione video mostra tre creature pelose, tipo Chewbacca di Guerre stellari, che alla fine si trasformano in una bella famigliola. "Provate a ospitare", dice il claim. Tutti, ma i barboni non ospitateli nemmeno sul marciapiedi.

 Critiche da sinistra Ztl, si dirà, che spalanca le braccia ai migranti nei quartieri degli altri. È il punto di vista di Michael Shellenberger, autore di San Francicko, pamphlet di successo su "come i progressisti rovinano le città". Rarissimo esemplare di abitante di Berkeley di destra, mi fa fare un mini-tour a Minna Street che, prima di costeggiare il Moma e altre destinazioni turistiche, è il massimo concentrato di luridi accampamenti di fortuna con spacciatori che ti guardano feroci: «Al 95 per cento è fentanyl, l'oppiaceo che ha rovinato tanti americani, magari mischiato con metanfetamine» dice ultimativo lui che pure è stato contestato per l'uso delle fonti (e infatti c'è anche crack e eroina).

Contro un ampio consenso accademico per cui il problema degli homeless deriva essenzialmente dalla combinazione di redditi stagnanti e prezzi delle case fuori controllo, in un lungo arco che va da Reagan a Zuckerberg, Shellenberger sostiene invece che fuori controllo sono l'uso di droghe, le malattie mentali da ciò causate e il permissivismo liberal che consente l'una e l'altra cosa. «Immagini se a Roma, davanti al Campidoglio, vedesse una scena del genere: le sembrerebbe normale?».

È l'unica frase su cui concordiamo. È del tutto anormale, ma come se ne esce? «Questa è gente che dà per scontato il diritto all'assistenza. Invece devono meritarsela, riprendere in mano le loro vite» taglia corto. Al netto dell'antipatia per la sua mancanza di empatia, illumina un dato di fatto. 

Ovvero che tra il 2005 e il 2020 il numero di homeless qui è raddoppiato (siamo a uno sbalorditivo abitante su cento) mentre nel resto del paese si riduceva. E che sul totale, il 73 per cento è fuori da qualsiasi struttura o tetto in testa, contro il 3 di New York. Qualcosa è andato storto.

Tipo che quelle tende nella Civic Center Plaza che ospitano 262 senza dimora costano ogni anno alla città 61 mila dollari l'una, ovvero 2,5 volte l'affitto mediano di un bilocale. Per Shellenberger sono i disturbati o i drogati che diventano homeless. Per EveryOne Counts, l'organizzazione che effettua i censimenti californiani, «la fetta più in crescita di nuovi homeless è di gente che ha ancora un'auto e ci dorme dentro perché non può permettersi un affitto».

Tra le cause il 25 per cento cita la perdita del lavoro, il 13 lo sfratto e il 18 la droga. Solo l'8 per cento la malattia mentale. Ma, in oltre 300 pagine, Shellenberger intervista giusto un homeless. Il resto è Sturm und Drang culturale. i fantasmi di joan didion Il premio Fatti non opinioni di questa tornata va ad Adama Bryant. La trovo citata sul Washington Post descritta come ex homeless, con master in Business administration. In verità è stata ospite di varie strutture, in un periodo incasinato della sua vita, ma non ha mai dormito sui marciapiedi.

Da dodici anni abita nel Tenderloin con i tre figli, di cui una psicotica, perché «è l'unico posto - orribile, con tutta quella gente che parla da sé e sbraita per strada - che posso permettermi». È cresciuta nello stesso project della sindaca e ricorda che la batteva a Monopoly: «È una brava persona ma non esistono misure che funzionino per tutti: se sfolli i senzatetto fai contenti i commercianti e scontenti gli altri».

Lei, ultimo lavoro l'autista Lyft, si è inventata Weekend Adventures, una no profit che organizza gite nei parchi per i bimbi poveri del quartiere che negli ultimi mesi le paga un salario: «Oggi peggio che mai? Forse. Però trentacinque anni fa mio zio fu ucciso per strada. Tutto è relativo. Quanto ai vigilantes, sono ex criminali: perché dovrebbero aver voglia di mettersi contro sul serio gli spacciatori?». D'altronde già nel '68 Joan Didion scrive Verso Betlemme, il suo reportage più sofferto, tra ragazzi storditi dalla metedrina e adulti-zombie.

La lezione di disfacimento che trae da Haight-Ashbury, qui vicino, vale per tutta l'America: "Il centro non reggeva più. Era un paese di avvisi di fallimento e annunci di aste pubbliche, di rapporti ordinari su omicidi involontari, di bambini nel posto sbagliato e famiglie abbandonate, di vandali che non sapevano nemmeno scrivere correttamente le parolacce con cui imbrattavano i muri.

Le famiglie scomparivano regolarmente, lasciandosi dietro uno strascico di assegni scoperti e ingiunzioni di esproprio. Gli adolescenti vagavano da una città straziata all'altra, liberandosi di passato e futuro come i serpenti si disfano della pelle, ragazzi cui non erano mai stati insegnati, e ormai non avrebbero mai imparato, i giochi che avevano tenuto insieme la società".Lo sconforto di ieri vale ancora oggi. come i veterani L'interrogativo resta, gigantesco e inevaso: che fare? Più case a prezzi abbordabili. Lo dice Adama, sempre pragmatica.

Lo ripete l'attivista Friedenbach: «L'investimento del governo Obama per i veterani ha funzionato, riducendo il rischio che finissero per strada. E non c'è neanche sempre bisogno di costruire ex novo: ci sono almeno 70 alberghi in centro pronti a vendere». Aggiunge Gumpert, il fotografo: «Sono state contate 40 mila unità abitative sfitte: è un lusso che non ci possiamo più permettere. Solo sistemazioni stabili, non tende, possono invertire la tendenza». Neppure la curatrice Conry si discosta granché: «Servono case per i residenti, non per i turisti Airbnb. E rivitalizzare anche i negozi che, se continuano a chiudere, lasceranno un quartiere fantasma».

È una ricetta di applicabilità globale, che qui mostra già esiti estremi. Uniqlo, il negozio del cashmere democratico preso d'assalto dai visitatori italiani, ha chiuso. Banana Republic, Gap e Old Navy, secondo l'ordine censuario della clientela, appartengono allo stesso gruppo. Quelli che compravano da Gap, che nel frattempo ha chiuso le sue belle vetrine su Market Street, sono stati retrocessi da Old Navy. I veri ricchi si spingono due isolati più in là per un cardigan da 2.000 dollari di Brunello Cucinelli. Molti vecchi clienti di Old Navy ormai fanno l'elemosina per strada. O cambia qualcosa o il centro non reggerà. 

Los Angeles. Carlo Nicolato per "Libero quotidiano" il 28 gennaio 2022.

Los Angeles è così liberal che perfino i repubblicani fanno a gara con i democratici a chi lo è di più. Così Dem che dal sindaco in giù, fino ai consigli distrettuali e di contea, tutti i posti chiave sono in mano a politici democratici di sinistra, e i distretti del Congresso sono tutte roccaforte blu. È così aperta, così progressive, così gay friendly che interi quartieri, come il West Hollywood, sono quasi interamente abitati da membri della comunità Lgtb. 

È così antitrumpiana che vanta con la California, di cui è la metropoli, un primato indiscusso, quello di aver citato in giudizio l'ex presidente per più di cento volte spendendo qualcosa come 41 milioni di dollari in quattro anni. A titolo di confronto, il Texas ha citato in giudizio l'amministrazione Obama 48 volte durante i suoi due mandati completi. Ha fatto causa per le politiche sul clima, per la difesa dei diritti dei consumatori e di quelli civili, e le politiche migratorie. 

Ma ahimè anche la California non si sottrae alla dura legge del trito luogo comune "non è tutto oro quello che luccica", quello cioè che vuole che proprio là dove tutto sembra perfetto, almeno secondo il punto di vista progressista, si nasconde l'ignominia, il peggio del peggio per un vero progressista. Andrebbe chiesto cosa ne pensano delle politiche Dem della città e dello Stato a quei migliaia di senzatetto accampati vicino allo stadio SoFi, dove tra tre settimane si svolgerà il Super Bowl. 

Affinché appunto la vista degli spettatori, fortunati e benestanti (un biglietto costa almeno 6mila dollari), in viaggio verso lo stadio non fosse rovinata dalla loro presenza, i senzatetto sono stati fatti smammare senza troppe cerimonie. Inutile dire che tra loro ci sono anche centinaia di immigrati "salvati" da Biden nell'ultimo anno, gli stessi per i quali appunto la California ha fatto causa a Trump.

A fare piazza pulita ci ha pensato il California Department Transportation, agenzia governativa con sede a Sacramento, che dato il tipo di mandato e il tipo di lavoro che svolge, si è occupata essenzialmente di ripulire il piazzale, facendo sparire tende, materassi, coperte ecc, senza preoccuparsi del destino dei loro proprietari. «Mi hanno portato via il divano dove dormivo», ha detto Dawn Toftee, 57 anni, al Guardian. 

Tali repulisti appunto vengono detti "sweep", ovvero "spazzate", e non sono per niente una novità nella democratica Los Angeles. Sono iniziati all'inizio della pandemia in nome dell'emergenza sanitaria e umanitaria, ma ai più è sembrata una scusa per togliere definitivamente dalla strada cenciosi senzatetto che disturbano il quieto vivere dei benestanti locali che, tra le altre cose, lamentano di pagare le tasse più alte di tutti gli Stati Uniti. 

La questione degli homeless e più in generale dei poveri è un problema serio a Los Angeles e una macchia di infamia per l'amministrazione Dem. Secondo i dati del Public Policy Institute of California nella Contea il 22% della popolazione vive in condizioni di povertà, mentre in tutta l'illuminata California la percentuale di persone che vivono in stato di indigenza o «quasi indigenza» è del 34%.  

I dati, gli ultimi disponibili, risalgono al 2019 ed è verosimile che dopo la pandemia la situazione sia ulteriormente peggiorata. Non è un caso dunque che il problema dei senzatetto sia diventato il tema trainante delle elezioni per il sindaco di Los Angeles che si terranno a novembre di quest' anno. 

La candidata repubblicana Karen Bass, afroamericana di 68 anni, sta attualmente scalando i vertici dei sondaggi promettendo per il primo eventuale anno di carica case e sistemazioni fisse al coperto per almeno 15mila senzatetto. Alla povertà va aggiunto l'altro problema crescente, e correlato al primo, di Los Angeles, la criminalità.  

L'anno scorso in città si sono contati 397 omicidi, un aumento dell'11,8% rispetto ai 355 dell'anno precedente e un aumento del 53,9% rispetto ai 258 dell'anno pre-pandemia del 2019. Il fallimento delle politiche Dem è palese, e in molti scommettono sulla fine del loro regno. 

DAGONEWS il 2 agosto 2022.

Il sogno americano è diventato un incubo. il nuovo capitolo della guerra tra ricchi e poveri si sposta a Seattle dove gli imprenditori stanno installando dei blocchi di cemento sui marciapiedi per impedire ai senzatetto di accamparsi. 

La città, guidata dai Democratici, lotta con una popolazione di quasi 13.300 senzatetto che spesso allestiscono tendopoli lungo le strade. Così i commercianti si stanno “difendendo” facendo installare dei blocchi di cemento talmente pesanti che non possono essere spostati senza attrezzature specializzate.

I blocchi spuntano come funghi a Georgetown, Ballard e Sodo e vengono installati in maniera illegale. Ma questo non sta fermando i commercianti che si dicono esasperati.

L'imprenditore JW Harvey ha dichiarato al “Seattle Times”: «Non c’è altra scelta. Ho passato più tempo ad aiutare i senzatetto che a gestire la mia attività. Ma adesso basta».

Nel 2020, Seattle e King County si sono classificate come la terza area della nazione con il maggior numero di senzatetto, con 11.700 persone che vivono per strada.

Las Vegas. Jeff German, accoltellato a morte il giornalista che svelava i peccati di Las Vegas. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022. 

German, 69 anni, indagava da decenni sui segreti della città. La polizia segue una traccia. I colleghi escludono che avesse ricevuto minacce dirette. 

Jeff German, un giornalista mai stanco di indagare nel cuore nero di Las Vegas. Una vita passata a scarpinare in cerca di news, a setacciare ambienti, a coltivare fonti. Lo dichiarava non con ostentazione ma con la passione di chi ama questo mestiere, ha voglia di scrivere ma spesso è già contento quando sa qualcosa. Poi viene il resto. Il lavoro di Jeff si è chiuso per sempre alle 10.30 di sabato, davanti alla villetta color pastello dove abitava: è stato pugnalato a morte. Dopo una lite con una persona, riferiscono i testimoni. La polizia assicura che non ci sono altri pericoli per la comunità, vi sarebbe già una traccia da seguire: ha diffuso la foto di una figura non riconoscibile che indossa un cappello a larghe tese, una vistosa maglia arancione (sembra quelle da operaio), guanti e ha un borsone a tracolla. I colleghi, intanto, escludono che avesse ricevuto minacce dirette o, se c’erano, loro non erano stati informati. Reazioni a caldo, capiremo se è così.

Le precisazioni servono ad anticipare sospetti e ipotesi, inevitabili per il profilo della vittima. German, 69 anni, non si è risparmiato nell’inseguire i casi. Prima ha sgobbato per quasi vent’anni con ilLas Vegas Sun , poi è passato nel 2010 al Review Journal, portandosi in dote contatti, esperienza e l’abilità a muoversi in una realtà complessa. Il suo quotidiano in un lungo articolo lo ha ricordato mettendo insieme i colpi migliori.

Il reporter ha fatto scoop su delitti del crimine organizzato, come quello di Herbert «Fat Herbie» Blitzstein nel lontano 1997. Ha scoperto piccoli e grandi imbrogli, ha svelato spese pazze e non autorizzate di imprese, ha rovistato nella cattiva amministrazione facendo emergere abusi. Nel 2017 Jeff aveva dedicato molto tempo al massacro compiuto da Stephen Paddock: il killer si era barricato in due stanze del Mandalay Hotel con un arsenale ed aveva sparato sulla folla di un concerto country. Sessanta i morti, suicida l’assassino. Un massacro senza movente. Anche in quell’occasione, German non si era fermato alla versione ufficiale: il tiratore — rivelerà — prima di mirare sugli spettatori ha centrato con uno dei suoi fucili i grandi serbatoi di carburante del vicino aeroporto. Forse pensava di poter innescare un incendio.

Il cacciatore di notizie sapeva tanto di mala, dell’organizzazione che ha prosperato, sotto forme diverse, nella città del peccato. L’aveva raccontata in un libro nel 2001, continuava a narrarla sul giornale e con un podcast che era un punto di riferimento per gli appassionati.

La mafia è temuta, studiata, analizzata ma qui, in pieno deserto, diventa anche «spettacolo» con un museo ben organizzato per chi vuole farsi un’idea. E se la fa. Jeff si muoveva tra i piani alti e quelli bassi, tra sedi di rappresentanza e corridoi anonimi, il riflesso di ciò che è questo posto, una volta la Mecca di grandi giocatori diventata, nel tempo, la meta di turismo di massa.

Ci sono le luci sfavillanti e le sorprese dei casinò più famosi lungo la celebre Strip, l’arteria principale. E poi, qualche chilometro più lontano, dietro le quinte, i locali con luci basse e toni tristi come quelli dei frequentatori. Donne e uomini seduti davanti alle slot machine in cerca della buona sorte. Il loro braccio è un prolungamento della macchinetta dove girano numeri o figure. Paddock, lo stragista, li fissava sostenendo di essere in grado di «controllare» le sequenze, poi è uscito di testa, sconfortato perché non vinceva più come prima.

A Vegas c’è sempre qualcosa da inseguire se hai voglia di farlo. Come nel lago Mead, ad est della città. A causa della siccità il livello dell’acqua si è abbassato facendo emergere resti umani in serie. Alcuni di annegati, in un caso però le povere ossa portano segni di pallottole, qualcuno fatto fuori negli anni ‘70 e infilato in un bidone poi gettato nel bacino. Un probabile regolamento di conti, affari del passato che ritornano, epiloghi truci. L’omicidio pianificato perché legato a traffici e in parallelo la violenza comune, magari per un contrasto personale.

Puoi morire per mano di un sicario e scaricato in un’area remota oppure essere accoltellato davanti alla porta di casa, come è toccato a Jeff German.

Giornalista investigativo ucciso a Las Vegas, arrestato un politico. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera l'8 Settembre 2022.

Svolta nell’inchiesta sull’uccisione del giornalista investigativo Jeff German a Las Vegas. La polizia ha arrestato Robert Telles, 45 anni, democratico, dirigente della contea di Clark: il reporter ne aveva rivelato i comportamenti «tossici» in ufficio. 

Un finale che non sorprende, una conclusione — se saranno confermati gli elementi — quasi scontata: hanno arrestato un politico locale sospettato diaver ucciso il giornalista investigativo Jeff German. 

Gli agenti hanno condotto una perquisizione e quindi fermato Robert Telles, 45 anni, democratico, dirigente nella contea di Clark, al centro di una serie di articoli scritti dalla vittima. 

L’amministratore è stato accusato di aver creato un clima «tossico» nell’ufficio con comportamenti irrispettosi, favoritismi e pressioni su chi considerava ostile. 

Alcuni dipendenti avevano anche registrato un video per documentare una relazione impropria del superiore. 

Per mesi German si è dedicato a questa storia scovando elementi utili, notizie, dettagli. E Telles aveva reagito prima negando, quindi polemizzando in modo aperto con il giornalista. Anche perché la tempesta aveva determinato la sua sconfitta elettorale all’inizio dell’estate. Dunque c’era un forte risentimento personale che lo avrebbe spinto fino alla vendetta diretta.

Prima della perquisizione le autorità hanno diffuso foto e video di una persona sospetta. Aveva un cappello a larghe tese che copriva di fatto il volto, portava i guanti e indossava una maglia color arancio. Difficile poterlo identificare. 

Ma nello stesso filmato c’era uno spezzone riguardato un grosso SUV, rosso scuro. Un veicolo molto simile era parcheggiato davanti alla casa di Telles. Coincidenza? 

Significativo poi che la Omicidi abbia cambiato lo scenario. Inizialmente ha parlato di una possibile lite tra il giornalista e un individuo, scontro forse seguito dall’attacco a colpi di coltello. Quasi che fosse stato un episodio di criminalità mentre i colleghi di Jeff non sapevano di minacce dirette. Successivamente gli inquirenti hanno allargato l’orizzonte sostenendo che nessuna pista era esclusa. Un’affermazione che non era sorprendente visto il passato di German, 69 anni, autore di scoop su mala, imbrogli e illegalità nella città simbolo del Nevada.

New York.  Antonio Carioti per il “Corriere della Sera” il 27 agosto 2022.

Che cosa ci faceva Joe Petrosino, tenente della polizia di New York, nel 1908 a Palermo, dove fu assassinato con tre colpi di pistola all'età di 48 anni?

Era impegnato a recuperare notizie su criminali siciliani emigrati negli Stati Uniti. E Cosa nostra non gliela fece passare liscia. Quasi cento anni dopo, in seguito all'attacco alle Torri Gemelle, molti altri agenti del New York Police Department (Nypd) sarebbero stati inviati all'estero, «in punti nevralgici al di fuori degli Stati Uniti», con il compito di sondare eventuali indizi della pianificazione di nuovi attentati del terrorismo islamico contro la Grande Mela.

Sono due delle numerose vicende ricostruite da Jules Stewart nel saggio Nypd. Storia della polizia di New York (Odoya), un volume ricco d'illustrazioni e denso di aneddoti che spazia dalla fondazione della città con il nome di Nuova Amsterdam (era originariamente una colonia olandese) fino ai nostri giorni. Una vicenda per molti aspetti contraddittoria, in cui alle pagine onorevoli si alternano quelle buie. 

In una metropoli così tumultuosa e tentacolare (detta anche Gotham dai suoi abitanti) per i tutori dell'ordine abbondano i rischi, che occorre saper affrontare con coraggio, ma anche le tentazioni, alle quali non tutti sanno resistere. Bisogna combattere gangster, terroristi, trafficanti di droga, sfruttatori della prostituzione. E capita non di rado che invece alcuni poliziotti preferiscano cercare un accomodamento, ricavandone vantaggi personali.

Gli episodi di corruzione sono frequenti nella vicenda del Nypd. Un «fenomeno ciclico», come scrive nella prefazione del libro Charles Campisi, per molti anni alla guida della Divisione affari interni incaricata di sorvegliare il comportamento degli agenti.

Scandali clamorosi vennero a galla nel 1894, poi nel 1930. A cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta fu un agente italo-americano come Petrosino, Frank Serpico (interpretato da Al Pacino in un film del 1973), a denunciare «un sistema di tangenti di proporzioni sbalorditive, che negli anni si era diffuso coma lava fusa nei distretti di polizia della città».

Un'altra piaga grave è il razzismo, diffuso nella società e anche tra gli agenti di New York. Il 13 luglio 1863, in piena guerra di Secessione, una folla in rivolta contro la coscrizione obbligatoria appiccò il fuoco a un istituto per piccoli orfani afro-americani, provocando oltre un centinaio di vittime. Oltre un secolo dopo, nel 1991, nella zona di Crown Heights esplosero disordini tra neri ed ebrei chassidici, con un morto civile e oltre 150 agenti feriti.

Non mancano episodi analoghi a quello di George Floyd. Per esempio nel 1978 il trentenne afro-americano Arthur Miller «fu strangolato a morte mentre opponeva resistenza all'arresto». Ma quella del Nypd è anche una storia di notevoli successi, come la cattura nel 1977 del serial killer «Figlio di Sam», alias David Berkowitz, responsabile di sei omicidi.

Oppure il calo del crimine che si verificò negli anni Novanta, quando il Dipartimento era guidato da William Bratton e poi da Howard Safir, non solo grazie alla linea di rigore nota come «tolleranza zero», ma anche in conseguenza dell'adozione di CompStat, un moderno sistema di registrazione e condivisione digitalizzata delle statistiche riguardanti i reati. Difficile trarre conclusioni univoche. Di sicuro appare condivisibile, data la difficoltà dei compiti che spettano al Nypd, una riflessione finale di Stewart: «Se mai c'è stato un lavoro in cui qualsiasi cosa tu faccia è molto probabile che sia sbagliata, è quello dell'agente di polizia».

New York, il censimento dei sotterranei: 350 persone vivono nei tunnel della metropolitana, in 29 accampamenti. Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera l'1 Maggio 2022.

La Mta, l’ente che gestisce la metropolitana cittadina, ha sgomberato gli accampamenti: il sindaco Adams ora promette censimenti regolari, anche per combattere il crimine. 

Un uomo e una donna sono morti venerdì sui binari della metropolitana di New York, travolti da un treno diretto all’altezza della 145sima strada. La polizia non è stata in grado di identificarli, non avevano addosso documenti, ma probabilmente erano senzatetto in cerca di un rifugio nei tunnel della subway newyorkese. Non è una novità: giusto trent’anni fa Furio Colombo raccontava nella raccolta di saggi La città profonda (Feltrinelli, 1992) i «vagabondi» che vivevano nelle gallerie fra i tunnel, dove la polizia raramente li andava a cercare, mentre nel 2000 Dark Days, un documentario del britannico Marc Singer premiato al Sundance, seguiva le persone che abitavano i tunnel dismessi sotto Riverside Park, nell’Upper West Side. All’epoca non si sapeva tuttavia il numero esatto dei «residenti», ma a febbraio la Mta, l’ente che gestisce la metropolitana cittadina, ha effettuato un censimento dei sotterranei newyorkesi scoprendo che ci vivono 350 persone divise in 29 «accampamenti», mentre altri 89 abitano nelle stazioni.

«La metropolitana non è il posto giusto da trasformare in un casa», ha spiegato al canale locale NY1 Janno Lieber, capo della Mta. Questi censimenti — ha aggiunto — verranno ora effettuati regolarmente, per scoprire e controllare gli accampamenti: per il primo, effettuato fra il 2 e il 3 febbraio, ci sono volute 12 ore, necessarie a setacciare 472 stazioni e oltre 1.000 chilometri di binari. «Abbiamo fornito le location esatte alla polizia e ai servizi sociali», ha spiegato Lieber, «così potranno cominciare a prendere i contatti con questa popolazione». Il censimento è stato voluto dal sindaco democratico Eric Adams che dall’inizio del suo mandato, a gennaio, ha promesso di sgomberare questi accampamenti sotterranei. «Non è accettabile», ha detto. «Le amministrazioni precedenti possono esserne disinteressate, ma noi non faremo lo stesso».

IL REPORTAGE

Big Mac, eroina e speranze: nel McDonald’s degli zombie di New York (a due passi da Times Square) di Andrea Marinelli

Le associazioni per i diritti degli homeless hanno però dato battaglia, sostenendo che questa decisione avrebbe ulteriormente marginalizzato le persone più vulnerabili, magari spingendole in situazioni ancora più pericolose, come i tunnel della metropolitana. «Vengono cacciati dalla metro, dai marciapiedi, dai parchi», dice al sito Gothamist Helen Strom, attivista di Safey Net Project, chiedendo invece alloggi per i senzatetto. «Sono sempre più ai margini e senza un sostegno». Questi accampamenti, sostiene però la Mta, sono la causa di numerosi incidenti: durante la pandemia è crollato il numero dei passeggeri, ma c’è stato un contemporaneo aumento delle persone che accedono ai binari.

Secondo lo stesso censimento, il numero di persone che accede ai binari sarebbe aumentato del 20% dal 2019, 1.267 soltanto lo scorso anno: di queste, 200 sono state colpite da un treno e 68 sono morte. «Non dovremmo neanche dirlo: i binari sono pericolosi e camminarci è illegale, può mettere a rischio la vita di una persona e avere conseguenze su migliaia di passeggeri», ha spiegato Pat Warren, capo della sicurezza della Mta. Circa metà di coloro che sono andati sui binari lo ha fatto volontariamente: ci sono persone che provano ad attraversarli per raggiungere un’altra piattaforma, per recuperare un oggetto caduto oppure perché dirette proprio gli accampamenti. Altri ci finiscono invece perché sotto effetto di alcol o sostanze, perché hanno problemi mentali o perché vogliono togliersi la vita.

Ogni incidente comporta in media un ritardo di 29 minuti: se un dipendente della Mta nota una persona sui binari, deve fermare i treni e avvertire la polizia, che deve poi intervenire. Per affrontare il problema, l’agenzia si sta quindi affidando a barriere e alla tecnologia: telecamere a circuito chiuso e sui treni, ma anche sistemi laser anti-intrusione che scattano se qualcuno si trova sui binari. Nonostante le proteste degli attivisti, il sindaco Adams è comunque determinato a portare a termine la sua promessa — gli accampamenti trovati sono stati tutti sgomberati — e a combattere il crimine nella metropolitana, aumentato del 60%. «Sto mandando il messaggio giusto», ha detto il primo cittadino nelle scorse settimane. «La nostra metropolitana deve essere sicura e affidabile per i suoi passeggeri».

Estratti dell'articolo di Massimo Basile per “la Repubblica” il 28 marzo 2022. 

Vivere tra la 75esima e la First Avenue, nell'Upper East Side di Manhattan può costare un occhio della testa, o un sacco a pelo. Dipende dal dettaglio se occupi l'ultimo piano di un palazzo anni '50 con terrazza o il marciapiede, al termine di una fila di vetrine di uno store dal nome "Rainbow", arcobaleno. […]

Questo è uno delle migliaia di luoghi di povertà nati a New York durante la pandemia e che il sindaco Eric Adams ha deciso di smantellare. Entro due settimane i poliziotti costringeranno gli homeless a sloggiare, portandosi via le loro cose. Adams vuole far togliere alla vista gli alloggi degli "invisibili", diventati ormai molto visibili. […]

L'annuncio arriva un mese dopo la decisione di "ripulire" la metropolitana, dopo l'ennesimo episodio di aggressione. New York si allinea ad altre città liberal come Los Angeles, San Francisco, Seattle e Washington DC, che hanno avviato la tolleranza zero. Adams ha garantito che gli sfrattati andranno a trovarsi meglio, ma non ha spiegato come. La polizia potrà allontanarli, ma non costringerli ad andare negli "shelter" ricoveri pubblici, dove già vivono in cinquantamila. Nessuno li voleva prima, e ancora meno oggi.

A Chinatown hanno detto che si opporranno all'apertura di un altro shelter, perché ne hanno già sei. […] 

La presenza di impalcature, ormai una in ogni strada di Manhattan, ha favorito la nascita di piccole case e orinatoi all'aperto. A Park Avenue, come intimoriti dall'eleganza della strada, gli homeless se ne stanno in fila dignitosamente per un pasto offerto dalla chiesa locale, ma in altre zone persone con i pantaloni calati fino alle ginocchia fanno i loro bisogni in mezzo ai passanti.

Altri vivono in maniera più riservata: qualcuno, tra Broadway e la 4th Street, ha creato una specie di camera con comodino. Nel gelo della notte, dentro il sacco a pelo, legge un romanzo di Paul Auster, illuminato da una piccola luce attaccata alla costa del libro. Non sa che il suo giaciglio, come il romanzo, ha le pagine contate. 

E ALLORA HO DETTO “IO PARTO”. Il concentrato di anime e vita nella stazione di New York. CAMILLA BARESANI, scrittrice, su Il Domani il 28 gennaio 2022.

Intorno ai binari e ai treni che partono si radunano persone di tutti i tipi, ed è per questo che sono il luogo perfetto per ambientare libri o film.

Con il successo del romanzone di Jacopo De Michelis, La stazione, tornano finalmente di moda queste cattedrali degli spostamenti, e nella fattispecie la Centrale di Milano.

Ma, fra tutte le stazioni, la più importante è sempre quella di Manhattan. La più grande e sfarzosa stazione del mondo. La più letteraria e la più cinematografica, nel senso che compare in infiniti film, serie televisive, spot pubblicitari, romanzi, saggi, canzoni e persino poemi.

Le stazioni ferroviarie sono il più fantasmagorico concentrato di esseri umani immaginabile. Studenti, impiegati, turisti, forze dell’ordine, personale delle ferrovie, manutentori, baristi, commercianti, ladri, disgraziati, truffatori, manager, migranti… nessun aeroporto, lontano dal centro delle città, privo di dintorni popolati e bassifondi e aiuole circostanti, potrà mai essere antropologicamente succoso quanto una stazione.

Con il successo del romanzone di Jacopo De Michelis, La stazione, tornano finalmente di moda queste cattedrali degli spostamenti, e nella fattispecie la Centrale di Milano.

IL POPOLO DELLA STAZIONE

Il mammozzone in stile “assiro milanese” venne inaugurato nel 1931: i milanesi l’aspettavano dal 1906, anno del primo bando di concorso. Poi, indecisioni, ripensamenti, modifiche, nuovi bandi, infine nel 1924 la stazione iniziò a essere realizzata con i suoi ornamenti Liberty ma anche Art Déco e con le sue cupezze arzigogolate, che oggi ci paiono un incrocio tra Babilonia e Gotham city.

L’architetto Ulisse Stacchini, tra l’altro anche autore del progetto dello stadio Meazza (oggi al centro delle polemiche per la ventilata demolizione), progettò questo cupo intruglio cementizio stipandolo di bassorilievi, erme, mosaici, atleti nudi tipo Foro italico, garguglie, cavalli nevrili dalle froge dilatate, scudi sabaudi, oltre a giganteschi lampadari, arcate in acciaio, un padiglione reale, corridoi, passaggi segreti e significativi richiami al fascismo – in seguito accuratamente cancellati.

Mentre Stacchini riposa al cimitero Monumentale, i 24 binari della sua stazione vengono quotidianamente utilizzati da circa 500 treni, con una media di 320mila passeggeri, oltre ai non quantificati individui semistanziali buttati tra le volte delle gallerie e i giardinetti – ossia i senzatetto abituali, i migranti in attesa di avanzare nelle loro perigliose rotte clandestine, gli spacciatori e i tossici, gli alcolisti e i disagiati di ogni genere, le frotte di borseggiatrici bosniache eternamente gravide.

TRENI E BINARI

Tutti insieme, viaggiatori e stanziali e curiosi, quotidianamente assemblati su e giù per gli scaloni e lungo i famigerati “tapis retardateur”, che hanno sostituito le scale mobili allo scopo di dirottare i passeggeri verso le occasioni d’acquisto anziché portarli direttamente ai binari, come invece facevano le scale mobili divelte durante l’ultima ristrutturazione.

Poi, scese dai treni o in attesa di salirvi, ecco le folle in visita al nuovo Mercato centrale, oppure in coda davanti alle farmacie per il tampone, dal parrucchiere o all’ufficio postale, nella gigantesca Feltrinelli, o anche lungo il tragico binario 21, utilizzato per deportare gli ebrei e i prigionieri politici antifascisti verso i campi di sterminio, luogo che dal 2013 ospita il memoriale della Shoah.

LA STAZIONE PIÙ BELLA

Nel frattempo, il lento trascorrere della storia, l’utilizzo di binari, gallerie e magazzini per le sfilate della fashion week (il primo fu Trussardi), la fretta dei passeggeri, l’abitudine dello sguardo hanno reso questo contenitore di umanità il degno protagonista del romanzo oggi in vetta alle classifiche di vendita, un monumento milanese, una specie di Vittoriano con binari, non più indigesto e kitsch ma addirittura ammirato.

Un santuario dell’opulenza decorativa, che il celebre architetto modernista Frank Lloyd Wright pare abbia definito «la stazione ferroviaria più bella del mondo» (tuttavia, benché riportata ovunque, sembrerebbe la solita citazione falsa).

IL GRAND CENTRAL

Ad ogni modo, in quel medesimo campo di iperdecorativismo monumentale c’è di meglio, e ogni volta che guardo la Centrale penso alla madre di tutte le stazioni, anzi di tutti i terminal (ossia le stazioni dove i binari si interrompono e il treno deve ripartire al contrario), il Grand central di Manhattan. Molti di voi l’avranno visitata, pur senza avere alcuna intenzione di salire a bordo degli scassati treni americani.  

Grand central è la più grande e sfarzosa stazione del mondo. La più letteraria e la più cinematografica, nel senso che compare in infiniti film, serie televisive, spot pubblicitari, romanzi, saggi, canzoni e persino poemi. 

Rappresenta anche il debutto degli americani nel campo della conservazione dei beni culturali. Nel 1956 la sua esistenza venne minacciata da un grattacielo progettato da Ieho Ming Pei, l’archistar cui si deve la famosa piramide di vetro piazzata nel cortile del Louvre.

L’Hyperboloid avrebbe dovuto svettare per 102 piani, e la sua costruzione comportava di radere al suolo la stazione. Un’estenuante battaglia giudiziaria impegnò tra gli anni Sessanta e Settanta la città di New York e la compagnia ferroviaria che possedeva la stazione.

Al posto del grattacielo di Pei, resistente alla bomba atomica (così veniva pubblicizzato), su Park Avenue sorse invece il meno svettante Pan Am Building (oggi MetLife Building), ispirato a un progetto di Le Corbusier del 1938, ma anche al Pirellone di Milano, costruito accanto alla Stazione centrale su progetto di Gio Ponti e Pier Luigi Nervi. Tout se tient. Morto Le Corbusier, il progetto definitivo del grattacielo Pan Am fu invece opera di Walter Gropius e dell’architetto italiano Pietro Belluschi.

UN LUOGO STORICO

Bisogna aggiungere che a Manhattan, nel 1963, era stato demolito l’edificio in stile Beaux-Arts che sovrastava i binari sotterranei della vicina Penn Station (quella dove oggi si prendono i treni per Washington), episodio che aveva suscitato un acceso dibattito sulla salvaguardia degli edifici storici della città.

I newyorchesi vollero evitare che succedesse anche al Grand central terminal, la cui esistenza veniva periodicamente minacciata da progetti di grattacieli avveniristici che avrebbero comportato la distruzione della sala d’attesa e comunque una totale eclisse della sua facciata.

La stazione era in perdita, sporca, malridotta, piena di infiltrazioni, mentre la costruzione di grattacieli era molto redditizia per le casse della città. Il conflitto finì davanti alla Corte suprema e molti personaggi del jet set e della cultura intervennero in difesa di Grand central, tra cui addirittura Jackie Kennedy. Infine, nel 1967 la stazione divenne New York City Landmark (monumento) e nel 1976 fu inclusa nel registro dei luoghi storici.

UNA STAZIONE MONUMENTO

Ma torniamo alla sua origine: piazzata all’incrocio tra la 42esima e Park Avenue venne finanziata dall’armatore Cornelius Vanderbilt, l’uomo più ricco d’America, che si fece raffigurare da una statua monumentale posta davanti all’ingresso della stazione, in puro stile zio Paperone/Ebenezer Scrooge: come il personaggio di Disney e come il suo prototipo, l’avaro riccastro protagonista di Canto di Natale di Dickens, indossa un cappottone con collo e polsi di astrakan, ossia il pelo del tenero karakul, l’agnellino nero dell’Asia Centrale. Prima o poi, anche le pellicce diverranno un’offesa vibrante, e la statua verrà eclissata in qualche magazzino.

Di Vanderbilt fu l’idea di celebrare la propria grandeur con l’edificazione di una stazione monumento. Dapprima ci fu il Grand central depot, inaugurato nel 1871; poi una serie di ammodernamenti e colossali ristrutturazioni e scavi, con il passaggio dai treni a vapore a quelli elettrici e con la creazione di un intricato sistema di rampe e binari sotterranei, che permettevano di far defluire e confluire i viaggiatori senza scontrarsi. Impilare binari nel sottosuolo, permetteva di risparmiare spazio, dati i costi stratosferici dei terreni circostanti la stazione, che impedivano l’ampliamento in superficie.

Due milioni e mezzo di metri cubi di terreno vennero dunque rimossi anche a forza di ripetute esplosioni, per frantumare lo scisto, che è la pietra durissima su cui poggia New York. Come raccontano Stella Cervasio e Alessandro Vaccaro nell’esaustivo Grand central dream (Francesco D’Amato editore), dove la roccia è vicina alla superficie si sono potuti costruire i grattacieli, e “si passa dai cinque metri di profondità di Times Square agli ottanta del Village, che per questo motivo non ha torri ma solo edifici bassi”. 

UNA PERSONA SOLA

La protagonista di Pretend It’s s a City di Martin Scorsese (2021), la bastian contraria Fran Lebowitz, eccepisce su qualsiasi cosa sia rappresentata nel plastico di New York, e invece si accalora difendendo Grand central terminal: «È così bello perché l’ha costruito una persona sola. Oggi un edificio di queste dimensioni non verrebbe mai realizzato da una persona sola, con una sola sensibilità. Erano i suoi soldi, e li usò».

Nel 1913 Grand central station acquisì infine l’aspetto che le conosciamo e fu inaugurata alla presenza di 150mila newyorchesi festanti e incuriositi, con la partenza del primo Boston Express. Oggi ci passano 750mila visitatori al giorno, che arrivano a picchi di un milione nei giorni delle feste. Di mattina, nell’ora dei commuters, arriva un treno ogni 58 secondi. Ci sono 44 banchine e 67 binari, e tutto questo per poi non andare troppo lontano, perché gli americani non hanno l’alta velocità e dunque preferiscono gli aerei, usando il treno solo per brevi spostamenti da pendolare, nei dintorni di New York.

UNA PIAZZA COPERTA

Lo splendore attuale è anche dovuto alla poderosa ristrutturazione iniziata nel 1994, con 200 milioni di dollari che strapparono la stazione al degrado: le gallerie sotterranee divenute rifugio di plotoni di senzatetto, l’inquinamento che aveva corroso i marmi, la volta stellata dell’atrio piena di infiltrazioni divenuta scura per la nicotina esalata dalle sigarette dei pendolari, i giganteschi lampadari anneriti, i rifiuti e le deiezioni accumulati in ogni meandro dei sotterranei.

La zona più famosa di Grand central è l’immane atrio, il Main concourse, con il famoso orologio a quattro versanti accanto cui ci si dà appuntamento per evitare di smarrirsi nel flusso formichinesco.

Una gigantesca piazza coperta, con l’altissimo soffitto che simula il firmamento, un cielo stellato che nelle intenzioni dei costruttori doveva essere azzurro come quello del sud Italia. 2.500 stelle in foglia d’oro, di cui 59 illuminate da led.

DA UNA PICCOLA GHIANDA

Cornelius Vanderbilt (originariamente era il cognome olandese van der Bilt, cioè proveniente dal villaggio di Bilt), inventò per la propria dinastia uno stemma gentilizio, con ghiande e foglie di quercia («da una piccola ghianda nasce una forte quercia»).

Così, se passeggiate per Grand central potete cogliere ovunque, su orologi e sovraportici, negli ascensori e sui sostegni delle lampade, ghiande e foglie di quercia, oltre a fregi in tema di trasporti, con ali e ruote di treni. Tutti scolpiti o fusi da artigiani francesi. Sulla facciata, sopra la testa della statua di Cornelius, ci sono un Mercurio, una Minerva e un Ercole, a rappresentare velocità, forza, sapienza. C’è anche il più grande orologio di Tiffany mai concepito.

Buona parte dei marmi, quello della doppia rampa che unisce Main concourse e biglietterie, le pareti d’accesso alla stazione e quelle del piano interrato dove si trovano negozi e ristoranti, provengono da Botticino, cioè da Brescia, proprio come il marmo del Vittoriano. 

Altro passaggio di rilievo sono le “volte Gustavino”. Questi Gustavino, liguri approdati a New York nel 1881, autodidatti, avevano inventato un sistema resistente al fuoco e molto rapido per assemblare laterizi formando delle volte.

Il mitico Oyster Bar & Restaurant della Grand central, la famosa Galleria dei sussurri (fermandosi alla diagonale di un arco si bisbiglia qualcosa e viene ripetuto lungo tutto il corridoio) hanno il tipico intarsio a spina di pesce che fu un marchio della Gustavino Company.

L’enorme terminal è visitabile con gite organizzate dalla rivista Architectural Digest, lungo le zone P (platforms, i binari del livello inferiore), L (le gallerie dei ristoranti del piano inferiore), U (il piano del Main Concourse) e B (la Balcony, con il famoso Campbell Bar in stile medieval-rinascimentale-neogotico italiano con gigli fiorentini. Vi si trova anche il Cipriani Dolci, in pratica una delle cinque succursali newyorchesi dell’Harry’s Bar). Al quarto piano c’è poi il Vanderbilt Tennis Club, dove potete prenotare la vostra ora di tennis o frequentare corsi tenuti da costosi trainer. I piani 2, 3, 5 e 6, riservati agli uffici, non sono visitabili.

Il lussuoso foyer che conduce all’immensa Vanderbilt Hall, la sala d’attesa poi divenuta spazio per esposizioni e party, è intitolato a Jacqueline Kennedy Onassis, per i suoi meriti di aizzatrice della mobilitazione pubblica che salvò Grand Central dalla demolizione.

C’è poi, vicino il reparto Lost&Found, deposito dei circa 20mila oggetti smarriti ogni anno dai viaggiatori. Come ovunque nel mondo vi approdano oggetti comuni e oggetti che è assurdo perdere. Anche una gamba di legno. Dal 1939 al 1964, Grand central ha ospitato gli studi della Cbs da cui l’anchorman più famoso d’America, Walter Cronkite, declamava le Evening News.

E poi botole, passaggi segreti come quello che permetteva a Franklin Delano Roosevelt di arrivare al binario 61, con la sua limousine blindata caricata assieme a lui sul treno, senza farsi vedere zoppicante per la poliomelite, approdando direttamente alla lussuosa suite del Waldorf Astoria attraverso i sotterranei. Proprio in quel sotterraneo, chiuso dagli anni ’50, Andy Warhol organizzò The Underground Party, con i protagonisti della Factory. In una lista di odori e soprattutto puzze specifici di New York, Warhol mise pure il tipico olezzo pervaso nei 19 ettari del Terminal.

AL CINEMA

Dopo tutte queste descrizioni, arriviamo alla ricchezza di rappresentazioni cinematografiche in cui è finita Grand Central. Se la nostra Stazione Centrale viene ricordata soprattutto per la scena di Totò, Peppino e la... malafemmena, con i protagonisti che scendono dal treno intabarrati come se fossero a Leningrado e i viaggiatori li osservano stupefatti per le incongrue pellicce e colbacchi, Grand central è finita in thriller, commedie sentimentali, fantasy, serie televisive…

Da Howard Hawks ad Alfred Hitchcock, da Francis Ford Coppola a Terry Gillian, da Brian De Palma e Sergio Leone e Martin Scorsese, l’immane atrio stellato con la luce che filtra dai finestroni, le scale mobili, gli anfratti, i telefoni a gettone, i binari sono stati lo scenario di amori, abbandoni, fughe, sparatorie.

Tra i tanti film, quelli di Hitchcock sono decisivi: Io ti salverò (1945) e Intrigo internazionale (1959). Ma poi anche l’angosciante scena finale ambientata da De Palma lungo le scale mobili di Grand central in Carlito’s Way (del 1993). Al Pacino non riuscirà a Escape to Paradise, come strilla un cartellone pubblicitario, imbarcandosi sul treno per Miami per ricominciare da capo in un’isola dei Caraibi, lontano dal suo passato da criminale.

«Ultimo giro di bevute, il bar sta chiudendo» sussurra Carlito sulla barella, mentre muore dopo essersi beccato due pallottole. E poi i film di animazione, con gli animali in fuga dallo zoo di Madagascar (2005), e i balli di La leggenda del Re Pescatore di Gilliam (1991), e Il padrino (1971) e Cotton Club (1984) di Coppola, ma pure il polpettone Innamorarsi di Grosbard, con Streep e De Niro, entrambi sposati con prole, che si innamorano sul treno pendolari. Immancabile il Dan Draper di Mad Men, che si alcolizza al Campbell bar. Eccetera eccetera.

NEI LIBRI

Quanto alla narrativa c’è quel noiosone cervellotico di Paul Auster, che utilizza Grand Central come fondale nella sua Trilogia di New York, ma c’è anche il fondamentale Inverno alla Grand Central – Racconti di strada (nottetempo) firmato dal pupillo di Kurt Vonnegut, Lee Stringer.

Ex pubblicitario finito tra gli “sleeping dogs” buttati sui cartoni e fatti di crack nei sotterranei della stazione, divenuto strillone e poi collaboratore dello street news, lo Scarp de’ tenis newyorchese, il giornale degli homeless, Stringer racconta la sua vita barbonica, tra arresti, spaventi, dormitori, botte, overdose, negli anni Ottanta, prima della ristrutturazione di Grand Central.

Con i diritti del libro rovesciò la sua sorte, e oggi pare che viva felicemente in campagna, sano e salvo. Altro libro da non perdere è Sulle fiumane della Grand Central Station mi sono seduta e ho pianto (SE), di Elizabeth Smart. Un unicum, un poema in prosa tradotto da Rodolfo Wilcock e lanciato in Italia da Cesare Garboli e Natalia Ginzburg, con la storia lacrimosa ma affascinante della via crucis di una ventenne che, in preda a estasi erotica e ossessione amorosa, si unisce a un uomo sposato e pure omosessuale; insieme vagabondano per l’America.

Li arrestano, lei è incinta, lui tenta il suicidio e poi la molla e torna dalla moglie. La poveretta va a Grand central station, si siede e piange. «Preferisco le pannocchie di granoturco ai genitali» conclude genialmente dopo aver esaurito tutte le sue lacrime. Effetto taumaturgico della stazione.

CAMILLA BARESANI, scrittrice. Nata a Brescia, vive tra Roma e Milano. Ha scritto sei romanzi: Il plagio (2000), Sbadatamente ho fatto l’amore (2002), L’imperfezione dell’amore (2005), Un’estate fa (2010), Il sale rosa dell’Himalaya (2014), Gli sbafatori (2015), Gelosia (2019). È anche autrice del saggio Il piacere tra le righe (2003), dei racconti di TIC. Tipi Italiani Contemporanei (2006), di La cena delle meraviglie, con il critico-gourmet Allan Bay (2007) e di Vini, amori (2014) con Gelasio Gaetani d’Aragona. Con Sandrone Dazieri ha scritto e condotto il programma quotidiano Mangiafuoco di Radio1. Per Rai3 ha ideato il format del programma Romanzo italiano, condotto da Annalena Benini. Insegna scrittura alla scuola Molly Bloom. È presidente del Centro Teatrale Bresciano.

Una cicatrice a forma di New York: visita a una città profondamente cambiata. Tornare a NYC dopo due anni e accorgersi che la città che era, non esiste più. Forse, però, non ha più senso cercarla: la pandemia l'ha trasformata. Andrea Camillo su La Voce di New York il 03 gennaio 2022.

"La mia personale cicatrice ha avuto la forma della linea rossa della metropolitana che prendevo ogni giorno per spostarmi da Brooklyn a Manhattan, quella dei tanti percorsi fatti a piedi per riempirmi gli occhi, il naso e le orecchie del posto in cui mi sentivo finalmente a casa... Attorno a me avevo una città ancora immersa nella propria sofferenza, alle prese con traumi simili ai miei ma chiaramente non miei. Anche nel dolore, New York mi ha mostrato la sua unicità che però in questo momento mi è parsa quasi esclusiva, del tipo: tu non puoi capire, perché non eri qui... New York è cambiata, ma non è proprio la sua costante disposizione al cambiamento una delle caratteristiche che me l’hanno sempre fatta amare?"

Ho lasciato New York il 23 febbraio del 2020. La pandemia era appena cominciata, anche se ancora non ce n’eravamo resi conto. Dopo aver trascorso tre mesi qui, ero certo che sarei ritornato a breve, che il 2020 sarebbe stato l’anno in cui sarei riuscito finalmente ad aggiungere altri e decisivi mattoni per costruire la mia nuova vita newyorkese. Ripensandoci ora, mi sembra di rigirarmi tra le mani dei ricordi scritti in una lingua sconosciuta, che attivano in me sensazioni vaghe, complicate da decifrare. 

In questi due anni di pandemia la mia vita ha subìto un brusco cambio di rotta. Il Covid-19 colpisce spesso senza farsi vedere e anche molte delle cicatrici che lascia sono invisibili. Magari le conosciamo soltanto noi, ci sembrano persino sciocche in confronto a tante altre, così non ci teniamo a metterle in mostra. Eppure prudono con puntualità. La mia personale cicatrice ha avuto la forma della linea rossa della metropolitana che prendevo ogni giorno per spostarmi da Brooklyn a Manhattan, quella dei tanti percorsi fatti a piedi per riempirmi gli occhi, il naso e le orecchie del posto in cui mi sentivo finalmente a casa. Nei tanti mesi trascorsi lontano, non ho fatto altro che osservare questa cicatrice tenendomi aggrappato ai ricordi e alla speranza, certo che presto sarei potuto ritornare e avrei potuto ricominciare a vivere New York dal punto in cui mi ero fermato, come fosse un libro lasciato a metà.

Passato attraverso la frustrazione, lo scoramento, la rabbia e il senso di ingiustizia, alla fine sono tornato. Sono arrivato attraverso il Path, la linea che collega il New Jersey con Lower Manhattan. Sceso al Worl Trade Center, ho camminato per le strade dell’antica New Amsterdam accolto dalla solita atmosfera non curante di New York. Certe cose non cambiano, mi sono detto. Sono andato verso il South Street Seaport, il vecchio mercato del pesce ora trasformato in scenografia post-industriale adatta per il brunch. Affacciandomi sull’East River, ho guardato e fotografato il Ponte di Brooklyn, cominciando a sentire un’inquietudine che ho tentato di allontanare continuando a passeggiare, come facevo prima. Così da Fulton Street sono andato in direzione nord, osservando le insegne cambiare rapidamente lingua finché Chinatown non mi è cresciuta attorno, con i suoi colori e la sua folla, i suoi odori e i suoi rumori. Ricordare ancora le strade mi ha rincuorato e anche un po’ galvanizzato, allora via verso Canal Street, schivando i tratti troppo affollati, le bancarelle, le offerte di borse e orologi, continuando su Mulberry Street, Little Italy, Lafayette dritto fino a Houston Street, lasciando l’East Side alla volta della parte ovest di Manhattan, in direzione dell’adorato Washington Square Park. Proprio qui, però, le mie ingenue auto-rassicurazioni si sono scontrate ruvidamente con la realtà. 

Se risalendo Manhattan mi ero illuso che la città avesse mantenuto intatta o solamente un po’ ammaccata la sua anima distintiva, qui nel parco ho visto da vicino le ferite e il trauma somiglianti agli squarci e ai detriti che restano dopo un uragano o un terremoto. Ho trovato una folla che sembrava esibire una forzata spensieratezza. La musica del pianista vicino all’arco, solitamente così udibile, si perdeva in un frastuono dove confluivano toni di voce troppo alti, urla sconnesse. A inizio Ottocento questa zona venne utilizzata come fossa comune a causa dell’epidemia di febbre gialla che colpì la città. Sotto Washington Square Park riposano ventimila persone, ma nei tanti giorni che trascorrevo qui ero solito dimenticarmene, o comunque vedevo la vitalità della superficie agitarsi in modo rispettoso nei confronti della morte sotto di noi. Tornandoci adesso, invece, ho sentito distintamente la sofferenza sopra e sotto la terra. 

Per due anni ho ascoltato a distanza e con speranza lo slogan New York is back, ma la città non sembra tornata. La New York di prima esiste solo nei ricordi e quella che c’è oggi si confronta con le proprie ferite: curandole a fatica, negandole, stuzzicandole. Di questa città mi sono innamorato subito proprio per la sua capacità di accoglierti senza badare a te, per il suo severo, ma unico modo di dirmi benvenuto. Ora mi sono sentito per la prima volta estraneo, quasi rigettato. Attorno a me avevo una città ancora immersa nella propria sofferenza, alle prese con traumi simili ai miei, ma chiaramente non miei. Anche nel dolore, New York mi ha mostrato la sua unicità che però in questo momento mi è parsa quasi esclusiva, del tipo: tu non puoi capire, perché non eri qui.

Anziché scendere di nuovo al World Trade Center sono salito fino a Penn Station, con i piedi doloranti, come se dovessi scontare una penitenza. Anche la consueta frenesia della stazione aveva un che di allarmato e allarmante. Nel vociare della folla diretta verso i treni percepivo un’ostinata e ostentata eccitazione che però mal celava l’agitazione. Ho lasciato New York con un sollievo che mai avrei immaginato nei due anni trascorsi ad aspettare il giorno in cui sarei potuto tornare. Sul treno diretto in New Jersey, ho mandato giù l’amarezza e mi sono detto che ha poco senso forzare e deformare l’immagine odierna di New York per farla aderire a quella di un ricordo. New York è cambiata, ma non è proprio la sua costante disposizione al cambiamento una delle caratteristiche che me l’hanno sempre fatta amare? Qui il prima esiste solo per chi si ostina a volerlo cercare e sceglie di distrarsi dal presente, immergendosi in una nostalgia consolatoria che serve solo a stordire. Tornare a New York è stato difficile, mi dico, ma pensare di non tornare lo è senz’altro ancora di più. 

Andrea Camillo. È nato a Roma nel 1990. Laureato in Italianistica all'Università di Roma Tre, ha studiato Tecniche della Narrazione alla Scuola Palomar di Rovigo e promozione della cultura e dei prodotti italiani a New York. È un insegnante e un consulente di scrittura. È autore del romanzo "La chimica dell'attimo" (Ianieri Edizioni, 2021)

Chiedendo in giro per New York “Scusi, parla italiano?” arriva la risposta: “I wish!”. Per la Settimana della Lingua Italiana nel Mondo racconto di una giornata girovagando per Manhattan e Brooklyn senza una parola d’inglese: le reazioni. Lenni Lippi La Voce di New York il 18 ottobre 2021.

Per chi non lo sapesse, questa è la ventunesima Settimana della Lingua Italiana nel mondo, l’iniziativa nata nel 2001 da una collaborazione tra l’Accademia della Crusca, la rete diplomatico-consolare e gli Istituti Italiani di Cultura.

L’italiano, la lingua dell’opera, della poesia, della letteratura, la lingua del buon cibo e della canzone. La lingua di un popolo con una ricca storia di esperienza migratoria. È pressoché impossibile avere dati certi sul numero di italiani nel mondo ma secondo l’Istat e il Ministero degli Esteri sono circa 50 milioni – tra espatriati e nati all’estero – gli italiani al di fuori dei nostri confini. Siamo dovunque.

E qui in America essere italiano ha (quasi) sempre voluto dire avere qualcosa in più, purtroppo non solo nel bene ma anche nel male.

Gli italiani piacciono, sono famosi, sono simpatici e puoi stare sicuro che almeno quattro parole quattro le sanno tutti: pizza, ciao, bella e bravo. E New York non sarebbe New York senza la comunità di italoamericani: impossibile non incontrare quotidianamente qualcuno con un parente italiano. Quindi, per la settimana della lingua italiana nel mondo, me ne sono andata in giro per New York, fingendo di non parlare una parola di inglese, per raccogliere le reazioni della gente e vedere quanto sia fondamentale avere un cellulare con una buona rete dati e la batteria piena per sopravvivere!

Parto dal mio quartiere di Brooklyn, South Slope, mi infilo nella metro R e chiedo al bigliettaio “Scusi, parla italiano? Mi serve un biglietto”. Mi guarda due secondi, senza cambiare espressione, poi mi fa cenno di no con la testa, ed è chiaro che non è la risposta alla mia domanda ma sottintende “guarda, non ho capito una parola ed è anche inutile che ci riprovi”. Ringrazio in italiano, striscio la mia metro card e mi dirigo a Manhattan, Park Avenue, destinazione Istituto Italiano di Cultura, dove ovviamente tutti parlano italiano, compreso il personale straniero. Mi riceve il direttore Fabio Finotti che mi illustra gli eventi dedicati a “Dante l’italiano” on-line sul sito dell’Istituto da lunedì 18 a domenica 24 Ottobre. Parliamo un po’ degli “italici”, come preferisce definire italiani e italoamericani con un unico termine, e poi lo saluto per dirigermi a Grand Central. Lungo Park Ave mi infilo in un lussuoso albergo, il Loews Regency Hotel e chiedo all’usciere se parla italiano; mentre mi fa cenno di no con un piccolo sorriso, mi indica i concierges. Lei era occupata a digitare al computer a testa bassa, quindi mi riceve lui: “Salve, parla italiano?” Panico, sguardo fisso un po’ vuoto, lei smette di digitare, mi guarda, lo guarda, si guardano, lui torna a me e mi dice “I’m sorry”, io non mollo, “non c’è nessuno che parla italiano?”, indicando gli altri due concierges impegnati con altri clienti.

Macché, un altro no con la testa, sincronizzato. Saluto e me ne vado alle informazioni centrali di una Grand Central mezza vuota, dove di solito devi fare gincane per districarti in un formicaio di gente. Lo sportello circolare centrale è ormai mezzo digitale, ci sono computer al posto delle persone ma due operatori sono in carne e ossa. Mi rivolgo al primo: “scusi, parla italiano?”; “I wish!” Mi risponde in una piena risata. Non ho resistito, stavo fingendo di non sapere l’inglese ma l’esclamazione è stata troppo divertente… e ho riso con lui. Lo ringrazio e faccio il giro per passare all’altro, stessa domanda, e anche stavolta è un no con sorriso. Esco dalla stazione e vado alla biblioteca pubblica. All’ingresso qualcuno mi risponde “un poquito de español” ma non è la settimana giusta per quello, quindi salgo ed entro nello shop dove però l’elegante signora alla cassa mi rivolge a bassissima voce un cortese “I’m sorry” con un altrettanto garbato sorriso. Esco e decido di provare un ristorante italiano. Il più vicino a Bryant Park è Arno, sulla 38esima. Entro e individuo subito il proprietario: è seduto da solo ad un tavolo tondo per otto piazzato in disparte dalla sala ma a vista. Sta mangiando, indossa un pantalone elegante e camicia scura, corpulento, carnagione mediterranea, mi vede e mi fa cenno di avvicinarmi con la mano con fare più minaccioso che bonario. “Salve parla italiano?” “Se, un poco – mi fa molto serio – chevoi?”. Ah, penso io, ho trovato l’italoamericano, “e di dov’è?” “io sono de Portogallo”. La cucina italiana vende decisamente meglio di quella portoghese e quindi ha imparato male un po’ di italiano però non mi sono fermata a mangiare quindi non so dirvi come cucina.

Dopo l’italiano portoghese, decido di andare “a casa” e mi dirigo a Little Italy. Andando verso la metro, passo davanti ad un negozio, fuori c’è un ragazzo che fermo sul marciapiede sta chiacchierando con due signore. Mentre lo supero, pronuncia due parole in inglese, io mi fermo, mi giro, lui mi guarda e gli dico “sei italiano!”. Subito gran sorrisi, e come ti chiami, e che fai qua; lui si chiama Nicolò Riva ed è qui a New York solo per un mese con il suo multi brand pop up shop ‘Style Hunter Milano’, poi si sposterà a Miami e poi tornerà in Italia, quindi lui non vale per questa ricerca ma gli italiani scambiano sempre due parole quando si incontrano all’estero e così facciamo.

Finita la chiacchierata, la metro mi porta a Little Italy e mi faccio uno dopo l’altro: Alleva Ricotta & Mozzarella, Piemonte Ravioli dal 1920 e Ferrara, bar pasticceria dal 1892. Nel primo c’è un ragazzo italo americano, l’attività è di famiglia, sa qualche parola imparata dal papà di Avellino ma non si può dire lo parli. Dopo pochissime parole tirate fuori con grandissima fatica si arrende e passa all’inglese, riesce giusto a dirmi che però i loro prodotti sono originali e il “fiore di latte” è buono.

Nel secondo invece si parla messicano, Piemonte Ravioli resiste dal 1920 con qualunque gestione.

La terza, la pasticceria vecchia più di un secolo, ha una macchina ATM proprio all’ingresso che diffonde altissima Bésame Mucho cantata in francese, il personale è tutto straniero e nessuno parla italiano, solo il proprietario, che però non c’è. E allora esco e mi infilo nell’emporio accanto, con le statuine del presepio fatte a mano e le caffettiere in vetrina. Dentro, il signor Ernesto Rossi detto Henry, si illumina quando mi sente parlare italiano. Anche lui ci prova a dire qualcosa ma Henry ha più di 70 anni ed è nato e cresciuto dietro l’angolo quindi è italiano di seconda generazione. L’italiano, mi racconta in inglese, non l’ha mai saputo veramente. Lui sapeva un po’ di napoletano perché il papà era di Avellino (il 73% degli italoamericani ha origini del sud, 17% del nord e 10% centro) e quando ha provato ad andare a lezioni di italiano ha smesso quasi subito perché non riconosceva nulla di quello che sapeva lui. Mi fa sentire l’incisione di una canzone scritta da lui (in inglese) e poi prende la chitarra e me la canta live. Henry ha perso la moglie 6 mesi fa per Covid, è stato un piacere tenergli compagnia per un po’. Ma ancora niente italiano, nemmeno tra gli italoamericani. La verità è che negli anni Little Italy è stata praticamente inglobata dall’adiacente China Town e gli italiani/italoamericani si sono spostati verso altri borough, come Brooklyn, Staten Island, o addirittura fuori nel New Jersey o in Florida.

E allora riprovo con un luogo turistico, dove si è abituati a tante lingue: vado al MOMA. Il primo addetto appena entri l’italiano non lo sa. É imbarazzato, non tanto perché non sa la mia lingua ma perché capisce che non saprebbe come comunicare con me; “nessuno parla italiano?” e sempre imbarazzato dice no, chiede sorry e alza le spalle mentre allarga le braccia ma non mi arrendo, giro a destra e vado agli sportelli Membership. Chiedo di nuovo, stavolta accorcio i tempi e lo faccio in inglese e la ragazza reagisce tutta soddisfatta: “Yes, our manager”. Valentina Mangiameli è italiana quindi sì che parla italiano ma è l’unica nel museo. Ovviamente guide e alcune indicazioni sono multilingue ma il personale è raramente poliglotta. E se proprio conoscono un secondo idioma è molto più probabile che sia lo spagnolo. Chiacchiero un po’ anche con Valentina e poi decido di tornare verso casa. Torno a Brooklyn e vado a Bensonhurst dove si trovano market e ristoranti italoamericani. Un gruppo di signori fuori alla pasticceria Villabate Alba, appena hanno sentito l’italiano, si è messo subito a far domande: “E di dove vieni?” “E tieni i figli?” “E addostà a tuo marito?” È un miscuglio di Calabria, Campania e italiano in una grammatica mezza americana, a volte pensano o fanno finta di aver capito e a domande sul come, dove o quando, rispondono “eh sì, sì” ma nonostante l’assenza di italiano, si sentono italiani, ci tengono e ne sono orgogliosi. Se invece ci si sposta a Brooklyn Hieghts, sulla bellissima Promenade di fronte allo stupefacente dipinto dello skyline di Manhattan sempre diverso ogni volta che ci si va, tutti hanno fretta e nessuno si ferma a cercare di capire cosa dice la straniera che parla un idioma sconosciuto. Cercano di capire ma lo fanno continuando a camminare e tutti reagiscono allo stesso modo: gran sorrisi che accompagnano tanti “sorry”. Un ragazzo ha provato a dirmi qualcosa, ma evidentemente delle poche lezioni di italiano che avrà preso ricordava solo il fatto di averle frequentate; solo una signora si è fermata, si è messa la mascherina e a debita distanza mi ha chiesto in inglese cosa mi servisse. Le ho detto che volevo andare sul ponte di Brooklyn, gliel’ho mimato con le mani, gliel’ho ripetuto tre volte, alla fine si è arresa, si è scusata e se ne è andata. E una non mi ha filato proprio, ha tirato dritto come non ci fossi.

Risultato: nella mia esperienza di un giorno 8quindi presa per quel che è) non ho trovato nessuno che parlasse l’italiano a New York, neanche gli italoamericani. L’idea però che ci siano eventi culturali, sia a livello istituzionale come presso l’Istituto Italiano di Cultura che a livello privato, rappresentano comunque l’impegno a mantenere viva all’estero una lingua meravigliosa, ricca e articolata, colta e popolare, capace di trasformarsi in 20 dialetti (che non sono i semplici accenti americani). La lingua italiana è presente e celebrata a New York: dalla lirica alla cinematografia, dalle piccole produzioni teatrali agli eventi tradizionali, c’è interesse per la nostra cultura. La sfida è tenerne alto il livello.

Lenni Lippi nasce a Roma dove si laurea in Scienze Politiche e collabora con Italia Radio del circuito L’Espresso. Dopo aver conseguito un master in Economia e gestione delle imprese audiovisive, persegue la carriera di attrice. Nel 2017 si trasferisce negli USA e lo scorso anno finalmente arriva a New York.

(ANSA l'11 febbraio 2022) - Il neo sindaco di New York, l'afroamericano Eric Adams, si sente un 'unto del Signore', convinto che la sua carica di primo cittadino sia stata guidata da Dio. "Non ho mai dubitato di questo per un momento, Dio mi disse 'Eric, tu diventerai sindaco", ha rivelato intervenendo ad un evento interconfessionale alla biblioteca pubblica della Grande Mela, come riporta Politico. Una gaffe che si aggiunge a quella del Fishgate, quando è stato sorpreso a mangiare pesce in un ristorante italiano nonostante si dichiari vegano.

Massimo Basile per "la Repubblica" il 9 febbraio 2022.

Per mesi il "sindaco vegano" di New York Eric Adams aveva parlato con amore di insalate, lattughe, lenticchie e verdure. Si era messo in posa per i fotografi, in cucina con il grembiule, mentre preparava un "chili" vegetariano a base di fagioli, pomodoro, pepe verde, cipolla e otto spezie differenti. Appena la settimana scorsa aveva lanciato i "Vegan Fridays", i venerdì vegani, nelle mense delle scuole pubbliche della Grande Mela. «Questa scelta - aveva commentato, con emozione ha cambiato letteralmente la mia vita».

Ma lunedì Adams ha dovuto ammettere con una dichiarazione pubblica che, ebbene sì, ogni tanto mangia anche pesce, contravvenendo alla regola vegana numero uno che vieta di alimentarsi con prodotti che provengono dal mondo animale. A smontare mesi di narrazione vegana era arrivato nel weekend lo scoop del sito Politico , che ha rivelato come Adams in realtà mangi pesce in un elegante ristorante italiano sulla 52ª Street, Osteria La Baia, dove servono vassoi ricolmi di ostriche, piatti mignon di pesce spada adagiati su letto di pomodorini e abbondanti piatti di penne rigate all'aragosta. Lo staff aveva provato a smentire, sostenendo che il sindaco avesse mangiato solo una parmigiana senza formaggio, ma ci hanno creduto in pochi. Già in estate il quotidiano conservatore New York Post aveva parlato di blitz segreti in un ristorante di pesce a East Harlem. Lunedì i reporter lo hanno atteso al varco, e lui non ha gradito il fuoco di fila di domande sulla dieta.

«Non preoccupatevi di cosa va nel piatto del sindaco Adams, mettete questi elementi nel vostro», aveva commentato stizzito. «A tutti quelli che vogliono chiedermi cosa mangio - aveva aggiunto - dico che ho più di diciotto anni e so badare a me stesso. Se non lo avete notato, guardate le foto di ieri e quelle di oggi: indosso i completi molto meglio di quanto facessi otto anni fa». Con la nuova dieta Adams ha perso quasi sedici chili, finendo anche per mettere sotto controllo il diabete che lo affliggeva da anni e gli stava pregiudicando la vista. Tutto molto bello, ma poi il sindaco ha dovuto arrendersi all'evidenza. E ha reso pubblica una dichiarazione: «Voglio essere un modello per coloro che aspirano a seguire una dieta a base di verdure - ha scritto - ma, come ho detto, sono perfettamente imperfetto, e occasionalmente ho mangiato pesce».

Il "FishGate" non è solo una questione di vertebrati acquatici variamente bolliti, ma chiama in causa l'attendibilità di un personaggio pubblico, in bilico tra il mentire e l'enfatizzare una realtà al punto da stravolgerla, o edulcorarla. Il caso fa il paio con quello che aveva accompagnato la sua campagna da sindaco: come proprietario di un palazzo con quattro appartamenti a Brooklyn, di cui tre dati in affitto, il futuro sindaco non era stato in grado di fornire documenti fiscali che attestassero quanto avesse ricevuto negli ultimi anni. L'episodio era finito nel dimenticatoio dopo il facile successo alle elezioni di novembre, ma è tornato a galla con il pesce. Un indizio era spuntato in estate. L'aspirante sindaco, durante il suo tour elettorale, aveva portato i giornalisti in visita ai suoi appartamenti di Brooklyn, per allontanare ombre, quando in uno dei frigoriferi era spuntata una confezione galeotta di salmone.

Scandali alimentari. Cos’è il “fishgate” che ha colpito il nuovo sindaco di New York. Linkiesta il 9 Febbraio 2022.

Eric Adams, eletto da pochi mesi alla guida della Grande Mela, sarebbe stato sorpreso in un ristorante a mangiare pesce, nonostante si professi vegano. L’episodio, ultimo di una serie, mette in dubbio la sua attendibilità

Per Eric Adams, da novembre sindaco della Grande Mela, c’è un nuovo motivo di imbarazzo. Dopo le polemiche sorte per la decisione di nominare il fratello come vicecapo della polizia – mossa poi ridimensionata dalla commissione etica – e l’amico Philip Banks III, indagato (ma non ancora incriminato) in un caso di corruzione pubblica, come vicesindaco, arrivano le contestazioni di tipo alimentare.

Il primo cittadino, che si è spesso vantato del suo regime vegano, è stato sorpreso da un giornalista in un ristorante italiano a Midtown, Osteria La Baia, mentre mangiava pesce. La sua replica è stata rapida: «Voglio essere un modello per le persone che stanno seguendo o aspirano a seguire una dieta vegetariana ma, come ho detto, sono perfettamente imperfetto e occasionalmente mangio pesce», ha ammesso.

Una retromarcia rispetto alle affermazioni del suo portavoce, Maxwell Young, che fino al giorno prima aveva smentito sul sito Politico ogni voce sul fatto che il sindaco consumasse pesce. Un episodio piccolo, certo, che ha già ricevuto il nome di “fishgate”, che però intacca l’immagine di Adams e soprattutto ne mina l’attendibilità. Già in campagna elettorale aveva dimostrato alcune incertezze sulla sua abitazione a Brookyn, dove alla fine si decise di invitare in visita i giornalisti (e fu trovato in frigo del salmone).

Da “il Giornale” il 9 gennaio 2022.  

È alla guida della più grande città d'America da pochi giorni, ma Eric Adams è già al centro delle polemiche. C'è chi lo accusa di gestire le prime nomine come «un affare di famiglia», ignorando le preoccupazioni sul fronte dell'etica. Così nel giro di una settimana il neosindaco di New York ha piazzato il fratello minore Bernard sulla prestigiosa poltrona di vice capo della polizia e ha promosso a vice sindaco il suo più grande amico, ex poliziotto costretto a lasciare la divisa perché coinvolto in un caso di corruzione. 

Entrambe le nomine, a differenza della altre, sono avvenute in sordina, quasi a confermare scelte quanto meno controverse e che sollevano legittimi dubbi sul fronte del conflitto di interessi. Non che la cosa imbarazzi Adams, l'ex agente che i gli avversari definiscono arrogante e un pò spaccone nel suo mostrarsi sempre deciso e sicuro di sé. Tanto che lui, parlando in una scuola del Bronx, ha replicato ai detrattori cavalcando le critiche: «Quando un sindaco si mostra spavaldo, la città mostra spavalderia. La leadership dovrebbe sempre avere una buona dose di spavalderia. Questo è quello che è mancato a New York in questi anni».  

Intanto il fratello Bernard («con Eric siamo separati alla nascita», disse in campagna elettorale) guadagnerà 242 mila dollari l'anno lavorando a fianco della prima commissaria donna e afroamericana della storia del Dipartimento di polizia di New York, Keechant Sewell. Non è chiaro se la commissione etica della città - se non altro per fugare ogni sospetto - valuterà il caso di fatto senza precedenti in tempi recenti.  

Perché se Michael Bloomberg affidò un incarico alla sorella presso le Nazioni Unite e Bill de Blasio alla moglie Chirlaine per un programma contro le malattie mentali, si trattava di ruoli non retribuiti. Fa rumore anche la nomina a vicesindaco del sodale Philip Banks, che con la delega per la pubblica sicurezza affiancherà gli altri cinque vice sindaco donna. Si era già sistemato nell'amministrazione municipale anche il fratello di Banks, David, come assessore alla scuola. E persino la sua compagna Sheena Wright, nominata tra i vice sindaco. 

«I newyorchesi si aspettano che gli amministratori pubblici siano arruolati in base alle loro capacità e non perché hanno relazioni di parentela o di amicizia col primo cittadino», attaccano alcuni rappresentanti delle associazioni cittadine. E le scelte di Adams creano irritazione anche all'interno del suo stesso partito, con la sinistra dei democratici già sul piede di guerra per le posizioni del «sindaco sceriffo» su sicurezza e ordine pubblico e per le sue critiche alle severe restrizioni anti Covid decise dal predecessore.

 Dagotraduzione da Dnyuz il 26 gennaio 2022.

Un incendio nel Bronx ha soffocato un condominio con un denso fumo nero, uccidendo 17 persone, molte delle quali bambini. Era il nono giorno di gennaio, una domenica, lo stesso giorno in cui un adolescente cassiere di un Burger King a Manhattan è stato ucciso a colpi di arma da fuoco durante una rapina. 

Il sabato successivo, un uomo ha ucciso una donna che non aveva mai visto prima spingendola davanti a un treno della metropolitana in arrivo a Times Square, un crimine che inorridisce in modo unico i newyorkesi, imprevedibile e casuale come un fulmine.

Tre giorni dopo, martedì, un ufficiale del Bronx è stato colpito a una gamba durante una rissa. Mercoledì: un bambino è stato colpito in faccia da un proiettile vagante mentre era seduto in un'auto parcheggiata nel Bronx. Giovedì: un detective si è preso un colpo di pistola, questa volta durante un arresto per droga a Staten Island. 

E venerdì, due agenti che hanno risposto a una disputa domestica ad Harlem sono stati colpiti a colpi di arma da fuoco nel corridoio di un appartamento da un uomo con una pistola rubata, che ne ha ucciso uno e ha lasciato l'altro aggrappato alla vita.

Tutti questi incidenti si sono verificati in una città ancora sconvolta dal coronavirus e alle prese con la variante Omicron, che ha tenuto vuote le vetrine e ritardato indefinitamente il ritorno degli impiegati e un senso di normalità. 

La marcia di notizie terribili è stata vertiginosa, lasciando molti a dubitare della solidità stessa della città: la loro casa, un luogo che, per molti, ultimamente non ha avuto familiarità. In dozzine di interviste in giro per la città questo fine settimana, i newyorkesi giovani e meno giovani, residenti e nuovi arrivati, hanno descritto un nuovo e profondo disagio per quella che sembra un'erosione delle norme sociali e del senso di sicurezza che ricordano prima della pandemia.

«Sembra che stia peggiorando e non so cosa faranno per raddrizzarlo», ha detto Michael Marcus, un barbiere che taglia la barba a un cliente ad Harlem, a un solo isolato dalla sparatoria fatale di prima. «Devono pensare a qualcosa». 

All'età di 54 anni, il signor Marcus è abbastanza grande da ricordare i momenti difficili della città, come le guerre di crack che hanno portato a migliaia di omicidi all'anno. Anche se è vero che le sparatorie e gli omicidi sono aumentati dal 2018, rimangono solo una frazione della New York dei vecchi tempi. Nel 2021 ci sono stati 488 omicidi, rispetto ai 2.262 del 1990 dopo un periodo di dieci anni vicino o superiore a 2.000. 

Ma ciò che il signor Marcus vede oggi lo preoccupa. «Le cose sono successe negli anni '90, ma non in questo modo», ha detto. «Ora molte persone muoiono in molti modi diversi. Hai il coronavirus, hai le sparatorie, hai gli accoltellamenti, hai le persone che vengono spinte sui binari del treno. In questo momento, non sento che andrà meglio. E se fosse, ci vorrà un po'».

A Corona, nel Queens, Amadou N'gom, 22 anni, ha affermato che il suo lavoro come autista di Uber gli ha dato una vista da una finestra panoramica dello stato incerto della città. «Siamo su questa barca a dondolo sull'oceano», ha detto. «Possiamo farla funzionare, ma se arriva un altro grande tsunami, ci colpirà tutti». Ma ha fiducia: «I newyorkesi prevarranno nel loro atteggiamento perseverante». 

Non tutti sembrano così sicuri. A Flushing Meadows Corona Park nel Queens, Eliza Xu, 50 anni, si alza e sospira. Impiegata di un salone di bellezza senza lavoro dall'inizio della pandemia, il suo sgomento va dal costo degli scalogni nella sua drogheria al malessere che ha sbiadito i colori della sua vita quotidiana.

«Nessuna speranza», ha detto. «Niente feste, le persone non hanno bisogno di comprare bei vestiti, niente trucco. La vita è troppo noiosa, è stancante. Non abbiamo ancora finito, siamo ancora nella pandemia». E poi è arrivata la morte della donna spinta davanti al treno, che era un'asiatica americana, un gruppo additato per crimini d'odio durante la pandemia. «Ho paura perché sono asiatica», ha detto. «Non usciamo di notte, non prendiamo la metropolitana, cosa possiamo fare? Nessuna speranza, solo vivere».

In Prospect Lefferts Gardens a Brooklyn, Carson Gross, 37 anni, riconosce quel disagio e ne dà la colpa in gran parte alla pandemia. «Le persone sono state bloccate per così tanto tempo che hanno perso abilità sociali», ha detto. «Le piccole cose, in cui potresti semplicemente dire 'scusa', a volte potrebbero trasformarsi in una scazzottata. Sembra che tutti siano davvero al limite». 

Al McCarren Park di Brooklyn, due amiche, Beverly Bryan e Tatiana Tenreyro, hanno affermato che le ultime settimane hanno messo alla prova il loro ottimismo.

«Stiamo tutti cercando di convincerci che c'è speranza, ma siamo tutti abbastanza realistici da sapere che le cose non vanno bene», ha detto la signora Tenreyro, 27 anni, scrittrice. 

La signora Bryan, 41 anni, anche lei scrittrice, si è chiesta quando l'ottimismo si trasforma in qualcosa di più vicino all'illusione. «New York è dura, ma a volte è un difetto», ha detto. «Con tutto quello che è successo, cosa costituirebbe un punto di rottura?».

La sua amica si rivolge a lei. «Non è terribile che ci aspettiamo che accadano tutte queste cose orribili?» chiese la signora Tenreyro. «È come se ci fossimo abituati». 

«È un po' come la rana che bolle», ha risposto la signora Bryan. 

Janet Miller, 81 anni, avvocato in pensione e newyorkese per tutta la vita, ha affermato che i recenti eventi le hanno ricordato, come molti altri nelle ultime settimane, un'era specifica. 

«Mi sembrava di tornare agli anni '70», ha detto mentre camminava con il suo schnauzer, Murphy, intorno a Stuyvesant Town a Manhattan. «Tutta la violenza armata». Nelle vicinanze, John Cuban, 60 anni, ha detto che gli manca il senso di sicurezza che aveva provato negli ultimi anni.

«Quando ero più giovane andavo sempre in città e non avevo paura, né timore di prendere la metropolitana», ha detto. «Ora ho l'ansia, la metropolitana mi spaventa». 

In verità, gli anni '70 sono stati un periodo palesemente più pericoloso per New York City, come dimostrano i numeri. All'epoca, un esodo di datori di lavoro e contribuenti aggravava i problemi di bilancio della città, spingendola sull'orlo del fallimento. Senza alcun modo per colmare il divario fiscale in vista, lo stato ha preso il controllo delle finanze della città. 

I sindacati dei dipendenti pubblici sono stati costretti ad accettare tagli drastici di posti di lavoro. Le grandi aziende, tra cui General Electric e PepsiCo, hanno trasferito la loro sede in periferia. Nel 1975, il tasso di disoccupazione della città ha raggiunto il 12%, ben al di sopra del tasso nazionale di circa l'8,5%.

«E poi la città si è ripresa», ha detto Richard Ravitch, a cui è ampiamente riconosciuto il merito di aver aiutato quella ripresa. È stato nominato capo della New York State Urban Development Corporation nel 1975 quando era quasi insolvente e, in seguito, presidente della Metropolitan Transportation Authority. Sarebbe diventato l'ufficiale di riferimento nei momenti difficili. 

Il signor Ravitch ora ha 88 anni e quello che vede oggi fuori dalla sua casa e dal suo ufficio nell'Upper East Side sulla East 51st Street è molto diverso.

«È difficile per me trovare un ristorante nel quartiere dove andare a pranzo, tutti gli hotel in quel quartiere sono chiusi e gli uffici sono bui», ha detto. «Molte persone lavorano da casa a causa della tecnologia disponibile e vogliono isolarsi a causa del virus, e penso che molte persone si siano trasferite in Florida o in periferia. Sta causando una devastazione all'economia di New York City». 

«Penso che le città siano l'istituzione di socializzazione più importante che abbiamo mai creato», ha detto. «Penso che i giovani vogliano poter bere qualcosa a fine giornata, incontrare una ragazza o un ragazzo. Tornerà».

Le Tasse. Più tasse per i ricchi, il piano di Biden che divide l’America. Stefano Magni su Inside Over il 28 marzo 2022.

All’alba di una nuova Guerra fredda, gli americani si svegliano con il più grande aumento di tasse federali dal 1942, una manovra da tempi di guerra, annunciata dall’amministrazione Biden il 28 marzo, per l’anno fiscale 2023. Nell’elenco delle proposte del presidente, un documento di oltre 150 pagine, si trovano molte spese nuove, non solo militari, ma anche e soprattutto sociali. E una riduzione del deficit. In totale, la spesa pubblica sarà di 5.800 miliardi di dollari e il deficit dovrà essere ridotto a 1.150 miliardi di dollari, in modo da rallentare la crescita del debito pubblico.

Ci sono due modi per ridurre il deficit: o tagliando le spese, o aumentando le tasse. Per Biden la via dell’aumento delle tasse è quella favorita. La riduzione delle spese ci sarà comunque, perché scadono tutti i ristori e i sussidi straordinari che erano stati introdotti durante la pandemia di Covid-19. Però la spesa pubblica federale per il prossimo anno prevede 795 miliardi di dollari per la Difesa (80 miliardi in più rispetto al budget del 2022) e 915 miliardi in ordine pubblico e spesa sociale. Il resto sarà costituito da spese obbligatorie: il rifinanziamento di Medicare e Medicaid (assistenza medica pubblica ad anziani e meno abbienti), la previdenza sociale e gli interessi sul debito pubblico. L’aumento dei fondi per la polizia è previsto, anche se non c’è accordo per una riforma complessiva della tutela dell’ordine, con un Partito Democratico che include anche il movimento “Defund the Police”. Il grosso della spesa sociale sarà invece ripartito fra nuove infrastrutture, de-carbonizzazione dell’economia, istruzione pubblica ed edilizia popolare.

Come sono le nuove tasse

Con le nuove tasse si dovranno recuperare somme ingenti, previste nell’ordine dei 361 miliardi nell’arco di 10 anni con la sola nuova tassa sui super-ricchi e di altri 1.400 miliardi (sempre in dieci anni) con aumenti delle aliquote fiscali già esistenti. La nuova imposta “sul reddito miliardario” è una minimum tax del 20% sui redditi superiori ai 100 milioni di dollari. Sarà tassato tutto il reddito, anche quello da investimento non realizzato, che per ora era esentasse. Oltre alla nuova tassa, l’amministrazione Biden aumenterà anche l’aliquota massima dell’imposta sul reddito individuale, dal 37% attuale al 39,6% e l’aliquota massima dell’imposta sugli utili aziendali dal 21% attuale al 28%. Dunque: un terzo in più per le aziende più ricche (e produttive).

La teoria economica che è alle spalle di un piano tassa-e-spendi, come quello proposto dal presidente democratico, è chiaramente l’opposto di quella che aveva ispirato le manovre economiche di Ronald Reagan e di Donald Trump. Pur con le dovute differenze, i due presidenti repubblicani avevano assunto per valida la teoria del “trickle-down”: se lasci i ricchi liberi di produrre, tassandoli poco, la ricchezza da loro prodotta può arricchire anche le fasce di reddito più basse, perché aumentano le opportunità per tutti. La crescita economica che è seguita ai tagli fiscali, soprattutto nell’era Reagan (il più prolungato periodo di crescita nella storia recente americana) dimostra la validità di questa teoria. L’amministrazione Biden, invece, segue la filosofia opposta: più risorse vengono prelevate ai ricchi, più lo Stato avrà i mezzi per aiutare le fasce di popolazione meno abbienti, attraverso programmi sociali e sussidi.

La scommessa di Ronald Reagan

Ronald Reagan aveva scommesso sul taglio delle tasse e sull’aumento della spesa militare. Manovra rischiosa, ma razionale: benché il debito pubblico sia aumentato, nel corso dei suoi due mandati, la crescita del Pil ha assorbito gran parte del disavanzo. L’aumento della spesa, poi, era giustificato dalla necessità di battere l’Urss nell’ultima fase acuta della guerra fredda ed è stata una delle cause del collasso del regime sovietico: si può ben dire che la spesa sia stata ripagata dai risultati politici. In questa manovra, invece, Biden punta più sulla spesa sociale che su quella militare, dunque conta meno la giustificazione di dover tenere testa alla competizione con la Russia (oggi) e con la Cina (nel prossimo futuro). In compenso, il presidente democratico non scommette sulla crescita spontanea dell’economia, ma sugli effetti della spesa pubblica. Che è un azzardo ancora maggiore, soprattutto considerando che questa sarà finanziata soprattutto con un aumento di tasse proprio in un periodo di crisi e inflazione. Secondo i calcoli della sua amministrazione, la stragrande maggioranza degli americani non sarà neppure sfiorata da un aumento di pressione fiscale su meno dell’1% della popolazione (i super-ricchi). Ma più ricchi, in un’economia di mercato, sono anche i più produttivi, quindi che ne sarà dei meno abbienti se gli imprenditori, i finanzieri, i grandi produttori di ricchezze (e di lavoro) se ne andranno?

Infine, è la psicologia a fare la differenza fra i due approcci. Quello di Reagan era unificante: le tasse erano più basse per tutti. Quello di Biden è divisivo: le tasse devono essere pagate dai ricchi, che in questo modo sono colpevolizzati. Un approccio del genere soddisfa sicuramente gli appetiti della sinistra del Partito Democratico, che si nutre di un consenso fondato sull’invidia sociale. Ma difficilmente convincerà i Repubblicani e anche i più moderati fra i Democratici, come i senatori Joe Manchin e Kyrsten Sinema che già si erano opposti all’ambizioso piano sociale “Build Back Better”, tuttora in stallo al Congresso. Se gli Usa entrano divisi all’alba di una nuova guerra fredda, difficilmente potranno pensare di vincerla, almeno sul fronte interno.

Da ansa.it il 17 giugno 2022.

Si chiude un capitolo di storia: John Hinckley, l'attentatore di Ronald Reagan, è stato liberato da ogni restrizione imposta dalle corti. 

"Dopo 41 anni, due mesi e 15 giorni sono finalmente libero", ha detto l'uomo che, per amore di Jodie Foster, ferì l'allora presidente americano e spedì il suo allora portavoce Jim Brady in sedia a rotelle spingendolo poi a schierarsi contro le armi facili a disposizione di tutti. 

L'annuncio di oggi segna la fine di decenni di controlli da parte del governo Usa: d'ora in poi Hinckley potrà liberamente muoversi e usare internet. 

"Se Ronald Reagan non fosse stato il bersaglio le restrizioni sarebbero state rimosse molto, molto tempo fa", ha detto il giudice fissando per oggi la data della libertà incondizionata.

A luglio Hinckley, che suona la chitarra e canta, aveva in programma un concerto a Brooklyn, che è stato cancellato. 

Il concerto da tempo in programma al Market Hotel nel quartiere di Bushwick l'8 luglio, spiegano gli organizzatori, è stato cancellato per motivi di sicurezza: "Eravamo preoccupati per le nostre comunità vulnerabili", dicono.

Inizialmente il concerto aveva avuto luce verde per mandare un messaggio che "i problemi della salute mentale e un passato criminale possono essere superati dopo aver passato un periodo di espiazione pagando il debito alla società", e tuttavia alla resa dei conti è stato deciso che non valeva la pena rischiare: "Avremmo deciso diversamente se avessimo pensato che la musica era importante e trascendeva l'infamia, ma non era questo il caso", ha indicato il Market Hotel.

Il colpo di Stato? DAGONEWS il 19 dicembre 2022. 

Joe Biden infila un’altra gaffe e rischia di far scattare una crisi diplomatica. Durante un discorso in Delaware il presidente ha fatto una battuta sugli irlandesi per poi travisare la genealogia della moglie. 

«Sarò anche irlandese, ma non sono stupido» ha detto Biden prima di parlare della famiglia della moglie. «Ho sposato la figlia di Dominic Giacoppa, quindi, sapete, ho un po’ di italiano in me». Peccato che la moglie Jill non sia la figlia, ma la nipote di Dominic, un siciliano emigrato in America ai primi del ‘900.

 E poi c’è il mistero del “Purple Heart”, l’omaggio postumo a soldati feriti o uccisi, assegnato allo zio Frank. Il presidente ha sostenuto che lo zio, veterano della seconda guerra mondiale, lo avesse ricevuto. Ma né nel necrologio né sulla lapide c’è traccia della menzione.

(ANSA il 19 dicembre 2022) - Il premier incaricato israeliano, Benyamin Netanyahu, ha respinto le accuse del New York Times secondo cui il suo imminente governo mette in pericolo "l'ideale della democrazia in uno Stato ebraico". 

"Dopo aver sepolto per anni la Shoah nelle sue pagine interne e demonizzato Israele per decenni sulla sua prima pagina, il New York Times - ha twittato Netanyahu - ora chiede vergognosamente di minare il nuovo governo eletto di Israele".

 "Mentre il giornale continua a delegittimare l'unica vera democrazia in Medio Oriente e il miglior alleato degli Usa nella regione, io - ha aggiunto - continuerò a ignorare i suoi consigli infondati e a concentrarmi invece sulla costruzione di un paese più forte e più prospero, sul rafforzamento dei legami con l'America, sull'allargamento della pace con i nostri vicini e sul garantire il futuro dell'unico Stato ebraico".

(ANSA il 18 dicembre 2022)  Il prossimo governo di ultra destra nazionalista e religioso guidato da Benyamin Netanyahu rappresenta un pericolo per la democrazia israeliana. Lo sostiene il quotidiano New York Times in un fondo intitolato "L'ideale della democrazia in uno stato ebraico è in pericolo". Il quotidiano, dopo aver riconosciuto che il premier incaricato ha vinto le elezioni in modo equo, ha denunciato che il suo prossimo governo - incardinato su alleati di estrema destra e sui partiti religiosi ortodossi, è una minaccia per i valori democratici. Il giornale ha ricordato di essere stato e di essere ancora "un forte sostenitore della Soluzione a 2 stati".

Tuttavia - ha aggiunto - il governo che si annuncia "è una minaccia significativa per il futuro di Israele: la sua direzione, la sua sicurezza e persino l'idea di una patria ebraica". Il quotidiano ha quindi messo in guardia sulla presenza nel governo di elementi radicali come Itamar Ben Gvir e ha chiesto all'amministrazione democratica di Joe Biden di "fare tutto il possibile per esprimere il proprio sostegno a una società governata da pari diritti e dallo stato di diritto in Israele".

Shlomo Karhi, deputato del Likud, ha replicato al fondo del giornale Usa rigettando le accuse e ricordando che in passato, quando fu eletto premier Menachem Begin nel 1977, questi fu definito "nazista e fascista". "Siamo abituati alla propaganda ma - ha aggiunto - siamo fiduciosi che Netanyahu saprà aggiustare i danni fatti dal governo Lapid anche perchè ha un rapporto molto cordiale con il presidente Biden". 

La Commissione sull’assalto a Capitol Hill ha chiesto al governo di incriminare Trump. su L’Inkiesta il  20 Dicembre 2022

Dopo 18 mesi di indagini, con il voto all’unanimità si raccomanda di indagare l’ex presidente per quattro reati, tra cui l’incitamento all’insurrezione e cospirazione. Il dipartimento di giustizia sarebbe pronto a processarlo

La commissione a maggioranza democratica della Camera americana che indaga sull’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021, compiuto dai sostenitori dell’allora presidente Donald Trump per cercare di fermare la certificazione dell’elezione vinta da Joe Biden, ha votato all’unanimità raccomandando al dipartimento di Giustizia di indagare Trump per quattro reati: ostruzione a una procedura ufficiale del Congresso (la certificazione delle elezioni del 2020 e il trasferimento del potere a Biden), cospirazione per frodare gli Stati Uniti, cospirazione per rendere false dichiarazioni e incitamento e assistenza all’insurrezione. È la prima volta che il Congresso statunitense chiede di mettere sotto accusa un ex presidente.

Il rapporto completo sui 18 mesi di indagini sarà reso noto domani. Ma quelle della commissione non sono incriminazioni formali, non avendo il potere di mettere sotto processo i cittadini americani. I suoi nove membri, di cui sette Democratici e due Repubblicani, in anno e mezzo hanno ascoltato più di mille testimoni, condotto dieci audizioni in diretta tv e raccolto di più di un milione di documenti.

Il dipartimento di Giustizia, intanto, sta già portando avanti una propria indagine sull’attacco del 6 gennaio. Ma non è detto che seguirà le raccomandazioni della commissione della Camera.

I due reporter del caso Watergate, Bob Woodward e Carl Bernstein, intervistati dalla Cnn, hanno dichiarato che, in base alle loro fonti, il dipartimento di Giustizia va verso la decisione di incriminare Trump. Se così fosse, non è chiaro però se seguirebbe i capi d’imputazione consigliati dalla Commissione o no. I repubblicani intanto già stanno preparando un contro-rapporto per rispondere a quello della Commissione.

La commissione, istituita nel luglio 2021, è stata creata quasi esclusivamente con i voti dei Democratici dopo il fallito tentativo di istituire una commissione bipartisan più ampia. I due Repubblicani che ne fanno parte sono Liz Cheney, deputata del Wyoming nonché figlia dell’ex vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney, che per la sua decisione ha lasciato tutti gli incarichi di responsabilità che deteneva nel partito, e Adam Kinzinger dell’Illinois.

Durante l’udienza, Cheney, che era la vicepresidente della commissione, ha detto che tra i fatti «più vergognosi» che la commissione si è trovata a prendere in considerazione ci sono le prove che durante l’assalto al Congresso Trump rimase seduto nella sala da pranzo vicina allo Studio Ovale nella Casa Bianca guardando gli scontri in televisione, senza diffondere alcun messaggio che invitasse i suoi sostenitori a desistere dall’assalto. E questo nonostante gli inviti dei suoi collaboratori e dei membri della sua famiglia a farlo. Per questo secondo Cheney Trump «non è adatto a ricoprire nessun incarico pubblico».

Giuseppe Sarcina per corriere.it il 7 dicembre 2022.

È la prima condanna secca per la Trump Organization. L’ex presidente non è coinvolto direttamente, ma il verdetto raggiunto nella Corte di New York è indubbiamente un colpo per la sua già discutibile reputazione. La giuria ha stabilito che due entità del gruppo, la Trump corporation e la Trump Payroll corporation hanno frodato il fisco, falsificando i conti aziendali. 

Toccherà al giudice fissare la pena: secondo i media americani potrebbe essere una multa fino a 1,6 milioni di dollari. Una cifra che non porterà alla rovina il business della famiglia Trump. Gli effetti della sentenza, però, sono pesanti. Innanzitutto i giudici hanno infranto lo scudo di omertà che finora aveva protetto gli affari di Trump.

Il procuratore del South District di Manhattan, Cyrus Vance, aveva iniziato l’inchiesta nel luglio del 2021, convocando Allen Weisselberg, 75 anni, il manager di punta da 46 anni al servizio dell’ex costruttore newyorkese. La resistenza di Weisselberg è durata un anno. Poi nell’agosto scorso è crollato, dichiarandosi colpevole per tutti i 15 capi di accusa ipotizzati dalla Procura. 

Weisselbgerg, con la complicità del suo collaboratore Jeffrey McConney, ha nascosto al fisco compensi e benefit per un valore di 1,7 milioni di dollari, occultando, tra l’altro, l’affitto per l’appartamento in una delle Trump Tower di Manhattan; il leasing di un’auto lussuosa; i versamenti per pagare le università dei nipoti. Avrebbe pagato tutto in nero. 

Weisselberg ha schivato almeno 15 anni di carcere. Ma la decisione della «Supreme Court», il tribunale principale di New York, è un segnale d’allarme per Trump. L’indagine aperta da Vance è passata al suo successore, Alvin Bragg, e copre 15 anni di operazioni considerate opache: dalla falsificazione dei bilanci per ottenere i prestiti dalla banche, fino ai pagamenti illeciti, come i 130 mila dollari versati alla porno star Stormy Daniels. L’inchiesta, quindi, può salire ancora di livello.

La sentenza: l’assalto a Capitol Hill era premeditato. Ora si apre la partita sul ruolo di Donald Trump. Secondo la giuria federale di Washington DC, quello del 6 gennaio è stato un episodio di sedizione, pianificato e programmato per ribaltare l’ordinamento democratico. Per i leader del gruppo di estrema destra Oath Keepers condanne pesantissime. E per l’ex presidente un altro problema sula strada della ricandidatura. Luciana Grosso su L’Espresso il 30 novembre 2022.

E quindi l’assalto al Campidoglio non è stata una mattana, non è stato un incidente causato da una folla fuori controllo. Anzi, è stato l’esatto opposto: un piano studiato e organizzato con l’intento preciso di sospendere o addirittura rovesciare l’ordinamento della repubblica americana. In una parola: sedizione.

A essere condannati, per questo capo pesantissimo, sono stati Stewart Rhodes, fondatore del gruppo di estrema destra Oath Keepers e Kelly Meggs, suo luogotenente in Florida. Altri tre Oath Keepers a processo con loro sono stati condannati per altri capi di imputazione (ostacolo all’attività legislativa, distruzione di prove ecc), ma non per sedizione.

Si tratta della prima volta che una condanna così pesante viene emessa nei confronti di persone che hanno partecipato all’assalto al Campidoglio. Fino a qui nessuno dei circa 900 procedimenti penali arrivati a sentenza e relativi a quelle ore drammatiche e surreali aveva mai portato a una sentenza tanto esplicita e grave. Per lo più, gli imputati sono stati condannati per appropriazione o distruzione di beni federali, per violenza, per ostacolo all’attività del parlamento. Ma mai, sino ad ora, una sentenza aveva definito la rivolta come un piano organizzato.

Secondo la giuria federale di Washington DC, il 6 gennaio è stato solo il culmine e il punto di arrivo di un piano progettato da tempo e che si basava sull’assunto che le elezioni fossero state vinte in modo illegittimo da Biden.

A partire da questa, probabilmente sincera anche se infondata, convinzione, gli Oath Keepers hanno iniziato, fin da novembre a far girare nelle loro riunioni e chat messaggi molto espliciti sul fatto che l’America era in pericolo e che andava difesa ad ogni costo, anche con le armi. Cose del tenore di ""Non ce la faremo senza una guerra civile. Prepara la tua mente, il tuo corpo e il tuo spirito".

Per questo, nelle settimane seguenti alle elezioni, il leader del gruppo, Rhodes, aveva provato in più modi a mettersi in contatto con Trump (usando per tramite Roger Stone, una specie di spin doctor e demiurgo della destra americana, molto vicino a Trump) e gli aveva indirizzato ben due lettere aperte nelle quali gli chiedeva di invocare l’Insurection Act, una legge che autorizza il presidente degli Stati Uniti a schierare l’esercito su territorio americano, per ragioni di sicurezza pubblica.

In questo modo, sostenevano gli Oath Keepers, la presidenza avrebbe fornito un ombrello legale alla loro azione di "difesa"- così sostenevano- dello stato di diritto in America. Una volta visto che il Presidente non intendeva né rispondere loro né attivare l’Insurrection Act, gli Oath Keepers hanno fatto da soli, preparandosi comunque a una battaglia armata se, come speravano, il presidente si fosse deciso a dare l’ordine. Per questo avevano organizzato la loro "Forza di Reazione rapida", ossia una specie di milizia presente sul Mall, il lungo parco che separa la Casa Bianca dal Campidoglio e sul quale Trump ha tenuto il suo ultimo incendiario comizio.

L’idea, in base a quello che è stato ricostruito dall’accusa e ritenuto fondato dai giudici, era di essere pronti. In teoria a "reagire" a eventuali attacchi di ipotetici facinorosi di sinistra, in pratica e nei fatti ad "agire", senza bisogno di nessuna provocazione. La milizia era pronta in tutto, uomini, ricetrasmittenti e controllo dell’area. E anche le armi erano disponibili, dal momento che un piccolo arsenale era stato depositato in una camera di albergo poco lontana, pronto a essere portato via barca lungo il fiume Potomac (per evitare traffico, blocchi e polizia) fino al Campidoglio.

Messaggi, pianificazione, armi e milizia: tutte cose che hanno portato i giudici a credere, e soprattutto a scrivere nero su bianco, che la rivolta del 6 gennaio non è stata uno sciagurato caso, uno sfortunato incidente, ma un episodio di sedizione, pianificata e programmata per ribaltare l’ordinamento democratico americano.

La sentenza, però, non chiude la questione, anzi, la apre. Perché se davvero sedizione c’è stata, se davvero c’era un piano per mantenere Donald Trump alla Casa Bianca, quanto e come l’ex Presidente (e attuale candidato) ne era al corrente? Quanto e come la ha eventualmente favorita o, almeno, non ostacolata? Quanto e come la ha eventualmente cercata e richiesta?

(ANSA il 20 Novembre 2022) - Alla Corte Suprema ci fu un'altra fuga di notizie nel 2014 prima di quella clamorosa della scorsa primavera sulla bozza della decisione che ha abolito la 'Roe v. Wade', la storica sentenza che aveva legalizzato il diritto d'aborto negli Usa. Lo rivela il New York Times, citando le rivelazioni del reverendo Rob Schenck, un ex leader anti abortista che si era profuso in sforzi segreti per influenzare i giudici. Schenck ha sostenuto di aver saputo dell'esito di una sentenza sui diritti contraccettivi nel caso Hobby Lobby del 2014 settimane prima che fosse annunciata.

L'esito fu pero' condiviso solo con poche persone, mentre quello della scorsa primavera fu rivelato da Politico. Entrambe le motivazioni, favorevoli ai conservatori, furono scritte dal giudice di destra Samuel Alito, su cui ricadono ora i sospetti. Schenck ha raccontato che all'inizio del giugno 2014 Don e Gayle Wright, una coppia di suoi donatori dell'Ohio, andarono a pranzo con Alito e sua moglie.

Il giorno dopo Gayle Wright lo contatto' per informarlo che la decisione sarebbe stata favorevole alla societa' Hobby Lobby, detenuta dai cristiani evangelici, e che Alito avrebbe scritto l'opinione di maggioranza. Cosa che successe esattamente tre settimane dopo, durante le quali Schenck preparo' la sua offensiva mediatica rivelando l'esito della causa all'ultimo momento al presidente di Hobby Lobby. Tutte le persone coinvolte negano di aver dato, ricevuto o condiviso tale informazione (Alito non nega pero' la cena) ma dall'esame del Nyt la versione sembra plausibile.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 20 Novembre 2022.  

«Se fossi il tipo che si lascia intimorire, quando uno dice che un caso non andrebbe portato in tribunale perché c'è il rischio di perderlo, dovrei trovarmi un altro lavoro». Parola di Jack Smith, il procuratore che da venerdì ha in mano le sorti giudiziarie di Trump, e quindi della democrazia americana. Uno cresciuto alla dura scuola di New York, forgiato dalle inchieste sull'integrità dei politici, e messo alla prova dalla corte dell'Aja che indaga i crimini di guerra nel Kosovo. È registrato come indipendente negli elenchi elettorali, tanto per chiarire che lui con la politica partigiana non ha niente da spartire.

Smith è stato nominato "special counsel" dal segretario alla Giustizia Garland, per gestire le due inchieste sull'ex presidente riguardo l'assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, e i documenti segreti trafugati a Mar-a-Lago. Il titolo è lo stesso che aveva l'ex capo dell'Fbi Robert Mueller quando aveva indagato sul "Russiagate". È diverso dal procuratore indipendente del caso Lewinsky Ken Starr, ma gli garantisce l'autonomia per svolgere il compito come riterrà utile. 

Garland ha spiegato la decisione con il conflitto di interessi. Lui è stato nominato da Biden, che intende ricandidarsi nel 2024. Ma siccome anche Trump si è già ricandidato, il segretario alla Giustizia si ritroverebbe a indagare su un avversario politico del presidente per cui lavora. Meglio delegare ad un esterno, anche se Smith dipende comunque da Garland, che alla fine deciderà se incriminare o no Donald. 

L'ex presidente ha già attaccato la nomina, definendola un «abuso di potere », finalizzato a deragliare la sua corsa alla Casa Bianca. Anche qualche democratico ha storto il naso, perché avrebbe preferito che Garland decidesse in fretta di portare Trump in tribunale, senza dargli il tempo di annunciare la ricandidatura e quindi il pretesto per questionare la legittimità del procedimento.

Smith se ne infischia, almeno a giudicare dalla sua storia. Chi lo conosce dice che nella vita, oltre al tempo passato con moglie e figlia, vede solo il lavoro. E il lavoro per lui è investigare, e se trova le prove di reati portare in tribunale i presunti colpevoli. Il resto, appunto, lo lascia alla politica. Jack è cresciuto a Clay, nord di New York, dove l'Empire State somiglia parecchio agli stati conservatori del sud. Ha studiato alla State University of New York di Oneonta, quindi l'università pubblica dei non privilegiati, ma ha preso una laurea con lode che gli ha aperto le porte di Harvard. 

Con la specializzazione in legge nel primo ateneo americano poteva guadagnare milioni in qualsiasi studio legale, invece aveva scelto di fare il procuratore. Nell'Eastern District di New York si era occupato di casi finiti sulle prime pagine dei giornali, come i poliziotti che avevano sodomizzato con un manico di scopa l'immigrato haitiano Abner Louima. Dal 2008 al 2010 ha lavorato per l'International Criminal Court all'Aja, ma il dipartimento alla Giustizia lo ha richiamato per guidare la Public Integrity Section, che indaga sui reati commessi da politici e funzionari pubblici.

 Quindi ha fatto il procuratore in Tennessee, ma nel 2018 è tornato all'Aja per indagare sui crimini di guerra in Kosovo. Bob Barr, ex segretario alla Giustizia che aveva protetto Trump dall'inchiesta sul "Russiagate", ora dà per scontata l'incriminazione dell'ex capo, soprattutto per i documenti rubati. Se troverà le prove, Smith non avrà paura di portarlo in tribunale.

Trump accusa, niente procuratore speciale per Hunter Biden? (ANSA il 18 Novembre 2022) Parlando dalla sua residenza di Mar-a-Lago Donald Trump ha attaccato il "corrotto dipartimento di giustizia" per la nomina di un procuratore speciale per le inchieste federali in cui e' coinvolto e ha chiesto come mai non e' stato nominato un procuratore speciale anche per indagare su Hunter Biden, il figlio del presidente, che a suo avviso "ha preso soldi da Paesi stranieri".

Riferendosi all'indagine sui documenti classificati che custodiva a Mar-a-Lago, il tycoon ha ricordato l'Emailgate di Hillary Clinton e alcuni presidenti che lo hanno preceduto e che a suo avviso avrebbero portato con se' carte del loro mandato. "Allora avrebbero dovuto essere indagati anche loro", ha detto, mettendo sullo stesso piano pero' vicende diverse dalla sua. Quanto all'indagine sull'assalto al Capitol dopo che aveva invitato i suoi fan a marciare sul Congresso il 6 gennaio 2021, Trump ha definito quello che fu un comizio incendiario "un discorso pacifico e patriottico". 

Trump, procuratore speciale terribile abuso di potere

(ANSA il 18 Novembre 2022)  Un "tremendo" e "orrendo abuso di potere", "l'ultimo di una lunga serie di caccie alle streghe che e' cominciata molto tempo fa": cosi' Donald Trump ha concluso il suo attacco contro la nomina di un procuratore speciale per le inchieste federali in cui e' coinvolto, definendola un esempio dell'uso del dipartimento di giustizia "come strumento di guerra". Il tycoon si e' detto convinto che lo 'special counsel' "non indaghera' in modo imparziale".

 Attaccando la nomina di un procuratore speciale per le inchieste federali che lo riguardano, Donald Trump si e' definito "una delle persone piu' oneste e innocenti che ci siano mai state nel nostro Paese". "Pensavo che le inchieste fossero morte", ha proseguito, accusando poi anche Joe Biden di brogli elettorali e corruzione e definendo suo figlio un "tossicodipendente".

I repubblicani vogliono indagare sugli scandali della famiglia Biden in Ucraina. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 20 Novembre 2022.

Con la riconquista della Camera da parte dei repubblicani, tornano in primo piano i presunti scandali legati alla famiglia del presidente americano, Joe Biden, e in particolare al figlio, Hunter Biden in Ucraina, già emersi durante l’ultima campagna elettorale e insabbiati da buona parte degli esponenti del Partito democratico: mentre, infatti, l’ex presidente Donald Trump era stato sottoposto a impeachment con l’accusa di avere esercitato pressioni sul presidente ucraino Volodymyr Zelensky per ottenere informazioni circa gli affari di Hunter Biden all’estero, non è mai stata presa in considerazione l’idea di svolgere indagini approfondite sugli evidenti conflitti d’interesse del secondogenito dell’attuale presidente americano. I repubblicani hanno, dunque, deciso che il prossimo Congresso dovrà avere come priorità quella di indagare il presidente, Joe Biden, e la sua famiglia, con l’intento di stabilire un collegamento tra le attività del figlio Hunter e il suo ruolo di vicepresidente, prima, o di presidente, adesso. «Voglio essere chiaro: questa è un’indagine su Joe Biden, ed è su questo che si concentrerà il comitato nel prossimo Congresso», ha dichiarato il futuro presidente del Comitato di supervisione James Comer. I democratici sono già pronti a dare battaglia e hanno iniziato a fare circolare una nota su Comer, definendolo un «teorico della cospirazione, adulatore di Trump, comprovato bugiardo».

La vicenda, piuttosto intricata, degli affari di Hunter in Ucraina comincia col ritrovamento del suo portatile – poi mai ritirato – presso un centro di riparazione nel Delaware: tra le tante informazioni e immagini shock trovate al suo interno, sono emerse delle conversazioni e-mail che evidenziano attività illecite di pressione politica in Ucraina, sfruttando il ruolo istituzionale del padre Joe. La notizia fu inizialmente bollata come “propaganda russa” dall’intero coro mediatico mainstream, ma fu infine confermata dal New York Times, il quale in un articolo scrisse che le e-mail estratte dal portatile «sono state autenticate da persone al corrente dell’indagine». L’avvocato, imprenditore e lobbista statunitense, Hunter Biden, tra il 2014 e il 2019 era stato membro del Consiglio di amministrazione di Burisma Holding, azienda energetica che opera in Ucraina, con il compito di «occuparsi delle questioni legali e offrire supporto alla società nei rapporti con organizzazioni internazionali», per uno stipendio mensile di 50.000 dollari. All’epoca dei fatti, Joe Biden era vicepresidente dell’amministrazione Obama e, a quanto si apprende dalle e-mail, Hunter avrebbe presentato suo padre all’alto dirigente di Burisma, Vadym Pozharskyi: «Caro Hunter, grazie per avermi invitato a Washington e di avermi dato la possibilità di conoscere tuo padre», ha scritto il 17 aprile 2015 Pozharskyi al figlio di Joe Biden.

Precedentemente, in una e-mail datata 12 maggio 2014, era già emersa la richiesta del dirigente di Burisma ad Hunter di sfruttare la sua influenza a favore dell’azienda: «Necessitiamo urgentemente di una tua opinione per come potresti usare la tua influenza», si legge nella mail. L’allora governo ucraino, infatti, aveva richiesto alla società la documentazione concernente le licenza concesse a Burisma e quest’ultima era preoccupata che potesse mettere in pericolo gli affari energetici della compagnia. Similmente, durante il governo di Petro Poroshenko, il procuratore generale ucraino, Viktor Shokin – attivo tra il febbraio 2015 e il marzo 2016 – stava portando avanti un’indagine nei confronti dell’azienda energetica, accusata di corruzione. Joe Biden avrebbe quindi minacciato Poroshenko di non far emettere dal Governo federale un pacchetto di aiuti da un miliardo di dollari destinato a Kiev nel caso in cui il procuratore non fosse stato immediatamente licenziato, cosa che poi avvenne. La vicenda, è ancora ora definita su Wikipedia come “teoria del complotto”, ma è stata confermata dallo stesso Biden che, durante un discorso al Council on Foreign Relations del gennaio 2018, relativamente alla vicenda avrebbe affermato: «Li guardai negli occhi e dissi, io parto tra sei ore, se il procuratore non è stato licenziato, non avrete i soldi. Beh, figlio di puttana. È stato licenziato». Il tutto mentre il procuratore indagava sull’azienda nel Cda della quale sedeva anche il figlio dell’allora vicepresidente.

Ma gli affari di Biden Junior in Ucraina non si limitano solo al settore energetico. Sembrano, infatti, confermate anche le accuse russe relative al finanziamento di laboratori di armi batteriologiche in Ucraina da parte del suo fondo d’investimento Rosemont Seneca. Le accuse di Mosca troverebbero conferma sempre nelle e-mail contenute nel laptop portato in riparazione e poi sequestrato dall’FBI: da queste, emerge il progetto per garantire milioni di dollari di finanziamenti a Metabiota, un’azienda californiana appaltatrice del Pentagono, specializzata nella ricerca su malattie che causano pandemie da utilizzare come armi. Dalle mail risulta che Hunter presentò Metabiota a Burisma, per un “progetto scientifico” relativo a laboratori di biosicurezza in Ucraina. Il vicepresidente di Metabiota, in un’e-mail inviata a Hunter, nel 2014 evocava progetti per «affermare l’indipendenza culturale ed economica dell’Ucraina dalla Russia». Le mail sono state pubblicate prima dal New York Post (NYP) – lo stesso quotidiano che aveva divulgato per primo la notizia del laptop di Hunter Biden – sia dal Daily Mail. Secondo quanto scritto dal NYP, che ha potuto visionare le mail, «Rosemont Seneca Technology Partners ha investito 500.000 dollari nella società di ricerca sui patogeni di San Francisco Metabiota e ne ha raccolti altri milioni attraverso aziende che includevano Goldman Sachs».

Mosca ha accusato esplicitamente gli USA e, in particolare, la famiglia Biden, di finanziare laboratori biologici in Ucraina. Il portavoce della Duma di stato russa, Vyacheslav Volodin, ha affermato che «Lo stesso presidente degli Stati Uniti Joe Biden è coinvolto nella creazione di laboratori biologici in Ucraina». «Un fondo di investimento gestito da suo figlio Hunter Biden ha finanziato la ricerca e l’attuazione del programma biologico militare degli Stati Uniti. È ovvio che Joe Biden, in quanto suo padre e Capo di stato, era a conoscenza di tale attività», ha proseguito Volodin.

Conferme sul coinvolgimento USA nei biolaboratori in Ucraina arrivano anche dalla vicepresidente di Metabiota, Mary Guttieri che, sempre in base a quanto rivelato dal NYP, avrebbe scritto a Hunter in merito a questioni geopolitiche che coinvolgono la ricerca dell’azienda nell’ex repubblica sovietica nell’aprile 2014: «Come promesso, ho preparato la nota allegata, che fornisce una panoramica di Metabiota, del nostro impegno in Ucraina e di come possiamo potenzialmente sfruttare il nostro team, le nostre reti e i nostri concetti per affermare l’indipendenza culturale ed economica dell’Ucraina dalla Russia e la continua integrazione in Società occidentale».

Con la riconquista della Camera da parte dei repubblicani, tutti i fascicoli scomodi a carico della famiglia Biden potrebbero essere riaperti. I membri repubblicani del Comitato di supervisione, infatti, pochi giorni fa hanno inviato lettere al Dipartimento del Tesoro, agli Archivi nazionali e all’FBI, tra gli altri, chiedendo la documentazione in loro possesso sulla famiglia Biden. I repubblicani ritengono che l’attuale presidente abbia ingannato i suoi elettori quando durante la campagna elettorale del 2020 aveva sostenuto di non essere a conoscenza delle attività del figlio e che continui tuttora a mentire. Eventuali indagini approfondite sugli affari esteri della famiglia Biden avrebbero ripercussioni sia sugli equilibri politici interni americani che sulla politica estera. Da un lato, infatti, potrebbero non solo comportare danni a livello d’immagine al Presidente, ma anche l’eventuale richiesta di impeachment; dall’altro la vicenda contribuirebbe a mettere in evidenza gli enormi interessi americani in Ucraina che hanno destabilizzato la regione e fomentato in larga parte l’attuale conflitto. Si tratta, dunque, di una questione della massima rilevanza, i cui sviluppi sono ora nelle mani dei repubblicani alla Camera.

[di Giorgia Audiello]

La vittoria di Obama: «Yes, we can»! Le elezioni del 2008 e l’editoriale di Perrone. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 06 Novembre 2022.

«È la favola di Obama»: La Gazzetta del Mezzogiorno del 6 novembre 2008 così annuncia la vittoria alle elezioni presidenziali americane dell’esponente del Partito Democratico. Barack Obama ha sconfitto il candidato repubblicano John McCain: è il primo afro-americano ad essere eletto alla guida del paese. In prima pagina compare la foto del vincitore con la moglie Michelle e le due figlie. Così inizia l’editoriale di Nico Perrone: «Yes we can. In queste parole dette da Barack Obama dinanzi a una folla enorme, c’è il programma vero della nuova amministrazione americana. Parole che fanno tornare alla mente un discorso di John Fitzgerald Kennedy. Le parole di Obama, appena conosciuto il risultato elettorale, arrivano in un momento tremendo per l’America. Anzi il primo momento veramente drammatico dopo la seconda guerra mondiale.

La crisi finanziaria ha improvvisamente creato condizioni drammatiche per l’economia e per tante famiglie; la potenza militare è rimasta imprigionata in operazioni che non fanno intravedere sbocchi ma causano perdite di vite umane in regioni remote. Mentre la leadership americana nel mondo non può non fare i conti con la potenza rusa e con l’incognita di un terrorismo che in alcune aree appare incrollabile. Yes we can arriva perciò al momento giusto e fa subito crescere quel consenso che le urne hanno già dimostrato molto forte». Nelle pagine interne appaiono le foto dei festeggiamenti in Kenya, in cui è ritratta la nonna paterna di Obama, e a Chicago, dove il vincitore compare accanto al suo vice Joe Biden. Il grido di gioia e incredulità di centinaia di migliaia di persone riunite in un parco di Chicago ha accompagnato il momento dell’annuncio ufficiale della vittoria: sul prato piangevano abbracciati vip e gente comune, la star nera della Tv Oprah Winfrey e le anonime volontarie afroamericane della campagna di Obama.

«Per tanti motivi l’elezione di Obama, un nero figlio di un immigrato del Kenya e di una donna bianca del Kansas, fa la storia» – scrive Alessandra Baldini – «Barack ha vinto in Virginia, uno stato dove, quando i suoi genitori si sono innamorati, un nero e una bianca che si sposavano finivano in galera. Il 20 gennaio, per la prima volta nella storia, un afroamericano occuperà lo studio ovale e il sogno di Martin Luther King sarà diventato finalmente realtà». In quella data, infatti, Obama giurerà come 44º presidente degli Stati Uniti e poco dopo riceverà il premio Nobel per la pace «per il suo straordinario impegno per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». Nel 2012, vincendo le elezioni contro W. M. Romney, sarà riconfermato alla Casa Bianca per altri quattro anni.

Elezioni di Midterm Usa 2022, ecco cosa c’è da sapere e dove rischia la presidenza di Joe Biden. La tornata elettorale è considerata un referendum sull’inquilino della Casa Bianca, che potrebbe perdere la maggioranza al Senato. E, in caso di vittoria repubblicana, tutti aspettano la mossa di Donald Trump. Luciana Grosso  su L'Espresso il 4 Novembre 2022.

Martedì, negli Stati Uniti si vota per le elezioni di metà mandato. E il problema, con i voti americani, è sempre lo stesso: non funzionano nel modo in cui siamo abituati a veder funzionare le elezioni, chi prende più voti vince. I voti, nelle elezioni americane, non basta prenderli. Bisogna vedere dove li si prende. Non solo: per come funziona il sistema, le Camere non vanno a rinnovo tutte insieme, ma frammentate, divise, scaglionate.

Proviamo a fare un po’ di chiarezza sul voto di martedì, su cosa c’è in gioco e su cosa guardare per capire davvero come stanno andando le cose.

Cosa sono le elezioni di Mid Term

Sono elezioni che si tengono, più o meno, due anni dopo l’elezione del presidente. Vengono considerate quasi un referendum sulla Presidenza in corso. In realtà non è una percezione del tutto corretta, sia perché i padri costituenti le hanno concepite pensando più a un freno di emergenza che a un referendum, sia perché, comunque, negli ultimi decenni il loro valore di “referendum” si è molto annacquato.

È grossomodo dai tempi di Jimmy Carter (con l’eccezione di George W.Bush) che non si verifica la circostanza di un presidente in carica il cui partito vince le elezioni di metà mandato. E poiché non succede mai, nessuno alla cosa dà peso. Anche perché poi, la storia e la statistica insegnano che (con le eccezioni di George H. Bush e di Donald Trump) i presidenti che pure perdono le elezioni di metà mandato, poi, quando si ricandidano, vincono senza troppi patemi. 

La ragione del verificarsi di questa regola non scritta della politica americana (“il presidente in carica perde le elezioni di metà mandato”) sta per lo più nella disaffezione degli americani al voto e nella scarsa affluenza (quasi mai raggiunge il 50%): per evidenti ragioni, chi ha perso le presidenziali, è più motivato a votare perché in cerca di rivincita. Per la stessa e opposta ragione, invece, i sostenitori del partito del presidente tendono a disertare le urne. È dunque un azzardo considerare questo voto necessariamente indicativo di come andranno le prossime presidenziali. Le elezioni di medio termine possono dare più un’indicazione sulla forza dell’opposizione che su quella del presidente in carica.

Per cosa si vota

Si vota per il rinnovo completo della Camera (che resta in carica solo due anni) e per quello di un terzo del Senato (i senatori restano in carica sei anni, ma vanno al voto in modo sfalsato, in modo che ogni due anni il Senato si rinnovi di un terzo). Oltre a questi voti, che riguardano il governo federale (cioè quello centrale), ci sono decine di altri voti locali e localissimi, per funzionari di varia importanza e ruolo. I più importanti tra questi funzionari locali sono, per evidenti ragioni, i governatori.

Cosa dicono sondaggi e previsioni

I sondaggi e, ancor di più i modelli previsionali, assegnano la vittoria alla Camera ai repubblicani, mentre sembra che il Senato sia in pareggio (ma con tendenza verso una vittoria repubblicana). Lo stesso vale per le corse dei governatori, destinate, secondo i sondaggi, ad essere vinte dai repubblicani.

Attenzione però: molte delle battaglie decisive (nei cosiddetti swing states) sono in condizione di sostanziale parità. Per questo, il sito di sondaggi e politica FiveThirtyEight, pochi giorni fa, ha titolato “I repubblicani sono a un soffio dal trionfo. O dalla disfatta”.

Occorre dire anche un’altra cosa: negli ultimi anni, i sondaggi hanno teso a sovradimensionare il consenso dei democratici e, nonostante nel tempo i metodi di indagine si siano affinati e migliorati, in molti pensano che anche le rilevazioni di queste settimane (che danno i dem in parità con i repubblicani) possano scontare lo stesso problema ed essere, di nuovo, sovradimensionati.

Cosa succederà alla Presidenza Biden se queste elezioni vanno male

Come detto, il fatto che il presidente perda le elezioni di metà mandato è abbastanza nell’ordine delle cose e nessuno sembra esserne davvero impensierito. Almeno in ottica 2024.

Ma il problema è che da qui al 2024 mancano due anni. Due anni nei quali molte cose dovranno essere decise. I poteri del Presidente degli Stati Uniti sono piuttosto limitati. Le sue leggi devono passare dalle camere che hanno il potere (soprattutto il Senato) di cambiarle o di bocciarle.

Per questo, benché la statistica dica che non c’è da impensirirsi più di tanto per il risultato delle elezioni parlamentari, il Presidente Biden sa di non poter dormire sonni tranquilli: perché sa che con un parlamento a maggioranza repubblicana (anzi: trumpiana) non ci sarà nessun margine di trattativa e di accordo, ma solo un costante sabotaggio delle leggi che potrebbero permettere la realizzazione delle sue promesse elettorale.

Non solo, esiste un’ipotesi (remota ma concreta) che un parlamento controllato da una maggioranza fedele e Donald Trump possa chiedere l’impeachment per Joe Biden, con l’accusa-balla di aver rubato le elezioni (servirebbero le prove, ma una politica così polarizzata non interessano a nessuno). È un’ipotesi che appare davvero remota e che somiglia più a un azzardo elettorale (inoltre i numeri non ci sarebbero in nessun caso), ma già solo il fatto che se ne parli, dà l’idea dell’aria che tira e di quanto il partito repubblicano, da quando è sotto l’egida di Trump, abbia perso il benché minimo contatto con la realtà e la razionalità delle cose.

Quali sono gli stati da guardare

Chi segue abitualmente le elezioni americane sa che, nella stragrande maggioranza dei casi, le elezioni hanno una storia già scritta. Esistono territori così profondamente e radicatamente repubblicani e democratici che i veri giochi si fanno in estate, con le primarie. Le elezioni vere e proprie, poi, non servono ad altro che a ratificare quanto deciso dalle elezioni interne del partito che, in quella zona, è più forte.

Ci sono però alcune eccezioni, ossia stati che non hanno una fede politica solida, chiara e che, al contrario, tendono a cambiare casacca da un voto all’altro. Sono i cosiddetti Swing States, quelli nei quali, in buona sostanza, si decide la partita. Negli anni, l’elenco degli Swing States è cambiato più volte. Fino a qualche anno fa, erano considerati in bilico, la Florida e l’Ohio.

Oggi, invece, la partita sembra giocarsi tutta in Georgia, Pennsylvania, e Arizona e Wisconsin. Se i democratici vincono almeno tre di queste corse, allora il Senato rimane com’è e la presidenza Biden può continuare a marciare. Se le vincono tutte e quattro, Joe Biden stappa lo champagne. Se ne perdono due o più, lo champagne lo stappa Donald Trump, probabilmente cinque minuti prima di annunciare la sua corsa per il 2024.

(ANSA il 29 ottobre 2022) - L'aggressore di Paul Pelosi aveva una lista di politici da colpire oltre alla Speaker della Camera Nancy Pelosi. Lo riportano alcuni media americani, secondo i quali David Depape era stato arrestato nel 2003 dalla polizia di San Francisco. I motivi del suo fermo non sono noti.

Da corriere.it il 28 ottobre 2022.

Il marito della Speaker della Camera degli Stati Uniti Nancy Pelosi, Paul, è stato «aggredito violentemente» da un aggressore che ha fatto irruzione nella loro casa di San Francisco. Pelosi si trova ora in ospedale e dovrebbe riprendersi completamente, ha detto il suo portavoce, Drew Hammill.

La speaker Pelosi non si trovava nella residenza al momento dell’aggressione, ha spiegato Hammill, aggiungendo che l’aggressore è in custodia e la motivazione dell’attacco è sotto inchiesta. «La Speaker e la sua famiglia sono grati ai primi soccorritori e ai professionisti medici coinvolti e richiedono di rispettare la loro privacy in questo momento», ha detto ancora Hammill.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 29 ottobre 2022.

«Non sarei sorpresa se prima delle elezioni si arrivasse all'assassinio di un deputato o di un senatore: siamo passati dalle minacce telefoniche alla violenza fisica».

Qualche giorno fa l'ennesimo allarme per il clima di violenza politica ormai diffuso negli Stati Uniti è venuto dalla senatrice repubblicana Susan Collins dopo che finestre della sua casa nella tranquilla Bangor, una cittadina del Maine, erano state sfondate a sassate da vandali politici.

A Seattle, davanti all'abitazione di Pramila Jayapal, la parlamentare che presiede il caucus dei deputati della sinistra liberal, si è presentato un uomo che, ostentando armi da guerra, ha urlato insulti e minacce. E Alexandria Ocasio Cortez, bandiera della sinistra radicale, bersagliata da minacce di tutti i tipi, ha dovuto fare ricorso a una scorta che la segue 24 ore su 24 e spesso dorme in luoghi diversi.

Il marito di Nancy Pelosi preso a martellate nell'abitazione della speaker della Camera, a San Francisco, è solo l'ultimo - e più clamoroso - spruzzo di un'onda che cresce da tempo. Ad attaccare, come nelle stragi scolastiche, sono spesso persone ossessionate, fuori di testa. Ma il problema è il clima che si è creato e che le spinge ad agire.

I sondaggi dicono che l'assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, anziché funzionare da choc salutare per la democrazia Usa, con gli americani che, arrivati sull'orlo del baratro, vedono i rischi e si ritraggono, ha aumentato la sfiducia nelle istituzioni di molti cittadini e «normalizzato» il ricorso alla violenza politica. Contro tutte le evidenze, certificate da funzionari degli Stati e da magistrati in gran parte conservatori, Donald Trump è riuscito a convincere la maggioranza dei repubblicani che le elezioni del 2020 sono state truccate: alla Casa Bianca c'è un usurpatore.

Da qui le minacce di violenza politica - sempre presenti in un Paese che ha ucciso presidenti e leader delle lotte per i diritti civili, ma da tempo ridotte a fattore marginale - sono diventate allarme quotidiano su due fronti. Il primo è quello dei politici sotto tiro: la polizia di Capitol Hill, responsabile per la sicurezza del Congresso, nel 2021 ha ricevuto quasi diecimila denunce di minacce ai parlamentari, dieci volte quelle dell'anno prima.

E nel 2022 non va meglio.

Molti deputati e senatori vengono scortati quando girano per Washington o vanno all'aeroporto, ma è difficile proteggerli nelle loro case sparpagliate nei quartieri residenziali di città in ogni angolo d'America. Tanto più che in molti Stati è lecito andare in giro (e anche manifestare davanti alla casa di un politico) mostrando le proprie armi semiautomatiche.

I fattori che spingono verso la violenza sono tanti ma è innegabile che il principale sia la retorica incendiaria di Trump, non solo con la diffusione della bugia delle elezioni rubate, ma anche con minacce specifiche: un mese fa, attaccando il capo dei senatori repubblicani Mitch McConnell che aveva approvato un provvedimento economico contro il suo parere, l'ex presidente ha scritto, a caratteri cubitali sulla sua piattaforma Truth Social che McConnell ha un DEATH WISH , un desiderio di morte. Il secondo fronte, meno visibile perché polverizzato a livello locale ma forse ancor più allarmante, è quello delle minacce a scrutatori e responsabili dei sistemi elettorali dei singoli distretti e alle loro famiglie.

Nella sola Pennsylvania i capi degli uffici elettorali di 50 delle 67 contee si sono dimessi per le minacce ricevute. I rischi per il sistema elettorale americano nel voto di mid-term dell'8 novembre, ma soprattutto nelle presidenziali 2024, sono evidenti. Sindaci, polizie locali e Fbi hanno lanciato innumerevoli allarmi.

Secondo un recente ed esteso sondaggio della University of California (novemila interviste in tutti gli Stati dell'Unione) il 20 per cento degli americani considera la violenza politica giustificata se cambia le cose. Interessante, qui, la motivazione: violenza ammessa se consente di «difendere lo stile di vita americano basato sulle tradizioni dell'Europa occidentale». Per quasi 60 milioni di adulti americani, insomma, la difesa dell'American way of life viene anche prima della difesa della democrazia.

Estratto dell'articolo di Flavio Pompetti per “il Messaggero” il 30 ottobre 2022.

L'uomo che ha attaccato con un martello Paul Pelosi, marito della speaker della Camera Nancy, aveva una lista di politici da colpire. Il 42enne [David DePape] ha agito con premeditazione, ma l'obiettivo non era l'82enne Paul, bensì la moglie. 

[…] Nato in Canada, nella British Columbia, DePape si è trasferito in California una ventina di anni fa approdando nell'enclave ultra liberal di Berkley, dove condivideva un appartamento con la popolare attivista nudista Gypsy Taub e un gruppo di altre persone convinte che l'11 settembre non è stato altro che una macchinazione interna, ovvero terrorismo di Stato.

DePape è un sostenitore delle teorie complottiste sulle origini della pandemia, sulla validità delle elezioni del 2020 e sull'assalto al Congresso del 6 gennaio. Nel lontano giugno 2007 aveva iniziato a postare sul blog God is Loving, poi ha smesso per 15 anni.

Lo scorso agosto vi è tornato con messaggi razzisti, antisemiti e riferimenti a QAnon, il movimento cospirazionista americano di ultradestra. Il 26 agosto ha scritto che «Hitler non fatto nulla di sbagliato».

Nel frattempo, l'ottantaduenne marito della leader della Camera è stato operato con successo per la frattura del cranio, ma ha riportato ulteriori danni significativi a un a mano e un braccio. Anche il 42enne l'assalitore è in ospedale, ma le sue condizioni di salute non sono state comunicate dagli investigatori. 

[…] Dopo […] aver raccolto un'altra serie di segnali, l'intelligence americana ha lanciato una allerta sul possibile rischio di nuovi attacchi. La preoccupazione è tutta per la galassia violenta americana, QAnon in testa, che punta a destabilizzare il Paese in vista delle elezioni di mid term del prossimo 8 novembre.

Le truppe di suprematisti, secondo gli 007, sarebbero già pronte a colpire: il riferimento è ai Proud Boys, definiti patrioti da Trump, i neonazi Boogaloo e tanti altri ancora. «Estremisti violenti minacciano il voto», si legge in un bollettino fatto circolare dalle autorità americane. E il blitz a casa di Nancy Pelosi potrebbe essere solo il primo atto.

Alberto Simoni per “La Stampa” il 30 ottobre 2022.

La polizia di San Francisco non ha chiuso il cerchio, il caso dell'aggressione al marito di Nancy Pelosi, legato e preso a martellate nella sua casa a Pacific Heights a San Francisco, ha diverse zone grigie. L'obiettivo, hanno spiegato gli inquirenti, era la Speaker democratica della Camera. 

E le parole pronunciate da David DePape, 42 anni canadese da venti anni in California zero contatti con la famiglia di origine, «Dov' è Nancy», sono sinistramente identiche a quelle della folla di assalitori di Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Il nemico numero uno per una fetta di estremisti è sempre Nancy Pelosi. Lo era anche di Davide DePape, ora piantonato in ospedale.

La sua pagina Facebook, popolata di slogan anti vax e antisemiti, è stata chiusa già venerdì pomeriggio. Il Washington Post è riuscito a scovare due blog on line appartenenti all'aggressore. Ci sono richiami fra il 2007 e il 2022 alla censura, al Grande Fratello di Washington gestito da un'élite di pedofili, ai temi e toni di QAnon. Uno contiene una chiamata alla violenza e ha elogi a Hitler e alle camere a gas. L'ultimo post invita Trump a prendere nel 2024 come running mate la discussa Tulsi Gabbard.

La polizia non ha ancora confermato che l'autore sia DePape. Ma attorno al suo passato vi sono comportamenti balzati agli occhi della polizia per atteggiamenti e frequentazioni particolari. 

Venerdì pomeriggio gli agenti si sono presentati a casa di tale Gypsy Taub, attivista per i diritti dei nudisti e ritenuta una sorta di "capo branco" nella comunità alternativa di San Francisco, negazionista dell'11 settembre e dal passato denso di episodi di criminalità.

Nel 2013 aveva manifestato davanti alla Corte federale della città denudandosi. E un attivista nudista era lo stesso David. Per questo la polizia si è presentata a casa della donna dove però ha scoperto - tramite un ragazzo che li risiede - che l'aggressore di Paul Pelosi non si vede in giro da tre anni. Ricostruire spostamenti e amicizie è però importante per la polizia. 

È spuntata - con un post su Facebook- anche una presunta figliastra di DePape, Inti Gonzalez, che ha descritto l'uomo «posseduto da un demone» e che provava però a essere una brava persona. Non lo vede dal 2014. David aveva una relazione con la madre di Inti, e «la violentava fisicamente e psicologicamente». 

La storia sarebbe finita, secondo le parole di Inti, nel 2008 dopo diverse denunce alla polizia. L'attacco a Paul Pelosi è il più eclatante di una lunga serie: in luglio Lee Zeldin, repubblicano, venne aggredito sul palco durante il comizio. È in corsa per il posto di governatore di New York; il giudice della Corte suprema Brent Kavanaugh il mese prima si è trovato un uomo con una bomba fuori casa. E di questa settimana sono le condanne ad alcuni estremisti che avevano minacciato di morte Eric Swalwell, alleato di Nancy Pelosi. 

Il clima politica è surriscaldato e gli episodi intimidatori non hanno un'unica matrice nella galassia dell'estrema destra suprematista anche se questa resta maggioritaria. Delle 75 incriminazioni con minacce ai deputati a partire dal 2016, un terzo riguarda repubblicani pro-Trump, un quarto invece democratici indignati per le politiche dei rivali. 

A Washington, il caso Pelosi è oggetto di scontro politico. Alexandria Ocasio-Cortez, paladina della sinistra liberal ha accusato i leader repubblicani di non aver condannato con forza il gesto. La sua compagna di partito e di caucus progressista, Ilhan Omar, ha detto che «è colpa della retorica incendiaria dei repubblicani». Fra dieci giorni l'America vota. In questo clima.

La vendetta complottista: aggredito mister Pelosi "Ora dimmi dov'è Nancy". Valeria Robecco su Il Giornale il 29 ottobre 2022.

Lo spettro della violenza piomba sulla politica americana dopo che Paul Pelosi, il marito della speaker della Camera Nancy Pelosi, terza carica del paese, è stato assalito con un martello da un uomo entrato nell'abitazione della coppia a San Francisco. L'82enne è ricoverato in ospedale e alcune fonti hanno detto che è stato operato al cervello, mentre il portavoce della speaker, Drew Hammill, ha solo fatto sapere che «sta ricevendo un'eccellente assistenza medica e dovrebbe riprendersi completamente».

Hammill ha spiegato che Nancy Pelosi non era in casa al momento dell'attacco, avvenuto poco prima delle due e mezzo di mattina di ieri, ma si trovava a Washington. Le forze dell'ordine stanno indagando sulle motivazioni dell'assalto, e per ora non hanno fornito indicazioni su cosa abbia portato alla brutale aggressione o se sia stata motivata politicamente. Una fonte, tuttavia, ha fatto sapere che prima dell'attacco, l'uomo che ha colpito Paul Pelosi ha cercato di legarlo dicendo «ora aspettiamo Nancy», e poi ha urlato: «Dov'è Nancy, dov'è Nancy?».

Il capo della polizia di San Francisco, William Scott, ha affermato che quando gli agenti sono arrivati nell'abitazione dopo aver ricevuto una chiamata per un controllo, sia Pelosi che il sospetto sembravano impugnare un martello, poi l'aggressore lo ha afferrato aggredendo il marito della speaker davanti ai poliziotti. Gli agenti sono riusciti subito a disarmare l'uomo, un 42enne identificato come David Depape, che ora si trova in custodia della polizia. Secondo la Cnn il soggetto ha postato online diversi video con teorie cospirazioniste sulle elezioni del 2020, sulla commissione che indaga sull'attacco del 6 gennaio e sul covid. Secondo le prime ricostruzioni, Depape è entrato nella residenza dei Pelosi nell'esclusivo quartiere di Pacific Heights dal retro. Visto che la speaker non era in casa, non erano presenti le guardie del corpo, ma gli agenti dell'ufficio locale della polizia del Campidoglio «sono rapidamente arrivati sulla scena». Quindi, gli investigatori della Capitol Police sono stati inviati in California della East Coast per assistere l'Fbi e le forze dell'ordine di San Francisco in «un'indagine congiunta». La portavoce della Casa Bianca, Karine Jeanne-Pierre, ha fatto sapere in una nota che «il presidente Joe Biden prega per Paul Pelosi e per tutta la famiglia, questa mattina ha chiamato la speaker per esprimere il suo sostegno dopo l'orribile attacco, ed è molto contento che ci si aspetti un pieno recupero». Inoltre, «continua a condannare ogni violenza». Mentre il leader dei repubblicani al Senato, Mitch McConnell, si è detto «disgustato e inorridito».

Nell'ultimo periodo numerose figure politiche di alto livello di entrambi i partiti hanno subito minacce, atti vandalici, molestie e aggressioni. La stessa Pelosi è stata in diverse occasioni oggetto di violenti attacchi politici e all'inizio del 2021, subito prima dell'attacco a Capitol Hill del 6 gennaio, la loro casa di San Francisco è stata vandalizzata con dei graffiti mentre sul marciapiede è stata lasciata la testa di un maiale. E in occasione dell'invasione del Campidoglio i fan di Donald Trump hanno vandalizzato il suo ufficio in Congresso. Pelosi - che secondo indiscrezioni potrebbe assumere il ruolo di ambasciatrice a Roma nel caso i democratici perdessero il controllo della Camera dopo le elezioni di Midterm - e il marito, investitore immobiliare e tecnologico, si sono incontrati alla Georgetown University di Washington, si sono sposati nel 1963 e hanno cinque figli.

L'aggressione al marito di Nancy Pelosi. Resoconti e domande. Piccole Note il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

L’aggressione del marito di Nancy Pelosi, Paul (qui sopra in foto insieme alla moglie) fortunatamente solo ferito, oltre che una brutta pagina di cronaca nera, rappresenta una brutta tegola per i repubblicani, dal momento che corrobora la narrativa che inquadra il trumpismo, ormai spina dorsale del partito, come un pericolo per la democrazia, mantra ripetuto a profusione dai media mainstream.

Di sciamani e QAnon

L’aggressore, infatti, ha tratti in comune con lo strano personaggio che diventò simbolo dell’assalto a Capitol Hill, lo sciamano cornuto che si fece immortalare sul seggio più alto della Camera, appannaggio della presidente Nancy Pelosi, la cui immagine fece il giro del mondo.

Infatti, David Depape, questo il nome dell’assalitore di Paul Pelosi, riassume in sé tutte le negatività attribuite dai media al movimento trumpiano: dall’antisemitismo al complottismo, declinato quest’ultimo contro il Russiagate, l’emergenza pandemica, la censura dei media, l’oscurità dello Stato profondo etc etc.

E, come il cornuto di cui sopra, la sua vis polemica si era abbeverata alle acque avvelenate dello strano movimento QAnon, che per gli avversari del trumpismo ha rappresentato una manna dal cielo, estremizzando fino al parossismo e alla perversione le idee circolanti tra i simpatizzanti dell’ex presidente.

Depape aveva anche un suo blog personale nel quale esponeva le sue teorie estreme, blog in cui gli investigatori hanno trovato materiale bastante per buttare le chiavi della cella in cui sarà ristretto.

Accessi facili

Restano le perplessità riguardo l’estrema facilità con cui il pazzo esaltato ha violato la casa della quarta carica istituzionale dell’Impero, che peraltro si trova nel Distretto della Columbia, l’area più vigilata degli Usa a motivo delle tante sedi istituzionali che ospita (perplessità che non sono solo nostre, vedi Dagospia).

La spiegazione ufficiale, che la sicurezza segue e protegge la sola Nancy, risulta alquanto monca: possibile che l’Fbi non monitori un obiettivo tanto sensibile, che potrebbe essere oggetto di attentato o di intrusione a scopo spionistico? Le bombe e le microspie, infatti, come sanno bene quelli del Bureau, si piazzano in assenza.

Anche la dinamica dell’aggressione risulta alquanto bizzarra. Penetrato nella casa da un’ingresso posteriore, Depape avrebbe urlato: “Dov’è Nancy?”, riecheggiando, in una chiave di politica interna, l'”Allah Akbar” dei kamikaze di matrice islamista.

Poco si sa di quanto avvenuto in seguito, se non che il marito della Pelosi ha chiamato il numero delle emergenze lanciando l’allarme sull’intrusione, ma in maniera criptica; un codice però compreso dagli interlocutori che sono intervenuti con la dovuta urgenza, intuendo che non era una richiesta di aiuto come altre (in realtà, trattandosi del marito della speaker, l’urgenza avrebbe dovuto scattare egualmente, ma forse si tratta di un’aggiunta di colore).

Giunti alla casa violata, la polizia ha fatto irruzione e, come recitano le ricostruzioni, ha trovato il marito della Pelosi e l’aggressore alle prese con un martello, quindi, davanti agli agenti, il folle ha avuto la meglio sulla vittima, strappando l’oggetto contundente dalle mani dell’altro e colpendolo più volte, alle braccia e alla testa.

Ci si chiede chi abbiano mandato a fare le verifiche del caso, anche in considerazione del fatto che si trattava di un obiettivo tanto sensibile. La sicurezza americana ha fama di una certa efficienza, ma nel caso specifico sembra che sia rimasta ipnotizzata, lasciando che l’aggressore non solo strappasse dalle mani dell’altro il martello, ma che lo colpisse più e più volte.

Dov’è Nancy?

Della ricostruzione, infine, resta da capire da dove i giornali abbiano tratto l’informazione (si parla di un “anonimo”) sul fatto che l’assalitore abbia gridato “Dov’è Nancy”, dal momento che nel rapporto della polizia non si dice nulla di questo particolare.

Dai resoconti, infatti, non sembra che gli agenti abbiano interloquito con i due, peraltro sarebbe stato bizzarro avendoli trovati alle prese col martello. E sembra alquanto difficile che il marito della speaker abbia potuto raccontare qualcosa dopo l’accaduto, avendo riportato una “frattura al cranio”.

Resta la stranezza dell’aggressione, con il matto che ha evitato di infierire sulla vittima prima che chiamasse la polizia e lo ha assalito solo dopo il suo arrivo. Ma indagando sulla follia si rischia di finire in vicoli ciechi.

Sfortunata la Pelosi, che sembra catalizzatrice di disavventure familiari. Per rifarci al cornuto dell’assalto a Capitol Hill, tornano alla memoria le polemiche suscitate dal fatto che il genero della speaker fosse stato immortalato in mezzo ai manifestanti che gremivano il prato adiacente la sede istituzionale. E proprio accanto allo strano sciamano che poco dopo si sarebbe seduto sul suo nobile scranno.

L’aggressione subita dal povero Paul surriscalda il clima già rovente di questa campagna per le elezioni di midterm ormai vicine. Clima che diventerà  ancor più incendiato se, come sembra, Trump verrà incriminato per violazione della legge sulla Sicurezza nazionale, passo che appare prossimo se si sta a quanto riferisce il Washington Post. Vedremo.

L'aggressione al marito di Nancy Pelosi. Resoconti e domande. Piccole Note su Il Giornale il 31 ottobre 2022

L’aggressione al marito della speaker della Camera Nancy Pelosi, dopo aver provocato un terremoto mediatico e politico, come ovvio che fosse, inizia a perdere mordente.

Diversi analisti avevano predetto che avrebbe avuto una qualche influenza in vista delle elezioni dell’8 novembre, quando l’elettorato americano dovrà eleggere nuovi rappresentati di Camera e Senato, un effetto analogo a quello delle october surprise, usuali nelle elezioni Usa (avvenimenti che, a ridosso del voto, creano un’onda elettorale favorevole all’uno o all’altro partito).

Il pazzo e la sicurezza

Nel caso specifico, confermando la narrazione mainstream favorevole ai democratici di un elettorato repubblicano intossicato dagli estremismi, avrebbe giocato in sfavore del GOP.

E però l’effetto è stato di breve durata, sia perché i repubblicani si sono affrettati a condannare l’aggressione e a invitare i cittadini alla calma, sia perché i media alternativi hanno dato letture diverse all’accaduto.

Certo, le autorità e i media più importanti hanno fatto a gara a condannare tale letture come cospirazioniste, e molte di esse lo sono effettivamente, ma nonostante le smentite, la versione ufficiale ne è uscita scalfita.

Ciò perché tante domande restano inevase, prima fra tutte come è possibile che un pazzo possa entrare nella residenza di una delle più alte cariche politiche dell’Impero indisturbata.

La spiegazione ufficiale, che la Sicurezza vigila solo sulla moglie Nancy, non convince. La residenza di una figura tanto importante deve avere per forza una vigilanza stabile, seppur minore in assenza dell’interessata. Intrusi possono piazzare bombe, cimici e altro in sua assenza; o minacciare i familiari, come avvenuto.

E ciò a maggior ragione per quel che sostengono i media mainstream, cioè il dilagare in America di un estremismo violento, nel quale si registrano ripetute minacce ai politici, tra i quali la più bersagliata sarebbe proprio la Pelosi.

Riportiamo, in proposito un tweet dell’avvocatessa Harmeet K. Dhillon: “Il mio studio ha intentato una causa contro Paul Pelosi a San Francisco dopo aver tentato di darne informazione in altre [sue] residenze: Napa, Georgetown. Non si trovavano a casa, ma c’era il personale e molti agenti delle forze dell’ordine erano nel perimetro. L’irruzione è strana, dato questo livello di sicurezza”.

Ma anche ammettendo che la residenza non avesse una Sicurezza di Stato in assenza della speaker della Camera, sembra impossibile che non abbia almeno un allarme, che avrebbe dovuto scattare a seguito dell’intrusione.

Ne hanno tante case di cittadini comuni, possibile che non sia stato piazzato in una residenza tanto importante e al centro del mirino, soprattutto se è vero che la Sicurezza si allontanava da essa al seguito della signora Pelosi?

Nel suo report su quanto avvenuto, il New York Times raccoglie anche testimonianze di alcuni vicini e riferisce la situazione del quartiere. In tale articolo si legge un particolare interessante: “Il quartiere è uno dei più ricchi di questa città, nella quale si riversa la ricchezza della Silicon Valley. Molti residenti pagano un servizio privato, Pacific Heights Security, per proteggere le loro case di notte, integrando la vigilanza della polizia cittadina”.

Sembra che i più tranquilli del quartiere fossero proprio le persone che meno avrebbero dovuto esserlo, dal momento che ad attrarre i malintenzionati  a violare la casa dei Pelosi, oltre ai soldi, potevano essere anche moventi politici.

La ricostruzione dei fatti: alcune perplessità

Un altro particolare curioso, corroborato da foto aeree, è stato riferito dal New York Post: “Le foto aeree della proprietà Pelosi sembrano mostrare schegge di vetro rotto che ricoprono la passerella di mattoni fuori da una porta-finestra in frantumi, come se fosse stata infranta dall’interno verso l’esterno. La polizia di San Francisco ha rifiutato di commentare la cosa”.

La polizia ha forse una spiegazione a tale mistero, ma, non avendo voluto rilasciare dichiarazioni in proposito,  restano i dubbi.

Il fatto è che la polizia, in questa vicenda, non ha fatto una gran bella figura, non solo perché l’aggressione è avvenuta davanti agli occhi degli agenti, ma anche per le poche informazioni rilasciate, da cui le tante versioni circolate.

L’aggressore sarebbe stato trovato in mutande, cosa che ha fatto supporre a tanti un rapporto intimo con l’aggredito, ma la notizia è stata poi smentita. Come è stata smentita la notizia che, arrivati sul luogo, ai poliziotti che avevano suonato alla porta abbia aperto una terza persona, non identificata.

Ma sull’arrivo della polizia non è tanto importante chiarire se in quella casa c’era o non c’era una terza persona, ma se la polizia ha fatto irruzione, come sembra, o ha davvero suonato alla porta (dai report non si comprende con chiarezza).

Nel caso di un’irruzione ci dovrebbero essere le prove di uno sfondamento (anche perché sembra probabile che una casa tanto importante ponga a proprio presidio porte ben salde, magari blindate) e a oggi non abbiamo contezza di tale particolare.

Né sappiamo se il particolare sarà approfondito, ma è importante, perché sta o cade tutta la versione degli agenti. Se qualcuno gli ha aperto, la versione in cui i poliziotti hanno trovato aggredito e aggressore alle prese con un martello non regge.

Restano poi le perplessità, accennate in altra nota, riguardo al ritardo con cui gli agenti sono intervenuti, permettendo all’aggressore non solo di strappare dalle mani dell’altro il martello, ma di colpirlo più volte.

Certo, in realtà, la versione della polizia dice che è stato colpito “almeno una volta”. ma tutti i media riferiscono che il marito della Pelosi, in seguito, “ha subito un intervento chirurgico per riparare una frattura al cranio e altre lesioni”. Così il New York Times.

Altri media mainstream specificano che tali lesioni sono alle braccia e alle mani del malcapitato. Difficile fare tanti danni con un colpo solo… possibile che la versione della polizia voglia nascondere l’imbarazzo per la goffaggine dell’intervento, ma tanta goffaggine resta davvero inspiegabile.

Le stranezze dell’aggressore

Un altro particolare, sempre riferito dal Nyt, suscita interrogativi. L’aggressore, David Depape, infatti, non è stato subito spedito in carcere, ma “è stato ricoverato in ospedale a causa di ferite la cui natura non è stata rivelata”. Ma come, il reo di un reato tanto grave non viene sbattuto subito in cella? Anche le prigioni hanno ospedali…

Resta poi un’altra domanda, già accennata in altra nota, Riportiamo dal New York Times: “Prima che si verificasse l’assalto, l’intruso ha affrontato il signor Pelosi, gridando: ‘Dov’è Nancy? Dove sei, Nancy?’. Parole stranamente simili alle minacce rivolte contro la Pelosi quando una folla fedele all’ex presidente Donald J. Trump ha preso d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio 2021, irrompendo nel suo ufficio mentre il suo staff si barricava in una stanza interna”.

“’Dove sei, Nancy? Ti stiamo cercando!’ gridò un uomo quel giorno, mentre la folla imperversava nell’edificio. ‘Nancy! Oh, Nancy! Dove sei, Nancy?'”.

La cerca di Nancy da parte di Depape, riferita da tutti i media del mondo, ha creato subito una suggestiva liason tra l’aggressore e Trump. Ma non si capisce chi l’abbia riferita. Non certo il marito della Pelosi al momento dell’arrivo della polizia, che, come riferiscono i rapporti, stava cercando di contrastare la presa dell’aggressore sul martello.

Né l’aggressore, dal momento che aveva avuto modo, stando da tempo in casa, di constatare che Nancy non c’era. Resta solo la possibilità che Paul Pelosi l’abbia detto dopo l’aggressione… con il cranio fratturato, tanto da dover subire un’operazione per rimettere in sesto le ossa rotte? La resilienza dell’ultraottantenne ne risulterebbe miracolosa.

Infine, anche la descrizione del trumpiano di ferro, che emerge da quanto Depape avrebbe scritto sul suo blog, stride col profilo del personaggio. Frequenta feste di nudisti, vende e ha problemi di droga, ma soprattutto stride con la sua residenza.

Così Il NYP: “DePape viveva in uno scuolabus giallo fatiscente sulla strada di fronte alla casa di Taub a Berkeley [la Taub è un’amica]…  una scritta Black Lives Matter e una bandiera che combina i simboli delle foglie di marjuana e l’arcobaleno LGBTQ decorano la proprietà disseminata di detriti”. Quantomeno il personaggio era alquanto confuso, essendo quelli descritti simbolismi invisi, a dir poco, ai militanti trumpiani e propri dei loro avversari.

Infine, particolare curioso, il marito della Pelosi ha dato l’allarme chiamando al telefono dal suo bagno, dove si trovava il suo cellulare, messo lì a caricare. Aggressore gentile, che permette alla vittima di andare al bagno indisturbato, col rischio che vi si barricasse dentro.

Non accediamo a tesi cospirazioniste. Ma constatiamo che la versione ufficiale ha tanti buchi e suscita altrettante domande.

'TEMPI SOSPETTI O MESSA IN SCENA',I DUBBI DELLA DESTRA SU PELOSI. (ANSA il 30 ottobre 2022) - Nancy Pelosi si descrive "scioccata e traumatizzata" per l'assalto al marito, ancora ricoverato in ospedale. "Le sue condizioni migliorano", ha assicurato la Speaker della Camera rompendo il silenzio sull'incidente che ha indignato la politica americana ma che online, fra la destra, suscita molti dubbi. 

Sui social le teorie complottiste si susseguono arrivando addirittura a mettere in dubbio che l'assalto sia realmente accaduto. "Ci sono dettagli molto strani", si legge in un forum devoto al ex stratega della Casa Bianca Steve Bannon. 

"Mi chiedo se Pelosi abbia cercato di mettere in scena il suo mini 6 gennaio", ha scritto e poi cancellato Greg Kelly, l'anchor del network di destra Newsmax. Secondo diversi esponenti della far right americana a essere sospetta è la tempistica del presunto incidente, a pochi giorni dalle elezioni di metà mandato. "La sinistra sta impazzendo non solo perché non crediamo alla non plausibile storia di Paul Pelosi ma perché stiamo ridendo per quanto è ridicola", scrive Dinesh O'Souza, il commentatore di destra autore di diversi documentari. "Questo significa che non siamo più intimiditi dalle loro false storie. Non hanno più controllo su noi", aggiunge Souza. (ANSA).

(ANSA il 30 ottobre 2022) - Elon Musk ha twittato il link di una teoria complottista sull'attacco a Paul Pelosi, il marito della Speaker della Camera Nancy Pelosi. Rispondendo a Hillary Clinton che definiva l'assalto "scioccante ma non sorprendente" e allegava al suo cinguettio un articolo del Los Angeles Times sull'aggressore e la sua passione per QAnon, Musk ha risposto: c'è una "minuscola possibilità che ci sia più su questa storia di quanto non sembri prima vista". Al tweet è allegato un articolo non più accessibile del Santa Monica Observer, secondo il quale non c'è mai stato alcun attacco e Paul Pelosi era in compagnia di un gigolò.

DAGONEWS il 14 ottobre 2022.

I servizi segreti erano stati avvertiti prima di quanto fosse noto fino a oggi che i sostenitori di Donald Trump stavano pianificando un attacco armato al Campidoglio il 6 gennaio 2021. Secondo i documenti rivelati in un'audizione al Congresso giovedì, gli agenti dei servizi segreti incaricati di valutare i rischi legati alle proteste stavano monitorando da tempo le chat online sui siti web pro-Trump.

Dal monitoraggio era emerso che i partecipanti alla manifestazione si stavano organizzando per portare armi, prendere di mira il Campidoglio e persino uccidere il vicepresidente Mike Pence. Già il 26 dicembre, i funzionari dei servizi segreti erano a conoscenza di una soffiata di un informatore che diceva: «Pensano che avranno un gruppo abbastanza grande da marciare a Washington armato e saranno più numerosi della polizia, quindi non potranno essere fermati.

Il loro piano è quello di uccidere letteralmente le persone. Per favore, prendete sul serio questo suggerimento e indagate ulteriormente». Le prove presentate all'udienza aggiungono i servizi segreti a un lungo elenco di agenzie di sicurezza nazionale che hanno ricevuto avvertimenti sull'assalto programmato per il 6 gennaio, ma che non si sono mossi in tempo per fermarlo.

 DAGONEWS il 15 settembre 2021.

Il presidente Trump ha offerto quello che considerava "un grande affare" al re di Giordania Abdullah II: il controllo della Cisgiordania, la cui popolazione palestinese ha cercato a lungo di rovesciare la monarchia.

«Pensavo di avere un infarto - ha detto Abdullah II a un amico americano nel 2018, secondo un nuovo libro sulla presidenza Trump che sarà pubblicato la prossima settimana - Non riuscivo a respirare. Ero piegato in due».

L'offerta ad Abdullah è una delle sorprendenti rivelazioni sulla caotica presidenza di Trump contenute nel libro "The Divider: Trump in the White House 2017-2021" di Peter Baker, corrispondente capo della Casa Bianca per il “New York Times”, e Susan Glasser, scrittore per “The New Yorker”.

Il libro è l'ultimo di una lunga serie di resoconti del dietro le quinte della presidenza con dettagli riportati da addetti ai lavori dell'amministrazione Trump, che affermano di aver cercato di frenare i peggiori istinti del 45° presidente.

Baker e Glasser scrivono che il loro libro si basa su circa 300 interviste condotte esclusivamente per il libro: «Le informazioni provengono da diari privati, promemoria, note e-mail, messaggi e altri documenti che gettano nuova luce sul periodo in cui Trump è stato in carica». Un tema che emerge nel libro è la crescita ossessione di Trump nell'attaccare i suoi presunti nemici e una crescente preoccupazione tra gli alti funzionari della sua amministrazione di dover prevenire le richieste “irregolari” di Trump.

Dal Watergate ai guai del Tycoon: quando la politica Usa è uno scandalo. L’inchiesta che nel 1974 portò alle dimissioni del presidente Richard Nixon fu una “tempesta perfetta” che ha cambiato per sempre la società americana. Paolo Delgado su Il Dubbio l'11 agosto 2022.

Quanti “gate” si sono susseguiti nel corso dell’ultimo mezzo secolo? Innumerevoli e non solo negli Usa. Il nome di quell’albergo di Washington, il Watergate Hotel, è diventato sinonimo di “scandalo politico”, campeggia ovunque, resiste all’usura del tempo. Portò alle dimissioni del presidente Richard M. Nixon il 9 agosto 1974, a meno di un anno e mezzo dall’inizio del suo secondo mandato. Aveva resistito e puntato i piedi per mesi ma la resa era ormai inevitabile. Senza le dimissioni l’impeachment sarebbe stato inevitabile. L’impatto dello scandalo sugli Usa e sugli americani fu enorme: una crisi di fiducia del Paese nei confronti delle istituzioni senza precedenti e in una certa misura mai del tutto recuperata.

Eppure il crimine in sé, il fattaccio all’origine della slavina, era in realtà poca cosa. Cominciò tutto, nella notte del 17 giugno 1972, con un pezzetto di nastro isolante adoperato per tenere aperta la porta che conduceva al parcheggio sotterraneo dell’edificio che ospitava il Watergate Hotel ma anche, al sesto piano, il quartier generale del Comitato democratico che gestiva la campagna elettorale nell’anno delle elezioni presidenziali. Un agente della sicurezza rimosse il nastro senza dargli alcuna importanza. Ma quando nel giro di sorveglianza ripassò di fronte alla porta ritrovò un altro nastro isolante rimesso accuratamente a posto. Stavolta avvertì la polizia che sorprese cinque uomini negli uffici del Comitato democratico.

Poteva sembrare un caso di effrazione come tanti ma i cinque erano equipaggiati con strumenti troppo sofisticati e uno di loro, James McCord aveva un passato nell’Fbi e nella Cia nonché un presente nel Cpr, il Comitato per la rielezione di Nixon, guidato dall’ex ministro della Giustizia John Newton Mitchell. Essendo il reato stato commesso nella capitale federale le indagini spettavano all’Fbi e il Bureau era in pieno terremoto. L’autocrate che lo aveva diretto per oltre quarant’anni era morto il mese prima.

La lotta per la successione ma anche per la ristrutturazione della potentissima agenzia era feroce e quanto spietata lo si è capito a fondo solo nel 2005, quando l’allora vicedirettore dell’Fbi Mark Felt, in guerra col direttore ad interim Patrick Gray, rivelò di essere lui “Gola Profonda”, il sino a quel momento misterioso informatore che aveva indirizzato con le sue confidenze Bob Woodward e Carl Bernstein, i giornalisti del Washington Post che avevano reso una notizia da fondo pagina, definita dal portavoce della Casa Bianca Ron Ziegler “uno scasso di terza categoria”, lo scandalo del secolo.

Le prime indagini individuarono un legame tra gli scassinatori e ambienti vicini alla Casa Bianca. In effetti a proporre il piano per spiare il partito avversario ricavandone vantaggi per la campagna elettorale era stato un ex agente del Fbi, Gordon Liddy. Lo aveva proposto al direttore del Cpr Newton Mitchell, il via libera era stato dato in marzo ma non ci sono prove tali da dimostrare che il presidente Nixon fosse al corrente dell’operazione. Di certo però “Tricky Dick”, come veniva chiamato sin dagli anni ‘ 50 uno degli uomini politici meno limpidi d’America, fu decisivo nella campagna per depistare le indagini, distruggere prove, impedire che lo scandalo influenzasse il voto di novembre. Il direttore del Bureau si prestò al gioco. Il consigliere legale del presidente John Dean, che un anno dopo con le sue deposizioni di fronte alla Commissione d’inchiesta del Senato lo avrebbe messo con le spalle al muro, fu decisivo nelle operazioni d’insabbiamento.

All’inizio la manovra della Casa Bianca funzionò egregiamente. Il 15 settembre 1972 l’inchiesta del Grand Jury si concluse con l’incriminazione solo dei cinque uomini sorpresi negli uffici del Comitato democratico, di Liddy e di Howard Hunt, altro ex agente che dirigeva con Liddy l’operazione. Nixon sembrava salvo e vinse trionfalmente le elezioni di novembre. Ma le inchieste giornalistiche, soprattutto quella del Washington Post proseguì e impedì che la faccenda fosse dimenticata, sino alle drammatiche sedute pubbliche della commissione d’inchiesta del Senato, seguite in tv da decine di milioni di persone, nelle quali Dean e altri funzionari pentiti denunciarono le manovre del presidente per depistare le indagini.

L’ultima mano si giocò sui nastri con le registrazioni dei colloqui del presidente nella sala ovale. Nel luglio 1973, in una seduta della commissione, i collaboratori del presidente ammisero che tutte le conversazioni venivano registrate. Nixon si rifiutò di consegnarli invocando una norma che sembrava consentirglielo. Chiese al procuratore Cox, che aveva chiesto i nastri, di rinunciare. Cox insistette. Il presidente costrinse alle dimissioni, il 20 ottobre ‘ 73, il procuratore generale e il suo vice, rei di non aver messo alla porta Cox.

Il nuovo procuratore però non mollò la presa. Nixon, pur non consegnando le registrazioni, dovette però mettere a disposizione le trascrizioni parziali, che confermavano le accuse di Dean. Risultò che in uno dei colloqui più importanti, quello del 20 giugno 1972 con il capo di gabinetto Hadelman, erano stati cancellati 18 minuti di registrazione. La segretaria del Presidente Rose Mary Wood si assunse la responsabilità della “cancellazione accidentale”.

I periti dimostrarono che l’ “accidente” era escluso. Il 24 luglio 1974 la Corte suprema sentenziò che il “privilegio dell’esecutivo” impugnato da Nixon per non consegnare i nastri non poteva essere in questo caso adoperato. Il 30 luglio il presidente consegnò al procuratore i nastri, alcuni dei quali dimostravano senza possibilità di dubbio le manovre della Casa Bianca per soffocare lo scandalo. Nove giorni dopo Richard Nixon, “Tricky Dick” si arrese e rassegnò le dimissioni.

Capitol Hill, si lancia con l'auto in fiamme contro un cancello. Spara e poi si uccide. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

L’uomo ha iniziato a sparare e poi si è suicidato. Non sembra, al momento, che ci sia stato uno scambio a fuoco con gli agenti

Un uomo è andato a schiantarsi con la propria auto contro una delle barriere intorno al Campidoglio di Washington, sul lato est, alle 4 del mattino. L’auto è andata in fiamme mentre l’uomo scendeva, poi, spiegano fonti della polizia, ha iniziato a sparare in aria.

Non appena gli agenti si sono avvicinati, l’uomo ha rivolto l’arma contro sé stesso e si è suicidato. Nessun altro è rimasto ferito. Non sono note al momento identità e motivazioni. La notizia è stata data inizialmente dalla corrispondente della rete Pbs Lisa Desjardins e confermata dalla polizia. La giornalista nota che gli ultimi mesi sono stati estenuanti per la Capitol Police, «tra minacce alla Corte suprema, al Congresso e lunghe sessioni in entrambe le istituzioni».

La polizia afferma in un comunicato che «al momento non sembra che l’uomo stesse prendendo di mira membri del Congresso, dal momento che le sessioni sono sospese, e gli agenti non avrebbero sparato». Lo scorso aprile un altro veicolo andò a scontrarsi contro una barriera del Campidoglio, uccidendo un agente e ferendone un altro.

Sarah Palin perde per il seggio in Alaska. La fedelissima di Trump sconfitta dai Dem. Vittoria della nativa Mary Peltola: è la prima volta in 50 anni che i repubblicani sono sconfitti nello Stato del Nord. Incognita sul Midterm. Valeria Robecco il 2 Settembre 2022 su Il Giornale.

New York. Si allontanano, almeno per ora, le speranze di Sarah Palin di tornare sul palcoscenico della politica americana. Nonostante il sostegno dell'ex presidente Donald Trump, l'ex governatrice repubblicana dell'Alaska, soprannominata la «pitbull col rossetto», ha perso contro la democratica Mary Peltola la gara per il seggio alla Camera rimasto vacante dopo la morte del deputato Don Young. Palin, candidata alla vice presidenza Usa con John McCain nel 2008 (contro Barack Obama e Joe Biden), avrà comunque una seconda possibilità alle elezioni di Midterm, ma per ora Peltola è diventata la prima nativa dello stato eletta in Congresso.

L'Alaska ha utilizzato per la prima volta il sistema di voto a scelta classificata - istituito nel 2020 - ossia invece di votare solo per un candidato, gli elettori esprimono le loro preferenze in ordine fino a quattro, e se nessuno ottiene il 50% il candidato con il minor numero di voti viene eliminato e le sue preferenze sono assegnate alla seconda scelta di chi ha votato il perdente. Il fatto che il terzo classificato Nick Begich sia anche lui un repubblicano (ce n'era un quarto ma si è ritirato prima del voto), faceva pensare che l'ex governatrice fosse in vantaggio, mentre alla fine ha perso di quasi tre punti percentuali (con il 48,5% contro il 51,5% della rivale). Peltola, democratica moderata e amica di famiglia del defunto Young (che ha servito a Capitol Hill per circa mezzo secolo) ha messo a segno uno spostamento di 13 punti percentuali, visto che l'Alaska è uno stato che Trump ha vinto di 10 punti nel 2020. E anche se a novembre, quando si voterà per il mandato pieno, Palin potrebbe ribaltare il risultato, la sua sconfitta è un campanello d'allarme per i repubblicani. Se da un lato i candidati trumpiani hanno spesso battuto gli avversari nelle primarie del Grand Old Party, non stanno facendo altrettanto bene in generale, poiché campagne più divisive ed estreme rischiano di allontanare gli elettori moderati negli stati in bilico. E questo, nonostante i guai giudiziari del tycoon non sembrino per ora aver giovato al gradimento del presidente Joe Biden, potrebbe creare seri problemi nell'obiettivo del Gop di riconquistare il Congresso.

Nel frattempo è arrivato un nuovo colpo per l'ex inquilino della Casa Bianca: la commissione di sorveglianza della Camera ha annunciato di aver raggiunto un accordo con The Donald per la consegna di una serie di documenti finanziari, oggetto di un contenzioso che va avanti dal 2019. Secondo la Cnn in base all'intesa, la società di contabilità della Trump Organization (Mazars) deve presentare le carte tra cui anche le dichiarazioni fiscali. «Trump ha accettato di non ricorrere in appello e Mazars Usa ha accettato di rispettare l'ordine del tribunale e presentare i documenti il più rapidamente possibile», si legge in una nota della commissione. Mentre sul fronte dei documenti sequestrati dall'Fbi nella perquisizione a Mar-a-Lago, gli avvocati del tycoon hanno indirettamente ammesso che nella sua residenza in Florida ci fossero carte riservate: nella risposta al nuovo documento del dipartimento di Giustizia - fa sapere sempre la Cnn - i legali sostengono come «il fatto che tra i documenti presidenziali ci fossero carte top secret non deve destare allarme». E ancora sottolineano che gli Archivi Nazionali «dovevano aspettarsi che nelle 15 scatole» che Trump ha consegnato a gennaio ci fosse «materiale classificato perché erano carte presidenziali».

(ANSA il 17 agosto 2022. ) - "Presumo che con la grande sconfitta di Liz Cheney, molto più grande di quanto fosse mai stato previsto, il Comitato del 6 gennaio, composto da streghe e inizierà rapidamente il bellissimo processo di DISSOLUZIONE? Questo è stato un referendum sulla caccia alle streghe infinita. La gente ha parlato!". 

Lo scrive Donald Trump sul suo social media Truth gioendo per la sconfitta della deputata repubblicana, figura importante della commissione sull'assalto a Capitol, contro la candidata da lui sostenuta alle primarie in Wyoming.

Estratto dell’articolo di Stefano Pistolini per “il Foglio” il 18 agosto 2022.  

[…] Gli esiti delle primarie di queste ore, a cominciare dalla disfatta di Liz Cheney nella corsa al seggio del Wyoming in cui è stata travolta dall’avversaria filotrumpiana Harriet Hageman, confermano il regolamento di conti in corso attorno alla figura dell’ex presidente, sempre più probabile candidato repubblicano alla corsa 2024 per la Casa Bianca.

Chi ha tradito – 8 dei 10 repubblicani che diedero via libera al tentativo di impeachment – chi non ha giurato fedeltà, chi, come la Cheney, ha vestito i panni dell’inquisitrice di Trump nella Commissione che prova a chiarirne il ruolo nei fatti del 6 gennaio 2021 – viene spazzato via dalla furia propagandistica della centrale-Trump, tornata in piena attività: è “con Trump” o “contro di lui”, senza mezze misure e a costo di chiudere anzitempo il proprio percorso politico.

[…] Il modo in cui un’avvocatessa con uno scarso curriculum politico come la Hageman ha spazzato via una figura rappresentativa, ricca di implicazioni culturale e dotata di pedigree politico di prim’ordine come Liz Cheney, è esemplare: il trumpismo da tempo è un partito a sé, ben più elementare e circoscritto del conservatorismo americano, in fondo definito nella laconicità nervosa degli slogan con cui il fondatore arringava i sostenitori dalla tribuna di Twitter […] […] È questo lo scenario da incubo che si va definendo: un Trump che a pieno regime invoca il diritto a governare un popolo che lo vuole e l’altra America che aziona ogni meccanismo possibile per fermarlo.

Una prospettiva di disordine generale, la cui misura si esprimerebbe attraverso l’intensità della chiamata alle armi pronunciata da Trump. A meno che. A meno che la politica nel senso classico del termine trovi modo e interpreti per prevalere. Che si configuri un patto, sotto forma di un salvacondotto giudiziario per Trump in cambio del suo defilarsi dalla prima linea. Un delicato (e tutt’altro che scontato) armistizio che troverebbe sostegno bipartisan e profilerebbe, se non altro, la soluzione anagrafica: un Trump ultraottantenne potrebbe optare per il golf e altri intrighi. E l’America potrebbe cominciare a riflettere sull’uragano appena passato.

Così Donald Trump ha stroncato le dinastie della politica Usa. Alberto Bellotto il 19 Agosto 2022 su Inside Over.

Già nelle prime battute delle primarie nel 2016 una delle missioni chiave di Donald Trump era chiara: scardinare il sistema del potere politico dei partiti americani. Dalle elezioni fino agli ultimi giorni del suo mandato il tycoon ha costruito la sua immagine politica e la sua eredità sulla lotta alle élite di potere che per decenni hanno controllato Washington. Una parte di questo “lavoro” è stato quello di far deragliare alcune delle dinastie più importanti della politica americana.

La fine dei Cheney

Ne sa qualcosa Liz Cheney, sconfitta malamente nelle primarie repubblicane in Wyoming da Harriet Hageman. L’avvocata spinta da Donald Trump si è imposta con una maggioranza schiacciante, mentre la Cheney si è fermata al 29% dei voti. Trump ha investito pesantemente sulla campagna nel Cowboy State. Per lui era troppo importante far saltare la deputata. Per anni è stata una spina nel fianco, prima con le critiche durante la presidenza e poi con l’impeachment votato dopo i fatti del 6 gennaio e non da ultimo il suo ruolo nella commissione che indaga su quanto successo a Capitol Hill.

Con la sua confitta Trump ha messo fine, almeno per ora, alla carriera politica di una figlia d’arte. I Cheney erano in politica da anni. Tutto infatti era iniziato con il padre, Dick Cheney. Un falco conservatore che ha vissuto da protagonista una grossa fetta della storia americana, prima come consigliere del presidente Richard Nixon e poi come capo gabinetto della presidenza Ford. In seguito era stato per 12 anni al Congresso come deputato. E ancora segretario alla Difesa per Bush H. Bush fino alla vicepresidenza durante i due mandati di George W. Bush. Poi il suo seggio in Wyoming è andato alla figlia che si è però fermata a tre mandati.

Archiviato l’ultimo Bush

Prima dei Cheney era toccata anche alla famiglia Bush, altra dinastia con un lungo pedigree politico a Washington. In questo caso Trump ha posto fine alla carriera di ben due Bush. Il primo è stato Jeb Bush. Figlio di H. W e fratello minore dei George W., Jeb sentiva di essere destinato alla Casa Bianca in virtù proprio del suo lignaggio ma ha dovuto fermarsi al ruolo di governatore della Florida. Nel 2016 il ciclone Trump ha posto fine a ogni velleità di Jeb conquistando, Stato dopo Stato, le primarie del Gop.

Nel 2022 è arrivata l’ultima picconata ai Bush da parte del tycoon. Trump ha infatti sostenuto fino alla vittoria Ken Paxton alle primarie da procuratore del Texas contro George P. Bush, ultimo politico Bush ancora in attività. George P., figlio di Jeb, per mesi ha corteggiato l’ex presidente che però alla fine ha appoggiato Paxton: “Ken è forte sulla criminalità, sulla sicurezza delle frontiere, sul secondo emendamento, sull’integrità elettorale. È un vero texano che manterrà il Texas al sicuro”. Un intervento semplice e incisivo che ha dato un colpo di spugna ai Bush. Non solo pratico, ma soprattutto simbolico. Per mesi George P. Bush aveva dato il suo sostengo a Trump, lui aveva anche twittato in sui favore, ma alla fine ha sparigliato le carte appoggiato Paxton e “ucciso” i Bush.

Archiviata l’era Clinton

Nemmeno i democratici sono stati immuni ovviamente. E su questo fronte la “rottamazione” di Trump è stata ancora più forte e si è consumata nella notte del 8 novembre 2016 con la sconfitta di Hillary Clinton, ultima esponente, almeno per ora, di una dinastia che per un paio di decenni ha segnato gli equilibri della politica Usa.

Tutto era iniziato con gli impegni in Arkansas di Bill Clinton, prima come procuratore generale dello Stato e poi come governatore. Poi l’accelerazione alla presidenza. Da lì il passaggio di testimone con la moglie Hillary prima come senatrice per lo Stato di New York, dal 2001 al 2009, e poi come segretario di Stato per Barack Obama dal 2009 al 2013. Fino al novembre del 2016 quando Trump ha proseguito l’opera di smantellamento delle élite e delle dinastie d’America.

L’ultima dinastia da battere

L’unico colpo che per ora non è riuscito a Trump è quello contro i Murkowski. Lisa Murkowski, attuale senatrice dell’Alaska, è una repubblicana che ha votato convintamente la messa in stato di accusa contro il presidente, ma soprattutto è una delle poche che è stata in grado di reggere l’urto dell’ira di Trump. Alle primarie nel Last Frontier State la Murkowski è riuscita a resistere e a staccare il biglietto per il voto del prossimo 8 novembre. Lei, come la Cheney viene da una famiglia da sempre in politica. Suo padre, Frank Murkowski, è stato a lungo senatore per lo stato, dal 1981 al 2002 e poi ha servito come governatore dello Stato per 4 anni fino al 2006 prima di cedere il posto a Sarah Palin

Provarle tutte. Trump fa causa al governo americano contro il blitz dell’FBI, che definisce “illegale”. L'Inkiesta il 23 Agosto 2022.

A due settimane dall’ispezione della villa dell’ex presidente a Mar-a-Lago, i legali del tycoon newyorchese hanno chiesto che venga nominato uno “special master”, cioè un soggetto neutrale che possa esaminare i documenti. Questo allungherebbe i tempi dell’indagine

Donald Trump ha avviato un’azione legale contro il governo americano sul caso del blitz del Fbi a Mar-a-Lago. L’obiettivo è chiedere la nomina di uno “special master”, cioè un soggetto neutrale che possa esaminare i documenti trovati e requisiti dalle forze dell’ordine nella villa dell’ex presidente americano. Nel frattempo, cioè fino alla nomina, l’indagine da parte dell’FBI verrebbe interrotta.

Secondo quanto dichiarano i suoi legali, «alla politica non può essere consentito di avere un impatto sulla giustizia. Trump è chiaramente il frontrunner per le primarie americane» e, aggiungono, «per le elezioni generali del 2024». I suoi endorsement nei confronti dei candidati repubblicani per le elezioni di metà mandato del 2022 sono «stati decisivi». Per questo, dichiarano, il raid è stato «illegale e incostituzionale».

Trump è stato trattato a lungo in modo «ingiusto», spiegano gli avvocati, sostenendo che avrebbe diritto ad avere più informazioni sui documenti che sono stati trovati e requisiti durante la perquisizione.

La richiesta dei legali dell’ex presidente è stata depositata davanti al giudice del Southern District della Florida, Aileen Cannon, nominata da Trump. Se accetterà la richiesta il processo di analisi dei documenti sarà rallentato, bloccando – almeno per un certo periodo – l’indagine.

Francesco Semprini per “La Stampa” il 19 agosto 2022.

Donald Trump è pronto a pubblicare i video della perquisizione di Mar-a-Lago da parte dell'Fbi registrati attraverso le telecamere di sicurezza della magione in Florida, mentre tra i ranghi del tycoon cade la prima testa, quella dell'ex direttore finanziario delle società di famiglia. 

Si tratta del 75 enne Allen Weisselberg, Cfo di lungo corso della Trump Organization, che si è dichiarato colpevole a New York per una quindicina di reati fiscali, in base ad un accordo di patteggiamento che prevede 5 mesi di prigione contro una pena massima di 15 anni. 

L'accusa nei suoi confronti è di aver cospirato con la Trump Organization per ricevere una serie di benefit in contanti non dichiarati, tra cui costose rette scolastiche per il figlio, auto e appartamenti in leasing, per un valore di 1,7 milioni di dollari, evadendo il fisco per 900 mila dollari.

È probabile che Weisselberg sconterà solo 100 giorni dei 5 mesi e dovrà pagare una multa fino a due milioni di dollari. L'ex manager dovrà testimoniare, se convocato, al processo contro la holding in autunno quando il cerchio potrebbe stringersi attorno al tycoon. 

In merito all'indagine su presunta violazione della legge sullo spionaggio si è tenuta ieri in Florida l'udienza per decidere se pubblicare o meno l'affidavit, la dichiarazione giurata che ha accompagnato il mandato di perquisizione chiesto dall'Fbi. Il giudice Bruce Reinhart, lo stesso che ha approvato il blitz ha optato alla fine per una «pubblicazione parziale».

L'affidavit elenca nel dettaglio i motivi addotti dal Bureau per il via libera al raid della residenza del tycoon in Florida, da dove sono stati prelevati undici faldoni di documenti, tra cui un dossier Top Secret. Il dipartimento di Giustizia si oppone perché «causerebbe un danno significativo e irreparabile» alle indagini. 

I legali dell'ex presidente la invocano a dimostrare il fatto che il loro assistito non ha nulla da nascondere e, ieri, anche il Wall Street Journal, in un editoriale, si è schierato per la divulgazione.

Su un altro fronte legale, l'ex avvocato di Trump, Rudy Giuliani, è apparso mercoledì per sei ore davanti al grand jury speciale ad Atlanta che sta indagando sui possibili tentativi illegali di influenzare le elezioni del 2020 in Georgia. 

Ma il tycoon intanto trasforma il blitz in una macchina da soldi. Le oltre 100 e-mail inviate a suoi sostenitori hanno consentito all'ex presidente di raccogliere anche un milione di dollari al giorno, rispetto al precedente livello medio di 200 mila - 300 mila dollari. E rilancia la sfida all'Fbi condividendo sul suo social Truth un post in cui definisce il Bureau «fascista». Un nuovo attacco sui blitz degli agenti federali a Mar-a-Lago.

A difesa del Bureau si schiera invece Mike Pence il quale chiede di non scagliarsi contro i federali. L'ex vicepresidente, dai trumpisti considerato un traditore per essersi rifiutato di fermare il processo di approvazione in Congresso della nomina a presidente di Joe Biden, sta considerando l'ipotesi di testimoniare di fronte alla commissione della Camera che indaga sulla tentata insurrezione del 6 gennaio 2021.

(ANSA il 19 agosto 2022) - Diciotto ex alti funzionari dell'amministrazione Trump hanno smentito alla Cnn la dichiarazione dell'ex presidente che i documenti pubblici portati dalla Casa Bianca a Mar-a-Lago erano stati da lui declassificati, bollandola come "falsa" e "ridicola".

"Niente che si avvicini a un ordine così sciocco è mai stato dato", ha detto parlando con la Cnn John Kelly, ex capo dello staff di Trump per 17 mesi dal 2017 al 2019. "E non riesco a immaginare nessuno che abbia lavorato alla Casa Bianca dopo di me che di fronte ad un ordine del genere posso aver semplicemente scrollato le spalle e mandato avanti la richiesta", ha sottolineato.

"Una totale sciocchezza. Se è vero, dov'è l'ordine con la sua firma?", ha detto un altro alto funzionario della Casa Bianca. Trump sostiene che le carte 'top secret', 11 faldoni, trovati dall'Fbi nella sua perquisizione della residenza in Florida erano stati precedentemente desecretati su suo ordine. Il presidente americano ha questo potere ma dovrebbe risultare sui documenti stessi. Circostanza questa che è ancora tutta da dimostrare.

(ANSA il 19 agosto 2022) - Donald Trump è sospettato dall'Fbi di aver "volontariamente sottratto carte relative alla sicurezza nazionale Usa", aver "nascosto o sottratto documenti pubblici" e aver "ostruito un'indagine federale". 

 Lo rivelano, secondo quanto riportato dalla Cnn, i documenti procedurali legati alla perquisizione dei Federali a Mar-a-Lago resi noti dal giudice Bruce Reinhart oggi. Tra le carte pubblicate ci sono anche l'istanza del dipartimento di giustizia per tenere segreti i documenti alla base del mandato, il provvedimento che accoglie la richiesta e la copertina del fascicolo.

(ANSA il 19 agosto 2022) - Il giudice Bruce Reinhart ha stabilito che l'affidavit della perquisizione della residenza in Florida di Donald Trump non debba essere pubblicato per intero e ha dato al Dipartimento di Giustizia Usa tempo fino al 25 agosto a mezzogiorno per rivedere l'affidavit - la dichiarazione giurata al magistrato per ottenere il mandato di perquisizione - e riproporlo con degli omissis. Lo riporta Fox news.

Durante l'udienza, il giudice ha affermato di non essere ancora convinto che la dichiarazione giurata nella quale si spiegano le ragioni della perquisizione della residenza di Mar-a-Lago debba essere diffusa integralmente suggerendo invece di pubblicarne solo "alcune parti". Reinhart ha spiegato che da qui a giovedì prossimo i funzionari del dipartimento di Giustizia avranno modo di proporre degli omissis e di spiegarne le ragioni. 

Svelate le ragioni del raid a casa Trump: “Nei documenti le identità delle spie”. Paolo Mastrolilli su La Repubblica 26 Agosto 2022.

Il tycoon si difende dopo la pubblicazione del documento con omissis: "Non ho fatto nulla di male"

Tre punti nuovi importanti, che minacciano di avvicinare l'incriminazione di Donald Trump. Primo, i documenti segreti che si era portato a Mar-a-Lago contenevano informazioni su fonti umane di intelligence, che se rivelate potevano costare loro la vita; secondo, diversi testimoni oculari hanno denunciato cosa accadeva nella residenza dell'ex capo della Casa Bianca, e chissà cosa avranno rivelato agli inquirenti; terzo, forse il fatto più rilevante, l'Fbi riteneva di trovare potenziali prove del reato di ostruzione della giustizia durante la perquisizione.

Da ansa.it il 30 settembre 2022.

Gli agenti dell'Fbi hanno sequestrato quasi 200.000 pagine di documenti dalla residenza in Florida dell'ex presidente Donald Trump.

Lo hanno rivelato gli avvocati del tycoon in nuovi atti depositati in tribunale, secondo quanto riportato da Cnbc. 

È la prima volta che viene menzionato questo numero, fino a oggi si era parlato di circa 11.000 carte sequestrate a Mar-a-Lago nel raid dell'8 agosto, tra le quali oltre 100 documenti top secret. 

Negli atti depositati nella tarda serata di ieri in un tribunale di Brooklyn la difesa accusa il dipartimento di Giustizia di essere "troppo ottimista e aggressivo" sul rispetto delle scadenze per l'analisi dei documenti da parte di un analista esterno e quindi per la revisione da parte dello special master Raymond Dearie. Per gli avvocati di Trump il termine va spostato dal 7 a metà ottobre, "una data realistica" per completare il lavoro di revisione.

(ANSA il 4 ottobre 2022) - All'inizio del 2022, Donald Trump chiese a uno dei suoi avvocati di dire agli Archivi nazionali che i documenti portati via dalla Casa Bianca erano stati tutti riconsegnati. Lo rivela il Washington Post in esclusiva, citando persone vicine alla vicenda. L'avvocato rifiutò perché, riferiscono le fonti, non era convinto che fosse la verità. In effetti, il blitz dell'Fbi nella residenza del tycoon a Mar-a-Lago ha rivelato che migliaia di carte, tra le quali centinaia classificate come top secret, non erano state riconsegnate dall'ex presidente.

L'avvocato di Trump, Alex Cannon, aveva svolto il ruolo di mediatore tra l'ex presidente e gli Archivi che per oltre un anno avevano cercato di riavere i documenti presidenziali originali, come previsto dalla legge. Alla fine, dopo mesi di ostruzionismo da parte dei legali del tycoon, a gennaio di quest'anno sono state riconsegnate 15 scatole di carte che erano state portate in Florida. Le fonti raccontano che sia stato lo stesso Trump a imballare i documenti. Quindi, l'ex presidente ha chiesto a Cannon di riferire agli Archivi che "tutto ciò che avevano chiesto" era stato riconsegnato. Ma l'avvocato, ex legale della Trump Organization che ha lavorato anche per la campagna e per il tycoon una volta eletto, si è opposto dicendo di non essere sicuro se nel resort di Mar-a-Lago ci fossero altre carte.

Da ilsole24ore.com il 4 ottobre 2022.

L’ex presidente Usa Donald Trump ha citato in giudizio la rete televisiva all-news Cnn, chiedendo 475 milioni di dollari di danni, accusandola di diffamazione nel tentativo di bloccare qualsiasi futura campagna politica dell’ex numero uno statunitense.

La causa, depositata presso il tribunale distrettuale degli Stati Uniti a Fort Lauderdale, in Florida, si concentra principalmente sul termine «The Big Lie». La frase è stata utilizzata dall’emittente per commentare alcune affermazioni di Trump e, secondo lui, gli è costata le elezioni presidenziali del 2020 contro Joe Biden.

La Cnn ha affermato di non avere commenti.

Le cause intentate dall’ex presidente Usa Trump ha ripetutamente attaccato la Cnn anche quando era presidente. Allo stesso modo ha intentato cause anche contro grandi aziende tecnologiche con scarso successo. La sua causa contro Twitter, in seguito alla sua esclusione dalla piattaforma dopo l’insurrezione del Campidoglio del 6 gennaio 2021 è stata respinta da un giudice della California all’inizio di quest’anno. Numerosi funzionari elettorali federali e locali di entrambi i partiti, un lungo elenco di tribunali, i migliori ex membri dello staff della campagna elettorale e persino lo stesso procuratore generale di Trump hanno tutti affermato che non ci sono prove della frode elettorale.

L’accusa: «The Big Lie» usata 7.700 volte

La causa di Trump afferma che la frase “The Big Lie” è stata usata in riferimento a lui più di 7.700 volte sulla Cnn. In una dichiarazione di lunedì 3 ottobre, Trump ha affermato che cause simili potrebbero essere intentate anche contro altre testate giornalistiche. E l’ex presidente ha detto anche che potrebbe intraprendere «azioni appropriate» contro il comitato della Camera che indaga sull’attacco del 6 gennaio al Campidoglio da parte dei suoi sostenitori.

La frenata del nuovo capo della Cnn

Da parte sua, il nuovo capo della Cnn Chris Licht ha esortato i suoi giornalisti, in privato in una riunione avvenuta più di tre mesi fa, ad astenersi dall’usare la frase perché troppo vicino agli sforzi democratici per marchiare l’ex presidente. La causa arriva mentre Trump sta valutando una potenziale candidatura per la presidenza nel 2024. 

Da Ansa il 4 ottobre 2022.

In una riunione dello Studio Ovale nel luglio 2020 Donald Trump chiese ai suoi collaboratori se Ghislaine Maxwell, l'ex fidanzata Jeffrey Epstein arrestata per averlo aiutato per anni ad abusare di ragazze minorenni, lo avesse mai nominato tra i contatti influenti su cui poteva contare. 

Lo rivela il nuovo libro della giornalista del New York Times, Maggie Haberman, dedicato al tycoon 'Confidence Man'. "Ha detto qualcosa su di me?'", chiese l'allora presidente dopo aver letto un articolo che era uscito sul tabloid New York Post il 4 luglio del 2020.

Nel pezzo si citava Steve Hoffenberg, un collaboratore di Epstein, che sosteneva che "Ghislaine pensava di essere intoccabile - che sarebbe stata protetta dalle intelligence con le quali lei e Jeffrey hanno collaborato; dai servizi di intelligence israeliani e Les Wexner; dal principe Andrew, dal presidente Clinton e persino dal presidente Trump, noto per essere un loro conoscente". 

Epstein è arrestato nel luglio 2019, con l'accusa di traffico sessuale. Si è ucciso in carcere a New York un mese dopo. Ghislaine è stata condannata a 20 anni di carcere lo scorso luglio.

Trump, atti segreti a Mar-a-Lago Messa a rischio l’identità degli 007. Monica Ricci Sargentini su Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.

I documenti classificati erano mischiati con giornali e corrispondenza personale. Lo rivela l’affidavit diffuso dal dipartimento di Giustizia Usa. 

Quattordici delle 15 scatole restituite da Donald Trump a gennaio dalla sua residenza di Mar-a-Lago in Florida alla National Archives and Records Administration contenevano documenti classificati, che erano mescolati con svariati giornali, magazine e corrispondenza personale. È per questo che l’Fbi ha chiesto di procedere con la perquisizione dell’8 agosto a Mar-a-Lago e a rivelarlo è l’affidavit che è stato diffuso dal dipartimento della Giustizia Usa, cioè la dichiarazione giurata che il Bureau presentò al giudice per ottenere il mandato di perquisizione della proprietà di Trump.

La versione resa pubblica, di 32 pagine, contiene numerosi omissis: per garantire la sicurezza di testimoni e agenti, nonché «l’integrità dell’indagine in corso». L’affidavit spiega che una perquisizione a Mar-a-Lago era necessaria a causa del materiale altamente sensibile che era stato trovato nelle scatole recuperate dai National Archives, che Trump non aveva restituito per mesi dopo avere lasciato la Casa Bianca. (Puoi scaricare qui il documento)

«Il governo sta conducendo un’indagine penale riguardante la rimozione e l’archiviazione improprie di informazioni riservate in spazi non autorizzati, nonché l’occultamento o la rimozione illegali di documenti governativi», afferma un agente dell’Fbi nella prima pagina della dichiarazione giurata per ottenere dal giudice l’ok a un mandato di perquisizione.

Nell’affidavit si parla di 184 documenti classificati, di cui 25 segnati come top secret. Nel documento vengono elencati abbreviazioni e acronimi che indicano il fatto che le carte sono particolarmente a rischio perché «potrebbero contenere informazioni sulla difesa nazionale», informazioni che sono protette dall’Espionage Act.

Documenti precedentemente resi pubblici mostravano che l’Fbi nella perquisizione di agosto aveva recuperato dalla proprietà di Trump in Florida 11 serie di documenti classificati, comprese informazioni contrassegnate come di livello top secret. L’affidavit non fornisce nuovi dettagli su queste 11 serie, ma riferisce invece di un gruppo separato di 15 scatole che la National Archives and Records Administration recuperò a gennaio dalla tenuta dell’ex presidente Usa, dove non c’era nessuno spazio autorizzato per la conservazione di materiale classificato: secondo la dichiarazione giurata, da Mar-a-Lago erano stati recuperati 184 documenti contrassegnati come classificati, inclusi 25 contrassegnati come top secret.

Gli agenti che hanno ispezionato le scatole hanno trovato segnalazioni relative a informazioni fornite da fonti riservate, nonché informazioni collegate al Foreign Intelligence Surveillance Act. Tutti elementi che hanno esposto Trump a nuovi pericoli legali, proprio mentre getta le basi per un’altra corsa presidenziale nel 2024. Ma l’ex presidente americano grida al complotto: «Non ho fatto niente di sbagliato. Siamo stati essenzialmente attaccati. Siamo stati violati. Hanno aperto le casseforti, hanno portato dentro gli scassinatori», ha affermato ancora sul suo social Truth.

Quanto all’attuale presidente Usa, Joe Biden, poco prima della pubblicazione dell’affidavit aveva risposto così a chi gli chiedeva se ritiene che la sicurezza nazionale sia stata compromessa a Mar-a-Lago dal suo predecessore: «Lasceremo che il Dipartimento di Giustizia lo determini».

Nuove rivelazioni sui documenti di Trump: "Li ha portati in viaggio in Paesi ostili". Massimo Basile su La Repubblica il 28 Agosto 2022.

La notizia dopo che l’Fbi ha recuperato le carte sottratte dal tycoon alla Casa Bianca: contenevano le identità delle spie Usa. Torna virale un articolo pubblicato nel 2021 del Nyt: “Morti o arrestati un numero inusuale di informatori in paesi stranieri"

Donald Trump sarebbe andato in giro per il mondo, portandosi dietro scatole di documenti prelevati dalla Casa Bianca. E in quei viaggi c'erano visite a "Paesi avversari degli Stati Uniti". La rivelazione arriva dal Washington Post che, in un pezzo sulle carte sequestrate dall'Fbi l'8 agosto nel resort di Mar-a-Lago, Florida, accenna a scenari inquietanti: "Scatole di documenti - scrive il giornale della capitale - seguirono Trump persino nei suoi viaggi all'estero, seguendolo nelle camere d'albergo in giro per il mondo, inclusi Paesi considerati avversari degli Stati Uniti".

DAGONEWS il 30 Agosto 2022.

Quali sono le informazioni riservate su Macron che Trump custodiva a Mar-a-Lago? Secondo quanto raccontano due fonti anonime a Rolling Stone Usa, l’ex presidente americano si sarebbe vantato con alcuni dei suoi più stretti collaboratori di essere in possesso di "informazioni di intelligence" sulla vita sessuale e amorosa del presidente francese.

Trump avrebbe confessato di essere venuto a conoscenza di informazioni “sporche” sul toyboy dell’Eliseo, grazie a briefing e alla visione di dossier di intelligence, ma le stesse fonti minimizzano: “Era difficile capire quali informazioni fossero reali perché era un pettegolo. Spesso è difficile comprendere se stia dicendo una cazzata o meno".

Macron, come sappiamo tutti, è sposato con Brigitte, di 25 anni più vecchia, dal 2007: lei era la sua insegnante al liceo, poi i due si sono innamorati, fidanzati e infine sono convolati a nozze.

Dopo la perquisizione della tenuta di Mar-a-Lago all'inizio del mese, l'FBI ha pubblicato un elenco di documenti sequestrati a Trump, tra cui il punto 1A, indicato come "informazioni relative al Presidente della Francia". 

Non è chiaro cosa ci fosse in quel particolare documento, se contenesse informazioni classificate o raccolte dall'intelligence o se avesse a che fare con la vita personale di Macron. Le fonti citate da Rolling Stone sostengono che le riflessioni di Trump sul comportamento di Macron non includevano dettagli o particolari, ma erano accuse più generiche di indiscrezioni.

LEGALI TRUMP CONTRO FBI, HA SPARPAGLIATO DOCUMENTI A MAR-A-LAGO. (ANSA l'1 settembre 2022. ) - I legali di Donald Trump hanno risposto al nuovo documento presentato dal dipartimento di Giustizia ieri nel quale si accusa l'ex presidente e il suo team di aver rimosso e nascosto a Mar-a-Lago documenti classificati per ostacolare le indagini. Lo riporta la Cnn che ha visionato la risposta formale della difesa. 

Gli investigatori "hanno preso documenti da alcuni file e li hanno sparpagliati sul pavimento per ottenere un effetto drammatico", attaccano gli avvocati del tycoon riferendosi ad una fotografia, diventata virale, che mostra carte con su scritto 'top secret' sulla moquette della residenza in Florida.

Qualche ora fa anche Trump aveva accusato i federali di aver "sparpagliato di proposito" i documenti sul pavimento per poi scattare la foto. L'accusa all'Fbi è contenuta anche nella risposta formale al dipartimento di Giustizia.

LEGALI TRUMP, 'CARTE TOP SECRET A MAR-A-LAGO, È NORMALE'. (ANSA l'1 settembre 2022) - Gli avvocati di Donald Trump hanno indirettamente ammesso che nella residenza di Mar-a-Lago ci fossero carte top secret nella risposta al nuovo documento del dipartimento di Giustizia presentata oggi. Secondo quanto riportato dalla Cnn, che ha visionato la risposta, i legali dell'ex presidente sostengono che "il fatto che tra i documenti presidenziali ci fossero cart top secret non deve destare allarme".

E ancora gli avvocati del tycoon sottolineano che gli Archivi Nazionali "dovevano aspettarsi nelle 15 scatole" che Trump ha consegnato a gennaio da Mar-a-Lago ci fosse "materiale classificato perchè erano carte presidenziali".

DAGONEWS il 2 settembre 2022.

Gli agenti federali hanno sequestrato migliaia di documenti dalla tenuta di Mar-a-Lago dell'ex presidente Donald Trump, ma solo una parte conteneva informazioni riservate. 

Secondo un inventario dei documenti rivelato dal giudice distrettuale degli Stati Uniti Aileen Cannon delle centinaia di pagine di documenti e fotografie sequestrate dagli agenti federali l'8 agosto, molti non recavano alcun contrassegno di classificazione. Il Dipartimento di Giustizia ha rivelato che 184 documenti riservati erano mischiati a ritagli di giornale, corrispondenza personale e altri ricordi dei quattro anni in carica di Trump.

Raid Fbi, carte segrete nell’ufficio di Trump: ecco come l’ex presidente Usa conservava documenti classificati. La Stampa il 2 settembre 2022.

Nella sua perquisizione a Mar-a-Lago, l'Fbi ha scoperto anche decine di cartelle vuote contrassegnate con la parola «classificato» e documenti top secret che non erano custoditi nella stanza-deposito ma nell'ufficio di Donald Trump: sono alcune delle novità emerse dopo che la giudice della Florida Aileen Cannon ha deciso di rendere pubblico l'inventario del materiale sequestrato dal Bureau, che conferma come i documenti classificati presi dall'ex presidente fossero conservati in modo disordinato e caotico, tra ritagli di giornali, riviste, libri, vestiti, regali. Secondo l'inventario, sono state recuperate 33 scatole di documenti, di cui oltre 11 mila non classificati, 18 top secret, 53 segreti e 31 confidenziali, ma anche 48 contenitori vuoti con l'intestazione «classificato» ed altri 42 vuoti contrassegnati con la scritta «da restituire a segreteria dello staff/collaboratore militare». Una circostanza che lascia aperto l'interrogativo se gli investigatori abbiano recuperato tutto il materiale mancante. Dei 18 documenti top secret, sette erano nell'ufficio di Trump, così come 17 dei documenti segreti, insieme a decine delle cartelle vuote. Non è stato precisato in quale luogo dell'ufficio ma da precedenti atti depositati in tribunale si sa che tre documenti classificati erano stati trovati sulla sua scrivania. Questo significa in ogni caso che non erano custoditi nel deposito di Mar-a-Lago e che erano nelle mani del tycoon, per motivi sconosciuti. Sconosciuta per ora anche la natura di tutte le carte ritrovare a Mar-a-Lago.​​​​​​​

Raid nella vila di Trump: sequestrati anche documenti su potenze nucleari straniere. Il Domani il 07 settembre 2022

Nell’operazione che lo scorso 8 agosto ha colpito la villa dell’ex presidente a Mar-a-Lago, l’Fbi ha trovato anche un documento che descrive le difese militare di un’altra potenza, compreso il suo arsenale nucleare

L’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump conservava documenti riservati sulle armi nucleari in dotazione a un governo straniero nella sua residenza di Mar-a-Lago. Lo ha rivelato il Washington Post, citando fonti legate alla perquisizione che l’Fbi ha compiuto nella villa lo scorso 8 agosto.

La lista esatta del materiale sequestrato non è stata rilevata, ma citando fonti anonime, il Washington Post aveva già rivelato che alcuni documenti sequestrati riguardavano armamenti nucleari.

Secondo i documenti fino ad ora desecretati, il dipartimento di Giustizia e l’Fbi avrebbe deciso di eseguire un raid a Mar-a-Lago dopo che era emerso che Trump aveva portato con sé numerose scatole di documenti dalla Casa Bianca. Dopo il termine del suo mandato, un presidente degli Stati Uniti è tenuto a consegnare tutta la sua documentazione al National archives.

Nell’affidavit preparato dal giudice e che giustifica la perquisizione specifica che la conservazione impropria del materiale governativo top secret espone Trump a nuovi rischi legali e a una nuova accusa di ostruzione alla giustizia.

DAGONEWS il 7 settembre 2022.

Che ci faceva Donald Trump con un dossier sulle capacità nucleari di un paese straniero in casa? Lo scoop del “Washington Post”, che ha rivelato che tra i documenti sequestrati dall’Fbi a Mar-a-Lago ce n’era anche uno sulle difese militari di un “governo straniero”, sta facendo nascere teorie e dubbi. 

Il sito DrudgeReport, influentissimo tra i conservatori americani, che ormai ha abbandonato Trump e non perde occasione per spernacchiarlo, si chiede: “li stava vendendo?”.

Nell’esclusiva del quotidiano di proprietà di Jeff Bezos, si parla anche di altri documenti ritrovati nella villa in Florida, tra cui alcuni su operazioni “talmente top secret” da essere ignote anche a molti funzionari di alto livello: sarebbero dovuti essere custoditi sotto chiave, e invece erano sparsi nella casa del tycoon, 18 mesi dopo l’addio di Trump alla Casa Bianca. 

“Dopo mesi di tentativi, secondo i documenti del tribunale, l'FBI ha recuperato quest'anno più di 300 documenti riservati da Mar-a-Lago: 184 in una serie di 15 scatole inviate alla National Archives and Records Administration a gennaio, altri 38 consegnati da un avvocato di Trump agli investigatori a giugno e più di 100 documenti aggiuntivi portati alla luce in una perquisizione approvata dal tribunale l'8 agosto.

È in quest'ultimo gruppo di segreti governativi, hanno detto le persone che hanno familiarità con la questione, che sono state trovate le informazioni sulla preparazione alla difesa nucleare di un governo straniero. 

Queste persone non hanno identificato il governo straniero in questione, né hanno detto dove è stato trovato il documento a Mar-a-Lago, né hanno offerto ulteriori dettagli su una delle indagini più delicate del Dipartimento di Giustizia in materia di sicurezza nazionale”

Da open.online.it il 7 settembre 2022.

Nelle carte top secret sequestrate a Donald Trump durante la perquisizione della sua residenza a Mar-a-Lago ci sono anche i segreti nucleari di un paese straniero. A farlo sapere è oggi il Washington Post, che rivela anche che alcuni di questi documenti dettagliano operazioni segrete Usa a conoscenza di un ristrettissimo numero di persone e che sono custodite sotto chiave. Quasi sempre in una struttura sicura con un ufficiale che registra gli accessi.

Erano invece conservati a Mar-a-Lago in un luogo insicuro, oltre 18 mesi dopo la fine del mandato dell’ex presidente pronto a correre di nuovo per la guida del paese. Il tycoon ha reagito alla perquisizione facendo causa al governo degli Stati Uniti. E la scorsa settimana il Dipartimento di Giustizia li ha pubblicati.

In teoria soltanto il presidente e alcuni membri del governo possono autorizzare altri funzionari a conoscere i dettagli di queste attività. Tanto che molti alti dirigenti della sicurezza nazionale non ne vengono a conoscenza.

Le fonti del WaPo non identificano quale sia il governo straniero in questione. E nemmeno spiegano dove siano stati trovati i documenti. Il quotidiano aveva già riportato che l’Fbi stava cercando qualsiasi documento classificato riguardante armi nucleari. Dopo la pubblicazione della notizia, Trump aveva risposto che «la questione delle armi nucleari è una bufala», come pure a suo avviso il Russiagate e i due impeachment subiti.

Alla fine di agosto è però emerso che tra i documenti sequestrati dall’Fbi nella tenuta di Trump ce n’era anche uno denominato «Informazioni sul Presidente della Francia». In alcune occasioni Trump si è vantato di conoscere dettagli illeciti sulla vita privata di Emmanuel Macron. Sia i funzionari francesi sia quelli statunitensi si sarebbero messi subito al lavoro per capire che tipo di informazioni avesse Trump su Macron e sul governo francese e per capire se si trattasse di un pericolo per la sicurezza nazionale.

Trump, autogol e bugie: i file top secret sparsi sul pavimento. Marilisa Palumbo su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

Il caso si aggrava: sempre più probabile l’accusa di ostruzione alla giustizia per l’ex presidente

La decisione di Donald Trump di provare a rallentare l’indagine sui documenti non restituiti agli Archivi nazionali richiedendo la nomina di uno «special master», un revisore terzo che esamini il materiale sequestrato dall’Fbi l’8 agosto a Mar-a-Lago, potrebbe essere stata un boomerang. Il dipartimento di Giustizia ha infatti usato la sua risposta per meglio costruire, anche agli occhi dell’opinione pubblica, il caso contro l’ex presidente. Trentasei pagine e una foto che rimarrà nei libri di storia: quella del pavimento di Mar-a-Lago cosparso di documenti mischiati a riviste e chiaramente indicati come segreti o top secret. Una immagine «da brivido», la definivano ieri gli esperti di sicurezza nazionale o quanti hanno dovuto per lavoro maneggiare file simili.

I colori delle «copertine» che si vedono nella foto sono tipici del sistema a tre livelli di sicurezza con il quale le informazioni vengono presentate e conservate. I «Secret» (in rosso) e altri «Top Secret» (in giallo) potrebbero causare «serio danno alla sicurezza nazionale» se nelle mani di persone non autorizzate. Su alcuni (il cui contenuto è stato oscurato dall’Fbi) compare anche la sigla HCS-P, che indica informazioni ricevute da spie o informatori. 

L’atto del dipartimento ricostruisce come si è arrivati fin qui. È circa un anno che gli Archivi nazionali cercano di recuperare documenti riservati che Trump si è portato con sé dalla Casa Bianca. A gennaio ottengono 15 scatole e vi trovano dentro numerosissimi (184) file classificati; poi si rivolgono allo staff dell’ex presidente che dopo vari rinvii a inizio giugno accetta un incontro a Mar-a-Lago, dove vengono consegnati altri documenti classificati e firmata una dichiarazione in cui si afferma che quelli rimasti sono nel deposito.

Nel frattempo però i National Archives si erano rivolti anche all’Fbi che, nel «raid» dell’8 agosto ritrova altri 100 documenti. L’atto firmato da Jay Bratt, capo della sezione controspionaggio del dipartimento di Giustizia, spiega che il Bureau ha ottenuto il mandato di perquisizione dopo aver avuto indicazioni (un informatore?) «che documenti governativi erano stati probabilmente nascosti e rimossi dalla stanza-deposito e che gli sforzi erano stati fatti probabilmente per ostruire l’indagine del governo». Tanto che nel raid spunta altro materiale: «Che l’Fbi — argomenta Bratt — nel giro di ore, abbia recuperato il doppio di documenti contrassegnati come classificati dopo che l’avvocato e altri rappresentanti dell’ex presidente hanno avuto settimane per fare la loro “ricerca diligente”, mette in seria discussione la rappresentazione dei fatti nella certificazione del 3 giugno e getta dubbi sull’estensione della cooperazione in questa vicenda».

L’atto del dipartimento di Giustizia fa capire come gli investigatori si stiano concentrando non solo sul fatto che il materiale non dovesse essere lì e non fosse conservato appropriatamente, ma anche sulla domanda se lo staff di Trump ha intenzionalmente mentito sulla presenza di quei documenti. Il che costituirebbe un reato di ostruzione alla Giustizia. Intanto resta la domanda principale: perché Trump aveva quel materiale a Mar-a-Lago e non voleva restituirlo?

Trump va all’attacco: «Parole d’odio da Joe Biden. È un nemico dello Stato». Redazione Esteri su Il Corriere della Sera il 4 settembre 2022.

In Pennsylvania il tycoon accusa il presidente americano per l’intervento a Philadelphia dopo il sequestro dei documenti a Mar-a-Lago: «Un discorso divisivo che ha denigrato 70 milioni di elettori» 

Joe Biden è «un nemico dello Stato», «il discorso che ha fatto a Philadelphia era pieno di odio e di rabbia», «è stato il discorso più divisivo fatto da un presidente, che ha denigrato 70 milioni di elettori»: Donald Trump parte subito all’attacco del presidente nel comizio in Pennsylvania per i suoi candidati a Midterm, il primo dopo il sequestro di documenti classificati nella sua residenza di Mar-a-Lago, «Metteremo fine alla carriera politica di Nancy Pelosi e di Joe Biden», ha promesso.

«L’Fbi è diventato un mostro feroce controllato alla sinistra democratica e dai media ma io non resterò in silenzio», ha aggiunto il tycoon, attaccando il Bureau e il dipartimento di giustizia per la perquisizione nella sua villa che ha portato al sequestro dei documenti. «È lo stesso Fbi che ha non ha perseguito Hillary Clinton per l’Emailgate», ha incalzato riferendosi al server privato usato dall’allora segretaria di Stato e alle migliaia di email da lei cancellate.

«Hanno pubblicato foto facendo intendere che quei documenti li avessi sparpagliati io sul pavimento. Sono persone veramente disoneste», ha proseguito riferendosi, senza nominarlo, all’Fbi e alla foto che ha presentato in tribunale, raffigurante una serie di documenti «segreti» messi su un tappeto durante la perquisizione nella sua residenza di Mar-a-Lago.

L’unità dell’Fbi che ha perquisito Mar-a-Lago? Al centro dell’indagine di Durham. Roberto Vivaldelli il 31 agosto 2022 su Inside Over.

Una curiosa coincidenza. La divisione dell’Fbi che sovrintende alle indagini sulla gestione da parte dell’ex presidente Donald Trump di materiale riservato nella sua residenza di Mar-a-Lago è anche al centro dell’indagine del consigliere speciale John Durham sui presunti abusi di potere e pregiudizi politici del bureau durante l’inchiesta del Russiagate. Si tratterebbe della divisione di controspionaggio dell’Fbi – di Washington, e non di Miami – che ha guidato l’indagine sulla presunta “collusione” russa del 2016-2017 su Trump, con il nome in codice di “Crossfire Hurricane”. A fare luce sulla vicenda è il giornalista investigativo Paul Sperry in un’inchiesta pubblicata su RealClearInvestigations. Come nota lo stesso Sperry, sebbene l’ex agente del bureau, Peter Strzok, sia stato licenziato dopo la divulgazione dei suoi messaggi in cui emergeva un chiaro pregiudizio nei confronti dell’ex presidente Donald Trump, diversi membri del suo team continuano a lavorare nell’unità di controspionaggio, benché siano nell’occhio delle indagini sulle origini del Russiagate condotte da Durham.

Chi è l’agente dell’Fbi che indaga su Trump

Come nota Sperry, nel team c’è anche un membro chiave della controversa inchiesta “Crossfire Hurricane”, l’analista dell’intelligence Brian Auten, il quale ha continuato a essere coinvolto in indagini politicamente sensibili, inclusa l’indagine federale in corso su contenuti potenzialmente incriminanti rinvenuti sul laptop di Hunter Biden. Auten ebbe un ruolo chiave nella revisione, da parte del bureau, del dossier – ampiamente screditato – finanziato dalla campagna di Hillary Clinton e redatto dall’ex spia britannica Christopher Steele, contenente informazioni false e infondate sui rapporti tra Donald Trump e il Cremlino.

Per il suo ruolo in quella vicenda, fu infatti deferito dall’ispettore generale del Dipartimento di Giustizia, Michael Horowitz, che condusse l’indagine incentrata sul presunto controllo della campagna presidenziale di Trump nel 2016 e sul possibile abuso del Foreign Intelligence Surveillance Act da parte di Barack Obama. Nelle sue conclusioni, Horowitz criticò la gestione da parte dell’Fbi delle intercettazioni telefoniche nelle prime fasi delle indagini sul Russiagate, confermando una “cattiva condotta” da parte dell’ufficio, benché esonerasse il bureau dall’accusa di cospirazione. Come recentemente confermato dal direttore dell’Fbi, Christopher Wray, “un certo numero di ex membri del team di Crossfire Hurricane” sono ancora impiegati presso l’ufficio mentre sono sottoposti a revisione disciplinare. Non è quantomeno inopportuno che gli stessi indaghino sull’ex presidente Trump? “È una vergogna che Auten sia ancora impiegato nell’ufficio”, ha affermato Michael Biasello, veterano dell’Fbi da 27 anni. “Sostituirei altri analisti e agenti”.

Bufera sull’Fbi, si dimette Thibault

C’è poi la vicenda Hunter Biden. Secondo quanto rivelato nei giorni scorsi dal fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, fu l’Fbi, nel 2020, a chiedere alle piattaforme social di limitare la diffusione della notizia riguardante il laptop di Hunter Biden. Durante la campagna presidenziale del 2020, infatti, le notizie relative al laptop appartenente ad Hunter Biden, figlio dell’attuale inquilino della Casa Bianca, vennero censurate dalle piattaforme social, nonostante la documentazione pubblicata dal New York Post provasse l’esistenza delle e-mail contenute nello stesso portatile. Secondo quanto raccontato da Zuckerberg, secondo l’Fbi si trattava di “disinformazione russa”. Affermazioni che, oltre a scatenare la dura reazione dei repubblicani, hanno costretto il bureau a licenziare l’agente che avrebbe contattato Zuckerberg. Si tratterebbe dell’agente speciale Timothy Thibault, dimessosi lo scorso fine settimana, secondo quanto riportato da Fox News.

Thibault è stato citato in una lettera inviata dal senatore repubblicano Chuck Grassley lo scorso 18 luglio al direttore dell’Fbi Christopher Wray e al procuratore generale Merrick Garland, nella quale l’agente speciale veniva accusato di nutrire un pregiudizio politico nei confronti di Trump. “Come sapete, l’agente speciale Tim Thibault non è l’unico agente dell’Fbi politicamente parziale al Washington Field Office”, ha scritto Grassley. Nella stessa lettera ha sottolineato che “l’Fbi risponde al Congresso e al popolo americano”. Come precisa Fox News, Thibault non è stato coinvolto nel raid dell’Fbi nella tenuta di Mar-a-Lago dell’ex presidente Trump.

DAGOREPORT il 31 agosto 2022.

Sarebbero 24 i documenti classificati "Top Secret" trafugati dalla Casa Bianca da Trump. Dossier che sono destinati all'attenzione del presidente degli Stati Uniti e dei membri del Consiglio di Sicurezza. Secondo fonti autorevoli, i documenti squadernano i nomi degli agenti 'sotto copertura' in missione speciale in vari paesi, dall'Europa al Medio Oriente. E' evidente che rivelare, chessò a un Erdogan o a un Bin Salman, l'identità di agenti 'sotto copertura' nel loro paese può essere un favore ben remunerato. 

Oltre a tali documenti, ci sarebbero alcuni report che scodellano i segreti relativi alla sfera privata di personaggi preminenti di paesi alleati, come Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna, etc. Oltre alla vita gay di Macron - che Trump nomignolava "wussy", in slang effemminato - ci sarebbero report su Carlo d'Inghilterra e Boris Johnson "ubriaco".

Da rainews.it il 31 agosto 2022.

Sarebbero 36 le pagine con cui il dipartimento di Giustizia americano si oppone alla richiesta di Donald Trump a nominare uno 'special master' per esaminare il materiale che l’Fbi ha sequestrato dalla sua abitazione a Mar – a – Lago. 

Il no arriva nell’ambito delle indagini che vedono l’ex presidente degli Usa accusato di aver conservato in modo improprio del materiale governativo top secret. 

Stando a quanto riportato, secondo il Dipartimento di Giustizia sono oltre 320 i documenti classificati e recuperati a Mar-a-Lago, tra cui più di 100 recuperati dall'Fbi dall'inizio di questo mese. 

Documenti ufficiali, tenuti alla rinfusa e mischiati con giornali e posta privata, stipati in scatoloni, che riportavano dati sull’identità di spie, fonti, informatori, collaboratori, agenti sotto copertura e di tutta la catena per la raccolta di informazioni di intelligence. Con il rischio, altissimo, che finissero nelle mani sbagliate.

Secondo l'accusa l’ex presidente degli Stati Uniti avrebbe quindi chiaramente cercato di ostacolare le indagini: "Che l'Fbi, nel giro di ore, abbia recuperato il doppio di documenti contrassegnati come classificati mentre l'avvocato e altri rappresentanti dell'ex presidente hanno avuto settimane per fare la loro 'ricerca diligente' mette in seria discussione la rappresentazione dei fatti nella certificazione del 3 giugno (sull'avvenuta restituzione di quanto richiesto) e getta dubbi sull'estensione della cooperazione in questa vicenda", si legge nell'atto firmato da Jay Bratt, capo della sezione controspionaggio del dipartimento di Giustizia. 

L'atto è finora il resoconto più dettagliato sulle evidenze di ostruzione della giustizia, sollevando il timore che Trump ei suoi legali abbiano cercato di fuorviare gli investigatori sulla sincerità e accuratezza dei loro sforzi per identificare e restituire agli Archivi nazionali documenti altamente sensibili.

La Cnn e il sito Politico.com affermano come il Federal Bureau abbia ottenuto per questo il decreto di perquisizione nella residenza di Donald Trump a Mar – a – Lago “dopo aver avuto evidenze che documenti governativi erano stati probabilmente nascosti e rimossi dal deposito e che gli sforzi erano stati fatti probabilmente per ostruire l'indagine del governo".

L'Fbi avrebbe quindi ottenuto il decreto di perquisizione dopo aver avuto evidenze "che documenti governativi erano stati probabilmente nascosti e rimossi dai depositi, presumibilmente per ostruire un'indagine del governo".

Carlo Nicolato per “Libero quotidiano” il 31 agosto 2022.

A Mar del Lago, nell'archivio segreto di Trump, l'Fbi cercava la bomba atomica e invece ha trovato Macron in mutande. Sembra infatti che tra i 300 documenti riservati recuperati dal bureau durante il famoso blitz di inizio agosto nella dimora dell'ex presidente in Florida gli agenti abbiano ritrovato un report archiviato come «info su: il presidente della Francia» del quale peraltro si ignora il contenuto ma che ha già scatenato una ridda di supposizioni, ipotesi, curiosità, ilarità e perfino una richiesta ufficiosa arrivata da Parigi. 

Rolling Stone, la rivista che ha riportato per primo l'indiscrezione malandrina dell'Fbi, si è azzardato nel concludere che quei file riguardino particolari sulla vita sessuale del presidente francese che Trump pare andasse in giro a raccontare con gusto sia durante la presidenza che dopo.

Un atteggiamento giudicato dal noto magazine musicale paladino del politically correct, e in quanto tale nemico giurato dell'ex presidente, «ignobile», sia nel caso specifico che in generale, visto che Trump non è nuovo a dar fiato a pettegolezzi a sfondo sessuale riguardante altri politici, specie rivali. 

I testimoni sarebbero due stretti collaboratori che assicurano di essere stati informati della cosa direttamente dal tycoon, il quale si sarebbe anche sbilanciato sulla fonte, la stessa dei documenti sequestrati dall'Fbi, ovvero l'intelligence. 

Ma perché mai i servizi segreti americani si sarebbero interessati alla vita privata di Macron?

È questo che vorrebbero sapere all'Eliseo e chissà mai che non ne venga fuori uno scandalo come quello del predecessore di Trump, cioè l'intoccabile Obama che a sua volta faceva tenere sotto controllo dagli 007 le telefonate della Merkel e non solo. Certo non per carpirne i segreti sessuali, che invece nel caso di Trump, o per meglio dire del Rolling Stone, sembra proprio l'argomento imputato. 

Fin dall'inizio, dal loro primo incontro, i due capi di Stato hanno avuto una relazione politica d'amore ed odio, ma è anche vero che Trump è sempre stato divertito dalle preferenze romantiche di quel giovane presidente francese che lui amava chiamare il «mio ragazzo». 

Ovviamente a causa della moglie di 20 anni più vecchia, lui che le sceglie sempre di 20 o 30 più giovani, nei confronti della quale al primo incontro gli è scappato un «sei così in forma» che subito è stato etichettato come una forma galante di molestia sessuale. 

Ma una moglie più anziana, peraltro la stessa donna dal liceo in poi, aveva già destato i dubbi interessati di altri, compreso, pare, dei russi, che per primi avevano sguinzagliato gli 007 per sondare i vizietti indicibili del neopresidente. 

Ci fu il sito Sputnik, ora bannato definitivamente, che ci fece un articolo accusandolo anche di essere supportato dalla "ricca lobby gay", e un altro tabloid russo, la Komsomolskaya Pravda, che lo bollò come «psicopatico gay». 

In Francia ci fu qualcuno che tirò fuori la faccenda anche in campagna elettorale, non l'allora Fronte Nazionale per la verità, "accuse" alle quali Macron rispose con sufficienza transalpina: «Se fossi omosessuale non avrei problemi a dichiararlo, lo vivrei serenamente».

Per non parlare poi della presunta relazione con la guardia del corpo Benalla e delle foto che si fece fare con ragazzi muscolosi a torso nudo. Ma l'equazione Trump-Russia ha un facile risultato nella narrativa comune: se hanno indagato loro lo ha fatto anche Trump, o quantomeno era conoscenza della questione proprio grazie ai russi. 

Tantopiù che c'è quel primo incontro a proposito del quale Trump aveva poi commentato che al presidente francese piaceva tenergli la mano: «La gente non si rende conto che ama tenermi per mano» disse malizioso, aggiungendo comunque che «questo è un bene». 

In definitiva però se questi sono i documenti esplosivi di cui era a caccia l'Fbi c'è più da ridere che da preoccuparsi, considerato peraltro che Obama e tutti gli altri hanno fatto ben peggio di Donald. 

L'ex presidente, che ha ancora velleità elettorali, ne ha fatta però una questione di principio: oltre al ricorso presentato nei giorni scorsi nelle ultime ore ha anche incitato gli agenti dell'Fbi a ribellarsi contro i propri capi che hanno deciso il blitz: «Fbi, rendi l'America grande di nuovo!».

DAGONEWS il 27 agosto 2022. 

Il bubbone sta per esplodere. Lunedì Donald Trump sarà incriminato per aver sottratto dei documenti riservati dalla Casa Bianca. Una serie di carte scottanti tra cui, secondo quanto riporta l’Fbi, informazioni sulla Cia e la Nsa. Ma la domanda che si stanno facendo tutti è: come mai il puzzone si teneva stretti questi faldoni? Facile. Quelle carte sono un’arma di ricatto spendile in qualsiasi momento.   

Simona Siri per "La Stampa" il 27 agosto 2022.

Sotto la pressione dei repubblicani e sotto richiesta di Donald Trump stesso, è stato reso pubblico il documento attraverso il quale l'Fbi ha ottenuto dal giudice della Florida l'autorizzazione per la clamorosa perquisizione avvenuta l'8 agosto a Mar-a-Lago, ormai residenza primaria dell'ex presidente da quando ha lasciato la Casa Bianca. Nella sua richiesta lunga 38 pagine - ma con molti tratti oscurati - l'Fbi ha argomentato che ci sono «probabili motivi per credere» che materiali classificati sulla sicurezza nazionale siano portati in modo improprio in luoghi «non autorizzati» e che durante la perquisizione c'era la probabilità di trovate «prove di ostruzione».

L'Fbi aveva aperto un'indagine penale il 9 febbraio, dopo che gli archivi nazionali avevano inviato una raccomandazione. La dichiarazione giurata afferma che 14 delle 15 scatole ricevute dagli archivi nazionali all'inizio dell'anno - che Trump aveva preso e portato con sé dalla Casa Bianca - contenevano informazioni riservate: alcune fonti citano ben 185 documenti riservati. Venticinque di questi contenevano informazioni contrassegnate come «top secret». Nella una tranche di documenti consegnati agli archivi nazionali all'inizio di quest' anno, gli agenti dell'Fbi hanno infatti trovato documenti sensibili con informazioni sulla Central Intelligence Agency (Cia) e sulla National Security Agency (Nsa).

Alcuni documenti erano contrassegnati come Hcs e potrebbero riferirsi a informazioni su spie in Paesi stranieri le cui vite sarebbero state a rischio se le loro identità fossero state rivelate. Altri erano contrassegnati come Fisa, un riferimento alla raccolta di informazioni che coinvolge persone sospettate di spionaggio o terrorismo. Gli agenti hanno anche trovato documenti che potrebbero contenere intercettazioni di segnali di comunicazioni e intelligence estere non destinate a essere rilasciate a governi o cittadini stranieri, nonché documenti non destinati a essere condivisi senza l'approvazione del suo proprietario originale. Insieme all'affidavit è stato reso pubblico anche il documento in cui il Dipartimento di giustizia spiega perché ha oscurato così tanto dell'affidavit stesso.

La nota afferma che gli investigatori hanno redatto parti della dichiarazione giurata perché ricca di dettagli che potrebbero fornire una tabella di marcia per chiunque intenda ostacolare le indagini in futuro. In particolare si parla dell'identità dei testimoni: se fosse rivelata «potrebbero essere soggetti a ritorsioni, intimidazioni o molestie e persino minacce alla loro incolumità fisica», osserva la corte. Aggiungendo: «Nel caso in oggetto queste preoccupazioni non sono ipotetiche». La corte fa anche menzione di un aumento delle minacce specifiche di violenza agli agenti dell'Fbi legati al caso e delle minacce violente al personale dell'Fbi in generale sulla scia della perquisizione dell'8 agosto. «Sono necessari piccoli ma importanti oscuramenti per proteggere l'incolumità del personale delle forze dell'ordine».

Un'ora dopo la pubblicazione del documento, Donald Trump ha risposto sul suo social Truth chiamando la perquisizione «uno stratagemma» per fare pubbliche relazioni da parte dell'Fbi e del Dipartimento di giustizia. «Nessun accenno al nucleare», ha scritto riferendosi alle voci che erano circolate nei giorni scorsi sul fatto che i documenti tenuti impropriamente a Mar-a-Lago contenessero informazioni sull'arsenale nucleare americano. I figli Donald Jr e Eric hanno invece commentato le molte pagine oscurate dell'affidavit reso pubblico.

«Alla faccia della trasparenza», hanno scritto su Twitter. Taylor Budowich, direttore delle comunicazioni di Trump, ha commentato: «Il rilascio di una dichiarazione giurata, apertamente politica e pesantemente redatta dimostra solo che l'amministrazione Biden è disperata». La Casa Bianca si è invece rifiutata di commentare. «Riteniamo che non sia appropriato», ha detto la portavoce Karine Jean-Pierre. Il presidente Biden pensa sia importante che il Dipartimento di giustizia conduca un'indagine indipendente».

Truffatrice o spia? Inna, la falsa Rothschild alla corte di Trump. Il Corriere della Sera il 27 agosto 2022.  

C’era una volta una ricca ereditiera che si chiamava Anna de Rothschild. Solo che non era ricca, non apparteneva alla dinastia dei banchieri europei, e non si chiamava Anna.

Ma è riuscita lo stesso a diventare così intima del giro di Mar-a-Lago da farsi invitare sul campo da golf da Donald Trump, che sorride pollice alzato con lei e il senatore Lindsey Graham in una delle tante foto che la ritraggono nella residenza dell’ex presidente in Florida.

Lo scoop della Pittsburgh-Post Gazette è arrivato proprio mentre venivano pubblicati stralci dell’affidavit dell’Fbi che hanno portato alla perquisizione dell’8 agosto e che parlano di 184 documenti riservati, 25 dei quali top secret, recuperati a Mar-a-Lago nel gennaio scorso. Una conferma indiretta, se mai ce ne fosse bisogno, della pericolosità di tenere in un luogo che è contemporaneamente residenza della famiglia Trump e club privato, documenti tanto delicati e potenzialmente pericolosi se lasciati finire nelle mani sbagliate: per esempio quelle di una straniera che non è chi dice di essere.

La 33enne Anna – scrive la Gazette – veste firmata, porta un Rolex al polso, guida un Suv Mercedes da 170 mila dollari, si dà arie da grande immobiliarista, sostiene di saper parlare molte lingue e sulla sua patente (recuperata poi dall’Fbi assieme a due finti passaporti) c’è l’indirizzo di una mansion da 13 milioni di dollari a Miami Beach dove non ha mai vissuto.

In realtà Anna si chiama Inna Yashchyshyn, è una immigrata di lingua russa dall’Ucraina, figlia di un camionista dell’Illinois, e ora è sotto indagine non solo negli Stati Uniti («un’ampia inchiesta sulle sue attività finanziarie passate e sugli eventi che l’hanno portata a casa dell’ex presidente..») ma anche in Quebec.

Agli agenti, il 19 agosto, ha detto sotto giuramento di non aver mai usato il nome di un’altra. Alla Gazette ha parlato di un gigantesco fraintendimento, accusando il suo ex socio in affari di aver creato dei documenti con il nome Rothschild e la sua foto per danneggiarla.

Peccato che ci siano i testimoni, e gli scatti delle sue numerose visite a Mar-a-Lago. «Era una messa in scena quasi perfetta — ha detto al quotidiano di Pittsburgh l’ex banchiere John LeFevre, che l’ha incrociata alla piscina del club —. Tutti la coccolavano a e, a causa della mistica dei Rothschild, non hanno mai indagato, anzi la trattavano coi guanti».

La rottura con l’ex socio sarebbe invece la ragione per cui il castello di bugie di Anna è arrivato all’attenzione degli investigatori. Valeriy Tarasenko, 44 anni, uomo d’affari della Florida cresciuto a Mosca, sostiene di aver conosciuto Yashchyshyn nel 2014 e di averle permesso di vivere nel suo appartamento di Miami in cambio di un aiuto con la cura dei suoi figli quando era in viaggio per lavoro. Ma poi sono arrivate le accuse di abusi di lui a lei (avrebbe picchiato i ragazzi) e di lei a lui, e ora Tarasenko è uno dei testimoni contro Inna-Anna: «Ha usato la sua falsa identità di de Rothschild per avere accesso e costruire relazioni con politici statunitensi, tra cui, ma non solo, Donald Trump, Lindsey Graham ed Eric Greitens (ex governatore del Missouri, ndr)», ha dichiarato al tribunale di Miami.

Lei sostiene invece di essere sempre stata guidata da lui. Nel 2015 era diventata presidente di un ente di beneficenza che aveva lo stesso nome di una simile organizzazione fondata da Tarasenko in Canada cinque anni prima. La società, United Hearts of Mercy, che avrebbe dovuto aiutare i bambini poveri, era in realtà una fonte di fondi illeciti per il crimine organizzato.

Un’artista della truffa o una spia? «La domanda è se si tratta di una frode o di una minaccia di intelligence — dice alla Gazette l’ex agente dei servizi segreti Charles Marino — Il fatto che ci stiamo ponendo questa domanda è un problema». A smascherare Anna sarebbe bastato un semplice controllo dei documenti, che avrebbe mostrato come non esiste nessuna donna con il suo nome e la sua data di nascita nel 1988. Ma neanche quello fu fatto, e l’entourage di Trump ha saputo della vera identità dell’«infiltrata» solo a marzo, e quasi per caso, da un altro frequentatore del club. 

Pubblicato l’affidavit che l’Fbi ha usato nei confronti di Donald Trump per cercare i documenti classificati. Il Domani il 26 agosto 2022

Il dipartimento della Giustizia ha rilasciato una versione parzialmente censurata dell’affidavit, un documento che potrebbe rivelare importanti indizi sul perché l’Fbi ha perquisito la residenza dell’ex presidente e cosa intendeva fare con i file riservati che sono stati scoperti.

Il dipartimento della Giustizia degli Stati Uniti ha pubblicato l’affidavit che ha giustificato la perquisizione della villa dell’ex presidente Donald Trump. Il raid è avvenuto la notte dello scorso agosto, quando un gruppo di agenti dell’Fbi è entrato nella residenza di Mar-a-Lago. Il mandato di perquisizione, pubblicato pochi giorni dopo, ha rivelato che gli agenti cercavano documenti riservati che Trump avrebbe portato con sé negli ultimi giorni della sua caotica presidenza.

I SOSPETTI

Il caso riguarda 15 scatole di documenti che Trump ha depositato nella sua residenza in Florida. I presidenti degli Stati Uniti sono tenuti a consegnare copia di tutti i loro documenti ed email all’Archivio nazionale dopo la fine del loro mandato.

Lo scorso febbraio, gli archivisti incaricati di esaminare il contenuto delle scatole nella residenza di Trump hanno individuato materiale riservato. Ad aprile, l’Fbi ha annunciato l’inizio di un’indagine e quattro mesi dopo è scattata la perquisizione.

Dai documenti pubblicati fino ad ora, cioè soltanto il mandato di perquisizione prodotto dall’Fbi, risulta che gli agenti erano in cerca di 15 diversi documenti classificati, 11 dei quali sono stati sequestrati nella casa dell’ex presidente. Secondo il Washington Post, tra i documenti sequestrati ce ne sarebbero alcuni che riguardano l’arsenale nucleare, anche se non sarebbe chiaro di quale paese.

L’AFFIDAVIT

Ora un giudice ha ordinato al dipartimento della Giustizia di pubblicare un documento molto più completo, ossia l’affidavit, la dichiarazione giurata che contiene le prove raccolte dai procuratori del dipartimento e che avrebbero giustificato la perquisizione. Il testo dovrebbe offrire indizi sia su cosa esattamente cercassero gli agenti del Fbi sia su quali potrebbero essere i crimini che il dipartimento della Giustizia sospetta che Trump abbia commesso.

Il dipartimento della Giustizia si era opposto alla pubblicazione dell’affidavit, sostenendo che rivelarne il contenuto avrebbe danneggiato le indagini. Con queste motivazioni si è opposto alle richieste di numerose testate giornalistiche e dello stesso Trump, che ha chiesto la pubblicazione integrale del documento. 

Un compromesso è stato raggiunto con il giudice Bruce Reinhart, che ha accettato la pubblicazione di una versione censurata del documento. Ad essere oscurati dovrebbero essere soprattutto i nomi degli agenti Fbi e delle eventuali fonti coinvolte e altri elementi che potrebbero danneggiare l’indagine.

Perquisizione dell’Fbi da Trump, le motivazioni del blitz: trovati 184 documenti riservati, 25 top secret. Carmine Di Niro su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Quattordici delle 15 scatole recuperate dall’Fbi nella residenza dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump a Mar-a-Lago contenevano documenti classificati, tra cui 25 contrassegnati come top secret.

È quanto emerge dalle 32 pagine di affidavit diffuso, in versione con omissis per non ostacolare le indagini in corso conto il tycoon e proteggere informazioni delicate, dal dipartimento della Giustizia Usa. L’affidavit è la dichiarazione giurata che l’Fbi ha presentato al giudice per ottenere il mandato di perquisizione della proprietà di Trump, avvenuta nella notte tra l’8 e il 9 agosto scorso.

A ordinarne la pubblicazione parziale delle motivazioni della perquisizione era stato il giudice federale Bruce Reinhart, lo stesso che aveva anche firmato il mandato di perquisizione dell’Fbi dopo aver letto il documento con le motivazioni del dipartimento di Giustizia.

Alcuni dei documenti “top secret” trovati nella residenza di Trump, secondo quanto si legge nelle motivazioni, sarebbero stati tolti dalle rispettive cartelle e mescolati ad altri in modo non adeguato. 

Le 14 scatole recuperate dall’Fbi contenevano in particolare 184 documenti classificati, di cui 25 top secret sulla difesa nazionale, 92 segreti e 67 confidenziali.

L’Fbi sta attualmente indagando Trump in relazione a tre possibili crimini federali, per cui rischia anche il carcere: occultamento di documenti riservati, ostruzione della giustizia attraverso la distruzione, la modifica o la falsificazione di documenti e quello di presunta violazione dell’Espionage Act, la legge federale che vieta e punisce eventuali reati di spionaggio.

Le reazioni di Trump e Biden

“Un totale sotterfugio di pubbliche relazioni da parte dell’Fbi e del Dipartimento di Giustizia“. Così Trump ha definito la decisione di diffondere, pur con molti omissis, l’affidavit che ha permesso all’Fbi di perquisire la sua abitazione e sequestrare documenti riservati.

“Non ho fatto nulla di male – ha dichiarato Trump in un audio – Di fatto siamo stati attaccati. Hanno aperto le casseforti, sono entrati degli scassinatori. Hanno portato molti, molti agenti dell’Fbi, proprio prima delle elezioni di midterm e dei migliori sondaggi che abbia mai avuto“. “Questa è una vergogna per il nostro paese” e “non finisce mai“, ha aggiunto Trump, lamentando “fughe di notizie” sull’indagine federale sulla sua gestione dei documenti presidenziali.

Per il suo successore Joe Biden invece, “sarà il dipartimento di Giustizia a stabilire se la sicurezza nazionale è stata compromessa a Mar-a-Lago”. Rispondendo ad un giornalista, l’attuale presidente degli Stati Uniti ha sottolineato infatti che eventuali reati da parte del suo predecessore “li lasceremo stabilire al dipartimento di Giustizia”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 23 settembre 2022.

Donald Trump sostiene che il presidente degli Stati Uniti possa «declassificare i documenti più riservati anche con il pensiero». Ma la Corte federale d’Appello di Washington non la pensa così e mercoledì ha deciso di autorizzare il dipartimento di Giustizia a iniziare l’esame del materiale sequestrato dall’Fbi nel resort di Mar-a-Lago, in Florida, l’8 agosto scorso. 

Per Trump e i suoi legali è un altro colpo giudiziario, che si aggiunge all’accusa di frode, formalizzata, in una causa civile, da Letitia James. La Procuratrice generale di New York ha trasmesso gli atti all’Irs, l’agenzia federale delle entrate e, soprattutto, alla Procura federale di New York che sta già conducendo un’inchiesta parallela, ma sul piano penale.

L’ex presidente, però, contrattacca su tutti i fronti. L’altro ieri, in un’intervista alla tv conservatrice Fox News si è presentato, ancora una volta, come la vittima «di una manovra politica» per impedirgli di candidarsi alle presidenziali del 2024. Prima ha osservato che le banche avessero tutti gli strumenti per accertare se il valore delle sue proprietà fosse gonfiato. Infine ha invocato «i poteri del presidente» in materia di desecretazione. 

In ogni caso ora gli esperti del dipartimento di Giustizia potranno aprire 115 scatoloni recuperati a Mar-a-Lago, contenenti circa 13 mila fogli e fascicoli, comprese le lettere inviate a Trump dal dittatore coreano Kim Jong-un.

Gli investigatori, però, concentreranno l’attenzione su circa cento dossier con la copertina «top secret». Nelle scorse settimane i media hanno pubblicato indiscrezioni mai smentite né confermate: i documenti conterrebbero anche informazioni sensibili sui dispositivi nucleari di altri Paesi. 

Il team legale di The Donald ha cercato fin dal primo momento di ostacolare il lavoro dell’Fbi, presentando un ricorso alla magistratura. Il 5 settembre la giudice federale Aileen Cannon accolse la richiesta trumpiana, incaricando una figura terza, uno «special master», di vagliare tutti i contenuti, individuando quelli più importanti per la sicurezza degli Stati Uniti.

Ma la Corte d’Appello ha smontato questo meccanismo, accogliendo le rimostranze del dipartimento di Giustizia. Nella sentenza si legge: «È palese come ci sia un forte interesse pubblico affinché la conservazione di documenti classificati non si risolva in un grave danno per la sicurezza nazionale». Come dire: è urgente capire che cosa Trump si sia portato a casa, anziché consegnarlo, come previsto dalla legge, agli Archivi di Stato. Vedremo se gli avvocati trumpiani rilanceranno, interpellando la Corte Suprema, l’ultima istanza a disposizione. 

Nel frattempo torna in primo piano anche l’inchiesta sull’assalto a Capitol Hill. Ginni Thomas, moglie di Clarence Thomas, giudice della Corte Suprema, ha accettato di deporre davanti alla commissione di inchiesta parlamentare.

Ginni chiese all’ex capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows, di fare il possibile per annullare la vittoria di Joe Biden.

V. Ma. per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.

1 Cosa rischia Trump per i documenti classificati requisiti a Mar-a-Lago?

Rispondiamo con Lawrence Douglas, docente di Legge all'Amherst College in Massachusetts. Trump è indagato per aver violato tre leggi: la Section 2071 «prevede tre anni di carcere e la possibile squalifica dall'occupare cariche federali», ma in realtà se possa o no impedire la nuova candidatura di Trump è «oggetto di disputa tra gli esperti»; 

l'Espionage Act del 1917 vieta di detenere senza autorizzazione informazioni di sicurezza nazionale che possono danneggiare gli Usa o aiutare i nemici («10 anni di carcere; non devi essere intenzionalmente in possesso di tali documenti, basta la negligenza»); la Section 1519: 20 anni di carcere, per ostruzione alle indagini. 

2 Quali sono le altre inchieste?

C'è l'inchiesta penale in Georgia sulle possibili interferenze elettorali, a partire dalla famigerata telefonata di Trump al segretario di Stato Raffensperger, in cerca di altri voti. Trump e suoi alleati, come Rudy Giuliani, sono perseguibili per cospirazione e istigazione a commettere frode elettorale e interferenza intenzionale con le elezioni. 

«Deve però essere provata l'intenzionalità, ovvero che sapevano chiaramente di non aver vinto». Un'altra inchiesta penale, per frode fiscale, aperta dal procuratore distrettuale di Manhattan Cyrus Vance è invece stata sospesa dal suo successore Alvin Bragg. «Ma non è impossibile - spiega Douglas - che emergano nuove prove».

L'inchiesta, civile, per frode fiscale della procuratrice generale di Manhattan Letitia James accusa la Trump Organization di aver gonfiato il valore di immobili per ottenere prestiti e polizze vantaggiose da banche e assicurazioni. La società, se colpevole, dovrebbe versare una pena pecuniaria allo Stato. 

La Commissione che conduce le audizioni al Congresso sull'assalto al Campidoglio del 6 gennaio, non ha il potere di incriminare Trump ma può chiederlo al ministro della Giustizia Merrick Garland, il quale finora non si è mosso. Il dipartimento di Giustizia ha una sua inchiesta parallela non limitata agli aventi del 6 gennaio, ma che riguarda l'intero tentativo di rovesciare le elezioni.

3 Fino a che punto l'Attorney general (ministro della Giustizia e procuratore generale) è indipendente dal presidente?

«Tecnicamente il dipartimento di Giustizia è parte dell'esecutivo, il presidente nomina l'Attorney General. D'altro canto l'Attorney General è il più alto funzionario responsabile dell'applicazione della legge e in quanto tale la sua responsabilità non è nei confronti del presidente ma consiste nel far rispettare le leggi federali e la Costituzione. È interessante che nel caso di Trump, alla fine, la minaccia di dimissioni di massa nel dipartimento della Giustizia abbia sventato il suo tentativo di installarvi a capo Jeffrey Clark. L'indipendenza ha che fare con le norme e la cultura istituzionale anziché con una divisione normativa netta tra il presidente e l'ufficio dell'Attorney General». 

4 Se Trump si candida alla presidenza, non può essere incriminato?

No. Il dipartimento di Giustizia prevede che non si incrimini un presidente in carica ma lo stesso non vale per un candidato. «Sarebbe interessante vedere che cosa succederà se Trump dichiara la sua candidatura per il 2024 e viene incriminato. Potrebbe paradossalmente vincere le elezioni ed essere condannato -osserva Douglas -. Ipotesi folli, ma dobbiamo contemplarle per via degli scenari che Trump ci fa concepire». 

Da adnkronos.com il 21 settembre 2022.

Al termine di un'inchiesta durata tre anni la procuratrice generale di New York, Letitia James, ha presentato una causa civile contro Donald Trump, i suoi tre figli adulti e la Trump Organization, accusati di essere coinvolti da oltre un decennio, per arricchirsi, in un'ampia frode. In particolare, l'accusa è di aver ingannato investitori ed autorità fiscali gonfiando i valori delle proprietà per ottenere investimenti e poi diminuendoli per ottenere sgravi fiscali e prestiti a tasso agevolato.

"Questa condotta non può essere ignorata o perdonata come un errore in buona fede - ha detto James oggi in una conferenza stampa - le dichiarazioni delle condizioni finanziarie sono state enormemente gonfiate, in modo falso e questi fraudolento ed illegale". L'ufficio della procuratrice chiede una multa di 250 milioni di dollari e che il tribunale vieti all'ex presidente e ai figli - Donald Jr, Ivanka e Eric - di svolgere incarichi direttivi in società registrate nello stato di New York.

James ha accusato Trump di aver "falsamente aumentato il suo valore di miliardi di dollari per arricchirsi e imbrogliare il sistema e quindi imbrogliare tutti noi". Il valore dei beni veniva manipolato "per indurre le banche a prestare denaro alla Trump Organization con termini più favorevoli, pagare tasse più basse, spingere le compagnie assicurative a fornire coperture più vantaggiose".

La risposta di Trump - che in passato ha attaccato più volte la procuratrice "vendicativa ed egocentrica" - è arrivata dal suo avvocato Alina Habba: "Il ricorso di oggi non è basato né sui fatti né sulla legge, ma unicamente sull'avanzamento dell'agenda politica della procuratrice".

E se Trump fosse davvero perseguitato dai giudici democrat? Nuovi guai giudiziari per l'ex presidente Americano, che parla di «caccia alle streghe». E si scaglia contro la procuratrice procuratrice dem: «Mi perseguita perché è una razzista!». Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 22 settembre 2022.

Dopo l’inchiesta del Congresso sull’assalto al Capitol Hill, dopo l’indagine del Fbi sul “furto” di documenti riservati, ora Donald Trump deve far fronte a nuove pesanti accuse: secondo la procura di New York l’ex presidente, assieme a i tre figli Ivanka, Eric e Donald Jr, avrebbe sistematicamente alterato il valore di diversi immobili appartenenti alla Trump Organization, truffando banche, assicurazioni e lo stesso Stato di New York.

La general attorney Letitia James si dice sicura della sua inchiesta citando «milioni di pagine di documenti e duecento casi di frode». Secca la replica del tycoon che parla di «caccia alle streghe» prima di scagliarsi contro la stessa procuratrice James: «Mi perseguita perché è una razzista!». Non siamo in grado di entrare nel merito delle inchieste che lo riguardano, ma di certo non si era mai visto un ex presidente degli Stati Uniti avere così tanti guai con la giustizia. E il sospetto che nei suoi confronti ci sia un’attenzione speciale è alimentato dalle parole della stessa James che in conferenza stampa ha tuonato: «Nessuno è al di sopra della legge, arte degli affari non significa arte del furto».

La biografia della procuratrice sembra in tal senso corroborare il sospetto di una parzialità di giudizio: ex avvocata e attivista per i diritti civili, James è infatti una militante di lungo corso del partito democratico per il quale ha anche tentato di candidarsi alla poltrona di governatore di New York. Anche se oltreoceano sceriffi e procuratori vengono eletti direttamente dal popolo e hanno una connotazione “politica”, le sbandierate simpatie dem della procuratrice forniscono a Trump più di un argomento per denunciare la faziosità della sua accusatrice. Peraltro il dipartimento di giustizia aveva sollecitato tutti i procuratori federali a sospendere i procedimenti giudiziari nei confronti di personalità politiche negli ultimi due mesi della campagna elettorale per non influenzare il voto di mid term. Pur non essendo candidato per un seggio il tycoon è infatti il leader incontrastato del partito repubblicano e, al momento, l’unico candidato per le elezioni presidenziali del 2024.

Usa: ex direttore finanziario di Trump ammette frodi fiscali. La Repubblica il 18 agosto 2022.  

Allen Weisselberg, per decenni uno degli uomini di fiducia di Donald Trump, ha raggiunto un accordo con la procura distrettuale di New York che può far tremare l'ex presidente: lo storico ex direttore finanziario della Trump Organization ha riconosciuto il suo ruolo in una serie di frodi fiscali. L'ammissione di colpa gli permetterà di non scontare una pena che poteva arrivare fino a quindici anni di carcere, e di passare dietro le sbarre probabilmente solo un centinaio di giorni. A Weisselberg, scrive il New York Times, non verrà chiesto di collaborare con i procuratori che indagano sulle frodi fiscali della società di Trump, ma dovrà ammettere la colpevolezza in tutti e quindici reati di cui è stato accusato.

Inoltre, e questo è l'aspetto più importante, se chiamato in aula, l'ex direttore finanziario dovrà deporre come testimone al processo per la Trump Organization e spiegare quale era il suo ruolo nello schema messo in piedi per evadere le tasse. La testimonianza potrebbe diventare il passaggio chiave dell'accusa al processo contro Trump, previsto a ottobre. 

(AGI il 17 agosto 2022) - Dalla sera del raid dell'Fbi nel resort in Florida, l'8 agosto, Donald Trump sta cercando un super avvocato che lo rappresenti, ma finora ha ricevuto solo rifiuti. Lo riporta il Washington Post, secondo il quale sia Trump sia il suo staff stanno trovando enorme difficoltà a ingaggiare un principe del foro che possa difendere il tycoon. 

"Stanno dicendo tutti no", ha dichiarato un avvocato repubblicano, citato dal Post. Nel corso delle perquisizioni dell'Fbi nel resort di Mar-a-Lago sono state sequestrate venti scatole contenenti documenti top secreti tra i quali, si dice, ci sarebbero anche segreti riguardanti il nucleare.  

(ANSA il 9 agosto 2022) - Agenti dell'Fbi fecero visita nella residenza di Donald Trump in Florida lo scorso aprile. Lo rivela la Cnn. In quell'occasione gli agenti federali incontrarono due avvocati dell'ex presidente, Christina Bobb and Evan Corcoran, e chiesero informazioni sui documenti che presumibilmente Trump portò via dalla Casa Bianca alla fine del suo mandato. 

Col piccolo gruppo di agenti che si recò a Mar-a-Lago c'era anche un alto funzionario del dipartimento di Giustizia, Jay Bratt, capo del controspionaggio e del controllo dell'export.

(ANSA il 9 agosto 2022) - La speaker della Camera, Nancy Pelosi ha commentato la perquisizione dell'Fbi nella residenza in Florida di Donald Trump definendola "un passo importante". "Nessuno è al di sopra della legge, neanche un ex presidente", ha aggiunto la democratica che, durante la presidenza di Trump, è stata uno degli avversari più agguerriti del tycoon.

(ANSA il 9 agosto 2022) - "Sono stato io ad avvertire mio padre sul raid" dell'Fbi. Lo afferma Eric, uno dei figli dell'ex presidente in un'intervista a Fox, parlando di una "trentina, forse di più" di agenti federali entrati nella proprietà. Il raid è stato "per un motivo: perché non vogliono che Donald Trump corra e vinca ancora nel 2024", aggiunge Eric Trump facendo eco alle accuse lanciate dal padre.

L’ex presidente USA Donald Trump è sotto indagine per spionaggio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Agosto 2022.

Pubblicato il mandato di perquisizione della sua residenza in Florida (all'interno dell' articolo il testo originale completo). Gli agenti dell'Fbi hanno sequestrato documenti che potrebbero costituire la prova che Trump ha violato l'Espionage Act.

L’ex presidente americano, Donald Trump, è sotto indagine per potenziali violazioni dell’Espionage Act e di altre leggi relative all’intralcio alla giustizia e alla distruzione dei documenti riservati del governo federale. È quanto emerge dal mandato di perquisizione presentato lunedì dagli agenti dell‘Fbi che hanno perquisito la casa di Trump a Mar-a-Lago. 

L’indagine è incentrata sul fatto che quando Trump ha lasciato la Casa Bianca, ha portato con sé delle scatole contenenti documenti. L’Archivio Nazionale ha cercato per mesi di recuperare il materiale, per acquisire ciò che per legge avrebbe dovuto essere conservato negli archivi federali. Quando quest’anno gli archivisti hanno recuperato 15 scatole, hanno scoperto diverse pagine di materiale classificato e hanno segnalato la questione al Dipartimento di Giustizia. In seguito i funzionari si sono convinti che altro materiale classificato fosse rimasto a Mar-a-Lago. Mesi prima che l’FBI entrasse a Mar-a-Lago, Trump aveva ricevuto un mandato di comparizione a cui non avrebbe dato seguito. Secondo il New York Times alcuni dei documenti sequestrati erano così sensibili e legati alla sicurezza nazionale che il Dipartimento di Giustizia ha dovuto agire.

Il mandato di perquisizione firmato dal giudice federale Bruce Reinhart venerdì 5 agosto ma gli agenti dell’Fbi hanno aspettato fino a lunedì per intervenire, si legge. Il giudice, in particolare, ha autorizzato gli agenti del Fbi a perquisire quello che viene chiamato ’45 Office’ e “tutte le altre stanze o aree” a Mar-a-Lago che erano a disposizione dell’ex presidente Trump e del suo staff per conservare scatole e documenti. Nel mandato la residenza di Trump è descritta come una villa con circa 58 camere da letto, 33 bagni, su una tenuta di 17 acri.

In particolare, il mandato di perquisizione della residenza dell’ex presidente pubblicato su ordine del giudice statunitense Bruce Reinhart, ha autorizzato l’Fbi a sequestrare materiali che potrebbero costituire la prova che Trump ha violato l’Espionage Act e le disposizioni sull’intralcio alla giustizia. L’ FBI stava cercando prove sul fatto che la cattiva gestione di documenti riservati da parte di Trump, inclusi alcuni contrassegnati come top secret, costituisse tre tipologie di reato. 

Trump, documenti sequestrati da Fbi erano declassificati

I documenti sequestrati nel resort in Florida dell’ex presidente Usa, Donald Trump, “erano tutti declassificati” e dunque non più top secret. Lo ha dichiarato lo stesso Trump in un post pubblicato sulla sua piattaforma social, Truth. “Primo punto – ha scritto Trump – erano tutti declassificati. Secondo, non avevano bisogno (gli agenti dell’Fbi, ndr) di sequestrarli. Potevano averle senza politicizzare e fare irruzione a Mar-a-Lago. I documenti erano in un posto sicuro, con una sicura aggiuntiva messa su loro richiesta“.

Tra i documenti sequestrati ci sarebbero, secondo il dipartimento Giustizia, segreti riferiti alla sicurezza nucleare del Paese e informazioni sulla Francia. Trump, secondo i media americani, rischia di essere incriminato per violazione della legge che regola i casi di spionaggio.  Le ricevute del mandato sono state firmate dall’ex avvocato del presidente Trump Christina Bobb che secondo quanto riferisce la Cnn si è lamentata del fatto che a lei e ad altri avvocati di Trump non è stato permesso assistere alla perquisizione.

Trump ha poi accusato il suo predecessore Barack Obama di aver portato a Chicago 33 milioni di pagine di documenti riservati, ma gli archivi nazionali e registri dell’amministrazione (Nara) hanno smentito Trump, dichiarando di avere l’esclusiva custodia legale e fisica di tutti i documenti della presidenza Obama, come vuole la legge. Circa 30 milioni di pagine di documenti non classificati si trovano a Chicago, mentre tutti i documenti classificati sono a Washington.

Massimo Gaggi per corriere.it il 9 agosto 2022.

Cosa cercavamo gli agenti dell’FBI a Mar-a-Lago? Prove che Trump ha tramato per sovvertire l’esito delle elezioni presidenziali del 2020 o semplicemente documenti ufficiali della Casa Bianca illegalmente sottratti dall’ex presidente agli archivi federali e raccolti nella sua residenza privata? 

I federali si sarebbero concentrati soprattutto sui documenti contenuti in una cassaforte. Già lo scorso gennaio, per evitare problemi legali, Trump aveva restituito 15 casse di documenti che aveva portato con sé in Florida dopo la fine del suo mandato. 

L’incriminazione di Trump con l’accusa di aver violato la Costituzione rimane una possibilità, ma alcuni giuristi ritengono anche possibile che, senza arrivare ad accusarlo di aver tentato un golpe, l’ex presidente possa perdere la possibilità di candidarsi di nuovo alla Casa Bianca perché colpevole di un reato meno grave ma, comunque, penalmente rilevante: aver trafugato, occultato o distrutto di documenti federali.

In effetti una norma poco conosciuta del Codice federale, la sezione 2071 del titolo 18, afferma che chi «volutamente e illegalmente nasconde, rimuove, mutila, falsifica o distrugge» documenti federali commette un reato penale punibile con tre ani di carcere e l’interdizione dai pubblici uffici. 

Vari ex collaboratori di Trump hanno parlato della sua abitudine di distruggere documenti che dovevano invece restare conservati negli archivi. Un libro della giornalista Maggie Haberman in uscita negli Stati Uniti racconta in modo dettagliato dell’abitudine di Trump di fare a pezzi i documenti, gettandoli, poi, nella tazza del water fino ad ingolfarlo. Nei giorni scorsi sono stati addirittura pubblicate foto di gabinetti presidenziali con pezzi di documenti che si vedono nel fondo del wc.

Basterebbe questo per squalificare Trump? La cosa è assai dubbia. Politicamente l’ex presidente già usa l’incursione dell’FBI per dipingersi come un perseguitato dai democratici. Giuridicamente non è certo che una simile norma possa essere applicata a un’elezione presidenziale. Nel 2016, ad esempio, quando fu Trump a chiedere la squalifica di Hillary Clinton, accusata di aver occultato molte email quando era Segretario di Stato, la cosa non impedì alla ex first lady di candidarsi. 

Una condanna potrebbe, comunque, rafforzare la corrente dei repubblicani che, scossi anche dalle rivelazioni sulle responsabilità dell’ex presidente nell’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, preferirebbero lasciare The Donald a giocare a golf a Mar-a-Lago e inaugurare l’era del «trumpismo senza Trump».

Donald Trump, l’Fbi nella sua casa in Florida: «Controllata anche la cassaforte». Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022

L’Fbi ha perquisito la residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago. Lo ha detto l’ex presidente. «Noi non eravamo stati informati, è una persecuzione politica» 

Stando alle prime indiscrezioni pubblicate dai media americani, lunedì 8 agosto, l’Fbi cercava documenti classificati nella residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago in Florida.

Non ci sono ancora, però, conferme ufficiali e non è quindi chiaro sulla base di quale mandato giudiziario si siano mossi gli agenti federali. 

Mesi fa gli Archivi Nazionali avevano segnalato la scomparsa di un’ingente quantità di materiale sparito dalla Casa Bianca. Poco prima della fine del suo mandato, Trump avrebbe trasportato una quindicina di scatoloni nella sua residenza. 

Il ministero della Giustizia non ha commentato. Non sappiamo ancora, quindi, se ci sia una qualche relazione con l’inchiesta avviata dall’Attorney General Merrick Garland sulle possibili responsabilità penali collegate all’assalto di Capitol del 6 gennaio 2021. 

Il team dell’Fbi ha forzato una cassaforte e avrebbe portato via parecchio materiale. Anche se uno dei figli di Trump, Eric, aveva twittato: «La cassaforte era vuota». 

In ogni caso è la prima volta che le forze dell’ordine perquisiscono la dimora di un ex presidente. Un’iniziativa che aggiunge altro astio in uno scontro politico a livelli già preoccupanti. 

È stato lo stesso Donald Trump a dare la notizia, verso le 19 di lunedì sera. Poi l’ex costruttore newyorkese ha diffuso un lungo comunicato in cui sostiene di essere un perseguitato politico: «Questi sono tempi oscuri per la nostra nazione, mentre la mia bella casa, Mar-A-Lago a Palm Beach, Florida, è attualmente sotto assedio, occupata da un folto gruppo di agenti Fbi. Non era mai successo niente del genere a un presidente degli Stati Uniti. Visto che ho collaborato con le autorità, questo raid non annunciato non era necessario né corretto». Trump sostiene che i suoi avversari abbiano «strumentalizzato» il sistema giudiziario: «E’ una manovra, una persecuzione, un attacco da parte dei democratici della sinistra radicale che non vogliono che mi candidi per le presidenziali del 2024, specie dopo aver visto i recenti sondaggi. Faranno di tutto per fermare i repubblicani e i conservatori alle imminenti elezioni di midterm».

Trump è al centro di almeno due filoni distinti di indagine. La procuratrice generale dello Stato di New York, Letitia James da mesi conduce un’inchiesta sugli affari finanziari della holding trumpiana. Il sospetto principale: i vertici aziendali avrebbero gonfiato il valore degli asset per ottenere più facilmente finanziamenti bancari. Ma naturalmente tutt’altro peso ha l’iniziativa assunta da Garland. Sotto esame sono le manovre di Trump per rovesciare il risultato delle elezioni del 2020 e per fomentare l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Nei giorni scorsi sono stati convocati davanti a un «gran jury federale» (un gruppo di cittadini con la supervisione di un giudice) alcuni dei collaboratori più stretti di Trump proprio nelle settimane tumultuose che seguirono la sconfitta elettorale del novembre 2020. Tra i primi a comparire c’è John Eastman, il giurista che convinse Trump ad attaccare pubblicamente l’allora vice presidente Mike Pence, perché non si era rifiutato di ratificare la vittoria di Joe Biden, nella seduta congiunta del Congresso il 6 gennaio. Un altro testimone importante appena ascoltato è Pat Cipollone, il capo dell’ufficio legale della Casa Bianca. Vedremo se esiste un collegamento tra queste deposizioni e il blitz dell’Fbi a Mar-a-Lago.

(ANSA il 10 agosto 2022) - Donald Trump sarà interrogato oggi sotto giuramento dalla procuratrice generale di New York Letitia James nell'ambito dell'indagine sulle dichiarazioni al fisco della Trump Organization. 

 "A New York City stasera. Domani vedrò il procuratore generale razzista di New York, per il proseguimento della più grande caccia alle streghe nella storia degli Usa", ha commentato ieri sera l'ex presidente sul suo Truth Social. "La mia grande società, e io stesso, veniamo attaccati da tutte le parti. Repubblica delle banane!". 

Estratto dell’articolo di Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 10 agosto 2022.

Donald Trump stava progettando un «evento speciale» per annunciare la sua candidatura per le presidenziali del 2024. Qualcosa di simile alla discesa dalla scala mobile nella Trump Tower, il 16 giugno del 2015, il giorno in cui il costruttore diventò un protagonista assoluto della politica americana. 

[…] Non sappiamo se il dipartimento di Giustizia, alla fine, arriverà davvero a incriminare l'ex presidente. Per ora, a giudicare dai segnali visti ieri, gli ha dato un'ulteriore spinta. A questo punto si pensa che Trump accelererà i piani, presentandosi come la vittima di «un complotto politico-giudiziario» e appellandosi direttamente agli elettori. 

D'altra parte dal campo conservatore si levano solo voci di sostegno, di appoggio a Trump. Il leader della minoranza alla Camera, Kevin McCarty ha addirittura avvertito il ministro della Giustizia, Merrick Garland: «Non prendere impegni e prepara le carte». Come dire: appena riconquisteremo la Camera ti metteremo noi sotto inchiesta. 

Stasera una delegazione di parlamentari andrà a trovare «il leader perseguitato» nel golf club di Bedminster, nel New Jersey. Appuntamento già previsto, ma subito rilanciato con un tono di sfida nei confronti del sistema giudiziario, «telecomandato» dai «democratici radicali».

Persino l'unico avversario potenzialmente insidioso, il governatore della Florida Ron DeSantis, ha ripreso la tesi dei trumpiani: «La perquisizione dell'Fbi è un'altra escalation nella strumentalizzazione delle istituzioni federali contro gli oppositori politici del Regime». Proprio così: «Regime» con la lettera maiuscola. 

E a metà mattina si è accodato anche l'ex vice presidente Mike Pence: «Per anni l'Fbi ha agito in maniera politicamente faziosa. Il ministero della Giustizia dovrà spiegare la motivazione di un'iniziativa che non ha precedenti».  […] 

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 10 agosto 2022.

«Questa è una guerra civile 2.0». «Io ho già comprato le munizioni». «È un attacco politico orchestrato da Biden». «Negli Stati Uniti non avremo più elezioni». Appena Donald Trump ha messo in rete la notizia della perquisizione della sua residenza di Mar-a-Lago da parte dell’Fbi, il popolo dei suoi supporter si è mobilitato: manifestanti in strada a Palm Beach, miliziani arrivati davanti alla villa-resort di Trump per proteggere il loro presidente (che, però, era a New York) e una tempesta di reazioni minacciose sui social media. Non si tratta di pochi facinorosi: l’espressione «guerra civile» diventa subito tra gli argomenti più cercati su Google, così come lock and load: caricare un’arma da guerra nel gergo militare.

È dall’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 che l’America teme ciò che era considerato impensabile: una seconda guerra civile, dopo quella di metà Ottocento. E la miccia, in un modo o nell’altro, è sempre il presidente-immobiliarista: davanti alla commissione parlamentare che indaga sulla sommossa di un anno e mezzo fa il manager della campagna elettorale di Trump, Brad Parscale, ha detto di sentirsi «in colpa per aver aiutato un presidente che, mentre era ancora in carica, ha cercato di provocare una guerra civile».

Oggi, invece, è la sortita dell’Fbi e la denuncia di Trump che si definisce sotto assedio, vittima di un uso politico della Giustizia, ad infiammare gli animi. Sono centinaia le organizzazioni filo trumpiane che minacciano sfracelli. C’è chi collega la recente sentenza che condanna l’imbonitore dell’ultradestra Alex Jones a pagare parecchi milioni di indennizzi alle famiglie delle vittime di una strage scolastica da lui calunniati, alla perquisizione di Mar-a-Lago per denunciare «la distruzione della nostra opposizione al deep state». «Liberiamoci da questo regime di comunisti» è un’altra invocazione che va per la maggiore. Scatenata anche la tribù dei QAnon nella quale, però, il misterioso QAnonJohn va controcorrente: niente guerra civile, altrimenti si cade nella trappola tesa dall’Fbi che vuole proprio l’insurrezione per giustificare la repressione.

Mentre politologi e storici — come la docente di San Diego, Barbara Walter, autrice del saggio How Civil Wars Start — avvertono che il rischio di guerra civile è reale, lo stesso Trump sembra intenzionato soprattutto a sfruttare il caso per ottenere vantaggi politici e anche finanziari. Il messaggio nel quale l’ex presidente denuncia l’attacco alla sua persona si conclude, come quasi tutti i suoi post, con un perentorio: «Correte a fare una donazione, IMMEDIATAMENTE!».

L’incursione dell’Fbi, evidentemente decisa da un giudice federale, spinge poi gli esponenti del partito repubblicano — anche quelli, come il governatore della Florida Ron DeSantis, che vorrebbero sfidarlo nel 2024 nella battaglia per la Casa Bianca — a solidarizzare con Trump: quasi tutti sostengono che i democratici stanno facendo un uso politico della Giustizia mentre The Donald, accusato fino a ieri di aver tentato un sovvertimento delle regole democratiche più grave dello scandalo Watergate (quello che mezzo secolo fa costò la presidenza a Richard Nixon) con una delle sue geniali giravolte ora accusa il partito di Biden di aver organizzato un Watergate al contrario.

E mentre i commentatori più vicini all’ex presidente chiedono addirittura lo scioglimento dell’Fbi (Candace Owens) o denunciano trame comuniste da Terzo mondo (Dan Bongino, subito imitato dal figlio di Trump, Eric, e da altri collaboratori del leader repubblicano), cresce il rischio di un ulteriore indebolimento degli Usa che, anche senza guerra civile, vanno verso una stagione caotica: vendette incrociate (il leader dei repubblicani alla Camera, Kevin McCarthy, annuncia inchieste contro il ministro della Giustizia Merrick Garland) e scollamento tra gli Stati, con quelli a guida repubblicana che rivendicano il diritto di disubbidire alle disposizioni federali o, addirittura, minacciano la secessione, come hanno appena fatto 13 deputati trumpiani del New Hampshire.

(ANSA il 12 agosto 2022. ) - L'Fbi nel blitz a casa di Donald Trump cercava documenti top secret legati alle armi nucleari. Lo riporta il Washington Post citando alcune fonti, secondo le quali la perquisizione non usuale ha messo in evidenza le profonde preoccupazioni all'interno del governo Usa sul tipo di informazioni in possesso dell'ex presidente a Mar-a-Lago e il pericolo che potessero finire in mani sbagliate. 

I documenti sulle armi nucleari sono particolarmente sensibili e solitamente la loro diffusione è limitata a un numero ristretto di persone. Pubblicizzare dettagli sulle armi americani potrebbe concedere vantaggi agli avversari. "Se fosse vero" che si trattava di documenti legati alle armi nucleari "si tratterebbe di materiale riservato ai più alti livelli", afferma David Laufman, l'ex capo della sezione di intelligence del Dipartimento di Giustizia americano.

Trump, l’Fbi cercava documenti su armi nucleari. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

Lo riferisce il quotidiano «Washington Post». L’urgenza dell’intervento dei federali dettata dal timore che le carte top secret potessero finire in mani sbagliate. 

L’Fbi a casa di Donald Trump cercava documenti legati alle armi nucleari, e quindi top secret e con implicazioni per la sicurezza nazionale. La rivelazione del «Washington Post» mostra l’urgenza dell’intervento degli agenti federali e la preoccupazione diffusa all’interno del governo americano sul tipo di documenti parcheggiati a Mar-a-Lago e sul pericolo che potessero finire in mani sbagliate. L’indiscrezione arriva mentre l’ex presidente Usa e i suoi legali non hanno ancora chiarito come intendono procedere sulla mozione presentata dal Dipartimento di Giustizia per chiedere che il mandato di perquisizione effettuato venga reso pubblico.

Trump ha tempo fino alle 21 di oggi, venerdì 12 agosto, per decidere se opporsi o meno alla diffusione del documento. Per il tycoon e i suoi legali si tratta di una scelta complessa: l’ex presidente ha in mano il mandato da lunedì quando è stato effettuato il blitz , ma non l’ha reso pubblico limitandosi a criticare duramente l’Fbi. Bloccare la richiesta del Dipartimento di Giustizia potrebbe lasciar intendere che Trump ha qualcosa da nascondere nel mandato, documento in grado di chiarire le motivazioni che hanno spinto gli agenti federali a intervenire. «Merrick Garland sta cercando di scoprire il bluff di Trump», commentano alcuni esperti osservando come il ministro della Giustizia ha rimandato con destrezza la palla nel campo di Trump.

Secondo indiscrezioni, lo staff dell’ex presidente è stato colto di sorpresa dalla mossa del ministro della Giustizia, in grado almeno per il momento di mettere Trump all’angolo. Se le indiscrezioni del «Washington Post» sui documenti legati al nucleare si rivelassero vere, la situazione di Trump si complicherebbe. Le carte infatti sarebbero in grado di mettere a rischio la sicurezza nazionale americana (Qui l’articolo: Cosa rischia Trump), ma anche di creare problemi con altri Paesi. Non è chiaro infatti se i documenti a cui gli agenti federali davano la caccia riguardavano solo l’arsenale nucleare americano o anche quello di altre nazioni.

Secondo il «New York Times» fra le carte c’erano anche informazioni sui più segreti programmi americani, i cosiddetti «special access programs». Joe Biden segue gli sviluppi da lontano. Il presidente è con la first lady in vacanza per qualche giorno sull’isola di Kiawah, South Carolina. Una pausa per ricaricarsi in vista delle elezioni di metà mandato di novembre dopo le quali, secondo indiscrezioni, dovrebbe annunciare la sua candidatura al 2024 e lanciare la campagna elettorale. Il presidente americano è convinto di voler correre nonostante i sondaggi indichino la preferenza dei democratici per un altro candidato.

La convinzione di Biden si sarebbe rafforzata con le recenti vittorie legislative, economiche e di politica estera, oltre alla determinazione di voler negare a Donald Trump un ritorno alla Casa Bianca. Un obiettivo che lo accomuna alla deputata Liz Cheney. La repubblicana perderà con molta probabilità le primarie in Wyoming per la Camera, ma la sua carriera politica è lungi dall’essere finita. Pur di evitare un ritorno di Trump nello Studio ovale, Cheney potrebbe accarezzare l’idea di una candidatura alla Casa Bianca.

Trump, la mossa del ministro Garland: «Ho autorizzato io la perquisizione». Viviana Mazza su Il Corriere della Sera l'11 Agosto 2022.

Il procuratore generale: «Ora sia desecretato il mandato del raid». Intanto si cerca la talpa nell’entourage di Trump.

Dopo tre giorni di silenzio il ministro della Giustizia degli Stati Uniti, Merrick Garland, ha chiesto ieri al tribunale del Southern District of Florida di rendere pubblico il mandato di perquisizione della residenza di Donald Trump al quale diversi media stanno cercando di avere accesso. Una scelta inconsueta — questi documenti restano di solito confidenziali — ma Garland ha sottolineato che il primo a parlarne è stato lo stesso Trump e che vi è un «sostanziale interesse pubblico».

Con un discorso breve e misurato, senza rispondere a domande, ma guardando dritto negli occhi degli spettatori, Garland ha cercato di replicare con la trasparenza alle accuse di Trump. Ha dichiarato di avere autorizzato personalmente la perquisizione e di «non aver preso la decisione con leggerezza», poiché il suo dipartimento preferisce «metodi meno intrusivi». I repubblicani hanno definito il «raid a Mar-a-Lago» un’azione politica contro Trump, mentre la portavoce della Casa Bianca ha dichiarato che l’attuale presidente ha appreso la notizia dai media, come è giusto che sia: «Biden ha detto sin dall’inizio che il dipartimento della Giustizia deve condurre le sue indagini in modo indipendente». Garland ha ribadito il principio dell’applicazione imparziale della legge, spiegando che «l’adesione allo stato di diritto è il principio fondamentale del Dipartimento di Giustizia e della nostra democrazia». Ha concluso elogiando i suoi funzionari e quelli dell’Fbi, «patrioti» che difendono il Paese al «prezzo di enormi sacrifici personali» e che non meritano accuse infondate e minacce di morte.

I media americani hanno ricostruito i diversi passi tentati dagli inquirenti prima avviare la perquisizione senza precedenti dell’abitazione di un ex presidente degli Stati Uniti. A farla scattare è stata la convinzione che a Mar-a-Lago vi fossero documenti classificati che Trump non aveva ancora consegnato, «sensibili» per motivi di sicurezza nazionale, secondo il New York Times . Per il Washington Post, nel giallo sulle ragioni del blitz prende corpo un'ipotesi legata alle armi nucleari. Secondo il quotidiano, i federali cercavano proprio documenti top secret legati alle armi atomiche . A gennaio i funzionari del National Archives (gli archivi nazionali dove per legge vanno depositati tutti gli atti di ogni presidenza) avevano già recuperato 15 casse di materiali, anche classificati, portati via dalla Casa Bianca. In primavera, il dipartimento di Giustizia aveva ordinato la consegna di carte che riteneva non fossero state restituite.

A giugno nella residenza si era presentato Jay Bratt, capo del controspionaggio presso il dipartimento, con un mandato per un’ispezione. L’ex presidente si fermò a salutarlo e assicurò di non avere carte top secret. Ma secondo Newswee k e il Wall Street Journal, almeno un informatore nella sua cerchia avrebbe riferito all’Fbi che l’ex presidente mentiva. Non ne è nota l’identità né quali prove abbia offerto. Tra coloro che sono stati interrogati dagli inquirenti ci sono Molly Michael, assistente di Trump allo Studio Ovale e poi a Mar-a-Lago, e Derek Lyons, ex segretario fino al 18 dicembre 2020. Garland ha sottolineato che Trump ha già una copia del mandato e la lista di ciò che è stato requisito) il tycoon potrebbe opporsi alla divulgazione, ma toccherà al tribunale decidere.

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” l'11 agosto 2022.

È verosimile che la perquisizione della sua residenza di Mar-a-Lago acceleri i tempi dell'annuncio della candidatura di Donald Trump alle presidenziali 2024. 

L'iniziativa giudiziaria eseguita da 30 agenti dell'FBI che lunedì hanno ispezionato per nove ore ogni angolo della residenza privata dell'ex presidente, bollata da Trump come persecuzione politica - l'uso della Giustizia come arma per impedirgli di ricandidarsi - rende sempre più arduo per i possibili candidati alternativi lanciare una sfida credibile alla nomination repubblicana alla Casa Bianca. 

Dal governatore della Florida Ron DeSantis al suo ex vice Mike Pence, ieri i possibili sfidanti di Trump sono stati costretti a spalleggiare Trump mostrandosi solidali con lui. Ma l'ex presidente guarda oltre la nomination. Sa di essere popolarissimo nel fronte conservatore, ma anche che il suo disprezzo per ogni regola democratica inquieta i moderati. 

Non volendo rischiare di perdere una seconda volta le presidenziali, si è impegnato fin dall'inizio della campagna per le primarie a sostenere, in tutti gli Stati-chiave per la sua elezione, candidati repubblicani alle cariche rilevanti per quanto riguarda la certificazione dei risultati del voto presidenziale - soprattutto i segretari di Stato e i governatori - che siano allineati alla sua tesi delle elezioni 2020 «rubate» da Biden.

Benché poco pubblicizzato perché mediaticamente di scarso impatto, il dato più inquietante dell'attuale stagione politica riguarda il gran numero di funzionari fedelissimi di Trump che si stanno imponendo nelle primarie, da un capo all'altro dell'America. 

Personaggi che, se eletti segretario di Stato, domani potrebbero rispondere in modo affermativo a una richiesta di «trovare» qualche migliaio di voti per capovolgere l'esito di un'elezione, come quella rivolta a suo tempo da Trump al segretario di Stato della Georgia e da lui respinta.

Martedì, mentre gli occhi dell'America erano concentrati sulla perquisizione di Mar-a-Lago, l'ex presidente ha messo a segno altri colpi in prospettiva elettorale. In Wisconsin il candidato governatore designato dal partito repubblicano è stato battuto da Tim Michels, un fedelissimo di Trump votato a maggioranza dopo una campagna condotta sostenendo che Biden è un usurpatore nonostante che la falsità di questa tesi sia stata dimostrata al di là di ogni possibile dubbio.

Stesso risultato in Minnesota nelle primarie per la scelta del candidato alla carica di segretario di Stato: è passato, in campo repubblicano, un candidato convinto che a Trump sia stata rubata la Casa Bianca. 

Anche in Congresso si delinea un'ulteriore radicalizzazione dello schieramento di destra. 

La vendetta dell'ex presidente contro la pattuglia di parlamentari conservatori che lo giudicarono colpevole procede implacabile. Ieri Jaime Herrera Beutler, uno dei dieci deputati che votarono per il suo impeachment, è stata battuta nelle primarie dello Stato di Washington dal trumpiano Joe Kent: la sua avventura politica in Congresso è finita. 

La prossima settimana toccherà a Liz Cheney, che verrà sicuramente sconfitta, in Wyoming, da Harriet Hageman che, sostenuta da Trump, è in testa nei sondaggi con un margine di ben 22 punti percentuali. La combattiva figlia di Dick Cheney troverà altri modi di fare politica, una volta fuori dalla Camera, ma intanto si ridurrà il numero dei parlamentari conservatori in grado di tenere testa a un eventuale presidente Trump in versione «toro scatenato»: in primavera, ai primi turni delle primarie, The Donald aveva subito più di uno smacco con la bocciatura di qualche candidato da lui sostenuto. 

Successivamente, però, il suo proclama piuttosto strafottente («sono il re degli endorsement») si è rivelato non troppo lontano dalla realtà: solo 5 dei 145 candidati a un seggio alla Camera ai quali Trump ha dato il suo sostegno non hanno vinto le loro primarie, e solo uno dei suoi 19 candidati al Senato è stato bocciato.

Certo, in molti casi lui ha appoggiato parlamentari uscenti che avrebbero vinto comunque, ma i suoi endorsement hanno fin qui avuto successo quasi nell'80 per cento dei casi anche con i candidati alla ricerca della prima nomina e con quelli in corsa per cariche locali, come i governatori e i segretari di Stato. 

Massimo Gaggi per il “Corriere della Sera” il 12 agosto 2022.

Pur evitando di formularli in pubblico, Rupert Murdoch, editore ultranovantenne e ultraconservatore, dà spesso giudizi sprezzanti su Donald Trump. Ma la sua Fox News, la corazzata dell'informazione di destra, continua ugualmente a sostenere l'ex presidente in vista delle elezioni del 2024, anche se ha cominciato a dare spazio pure a possibili candidati alternativi. 

Il figlio James, erede designato del gruppo Murdoch e per anni suo amministratore delegato di fatto, se n'è andato da tempo senza nascondere la sua indignazione per come la Fox ha spalleggiato Trump anche nelle sue mosse apertamente antidemocratiche.

Il fratello Lachlan, che lo ha sostituito al vertice del gruppo, non ha fatto mistero delle sue simpatie per la destra più radicale in discorsi pubblici e difendendo i conduttori della Fox anche quando hanno sostenuto che l'assalto al Congresso era una manovra della sinistra contro Trump o hanno sposato la teoria cospirativa della «grande sostituzione»: una congiura contro i bianchi d'America destinati a diventare minoranza oppressa.

Da qualche mese, però, anche Lachlan sostiene in privato che Trump è un male per l'America. Ma poi aggiunge (racconto della Cnn) che la Fox non smetterà di sostenerlo perché altrimenti perderebbe gran parte della sua audience: nonostante tutti i danni che ha procurato all'America, la violazione delle regole democratiche e gli atti illegali ormai dimostrati al di là di ogni ragionevole dubbio, Trump rimane popolarissimo nella destra americana. Perché?

Com' è possibile che un personaggio che prima si è inimicato l'intero establishment conservatore, poi ha rotto con quasi tutti i personaggi chiamati a collaborare con lui alla Casa Bianca (licenziati o andati via sbattendo la porta, pubblicando, poi, memorie roventi) e che sembra aver perso il sostegno di molti suoi finanziatori, tentati di appoggiare politici più giovani e affidabili, sia ancora un candidato pressoché imbattibile nel fronte conservatore?

Prima della sconfitta del novembre 2020 erano stati pubblicati decine di saggi sulla diabolica abilità comunicativa e anche sull'intuito politico di The Donald . Tutto dimenticato nei mesi del suo silenzioso ritiro a Mar-a-Lago dopo l'assalto al Congresso e il tentativo, fallito, di sovvertire l'esito del voto presidenziale. 

Mentre i giornali si riempivano di analisi sulla fine della sua carriera politica, Trump giocava a golf e lavorava alla costruzione del «secondo atto» della sua battaglia per la Casa Bianca, spinto da un'ossessione: non solo la voglia di rivincita, ma anche la determinazione a non riconoscere la sconfitta del 2020.

La sua intenzione, una volta tornato presidente, è quella di pretendere poteri più vasti da un Parlamento sempre più trumpiano: per gestire la cosa pubblica in modo personalistico senza troppi dibattiti e garanzie democratiche che allungano i tempi e costringono a cercare soluzioni di compromesso. E anche con la speranza di sovvertire un ordine giudiziario che, benché composto soprattutto da magistrati conservatori, fin qui ha confermato la correttezza dell'elezione di Joe Biden.

La forza di Trump si basa soprattutto su tre fattori. In primo luogo la sua capacità di mantenere compatto nel tempo lo zoccolo duro - minoritario ma molto determinato - dei suoi supporter (il popolo dei forgotten men , i bianchi allergici alla società multietnica e altro ancora) che vede in lui ben più di un leader politico: l'uomo capace di rassicurarli, di incarnare il loro desiderio di vendetta sociale, di lenire le loro frustrazioni.

Poco male se nei 4 anni della presidenza Trump per loro le cose non sono migliorate: i forgotten men non si fanno grandi illusioni, non credono nelle virtù dell'economia. Si accontentano di espressioni consolatorie, di parole d'ordine, di proclami libertari, di ribellioni alle regole imposte da governi «socialisti». 

Il secondo fattore è la capacità di Trump di mettersi in sintonia col suo popolo, di intrattenerlo facendo spettacolo più che parlando di politica, di costruire parole d'ordine suggestive, di sfruttare mediaticamente a suo favore anche le informazioni negative diffuse su di lui. In questo modo nel 2016 ha sbaragliato la concorrenza degli altri candidati repubblicani e poi è riuscito a prevalere su Hillary Clinton.

Nello stesso modo i quattro filoni di indagini in corso su Trump - l'assalto al Congresso di un anno e mezzo fa col tentativo di bloccare la ratifica dell'elezione di Biden, i documenti presidenziali trafugati, le presunte irregolarità finanziarie e fiscali delle sue aziende e il tentativo di alterare il risultato elettorale della Georgia - consentono ora a The Donald di presentarsi agli elettori come un leader che può essere abbattuto solo per via giudiziaria perché inarrestabile sul piano politico. 

Salvo che fermarlo in tribunale non sarà affatto facile: l'incriminazione di un ex presidente sarebbe un atto senza precedenti nella storia americana. Se, anche, si arriverà a tanto, Trump darà battaglia (e farà spettacolo) fino alla Corte Suprema. Dove c'è una maggioranza ultraconservatrice da lui stesso plasmata coi tre giudici che ha nominato durante il suo mandato presidenziale.

Il terzo fattore, che è anche il più delicato, ha a che vedere con la devastante capacità di Trump di sfruttare i processi di radicalizzazione politica in corso già da lungo tempo negli Usa, per modificare la sensibilità democratica di gran parte del fronte conservatore fino al punto di rendere minoritaria la destra che crede ancora nella Costituzione e nei meccanismi di una democrazia che può funzionare solo se chi perde riconosce la sconfitta e non tenta di delegittimare il vincitore.

Sono in tanti ormai, non solo nella destra moderata ma anche in quella più integralista, a capire che Trump rappresenta una minaccia per la democrazia Usa: vorrebbero sostituirlo con un conservatore altrettanto radicale, ma più rispettoso della Costituzione. Impresa proibitiva, visto che, alla luce dei risultati delle primarie, il prossimo Congresso sarà ancor più favorevole a Trump mentre l'esercito dei fan dell'ex presidente, inebriato da un autoritarismo che trova addirittura rassicurante, prepara una campagna elettorale assai bellicosa.

Trump, minacciati di morte gli agenti dell’Fbi che hanno perquisito la villa di Mar-a-Lago. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

La stampa di destra pubblica i nomi. Nel mirino anche il giudice che ha firmato il mandato

Un numero «senza precedenti» di minacce contro il personale e le proprietà dell’Fbi ha fatto seguito alla perquisizione alla tenuta di Mar-a-Lago di Donald Trump. Minacce precise, anche contro i due agenti che hanno firmato l’inventario dei documenti requisiti, ha detto alla Cnn una fonte delle forze dell’ordine. Venerdì sera sono circolati online i loro nomi, quando il sito di estrema destra Breitbart News, che in passato fu diretto dallo stratega di Trump Steve Bannon, ha diffuso una copia del mandato di perquisizione.

Breitbart, come altri media, ha avuto il mandato prima che fosse desecretato, ma è l’unico ad averlo pubblicato senza coprire i nomi. Qualche ora più tardi il sito ha diffuso un’altra versione, in cui non erano più leggibili, ma i nomi dei due agenti avevano già fatto in tempo a finire sul social trumpiano «Truth» dove alcuni utenti li hanno definiti «traditori». C’è chi accusa lo stesso ex presidente, che ne possedeva una copia, di aver fatto trapelare il mandato senza censure (a differenza di quello divulgato poco dopo dal giudice), benché non sia possibile provarlo. Il social «Truth» comunque ha inviato un «push alert» per promuovere l’articolo di Breitbart.

Una di queste minacce contro l’Fbi si è già trasformata in violenza giovedì scorso, con il tentativo di irruzione in un ufficio dell’agenzia in Ohio, finito con l’uccisione dell’aggressore armato di fucile d’assalto. Ricky Shiffer, 42 anni, era un sostenitore di Trump, con legami con il gruppo dei Proud Boys che partecipò all’assalto al Congresso del 6 gennaio. Aveva espresso su «Truth» la sua rabbia; dopo la perquisizione di Mar-a-Lago voleva vendetta. «La violenza non è (sempre) terrorismo», ha scritto Shiffer, incitando ad uccidere gli agenti dell’Fbi. «Il male ha già vinto, dobbiamo combattere una guerra civile per riprenderci il Paese». Anche il giudice Bruce Reinhart che ha firmato il mandato è un obiettivo, insieme alla sua famiglia. In uno dei messaggi si legge: «Ti vedo la corda intorno al collo».

Intanto il New York Times ha rivelato che un legale di Trump firmò a giugno una dichiarazione scritta assicurando che non c’erano più documenti classificati a Mar-a-Lago: gli agenti li hanno invece trovati l’8 agosto (Trump insiste di averli desecretati prima di lasciare la Casa Bianca, ma non ci sono prove che sia così). Questo spiega perché l’ex presidente sia indagato anche per ostruzione della giustizia.

Nell’anno e mezzo passato dall’assalto al Congresso le minacce di violenza politica sono diventate una costante della vita americana. L’uso di un linguaggio de-umanizzante e apocalittico da parte di politici e media di destra contribuisce a normalizzare la violenza. Alcuni studi mostrano che anche una percentuale di progressisti pensa che la violenza contro il governo possa essere giustificata. Il direttore dell’Fbi Christopher Wray ha inviato una nota interna per tentare di rassicurare gli agenti: «La vostra protezione è la mia preoccupazione principale in questo momento».

(ANSA il 13 agosto 2022) - L'Fbi ha annunciato un'indagine sulle "minacce senza precedenti", incluso il tentativo di irruzione nella sede dell'Agenzia a Cincinnati finito con l'uccisione dell'aggressore, ricevute dopo la perquisizione dei suoi agenti nella residenza di Donald Trump in Florida. 

Lo riferiscono fonti alla Cnn. In queste ore sul web sono circolati i nomi dei due agenti che hanno firmato il mandato di perquisizione di Mar-a-Lago. Nomi che sono stati poi censurati nella versione ufficiale pubblicata dal dipartimento di Giustizia. In una nota interna, di cui la Cnn ha preso visione, il direttore dell'Agenzia Christopher Wray ha assicurato che l'agenzia è "vigilie" e adeguerà la sua sicurezza a seconda delle necessità. "La vostra sicurezza e protezione sono la mia preoccupazione principale in questo momento", ha assicurato Wray.

Benedetta Guerrera per l’ANSA il 13 agosto 2022.

Donald Trump è indagato dal'Fbi per spionaggio e per aver occultato, distrutto o rimosso documenti classificati. Dopo ore di indiscrezioni da parte dei principali media americani la desecretazione del mandato di perquisizione dell'Fbi della residenza dell'ex presidente in Florida svela una verità inquietante. 

E spiega nel dettaglio tutte le carte 'top secret' che i federali hanno portato via dalla residenza del tycoon, tra cui anche materiale sul presidente francese Emmanuel Macron.

Violazione dell'Espionage Act, distruzione o occultamento di documenti classificati, ostruzione di indagine. Queste sono le tre pesanti accuse per le quali Trump è indagato dall'Fbi e che hanno motivato il blitz dei federali nel resort di Mar-a-Lago. Il mandato, lungo oltre tre pagine, non specifica di quali documenti 'top secret' si sia appropriato illegalmente l'ex presidente alla fine del suo mandato alla Casa Bianca. 

Ma, secondo molti osservatori, si tratterebbe di quelle carte sulle armi nucleari di cui aveva dato anticipazione il Washington Post. Documenti contrassegnati con le sigle 'TS/SCI', che indicano uno dei livelli più alti di segretezza del governo americano. In tutto i federali hanno portato via dalla residenza sulla spiaggia 11 faldoni, 20 scatole di oggetti, raccoglitori di foto e anche la grazie concessa da Trump al suo sodale Roger Stone.

Tra i documenti c'è anche del materiale su Emmanuel Macron semplicemente contrassegnato con la scritta 'presidente francese'. Trump che, d'accordo con i suoi avvocati, ha autorizzato la pubblicazione del mandato, ha subito contrattaccato. "Numero uno, era tutto declassificato. 

Numero due, non avevano bisogno di 'sequestrare' nulla. Avrebbero potuto ottenerlo quando volevano senza fare politica e irrompere a Mar-a-Lago", ha scritto sul suo social media Truth a proposito dei documenti portati via dagli agenti dell'Fbi durante la perquisizione. 

"Erano in un luogo sicuro, con un lucchetto in più messo dopo che me lo avevano chiesto loro", ha aggiunto facendo riferimento a quella visita dei federali nella sua residenza a giugno, quando gli agenti ispezionarono anche la cassaforte all'interno della quale l'ex presidente conservava le preziose carte.

Cosa può succedere a questo punto al tycoon non è chiaro. I reati di spionaggio e di appropriazione di documenti 'top secret' che potenzialmente possono mettere a rischio la sicurezza degli Stati Uniti e di altri Paesi sono gravi. Ma è ancora tutto da dimostrare se siano stati commessi dall'ex presidente e a quale livello di gravità. Secondo alcuni osservatori Trump potrebbe rischiare decine di anni in carcere, secondo altri invece potrebbe cavarsela con una sanzione finanziaria.

Dagotraduzione dell'articolo di David Brooks per nytimes.com il 12 agosto 2022.

Perché Donald Trump è così potente? Come è arrivato a dominare uno dei due maggiori partiti e a farsi eleggere presidente? Sono i suoi capelli? Il suo girovita? No, sono le sue narrazioni. Trump racconta storie potenti che suonano credibili a decine di milioni di americani. 

La principale storia è che l'America è stata rovinata dalle élite corrotte. Secondo questa narrazione, c'è una rete interconnessa di americani altamente istruiti che compongono quello che i Trumpiani hanno chiamato il regime: attori di potere di Washington, media liberali, grandi fondazioni, università d'élite. Queste persone sono corrotte, condiscendenti e immorali e si prendono cura solo di se stesse.

Questa narrazione ha un nucleo di verità. Le élite metropolitane altamente istruite sono diventate una specie di classe chiusa in se stessa. Ma la propaganda trumpiana trasforma quello che è uno sfortunato abisso sociale in una velenosa teoria del complotto. Presuppone semplicemente, senza molte prove, che le principali istituzioni della società siano intrinsecamente corrotte, malevole e agiscano in malafede.

La carriera politica di Trump è stata tenuta a galla dal disprezzo dell'élite. Più le élite lo disprezzano, più i repubblicani lo amano. Il criterio chiave per la leadership nel Partito Repubblicano oggi è avere i nemici giusti. 

In questa situazione entra in gioco l'F.B.I. Ci sono molte cose che non sappiamo sulle perquisizioni a Mar-a-Lago. Ma sappiamo come ha reagito il Partito Repubblicano. «Vedete! Siamo davvero perseguitati!». «Questo è il peggior attacco a questa Repubblica nella storia moderna» ha esclamato il conduttore di Fox News Mark Levin.

L'indagine su Trump è vista come un complotto del regime cambiando le carte in tavola nel panorama repubblicano. Diverse settimane fa, circa la metà degli elettori repubblicani era pronta ad abbandonare Trump, secondo un sondaggio del New York Times/Siena College. Questa settimana l'intero partito si è stretto intorno a lui. 

Secondo un sondaggio di Trafalgar Group/Convention of States Action, l'83% dei probabili elettori repubblicani dice che l'indagone dell’FBI li ha motivati a votare alle elezioni del 2022. Oltre il 75% dei probabili elettori repubblicani crede che dietro le indagini ci siano i nemici politici di Trump e non un sistema giudiziario imparziale.

In una società normale, quando i politici vengono indagati o accusati, questo li danneggia politicamente. Ma questo non vale più per il G.O.P. Cosa succede se un pubblico ministero accusa Trump e viene condannato proprio mentre punta a correre alla Casa Bianca? Cosa succede se la giustizia decide che Trump dovrebbe andare in prigione? 

Presumo che in quelle circostanze Trump verrebbe arrestato e imprigionato. Presumo anche che vedremo esplodere la violenza da parte dei suoi elettori che concluderebbero che il regime ha messo le mani sul Paese. A mio avviso, questa è la strada per un completo crollo democratico.

In teoria, la giustizia è cieca e ovviamente nessuna persona può essere al di sopra della legge. Ma come ha scritto Damon Linker in un post di Substack: «Questa è politica, non un seminario di laurea in etica kantiana». Viviamo nel mondo reale e tutti dobbiamo assumerci la responsabilità degli effetti delle nostre azioni. 

L'America ha assolutamente bisogno di punire coloro che commettono crimini. D'altra parte, l'America deve assolutamente assicurarsi che Trump non ottenga un altro mandato da presidente. Cosa facciamo se il primo rende più probabile il secondo? Non ho idea di come uscire da questo potenziale conflitto tra realtà giuridica e politica.

Stiamo vivendo una crisi di legittimità, durante la quale la sfiducia nei confronti del potere è così virulenta che le azioni delle élite tendono a ritorcersi contro, non importa quanto siano ben fondate. 

La mia impressione è che l'F.B.I. aveva motivi legittimi per fare ciò che ha fatto. La mia ipotesi è che troverà alcuni documenti compromettenti, ma non indeboliranno il sostegno a Trump. Sono anche convinto che, almeno per ora, abbia involontariamente migliorato le possibilità di rielezione di Trump. Ha involontariamente reso la vita più difficile ai potenziali sfidanti di Trump e ha motivato la sua base. 

È come se stessimo camminando verso una sorta di tempesta e non esiste un modo onorevole per alterare il corso.

Estratto dell’articolo di Alberto Simoni per “la Stampa” il 10 agosto 2022. 

[…] Quel che è accaduto a Mar-a-Lago con gli agenti dell'Fbi a setacciare la villa dell'ex presidente con tanto di mandato federale siglato in tutta fretta da un giudice, altro non ci ricorda - come ha detto Nancy Pelosi, Speaker della Camera - che nessuno è sopra la legge: presidenti o ex presidenti.

[…] Va detto che all'irruzione a Mar-a-Lago l'Fbi ci arriva con un'inchiesta totalmente slegata da quella sull'assalto del 6 gennaio. Ma ci sono due dati singolari che le accomunano: entrambe hanno avuto il primo scatto in aprile quando hanno visto la formazione di un grand giurì che ha inoltrato i primi subpoena. Per arrivare al raid in Florida il Bureau ha avuto prove (o almeno forti indizi) dell'esistenza di un reato.

Per questo il giudice, sollecitato con urgenza, ha risposto: andate. Gli agenti - ha raccontato una dei legali di Trump - sono usciti con incartamenti. 

L'inchiesta sul 6 gennaio - non quella del Congresso, bensì quella del Dipartimento di Giustizia - ha già portato a interrogatori di alcuni esponenti vicinissimi a Mike Pence. Altri uomini della cerchia di Trump sono stati interrogati, le loro case perquisite. È evidente che il cerchio attorno al magnate newyorchese si sta chiudendo. Dove andrà è un'altra questione, tutt' ora aperta.

Ma l'inchiesta sulla Trump Organization (la sua società che ingloba tutto il mondo del business trumpiano) a New York e l'autorizzazione data dalla Camera affinché l'Irs (Agenzia delle entrate) rilasci i "730" di Donald sono bombe a orologeria. […] 

Francesco Semprini per “La Stampa” il 14 agosto 2022.

«Dal mandato di perquisizione del giudice deduco che Trump potrebbe aver intenzionalmente violato le regole sulla declassificazione, il riferimento a leader stranieri come il presidente francese Emmanuel Macron rappresenta un rischio per le attività dei nostri 007 e presta il fianco a Paesi come la Russia, per questo certi dossier non possono mai essere resi pubblici». 

Dan Meyer, è tra i principali avvocati esperti di sicurezza nazionale, ex funzionario dell'intelligence Usa, oggi è partner dello studio legale Tully Rinckey di Washington DC.

I legali di Trump sostengono che il loro assistito abbia declassificato i documenti di Mar-a-Lago prima di lasciare la Casa Bianca, questo basta per metterlo al riparo dalle accuse di spionaggio e ostruzione alla giustizia?

«Il presidente ha l'autorità di declassificare alcuni documenti quando è ancora nell'esercizio delle proprie funzioni, ma lo deve fare seguendo standard e regole ben precise che tutelano la sicurezza delle informazioni contenute nei dossier». 

Che cosa intende?

«C'è un decreto esecutivo emanato dall'ex presidente Barack Obama che stabilisce in base a quali criteri procedere alla declassificazione dei documenti, anche top secret. 

Gli standard sono chiari e non ammettono che un presidente in uscita abbia il diritto di mettere i documenti in uno scatolone e portarli via. Era successo ai tempi di Richard Nixon, per evitare reiterazioni da parte dei successori è stato cambiato il sistema a più riprese. È un reato penalmente perseguibile sottrarre documenti la cui titolarità è del governo federale». 

Bisogna capire se Trump ha seguito le regole nella declassificazione?

«Nel mandato di perquisizione c'è un chiaro riferimento alla possibile violazione della legge sullo spionaggio del 1917 che ha reso necessario entrare nella residenza dell'ex presidente e prende possesso dei documenti. Questo mi fa pensare che l'Fbi sia in possesso di prove secondo cui è stato commesso da Trump». 

Quindi c'è dell'altro?

«Penso che ci sia stata una violazione intenzionale di disposizioni di legge in materia di sicurezza, già questo costituisce un atto di rilevanza penale. C'è un decreto specifico - l'Executive Order 12356 National security information - che stabilisce la rilevanza penale di certi comportamenti. 

Perché c'è il rischio che certi documenti possano essere venduti o usati per passare informazioni a qualcuno, a qualche governo straniero, a qualcuno che ha contatti con Russia, Cina o Corea del Nord. Questo rappresenta un altro reato grave». 

Alcuni invocano la pubblicazione dell'affidavit, può essere importante per saperne di più?

«Nel nostro sistema, a differenza di quello italiano per esempio, il giudice ha poteri più limitati, non ha accesso a tutte le informazioni del caso.

Per questo deve fare affidamento agli agenti speciali dell'Fbi che a lui riportano tutto quello di cui sono a conoscenza in merito alla presunta violazione redigendo l'affidavit. In questa fattispecie l'affidavit avrebbe chiarito al giudice la sussistenza di elementi a sostengo dell'ipotesi di violazione della legge sullo spionaggio del 1917». 

Trump cosa rischia ora?

«Negli ultimi anni ci sono stati casi in Usa di servitori dello Stato che hanno declassificato senza autorizzazione o senza seguire le regole, sono stati incriminati e puniti anche con pene detentive. Dobbiamo capire meglio cosa ha in mano l'Fbi, ma credo che Trump possa rischiare l'incriminazione».

Secondo il Wall Street Journal tra i documenti sequestrati c'è una menzione al presidente Macron. Cosa comporta questo? Potrebbero esserci i nomi di altri leader nei dossier ora in mano all'Fbi?

«Questo è un altro elemento che sottolinea come sia cruciale il rispetto dei processi di declassificazione. La valutazione dei leader stranieri da parte dell'amministrazione americana, in particolare se si tratta dei partner europei, è qualcosa che non può e non deve essere resa pubblica. 

Anche perché il rischio è di compromettere eventuali operazioni di intelligence che sono in corso e con esse la copertura degli agenti segreti. Questo costituisce un altro reato penale molto grave. È chiaro che tra i compiti della Casa Bianca rientra quello della valutazione dei leader stranieri, anche amici e alleati, a maggior ragione certi documenti devono rimanere riservati».

Estratto dell’articolo di Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 10 agosto 2022. 

[…] In teoria, l'Fbi era in cerca di documenti segreti che l'ex capo della Casa Bianca aveva illegalmente portato con sé, quando dopo l'assalto al Congresso del 6 gennaio si era rassegnato a lasciare Washington.

La gestione di queste carte è regolata severamente, soprattutto per proteggere fonti e metodi, che ad esempio consentono di eliminare il capo di Al Qaeda Al Zawahiri mentre prende una boccata d'aria sul balcone del suo nascondiglio a Kabul. Se il presidente infrange le regole crolla il sistema. 

Trump si era portato via 15 scatoloni di documenti, oltre a quelli che aveva stracciato e buttato nella tazza del gabinetto, ma era stato costretto a riconsegnarli nel gennaio scorso. L'ex agente dell'Fbi Michael Tabman ha detto al Daily Mail che una talpa ha informato i suoi colleghi della presenza di altre carte nascoste, e quindi sono dovuti intervenire subito, prima che le facesse sparire. Con loro c'era un uomo del controspionaggio, e ciò lascia pensare che fossero documenti legati ad operazioni all'estero, tipo Russia o Cina.

Marc Elias, avvocato di Hillary Clinton nel 2016, ha scritto che secondo la Section 2071 dello U.S. Code Title 18 chi trafuga informazioni classificate può essere condannato non solo a tre anni di prigione, ma anche all'esclusione da qualsiasi pubblico ufficio. 

Il problema, notano diversi esperti legali, è che la Costituzione stabilisce chi può candidarsi alla Casa Bianca, e quindi una legge del Congresso non basta a squalificare Trump. Il suo ex consigliere Kash Patel sostiene poi che Donald aveva declassificato i documenti prima di portarseli a Mar-a-Lago, e quindi non ha violato alcuna legge. 

Si vedrà chi ha ragione quando il dipartimento alla Giustizia e l'Fbi spiegheranno i motivi del raid, ordinato all'insaputa di Biden. Lo ha autorizzato il giudice della Florida Bruce Reinhart, già difensore dei collaboratori di Jeffrey Epstein, convinto che fosse necessario per perseguire un reato. […]

Francesco Semprini per “La Stampa” il 13 agosto 2022.

Donald Trump è indagato dall'Fbi per spionaggio. È quanto emerge dalla lettura del mandato di perquisizione di Mar-a-Lago in Florida, che conferma le indiscrezioni di stampa secondo cui sull'ex presidente graverebbe anche il sospetto di ostruzione alla giustizia. L'ordinanza, firmata dal ministro della Giustizia Merrick Garland, aveva portato lunedì gli agenti federali a fare irruzione nella magione di Palm Beach e sequestrare diverso materiale. 

Il mandato autorizza la misura senza precedenti del sequestro di materiale in possesso di un ex presidente sulla base dell'Espionage Act, una legge del 1917 che negli ultimi anni è stata usata un modo aggressivo - anche da Trump quando era alla Casa Bianca - non solo contro le spie per perseguire responsabili di fughe di notizie e whistleblower, come vengono chiamati in America i funzionari che denunciano irregolarità interne al sistema. E anche il fondatore di Wkileaks, Julian Assange.

Secondo il Wall Street Journal, l'Fbi avrebbe prelevato dalla magione in Florida 11 faldoni di documenti classificati, ovvero coperti da segreto di Stato, tra cui carte sul presidente francese Emmanuel Macron, oltre a una ventina di scatoloni di oggetti, raccoglitori di foto, una nota scritta a mano e il documento della grazia concessa da Trump a Roger Stone. «Numero uno, era tutto declassificato. Numero due, non avevano bisogno di "sequestrare" nulla. Avrebbero potuto ottenerlo quando volevano senza fare politica e irrompere a Mar-a-Lago», scrive sul social Truth Trump. 

«Erano in un luogo sicuro, con un lucchetto in più messo dopo che me lo avevano chiesto loro», ha aggiunto. È da chiarire ancora se tra i dossier custoditi nel resort vi fossero documenti top secret legati alle armi nucleari, carteggi la cui diffusione è solitamente limitata a un numero ristretto di persone.

«Se fosse vero si tratterebbe di materiale riservato ai più alti livelli», ha commentato David Laufman, ex capo della sezione di intelligence del dipartimento di Giustizia Usa. «È l'ennesima bufala», ha replicato Trump paragonando la storia all'indagine sul Russiagate, ai due impeachment e all'indagine dell'ex procuratore speciale Robert Mueller in merito all'inchiesta sulle presunte interferenze di Mosca nelle elezioni del 2016.

Il tycoon rivendica la sua estraneità da ogni illecito tanto da chiedere sul suo social, Truth, l'immediata pubblicazione del mandato. «Non solo non mi opporrò al rilascio di documenti relativi all'irruzione ingiustificata e non necessaria della mia casa a Palm Beach - ha detto - ma incoraggio il loro immediato rilascio, anche se sono stati redatti da democratici della sinistra radicale e possibili futuri oppositori, che hanno un forte e potente interesse ad attaccarmi».

Giovedì, durante il suo breve intervento stampa, Garland ha annunciato che il suo dipartimento aveva presentato una mozione per chiedere che il mandato di perquisizione venisse reso pubblico, dando tempo a Trump sino alle 21 (ora italiana) di ieri per decidere se opporsi o meno alla diffusione. 

Quanto accaduto proprio non va giù al tycoon il quale oltre a ribadire di essere vittima di una caccia alle streghe a sfondo politico, si è lamentato anche per il trattamento riservato dagli agenti dell'Fbi, definiti «scassinatori», al guardaroba di Melania. «Hanno frugato tra vestiti e oggetti personali.

Hanno lasciato un disordine considerevole. Wow!», scrive sempre su Truth. L'ex presidente appare intanto oggetto di azioni simultanee da parte delle autorità giudiziarie. A finire nel mirino è stata questa volta la Trump Organization e il direttore finanziario di lunga data, Allen Weisselberg, che andranno a processo il 24 ottobre in un caso di frode fiscale, dopo che un giudice dello stato di New York ha respinto la loro richiesta di archiviare il caso. 

Il tycoon non è imputato (la vicenda è diversa da quella per cui Trump è comparso in Procura a New York mercoledì avvalendosi della facoltà di non rispondere) ma riguarda comunque la holding di famiglia accusata di aver pagato alcuni dipendenti con beni non dichiarati per evitare le imposte sul reddito. Weisselberg, 74 anni, è considerato il principale beneficiario dell'operazione, avendo ottenuto in compenso un appartamento di lusso a Manhattan e due Mercedes.

Su un altro fronte di battaglia legale, quello in Georgia, dove è imputato di interferenze elettorali, l'ex inquilino della Casa Bianca ha annunciato di aver assoldato l'avvocato delle stelle Drew Findling. Il legale ha rappresentato Cardi B, Gucci Mane e Mikos, e il suo soprannome è #BillionDollarLawyer, a sottolineare come lui stesso sia ritratto da «star del foro». Il legale stellato non ha lesinato critiche al tycoon in passato e non ne fa certo ammenda: «Non ritengo che scegliamo i nostri clienti sulla base di razza, orientamento sessuale, genere e politica - ha commentato -. Ognuno di noi ha la sua vita privata e le sue opinioni politiche, io non mi scuso per le mie». 

Fra.Sem. per “La Stampa” il 13 agosto 2022.  

«Con Donald Trump sono stati usati due pesi e due misure, l'obiettivo è ottenere informazioni sul 6 gennaio 2021, ma il mandato da solo chiarirà poco. L'azione delle procure è concertata ma non impediranno all'ex presidente di correre di nuovo». A dirlo è Alan Dershowitz, avvocato, giurista, professore di Harvard e legale di Trump nel caso di impeachment per il Russiagate. 

Che idea si è fatto del raid a Mar-a-Lago?

«È stata un'azione sbagliata, perpetrata per intimidire, molto poco ortodossa. Quanto fatto nei confronti di Trump conferma il doppio standard usato dalla Giustizia, non è andata così ad Hillary Clinton o all'ex consigliere per la Sicurezza nazionale Sandy Berger, entrambe stelle sulle quali grava il sospetto di aver sottratto informazioni classificate. Nessuna delle due è stata raggiunta da un mandato di perquisizione». 

Cosa ne pensa della richiesta del ministro della Giustizia Merrick Garland di rendere pubblico il mandato di perquisizione?

«Troppo poco e troppo tardi. Avrebbe dovuto chiederne la pubblicazione sin dal primo giorno, quando è stata resa nota la notizia della perquisizione. In realtà ad essere reso pubblico dovrebbe essere anche l'affidavit. 

Il mandato di perquisizione in sé è un modulo schematico che serve solo per scopi burocratici. L'affidavit è il documento di maggior valore perché contiene le informazioni che sono state fornite, da chi e in quali circostanze. Però nessuno ne ha parlato, il ministro Garland non mi sembra ne abbia fatto menzione».

Quanto sta accadendo ha a che fare solo dei documenti non consegnati agli Archivi nazionali?

«Il vero obiettivo del raid era trovare informazioni riguardo i fatti del 6 gennaio 2021.

La storia dei documenti è stata utilizzata come scusa, ricorrere a un mandato di perquisizione per questioni riguardanti materiale classificato, specie nei confronti di un ex presidente o di un'alta carica dello Stato, è qualcosa che non è ma successo. La vicenda degli Archivi nazionali è solo un pretesto». 

Cosa ne pensa della questione dei dossier sulle armi nucleari?

«Dobbiamo attendere. Credo che l'affidavit che ho menzionato possa essere di aiuto in questo senso. Ripeto a mio avviso si poteva procedere in maniera diversa chiedendo un'ingiunzione alla Corte sulla trasmissione dei documenti. Sarà interessante capirne di più e procedere poi a una legittima comparazione con i metodi e le procedure utilizzate per Hillary Clinton».

Ora si è aggiunta il procedimento penale sulla Trump Organization della corte di New York, cosa ne pensa?

«Sono sicuro che si tratta di un'operazione concertata, di solito le diverse agenzie e le procure si sentono e si informano a vicenda. Quindi sono sicuro che Georgia, New York, Washington e Palm Beach in Florida lavorano in coordinamento fra loro. Detto questo la coincidenza temporale non la leggerei attraverso il prisma delle elezioni di metà mandato, non credo sia quello il punto». 

Allora non è vero che si tratta di una caccia alle streghe come dice Trump?

«Qualsiasi cosa riguardi un ex presidente è una questione politica, specie quando c'è un mandato di perquisizione di mezzo. A mio avviso la contaminazione politica in questa vicenda riguarda il doppio standard applicato per Hillary Clinton e Sandy Berger rispetto a Trump. 

Questa è una vicenda che ha forti contaminazioni politiche e su cui servirebbero delle chiare spiegazioni delle istituzioni e delle autorità coinvolte». 

Cosa rischia Trump?

«Il rischio è serio, c'è un'indagine penale in corso che potrebbe portare a una condanna e alla prigione. Quello che invece Trump non rischia è che, qualsiasi cosa accada, può correre per la presidenza degli Stati Uniti, anche se viene incriminato e addirittura può correre dalla prigione. 

In nessun modo il Congresso o il dipartimento di Giustizia gli possono impedire di candidarsi per le elezioni presidenziali se vengono applicati i criteri costituzionali». 

Ha ancora presa sulla base del partito tale da aspirare di nuovo alla Casa Bianca?

 «Non sono un sondaggista e non sono un sostenitore di Trump, ho votato contro di lui due volte e se dovesse correre di nuovo voterei ancora contro. Sono un democratico liberale, credo nello Stato di diritto e nella Costituzione. E credo che la costituzione sia il punto di riferimento di entrambi i partiti politici, democratico e repubblicano». 

Però tutto questo potrebbe essere un boomerang per i Dem

«Potrebbe esserlo, come tanti altri elementi lo sono per l'una o l'altra parte. Succedono cose strane, ad esempio le recenti decisioni della Corte Suprema possono essere paradossalmente un aiuto ai democratici e in un altro caso lo possono essere per i repubblicani. Ogni azione che riguardi la vita dei cittadini ha conseguenze politiche».

DAGONOTA il 10 agosto 2022.

In una dichiarazione ottenuta in esclusiva dal DailyMail.com, Donald Trump torna ad attaccare la procuratrice generale di New York, Letitia James, che ieri aveva già definito “razzista”, affermando che sta facendo campagna elettorale con l'obiettivo di "prendere e distruggere Trump" e che la sua indagine non è altro che una caccia alle streghe. 

Trump l'ha definita "un politico fallito che intenzionalmente, insieme ad altri, sta portando avanti questa falsa crociata durata anni che ha sprecato innumerevoli dollari dei contribuenti, il tutto nel tentativo di sostenere la sua carriera politica".

Ha anche criticato il fatto che si sia concentrata su di lui, mentre "New York sta subendo il peggior tasso di omicidi, droga e criminalità in generale da molti decenni". 

I criminali si stanno scatenando, sparando, tagliando e ferendo le persone sui marciapiedi di New York, mentre lei e il suo ufficio spendono una grande percentuale del loro tempo e del loro denaro per la loro vendetta, ha detto. 

Indossando un abito blu con cravatta rossa, l'ex presidente ha lasciato la Trump Tower per affrontare l'interrogatorio, ma ha specificato che non risponderà alle domande della James, invocando il quinto emendamento.

Da lastampa.it il 10 agosto 2022.

Donald Trump ha annunciato di essersi rifiutato di rispondere alle domande dell'ufficio del procuratore generale di New York Letitia James, dal quale era atteso oggi per testimoniare, sotto giuramento, nell'inchiesta sulle presunte frodi fiscali della Trump Organization, la società che amministra tutte le attività della famiglia del tycoon. Lo afferma Trump in una nota.

«Ho rifiutato di rispondere alle domande in base ai diritti che sono concessi a ogni cittadino dalla Costituzione americana» dice Trump che invoca quindi il Quinto Emendamento, che consente di non testimoniare contro se stessi, con il procuratore di New York. «Una volta mi è stato chiesto: 'se si è innocenti perché invocare il Quinto Emendamento?' Ora so la risposta. Quando la tua famiglia, la tua società e tutte le persone nella tua orbita diventano target di una infondata caccia alla streghe motivata politicamente non si ha altra scelta - mette in evidenza Trump - . Se avevo qualche dubbio al riguardo, questi sono stati spazzati via dal raid dell'Fbi due giorni prima della deposizione. Non ho altra scelta perché l'attuale amministrazione e molti procuratori in questo paese hanno perso la decenza morale e etica».

Ieri l’attacco alla procuratrice: “Razzista”

«A New York City stasera. Domani vedrò il procuratore generale razzista di New York, per il proseguimento della più grande caccia alle streghe nella storia degli Usa», ha commentato ieri sera l'ex presidente sul suo Truth Social. «La mia grande società, e io stesso, veniamo attaccati da tutte le parti. Repubblica delle banane!». 

L'Fbi ha vietato allo staff e ai legali di Donald Trump di avvicinarsi e assistere al «raid a Mar-Lago. A tutti è stato chiesto di lasciare la proprietà»: gli agenti «volevano restare soli senza alcun testimone che vedesse cosa stavano facendo, prendendo o, speriamo di no, piazzando delle prove». Lo afferma Donald Trump. «Perché hanno insistito a non avere nessuno? Nessun raid c'è mai stato per Obama o Clinton nonostante le grandi dispute che avevano», aggiunge.

L'interrogatorio di oggi è solo un altro di tutta una serie di guai legali che vedono protagonista il tycoon. Due giorni fa l'Fbi ha perquisito la sua tenuta di Mar-a-Lago in Florida, nell'ambito dell'indagine federale per stabilire se siano stati sottratti documenti riservati che sarebbero dovuti rimanere alla Casa Bianca, dopo la fine del suo mandato presidenziale.

L'indagine civile per presunta frode fiscale - guidata da Letitia James - riguarda invece la società di Trump (la Trump Organization) ed è volta a verificare la veridicità delle valutazioni di proprietà che comprendono tanto grattacieli come campi da golf. Secondo la tesi della procura, i dati forniti dalla Trump Organization potrebbero essere fuorvianti per le autorità fiscali, e le spese - così nell'inchiesta - sarebbero state gonfiate.

Usa, l’Fbi perquisisce la tenuta di Donald Trump a Mar-A-Lago. Il Domani il 9 agosto 2022

Gli agenti cercavano documenti che l’ex presidente avrebbe trafugato dalla Casa Bianca. Ma secondo lui sè è trattato di un raid illegale: «Sono tempi bui per la nostra nazione», ha scritto

Lo ha confermato lo stesso Donald Trump: nella notte italiana, gli agenti dell’Fbi si sono presentati a sorpresa nella tenuta dell’ex presidente degli Stati Uniti a Palm Beach, in Florida. Nel golf club di Mar-a-Lago, dove si è trasferito da quando ha lasciato la Casa Bianca, gli agenti hanno cercato alcuni documenti in una cassaforte e altri sono stati portati via. Non è mai successo nulla di simile nella storia americana. Si sospetta che quei documenti dovessero essere conservati nell’archivio di stato della Casa Bianca e invece Trump li ha portati via con sé. Ogni documento trafugato rischia di rappresentare la prova di un reato federale.

«SOTTO ASSEDIO»

Per Trump è stata invece un’operazione a orologeria, un attentato alla sua candidatura a presidente nel 2024 (in realtà ancora non annunciata ufficialmente). «La mia bella casa a Mar-a-Lago, Palm Beach, Florida, è in questo momento sotto assedio, occupata da un esteso numero di agenti Fbi», ha scritto. «Sono tempi bui per la nostra nazione».

La portavoce del dipartimento di Giustizia, Dena Iverson, interpellata dai media americani, non ha rilasciato dichiarazioni. E non ha nemmeno spiegato se il procuratore generale Merrick Garland l'avesse autorizzata personalmente. L'intervento sarebbe però arrivato poche ore dopo l'incontro tra l'ex procuratore John Rowley, difensore di Trump, e uomini del dipartimento Giustizia. 

Come racconta il New York Times, una ventina di sostenitori dell'ex presidente si sono radunati dall'altra parte della strada rispetto alla tenuta. Alcuni brandivano le bandiere Trump-Pence della loro campagna per le presidenziali del 2020. Altri invece indossavano il berretto rosso con la scritta “Make America Great Again”.

Eric Trump, figlio dell’ex presidente, ha confermato che il raid aveva lo scopo di verificare la presenza o meno dei documenti trafugati.

Il tramonto di Trump nella sua Mar-a-Lago. La destra agita il gran complotto dell’Fbi. ENRICO DEAGLIO su Il Domani il 09 agosto 2022

L’ex presidente ha reagito con furia alla perquisizione della sua tenuta a Mar-a-Lago, in Florida, dichiarando l’azione dell’Fbi illegittima. Una sua candidatura alle elezioni del 2024 sarebbe il segno di un’estremizzazione ormai senza ritorno della vita politica americana.

I trumpisti hanno immediatamente chiesto vendetta, parlano di colpo di stato, abuso di potere, chiedono la testa del capo del Fbi, Wray, e del ministro di giustizia Garland.

È evidente che la perquisizione a Mar a Lago cambierà tutta la vita politica americana, come aveva fatto l’insurrezione del 6 gennaio.

Siamo all’ultimo atto della grande opera? No, ma certo stiamo andando verso la fine. Il set è in Florida, dove Citizen Kane aveva la sua Xanadu e dove Donald Trump passa il suo esilio. Ecco le immagini della immensa villa di Mar-a-Lago nella notte, la silhouette delle altissime palme, i lampeggianti del Fbi arrivato in forze. La cassaforte con i segreti dell’ex presidente! Gli agenti forzano la serratura, sanno benissimo quello che cercano.

La soffiata deve essere stata molto precisa se il ministro della Giustizia, il mite democratico Merrick Garland ha autorizzato l’inaudito raid. Ma cosa cerca Fbi? Carte, forse una carta in particolare. Documenti top secret che Trump si è portato via dalla Casa Bianca, 15 scatoloni (lui dice «di ricordi») che da tempo la giustizia gli richiede.

E deve essere una carta importante, qualcosa che coinvolge la “sicurezza nazionale” se Garland si è deciso a un passo così estremo. Gli esperti legali affollano le televisioni e in genere ripetono quello che si intuisce: i documenti che l’Fbi ha cercato (e trovato?) sono relativi all’inchiesta sul 6 gennaio sull’assalto a Capitol Hill e preludono all’incriminazione dell’ex presidente.

IL PRECEDENTE CLINTON

Per trovare un precedente bisogna andare agli ultimi giorni della campagna per le presidenziali del 2016. Allora era l’improbabile palazzinaro biondo contro la navigata Hillary Clinton che era già stata alla Casa Bianca con il marito Bill e poi era stata segretario di stato.

Trump concludeva i suoi comizi invitando la platea a metterla in prigione (lock her up! Lock her up!) e il terribile crimine che Hilary avrebbe commesso era di essersi appropriata delle mail in cui erano nascosti innominabili segreti di depravazione politica e personale.

Ricorderete che Trump fece un diretto appello al suo amico Vladimir Putin per trovare le mail, che queste infatti ricomparvero, ma non c’era niente di speciale; ma… come nelle fiabe, l’Fbi, indagando su un caso di molestia sessuale risalirono al marito separato dell’assistente speciale di Hilary e sequestrarono il laptop che i due avevano in comune.

I repubblicani lanciarono una campagna forsennata chiedendo al Fbi di intervenire e a dieci giorni dal voto, il capo dei federali, James Comey dichiarò ufficialmente che, sì, stavano indagando sul contenuto di quel laptop. Fu l’ultima sorpresa delle elezioni e una mastodontica campagna diretta da Steve Bannon invase i social network con la notizia che Hillary Clinton stava per essere arrestata.

Trump vinse, ancorché per pochissimi voti. Comey (democratico) ammise poi di aver agito sotto pressione dei repubblicani, volendo apparire come superpartes. (A proposito: le mail ritrovate in quel computer erano assolutamente innocenti).

TERREMOTO POLITICO

Ora i tempi sono cambiati, ma sembra di essere tornati all’era predigitale: non mail, non hard drive o chiavette, ma i sani, vecchi fascicoli con l’intestazione top secret, quelli che nei film di guerra i nazisti bruciano nel caminetto, quelli che garantiscono agli ex dittatori sudamericani salvacondotti e ricatti, quelli che indicano le cifre di conti segreti in qualche paradiso fiscale.

Le immagini del “raid” stanno provocando un terremoto politico. Trump ha reagito con furia, dichiarando la perquisizione illegittima e degna di un paese corrotto del terzo mondo; si è dichiarato vittima di una persecuzione politica e ha lasciato intendere che questo episodio rafforza la sua decisione di candidarsi alle elezioni presidenziali del 2024.

Ha delle chances? Qui si entra in un terreno rischioso. In primo luogo, se Trump verrà incriminato, è costituzionalmente dubbio che possa candidarsi a un ufficio pubblico. In secondo, la sua candidatura sarebbe il segno di una radicalizzazione della vita politica americana ormai senza ritorno. I trumpisti hanno immediatamente chiesto vendetta, parlano di colpo di stato, abuso di potere, chiedono la testa del capo del Fbi, Wray, e del ministro di giustizia Garland.

ANNUNCI ESTREMI

Ci sono nomi grossi del partito repubblicano su questa linea, in primis il capo dei repubblicani alla Kevin Mccarthy, oltre ai peones più oltranzisti e folkloristici. Sean Hannity, il potente commentatore di Fox News, ha praticamente annunciato che ormai viviamo in uno stato di polizia e che l’Fbi ha il potere di arrivare nelle loro case. Ha lanciato un appello alla mobilitazione. Un altro appello, «state pronti» – e soprattutto mandate soldi – sta circolando su Telegram.

La prima scadenza sono le elezioni di midterm, tra due mesi e mezzo: i trumpisti chiedono la destituzione di tutto il vertice del Fbi e la cacciata del ministro di Giustizia; le due cose sarebbero possibili, secondo loro, se i repubblicani riprendessero il controllo del Senato, che fino a ieri sembrava orientarsi per una vittoria dei democratici. Funzionerà questa linea?

Difficile da prevedere; le elezioni di midterm, per il rinnovo del Senato e della Camera, si svolgono su temi economici e sociali, non ci sono i nomi di Trump o di Biden sulle schede. I senatori repubblicani che vogliono conservare il loro seggio, e parecchi do loro sono in bilico, sono pronti ad andare allo scontro finale, alla dichiarazione virtuale dell’inizio della seconda guerra civile americana?

E Trump? È stato molto furbo oppure molto fesso a mettere la pistola fumante direttamente nella sua cassaforte? Davvero l’Fbi l’ha forzata, o l’ha aperta senza particolare sforzo? C’è una talpa, a Mar a Lago?

La parola ai Federali, come nei migliori film Lunga storia, quella del Bureau, e del suo mitico capo e fondatore, il tenebroso J Edgar Hoover, che sorvegliò, neppure tanto discretamente, la vita privata e le debolezze di ben cinque presidenti. Finora sono stati in silenzio, ma questo evidentemente non potrà durare a lungo. La sceneggiatura prevede, anzi reclama, un altro colpo di scena…

Piccola nota. È evidente che la perquisizione a Mar a Lago cambierà tutta la vita politica americana, come aveva fatto l’insurrezione del 6 gennaio. Avrà un peso anche nella politica italiana? Berlusconi – lui che è stato perseguitato dalla giustizia - avrà qualcosa da dire? E gli ultra trumpiani Salvini e Meloni? L’agosto continuerà ad essere pieno di sorprese, per fortuna           

L’Fbi nella residenza di Trump cercava documenti nucleari riservati. Il Domani il 12 agosto 2022

Il Washington post rivela che gli agenti federali cercavano documenti collegati alle armi nucleari e quindi con grandi implicazioni sulla sicurezza mondiale

Secondo quanto rivelato dal Washington post, il blitz dell’Fbi nella residenza di Mar-a-Lago dell’ex presidente americano Donald Trump serviva a recuperare documenti top secret. Non si sa ancora se fossero relativi all’arsenale americano oppure anche a quelli di altri paesi.  

L’operazione è stata ordinata direttamente dal procuratore generale Merrick Garland, che ha spiegato che altri tentativi meno intrusivi di recuperare le carte erano falliti. 

Gli agenti federali nei giorni scorsi avevano cercato di recuperare il materiale che Trump aveva portato con sé lasciando la Casa bianca. L’archivio di stato cercava da tempo di avere indietro i materiali. Quando era riuscito a recuperarne una parte aveva individuato carte coperte da segreto e allertato il dipartimento di Giustizia. 

Mesi prima che l'Fbi entrasse a Mar-a-Lago, Trump aveva ricevuto un mandato di comparizione a cui non avrebbe dato seguito.

Ieri un alto funzionario del dipartimento ha anche richiesto che venga reso pubblico un inventario del materiale sequestrato e il mandato di perquisizione. Il giudice che si occupa del caso ha dato 24 ore di tempo a Trump per opporsi alla mozione. L’ex presidente ha il mandato da lunedì scorso, quando è stato effettuato il blitz, ma per il momento ha scelto di non pubblicarlo. Opporsi alla pubblicazione potrebbe però dare l’impressione che il tycoon abbia qualcosa da nascondere. 

DOPO LA PERQUISIZIONE A MAR-A-LAGO. Gli agenti indagano Donald Trump per violazioni dell’Espionage Act. Il Domani il 12 agosto 2022

Nei giorni scorsi l’Fbi aveva perquisito la sua residenza a Mar-a-Lago trovando documenti classificati. Il procuratore generale Merrick B. Garland sta indagando su potenziali reati, tra cui la gestione scorretta di informazioni sulla difesa e la distruzione di documenti

Secondo quanto riportano il New York Times e altre testate internazionali, gli agenti che hanno perquisito la residenza di Donald Trump a Mar-a-Lago in Florida lo avrebbero fatto con l’intento di indagare su potenziali violazioni dell’Espionage Act da parte dell’ex presidente degli Stati Uniti.

È quanto trapela dal mandato di perquisizione desecretato – anche se ancora non è stato reso pubblico – dal tribunale federale della Florida dopo la mozione presentata dal Dipartimento di Giustizia americano e con l’assenso dei legali di Donald Trump.

Stando al contenuto del documento, il procuratore generale Merrick B. Garland sta indagando su potenziali reati, tra cui anche la la gestione scorretta di informazioni sulla difesa e la distruzione di documenti. 

COSA HANNO TROVATO GLI AGENTI

Secondo quanto riporta il New York Times, durante la perquisizione avvenuta lunedì scorso nella residenza di Trump sono stati sequestrati undici documenti, tra questi, quattro documenti contrassegnati come top secret, tre segreti e tre classificati come riservati. Secondo quanto riportato dal Washington Post, alcuni dei documenti erano collegati alle armi nucleari e quindi con grandi implicazioni sulla sicurezza mondiale.

Tra i file sequestrati dagli agenti dell’Fbi c’erano documenti con la dicitura criptica: «Informazioni sul presidente della Francia». Non è chiaro il contenuto dei documenti e l’Eliseo non ha ancora commentato la notizia.

LA RISPOSTA DI TRUMP

L’ex presidente repubblicano ha pubblicato un post tramite il suo account social di Truth in cui ha detto: «Numero uno, era tutto declassificato. Numero due, non avevano bisogno di 'sequestrare' nulla. Avrebbero potuto ottenerlo quando volevano senza fare politica e irrompere a Mar-a-Lago». 

COME NASCE LA PERQUISIZIONE

Gli agenti federali nei giorni scorsi avevano cercato di recuperare il materiale che Trump aveva portato con sé lasciando la Casa Bianca. Da tempo l’archivio di stato cerca di avere indietro i materiali. Quando era riuscito a recuperarne una parte aveva individuato carte coperte da segreto e quindi ha allertato il dipartimento di Giustizia.

Mesi prima che l’Fbi entrasse a Mar-a-Lago, Trump aveva ricevuto un mandato di comparizione a cui non avrebbe dato seguito.

Wp: "L'Fbi a casa di Trump cercava documenti sulle armi nucleari". Ucciso l'uomo che ha provato a fare irruzione in una sede dell'Agenzia. La Repubblica il 12 Agosto 2022.  

Non è chiaro se questo materiale sia stato effettivamente trovato nella tenuta di Mar-a-Lago

Nel giallo sulle ragioni del blitz nella tenuta di Donald Trump in Florida da parte dell'Fbi, prende corpo un'ipotesi legata alle armi nucleari. Secondo il Washington Post - che cita fonti esclusive vicine alle indagini - i federali cercavano proprio documenti top secret sulle armi atomiche. Il timore è che potessero finire in mani sbagliate. Ed è la prova della profonda preoccupazione, nell'amministrazione americana, per il tipo di informazioni in possesso dell'ex presidente a Mar-a-Lago. 

Si tratta di documenti generalmente in possesso di un numero molto limitato di persone. Non è chiaro se queste carte siano state effettivamente recuperate nella tenuta di Trump né se le informazioni riguardino armi in possesso degli Stati Uniti o di altre potenze straniere. Né Trump né il dipartimento di Giustizia hanno voluto commentare la notizia. Ma l'ex presidente, sul suo social Truth, si è scagliato contro Biden: "Non sapeva del raid? Non ci crede nessuno".

Intanto l'uomo armato che ha cercato di irrompere nella sede dell'Fbi a Cincinnati, in Ohio, è stato ucciso. Dopo ore di inseguimento e trattative affinché si consegnasse alle autorità, Ricky Shiffer è stato freddato dalle forze dell'ordine in una zona rurale non lontano dalla città. Aveva provato a entrare nell'ufficio con una pistola e un fucile, probabilmente un Ar-15. Gli agenti speciali sono intervenuti subito, aprendo il fuoco. Dal quel momento è scattata una caccia all'uomo durata ore. Un segnale del clima sempre più teso nel Paese, dove le perquisizioni in Florida hanno galvanizzato la base più radicale dell'elettorato trumpiano. Con minacce di morte arrivate anche al capo dell'Fbi, Christopher Wray. 

Secondo le prime notizie, Shiffer sarebbe proprio un sostenitore dell'ex presidente americano con legami con gruppi estremisti, fra i quali uno che ha partecipato all'assalto al Congresso del 6 gennaio. L'uomo infatti sarebbe stato ripreso in un video postato su Facebook a un comizio pro-Trump a Washington la sera prima dell'assalto al Campidoglio.Il timore è che si tratti di un'azione legata al blitz dell'Fbi a casa di Trump e alla rabbia esplosa negli ambienti di destra.

Intanto, dopo giorni di ipotesi e voci incontrollate, il ministro della Giustizia Merrick Garland ha detto di aver autorizzato personalmente la perquisizione. Donald Trump non ha ancora deciso se opporsi alla mozione presentata dal dipartimento di Giustizia che intende rendere pubblico il contenuto del mandato di perquisizione.

Il tempo stringe. Entro le 15 - ha stabilito il tribunale della Florida - il dipartimento di Giustizia, che ha presentato la mozione, dovrà riferire se l'ex presidente si oppone o meno alla richiesta.

Direttore dell'Fbi minacciato di morte dai sostenitori di Trump: "Sono preoccupato". Christopher Wray, il segretario alla Giustizia Garland e gli agenti federali nel mirino dei sostenitori dell'ex presidente. La Repubblica l'11 Agosto 2022.

Si dice preoccupato Christopher Wray, direttore dell'Fbi. Colpito dalle minacce ricevute dai sostenitori di Donald Trump dopo la perquisizione da parte dei suoi agenti della residenza in Florida dell'ex presidente.

"Non è qualcosa di cui posso parlare", ha detto Wray a Omaha, in Nebraska, sul blitz dei federali. Tuttavia, ha aggiunto, "le minacce alle forze dell'ordine sono preoccupanti. La violenza contro le forze dell'ordine non è mai una risposta". Wray il segretario alla Giustizia, Merrick Garland, e gli agenti che hanno compiuto la perquisizione sono infatti bersagliati da critiche dei repubblicani e dalle minacce, in alcuni casi di morte, sui social dei sostenitori di Trump.

Wray, 55 anni, fu nominato alla guida dell'Agenzia proprio da Donald Trump che all'epoca disse:  "Ha un curriculum impeccabile. Ci renderà fieri". Ma da allora lo scenario è completamente cambiato. In una lettera aperta il deputato repubblicano dell'Ohio Mike Turner ha chiesto al direttore dell'Fbi di presentarsi davanti al Congresso per dare spiegazioni "sulle azioni che ha ordinato. Chiedo un'informativa immediata alla Commissione intelligence della Camera. Meritiamo di sapere", si legge nel messaggio.

Mentre su Twitter si moltiplicano i post che invocano il taglio dei fondi all'Agenzia e la vendita di gadget e magliette con l'hashtag "defundFbi". Anche un avversario di Trump e probabile candidato alle primarie per il 2024, il senatore repubblicano Josh Hawley, ha chiesto  la rimozione di Wray. "Se ne deve andare subito. E l'Fbi deve essere riformata da cima a fondo".

Le perquisizioni nella tenuta di Mar-a-Lago - per i documenti che avrebbe sottratto dalla Casa Bianca - hanno avuto l'effetto di scatenare e galvanizzare l'elettorato più estremista di Trump. Ma è solo uno dei fronti giudiziar. Il tycoon è alle prese anche con un'altra grana: le indagini della procuratrice di New York sulla possibilità che abbia gonfiato il valore dei suoi asset per ottenere condizioni fiscali migliori. Trump si è appellato al quinto emendamento della Costituzione e si è rifiutato di rispondere alle domande.

Chi è il giudice Bruce Reinhart che ha autorizzato le perquisizioni a casa di Trump. Anna Lombardi su La Repubblica il 10 Agosto 2022. 

Bruce Reinhart è un giudice molto stimato, ma secondo il New York Post difese i piloti che aiutavano Epstein, il miliardario condannato per pedofilia e poi suicida in carcere 

Un giudice noto per la sua "indole meticolosa", laureatosi in Legge a Princeton, che in passato ha lavorato pure alla sezione "pubblica integrità" del Dipartimento di Giustizia gestendo casi di corruzione e frode fiscale. Ecco come i colleghi della comunità legale di Palm Beach, Florida - la cittadina atlantica dove Trump ha spostato da tempo la sua residenza - descrivono Bruce Reinhart: il magistrato che ha messo la firma sul mandato di perquisizione che ha permesso agli agenti dell'Fbi di perlustrare il resort di Mar-a-Lago a caccia di documenti per nove ore e mezza.

Estratto dell’articolo di Anna Lombardi per repubblica.it il 12 agosto 2022.  

[…] Intanto ci si interroga su chi, nella cerchia di Trump, sta parlando con gli investigatori. Durante la perquisizione gli agenti sapevano infatti cosa e dove cercare: secondo il Wall Street Journal imbeccati da uno stretto collaboratore dell’ex presidente. 

I media americani già si divertono a buttar giù una lista: dove compare Mark Meadows, l’ex capo di gabinetto motivato dal rischio di incriminazione. E perfino il genero Jared Kushner. Altri ricordano invece che a fare rivelazioni cruciali sono state figure marginali: come l’ex assistente Cassidy Hutchinson, che ha descritto come The Donald cercò di strappare il volante all’agente dei servizi segreti pur di raggiungere il suo popolo a Capitol Hill. La talpa, insomma, potrebbe essere qualcuno di cui Trump non sa neanche il nome.

Marco Ventura per “il Messaggero” il 12 agosto 2022.  

Come in tutte le storie di Intelligence mischiate a clamorose vicende giudiziarie che coinvolgono i Presidenti e destinate a diventare un film, anche dietro la perquisizione-blitz di una trentina di agenti dell'Fbi nel resort Mar-a-lago di Trump a Palm Beach, Florida, c'è un informatore che appartiene alla cerchia ristretta di Donald.

Una talpa talmente vicina all'ex Presidente, da sapere che in una cassaforte in una particolare stanza del mega-resort erano conservati documenti top secret della Casa Bianca. Documenti non consegnati da Trump, dopo un primo confronto con gli investigatori, nelle 15 scatole restituite all'inizio dell'anno. Tant' è vero, fanno notare gli inquirenti, che gli agenti hanno prelevato nella stanza-cassaforte un'altra dozzina di box.

[…] Inoltre, i magistrati avrebbero chiesto le registrazioni video di quanti avevano avuto accesso alle stanze incriminate, e nello stesso periodo avrebbero avvicinato diversi assistenti che avevano la possibilità di vedere che cosa e chi transitava in quegli uffici. «Tra loro anche Molly Michael». 

Che è un po' come puntare l'indice su chi potrebbe aver parlato. Molly è un personaggio-chiave, perché assistente esecutiva di Trump sia allo Studio Ovale, sia a Mar-a-lago. Era lei a custodire tutte le note a mano sugli incontri anche informali del Presidente.

E il suo nome ha generato un interesse dei media quando si è saputo che nelle ore cruciali dell'assedio a Capitol Hill, lei stranamente era assente. […] I social si stanno scatenando con le supposizioni, c'è addirittura chi chiama in causa Melania Trump […]

"Legami con Epstein e donazioni ai dem": chi è il giudice che ha dato l'ok al blitz contro Trump. Francesca Salvatore su Il Giornale il 10 agosto 2022. 

Si chiama Bruce Reinhart il giudice che ha concesso l’autorizzazione all’irruzione in quel di Mar-a-Lago nella tenuta di Donald Trump. Prodotto di Princeton, ex pubblico ministero, avvocato difensore, è noto per la sua meticolosità. Magistrato dal 2018, Reinheart appare come una figura molto rispettata all'interno della comunità legale della dorata contea di Palm Beach. Ha prestato giuramento come magistrato federale nel marzo 2018 dopo essere stato nominato a maggioranza dai giudici della corte distrettuale degli Stati Uniti nel sud della Florida.

I candidati per la posizione devono essere un membro in regola del più alto tribunale di uno Stato o territorio e sono controllati da una giuria di merito composta da avvocati e non avvocati della comunità. La biografia ufficiale del giudice afferma che "ha gestito dossier che abbracciano l'intera gamma di reati federali, inclusi narcotici, crimini violenti, corruzione pubblica, frodi finanziarie, pornografia infantile e immigrazione”. Uno dei suoi dossier più “scottanti” fino ad oggi, in qualità di avvocato difensore penale, è stata la difesa del deputato democratico Tim Mahoney, un legislatore della Florida che ha corso su una piattaforma di "fede, famiglia e responsabilità personale" mentre portava avanti una serie di relazioni extraconiugali. Mahoney successivamente è stato indagato dall'FBI per aver assunto una delle sue amanti per lavorare nel suo ufficio del Congresso prima di metterla sul libro paga della sua campagna.

Il legame indiretto con Epstein

Se non si trattasse di un caso così eclatante, il suo nome figurerebbe in fondo alla cronaca di queste ore, ma un dettaglio sul proprio curriculum sta momentaneamente oscurando la vicenda principale. Reinhart, infatti, è stato avvocato difensore di alcuni ex collaboratori di Jeffrey Epstein, il magnate dalle conoscenze illustri arrestato per abusi sessuali e traffico internazionale di minorenni, morto in carcere in circostanze misteriose due anni fa. Quei dipendenti includevano la sua assistente e presunta reclutatrice di prostitute minorenni, Sarah Kellen, e Nadia Marcinkova, una delle schiave sessuali di Epstein, a sua volta poi coinvolta nei giri sordidi del miliardario, a cui è stata concessa l'immunità in un controverso patteggiamento del 2007. All'epoca, Reinhart si era appena dimesso dall'ufficio del procuratore degli Stati Uniti della Florida meridionale e dal giorno successivo si era occupato dei casi di Kellen e Marcinkova.

Reinhart è stato in seguito citato in una causa civile da due delle vittime di Epstein, che lo hanno accusato di aver violato le politiche del dipartimento di Giustizia. Reinhart alla fine ha negato le accuse e ha insistito sul fatto che non faceva parte delle indagini federali su Epstein, come riportato da Politico e dal New York Post. La causa per i diritti delle vittime intentata nel 2011 ha portato a sostenere che Reinhart avrebbe violato la politica del dipartimento di giustizia cambiando posizione lavorativa e sfruttando il suo accesso a informazioni riservate sul caso per assicurarsi un lavoro con Epstein. Reinhart ha negato di avere accesso a "informazioni riservate e non pubbliche sulla questione Epstein", ma l'ufficio del procuratore degli Stati Uniti ha affermato il contrario, secondo il Miami Herald.

Le donazioni ai partiti

Reinhart è anche un donatore bipartisan abituale nelle campagne elettorali made in Usa: i registri finanziari delle campagne federali mostrano che nel 2008 ha donato 1.000 $ alla campagna presidenziale del presidente Barack Obama e altrettanti all'Obama Victory Fund, un comitato congiunto di raccolta fondi. Aveva anche donato in precedenza all’ex governatore repubblicano della Florida Jeb Bush nel 2016 quando era in corsa per la presidenza. I registri statali mostrano che in diversi cicli elettorali, Reinhart ha donato alcune migliaia di dollari a una manciata di candidati, tra cui Dave Aronberg, nonché candidati in corsa per la carica di giudice, procuratore di Stato, difensore d'ufficio e un democratico che si è candidato alla Camera della Florida. Nulla di sconvolgente, considerando come il finanziamento alla politica viene percepito negli Stati Uniti, ovvero un diritto di ogni cittadino.

Non appena è stato reso il suo nome il web si è scatenato e su Twitter sono in molti a chiederne la testa al grido di “Impeach Bruce Reinheart”; c’è chi poi grida al complotto, considerando che la biografia di Reinheart non risulta più accessibile dal sito della sua corte di riferimento. Reinheart, notizia non confermata, sembrerebbe inoltre essere nel board of trust di una sinagoga della Florida meridionale. I lealisti di Trump, desiderosi di mettere in discussione la legittimità del raid dell'FBI, sul web si sono scatenati sottolineando l’incoerenza tra il suo ruolo nel caso Epstein e le rigide prescrizioni della religione ebraica. La Sinagoga, tuttavia, non ha ancora dato risposta alla stampa sulla richiesta di eventuali chiarimenti.

Trump in silenzio a New York al processo per frode fiscale. "Per il quinto emendamento". Valeria Robecco l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

New York Donald Trump non parla. L'ex presidente americano si appella al Quinto Emendamento e rifiuta di rispondere alle domande nell'ambito delle indagini della procuratrice generale di New York Letitia James sulla sua società e sulla possibilità che abbia gonfiato il valore dei suoi asset con il fisco e gli istituti di credito per spuntare condizioni finanziarie migliori. «Ho rifiutato di rispondere in base ai diritti che sono concessi a ogni cittadino dalla Costituzione degli Stati Uniti», spiega in una lunga dichiarazione in cui nega le irregolarità e accusa il governo Usa di averlo preso di mira ingiustamente. Trump, ha spiegato il suo legale al termine dell'audizione, ha continuato a ripetere «la stessa risposta» dopo aver invocato il Quinto Emendamento durante le quattro ore di interrogatorio.

«Una volta mi è stato chiesto: Se si è innocenti perché invocare il Quinto Emendamento? Ora so la risposta. Quando la tua famiglia, la tua società e tutte le persone nella tua orbita diventano obiettivo di una infondata caccia alle streghe motivata politicamente non si ha altra scelta - tuona il tycoon - Se avevo qualche dubbio al riguardo, questi sono stati spazzati via dal raid dell'Fbi due giorni prima della deposizione. Non ho altra scelta perché l'attuale amministrazione e molti procuratori in questo Paese hanno perso la decenza morale ed etica». Trump ricorda quindi le parole pronunciate durante la campagna elettorale del 2016, quando attaccando i collaboratori di Hillary Clinton che si erano appellati al Quinto emendamento per non testimoniare durante l'inchiesta sull'emailgate dell'allora candidata democratica, aveva detto: «La mafia si appella al Quinto emendamento, se sei innocente, perché devi farlo?». «Non ho fatto nulla di sbagliato ed è per questo che dopo cinque anni di indagine i governi federale, statale e locale, insieme alle fake news, non hanno trovato nulla», continua The Donald, secondo cui la procuratrice di New York da tempo sta conducendo una campagna contro di lui: «Ha creato una piattaforma politica e fatto carriera attaccando me e la mia società». Già alla vigilia della deposizione sotto giuramento, aveva scritto sul suo social Truth: «Domani vedrò la procuratrice generale razzista di New York, per il proseguo della più grande caccia alle streghe nella storia Usa. La mia grande società, e io stesso, veniamo attaccati da tutte le parti. Repubblica delle banane!». Dal 2019, Trump ha affrontato indagini penali e civili sulle sue pratiche commerciali presso la Trump Organization relative al periodo precedente il suo ingresso alla Casa Bianca, e la sua comparizione di ieri era considerata una potenziale svolta cruciale, peraltro in un momento particolarmente delicato per l'ex presidente dopo il blitz dell'Fbi nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida. Il tycoon già in passato ha acconsentito a deporre, ma per questa specifica istanza si è mostrato a più riprese riluttante, come sottolinea il New York Times, al punto da riuscire a rinviare finora la deposizione. L'ultima volta era stata posticipata dopo la morte di Ivana Trump, il 14 luglio.

I figli dell'ex presidente, Ivanka e Donald Jr, sono invece comparsi nei giorni scorsi rispondendo alle domande, mentre l'altro figlio Eric ha invocato il Quinto Emendamento (secondo cui «nessuna persona può essere obbligata, in una qualsiasi causa penale, a deporre contro se stessa») oltre 500 volte quando è' stato interrogato nell'ottobre 2020. Intanto, a Washington, una corte d'appello federale in un'indagine separata di lungo corso ha stabilito che l'ex inquilino della Casa Bianca dovrà consegnare al Congresso le sue dichiarazioni dei redditi per il periodo 2015-2020. 

I repubblicani fanno blocco: zittita la minoranza interna. E i fan gridano alla rivolta. Marco Liconti l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Washington - Alla fine, anche Mitch McConnell ha dovuto cedere. Il potente leader della minoranza repubblicana al Senato, dopo un'intera giornata nella quale aveva evitato di pronunciarsi sulla perquisizione dell'Fbi nel resort di Mar-a-Lago, si è dovuto piegare alla narrativa imposta da Donald Trump, unendosi ai cori di sdegno che giungevano dal partito. «Il Paese merita un'approfondita e immediata spiegazione», ha detto McConnell, senza però mai nominare il nome dell'ex presidente. Lo stesso ha detto l'ex vice presidente Mike Pence, che secondo Trump «meritava di essere impiccato» dalla folla che assaltò Capitol Hill, perché si era rifiutato di violare la Costituzione e annullare il voto del 2020. McConnell e Pence sono (erano) forse gli oppositori di Trump più influenti all'interno del Partito repubblicano. La loro resa è il segnale eloquente che il «Grand Old Party», in questa fase della sua storia, è quasi del tutto ridotto al ruolo di semplice comitato elettorale per la ormai quasi certa ricandidatura di Trump alla Casa Bianca.

Nemmeno l'ultimissimo episodio della sitcom «Trump contro tutti», vale a dire il rifiuto dell'ex presidente di rispondere alle domande dei magistrati di New York che indagano sui suoi affari, con tanto di appello al Quinto Emendamento, alla stregua di un bancarottiere qualunque, sembra instillare dubbi. I repubblicani sono con Trump e col suo movimento «Maga» (Make America Great Again). L'orizzonte ultimo sono le presidenziali del 2024, nelle quali l'ex tycoon vuole giocarsi la rivincita, incurante delle mille grane giudiziarie. Nel mezzo, ci sono le elezioni di medio termine di novembre, precedute dalla lunga liturgia delle primarie che si concluderà nelle prossime settimane. A conferma dell'umore complessivo dell'elettorato del partito, un dato su tutti: dei 10 deputati che nel 2021 votarono per l'impeachment di Trump dopo l'assalto al Congresso, finora 7 sono stati bocciati, sconfitti da candidati sostenuti dall'ex presidente. Nel complesso, i candidati trumpiani nelle primarie hanno prevalso sui rivali di partito più moderati. La vittima più illustre di questa epurazione interna potrebbe essere Liz Cheney, che il 16 agosto si presenterà davanti agli elettori repubblicani del Wyoming per chiedere la nomination. La figlia dell'ex vice presidente Dick, il «falco» dell'amministrazione di George W. Bush, rischia una pesante uscita di scena, nonostante gli spot elettorali nei quali il padre definisce Trump «la più grande minaccia nella storia della nostra Repubblica». La «colpa» di Liz Cheney è quella di essersi schierata apertamente contro Trump e di essere vice presidente della Commissione della Camera che punta a dimostrare le responsabilità dell'ex presidente nella tentata insurrezione del 6 gennaio del 2021.

Quel clima da «guerra civile» è nuovamente evocato in queste ore sul web e sui social media dai tanti account pro Trump. L'Fbi ha fatto sapere di avere alzato la soglia di attenzione. Un altro segnale del vantaggio politico acquisito da Trump dopo la perquisizione degli agenti federali nel suo resort in Florida è l'insolita uscita di Joe Biden. Il presidente, che attraverso la sua portavoce ha ribadito più volte di non essere stato avvertito in anticipo del blitz dell'Fbi nella residenza di Trump, ha usato il proprio account Twitter privato per un attacco politico. La scelta, ha detto Biden, è tra «l'ultra destra repubblicana, che attacca le nostre libertà, e i Democratici che lottano per difenderle».

Blitz Fbi a villa Trump, sequestrati 15 faldoni di documenti segreti. La furia di Donald. "È un altro Watergate". L'Fbi irrompe nel tempio sacro del trumpismo e l'ex presidente americano grida al nuovo Watergate. Valeria Robecco il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.

L'Fbi irrompe nel tempio sacro del trumpismo e l'ex presidente americano grida al nuovo Watergate. Gli agenti federali si sono presentati a sorpresa nel resort di Mar-a-Lago a Palm Beach, in Florida, diventata la residenza ufficiale di Donald Trump da quando ha lasciato la Casa Bianca nel gennaio 2021, perquisendo la casa dell'ex Comandante in Capo, un raid clamoroso che non ha precedenti nella storia Usa. A dare la notizia bomba è stato lo stesso tycoon, mentre per ora nessuna conferma è arrivata dal dipartimento di Giustizia o dal Bureau.

LA PERQUISIZIONE

Gli agenti si sono recati a Mar-a-Lago mentre Trump era a New York, e si sono concentrati sugli uffici e sugli alloggi personali dell'ex presidente: hanno agito in base a un mandato approvato da un giudice, il che suggerisce che avevano probabili motivi per ritenere che fosse stato commesso un crimine. Non è chiaro cosa stessero cercando, ma il blitz è avvenuto nell'ambito delle indagini sui 15 scatoloni di documenti (tra cui potenzialmente alcuni classificati) che The Donald avrebbe portato via dalla Casa Bianca dopo la fine del mandato e che invece avrebbero dovuto essere consegnati agli archivi nazionali ai sensi del Presidential Records Act. Ma la perquisizione potrebbe pure avere a che fare con l'indagine sull'assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021, dopo che nelle settimane scorse il cerchio si è stretto attorno a Trump e il dipartimento di Giustizia ha iniziato a indagare sul suo comportamento nei giorni precedenti alla rivolta. Quel che è certo è che gli agenti - arrivati nella residenza intorno alle 10 di mattina di lunedì - hanno portato via scatole di documenti, e secondo quanto rivelato dalla Cnn hanno perquisito anche la cassaforte.

LE ACCUSE DI TRUMP

«Questi sono tempi bui per la nostra nazione, la mia bella casa, Mar-a-Lago a Palm Beach, è attualmente sotto assedio, perquisita e occupata da un folto gruppo di agenti dell'Fbi. Hanno persino fatto irruzione nella mia cassaforte!», ha tuonato l'ex presidente nel comunicato in cui ha rivelato il blitz, parlando di una «strumentalizzazione della giustizia e un attacco dei democratici di sinistra radicali che vogliono disperatamente evitare che mi candidi alle elezioni del 2024». «Dopo aver lavorato e collaborato con tutte le principali agenzie governative questo raid non annunciato nella mia residenza non era né necessario né appropriato», ha aggiunto, parlando di un nuovo Watergate. «Qual è la differenza tra questo e il Watergate? - si è chiesto - L'unica differenza è che qui sono i democratici che hanno fatto irruzione nella casa del 45esimo presidente degli Stati Uniti. Cose del genere accadono solo nei Paesi del terzo mondo».

LA FURIA DEI REPUBBLICANI

Dopo il raid dell'Fbi nella residenza di Trump i repubblicani sono partiti all'attacco, e alcuni di loro chiedono addirittura un taglio al budget dell'agenzia e del dipartimento di Giustizia. «Ho visto abbastanza, il dipartimento di Giustizia ha raggiunto uno stato intollerabile di politicizzazione armata», ha twittato il leader della minoranza del Grand Old Party alla Camera, Kevin McCarthy. «Quando i repubblicani riprenderanno la Camera - ha aggiunto - condurremo un controllo immediato di questo dicastero, seguiremo i fatti e non lasceremo nulla di intentato». Tra chi chiede un taglio dei fondi, una delle voci più dure è quella della deputata ultraconservatrice della Georgia Marjorie Taylor Greene, che su Twitter ha domandato persino l'impeachment del presidente Joe Biden, accusando i democratici di «radicalizzare le forze dell'ordine federali per eliminare i nemici politici». Quindi ha postato l'immagine di una bandiera americana capovolta seguita da un grido di battaglia in maiuscolo: «Defund the Fbi!».

LE CONSEGUENZE DEL BLITZ

L'irruzione dell'Fbi sta scatenando una bufera politica che il tycoon potrebbe usare per alimentare la sua probabile candidatura alla Casa Bianca nel 2024, visto che in passato le indagini contro Trump (già messo sotto accusa due volte) non hanno fatto altro che aumentare il suo consenso tra i sostenitori. La notizia della perquisizione è uno dei colpi di scena più sconcertanti nella storia dell'ex presidente Usa, e ora potrebbe diventare il cavallo di battaglia della sua campagna elettorale, oltre a rischiare di infiammare ulteriormente gli animi in una nazione profondamente divisa, con milioni di fan di Trump che credono alla teoria delle elezioni rubate. Lui, intanto, non ha perso tempo, pubblicando subito un video di 4 minuti sul suo social media Truth in cui afferma: «Siamo una nazione in declino, una nazione che sta fallendo, che per molti versi è diventata uno scherzo. Ma presto torneremo ad essere grandi». Parole accompagnate da una musica apocalittica, con tanto di rumori di pioggia e tuoni, e da immagini del ritiro degli Usa dall'Afghanistan, di trivelle petroliferi e dell'aumento di casi di Covid, alternate a fotogrammi dei suoi comizi.

Un assist inaspettato per la campagna '24. Via alla raccolta fondi. "Salviamo l'America". Spot elettorale da martire per l'ex presidente. Sostegno dei repubblicani. I timori dei dem. Marco Liconti il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.

Al di là dell'esito giudiziario della vicenda, il raid dell'Fbi nel resort di Mar-a-Lago è per Donald Trump un assist politico inaspettato. Proprio mentre Joe Biden sta celebrando una serie di successi consecutivi come mai dall'inizio della sua presidenza (dall'uccisione di Al Zawahiri al referendum pro aborto in Kansas, al via libera alla sua legge di spesa su energia e sanità), il tycoon si riprende la scena e si propone ancora una volta come il candidato in pectore dei Repubblicani per le presidenziali del 2024. Secondo le voci che filtrano dal suo entourage, la perquisizione nella residenza in Florida sarà sfruttata da Trump e dai suoi fedelissimi per accelerare l'annuncio della sua candidatura alla Casa Bianca, per la quale vestirà i panni del martire politico. Un segnale eloquente è il tweet pubblicato da Dan Scavino, consigliere di lunga data di Trump e suo guru per la gestione dei social media: «DO IT - 45! #TRUMP2024».

Non è un caso che nel lungo comunicato nel quale denunciava «l'irruzione» degli agenti federali nella sua «bellissima casa», Trump abbia evocato il fantasma del Watergate. Poco conta che allora la banda male assortita inviata dal repubblicano Nixon per spiare i rivali democratici agiva nella più totale illegalità. Stavolta l'Fbi si è presentata a casa di Trump con un mandato di perquisizione e sequestro firmato da un giudice federale, alla ricerca di documenti riservati che l'ex presidente avrebbe sottratto dagli archivi della Casa Bianca. L'indagine non sarebbe quindi collegata a quella che il dipartimento di Giustizia sta conducendo sul ruolo di Trump nell'assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

A Trump non importa che il Watergate c'entri poco o nulla, così come non sembra importare ai suoi fan più accesi, che dopo la perquisizione si sono radunati davanti al resort di Mar-a-Lago per esprimergli solidarietà. È a questa «America in declino», che punta a ritrovare la sua perduta «grandezza», che ancora una volta l'ex presidente fa appello nello spot elettorale lanciato all'indomani dell'«assalto» degli agenti federali. Musica cupa, immagini in bianco e nero di luoghi desolati, un «Paese in declino», appunto, che addirittura «usa la giustizia come arma contro gli oppositori politici». Ma, assicura Trump, «presto torneremo grandi», grazie ai «patrioti come voi».

Il tycoon, in politica e in affari, è abilissimo nel capitalizzare le sconfitte, ribaltando la realtà a suo vantaggio. Abilissimo anche nel monetizzarle. Lo fece all'indomani della sconfitta elettorale del novembre 2020, evocando la narrazione dell'«elezione truccata». Per sostenere la battaglia che eventualmente avrebbe portato all'assalto a Capitol Hill, Trump lanciò una raccolta fondi che portò nelle casse dei suoi comitati decine di milioni di dollari.

Anche stavolta Trump ha subito lanciato una sottoscrizione - si possono donare dai 45 ai 5mila dollari - per «salvare l'America» e fermare la «caccia alle streghe della sinistra», come si legge nell'sms inviato ai suoi sostenitori. Altrettanto ha fatto il Republican National Committee, in una mossa che non era affatto scontata. E qui emerge il secondo vantaggio politico per Trump. La conta degli amici e dei nemici interni è infatti già iniziata e in queste ore i fedelissimi di Trump stanno monitorando attentamente le reazioni dei vari esponenti repubblicani. Sicuramente deve aver fatto piacere a Trump la dichiarazione di condanna della «intollerabile politicizzazione» del dipartimento di Giustizia fatta dal leader della minoranza repubblicana alla Camera, Kevin McCarthy, che ha promesso un'inchiesta dopo il voto di midterm di novembre, «quando ci riprenderemo la maggioranza». Altri esponenti di peso del partito, come il senatore Rick Scott, hanno chiesto che il ministro della Giustizia Merrick Garland, il direttore dell'Fbi Christopher Wray e addirittura il presidente Joe Biden vengano convocati in audizione al Congresso, per «rispondere a tutte le domande». La «vittima» Trump ha spinto anche i suoi possibili rivali per la Casa Bianca, come il governatore della Florida Ron De Santis, a schierarsi tatticamente al suo fianco, per non apparire deboli agli occhi dell'elettorato repubblicano. De Santis ha parlato di «regime» e di uso politico della giustizia. E i Democratici, le cui sorti elettorali apparivano in ascesa, che ora temono che lo slogan che compare al termine del nuovo spot elettorale di Trump possa trasformarsi per loro in un incubo: «Il meglio deve ancora venire».

Dossier nucleari da Trump. Indagine per spionaggio. A Mar-a-Lago trovati 11 faldoni di documenti top secret. E anche alcuni fascicoli su Macron. Valeria Robecco il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

New York. L' Fbi stava indagando su Donald Trump per rimozione o distruzione di documenti, ostacolo a un'indagine e spionaggio. Sono queste le motivazioni del blitz nella residenza dell'ex presidente in Florida contenute nel mandato di perquisizione che dovrebbe essere pubblicato a breve, anticipate da Politico. Gli agenti federali avrebbero portato via da casa del tycoon 11 faldoni di documenti classificati, e secondo fonti del Washington Post, nel resort di Mar-a-Lago il Bureau cercava carte top secret legate alle armi nucleari, materiale particolarmente sensibile la cui diffusione è solitamente limitata a un numero ristretto di persone. Una rivelazione che mostra le profonde preoccupazioni all'interno del governo americano sul tipo di informazioni in possesso dell'ex presidente e il pericolo che potessero finire in mani sbagliate. «Se fosse vero» che si trattava di documenti legati alle armi nucleari «si tratterebbe di materiale riservato ai più alti livelli», ha commentato David Laufman, ex capo della sezione di intelligence del dipartimento di Giustizia Usa. Secondo il Wall Street Journal sono stati trovati anche fascicoli sul presidente francese Emmanuel Macron.

Trump, da parte sua, si è immediatamente scagliato contro il Wp dicendo che «la questione delle armi nucleari è una bufala», e paragonando la storia all'indagine sul Russiagate, ai due impeachment e all'indagine Mueller. In un post sul suo social, Truth, il tycoon ha poi chiesto l'immediata pubblicazione del mandato di perquisizione dell'Fbi: «Non solo non mi opporrò alla diffusione di documenti relativi all'irruzione ingiustificata e non necessaria nella mia casa a Palm Beach - ha detto - ma faccio un ulteriore passo avanti incoraggiando il loro immediato rilascio, anche se sono stati redatti da democratici della sinistra radicale e possibili futuri oppositori, che hanno un forte e potente interesse ad attaccarmi». Giovedì, dopo la conferenza stampa del ministro della Giustizia Merrick Garland, il suo dipartimento ha presentato una mozione per chiedere che il mandato venisse reso pubblico, dando tempo a Trump sino alle 15 locali di ieri per decidere se opporsi o meno. The Donald si è detto molto irritato per la presenza di «scassinatori» che hanno aperto la cassaforte nel suo ufficio e perché «gli agenti hanno messo a soqquadro gli armadi della First Lady, frugando tra i suoi vestiti e oggetti personali. Sorprendentemente, hanno lasciato un disordine considerevole. Wow!».

Sempre sul fronte legale, l'ex presidente ha assunto l'avvocato delle star Drew Findling per la difesa nell'inchiesta penale sulle interferenze elettorali in Georgia. Findling ha rappresentato Cardi B, Gucci Mane e Mikos, e il suo soprannome è #BillionDollarLawyer: secondo gli osservatori, la scelta indica la serietà dell'indagine in corso e gli elevati rischi che Trump corre. Nel frattempo, l'agenzia Bloomberg ha riferito che la Trump Organization e il suo direttore finanziario di lunga data, Allen Weisselberg, andranno a processo il 24 ottobre in un caso di frode fiscale, dopo che un giudice dello stato di New York ha respinto la loro richiesta di archiviare il caso. L'ex inquilino della Casa Bianca non è imputato, mentre la Trump Organization è stata accusata l'anno scorso di aver pagato alcuni dipendenti con beni non dichiarati per evitare le imposte sul reddito e Weisselberg, 74 anni, è considerato il principale beneficiario dell'operazione, avendo ricevuto un appartamento di lusso a Manhattan e due Mercedes per sé e per la moglie. 

Con questa accusa in dubbio la candidatura 2024. Non esistono precedenti. Ma c'è un possibile appiglio: aveva desecretato quei documenti? Marco Liconti il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Washington. L'unica certezza sull'ennesima vicenda giudiziaria di Donald Trump è che esistono gli estremi del reato, un reato potenzialmente grave. Se così non fosse, l'Fbi non avrebbe mai chiesto l'autorizzazione per perquisire la residenza dell'ex presidente, consapevole della tempesta politica che un gesto così «invasivo» avrebbe provocato. Quale sia con esattezza il reato e a cosa potrebbe portare con un'eventuale incriminazione e successiva condanna, resta da vedere. Gli esperti di questioni legali stanno dibattendo, dopo che lunedì gli agenti federali hanno bussato alla porta del suo resort. La mossa a sorpresa dell'Attorney General Merrick Garland, che non solo ha difeso la decisione di perquisire casa Trump ma soprattutto ha chiesto che il mandato venisse reso pubblico, ha spiazzato l'ex presidente e i suoi legali. Una vera e propria sfida, dopo giorni in cui il dipartimento di Giustizia e l'Fbi sono stati oggetto delle bordate retoriche dell'ex presidente e dei Repubblicani, quasi tutti allineati al suo fianco.

Nel mandato di perquisizione sono infatti contenute le motivazioni dell'atto. Non solo, c'è la lista dei documenti che si riteneva fossero ancora impropriamente nelle mani di Trump e l'elenco del materiale sequestrato. Ma, mossa ancora più clamorosa, con la quale il dipartimento di Giustizia guidato da Garland ha veramente messo in difficoltà Trump è la soffiata fatta arrivare al Washington Post: l'Fbi era in cerca di «documenti nucleari». Materiale riservatissimo sulle installazioni Usa o di potenze straniere e su programmi militari top secret. La rivelazione cambia completamente la natura della vicenda e, chiaramente, del potenziale reato. Se prima Trump poteva essere accusato per violazione del Presidential Records Act, la legge varata nel 1978 dopo lo scandalo Watergate, mai applicata e con pene non propriamente definite, ora l'ex presidente, se accusato di violazione dell'Espionage Act, la legge anti spionaggio usata anche contro Julian Assange, rischia groso. Eppure, anche in questo caso, la sorte di Trump e la possibilità che possa ricandidarsi nel 2024, non è chiara.

Due soprattutto gli elementi: Trump, nella sua veste di presidente, potrebbe avere desecretato i documenti riservati che ha portato con sé dalla Casa Bianca a Mar-a-Lago; in tribunale andrebbe comunque dimostrato l'intento di Trump di compiere consapevolmente un reato di tale gravità. C'è poi un terzo elemento, che nel sistema giudiziario Usa ha un peso rilevante: non ci sono precedenti. Per questo gli esperti sono indecisi anche sul fatto che un'eventuale incriminazione precluda a Trump la possibilità di candidarsi. Che la faccenda comunque sia seria e che possa avere conseguenze devastanti per la sorte di Trump e dei Repubblicani è comunque confermato dal relativo silenzio con il quale i suoi fedelissimi stanno seguendo la vicenda, segno di preoccupazione.

Trump e le carte rubate "Con Obama sparirono trenta milioni di pagine". Il tycoon sotto inchiesta punta a dimostrare di aver desecretato i documenti sequestrati. Valeria Robecco il 14 Agosto 2022 su Il Giornale.

New York. I legali di Donald Trump sono al lavoro per dimostrare che l'ex presidente ha rispettato le regole nella declassificazione dei documenti sequestrati a Mar-a-Lago, mentre il muro repubblicano inizia a mostrare le prime crepe. Come si apprende dal mandato di perquisizione reso pubblico venerdì, gli agenti federali hanno sequestrato un faldone di documenti «top secret/SCI», il più alto livello di segretezza, 4 faldoni di documenti «top secret», 3 di documenti «segreti» e 3 di documenti «riservati».

Il tycoon ha immediatamente dichiarato sul suo social Truth che le carte portate via dalla Casa Bianca erano «tutte declassificate» e ora il tema della segretezza o meno del materiale rinvenuto nella sua residenza in Florida sarà fondamentale nell'indagine per spionaggio. In quanto presidente, Trump aveva il potere di desecretare dei documenti classificati e potrebbe anche averlo fatto. Tuttavia, secondo gli esperti, quello che conta e quindi che dovrà dimostrare la sua difesa, è che su questi documenti sia presente la dicitura «declassificati».

Quando un Comandante in Capo ordina la desecretazione di carte top secret, infatti, il passaggio successivo è che queste vengano trascritte. Stando però al mandato di perquisizione del Bureau, nel resort di Palm Beach sono stati trovati faldoni contrassegnati da una sigla che indica che fossero classificati e in questo caso le affermazioni di Trump non reggerebbero. Nel frattempo, gli Archivi Nazionali hanno risposto alle accuse di The Donald, che da giorni si chiede retoricamente che fine abbiano fatto «30 milioni di pagine di documenti portati dal 1600 di Pennsylvania Avenue a Chicago» da Barack Obama. «Abbiamo ottenuto la custodia legale e fisica» dei documenti quando l'ex presidente ha lasciato l'incarico nel 2017, hanno affermato. Sulla sponda destra del Potomac, invece, se subito dopo la perquisizione dell'Fbi il sostegno a Trump è stato granitico, ora il fronte dei repubblicani si sta spaccando sulle accuse di spionaggio.

Parte degli stessi alleati di Trump, secondo il New York Times, hanno consigliato ai leader del partito di attenuare le critiche al Dipartimento di Giustizia, essendo «possibile che diventino pubbliche informazioni più dannose relative alla ricerca». L'Fbi, da parte sua, ha annunciato un'indagine sulle «minacce senza precedenti» ricevute dopo il blitz a Mar-a-Lago, incluso il tentativo di irruzione nella sede del Bureau a Cincinnati (Ohio) finito con l'uccisione dell'aggressore Ricky Shiffer. Proprio in merito a quest'ultimo incidente è emerso che l'uomo, armato di un fucile AR-15, prima dell'irruzione aveva postato su diversi social media, tra cui Truth, messaggi di odio contro l'Agenzia in seguito alla perquisizione a casa Trump. Gli account e i post sono stati eliminati, ma secondo Abc News in uno di questi Shiffer invocava la «guerra» contro l'Fbi e «l'uccisione degli agenti». In queste ore sul web sono circolati pure i nomi dei due agenti che hanno firmato il mandato di perquisizione, che sono stati censurati nella versione ufficiale pubblicata dal dipartimento di Giustizia. E in una nota interna, visionata dalla Cnn, il direttore dell'Fbi Christopher Wray ha assicurato che l'agenzia è «vigile» e adeguerà la sua sicurezza a seconda delle necessità, assicurando allo staff che «la vostra sicurezza e protezione sono la mia preoccupazione principale in questo momento».

Cosa non torna nel raid dell’Fbi nella residenza di Donald Trump. Roberto Vivaldelli l'11 Agosto 2022 su Inside Over.

Il raid dell’Fbi nella residenza dell’ex Presidente Donald Trump a Mar-a-Lago continua a destare alcune perplessità, e non solo tra i media e gli esponenti del partito repubblicano. Troppi, al momento, i lati oscuri e gli interrogativi che non trovano risposta. Innanzitutto, secondo quanto riferito dalla stampa americana, a differenza di ciò che era emerso in un primo momento, il mandato di perquisizione utilizzato dall’Fbi per entrare nella sontuosa proprietà di Palm Beach si concentrava esclusivamente sui documenti presidenziali e sulle prove di informazioni riservate lì archiviate. Nulla a che fare, quindi, con l’indagine legata all’insurrezione di Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Gli agenti dell’Fbi, secondo il New York Post, hanno perlustrato il guardaroba di Melania Trump e hanno passato diverse ore a setacciare l’ufficio privato di Donald Trump, rompendo la sua cassaforte e frugando nei cassetti quando lunedì mattina hanno fatto irruzione nell’abitazione di Mar-a-Lago, in Florida. Il raid ha visto la partecipazione di oltre 30 agenti in borghese del distretto meridionale della Florida e del Washington Field Office dell’Fbi, ed è durato una giornata intera, dalle 9 del mattino alle 18.30 di lunedì 8 agosto. Gli scatoloni sequestrati dai federali contengono documenti e ricordi della presidenza Trump, tra cui lettere di Barack Obama e Kim Jong Un e varie corrispondenze con i leader mondiali.

I dubbi di Dershowitz

Alan Dershowitz, giurista e per decenni docente presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Harvard, nonché avvocato di Donald Trump nel processo di impeachment, esprime su The Hill forti perplessità rispetto al modus operandi dell’Fbi e del Dipartimento di Giustizia. “La decisione del Dipartimento di Giustizia di condurre un raid mattutino su vasta scala nella casa di Mar-a-Lago dell’ex presidente Trump non sembra giustificata, sulla base di ciò che sappiamo al momento” afferma il noto accademico. “Se è vero che la base del raid è stata la presunta rimozione da parte dell’ex presidente di materiale riservato dalla Casa Bianca, ciò costituirebbe un doppio standard di giustizia. Non ci sono state incursioni, ad esempio, nelle case di Hillary Clinton o dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale dell’amministrazione Clinton, Sandy Berger, per accuse simili di cattiva gestione dei documenti ufficiali nel recente passato” sottolinea.

“Le precedenti violazioni del Presidential Records Act in genere sono state punite con sanzioni amministrative, non con procedimenti penali. Forse ci sono ragioni legittime per applicare uno standard diverso alla condotta di Trump, ma non sono evidenti in questa fase”. L’azione più appropriata, osserva, avrebbe visto un gran giurì “emettere un mandato di comparizione per tutti gli scatoloni sequestrati e per la cassaforte privata di Trump che era stata aperta. Ciò avrebbe dato agli avvocati di Trump l’opportunità di contestare la citazione in giudizio per vari motivi”. Perquisizioni e sequestri, osserva, “dovrebbero essere utilizzati solo quando le citazioni in giudizio sono inadeguate a causa del rischio di distruzione delle prove”. È importante notare, aggiunge, che lo stesso Trump era a 1.000 miglia di distanza quando sono avvenute le perquisizioni e il sequestro dell’Fbi. “Sarebbe stato quindi impossibile per lui distruggere le prove citate in giudizio”.

Perplessità sul giudice che ha dato l’ok all’operazione

Le perplessità riguardano anche l’imparzialità del giudice che ha dato l’ok all’operazione dell’Fbi, Bruce W. Reinhart. Dubbi sollevato dal Daily Wire, che cita un post del magistrato risalente pubblicato su Facebook nel 2017 nel quale attaccava proprio l’allora presidente Donald Trump e le sue dichiarazioni contro il deputato dem afroamericano John Lewis, scomparso nel 2020. “In genere ignoro i tweet del presidente eletto, ma non questo”, ha scritto Reinhart. “Si può dire che John Lewis abbia fatto di più per rendere grande l’America di qualsiasi cittadino vivente. Lo scorso agosto ho portato mio figlio all’Edmund Pettus Bridge a Selma in modo che potesse capire il tipo di coraggio e sacrificio richiesto per vivere in una società democratica. John Lewis incarna quello spirito, anche se non l’ho mai incontrato, è uno dei miei eroi. John Lewis è la coscienza dell’America. Donald Trump non ha la statura morale per baciare i piedi di John Lewis”.

E non finisce qui, perché non più tardi di sei settimane fa il giudice si sarebbe ritirato dall’affrontare una causa presentata proprio dall’ex presidente Donald Trump contro Hillary Clinton e altri ex funzionari dell’amministrazione Obama coinvolti, secondo il tycoon, in una grande cospirazione volta a dimostrare una presunta collusione con la Russia del magnate durante le elezioni del 2016. “Il sottoscritto, al quale è stata assegnata la causa di cui sopra, con la presente rinvia il caso al cancelliere del tribunale per la riassegnazione”, ha scritto Reinhart. Lo statuto che il magistrato ha citato per la sua ricusazione afferma in parte che un giudice “si squalifica in qualsiasi procedimento in cui la sua imparzialità possa essere ragionevolmente messa in discussione” e poi descrive le varie circostanze che potrebbero suscitare tali preoccupazioni. Si parla di un possibile “pregiudizio personale o un pregiudizio riguardante una parte, o conoscenza personale di fatti probatori contestati” o un “precedente lavoro come avvocato per una parte coinvolta nel caso”. In buona sostanza, è come se il giudice avesse messo le mani avanti e avesse ammesso di nutrire un pregiudizio nei confronti dell’ex presidente.

La versione di Eric Trump

Il figlio del presidente, Eric Trump, ha raccontato al Daily Mail le curiose modalità della perquisizione da parte dei federali. Eric Trump ha rivelato che gli agenti dell’Fbi si sono rifiutati di mostrare il mandato di perquisizione e hanno cacciato un avvocato dalla proprietà. Ha poi raccontato al tabloid inglese che i 30 agenti giunti ​​​​presso l’abitazione hanno chiesto al personale di spegnere le telecamere di sicurezza. Eric Trump definisce il raid un altro “attacco coordinato” contro suo padre e insiste sul fatto che non è possibile che il presidente Joe Biden sia stato tenuto all’oscuro dell’operazione, come affermato dalla Casa Bianca. “Pensate che il direttore dell’Fbi possa fare irruzione nella casa dell’ex presidente, specialmente in una casa come sapete, un po’ famosa in tutto il mondo come lo è Mar-a-Lago, in un luogo pubblico come quello, senza ottenere l’approvazione del presidente Biden?” si chiede Eric Trump in uno dei tanti quesiti che riguardano la clamorosa perquisizione nella lussuosa dimora di Donald Trump e sulla quale ora i repubblicani vogliono vederci chiaro. I lati oscuri in questa vicenda rimangono e sono più delle certezze.

Caccia a Trump. Piccole Note il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.

Con l’irruzione dell’Fbi a Mar-a-Lago la caccia a Trump è entrata nella sua fase più acuta e sfacciata. Il Tycoon va fermato a tutti i costi e sembra arrivato il momento in cui i suoi antagonisti si sono tolti i guanti.

Gli agenti del Bureau si stanno muovendo in combinato disposto con la Commissione d’inchiesta del Congresso che sta indagando sull’assalto a Capitol Hill e che ha la sentenza di condanna di Trump già scritta in partenza.

Odiare Trump

Ma evidentemente l’inchiesta in stile Unione sovietica non sembrava sufficiente a bloccare il cinghialone: da qui l’idea di un assalto frontale, giunto proprio quando Trump stava annunciando la sua candidatura alle presidenziali del 2024.

Un annuncio che sarebbe arrivata a giorni, al termine cioè delle primarie del Partito repubblicano in cui i candidati sostenuti dall’ex presidente stanno vincendo a mani basse contro i candidati sostenuti dall’establishment del suo partito e dai neoconservatori.

Simbolo della débâcle di questi ultimi il triste destino che attende Liz Cheney, figlia dell’ex Vice di Geoge W. Bush, Dick. Una sconfitta sicura la sua, dato il distacco dal concorrente.

La poverina è pianta in via preventiva da quasi tutti i media americani – anche di orientamento democratico -, che non riescono a spiegarsi come mai il popolo repubblicano non ami questa pia donna, che ha difeso a spada tratta il flagello delle guerre infinite che il padre ha inflitto al mondo dopo aver preso il potere nel post 11 settembre.

La colpa di Trump è quella di non aver iniziato nessuna guerra durante la sua presidenza, anzi di aver tentato di fare la pace tra Ucraina e Russia, incoraggiando Zelensky, allora non sequestrato dalla Nato, a trattare (vedi nota “Trump a Zelensky: spero che l’Ucraina faccia la pace con la Russia“). E di aver tentato più volte un appeasement con Mosca e con Pechino, pur ingaggiando con quest’ultima una guerra commerciale, e di aver quasi fatto la pace con la Corea del Nord.

Tutte iniziative affondate dai guerrafondai che popolano l’Impero e che cercano adesso di farlo fuori in via preventiva, per evitare che un Trump più forte – potendo contare su un Partito repubblicano non più ostile – possa riuscire laddove ha fallito in precedenza.

Non si tratta di odio tout court, ma di affari. Basti pensare a quanti soldi girano intorno alla guerra ucraina e a quanti interessi sta muovendo…

Il raid a Mar-a-Lago ha lo scopo di trovare documenti della Casa Bianca che Trump avrebbe portato con sé.

Proprio ieri in tutto il mondo è stata pubblicizzata l’anticipazione di un libro di un corrispondente del New York Times secondo il quale l’allora presidente praticava tale illecito, per conservarli o farli sparire (se vero, è pratica diffusa in Politica, anche se modulata secondo schemi diversi).

Impedire che corra

C’è una norma negli Stati Uniti secondo la quale, se l’accusa fosse provata, al tycoon sarebbe impedito di ricoprire cariche pubbliche (una sorta di legge Severino in salsa americana).

E però il New York Times spiega che tale legge ha trovato un’interpretazione nuova nel caso comprovato dell’ex Segretaria di Stato Hillary Clinton, che usava trattare le e-mail di Stato come private. Un’interpretazione che potrebbe salvare il suo acerrimo nemico.

“Nel considerare questa situazione – scrive, infatti, il NYT – molti esperti di diritto – tra cui Seth B. Tillman della Maynouth University, Irlanda, e Eugene Volokh dell’Università della California, Los Angeles – hanno notato che la Costituzione stabilisce i criteri di ammissibilità per ricoprire la carica di presidente, concludendo che alcune sentenze della Corte Suprema suggeriscono che il Congresso non può modificarle. La Costituzione consente al Congresso di escludere alcune persone dalla possibilità di ricoprire cariche pubbliche a seguito di un procedimento di impeachment, ma non accorda tale potere per i casi che ricadono nel diritto penale ordinario”.

Cioè se Trump dovesse essere condannato penalmente per l’abuso in questione, potrebbe ugualmente partecipare alle presidenziali. Ma sul punto si innescherebbe sicuramente una battaglia legale.

Si tratta solo di una delle tante iniziative contro Trump: altre ne verranno, in una dinamica di contrasto fatta di iniziative dirompenti accompagnate da altre più sottili e avvolgenti.

Tale strategia mira non solo a impedire che partecipi alle presidenziali, ma anzitutto ad alienargli il largo supporto di cui gode e a intimidire quanti, nel suo partito, lo sostengono. Nulla di nuovo sotto il sole (vedi la sventurata Italia).

Uno degli obiettivi più o meno dichiarati è far sì che gli esponenti del suo partito gli impediscano di correre (sui media Usa si registra un profluvio di articoli che vanno in tale direzione).

La caccia al cinghialone si fa incalzante. Il rischio è che sia accompagnata da iniziative tossiche e/o sanguinarie. L’America usa risolvere i suoi problemi in maniera alquanto drastica.

Ps. Nella nota abbiamo accennato alle luci della presidenza Trump, che pure presenta le sue ombre. Ma non sono tali ombre a suscitare l’odio di cui sopra, come dimostra la vicenda dell’accordo sul nucleare iraniano e sul trattato sulle armi nucleari stipulato con la Russia, lo START 2 – ambedue cancellati da Trump -; oppure gli Accordi di Abraham riguardanti Israele e i Paesi arabi, che hanno affondato la soluzione a due Stati per la Palestina, o il riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele… tutte queste iniziative, pur criticate aspramente al tempo, sono state fatte proprie dai nemici di Trump. Bizzarro… o forse no.

Il raid dell'Fbi contro Trump incendia l'America. Piccole Note il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il raid dell’Fbi a Mar-a-Lago ha scatenato una tempesta in America. I repubblicani sono furiosi per il colpo basso contro Trump, il primo presidente degli Stati Uniti al quale è riservato un trattamento del genere. In realtà non è solo il tycoon al centro del mirino, dal momento che certe attenzioni sono riservate anche ai repubblicani a lui più vicini, ma il cinghialone è lui e lui deve essere abbattuto con tutti i mezzi.

La guerra è aperta e sfacciata, nulla importando che sia palese l’uso della magistratura per fini politici (ricorda qualcosa?), tanto che si è scoperto che a firmare il mandato di perquisizione è stato un magistrato che aveva lavorato per Jeffrey Epstein, il miliardario pedofilo condannato e ufficialmente morto nel carcere in cui era detenuto (così che non ha potuto parlare del milieu di altissimo livello a cui vendeva i ragazzini e le ragazzine da lui detenuti, presumibilmente nelle segrete dell’isola di St. James, di sua proprietà).

Il magistrato, Epstein e il cinghialone

Bruce Reinhart, il magistrato in questione, aveva indagato su Epstein nella prima causa penale in cui era incappato il miliardario, in un processo che si era concluso nel 2007 con un patteggiamento controverso: il pedofilo fu condannato a soli 13 mesi di prigionia, da scontare in un carcere dal quale poteva uscire liberamente.

Pochi mesi dopo la sentenza, all’inizio del 2008, Reinhart si dimetteva dalla magistratura per mettere su uno studio di avvocato assumendo la difesa di due strette collaboratrici di Epstein, Sarah Kellen e Nadia Marcinkova (per i dettagli rimandiamo a un articolo del New York Post).

Un salto della quaglia che è entrato anche nel recente processo contro la compagna di merende di Epstein, Ghislaine Maxwell, perché una delle accusatrici della donna ha parlato di scorrettezza da parte di Reinhart per aver assunto la difesa delle donne citate pur essendo a conoscenza delle indagini su di loro (il reato contestato era rivelazione di segreti d’ufficio).

Al di là dei particolari, la liaison tra il giudice che ha dato il via al raid a Mar-e-Lago e l’ambito che ruotava attorno Epstein non può non suscitare domande, tenendo anche presente il legame strettissimo tra il pedofilo e la famiglia Clinton, con Bill che usava viaggiare sui singolari velivoli messi a sua disposizione dal miliardario (noti come Lolita express).

Trump ha incassato un colpo non da poco, ma non barcolla, anzi, il tentativo di farlo fuori potrebbe rafforzarlo. Lo spiega anche Marc Thiessen sul Washington Post ed già più che significativo che un media mainstream, in genere avversi all’ex presidente, pubblichi una nota a suo favore.

Così inizia Thiessen: “La perquisizione senza precedenti da parte dell’FBI della casa dell’ex presidente Donald Trump a Palm Beach, in Florida, può essere considerato uno degli errori più catastrofici della storia delle forze dell’ordine ed è visto dai repubblicani come un atto di persecuzione politica da parte di un ufficio la cui incessante caccia a Trump ha distrutto la sua credibilità. Inoltre, è molto più probabile che Trump vinca la nomination del GOP e riprenda la Casa Bianca nel 2024″.

L’articolo illustra in maniera ragionevole la tesi esposta e rimandiamo ad esso quanti volessero approfondire.

Il rischio di incidenti di percorso

Tante le variabili che possono intersecarsi con le considerazioni esposte da Thiessen. Ne citiamo due. La prima è che l’Fbi trovi a casa di Trump qualcosa di davvero esplosivo tale da renderlo indifendibile (o che ce lo metta, per stare ai film americani sul tema). La seconda è che il popolo di Trump imbracci i fucili, cosa che si inizia a leggere qua e là.

Non tanto perché potrebbe dar vita a una rivolta armata (ancora non siamo a questo livello), quanto perché potrebbe cadere facilmente in una trappola o potrebbe dar modo ai nemici dell’ex presidente di allestire una false flag, arte in cui gli americani sono maestri dai tempi dei cowboy (con attacchi simulati degli indiani, creati ad arte per innescare reazioni), che vedrebbero in Trump il responsabile ultimo di eventuali crimini.

Piccolo esempio che riprendiamo dalle cronache quotidiane degli Stati Uniti: un killer solitario potrebbe far strage in qualche scuola adducendo come motivazione la persecuzione di Trump… Forse è fantascienza, forse no, resta che il cinghialone farebbe bene a gettare acqua sul fuoco prima che divampi.

Al di là dell’esito di questa lotta all’ultimo sangue, il fatto che l’impero ricorra a tali mezzi per eliminare un avversario la dice lunga sulla deriva di cui è preda. Le lotte di potere sono parte della vita politica, e sono spesso feroci, ma un tempo erano condotte in maniera meno sfacciata, salvando le apparenze e dando in pasto all’opinione pubblica narrazioni che potevano passare per verosimili.

Ciò perché l’Impero doveva offrire ai suoi cittadini e al mondo uno spettacolo di democrazia, parte essenziale del suo soft power. Ora le apparenze non servono più, dal momento che per l’Impero è il tempo delle narrazioni, il tempo in cui la realtà non conta nulla, contando solo quel che raccontano i media.

L’Impero abita e vive una realtà virtuale, supponendo che tale realtà sia accolta con acquiescenza dai suoi sudditi, in madrepatria e nelle colonie. Ma la realtà è dura a morire e a volte si impone, com’è accaduto nel 2016 quando tutti i media dell’Impero davano per sicura la vittoria della Clinton e vinse Trump, come ricorda Thiessen nella conclusione del suo articolo.

I retroscena e le dichiarazioni del ministro della Giustizia Garland. Trump sotto inchiesta, la perquisizione dell’Fbi agita gli USA: “L’FBI cercava documenti sulle armi nucleari”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Agosto 2022.

L’Fbi cercava documenti legati alle armi nucleari nella residenza dell’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump a Mar-a-Lago in Florida. A rivelarlo un articolo del Washington Post. Documenti top-secret e con implicazioni per la sicurezza nazionale che spiegano l’urgenza dell’intervento degli agenti federali e la preoccupazione diffusa all’interno del governo statunitense sul tipo di documenti trafugati a Mar-a-Lago e sul pericolo che potessero finire in mani sbagliate.

L’autorizzazione per la perquisizione è stata data dal procuratore generale degli Stati Uniti Merrick Garland, che ha tenuto una dichiarazione pubblica, dopo il fallimento di tentativi “meno intrusivi” di recuperare documenti che sarebbero stati sottratti dalla Casa Bianca da Trump. L’Archivio Nazionale ha cercato per mesi di recuperare il materiale, per acquisire ciò che per legge avrebbe dovuto essere conservato negli archivi federali. Quando quest’anno gli archivisti hanno recuperato 15 scatole, hanno scoperto diverse pagine di materiale classificato e hanno segnalato la questione al Dipartimento di Giustizia. I funzionari hanno ritenuto che altro materiale “classificato” fosse rimasto a Mar-a-Lago.

Stando a quanto riportato dal New York Times alcuni dei documenti sequestrati erano così sensibili che il Dipartimento di Giustizia ha dovuto agire, considerando anche che Trump non avrebbe dato seguito a un mandato di comparizione spiccato dall’Fbi mesi prima della perquisizione alla residenza in Florida. Il Dipartimento di Giustizia ha presentato una mozione per rendere pubblici il mandato di perquisizione e l’inventario degli oggetti recuperati nella perquisizione. Garland ha parlato di “sostanziale interesse pubblico”, di avere autorizzato personalmente la perquisizione e di “non aver preso la decisione con leggerezza”.

Il giudice ha dato 24 ore di tempo a Trump per opporsi alla mozione, fino alle 21:00 di venerdì 12 agosto. Qualora dovesse opporsi potrebbe lasciar intendere di avere qualcosa da nascondere. L’operazione ha scatenato proteste e minacce nell’ala più “trumpiana” dei repubblicani. E arriva in un momento in cui altre inchieste, con al centro il tycoon, stanno prendendo slancio. L’ex presidente mercoledì scorso ha invocato il suo diritto al Quinto Emendamento contro l’autoincriminazione in un’indagine civile a New York. E sempre questa settimana in un filone dell’indagine sugli sforzi di Trump per rimanere al potere nonostante la sua sconfitta elettorale nel 2020, ad un suo alleato alla Camera gli agenti federali hanno sequestrato il telefono.

La rabbia dei Repubblicani non è stata scalfita neanche dalle dichiarazioni dell’entourage del Presidente Joe Biden che ha fatto sapere di non essere a conoscenza dell’iniziativa dell’Attorney General. “Biden ha detto sin dall’inizio che il dipartimento della Giustizia deve condurre le sue indagini in modo indipendente”. La perquisizione è stata definita un’azione politica contro Trump, un “raid”. È la prima volta nella storia degli Stati Uniti che l’amministrazione in carica prende un provvedimento giudiziario nei confronti di un ex Presidente.

Lo scorso giugno il capo del controspionaggio presso il dipartimento, Jay Bratt, si era presentato presso la residenza con un mandato di ispezione. Trump gli aveva assicurato di non avere carte top secret. Newsweek e Wall Street Journal hanno scritto però che almeno un informatore nella cerchia dell’ex Presidente avrebbe riferito all’Fbi che Trump mentiva. Interrogati l’assistente di Trump allo Studio Ovale, Molly Michael, e l’ex segretario fino al dicembre 2020 Derek Lyons.

Secondo i media americani sarebbero due le conseguenze che potrebbe avere il caso: nel momento in cui le indiscrezioni del Wp sui documenti legati al nucleare dovessero essere confermate, Trump potrebbe affrontare pesanti conseguenze penali; se i retroscena dovessero essere smentiti la vicenda potrebbe dare una spinta decisiva alla candidatura del tycoon alle prossime presidenziali del 2024. A novembre si terranno le elezioni di mid-term dove anche il Presidente Biden potrebbe annunciare la sua candidatura per il 2024 e lanciare la sua campagna elettorale. Non è chiaro se i presunti documenti sul nucleare riguardano solo l’arsenale americano a anche quelli di altri Stati.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Terremoto politico in America. Perché l’Fbi ha perquisito la casa di Donald Trump, cosa hanno trovato gli agenti a Mar a Lago. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Agosto 2022 

È nato un nuovo film americano sugli intrighi alla Casa Bianca: stavolta non lo trovate su Netflix ma nella realtà. L’ex presidente Donald Trump è stato svegliato dai federali piombati nella sua residenza in Florida di Mar a Lago. I federali la hanno occupata e messa a soqquadro come se fosse stata una base di al-Quaeda. Motivo: una perquisizione per trovare qualsiasi materiale, carte o oggetti, che appartengono alla Casa Bianca. E che invece potrebbero trovarsi nella casa del Presidente. Sono state trovate diverse casse di carte sigillate con i timbri della Casa Bianca, ma è in corso una discussione su ciò che un Presidente è autorizzato a tenere con sé, o anche trattenere per il tempo che ritiene necessario per scrivere le sue memorie.

Trump sostiene di non aver portato con sé nulla di illegale, suo figlio Eric dice che alcune casse arrivate dalla Casa Bianca sono rimaste lì mai aperte e altre sono state già riportate dove provenivano. Trattandosi di un ex Presidente, la questione non è quella sulla qualità delle carte che si trovano a Mar A Lago, ma la scelta del più grande organo di polizia americano di compiere un blitz notturno con invasione di uomini armati che sfondano casseforti e violano la privacy senza produrre ordini giudiziari che indichino il reato cui possa riferirsi la perquisizione. Di qui il dubbio che, alla vigilia della tornata elettorale di novembre, un’operazione del genere possa essere stata concepita per motivi politici.

Tutta l’operazione è stata condotta dall’ Fbi, la polizia che ha poteri in qualsiasi Stato dell’Unione e che risponde soltanto al governo. Finora, gli ex Presidenti degli Stati Uniti sono sempre stati rispettati dopo la loro uscita di scena. Ma forse proprio questo è il punto: Donald Trump è davvero uscito di scena o di fatto è un possibile candidato alla Casa Bianca?

L’FBI si era già preso cura di un altro Presidente, Richard Nixon che fu costretto alle dimissioni dopo uno scandalo innescato da uno spione del FBI detto “gola profonda”. L’FBI fu fin dall’inizio della Presidenza Trump un nemico del Presidente.

L’altra notte Trump, chiamato dai suoi impiegati, è arrivato davanti alla sua casa e lì è rimasto, in piedi davanti alla porta aperta mentre gli uomini del Fbi perquisivano le sue camere e riempivano i furgoni parcheggiati. Trump non ha reagito, ma ha commentato con poche parole: “Vedete, hanno appena fatto saltare la cassaforte del mio studio e stanno saccheggiando la casa di un ex presidente degli Stati Uniti d’America senza neanche dire che cosa cercano e ciò che hanno trovato. Non era mai accaduto nella storia degli Stati Uniti”.

È un dato di fatto: una perquisizione improvvisa e condotta con spicciativa brutalità nella residenza di un ex capo dello Stato non si era mai vista anche perché si è trattato di un raid non preannunciato, una modalità che l’FBI usa soltanto quando si persegue una “personal misconduct” cioè un provato comportamento criminale che potrebbe essere connesso al tentativo di Trump di contestare la legalità delle elezioni vinte da Joe Biden.

Tutto era cominciato quando Trump si trovò, un anno prima della fine del suo mandato, di fronte a una massiccia richiesta degli Stati democratici per ricostruire gli uffici postali decaduti dall’avvento di Internet. Trump ne dedusse che i democratici avrebbero trasformato le elezioni in un grande evento postale mai visto nella storia americana. Gli Stati democratici riorganizzarono un servizio postale che sembrava morto e quando si arrivò alle elezioni si presentarono colonne di camion pieni di schede votate per posta a favore di Joe Biden.

Trump perse i freni inibitori e accusò gli avversari di avergli rubato la vittoria. Una massa di sostenitori decise di dare l’assalto a Capitol Hill dove risiedono Congresso e il Senato, dove il sei di gennaio del 2021 si svolsero i fatti che tutti abbiamo visto. L’America è rimasta sconvolta da quello che è sembrato quasi un moto insurrezionale certamente ben visto, se non incoraggiato o addirittura sostenuto, da un presidente in carica per pochi giorni.

Trump non concesse la vittoria al suo successore come aveva fatto con lui Barack Obama, semplicemente se ne andò con i bagagli, fra cui un numero imprecisato di scatoloni con i sigilli della Casa Bianca. Tutti i presidenti si portano via documenti relativi alla loro Presidenza, anche perché i documenti non sono in copia unica. Tuttavia, quando scattò l’operazione giudiziaria tuttora in corso contro i rivoltosi di Capitol Hill, scattò anche un’inchiesta sul loro presunto capo e sospettato organizzatore. Di conseguenza l’obiettivo dell’inchiesta si è spostato dai partecipanti all’assalto del 6 gennaio alla soglia di casa Trump.

L’ex presidente dice apertamente che queste manovre sono state concepite per impedirgli di partecipare e vincere le prossime presidenziali ed è convinto che una ventata di panico si sia abbattuta sull’amministrazione e che sia stata quanto meno assecondata dal FBI per metterlo fuori combattimento con l’accusa di trasloco illegale di carte che avrebbe dovuto lasciare in ufficio. L’attuale direttore dell’FBI è Christopher Wray, scelto e insediato proprio da Trump cinque anni fa e oggi Trump commenta: “Sono tempi oscuri sia per il nostro Paese che per la mia bella casa di Mare a Lago in Florida, entrambi attaccati e occupati da agenti dell’Fbi”: L’America non ha mai visto nulla di simile,”

La portavoce del Dipartimento della Giustzia Dena Iverson non ha voluto commentare ma ha lasciato capire che forse nemmeno il Procuratore generale Merrick Garland ne sapesse niente. Tutto quel che si può ipotizzare è che le casse della Casa Bianca contenenti documenti che si trovavano a Mar A Lago costituiscono un fatto oggetto di inchiesta sulla legittimità benché esista una sterminata letteratura su ciò che un ex presidente può o non può portare con sé per ricostruire gli anni della sua Presidenza. Sta di fatto che anche i mandati di perquisizione con cui gli agenti si sono presentati non dichiaravano di perseguire alcun crimine, “no criminal charges”, neanche lontanamente accennato, diceva Trump accecato dai fari.

Questo colpo avviene alla vigilia delle elezioni di mezzo termine che possono portare o alla disfatta o al consolidamento di Biden, o aprire la strada a un ritorno del “libertarismo anarchico” americano di cui l’ex presidente è il portabandiera.

L’armata federale non è nuova a queste imprese: già negli anni Settanta intervenne con una clamorosa campagna di stampa insufflata dai suoi agenti per cacciare a Richard Nixon, benemerito per aver chiuso la guerra nel Vietnam aperta da John Kennedy e per aver aperto le porte alla Cina di Mao Zedong ai ferri corti con l’Unione Sovietica. Nixon fu dunque un presidente lungimirante e intelligente, ma la propaganda promossa dal FBI lo trasformò in un miserabile farabutto colpevole di crimini imperdonabili come aver fatto intercettare le discussioni che si svolgevano nel quartiere generale del partito democratico. Quella del FBI nella politica e nella storia americana è un’ombra che torna e che sembra godere di una sua bizzarra e pericolosa autonomia. 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Una crisi alla nitroglicerina. Cosa rischia Trump, riuscirà l’ex presidente Usa a salvarsi grazie al Quinto Emendamento? Paolo Guzzanti su Il Riformista l'11 Agosto 2022 

«Con il dovuto rispetto, faccio appello al Quinto emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America che mi permette di non rispondere a domande che potrebbero portare alla mia incriminazione». Questo dirà stamattina Donald Trump in Tribunale dopo averlo ieri annunciato alla stampa. Ha detto di aver preso questa decisione dopo essere stato convocato dall’ufficio dell’Attorney General, dello Stato di New York che lo inquisisce su tutta la sua carriera imprenditoriale: un filone di accuse separato da quello – tuttora oscuro e inquietante – che ha spinto il Federal Bureau of Investigation a irrompere nella sua residenza di “Mar A Lago” in Florida e a procedere ad una perquisizione talmente brutale da aver autorizzato l’uso della fiamma ossidrica per aprire la cassaforte personale dell’ex Presidente.

Mai nulla di simile era accaduto a un ex Presidente degli Stati Uniti, nemmeno a Richard Nixon quando, al termine di una violenta campagna di stampa orchestrata dallo stesso Fbi, fu costretto a dimettersi per evitare un processo.

Ciò che sta accadendo a Donald Trump conferma ciò che analisti come George Friedman prevedono da alcuni anni e cioè che l’America, paese di sua natura più instabile della nitroglicerina, sia periodicamente sconvolto da crisi esistenziali devastanti.

La nuova guerra di Trump, o a Trump è un sintomo profondo e un portavoce di questa crisi che da tempo viaggia sul filo di una guerra civile con elementi emotivi che noi europei in genere non siamo in grado di cogliere.

Trump è in questo momento inquisito a raffica su fronti diversi e contemporanei trovandosi in una situazione che se fosse avvenuta in Russia o nell’ex Unione Sovietica, allarmerebbe tutti, non si parlerebbe d’altro. Invece accade in America e facciamo tutti finta che in fondo ben gli sta: avevano detto che Trump era una bestia odiosa? E allora, che crepi.

Ma questo sarebbe un pensiero corto. Trump adesso si è visto recapitare l’ordine di sottomettersi a un interrogatorio come nel processo di Kafka. Sarà interrogato sotto giuramento (il che comporta il rischio di un arresto per spergiuro a discrezione del giudice) ma non è chiaro (a lui stesso) su che cosa. Ieri i giornali sostenevano, brancolando nel buio, che Trump sarà sottomesso ad inquisizione totale su tutti i suoi beni economici, le sue attività di imprenditore figlio di un altri imprenditore di successo. Oppure sarà interrogato su presunte carte segrete illegalmente sottratte alla Casa Bianca quando ha lasciato l’ufficio a Joe Biden e ricoverate nel villone che porta il nome misterioso e italianeggiante di “Mar A Lago” dove due notti fa un distaccamento del Fbi– i bravi ragazzi in doppiopetti grigi e una mantella col nome della ditta – è piombato come per una operazione antiterrorismo

La super polizia dovrebbe agire in nome e per conto del Dipartimento di Giustizia, cioè del governo e dunque del Presidente stesso, anche se non formalmente.

Tutti sono d’accordo, sui giornali e nei talk, che la questione delle casse di documenti non può essere di per sé un capo d’accusa perché esiste una grande elasticità di interpretazioni possibili sull’uso dei documenti da parte di chi ha ricoperto la carica di Presidente e la questione già si pose con Jimmy Carter e Bill Clinton. Mentre appare chiaro che al centro dell’attacco contro Trump ci sia l’onnipotente organizzazione di Quantico (sede centrale e scuola) del Fbi che talvolta agisce di propria iniziativa, oppure fabbrica iniziative utili per essere servite ai politici.

Quando Richard Nixon fu costretto alle dimissioni dopo un complotto ordito dal Fbi usando un suo agente detto in gergo “gola profonda” che fornì le dritte a due giornalisti immeritatamente celebrati, nessuno andò più ad inquisire Nixon, il quale diventò poi un consigliere segreto di Bill Clinton alla Casa Bianca. Il repubblicano aveva simpatia per il democratico, anche se Nixon ha poi scritto di aver visto lampi di malvagità in Hillary, moglie di Bill e futura aspirante alla Casa Bianca.

Nixon era repubblicano, era astato il vicepresidente di Dwight Eisenhower, ex comandante delle armate alleate contro la Germania nazista. Ma Nixon stava sulle palle al FBI di Edgar Hoover, il fondatore e organizzatore di una polizia più simile al KGB sovietico che alla Metropolitan Police inglese.

Torniamo alla perdizione di George Friedman che ha uno dei migliori siti di analisi disponibili sul Web. Secondo Friedman la specificità americana consiste nel fatto che gli Stati Uniti sono una miscela instabile, i suoi cittadini in gran parte detestano l’America e sono fortemente antiamericani, sia pere questioni razziali che risalgono allo schiavismo, sia per le nuove vie che ha preso la antica vocazione libertaria americana. Gli Stati uniti hanno avuto una rivoluzione e guerra d’indipendenza violentissima fra gente della stessa lingua ed etnia, e poi una guerra civile condotta militarmente dalle due parti di violenza ancora sconosciuta in Europa, e poi la segregazione dei neri e la dura lotta, prima di John Kennedy e poi di Lyndon Johnson, per imporre con la forza dell’esercito la fine della segregazione razziale.

A quei traumi non seguì la pace ma la crisi esistenziale per la guerra del Vietnam fino all’apparente fine della guerra fredda. Tutto è sembrato calmo e il mondo apparentemente unipolare, finché è comparsa la coda del trauma: l’America non è affatto leader unico del pianeta e deve decidere che cosa vuol essere: isolazionista come sostiene Trump, o mantenere lo stretto e vitale rapporto con il mondo delle democrazie liberali alleate, come vogliono i democratici?

La vittoria di Biden – lo abbiamo scritto più volte su queste pagine – avrebbero sicuramente riaperto il dossier russo per una resa dei conti. Il che non vuol dire affatto che l’amministrazione Biden sia in alcun modo responsabile dell’invasione russa dell’Ucraina, ma il Cremlino non ha mai fatto mistero di considerare i democratici come nemici e che una loro vittoria avrebbe richiesto una o più loro adorabili “operazioni speciali”.

Potrebbe in via non soltanto ipotetica Donald Trump ricandidarsi e vincere le prossime elezioni di novembre e dopo due anni tornare alla Casa Bianca? La risposta è sì, è possibile. E questa possibilità scatena evidentemente iniziative e attività poliziesche che sembrano persino autonome dagli ordini della magistratura e dunque prendono le sembianze di attività persecutorie. Ne va anche della polisca estera americana e dunque nessuno può escludere il ruolo delle tante agenzie interne degli Stati Uniti.

Il motto di Trump era “America First” che quasi tutti interpretarono in Europa come una esibizione di potere dispotico Trump alimentò un elettorato tuttora folto, che si raccoglie dietro di lui perché Trump promette una America sganciata dal pianeta Terra con cui può accettare scambi di merci ma senza impegni. Secondo la dottrina Trump, l’America è difesa naturalmente quanto basta, protetta dai due oceani, Messico e Canada ma anche con la più forte e moderna macchina militare del mondo a proteggere i suoi commerci. 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Un secolo di potere poliziesco incontrastato. Cosa è l’FBI, il gioiello di Hoover che Truman paragonava alla Gestapo nazista. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

“Sta diventando la Gestapo americana, gridò il Presidente Henry Truman in una riunione nell’Oval Office di cui fu pubblicata la registrazione. L’oggetto dello sdegno del successore di Roosevelt era il Federal Bureau of Investigation, l’Fbi, l’unica polizia centrale americana autorizzata ad avocare indagini criminali in ciascuno dei cinquanta Stati dell’Unione. “Hoover sta trasformando l’FBI in una polizia segreta capace di colpire chiunque e io non voglio che l’America abbia una Gestapo”.

La Gestapo – Geheime Staatpolizei – era la polizia hitleriana del Reich nazista. J. Edgard Hovver era il potentissimo capo dell’FBI che diresse per quasi quasi mezzo secolo dal 1924 al 1972 (anno della sua morte) durante i quali negli Stati Uniti si alternarono ben otto presidenti, quattro repubblicani e quattro democratici.

Oggi l’FBI è tornata alla ribalta per la straordinaria irruzione nella casa privata dell’ex Presidente Donald Trump, cosa mai accaduta prima nella storia, anche perché i Presidenti, anche se decaduti dal mandato, sono considerati comunque come padri della patria.

Di qui la domanda: è l’FBI tornato ad essere una polizia segreta? Henry Truman e tutti gli storici e politici quando parlavano di fatti e misfatti del FBI si riferivano ovviamente ad Edgard Hoover su cui esiste una sterminata letteratura di libri, film e serie televisive.

Hoover, che nacque e visse sempre a Washington, fu il creatore di un organismo poliziesco auto-referente ma in grado di interferire e mettere in scacco le regole della democrazia. Per questo Hoover è stato paragonato – con esagerazione propagandistica – al capo della polizia segreta di Stalin, Laurenti Beria.

Hoover non fu certamente il Beria americano, ma tendeva verso quel modello e il presente Truman ne era indignato ma non riusciva a cacciarlo. Hoover è morto ormai da mezzo secolo e l’istituzione FBI è stata radicalmente riformata, ma resta un elemento non chiarito: da chi e secondo quali procedure prende ordini l’FBI? Dal Presidente? Si direbbe di no, perché il capo del FBI si riserva il diritto di metterlo sotto inchiesta. Dal General Attorney? Per ora non risponde. Da chi altro e perché? Le ombre del passato ritornano.

L’ex Presidente Donald Trump, alla vigilia delle elezioni di mezzo termine che si terranno a novembre, potrebbe tornare alla conquista di White House oggi abitata da un signore che si confonde, inciampa. Di qui il terrore in campo democratico che la figura di Joe Biden sia talmente fragile da permettere ai repubblicani trumpisti (ce ne sono anche non trumpisti) di fare cappotto alla Camera e al Senato prendendo in pugno la maggioranza del parlamento. E, cosa più importante, “The Donald” – come lo chiamava sua moglie – si sentirebbe incoraggiato a mettere ufficialmente sul piatto la propria candidatura di ex Presidente che ritorna. Nella storia degli Stati Uniti è successo una sola volta che un presidente dopo aver perso le elezioni per la conferma sia tornato in pista quattro anni dopo e abbia vinto: 1893, Grover Cleveland, democratico. Avvenimento rarissimo, ma è rarissima anche la situazione di oggi: l’Unione è in una crisi che sfiora i limiti della guerra civile da ben prima che Trump comparisse all’orizzonte.

Ora l’uomo è convocato da tutti i procuratori, si è avvalso del quinto emendamento a New York, ma resta il fatto che l’FBI ha agito in un modo che sembra appartenere allo stile totalitario e ribelle del tremendo Edgar Hoover.

Quanto rientra l’Fbi nei canoni della democrazia? Domanda che l’America si è posta da oltre mezzo secolo, ma che riaffiora quando questa polizia interstatale totalmente indipendente agisce indipendentemente, come se perseguisse suoi piani politici. Era accaduto proprio durante la presidenza Trump che l’FBI si ponesse in conflitto con la Casa Bianca e accade di nuovo ora quando – tre notti fa – un distaccamento di “suit” (vestiti grigi in due pezzi e cravatta) piomba nella residenza privata dell’ultimo presidente uscito di scena e gli apre la cassaforte privata con la fiamma ossidrica mentre carica sui furgoni oggetti e scatole di documenti.

Abbiamo ricordato ieri i motivi per cui Trump è da tempo sotto schiaffo: oltre ad essere odioso, cattivo, arrogante e a portare una zazzera molto particolare, Trump si è confermato anche dopo l’uscita dalla White House un autentico leader di una autentica ideologia che può piacere o non piacere, ma è la stessa che gli ha già permesso di vincere un primo round. L’ideologia non è nuova, ma Trump, che è un uomo d’affari figlio d’un uomo d’affari, ha modernizzato e trasformato politica ed economia: un’America che pensa ai fatti suoi, commercia con tutti, sta benissimo dove sta: fra due oceani e due nazioni amiche, ricca e protetta dalla forza armata più potente del mondo secondo l’antico adagio. Se vuoi la pace preparati come se dovessi vincere la guerra. E, di conseguenza, al diavolo l’Europa parassitaria, semmai facciamo affari ad Est ma non spenderemo più un dollaro per difendere dei parassiti come la Germania.

Quindi, Trump è tornato ad essere la minaccia di un ordine nazionale e mondiale diametralmente opposto a quello democratico che da Kennedy a Obama, passando per Clinton e lo stesso Biden, è invece interventista e vorrebbe una politica di “contenimento” della Russia preda degli stessi fantasmi imperiali e imperialisti.

Di qui la domanda: l’FBI fa parte del grande gioco? Ha una sua politica poliziesca che sfugge agli strumenti costituzionali di controllo? Che cosa cercava esattamente a “Mar A Lago” e quale sarebbe l’ipotesi di reato? Furto di porcellane? Trasloco di carte segretissime in cui Trump era il protagonista? Non si sa. Sui giornali e nei commenti televisivi affiora di nuovo il sospetto che la grande polizia federale, che di fatto è una polizia segreta, abbia mantenuto e sviluppato la sua attività di intervento sulla politica come già fece non solo ai tempi di Nixon, ma anche di Truman, di Kennedy, di Johnson e in molti casi rimasti aperti o chiusi troppo rapidamente.

Hoover aveva scritto le regole: il Bureau avrebbe spiato tutti senza dover spiegazioni, avrebbe tentato di indurre al suicidio Martin Luther King usando scandali sessuali prefabbricati, dopo aver licenziato tutte le donne, e ridotto il numero dei neri, ma prima di tutto creando una magnifica biblioteca di dossier su tutti i politici a cominciare dai presidenti, per poter ricattare chiunque.

Ma Hoover non fu il fondatore del FBI come molti credono. A fiondarlo fu un pronipote americano di Napoleone Bonaparte su richiesta del Presidente Theodore Roosevelt, zio del più famoso Franklin Delano: un repubblicano il cui motto era “Parla piano ma sempre impugnando un grosso bastone”. Fu lui a volere la distruzione dell’impero spagnolo liberando Cuba e le Filippine, sbarcando lui stesso a Cuba dove però cadde da cavallo. Al ritorno, chiese al fedele Joseph Bonaparte, già ministro della Marina e della Giustizia, di creare un braccio armato del governo di Washington, che se ne infischiasse delle polizie dei singoli Stati.

Bonaparte creò un gruppetto di poliziotti in abiti civili dediti alla repressione del banditismo, delle rivolte alla segregazione razziale, le evasioni dalle carceri e crimini mafiosi. Ma era ancora un progetto incompiuto. Poi arrivò, giovanissimo e con molte idee, il brillante funzionario J. Edgar Hoover che prese il piccolo ufficio e ne fece la più funzionante polizia di Stato dell’epoca. Restò a capo del FBI fino alla sua morte perché nessun presidente ebbe il fegato di licenziarlo temendone i ricatti. Come mai gli Stati Uniti avevano sentito la necessità di una polizia onnipotente come fu ed è l’FBI? La ragione è semplice: non ne avevano mai avuto una, sicché tutte le questioni criminali erano gestite da ciascuno Stato secondo le proprie leggi, usi e costumi. Con la crescita della società americana e delle turbolenze interne la necessità di uno strumento centralizzato sembrava ormai giustificata.

Appena costituita, quella polizia si trasformò subito in un potere che faceva capo ad un circolo ristretto di cui l’uomo più potente era lui, Hoover, l’ambizioso burocrate che si era dotato dei migliori strumenti tecnici con cui confrontare immagini e volti, nomi e targhe, intervenire anche in difesa dei poveri e dei perseguitati, ma sempre nutrendo i dossier con cui minacciare i politici.

Hoover costrinse Charlie Chaplin a tornarsene in Inghilterra, accusato di essere un agente sovietico. Quando nel 1965 Viola Liuzzo, un’attivista per i diritti civili, fu assassinata dal Ku Klux Klan mentre era in compagnia di un nero, lui stesso per proteggere l’assassino andò alla Casa Bianca per dire al presidente Johnson che la vittima era iscritta al partito comunista americano e aveva abbandonato i figli per una relazione con un uomo di colore.

Questo era il passato remoto, d’accordo. Ma che cosa cercava, per conto di chi e sulla base di quale precisa accusa i federali che si sono presentati nella casa privata di un ex presidente certamente colpevole di voler insistere e candidarsi alle prossime presidenziali? 

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

DAGONEWS il 12 agosto 2022.

Oath Keepers, Three Percenters, Proud Boys. Tutti gruppi di nazionalisti bianchi che si sono radunati per l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio. Come antropologo culturale che ha studiato questi movimenti per oltre un decennio, so che l'appartenenza a queste organizzazioni non si limita al tentativo di rovesciamento violento del governo e rappresenta una minaccia continua, come si può dimostrare nei massacri perpetrati da giovani radicalizzati da questi movimenti. 

Nel 2020 il Dipartimento per la sicurezza interna ha descritto gli estremisti violenti come "la minaccia più persistente e letale" per il popolo degli Stati Uniti e il governo della nazione.

Nel marzo 2021, il direttore dell'FBI Christopher Wray ha testimoniato al Congresso che il numero di arresti di suprematisti bianchi e altri estremisti di matrice razzista è quasi triplicato da quando è entrato in carica nel 2017. 

«Il 6 gennaio non è stato un evento isolato - ha testimoniato Wray davanti alla commissione giudiziaria del Senato – Il terrorismo interno si sta metastatizzando in tutto il paese ormai e non scomparirà presto». Il Southern Poverty Law Center, un gruppo senza scopo di lucro per i diritti civili, ha monitorato 733 gruppi di odio attivi negli Stati Uniti nel 2021.

Sulla base della mia ricerca, Internet e i social media hanno reso il problema dei suprematisti bianchi molto peggiore e più visibile.

Nel 2005, il sito web nazionalista bianco “Stormfront.org” contava 30.000 membri. Ma con il boom dei social, nel 2015 già 250.000 persone si erano iscritte. Tra il 2012 e il 2016, i nazionalisti bianchi su Twitter hanno visto un aumento del 600% dei follower su Twitter. Da allora hanno lavorato per portare il suprematismo bianco nella politica di tutti i giorni.

Il Tech Transparency Project, un gruppo di controllo del settore tecnologico senza scopo di lucro, ha scoperto che nel 2020 metà dei gruppi nazionalisti bianchi monitorati dal Southern Poverty Law Center era presente su Facebook. Senza regole chiare che prevengano i contenuti estremisti, le aziende digitali, a mio avviso, hanno consentito la diffusione di cospirazioni nazionaliste bianche. 

Gli attivisti razzisti hanno utilizzato algoritmi come megafoni virtuali per raggiungere un pubblico di dimensioni prima inimmaginabili. Oggi, molte idee nazionaliste bianche un tempo relegate ai margini della società sono abbracciate dal più ampio movimento conservatore. Per esempio la Teoria della Grande Sostituzione: la teoria del complotto interpreta erroneamente il cambiamento demografico come un tentativo attivo di sostituire i bianchi americani con persone di colore. 

Questa idea infondata osserva che i neri e i latini stanno aumentando e dipinge quei dati come il risultato di un presunto tentativo attivo da parte di multiculturalisti senza nome di cacciare dal potere i bianchi americani in una nazione sempre più diversificata. Un recente sondaggio ha mostrato che oltre il 50% dei repubblicani ora crede in questa teoria del complotto.

I dati dei manifesti pubblicati online da gruppi nazionalisti bianchi mostrano che molti protagonisti delle stragi di massa condividono alcune caratteristiche comuni: sono giovani, bianchi, maschi e trascorrono molto tempo online sugli stessi siti web. 

Il killer di 10 neri a Buffalo dello scorso 14 maggio 2022 voleva fermare “l’eliminazione della razza bianca”. I suoi timori che le persone di colore stessero "sostituendo" i bianchi provenivano da 4chan, social media popolare tra l'alt-right.

I massacri in un Walmart a El Paso, in Texas, in due moschee a Christchurch, in Nuova Zelanda, e in una sinagoga a Poway, in California, sono avvenuti tutti dopo che i tiratori hanno iniziato a trascorrere del tempo su 8chan, un imageboard popolare tra i suprematisti bianchi, e a leggere le teorie di Qanon. 

Le ragioni per cui questi uomini si uniscono a gruppi come i Proud Boys e Oath Keepers - sono meno chiare. Un ex membro di Proud Boy ha detto: «Volevo unirmi a un gruppo per combattere l'antifa e ferire le persone che non mi piacciono, e sentimi giustificato facendolo». 

Altri ex membri del gruppo estremista descrivono la ricerca di cameratismo e amicizia, ma anche di razzismo e antisemitismo.

Ma più di ogni altro problema, i cambiamenti demografici stanno fornendo opportunità di reclutamento ai nazionalisti bianchi, molti dei quali credono che entro il 2045 i bianchi diventeranno la minoranza negli Stati Uniti. 

Nel luglio 2021, l'US Census Bureau ha rilevato che della popolazione stimata di 330 milioni di cittadini americani, il 75,8% sono bianchi, il 18,9% ispanici, il 13,6% neri e il 6% asiatici.

Chi ha ucciso Jane Standford? Un mistero americano. Andrea Marinelli su Il Corriere della Sera il 26 Luglio 2022.

Moglie del magnate Leland, ex avvocato ricchissimo, fondò l’università di Stanford in memoria del figlio, morto 15enne. Donna perfida e spregiudicata, fu avvelenata a 76 anni, nel 1905, in un albergo di Honolulu. Forse oggi il caso è stato risolto...

Jane Stanford, morì avvelenata a Honolulu a 76 anni

La sera del 14 gennaio 1905, la ricchissima e crudele signora Jane Stanford si trovava nella sua magione di 50 stanze a San Francisco quando, dopo aver bevuto un sorso d’acqua da una bottiglia lasciata accanto al suo letto da un’assistente, cominciò a vomitare violentemente. Era un’acqua molto amara, disse, e - dopo essersi ripresa - chiese un’analisi chimica del liquido, scoprendo che nella bottiglia qualcuno aveva messo della stricnina, una delle sostanze più amare che esistono, ma soprattutto un veleno potentissimo che causa spasmi, convulsioni e la paralisi dei muscoli respiratori. Invece di chiamare la polizia, la signora Stanford si affidò al fratello, che contattò l’avvocato di famiglia che, a sua volta, assunse un investigatore privato. Consapevole che qualcuno avesse tentato di ucciderla, e terrorizzata dal fatto che potesse riprovarci, qualche settimana dopo la signora Stanford salpò per Honolulu, alle Hawaii, insieme a due dei suoi assistenti più fidati. Il 28 febbraio, nella sua stanza al Moana Hotel, la storia di ripeté: bevve un po’ d’acqua e bicarbonato e cominciò a vomitare. I suoi assistenti chiamarono il dottore dell’albergo, che arrivò in pochi minuti ma non poté fare nulla: la signora Stanford morì quella notte a 76 anni fra atroci sofferenze, l’autopsia stabilì che era stata avvelenata con la stricnina, ma nessuno fu incriminato per l’omicidio.

Un buon matrimonio

Jane Elizabeth Lathrop era nata ad Albany nel 1828, seconda dei sei figli del negoziante Dyer Lathrop. Nella capitale dello Stato di New York conobbe il giovane avvocato Leland Stanford, di quattro anni più grande di lei, il figlio di un facoltoso imprenditore agricolo della zona che era appena entrato nello studio legale Wheaton, Doolittle and Hadley di Albany: si sposarono nel 1850 e si trasferirono a Port Washington, nel Wisconsin, dove si diceva che il giovane avvocato avesse portato la più importante libreria legale a nord di Milwaukee, un regalo del padre che andò in cenere durante un incendio.

MOLTI I LIBRI SCRITTI SUL CASO, NELL’ULTIMO SI IPOTIZZA CHE A METTERE LA STRICNINA NEL BICCHIERE SIA STATA BERTHA BERNER, LA SUA ASSISTENTE

Nel 1852 gli Stanford si separarono, almeno fisicamente: lei tornò ad Albany dai genitori, lui si unì alla corsa all’oro e raggiunse i cinque fratelli in California. Si ricongiunsero nello Stato di New York tre anni dopo, ma - racconta Meryl Gordon sul New York Times - per il rampante Leland la vita della costa orientale era diventata ormai troppo lenta, specie se paragonata all’entusiasmo travolgente che dominava in California. E così nel 1956 decise di attraversare nuovamente il Paese, stavolta portando con sé la moglie Jane.

La ricchezza

Cominciò così la straordinaria ascesa di Leland Stanford, imprenditore mercantile, magnate, filantropo, membro dei Big Four che fondarono nel 1861 la Central Pacific Railroad, la ferrovia che collegò la capitale californiana Sacramento al fiume Missouri, nel cuore dell’America, costruendo il tratto occidentale della First Transcontinental Railroad che attraversava il Paese.

La prima locomotiva della nuova compagnia fu chiamava Gov. Stanford, in suo onore: dopo aver perso le elezioni nel 1859, l’ex avvocato di provincia ci riprovò proprio nel 1861, venendo eletto con il partito repubblicano e diventando così l’ottavo governatore della California mentre l’America stava entrando nell’età dell’oro. Finita la guerra civile nel 1865, l’industrializzazione, lo sviluppo della ferrovia e le miniere di carbone trascinarono il Paese verso un periodo di straordinaria crescita economica, con gli stipendi che aumentavano vertiginosamente attirando dall’Europa milioni di immigrati in cerca di fortuna. In questo contesto, la storia di Leland Stanford si incrocia e sovrappone a quella dell’America del tempo.

È una storia di successo ma anche di sfruttamento brutale dei dipendenti, di corruzione, di abusi e pratiche sleali, tanto da renderlo un simbolo dei “robber baron”, i capitalisti senza scrupoli raccontati nel 1934 dal giornalista Matthew Josephson nell’omonimo libro, che ammassavano grandi quantità di denaro schivando la legge. Ormai ricchissimo e potentissimo, Stanford rimase in carica due anni come governatore, così voleva la legge dell’epoca, per poi tornare al mondo degli affari e aumentare ulteriormente la propria influenza. Nel maggio del 1868, uno dopo l’altro, si verificarono tre eventi che ne avrebbero segnato la vita: con alcuni soci creò la Pacific Union Express Company, che due anni più tardi si fuse con la società finanziaria Wells Fargo and Company, di cui divenne direttore; fondò la Pacific Mutual Life Insurance Company, una compagnia assicurativa che guidò fino al 1876; e divenne padre. 

Quando nacque il piccolo Leland DeWitt Stanford, Jane aveva 39 anni e lui 44, un’età avanzatissima per l’epoca. In quello stesso periodo, assunse il controllo della Southern Pacific Railroad di cui rimase presidente fino al 1890, quando fu cacciato da Collis Huntington, suo socio e membro dei Big Four, furioso perché Stanford era stato eletto in Senato nel 1885 sconfiggendo il suo amico Aaron Sargent, l’uomo che aveva da poco introdotto il 19esimo emendamento della costituzione americana che estendeva il voto alle donne.

La morte del figlio

Un anno prima di quell’elezione, però, la vita degli Stanford era stata sconvolta dalla morte improvvisa del figlio Leland Jr., appena 15enne, colpito da febbre tifoide ad Atene durante un Grand Tour dell’Europa con i genitori: corsero in Italia per curarlo, ma il ragazzo morì a Firenze dopo alcune settimane di malattia. Distrutti dal dolore, i genitori decisero di rendere omaggio al figlio e di usare la propria fortuna per creare la Leland Stanford Junior University, la celebre università di Stanford che aprì nel 1891 e dove - ancora oggi - si trova il mausoleo dei fondatori. «I figli della California saranno i nostri figli», disse il magnate alla moglie, almeno stando alla leggenda tramandata dall’ateneo, donando 40 milioni di dollari dell’epoca - l’equivalente di 1,2 miliardi di dollari odierni - e decidendo di trasformare la fattoria di famiglia a Palo Alto in un’istituzione capace di «fornire un’istruzione pragmatica e multiculturale», aperta a uomini e donne di ogni ceto sociale, un’alternativa alle università d’élite della costa orientale.

Una vedova contro tutti

Il senatore Stanford non ebbe però il tempo di vedere davvero il memoriale che aveva realizzato per il figlio: appena due anni dopo che il primo studente varcò la soglia dell’ateneo - era Herbert Hoover, che nel 1929 sarebbe diventato il 31esimo presidente degli Stati Uniti - il magnate morì per insufficienza cardiaca, lasciando la sua immensa fortuna alla moglie Jane, insieme al controllo dell’università. La signora Stanford si ritrovò però stritolata nella morsa di Collis Huntington, che voleva i suoi soldi per ripagare i debiti della Southern Pacific, e del ministero di Giustizia americano, che pretendeva 15 milioni di dollari dell’epoca in tasse non pagate: richieste che avrebbero mandato in bancarotta la vedova Stanford e l’omonima università. Ma la signora, per perfidia, non era da meno dal marito: era tirannica verso i dipendenti e la servitù, scaltra nei rapporti interpersonali, senza scrupoli negli affari. Mise in vendita i cavalli del marito, chiuse una distilleria, licenziò i dipendenti che non erano disposti a ridursi lo stipendio e assunse immigrati irregolari cinesi e giapponesi sottopagati.

LE VICENDE DELLA FAMIGLIA STANFORD SI INTRECCIANO CON L’ETÀ DELL’ORO DEGLI STATI UNITI, FATTA DI IMPROVVISE FORTUNE E ANCHE TERRIBILI ROVESCI

Soprattutto, riuscì a sopravvivere ai creditori, sconfisse il fisco in tribunale e salvò l’ateneo: con la scusa di fornire istruzione di alto livello per la “gente comune”, avviò un’intensa attività di riciclaggio del denaro guadagnato illegalmente, intromettendosi nelle questioni accademiche e scontrandosi con il presidente dell’università David Starr Jordan. «Agli occhi della legge, i professori dell’università erano servitori personali della signora Stanford», scrisse Jordan nel libro The Story of a Good Woman, riferendosi al fatto che i dipendenti dell’ateneo venivano pagati - per ordine del tribunale - con gli stessi soldi destinati ai domestici. Lo scontro fra i due deflagrò a causa del professore Edward Ross, docente di economia che sosteneva cause populiste e che invocava - fra le altre cose - un bando all’immigrazione giapponese. Furiosa per l’attacco alle pratiche capitaliste della famiglia Stanford, la vedova ne pretese la testa e a nulla valse la mediazione del presidente, che chiedeva di rispettare la libertà di parola: Ross si dimise, mentre a Jordan toccò assumersi la responsabilità di quello scandalo e difendere la fondatrice, pur di salvare - senza successo - la reputazione dell’ateneo.

Tanti nemici, un colpevole

Quando la sera del 28 febbraio 1905 bevve l’acqua avvelenata nella sua stanza di Honolulu, la signora Stanford aveva dunque innumerevoli nemici disposti a ucciderla o a insabbiare il caso: fra loro c’erano ovviamente Jordan, che sarebbe stato licenziato al ritorno dalle Hawaii, ma anche la sua assistente Bertha Berner, un’immigrata tedesca che scrisse la prima biografia della vedova descrivendola come una donna molto amata, dedita alle azioni benefiche, che morì in modo accidentale a causa di un’indigestione. Quella versione fu smentita nel 2003 dal neurologo Robert W.P. Cutler, autore di The Mysterious Death of Jane Stanford, che analizzando i dati medici arrivò alla conclusione che si trattasse di un omicidio. Ora, a distanza di 117 anni dalla morte della donna e quasi 20 dall’opera di Cutler, un nuovo libro prova a individuare il colpevole: in Who Killed Jane Stanford?, appena uscito negli Stati Uniti, il professore emerito dell’università di Stanford Richard White unisce il proprio rigore di storico all’abilità da giallista del fratello Stephen per risolvere il caso, mettendo in fila le prove e arrivando alla conclusione che a inserire la stricnina nella bottiglia d’acqua fu Bertha Berner, che odiava la sua dispotica datrice di lavoro, coperta dal presidente Jordan, che invece voleva preservare l’onore dell’università.

Frederick Douglass, lo schiavo profeta della libertà: focus nell’App de «la Lettura». Redazione Cultura su Il Corriere della Sera il 22 luglio 2022.

Extra digitale, la storia emblematica del sogno americano. In edicola e nell’App, la nuova edizione de «Lo schiavo americano dal tramonto all’alba» di George Rawick

Il lato oscuro del “sogno americano”. Rino Cammilleri su Nicolaporro.it il 25 Luglio 2022.

Iersera ho visto un film americano (tanto per cambiare), un thriller. La solita storia di tre sfigati che si impadroniscono del malloppo con cui una gang doveva pagare una partita di droga. I tre protagonisti sono due giovani avvocati senza clienti e una impiegata di sportello sottopagata e insoddisfatta. Al di là delle lacrimevoli storie personali, tutte varianti di un tema stracotto, quel che emerge da troppi, troppi film americani è la vita quotidiana degli americani. Quasi non ci sarebbe bisogno di visitare gli States.

Infatti, il turista cerca itinerari di divertimento, mica va a visitare una farm nel centro del Kansas abitata da un allevatore malvestito che per comprare le sigarette deve pigliare lo scalcagnato pick-up, farsi parecchi chilometri e approdare allo store, l’unico nel raggio di miglia, che vende un po’ di tutto, e poi farsi una pinta nel saloon con biliardo, l’unico nel raggio di miglia, dove gli viene servita quella brodaglia nera che là chiamano caffè. Il turista non va, ovviamente, nelle periferie di Los Angeles, dove l’autosegregazione è sempre in atto, dove la polizia stessa sconsiglia di andare, dove se non sei armato è meglio astenersi. Perciò, il turista è sempre nella condizione di quello che si trovava a Pietrogrado durante l’assalto al Palazzo d’Inverno nel 1917 ma non se ne accorse perché il suo albergo stava due strade più in là. E solo al ritorno in patria apprese che c’era stata la Rivoluzione d’Ottobre però lui non se ne era accorto.

Tuttavia il famoso «sogno americano» c’è, è indubbio. Ma si chiama Jeff Bezos o Bill Gates (Steve Jobs adesso sogna qualcos’altro). E basta. Per la stragrandissima maggioranza che il sogno americano lo vede alla televisione bisogna affidarsi ai film. Se sono teen-movie, ecco che la massima aspirazione della ragazzina è «andarmene da qui». Che sia Spiderman n.1, che sia La febbre del sabato sera, che sia Pretty woman, la solfa è sempre quella: andare via da lì. Dove? A cercar fortuna nella grande città. Ed ecco perché New York scoppia per i troppi milioni di abitanti. Eppure, sono discendenti di pionieri, gente che, pur di avere un pezzo di terra, combatteva con gli indiani e i fuorilegge. Ma quei pionieri non passavano intere giornate a guardare alla televisione lo show di quei pochissimi che il sogno americano l’hanno realizzato. E che se lo godono tutto alla faccia di chi li guarda. Come può resistere un ragazzo di bassa condizione? I privilegiati, le star, certo, qualcosa in beneficenza danno, ma solo a favor di telecamere. Ed già tanto se non beneficano la depravazione. Il sogno americano è dunque questo: soldi, soldi, soldi, fortissimamente soldi. E se non ne hai sei out.

Guardate i presidenti americani e ditemi se ce n’è mai stato uno che non fosse già o fosse diventato ricco come Creso. Poi ci si meraviglia se, in un train de vie del genere, l’altra faccia dell’american way of life siano tassi di delinquenza stratosferici, violenza senza tregua, carceri che non bastano mai e una resistenza a oltranza della gente comune all’idea di dover rinunciare a possedere armi. Per non parlare degli scoppi di violenza insensata che ogni tanto vediamo in tivù e che sono causati da gente andata in tilt. A scuola col metal-detector. Ora, parlare di ciò sarebbe folklore se le élite americane non fossero davvero convinte che il loro è il migliore dei mondi possibili e che tutti farebbero ben ad adottarlo. Con le buone (cinema e televisione) o le cattive (basi militari fin dentro il cesso).

Noi europei abbiamo un passato, una cultura. Loro no. Ma le loro università, carissime, hanno preso dalla vecchia Europa solo quanto serviva a rinforzare e anzi esasperare il modello. Non a caso i nostri autori più letti e influenti colà sono Gramsci, Negri, e tutta la c.d. Scuola di Francoforte. Tutti marxisti. Gli Usa un tempo ci difendevano. Ma il vento è cambiato. Ora, spiace dirlo, dobbiamo difenderci da loro. E dire che gli anticorpi li avrebbero…Rino Cammilleri, 24 luglio 2022

Washington, 6 gennaio 2021: uno dei giorni più pazzi e bui della storia americana. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 27 Luglio 2022. 

Trump, furibondo, lancia un hamburger con ketchup contro una parete della Casa Bianca: comincia così la cronaca dell’assalto a Capitol Hill. Per almeno un giorno, il tycoon è stato il leader più instabile e pericoloso del mondo

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 29 di 7 in edicola il 22 luglio. Lo anticipiamo online per i lettori di Corriere.it

In un accesso di rabbia il presidente degli Stati Uniti afferra il vassoio con il suo pasto - hamburger e ketchup - e lo scaraventa contro la parete del suo ufficio alla Casa Bianca. Cerca di convincere le guardie del corpo del Secret Service di dirottare “The Beast” (la blindatissima limousine presidenziale) per guidare di persona la folla dei manifestanti diretta al palazzo del Congresso. Chiede che tolgano lì intorno i metal detector, pur sapendo che tra quei facinorosi infiammati dalle sue parole c’è chi gira armato. Sono sprazzi di ricordi del folle 6 gennaio 2021 come lo ha vissuto Donald Trump, sul palcoscenico e dietro le quinte. I dettagli privati di quella giornata drammatica trapelano dalle rivelazioni dei suoi collaboratori più stretti, chiamati a deporre sotto giuramento davanti alla commissione d’indagine parlamentare. Si arricchisce di episodi incredibili la cronaca della giornata storica in cui la liberaldemocrazia più antica del mondo ha tremato. Quando Trump è stato per almeno un giorno il leader più instabile e pericoloso del mondo. Ricostruire oggi la catena di eventi serve a capire meglio un personaggio tuttora ingombrante: Trump non rinuncia all’idea di una nuova candidatura mentre Joe Biden va a picco nei sondaggi. Le nuove rivelazioni confermano lo stato di eccitazione in cui Trump visse quelle ore, nel sogno assurdo di ribaltare la legittima elezione del suo avversario. Ecco, ora per ora, la cronaca aggiornata dei fatti salienti. A questi episodi si aggrappa una frangia del partito democratico, nell’ultima speranza che Trump possa essere trascinato davanti a un tribunale. Sarà quello il vero finale?

Un giorno assurdo

Mercoledì 6 gennaio 2021 sulla collina del Campidoglio di Washington (Capitol Hill) è convocato il Congresso in seduta congiunta, per certificare la vittoria di Biden. È un atto che, con rare eccezioni nella storia, si svolge come una routine, senza margini di incertezza. Stavolta è diverso. Trump continua a negare la vittoria di Biden, senza prove denuncia brogli; moltiplica le pressioni sugli organi di governo negli Stati amministrati dai repubblicani, perché diano la vittoria a lui. Non la spunta. All’una di notte del 6 gennaio Trump fa sapere che l’ultima speranza è il suo vice, Mike Pence. La Costituzione ne fa il presidente del Senato e tocca a lui dirigere i lavori della ratifica. In una Washington blindata (ma non abbastanza), dove già sono arrivati migliaia di sostenitori del presidente uscente, il tweet notturno è una sinistra premonizione: “Se il vicepresidente viene dalla nostra parte, vinciamo la presidenza. Mike può rispedire indietro il voto agli Stati!”. Dopo una notte breve e agitata, alle 8.16 del mattino Trump twitta di nuovo: “Fallo Mike, questo è il momento di un coraggio estremo!” Alle 10.30 un gruppo di Proud Boys, formazione d’impronta neofascista, prende posizione attorno a Capitol Hill e interpella i parlamentari repubblicani che stanno affluendo. Alle 11.30 circondano il senatore Todd Young, repubblicano dell’Indiana, che si divincola dalla morsa: «Non posso votare contro la certificazione del voto. Ho prestato giuramento sulla Costituzione, per voi non significa nulla?»

Il comizio

Alle 11.57 Trump inizia l’atteso comizio. Sale sul podio allestito di fronte alla Casa Bianca, davanti al grande prato delimitato dall’obelisco (Washington Monument), a due chilometri da Capitol Hill. Il presidente parla a decine di migliaia di persone, uno spaccato dell’America trumpiana, con tante famiglie venute in gita dal profondo Sud e dal Midwest. «Fermeremo il furto» tuona Trump; «voi non vi riprenderete questo Paese con la debolezza, dovete mostrare forza». Sta parlando da 15 minuti quando comincia a evocare la marcia: «So che state per andare tutti al Congresso, a manifestare pacificamente e patriotticamente, per far sentire la vostra voce». Cominciano a staccarsi manipoli di manifestanti, diretti verso la collina del Campidoglio. Alle 12.53 Pence rompe il silenzio con una lettera consegnata ai media. Il vice definisce il proprio ruolo «puramente formale» e spiega: «Ho giurato di difendere la Costituzione, questo mi vieta di usurpare l’autorità per determinare quali voti elettorali debbano essere contati e quali no».

I primi scontri

Alle 12.57 primi tafferugli all’accesso ovest del Campidoglio. Gli agenti hanno già fatto numerose ritirate, abbandonano le barricate che dovevano contenere i manifestanti. Militanti dell’estrema destra aggrediscono la polizia gridando: «Traditori!» Alle 13.05 a Capitol Hill la presidente della Camera Nancy Pelosi batte il martello e apre la sessione congiunta. Alle 13.11 Trump conclude il comizio: «Andiamo al Campidoglio. Andiamo a dare ai repubblicani quel coraggio che ci vuole per riprendere il nostro Paese. Combattiamo come l’inferno, perché altrimenti non avrete più una nazione. Andiamo su Pennsylvania Avenue» (è l’ampia strada che collega la Casa Bianca al Congresso, ndr ). L’adunata si scioglie, una maggioranza rimane accampata sul grande prato, alcune migliaia si staccano per dirigersi verso il Congresso dove li hanno preceduti le “avanguardie”. Che già stanno mettendo in gravi difficoltà le forze dell’ordine.

Il primo messaggio di S.O.S. lo ha lanciato un ufficiale di polizia: «Ci lanciano spranghe di ferro. Numerosi feriti tra i nostri uomini». Trump non fa quel che aveva promesso. Torna alla Casa Bianca. Ma è combattuto, si agita come una belva in gabbia. Circondato di schermi tv accesi, segue minuto per minuto gli eventi. È il momento in cui litiga con i capi della sua scorta: vorrebbe risalire sulla limousine blindata, a costo di guidarla lui stesso, per andare a mettersi alla testa dei manifestanti. Ha già avuto uno scontro con i servizi di sicurezza a proposito dei metal detector: voleva che fossero tolti dalla spianata, per consentire anche ai cittadini armati di avvicinarsi al palco dove lui teneva il comizio. «Non mi vogliono male, non mi faranno nulla». Nei minuti convulsi, quando sta per partire l’assalto al Congresso, tra gli scatti d’ira e l’escalation d’insolenze a Pence, c’è il “volo” di hamburger e ketchup spiaccicati contro una parete, e poi ripuliti dai maggiordomi della Casa Bianca con l’aiuto della collaboratrice presidenziale Cassidy Hutchinson, la cui deposizione al Congresso è una fonte di questi dettagli spettacolari.

La figlia Ivanka

Gli accessi di rabbia accompagnano due defezioni importanti dalla cerchia degli intimi: la figlia Ivanka fa sapere a Trump che per lei il risultato del voto non si può più rovesciare; il suo ministro della Giustizia William Burr definisce «str...zate» le accuse di brogli. Piovono dimissioni dallo staff della Casa Bianca. Alle 14.24 la furia presidenziale si scarica via tweet contro il vice: «Pence non ha avuto il coraggio di fare quello che doveva». I manipoli più violenti sono già sui balconi e dentro i corridoi del Congresso. Il vicepresidente, bersaglio dei manifestanti (alcuni hanno promesso d’impiccarlo), viene trasferito “in luogo sicuro” dalle sue guardie del corpo. Poco dopo la stessa misura viene adottata per la Pelosi. Ai parlamentari rimasti in aula e non più evacuabili, viene lanciato il consiglio estremo: «Riparatevi sotto le sedie e i banchi». Alcuni chiamano le famiglie singhiozzando, ormai pronti al peggio. 16.17: le violenze durano da due ore, seguite in diretta tv dal mondo intero, quando Trump su pressione di ministri e familiari si decide a registrare un messaggio ai manifestanti: «Ora dovete andare a casa, ora dobbiamo avere pace. Vi voglio bene, siete speciali».

Il coprifuoco

Alle 18.01 scatta il coprifuoco su Washington, Trump twitta: «Questo è quel che succede quando una vittoria elettorale sacra e massiccia viene rubata perfidamente ai grandi patrioti che sono stati trattati in modo ingiusto per tanto tempo. Andate a casa in amore e in pace. Ricordate questo giorno per sempre!» Alle 19.54 il partito repubblicano pubblica un comunicato di condanna delle violenze. Bisogna aspettare le 21 perché la Pelosi riesca a riconvocare le Camere in seduta plenaria.

Decisivo sarà il comportamento di Pence e del capogruppo repubblicano al Senato Mitch McConnell, che garantiscono la ratifica. Almeno una promessa di Trump si è già avverata: ricordate quel giorno per sempre. Se lui pagherà un prezzo politico, è presto per dirlo. Mezza America spera di sì, e assegna grande importanza all’indagine parlamentare che ricostruisce i fatti del 6 gennaio; ma è la stessa America che per due volte sperò nell’impeachment di Trump. L’altra metà del Paese ha staccato subito la spina dall’inchiesta del Congresso considerandola truccata; in parte confermata nella sua diffidenza dal fatto che nella commissione parlamentare non ci sono trumpiani. Lui, “l’esule di Mar-a-Lago”, medita la rivincita nel 2024. Il trumpismo è vivo è vegeto, alimentato dagli errori della sinistra, ma proliferano i nuovi trumpiani che potrebbero batterlo al suo stesso gioco. Il vero finale del 6 gennaio deve essere ancora scritto.

Donald Trump indagato: "Falsi elettori", l'accusa che può farlo fuori per sempre. Libero Quotidiano il 27 luglio 2022

La battaglia contro Joe BIden rischia di costare carissimo a Donald Trump e alle sue ambizioni di rielezione: l'ex presidente americano, infatti, risulta indagato dal Dipartimento di Giustizia di Washington nell'ambito delle inchieste sui tentativi di ribaltare i risultati delle elezioni del 2020. A riportarlo è il Washington Post, che cita quattro persone a conoscenza della vicenda. I pubblici ministeri che stanno interrogando i testimoni davanti a un gran giurì - tra questi due importanti assistenti dell'allora vicepresidente Mike Pence - hanno indagato nei giorni scorsi sulle loro conversazioni con Trump, i suoi avvocati e altri personaggi della sua cerchia ristretta, per capire in che misura Trump fosse coinvolto in un tentativo di creare un sistema di falsi elettori negli stati vinti dal suo avversario. Il Washington Post e altre testate giornalistiche avevano precedentemente scritto che il Dipartimento di Giustizia stava esaminando la condotta di Eastman, Giuliani e altri personaggi vicini a Trump, ma non avevano riferito dell'interesse dei pubblici ministeri per le azioni di Trump, né della revisione dei tabulati telefonici dei suoi più stretti assistenti, riporta il quotidiano. 

C'è poi il capitolo Capitol Hill: secondo quanto emerge da un nuovo video relativo ad una deposizione di Chris Miller, segretario alla Difesa ad interim di Trump all'epoca dei fatti, rilasciata al comitato ristretto della Camera che indaga sull'insurrezione davanti al Campidoglio di Washington, l'allora presidente uscente non avrebbe mai impartito allo stesso Miller l'ordine formale di predisporre il dispiegamento di 10mila soldati in Campidoglio il 6 gennaio 2021. "Non mi è mai stata data alcuna disposizione od ordine né sapevo di piani di quella natura", ha detto Miller nel video. "Ovviamente disponevamo di piani per attivare più persone, ma non era altro che una pianificazione di emergenza", ha aggiunto Miller. "Non c'è stato uno scambio di messaggi ufficiali o qualcosa di simile." Trump aveva precedentemente sostenuto di aver chiesto che le truppe della Guardia Nazionale fossero pronte al dispiegamento per il 6 gennaio. Il 9 giugno ha rilasciato una dichiarazione in cui ha affermato di avere allora "suggerito e offerto" lo schieramento di un numero fino a 20.000 soldati della Guardia Nazionale a Washington, DC, prima del 6 gennaio, perché sentiva "che la folla sarebbe stata molto numerosa". 

Come sta andando l’indagine su Donald Trump e l’assalto al Campidoglio. Il Congresso e le inchieste penali accumulano prove sul 6 gennaio e ora il futuro dell’ex presidente è a rischio. E anche quello della democrazia Usa. Alberto Flores D'Arcais  su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

Centottanatasette minuti, poco più di tre ore. In quel lasso di tempo, era il 6 gennaio 2021, gli Stati Uniti d’America sono stati sull’orlo del baratro, con una folla armata ed inferocita che aveva assalito il Campidoglio costringendo alla fuga senatori e deputati e un presidente - formalmente ancora in carica per pochi giorni - che quella rivolta l’aveva ispirata, voluta, forse preparata. Quanto accaduto in quei 187 minuti e il ruolo giocato da Donald Trump in una rivolta armata senza precedenti negli ultimi due secoli di storia americana, sono stati al centro giovedì scorso dell’ottava udienza della commissione ristretta di deputati che indaga sull’assalto al Congresso.

L’ultima udienza (per ora) di una indagine parlamentare che ha già messo in moto altre indagini (questa volta penali) e che condizioneranno da qui a due anni la vita pubblica e personale di The Donald e le vicende politiche e sociali dell’intera America. La deputata democratica della Virginia Elaine Luria, che ha condotto l’udienza insieme al repubblicano dell’Illinois Adam Kinzinger, ha ricordato le «dichiarazioni infiammatorie» fatte da Trump alla folla che si era radunata davanti al Campidoglio prima dell’assalto, le pressioni che The Donald fece sul vice-presidente Mike Pence perché rifiutasse di accettare la sconfitta elettorale, la volontà manifestata dall’ex presidente di marciare alla testa dei rivoltosi.

È stata una ulteriore presentazione di prove che implicano la diretta responsabilità di Trump in una cospirazione su più fronti per ribaltare la sua sconfitta alle elezioni del novembre 2020 e culminata nell’attacco armato al Congresso. Ha dimostrato l’incapacità dell’ex presidente di calmare la folla violenta e di come per diverse ore abbia mostrato una «suprema negligenza del dovere». La commissione ha esaminato cosa è successo dalla prima arringa di Trump fino a quando ha finalmente fatto una dichiarazione «alla nazione» invitando i rivoltosi ad andare a casa, ha riguardato i tweet dell’allora presidente che dalla Casa Bianca attaccava Pence per la mancanza di «coraggio di fare ciò che si sarebbe dovuto fare» per poi finire col dire alla folla violenta di «rimanere pacifica».

Prove su prove per capire se Trump abbia violato i suoi doveri di presidente degli Stati Uniti, se abbia fedelmente o meno seguito la legge, se sia stato all’altezza del suo giuramento e della sua responsabilità nei confronti del popolo americano. A dare una mano alle motivazioni di Luria ci ha pensato Liz Cheney, deputato repubblicano del Wyoming e figlia dell’ex vice-presidente di George W. Bush, che in una precedente udienza aveva mostrato come Trump «non fosse riuscito a prendere provvedimenti immediati per fermare la violenza e a dare istruzioni ai suoi sostenitori di lasciare il Campidoglio». Cheney che alla vigilia dell’udienza ha confermato le prove: «Ascolterete un resoconto momento per momento dell’attacco durato ore da più di una mezza dozzina di membri dello staff della Casa Bianca, sia dal vivo nella sala delle udienze che attraverso testimonianze video. Non c’è dubbio che il presidente Trump fosse ben consapevole della violenza che si stava sviluppando. Non solo si è rifiutato di dire alla folla di lasciare il Campidoglio, ma non ha chiamato nessun membro del governo degli Stati Uniti per ordinare di difendere il Campidoglio. Non ha chiamato il suo segretario alla Difesa il 6 gennaio, non ha parlato con il suo ministro di Giustizia e neanche con il dipartimento di Sicurezza nazionale».

Il futuro di Trump, del partito repubblicano e della stessa America è in gioco tra le indagini del Congresso e quelle penali che coinvolgono alcuni dei suoi più stretti collaboratori. ll dipartimento di Giustizia sta aumentando il numero di procuratori e di risorse per le indagini sulle azioni di chi si è alleato all’ex presidente per rovesciare il risultato elettorale del 2020, visto che le udienze del Congresso hanno fatto crescere il ruolo avuto dallo stesso Trump. Ad oggi i procuratori hanno accusato circa 850 persone in relazione alle violenze del 6 gennaio, tra cui più di una dozzina di membri di gruppi di destra accusati di cospirazione sediziosa contro gli Stati Uniti. Dalla fine del 2021 il dipartimento di Giustizia ha iniziato ad indagare anche sulle fonti di finanziamento dei gruppi dell’estrema destra, assegnando le indagini a un noto e capace procuratore del Maryland, Thomas Windom.

Inizialmente Windom aveva incontrato un certo scetticismo all’interno del ministero di Giustizia per le indagini sulle attività di diversi membri della cerchia ristretta di Trump, ma le ultime udienze e i nuovi dettagli sul coinvolgimento dei suoi fedelissimi gli hanno dato ragione e l’ex presidente potrebbe trovarsi presto ad essere accusato direttamente di frode, istigazione alla rivolta e ostacolo alla certificazione delle elezioni. C’è la testimonianza di Cassidy Hutchinson, ex assistente del capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows, che ha rivelato come Trump sapesse che alcuni dei manifestanti erano armati, ma li ha voluti comunque al suo raduno e al Campidoglio: «Non mi interessa che abbiano armi, non sono qui per farmi del male. Fate entrare la gente, da qui possono marciare verso il Congresso».

L’altro punto dolente per Trump riguarda le rivelazioni sull’operato del Secret Service, gli agenti al diretto servizio di ogni presidente Usa. Durante le audizioni al Congresso sono stati confermati diversi dettagli sugli scambi di messaggi tra Trump e gli uomini della sua scorta, quando all’ex presidente venne detto che non poteva recarsi - come avrebbe voluto - al Campidoglio per guidare il corteo. Una settimana fa la commissione della Camera ha emesso un mandato di comparizione ai dirigenti del Secret Service per ottenere i messaggi del 5 e 6 gennaio 2021 che sarebbero stati cancellati, oltre a tutti i rapporti successivi all’azione. Una decisione presa dopo che l’ispettore generale del Dipartimento di Sicurezza Nazionale, l’agenzia madre dei Servizi Segreti, ha incontrato la commissione e ha detto ai deputati che molti dei testi sono stati cancellati come parte di un programma di sostituzione dei dispositivi anche dopo che l’ispettore generale li aveva richiesti come parte della sua indagine sugli eventi del 6 gennaio.

Anche in questo caso decisiva la testimonianza di Cassidy Hutchinson che ha ricordato come l’allora vice capo dello staff della Casa Bianca Tony Ornato - che aveva lavorato in precedenza per il Secret Service e poi era tornato all’agenzia nel 2021 - le ha detto il 6 gennaio che Trump era così infuriato con la sua scorta per avergli impedito di andare al Campidoglio che prima «ha allungato una mano verso la parte anteriore dell’auto presidenziale per afferrare il volante e con l’altra ha tentato di spingere via Robert Engel», l’agente a capo del Secret service. Hutchinson ha testimoniato che Ornato le ha raccontato la storia di fronte a Engel e che quest’ultimo non ha contestato il racconto.

Le audizioni al Congresso hanno dimostrato come una triplice serie di elementi abbia portato al violento assalto al Campidoglio: un presidente che chiama all’azione sostenitori infuriati; una folla di ferventi sostenitori che crede alla “grande bugia” delle “elezioni rubate”; gruppi di estremisti violenti ed organizzati che guidano la folla all’assalto. Tre elementi che hanno sfruttato la rete per diffondere disinformazione, pianificare un attacco violento, mobilitare una folla e fomentare la rabbia. Donald Trump e i suoi sostenitori hanno efficacemente approfittato di piattaforme di social media che hanno permesso alla disinformazione di agire liberamente, di reti online in grado di mobilitare rapidamente milioni di persone su siti web pro-Trump (come Parler, 4chan e Gab) e di decine di milioni di americani che non sono in grado di separare i fatti dalla finzione, soprattutto quando le informazioni false provengono da persone che dovrebbero essere fonti attendibili, come il presidente degli Stati Uniti.

Per quasi un anno la squadra di fedelissimi che lavora per riportare Donald Trump alla Casa Bianca ha sconsigliato l’ex presidente dall’annunciare la sua candidatura per il 2024 prima delle elezioni di metà mandato (novembre 2022), temendo che potesse essere un freno per diversi candidati repubblicani del 2022 e che verrebbe incolpato nel caso di risultati per il Grand Old Party inferiori alle attese. Con i possibili avversari per la nomination (in prima fila il Governatore della Florida Ron DeSantis, l’ex vicepresidente Mike Pence, il senatore della South carlina Tim Scott, il Governatore del Texas Greg Abbott e l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley) a sperare che non lo facesse.

Le audizioni al Congresso hanno convinto ancora di più Trump, che sembra intenzionato ad annunciare la sua candidatura entro settembre. Secondo rivelazioni del magazine Rolling Stone, da settimane l’ex presidente ha chiarito ai suoi collaboratori come le protezioni legali legate all’occupazione dello Studio Ovale siano per lui la cosa più importante. Gli ha spiegato che «quando sei il presidente degli Stati Uniti è molto difficile per i procuratori politicamente motivati arrivare a incriminarti» e che quando sarà di nuovo presidente «una nuova amministrazione repubblicana metterà fine alle indagini». Il futuro dell’America si gioca nei prossimi mesi.

ASSALTO CAPITOL, 4 MESI A BANNON PER OLTRAGGIO A CONGRESSO

(ANSA il 21 ottobre 2022) - Steve Bannon, l'ex capo della campagna elettorale di Donald Trump e suo stratega alla Casa Bianca, è stato condannato da una corte federale di Washington a quattro mesi e 6500 dollari di multa per oltraggio al Congresso per essersi rifiutato di testimoniare e fornire documenti nell'indagine sull'assalto al Capitol. Secondo i procuratori, da quando ha ricevuto il mandato di comparizione, Bannon "ha perseguito una strategia in mala fede di sfida e disprezzo". Anche Trump è destinatario di un 'subpoena' per testimoniare davanti al Congresso.

Steve Bannon non andrà subito in prigione dopo la condanna per oltraggio al Congresso: il giudice Carl Nichols - nominato da Donald Trump - ha sospeso la pena in attesa del preannunciato appello. La condanna era di quattro mesi per ciascuno dei due capi di imputazione, poi riunificati in continuazione in un'unica pena di 4 mesi, due mesi in meno di quella richiesta dall'accusa (insieme a 200 mila dollari di multa). Prima di leggere la sentenza, il giudice aveva sottolineato che Bannon non ha espresso rimorso e lui ha risposto che non aveva alcuna ragione di farlo e di scusarsi perché non ha fatto nulla di male.

"L'8 novembre - giorno delle elezioni di Midterm, ndr - sarà un giudizio sul governo illegittimo di Joe Biden, Nancy Pelosi perderà il posto ...e Merrick Garland sarà il primo attorney general a finire sotto impeachment": lo ha detto ai reporter Steve Bannon, ex stratega di Donald Trump, dopo la condanna per oltraggio al Congresso nelle indagini parlamentari sull'assalto al Capitol.

"Rispetto il giudice e la sua sentenza ma faremo un appello vigoroso": lo ha detto ai reporter Steve Bannon, ex stratega di Donald Trump, dopo la condanna per oltraggio al Congresso nelle indagini parlamentari sull'assalto al Capitol. Bannon ha ricordato di aver collaborato "più di ogni altro" testimoniando nel Russiagate nelle indagini del procuratore speciale Robert Mueller e delle commissioni intelligence del Congresso.

Assalto a Capitol Hill, Steve Bannon condannato: "Oltraggio al Congresso". Il Tempo il 21 ottobre 2022

 "Rispetto il giudice e la sentenza. Ora faremo un vigoroso processo di appello. Ho un ottimo team legale e ci saranno più aree di ricorso". Steve Bannon, già stratega dell’ex presidente Donald Trump, commenta così la condanna a quattro mesi di carcere per non aver risposto a una citazione del comitato della Camera che indaga sull’insurrezione del 6 gennaio al Campidoglio degli Stati Uniti e per essersi rifiutato di fornire documenti. Il guru della destra americana, e non solo, è stato condannato a quattro mesi per oltraggio al Congresso. Il giudice Carl Nichols ha stabilito che Bannon non dovrà scontare la pena fino a quando non sarà completato il processo di appello.

L’accusa aveva chiesto 6 mesi di detenzione e 200mila dollari di multa, mentre il giudice ha imposto una multa di 6.500 dollari, e una pena detentiva minore, anche se superiore alla minimo obbligatorio di un mese per questo tipo di reato che raramente viene perseguito. Se Bannon alla fine verrà effettivamente mandato in prigione, sarà la prima persona a scontare una pena detentiva per aver sfidato un mandato del Congresso in oltre mezzo secolo.

Non è stata invece assolutamente accolta la linea della difesa, che contestava che vi fosse una sentenza minima obbligatoria e che Bannon "non ha nulla di cui scusarsi", come ha detto l’avvocato David Schoen perché "non c’è nulla da punire" visto che non avrebbe fatto altro che difendere i valori e le istituzioni americane. La difesa ha anche proposto la linea secondo cui Bannon - avendo lavorato per la Casa Bianca per meno di anno all’inizio dell’amministrazione Trump - sarebbe stato protetto ancora dal privilegio esecutivo. Di parere contrario il giudice Nichols, che - come aggravante - ha sottolineato che Bannon "non ha mostrato nessun rimorso" per il suo atteggiamento nei confronti del Congresso, definendo "grave" che non abbia voluto collaborare con l’inchiesta della Camera per fare luce sui fatti del 6 gennaio.

Trump chiamato a testimoniare sull’assalto al Congresso: battaglia legale all’orizzonte. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 21 Ottobre 2022 

L’ex presidente dovrebbe rispondere alle domande il 14 novembre, ma annuncia ricorsi (fino alla Corte Suprema). Il suo consigliere Bannon condannato a 4 mesi

Donald Trump è stato presidente dal 2017 al 2021

La Commissione di inchiesta sul 6 gennaio ha convocato d’imperio (subpoena) Donald Trump . L’ex presidente dovrà consegnare una serie di documenti entro il 4 novembre e poi dovrà presentarsi il 14 novembre, «giorno più giorno meno», per testimoniare sotto giuramento. I nove parlamentari dell’organismo avevano preso questa decisione all’unanimità il 13 ottobre, al termine di una seduta in cui vennero proiettati video inediti, girati nel giorno dell’assalto. Memorabile quello che riprende la Speaker Nancy Pelosi mentre esclama: «Tutto ciò per colpa del presidente, gli darei un pugno in faccia». Di fatto è la stessa conclusione raggiunta dopo più di un anno di indagini dalla Commissione: Trump ha organizzato e fomentato i tumulti. E la lettera di convocazione inviata ieri costituisce un simbolico «pugno in faccia» all’ex leader della Casa Bianca.

Nei giorni scorsi Trump aveva risposto con una lettera, attaccando ancora una volta il lavoro della Commissione: «È una caccia alle streghe». È probabile, quindi, che «The Donald» non comparirà davanti alla Commissione, innescando una battaglia legale che potrebbe arrivare fino alla Corte Suprema, dove i giudici conservatori sono in larga maggioranza. In ogni caso non ci sono precedenti giuridici. Anche la Commissione, però, può mettere in campo mosse insidiose per Trump. Nei mesi scorsi ha chiesto al Dipartimento di Giustizia di perseguire quattro consiglieri trumpiani che si erano sottratti alla convocazione. Due di loro, Steve Bannon e Peter Navarro, sono stati incriminati. Ieri, 21 ottobre, Bannon è stato condannato a quattro mesi di carcere e a pagare una multa di 6.500 dollari. L’ex «stratega» ha presentato appello e per il momento non finirà in cella.

Novità anche su un altro fronte: nei documenti sequestrati dall’Fbi nella residenza di Trump a Mar-a-Lago, scrive il Washington Post, ci sarebbero dossier top secret sui piani missilistici dell’Iran, nonché informazioni di intelligence «sensibili» sulla Cina.

Steve Bannon condannato per «oltraggio al Congresso». «Così Trump non fermò l’assalto». Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 22 luglio 2022.  

L’ex stratega della Casa Bianca si era rifiutato di rispondere alla convocazione della Commissione sul 6 gennaio. È stato uno dei pochi interlocutori di Trump nelle settimane precedenti il 6 gennaio

Tre ore e sette minuti. Immobile. Senza rispondere alle decine di chiamate dei consiglieri, dei parlamentari che lo imploravano di bloccare l’assalto a Capitol Hill . È l’immagine più sconcertante che ci consegna in diretta televisiva, giovedì 21 luglio, l’audizione della Commissione parlamentare sul 6 gennaio . Donald Trump è da solo nella saletta da pranzo, accanto allo Studio Ovale: lo sguardo puntato su un grande schermo, sintonizzato su Fox News. I testimoni di giornata, sia quelli presenti in aula che quelli sentiti in precedenza, sono d’accordo. Trump ha aspettato fino all’ultimo momento per rompere il silenzio via Twitter, con la folle speranza che quelle centinaia di vandali, di invasati, di «Sciamani», più i capetti dei «Proud Boys» e degli «Oath Keepers» potessero davvero annullare il risultato elettorale, cancellare la vittoria di Joe Biden.

Sono giornate dure per i trumpiani. Ieri la Corte federale di Washington ha condannato Steve Bannon per «oltraggio al Congresso». L’ex stratega della Casa Bianca si era rifiutato di rispondere alla convocazione di imperio (subpoena) della Commissione sul 6 gennaio. Ora sarà il giudice distrettuale Carl Nichols a stabilire l’entità della pena che sulla carta varia da 30 giorni fino a un anno di carcere. La sentenza è attesa per il 21 ottobre.

Bannon è stato uno dei pochi interlocutori di Trump nelle settimane precedenti il 6 gennaio. Tutte le figure istituzionali, invece, erano tagliate fuori. Nell’audizione di giovedì sera un consigliere che ha chiesto di non essere identificato ha riferito come Trump si rifiutasse di rispondere alle telefonate in arrivo dal Pentagono. Poi l’avvocato della Casa Bianca, Pat Cipollone, ha confermato che il presidente non interpellò nessuno dei ministri responsabili dell’ordine pubblico: né il titolare della Difesa, né quello della Giustizia o della Sicurezza interna. «Non vuole che si faccia nulla», è l’affermazione che rimbalza in quei 187 minuti tra il capo dello Staff, Mark Meadows, il dipartimento legale di Cipollone, il Consiglio di Sicurezza nazionale, l’ufficio stampa.

A un certo punto Trump telefonò al suo avvocato personale Rudy Giuliani, il complice numero uno in tutta questa vicenda tanto grave quanto sgangherata.

Un capitolo a parte merita la figlia consigliera, Ivanka Trump. Anche la seduta dell’altro ieri ha comprovato i suoi sforzi per smuovere il padre. Anche lei rimbalzata. Dopo ore di tentativi è riuscita solo a far inserire nel tweet «della distensione», l’invito rivolto ai supporter: «Siate pacifici». Suo marito Jared Kushner ha raccontato che era sotto la doccia, quando ricevette sul cellulare l’appello del leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy: «Mi chiedeva di fare qualcosa, era chiaramente impaurito».

Il finale è inedito. Il 7 gennaio Trump registra il video riparatore. Legge il testo preparato dai consiglieri, ma si imbizzarrisce almeno un paio di volte. La prima per alleggerire le parole di condanna verso i responsabili dei tumulti. La seconda per negare la sconfitta: «No, non voglio dire che le elezioni sono finite». Ora la Commissione preparerà un rapporto preliminare. Poi a settembre riprenderanno le udienze.

Trump sarà chiamato a rispondere dalla magistratura ordinaria? Il diretto interessato attacca sul suo Social «Truth»: «Questa è una Commissione che non vale una cicca. È corrotta e dice solo menzogne». Ma la risposta spetta a Merrick Garland, il ministro della Giustizia dell’Amministrazione Biden. Ci sta girando intorno da più di un anno.

Usa, Steve Bannon riconosciuto colpevole di oltraggio al congresso. Bannon fuori dal tribunale dopo la lettura del verdetto. La Repubblica il 23 luglio 2022.

L'ex stratega di Trump è stato processato per essersi rifiutato di testimoniare davanti alla commissione d'inchiesta sull'assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Rischia fino a due anni di carcere

Steve Bannon è stato riconosciuto colpevole di oltraggio al Congresso per essersi rifiutato di testimoniare davanti alla commissione d'inchiesta sull'assalto del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill. Il verdetto, pronunciato da un tribunale federale di Washington dopo tre ore di camera di consiglio, piomba come un macigno su Donald Trump e le sue ambizioni presidenziali per il 2024. L'ex stratega del miliardario, il primo a cadere nel ristretto circolo dei fedelissimi di Trump, rischia da un minimo di 30 giorni a un massimo di due anni di carcere, oltre a migliaia di dollari di multe. La sentenza è attesa per il 21 ottobre e non è chiaro come il giudice Carl Nichols, nominato dall'ex presidente, intenda muoversi. Processi come quello di Bannon sono infatti una rarità e nessuno da più di 50 anni, dai tempi della Guerra Fredda, è mai finito dietro le sbarre per oltraggio al Congresso.

Presente in aula alla lettura del verdetto, Bannon si è lasciato andare a un grande sorriso, con atteggiamento quasi di sfida. "Abbiamo perso una battaglia, ma vinceremo la guerra", ha detto fuori dal tribunale. "Io sto con Trump e con la Costituzione", ha aggiunto. Accanto a lui il suo legale David Schoen, che ha preannunciato ricorso.

Il verdetto di colpevolezza, al di là dell'ostentazione pubblica di sicurezza, è un colpo per Bannon, prima catapultato da Trump nello Studio Ovale, poi scaricato dallo stesso tycoon e ora ritenuto colpevole di oltraggio al Congresso. Anni di tensioni e alti e bassi che non hanno però intaccato i rapporti fra i due: proprio il 5 gennaio, il giorno prima dell'assalto al Congresso, Bannon e Trump si erano sentiti telefonicamente diverse volte. E proprio l'ex stratega - secondo indiscrezioni - era al Willard Hotel di Washington nei giorni precedenti all'insurrezione in qualità di componente del "centro di comando" dei fedelissimi di Trump, al lavoro giorno e notte per negare a Joe Biden la presidenza. Bannon comunque ha sempre negato ogni responsabilità per l'attacco del 6 gennaio, pur vantandosi di essere "l'architetto ideologico" degli sforzi per ribaltare il risultato delle elezioni del 2020.

"Questo non è un caso complesso ma è importante", ha detto l'assistente procuratore Molly Gaston nella sua arringa finale davanti alla giuria. Bannon "ha scelto la fedeltà a Trump invece che il rispetto della legge", ha aggiunto. I legali di Bannon hanno sostenuto che il loro assistito "non ha ignorato" alcun mandato di comparizione davanti alla commissione d'inchiesta e che la richiesta di testimoniare non solo era illegittima ma anche motivata politicamente. Parole che non sono valse a Bannon l'assoluzione, almeno in questo primo round.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 23 luglio 2022.

L'accusa è la più infamante possibile, considerando che il presidente degli Stati Uniti è anche comandante in capo delle forze armate: "Dereliction of duty", cioè inadempienza ai doveri della sua carica. In sostanza complicità con gli assalitori più violenti del Congresso, che diventa tradimento davanti a chi quel giorno perse la vita per difendere la democrazia americana.  

È stata lanciata giovedì sera, durante l'ultima audizione della Commissione d'inchiesta della Camera sull'attacco del 6 gennaio, col doppio scopo di spingere il Dipartimento alla Giustizia a incriminare Trump, ma anche di squalificarlo agli occhi degli americani per qualunque ruolo politico futuro. A partire dalla ricandidatura alla Casa Bianca. 

Axios ha rivelato che l'ex presidente già prepara una rivoluzione del governo federale, in caso di vittoria nel 2024, per togliere i funzionari di carriera e rimpiazzarli con fedelissimi disposti a tutto per lui. Nelle stesse ore l'ex stratega di Trump, Steve Bannon, è stato riconosciuto colpevole di oltraggio al Congresso da un tribunale di Washington per essersi rifiutato di testimoniare sull'assalto a Capitol Hill. 

L'audizione di giovedì, trasmessa in diretta tv, si è concentrata sul fatto che Trump non ha reagito alle violenze per 187 minuti, evitando di fermare i suoi sostenitori. Anzi, incitandoli con i messaggi via Twitter e dando luce verde all'assalto. E il giorno dopo, quando ha registrato un messaggio di condanna, si è rifiutato di ammettere che le elezioni erano finite. 

I testimoni principali sono stati l'ex vice consigliere per la sicurezza nazionale Pottinger e la vice portavoce Matthews, entrambi dimessi dopo l'assalto. Hanno raccontato lo stupore nella Casa Bianca per quanto stava accadendo, ma soprattutto per l'inazione di Trump, chiuso nella sala da pranzo a guardare le violenze in tv. La confessione più drammatica, però, è stata quella anonima di un agente incaricato di proteggere il vicepresidente Pence: «Alcuni di noi hanno chiamato le famiglie per dire addio. La situazione era così grave che non sapevamo se le avremmo riviste».

I principali elementi emersi sono quattro. Primo, Trump aveva ignorato le richieste di tutti, inclusi i famigliari, affinché facesse una dichiarazione pubblica per chiedere ai propri sostenitori di fermarsi. Secondo, non aveva fatto alcuna chiamata alle forze dell'ordine o ai militari, per ordinare che intervenissero. Terzo, gli agenti del Secret Service che scortavano Pence avevano temuto per la loro vita, al punto di considerare l'uso della forza per consentire alla seconda carica dello Stato di mettersi in salvo. 

Eppure il presidente non aveva mosso un dito per aiutarlo, perché riteneva che il vice meritasse di essere punito per non aver negato la certificazione della vittoria di Biden. Quarto, neppure il giorno dopo, quando finalmente aveva registrato una dichiarazione video contro le violenze, aveva ammesso di aver perso le elezioni. Le immagini lo mostrano mentre legge il discorso dal teleprompter, ma poi si ferma e dice alla figlia Ivanka: «Non voglio dire che le elezioni sono finite, solo che il Congresso ha certificato il risultato ». Quindi non era disposto a smentire la "grande bugia", che aveva fomentato l'assalto.

Con questa audizione si è chiuso il primo ciclo. La vicepresidente della Commissione Cheney, repubblicana che rischia il posto per questo suo ruolo, ha detto che le testimonianze dovrebbero screditare Trump per qualsiasi futuro politico, perché aveva messo il suo interesse personale davanti a quello dell'America, sfruttando anche la violenza. Il collega Kinzinger ha aggiunto che le audizioni hanno «rivelato prove sufficienti a incriminarlo». 

Questa decisione ora spetta al segretario alla Giustizia Garland, che però vuole la certezza di riuscire a condannare Trump, perché altrimenti gli aprirebbe la porta del ritorno alla Casa Bianca, sostenendo di essere stato vittima di una caccia alle streghe politica. A settembre la Commissione tornerà a riunirsi, con l'obiettivo di scoprire altre prove per convincerlo ad agire.

(ANSA il 21 luglio 2022) - Al via l'udienza pubblica della commissione di inchiesta sul gennaio. In aula a testimoniare dal vivo ci sono due ex dell'amministrazione Trump, il ex vice consigliere alla sicurezza nazionale Matthew Pottinger e l'ex portavoce dell'allora Casa Bianca Sarah Matthew. 

Matthew ha lasciato l'amministrazione proprio per il 6 gennaio perchè "disturbata" dagli eventi dell'assalto al Capitol Hill. Pottinger si è dimesso la notte dell'attacco a causa del tweet di Donald Trump in cui dava del codardo a Mike Pence

"Per un mese e mezzo abbiamo illustrato tutto quello" che Donald Trump "ha fatto per ribaltare il voto" delle elezioni: "oggi vi illustriamo quello che non ha fatto nei 187 minuti" dell'insurrezione nonostante le pressioni dei suoi consiglieri, inclusi i figli Ivanka e Eric. Lo afferma il presidente della commissione sul 6 gennaio, il democratico Bennie Thompson, in videocollegamento, Thompson è infatti assente a causa del Covid.

"Trascorreremo agosto a valutare le altre informazioni che ci sono arrivate e nuove udienze" della commissione di indagine sul 6 gennaio "ci saranno in settembre". Lo afferma Liz Cheney, la deputata repubblicana componente della commissione speciale che indaga sull'assalto al Congresso.

Donald Trump si "è seduto e ha guardato in televisione l'assalto" al Congresso nonostante le pressioni a intervenire. E' quanto emerge dall'udienza pubblica della commissione di inchiesta sul 6 gennaio. "Non ha fatto nulla", afferma il deputato repubblicano Adam Kinzinger componente della commissione speciale. "Trump ha scelto di non agire", aggiunge.

Trump ha saputo che il Congresso era sotto attacco 15 minuti dopo aver lasciato il luogo dove ha tenuto il comizio che ha preceduto l'assalto a Capitol Hill, ricostruisce la commissione di inchiesta sul 6 gennaio mostrando le carte degli impegni dell'ex presidente di quel 6 gennaio. Un pomeriggio trascorso senza appuntamenti almeno fino alle 16.02, ovvero poco prima della pubblicazione del video in cui chiedeva ai suoi sostenitori di andare a casa.

Donald Trump "ha cercato di distruggere le nostre istituzioni democratiche" e ha "aperto la via al disordine e alla corruzione" per ribaltare l'esito del voto. Lo afferma Bennie Thompson, il presidente della commissione di inchiesta sul 6 gennaio.

Donald Trump ha "gettato benzina sul fuoco. Con il suo tweet su Mike Pence il 6 gennaio ha dato l'autorizzazione all'assalto". Lo ha detto Sarah Matthew, l'ex vice portavoce della Casa Bianca di Trump testimoniando davanti alla commissione di inchiesta sull'assalto con Congresso. Matthew fa riferimento al cinguettio in cui Trump accusa Pence di non avere il coraggio di fermare la certificazione dei voti e lo definisce un codardo.

"Indifendibile". Così Liz Cheney, la deputata repubblicana che siede nella commissione di indagine sul 6 gennaio, definisce il comportamento di Donald Trump durante l'assalto al Congresso.

Trump «voleva marciare sul Congresso alla testa dei rivoltosi». E urlò: «Non voglio dire di aver perso». Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 22 Luglio 2022. 

I messaggi cancellati, la volontà dell’ex presidente di assaltare lui stesso il Campidoglio, il rifiuto di twittare la parola «peace». Gli elementi veramente nuovi usciti dall’ultima udienza della commissione prima della pausa estiva 

Un poliziotto della scorta (il sergente Mark Robinson) che, nel silenzio dei servizi segreti che hanno cancellato i messaggi registrati sui loro cellulari in quei giorni, ha confermato quanto sostenuto in una precedente udienza da Cassidy Hutchinson, un’assistente dello staff del presidente: dopo il suo discorso incendiario davanti alla Casa Bianca, Donald Trump voleva marciare lui stesso verso il Congresso, alla testa dei suoi supporter che l’avrebbero invaso. 

Il presidente repubblicano che non solo per ore non ha fatto nulla per fermare l’assalto, ma si è rifiutato più volte di inserire la parola peace nei suoi tweet, fino a quando la figlia Ivanka l’ha convinto a farlo. 

Il video integrale del messaggio televisivo agli americani con Trump che comincia a leggere il testo preparato, poi blocca tutto gridando che non vuole dire che le elezioni sono finite, né vuole condannare le violenze della sua gente.

Gli scambi di messaggi fra collaboratori di Trump nei quali Tim Murtaugh, il portavoce della sua campagna 2020, spiega che il presidente non riconoscerà mai la gravità di quanto avvenuto con l’assalto al Congresso e la morte di poliziotti perché questo significherebbe condannare la gente che lo ama e ammettere le sue responsabilità. 

Sono questi gli elementi davvero nuovi emersi dallo hearing della notte scorsa della Commissione parlamentare che indaga sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 nel corso della quale altri due membri della Casa Bianca di Trump, il viceconsigliere per la Sicurezza nazionale Matthew Pottinger, e la viceresponsabile della comunicazione della Casa Bianca, Sarah Matthews, hanno ricostruito e condannato il comportamento del presidente in quelle ore drammatiche. 

Quella di stanotte non è stata, come molti si aspettavano, l’udienza conclusiva: l’inchiesta parlamentare riprenderà a settembre. Sono in arrivo altri testimoni, ma il quadro è ormai chiaro e questa seduta conclusiva prima della pausa estiva ha avuto due momenti importanti. Il primo è stato quello della ricostruzione minuziosa delle tre ore (187 minuti, per la precisione) nelle quali Trump non ha mosso un dito mentre i suoi fan assaltavano il Congresso e minacciavano di impiccare il suo vice, Mike Pence. Molti fatti erano noti, ma sono stati dimenticati o sono stati narrati fuori contesto: è impressionante, ora, rivedere il film di quelle ore con tutti i collaboratori di Trump che lo implorano, senza successo, di fermare la rivolta. Quando, alla fine, lo fa, chiede pace ma giustifica la violenza come reazione alle elezioni che continua a definire rubate senza alcuna prova. In realtà è lui che sta tentando di rubare la vittoria a Biden con una manovra premeditata come dimostra una registrazione di Steve Bannon: il suo stratega e confidente, 4 giorni prima del voto sostiene che, appena chiuse le urne, Trump dovrà dichiararsi vincitore, anche se ha perso. E’ quello che farà il leader repubblicano.

Fa, poi, impressione riascoltare personaggi come il leader repubblicano alla Camera, Kevin McCarthy, che ora ha ricucito i rapporti con Trump: in quelle ore condannò in modo perentorio il presidente, giudicato l’unico responsabile dei fatti gravissimi avvenuti. Lo stesso McCarthy quando, assediato dai ribelli, chiese aiuto telefonicamente a Trump perché bloccasse i suoi supporter violenti, si sentì rispondere da un presidente gelido: “Evidentemente questi manifestanti sono più preoccupati di te del risultato del voto”. Il secondo messaggio, forse il più forte, è venuto dalle considerazioni finali di Liz Cheney e Adam Kinzinger, i due parlamentari repubblicani che, accettando di entrare nella Commissione d’inchiesta, si sono esposti agli attacchi feroci di altri membri del loro partito e a minacce di ogni genere rivolte a loro e alle loro famiglie. Kinzinger, un deputato del’Illinois, ha ammonito che i giuramenti contano, il temperamento conta, la verità conta: ”Se perdiamo la fede nel valore di questi principi (tutti violati da Trump, ndr) il nostro grande esperimento democratico non durerà”. Mentre Liz Cheney, da tempo convinta che Trump sia un tarlo mortale per il partito repubblicano, ha ricordato come fin dal 2016 l’immobiliarista e conduttore televisivo divenuto presidente abbia fotografato la fiducia cieca riposta in lui dai suoi supporter con un’immagine ormai celebre: “Posso scendere sulla Fifth Avenue, sparare e uccidere un uomo senza perdere un voto”. “La cosa più spaventosa” ha concluso la parlamentare conservatrice, “è che, proprio sfruttando l’amore sconfinato per lui di questa gente, Trump, dichiarandosi vincitore senza aver vinto e scatenando la folla, ha trasformato il loro patriottismo e il loro amore per il Paese in un’arma usata per colpire il Parlamento e violare la Costituzione”. Massimo Gaggi

LE AUDIZIONI. Il gran finale di Capitol Hill: per la commissione d’inchiesta Trump non ha agito per evitare l’assalto. ENRICO DEAGLIO su Il Domani il 22 luglio 2022

Ieri, abbiamo visto il grande finale al rallentatore: tutto quello che ha fatto il presidente, da quando i servizi lo hanno riportato suo malgrado a casa.

E dunque, cosa ha fatto Trump per più di tre ore? Niente. Nessuno per 187 minuti riuscì a comunicare con lui, il fotografo ufficiale della Casa Bianca venne allontanato e non ci sono negli archivi della Casa Bianca notizie di quanto abbia fatto il presidente in quelle tre ore, chi abbia visto o con chi abbia parlato.

Dopo essere stato costretto a ordinare ai suoi di tornare a casa in pace con un video girato nel giardino delle rose della Casa Bianca, si ritira nei suoi appartamenti. Ricompare il 7 mattina, per registrare un commento sugli avvenimenti. La commissione 6 gennaio è riuscita a farsi consegnare il video di quell’intervento, ed è grottesco.

ENRICO DEAGLIO. Giornalista, scrittore e conduttore televisivo italiano. Si è laureato all'Università degli Studi di Torino in Medicina e chirurgia nel giugno 1971, e iniziò a lavorare come medico presso l'Ospedale Mauriziano Umberto I. A metà degli anni settanta ha iniziato l'attività giornalistica a Roma, presso il quotidiano Lotta Continua, di cui è stato direttore dal 1977 al 1982. Successivamente ha lavorato in numerose testate ed è stato direttore del quotidiano Reporter tra l'85 e l'86, ed in seguito collaboratore del quotidiano La Stampa di Torino.

L'ex consigliere di Trump John Bolton: "Ho aiutato a organizzare golpe all'estero". Redazione Tgcom24 il 14 luglio 2022. 

Una critica all'ex presidente Usa Donald Trump si è trasformata in una clamorosa ammissione di responsabilità per John Bolton, ex consigliere per la Sicurezza nazionale proprio di Trump ed ex ambasciatore Usa all'Onu di George W. Bush. Parlando dell'attacco a Capitol Hill, Bolton, spiegando che l'azione non era stata pianificata con attenzione come dovrebbe essere un golpe, ha infatti inavvertitamente rivelato di aver contribuito a organizzare colpi di Stato all'estero, suscitando la reazione di vari Paesi, dalla Russia alla Cina, dalla Bolivia al Venezuela e alla Turchia.

Parlando con la Cnn, Bolton ha sottolineato che l'attacco al Campidoglio del 6 gennaio 2021 "non fu un colpo di Stato attentamente pianificato", e per provarlo si è lasciato sfuggire il fatto che lui in questo campo è un esperto. "Come persona che ha aiutato a fare colpi di Stato, non qui ma in altri posti, ciò richiede un sacco di lavoro e questo non è quello che ha fatto" Trump. Quella che doveva essere una critica sulla mancanza di organizzazione dell'ex presidente è così diventata un boomerang per Bolton.

Le sue parole non sono infatti passate inosservate: diventate virali sui social, con milioni di visualizzazioni da tutte le parti del mondo, nel giro di qualche ora hanno suscitato anche condanne ufficiali e speculazioni informali da parte di osservatori stranieri, specialmente in quei Paesi dove decenni di interventismo Usa hanno lasciato il segno.

Mosca ha subito preso la palla al balzo, e la portavoce del ministero degli Esteri, Maria Zakharova, ha chiesto una indagine internazionale sottolineando che "è importante conoscere in quali altri Paesi gli Stati Uniti hanno pianificato colpi di Stato". E per Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri cinese, la sortita di Bolton "non è una sorpresa. L'ammissione mostra semplicemente che interferire negli affari interni di altri Paesi e rovesciare i loro governi è diventata una prassi del governo Usa".

Evo Morales, ex presidente della Bolivia cacciato dall'esercito nel 2019 sullo sfondo di accuse di elezioni non trasparenti, ha twittato che le parole di Bolton mostrano che gli Stati Uniti "sono il peggior nemico della democrazia e della vita". Mentre in Turchia un giornale locale pro-Erdogan ha legato le dichiarazioni dell'ex consigliere per la Sicurezza nazionale Usa al fallito tentativo di rovesciare il governo di Ankara nel 2016 (quando però Bolton non aveva cariche di governo).

Bolton non ha comunque specificato in quali golpe sia stato coinvolto; pressato dall'intervistatore ha però citato il fallito tentativo di fare cadere il presidente venezuelano Nicolas Maduro nel 2019, pur precisando che gli Usa non hanno avuto "molto a che fare con ciò". Maduro non ha replicato, ma Samuel Moncada, ambasciatore venezuelano all'Onu, ha twittato che Bolton ha ragione: "I colpi di Stato richiedono un sacco di lavoro. Per questo motivo ha fallito con i suoi agenti in Venezuela".

Lo scivolone in tv. John Bolton, l’ammissione alla Cnn dell’ex consigliere di Trump: “Ho contribuito a colpi di Stato”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Luglio 2022 

Un pasticcio che ha provocato una nuova crisi diplomatica. È quello provocato dalle parole rilasciate nel corso di una intervista alla Cnn da John Bolton, ex consigliere per la Sicurezza nazionale di Donald Trump ed ex ambasciatore Usa all’Onu con George W. Bush, che all’emittente statunitense ha ammesso di aver contribuito a colpi di Stato all’estero.

A Bolton, già fedelissimo di Trump da cui ha poi preso le distanze, il giornalista della Cnn Jake Tapper chiedeva informazioni sull’attacco dei supporters dell’ex presidente a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. Per l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale quello al Campidoglio però “non fu un colpo di Stato attentamente pianificato”.

Un giudizio basato sull’esperienza personale, racconta Bolton: “Come persona che ha aiutato a fare colpi di Stato, non qui ma in altri posti, esso richiede un sacco di lavoro e questo non è quello che ha fatto (Trump, ndr)”.

Il tentativo di criticare l’ex presidente si è trasformato, con queste parole, in un boomerang clamoroso: le parole di Bolton alla Cnn in poche ore sono rimbalzate sulla rete e sui social, provocando reazioni ufficiali e condanne da parte di quei Paesi dove “l’interventismo” americano ha lasciato segni evidenti. 

Ovviamente tra i primi a prendere la palla al balzo per attaccare Washington sono stati i russi. Gli ‘avversari’ nella guerra in Ucraina, tramite il portavoce del ministero degli Esteri Maria Zakharova, hanno chiesto una indagine internazionale sottolineando che “è importante conoscere in quali altri Paesi gli Stati Uniti hanno pianificato colpi di Stato“.

A fargli eco i colleghi cinesi. Wang Wenbin, portavoce del ministero degli Esteri cinese, ha spiegato che l’ammissione di Bolton “mostra semplicemente che interferire negli affari interni di altri Paesi e rovesciare i loro governi è diventato una prassi del governo Usa“, ha aggiunto. Evo Morales, l’ex presidente della Bolivia cacciato dall’esercito nel 2019 sullo sfondo di accuse di elezioni non trasparenti, ha twittato che le parole di Bolton mostrano che gli Stati Uniti “sono il peggior nemico della democrazia e della vita“. In Turchia un giornale pro-Erdogan ha legato invece le ultime dichiarazioni dell’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Usa al fallito tentativo di rovesciare il governo di Ankara nel 2016, quando però non aveva cariche di governo.

In realtà Bolton nell’intervista non ha specificato in quale golpe di matrice americana è stato coinvolto, pur puntando il focus sul il fallito tentativo di fare cadere il presidente venezuelano Nicolas Maduro nel 2019, sottolineando allo stesso modo che gli Stati Uniti non hanno avuto “molto a che fare con esso”. Maduro non ha commentato al momento le parole di Bolton, mentre 

Samuel Moncada, ambasciatore venezuelano all’Onu, ha twittato che l’ex fedelissimo di Trump ha ragione: “I colpi di Stato richiedono un sacco di lavoro. Per questo motivo ha fallito con i suoi agenti in Venezuela“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Telefonate a Bannon e tweet. Così Trump soffiò sull'assalto. Gaia Cesare il 14 Luglio 2022 su Il Giornale.

Alla vigilia dell'irruzione in Campidoglio, l'ex guru parlò con The Donald e poi annunciò in radio: "Sarà l'inferno".

Undici minuti di telefonata con Donald Trump. Poi Steve Bannon registra il suo podcast e annuncia agli ascoltatori: «Domani si scatenerà l'inferno». Sono le 8.57 del mattino del 5 gennaio 2021 quando i due si parlano per la prima volta, alla vigilia dell'assalto a Capitol Hill, inferno vero per la democrazia americana, le sue istituzioni e l'immagine degli Stati Uniti nel mondo. La conversazione tra The Donald, reduce dalla sconfitta alle presidenziali del 3 novembre, e il guru dell'estrema destra americana, ex stratega del presidente bocciato alle urne, emerge dalla settima audizione pubblica della Commissione della Camera degli Stati Uniti. In cui si scopre che una seconda chiamata con Trump si è svolta subito dopo l'intervento di Bannon, della durata di sei minuti. E peggio ancora che l'ex presidente era pronto a pubblicare un tweet in cui scriveva, in vista del giorno della ratifica del risultato elettorale: «Terrò un Grande Discorso alle 10 del mattino, il 6 gennaio, all'Ellipse, a Sud della Casa Bianca. Arrivate per tempo, sono attese grandi folle. Marciate sul Campidoglio, dopo. Fermiamo questo Furto!!». Il testo non è datato ma era già stato approvato e alla fine non è mai stato pubblicato perché i consiglieri del presidente e i suoi legali lo convinsero a non farlo. Ora è conservato negli Archivi nazionali.

L'audizione è probabilmente la penultima di una serie basata sull'indagine di dieci mesi che sta accertando cosa accadde dietro le quinte e chi soffiò sul tentativo di insurrezione attuato a Washington il 6 gennaio di un anno fa, quando migliaia di manifestanti contestarono il risultato delle presidenziali che videro Trump sconfitto e Joe Biden eletto alla Casa Bianca e centinaia entrarono armati in Campidoglio. Quel che si scopre è che l'allora presidente «The Donald» aveva pianificato per giorni l'arrivo dei suoi sostenitori, che funzionari della Casa Bianca e organizzatori della marcia si scambiarono e-mail e messaggi compromettenti: «Non possiamo dirlo, ma il presidente ci chiederà di marciare sul Campidoglio», si legge in uno dei documenti emersi. E infine che ventiquattrore prima dell'assalto Trump parlò almeno due volte, stando ai registri della White House, con l'ex ideologo della sua Amministrazione e del neopopulismo di estrema destra. E dopo quelle chiacchierate, Bannon si rivolse al suo pubblico. «Tutto sta convergendo e noi siamo, come si dice, a un punto di attacco - spiegò nel suo show radiofonico, trasmesso durante l'audizione al Congresso - Vi dico questo: non succederà come voi pensate che possa succedere. Sarà straordinariamente differente - fu la previsione - e tutto quello che posso dirvi è: allacciate le cinture». L'indomani la folla inferocita, e in parte armata, fece irruzione al Congresso e minacciò perfino il vicepresidente Mike Pence.

In attesa del rapporto della Commissione, che sarà pubblicato probabilmente a settembre, anche questi tasselli possono contribuire a completare un puzzle che i detrattori di Trump sperano porti alla sua incriminazione, proprio adesso che l'ex presidente repubblicano intende annunciare la candidatura alla Casa Bianca per il 2024. Eppure la strada legale resta ancora incerta.

Quel che accade oggi, intanto, è che la rivelazione sulle conversazioni Trump-Bannon, arriva a pochi giorni dall'inizio del processo per oltraggio al Congresso contro Bannon, fissato per il 18 luglio. L'ex consigliere di Trump si è infatti rifiutato di rispettare il mandato di comparizione per testimoniare di fronte alla Commissione, salvo dire nei giorni scorsi di essere pronto a negoziare una sua testimonianza, preferibilmente con un'audizione pubblica, per tornare al centro dei riflettori e trasformare l'evento in uno show. O forse anche nel tentativo di far rinviare l'inizio del processo, per il quale potrebbe essere condannato a multe o pene detentive. Trump, secondo il Washington Post, sarebbe pronto a rinunciare al privilegio esecutivo, cioè al diritto del presidente a mantenere segrete e confidenziali conversazioni, email e messaggi, se l'ex consigliere «riuscirà a raggiungere un accordo sui termini della sua eventuale testimonianza». La strana coppia dell'estrema destra americana sembra voler tornare in azione in contemporanea.

Speciale 6 gennaio: le audizioni sono la fine di Trump? L’ultima accusa: contattò un teste. Massimo Gaggi e Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.

Il tweet che mobilitò le milizie di estrema destra, lo scontro tra gli avvocati della Casa Bianca e i consiglieri più estremisti che non volevano ammettere la sconfitta. Le ultime accuse della Commissione della Camera, a guida democratica, che si avvia alla chiusura dell’indagine. Non è chiaro se le prove raccolte porteranno a un’incriminazione (ma potrebbero spingere i repubblicani ad abbandonare l’ex presidente) 

1. A che punto è l’indagine del Congresso?

Dal 9 giugno la Commissione della Camera degli Stati Uniti ha tenuto sette audizioni in diretta televisiva, basate su un’indagine durata 10 mesi sull’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, quando i manifestanti pro-Donald Trump, dopo un comizio del presidente uscente che voleva ribaltare il risultato elettorale, marciarono sul Campidoglio e lo invasero minacciando gli eletti e lo stesso vicepresidente Mike Pence. L’inchiesta si avvia alla conclusione. Nell’audizione di ieri, Trump è stato accusato di aver mobilitato con un tweet i Proud Boys, gli Oath Keepers e altri estremisti, dopo che tutti gli altri tentativi per restare al potere erano falliti. L’audizione di domani in prima serata, che si concentrerà sulle azioni (o l’inazione) di Trump il 6 gennaio, potrebbe essere l’ultima, seguita da un rapporto della Commissione, che sarà pubblicato possibilmente a settembre. Pian piano in queste cinque settimane sono emerse le responsabilità politiche, e probabilmente anche legali, dell’ex presidente. L’ultima sua mossa, rivelata ieri dalla Commissione: ha provato a chiamare un teste che deve ancora testimoniare. L’obiettivo dell’indagine è presentare prove che potrebbero consentire a un procuratore l’incriminazione di Trump, anche se questa via resta incerta. Nel frattempo l’ex presidente, che intende ricandidarsi nel 2024, perde quota nei consensi repubblicani (così come Biden crolla nelle rilevazioni che lo riguardano). Molti repubblicani, fino a sei mesi fa schierati con Trump, cominciano a pensare che forse i conservatori farebbero meglio a cambiare cavallo.

2. Le prove emerse finora sono gravi?

Il senso di ciò che emerso finora è che l’ex presidente avrebbe cercato in ogni modo di restare al potere e avrebbe incoraggiato i suoi sostenitori ad attaccare il Congresso, pur sapendo di aver perso le elezioni o ignorando ciò che tutti i suoi stretti consiglieri gli dissero ripetutamente, incluso il ministro della Giustizia Bill Barr e l’avvocato della Casa Bianca Pat Cipollone (la stessa figlia di Trump, Ivanka, ha detto di essere stata convinta dalle parole di Barr). La Commissione ha esaminato le pressioni di Trump sul vice Pence perché non certificasse il risultato alle urne, su funzionari statali perché «trovassero» altri voti, sul ministero della Giustizia perché dichiarasse fraudolenta l’elezione. Il 18 dicembre 2020 si arrivò ad uno scontro acceso e pieno di insulti tra Pat Cipollone e il suo team da una parte e, dall’altra, il cosiddetto «Team Crazy» (Rudy Giuliani, Michael Flynn e Sidney Powell) che ripeteva al presidente teorie cospirative (per esempio che il voto fosse stato rubato con i termostati) e soluzioni come sequestrare le macchine per il conteggio delle schede. Fallito ogni tentativo, il 19 dicembre Trump chiamò a raccolta il suo «popolo»: «Grande protesta a D.C. il 6 gennaio. Siateci, sarà folle». I sostenitori risposero immediatamente, annunciando piani violenti. Significative le testimonianze di membri «pentiti» delle milizie ma anche di personaggi di provata fede repubblicana, come Cassidy Hutchinson (braccio destro del capo dello staff), che ha dichiarato che Trump sapeva che molti suoi seguaci arrivati a Washington erano armati e, nonostante ciò, lui voleva guidarli al Congresso.

3. Anche Bannon testimonierà?

L’ex stratega di Trump ha annunciato domenica scorsa che rinuncerà ad invocare il privilegio esecutivo con cui finora, anche di fronte all’incriminazione per oltraggio al Congresso, aveva sfidato il mandato di comparizione. Se sperava così di sottrarsi al processo, si sbagliava: il giudice federale ha rifiutato di rimandarlo, inizierà il 18 luglio. Bannon parlò due volte con Trump il 5 gennaio e nel suo podcast annunciò: «Si scatenerà l’inferno». Ora Trump lo incoraggia a testimoniare: probabilmente spera che l’ex guru si riveli una voce in sua difesa. Non è chiaro però se la Commissione deciderà di accettare le condizioni di Bannon che chiede di parlare in diretta tv anziché a porte chiuse, e potrebbe trasformare questa occasione in un palcoscenico, mentre la possibilità di scoprire ciò che sa resta incerta: può appellarsi al 5° Emendamento (rifiutandosi di deporre contro se stesso), come altri alleati dell’ex presidente.

4. Ci si può fidare di questa Commissione?

La Fox, così come le altre tv e siti della destra, per mesi ha liquidato la Commissione della Camera come un organismo di parte privo di credibilità. L’immagine di questa struttura investigativa, in effetti, è rimasta a lungo indefinita: nei mesi in cui i commissari studiavano le carte, individuavano i testimoni da convocare, ricevevano rifiuti e passavano a sistemi di citazione più coercitivi (subpoena), l’organismo del Congresso non aveva nulla da offrire all’opinione pubblica. In questo clima, era stato facile per l’ala trumpiana mettere sotto accusa come traditori i due repubblicani (Liz Cheney e Adam Kinzinger) che hanno accettato di far parte della Commissione insieme a 7 democratici. Liz Cheney, privata dei suoi incarichi nel partito dei conservatori, non si è fatta intimidire, e quando sono iniziate le audizioni si è rivelata un’investigatrice capace di fare le domande giuste. La Commissione sarà pure a maggioranza democratica e avrà pure il difetto di condurre una sorta di processo informale con i teste interrogati solo da deputati che si comportano come pubblici ministeri, mentre manca il controinterrogatorio dalla difesa, ma alcuni gravi fatti emersi sono difficili da contestare. Ora sono in tanti a destra a pensare che forse alla fine questa Commissione (e la Cheney) si riveleranno salutari per il Grand Old Party: coi democratici in crisi di leadership, i repubblicani hanno la possibilità di far emergere un altro candidato in grado di vincere le presidenziali del 2024: sempre un ultrà del fronte conservatore, ma senza l’imprevedibilità, il narcisismo e il disprezzo per le regole democratiche di Trump.

5. Quali sono i rischi penali per Donald?

In teoria Trump potrebbe essere incriminato per due diversi ordini di reati. Da un lato le pressioni esercitate su singoli funzionari di vari Stati nei quali Biden l’aveva battuto di poco alle presidenziali del 2020, per ottenere l’annullamento del voto o un riconteggio orchestrato in modo tale da capovolgere il risultato delle urne. Il caso più lampante è quello della telefonata fatta da The Donald al segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger (della quale esiste la registrazione), in cui Trump chiese al funzionario responsabile della certificazione del risultato delle elezioni di trovargli 11 mila voti: quelli necessari per scavalcare il legittimo vincitore. Nel sistema giudiziario americano questo comportamento è penalmente perseguibile, ma bisogna dimostrare che il reo era consapevole di commettere un atto illegale (Trump ha sempre parlato di «elezioni rubate» e ha convinto mezzo Paese) e, comunque, si tratta di un crimine punibile al massimo con un anno di carcere.

Ben più grave il secondo filone basato soprattutto sulla testimonianza della Hutchinson, in parte confermata anche dall’ex avvocato della Casa Bianca Pat Cipollone nell’audizione a porte chiuse di ieri . Se fosse provato che Trump e il suo team hanno organizzato la sommossa del 6 gennaio 2021,Trump potrebbe essere incriminato per attentato al funzionamento di essenziali organi dello Stato: un reato punibile anche con 20 anni di reclusione. Il ministro della Giustizia, Merrick Garland, però, finora non si è mosso: se lo incriminasse verrebbe certamente accusato dalla destra di fare un uso politico della Giustizia. E forse il presidente che lo ha nominato, Joe Biden, preferisce vedersela tra due anni con un Trump azzoppato dalle evidenze di un caso che, comunque, accresce la sua impopolarità, piuttosto che dover fronteggiare — spazzato via The Donald — un candidato repubblicano «duro e puro» e giovane. Uno come il governatore della Florida Ron DeSantis che, a differenza di Trump, non potrebbe essere additato come un pericolo mortale per la democrazia americana.

Dagotraduzione dal Mirror il 30 luglio 2022.

Sapete cosa faceva lo staff della Casa Bianca per calmare Donald Trump quando era stressato? Faceva partire la musica di “Cats”, il musical di Broadway. Tanto da aver assoldato un aiutante, chiamato “Music Man”, da convocare all’occorrenza per fargli suonare “Memory”, una dei brani più famosi del musical. 

Lo ha raccontato Stephanie Grisham, ex addetta stampa e direttore delle comunicazione durante la presidente Trump, nel suo libro di memorie “I’ll Take Your Questions Now: What I Saw in the Trump White House”. «I collaboratori di Mr. Trump hanno incaricato un funzionario della Casa Bianca noto come “Music Man” per fargli suonare il suo programma di melodie preferito, tra cui ‘Memory’ di ‘Cats’, per calmarlo dalla rabbia». 

Grisham ha poi spiegato che “Music Man” era Max Miller, un suo ex fidanzato allora aiutante di Trump e oggi candidato repubblicano al Congresso in Ohio. Adam Gopnik del New Yorker ha scritto che il bisogno di Trump di essere confortato dalla musica di Broadway «degrada sia l'ufficio della Presidenza che una grande istituzione americana».

Betty Buckley, l'attrice pluripremiata che interpreta Grizabella in Cats e canta Memory, ha detto a Jim Acosta della CNN che il suo desiderio di far suonare la canzone indica che l'anima di Trump è «così danneggiata». 

«Trump voleva mettersi al volante per unirsi alla marcia sul Campidoglio». Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 28 Giugno 2022.

La testimonianza di Cassidy Hutchinson, assistente dell’ex capo dello staff della Casa Bianca, ascoltata dala Commissione d’inchiesta sui fatti del 6 gennaio 2021 

Un Donald Trump furioso che il 6 gennaio dello scorso anno, sapendo che molti dei manifestati in marcia su Washington erano armati, intimò al servizio segreto di lasciarli arrivare fino alla Casa Bianca e al Congresso senza passare per i metal detector perché «non ce l’hanno con me». Poi cercò di andare fino al Congresso col suo popolo e reagì con violenza quando i suoi assistenti glielo impedirono per non esporlo a gravi conseguenze legali: provò ad afferrare il volante di The Beast, la limousine presidenziale, poi prese per il collo l’agente dei servizi che la guidava.

La furia di Donald

La testimonianza resa il 28 giugno da Cassidy Hutchinson, allora assistente di Mark Meadows, il capo di gabinetto del presidente, davanti alla Commissione parlamentare che indaga sull’assalto al Congresso di un anno e mezzo fa, ha gettato nuova, livida luce sulle ore più drammatiche vissute dalla democrazia americana. Dettagliata la ricostruzione di quanto avvenuto dietro le quinte: un hearing che ha confermato le voci di un Trump furioso col suo vice fino al punto di non dolersi del desiderio dei manifestanti di impiccarlo. Un leader fuori controllo fino al punto di spingere il suo avvocato, Pat Cipollone ad avvertire Meadows che il presidente stava rischiando gravi conseguenze penali per ostruzione delle elezioni. La Hutchinson aveva già reso una lunga testimonianza alla Commissione, ma in questo nuovo hearing straordinario ha accettato di ricostruire quasi minuto per minuto quanto avvenuto alla Casa Bianca quel 6 gennaio e nei giorni immediatamente precedenti: dall’organizzazione (con la regia di Rudy Giuliani e di altri trumpiani) dell’assalto al Congresso con l’obiettivo di convincere Pence e i parlamentari a non ratificare la vittoria di Joe Biden , fino al rifiuto di Trump di fermare gli assaltatori del Congresso guidati dai suoi fedelissimi Proud Boys. Trump l’ha subito attaccata, negando tutto: «Una falsa totale e una delatrice». 

La Hutchinson, interrogata dalla deputata repubblicana Liz Cheney (che ha notato come quasi tutti i testimoni dell’indagine siano conservatori) ha srotolato gli eventi di una giornata drammatica partendo da quando, affacciandosi sulla piazza dell’Eclipse, luogo del suo comizio incendiario, Trump si infuria perché vede grossi spazi vuoti: i manifestanti che entrano in piazza devono lasciare le armi proprie e improprie che hanno addosso e molti, allora, preferiscono restare alla larga. Trump sa che sono armati ma la cosa non lo preoccupa: «Non ce l’hanno con me». E chiede al servizio segreto di rimuovere la barriera dei metal detector. Quando, più tardi, gli insorti sfondano le barriere di polizia a protezione del Congresso (che alla Casa Bianca sapevano essere insufficienti) e minacciano di impiccare Mike Pence, l’avvocato Cipollone sollecita Meadows a fare qualcosa per costringere Trump a fermare il suo popolo.

Ma si sente rispondere da uno sconsolato capo di gabinetto (nelle parole riferite dalla testimone oculare Cassidy): «L’hai sentito: lui pensa che Pence se lo meriti. Pensa che loro non stiano facendo nulla di male». Sono le 2 del pomeriggio e, nonostante le pressioni dei leader repubblicani, dei conduttori della Fox a lui vicini e dei suoi stessi figli, per altre due ore Trump si rifiuterà d’intervenire.

Dopo il comizio

Finito il suo comizio, The Donald cerca di raggiungere i manifestanti sulla sua limousine. Gli avvocati avvertono: sarebbe un suicidio legale. Allora Meadows e il suo vice, Tony Ornato, decidono per il ritorno alla Casa Bianca. Trump si ribella: «Sono io il fottuto presidente», cerca di afferrare il volante, poi prende per il collo l’autista. La Hutchinson rivela altri suoi attacchi d’ira: quando il ministro della Giustizia, Barr, a dicembre rende noto di non aver trovato irregolarità nelle procedure elettorali, Trump scaglia il piatto col pranzo contro una parete di una sala della Casa Bianca. Accessi d’ira sempre più frequenti dopo la sconfitta elettorale fino al drammatico 6 gennaio quando alcuni collaboratori, davanti alla sua folle ostinazione, pensano per un momento di attivare la procedura costituzionale per la rimozione del presidente per evidente incapacità di intendere e di volere.

M. Ga. per il “Corriere della Sera” il 30 luglio 2022.

Cassidy Hutchinson come John Dean, il consigliere di Richard Nixon che quasi mezzo secolo fa accusò l'allora presidente di essere personalmente coinvolto nello spionaggio politico contro il partito democratico, lo scandalo Watergate scoperto dal Washington Post che alla fine costrinse il leader repubblicano alle dimissioni? 

È quello che pensano gli analisti e i giuristi democratici convinti che la Commissione parlamentare sull'assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 stia raccogliendo prove inconfutabili di comportamenti penalmente rilevanti di Trump, nel suo tentativo di impedire la ratifica dell'elezione di Joe Biden.

Prove talmente evidenti che alla fine potrebbero obbligare un recalcitrante Merrick Garland, il ministro della Giustizia di Biden, ad incriminare l'ex presidente: un atto senza precedenti che renderebbe ancor più profonda la spaccatura nel Paese ma probabilmente metterebbe fine ai sogni di ritorno alla Casa Bianca di un Trump già incalzato da tempo da giovani leader repubblicani - primo fra tutti il governatore della Florida Ron DeSantis - pronti a «canonizzarlo» e a raccogliere la sua eredità politica.

Garland fin qui ha agito con prudenza, consapevole che l'America del 2022 non è quella dei tempi del Watergate: i repubblicani, che allora non esitarono a condannare Nixon, oggi, in un Paese polarizzato, diviso per convinzioni ideologiche impermeabili all'evidenza dei fatti, hanno già salvato due volte Trump dall'impeachment. E la maggioranza di loro continua a sostenere (senza prove) che Biden è un presidente illegittimo.

Basterà la verifica delle circostanze riferite ieri dalla Hutchinson - Trump promotore della rivolta contro il Congresso del 6 gennaio, consapevole che molti attivisti sarebbero arrivati armati, deciso a lasciarli passare e addirittura a guidarli fin davanti a Capitol Hill, ostinatamente contrario per ore a fermarli anche quando molti di loro volevano impiccare il suo vice, Mike Pence - a spingere Garland a cambiare rotta?

Le perplessità del ministro potrebbero anche essere legate alla struttura di queste indagini parlamentari che somigliano a processi nei quali, però, non c'è la difesa.

Per adesso l'indagine parlamentare continua con i commissari intenti a verificare la fondatezza della vivida ricostruzione di quelle ore drammatiche di un anno e mezzo fa resa dalla ex assistente di Mark Meadows, allora capo dello staff del presidente alla Casa Bianca, ma anche da tanti altri testimoni.

Tra un paio di settimane, riordinati e approfonditi i nuovi elementi probatori emersi nelle testimonianze di giugno, riprenderanno gli hearing pubblici con due obiettivi specifici: chiarire il ruolo dei miliziani fedelissimi di Trump (Proud Boys e Oath Keepers) nell'assalto al Congresso e ricostruire cosa accadde nei 187 minuti nei quali, mentre il Congresso veniva assalito, Trump sparì dal web, rifiutando più volte di intervenire per placare gli insorti, da lui fermati solo molto più tardi.

Carrie Hutchinson, che a 24 anni era nello staff del presidente: così ha visto e sentito tutto. Massimo Gaggi su Il Corriere della Sera il 30 Giugno 2022.  

L’ex assistente del capo di gabinetto ha reso la testimonianza più forte: «La sera del 6 gennaio ricordo di aver provato per la prima volta grande paura per ciò che sarebbe potuto accadere» 

Difficile dire se la testimonianza resa martedì da Cassidy Hutchinson davanti alla Commissione che indaga sull’assalto al Congresso di un anno e mezzo fa spingerà il ministero della Giustizia a incriminare Donald Trump. Del resto elementi penalmente rilevanti nel comportamento dell’ex presidente erano già emersi in passato, a partire dalla telefonata (registrata) nella quale chiese al segretario di Stato della Georgia di trovargli 11.780 voti: cioè di truccare i risultati delle presidenziali, vinte in questo Stato del Sud da Biden con uno scarto, appunto, di oltre 11 mila voti.

Ma il candore e la freschezza di questa giovane collaboratrice del team di Trump, una donna di provata fede conservatrice ben nota a molti parlamentari repubblicani, potrebbero pesare sull’immagine di The Donald, sulla sua credibilità come candidato per il ritorno alla Casa Bianca, anche in assenza di procedimenti giudiziari a suo carico.

Il Washington Examiner, una testata conservatrice, ieri commentava i retroscena raccontati dalla Hutchinson definendo Trump una disgrazia per la destra e sollecitando il partito repubblicano a selezionare, per le presidenziali del 2024, uno dei tanti giovani candidati migliori di The Donald a disposizione del fronte conservatore.

Ma chi è questa Cassidy Hutchinson? 26enne del New Jersey, dinamica e ambiziosa, laureatasi nel 2019 in Scienze politiche quando era già stata una stagista per il deputato repubblicano Steve Scalise e aveva assistito il senatore del Texas Ted Cruz, Cassidy era nello staff della Casa Bianca fin dal 2018. Lavorò per un po’ nell’ufficio legislativo e poi, nel 2020, il capo di gabinetto Mark Meadows la volle, allora 24enne, al suo fianco come prima assistente. In questo ruolo Cassidy partecipava alle riunioni più delicate, aveva un ufficio nella West Wing della Casa Bianca a fianco a quello del vicepresidente Mike Pence e a dieci metri dallo Studio Ovale.

La Hutchinson, che volava con il presidente sull’Air Force One ed era sempre nel backstage dei suoi comizi insieme ai figli di Trump, ha vissuto in presa diretta gli ultimi, disastrosi mesi del suo regno. Ha visto e sentito tutto, ha preso appunti. Nei mesi scorsi aveva già reso oltre 20 ore di testimonianza davanti alla commissione parlamentare. Una deposizione particolarmente preziosa, visto il rifiuto di Meadows e di altri consiglieri di Trump di sottoporsi alle domande.

L’audizione di martedì ha aggiunto altri elementi penalmente rilevanti. Se confermati nelle prossime settimane attraverso verifiche incrociate, tutto ciò potrebbe creare seri problemi legali a Trump: rischi penali dei quali l’allora presidente era stato più volte avvertito da Pat Cipollone, uno dei legali della Casa Bianca. Trump è consapevole dei rischi e ieri, durante la testimonianza della Hutchinson, ha sparato a zero su di lei dalla sua piattaforma digitale, Truth Social: «È una bugiarda e una truffatrice, so a malapena chi è. Non è vero che ho cercato di obbligare l’autista dell’auto presidenziale a portarmi dai manifestanti davanti al Congresso». Non dovrebbe essere difficile per i commissari del Parlamento stabilire come andarono davvero le cose visto che, ad esempio, nel caso del tentativo di Trump di «dirottare» la limousine presidenziale, Cassidy ha fornito tutti i nomi dei consiglieri che erano a bordo e anche quello dell’agente della sicurezza presidenziale che era al volante (ma il servizio segreto sarebbe pronto a negare le circostanze riferite dalla Hutchinson).

La sua testimonianza, comunque convincente, potrebbe avere un solo punto debole. Contraddicendo una sua precedente affermazione («so a malapena chi sia»), Trump ha detto che, una volta lasciata la Casa Bianca, lui si è personalmente opposto alla candidatura di Cassidy che aveva chiesto di entrare nel suo staff a Mar-a-Lago. L’ex presidente la descrive, quindi, come una traditrice in cerca di vendetta, una tesi seguita anche dai media di destra.

Effettivamente sei giorni dopo l’assalto al Congresso che la sconvolse, Cassidy, secondo un articolo allora pubblicato da Bloomberg, si candidò per Mar-a-Lago. Testimonianza resa per vendetta? Dovrebbe essere irrilevante, se viene confermata la fondatezza dei fatti riferiti dall’ex assistente di Meadows.

Assalto a Capitol Hill, la super-testimone: "Trump voleva andare alla protesta e cercò di prendere la guida dell'auto presidenziale". La Repubblica il 28 Giugno 2022. 

Davanti alla Commissione di inchiesta sui fatti del 6 gennaio, l'udienza si accende per le dichiarazioni di Cassidy Hutchinson, ex assistente di Mark Meadows, allora capo staff della Casa Bianca: "Il presidente sapeva che quella gente era armata e chiese che fossero tolti i metal detector"

"La sera del 2 gennaio 2021 Rudy Giuliani, l'avvocato di Donald Trump, mi disse che il 6 gennaio sarebbero andati al Capitol Hill": lo ha detto Cassidy Hutchinson, stretta collaboratrice dell'ex capo dello staff del presidente, Mark Meadows. Hutchinson era uno dei testimoni più attesi dell'udienza convocata a sorpresa dalla commissione d'inchiesta sull'assalto al Congresso del 6 gennaio 2021 per rivelare "nuove prove acquisite di recente" . E la deposizione di Hutchinson, densa di dichiarazioni da colpo di scena, non ha deluso i rappresentanti dell'accusa. 

La testimone ha iniziato confermando dunque che Giuliani sapeva che qualcosa stava per succedere al palazzo del Congresso e le avrebbe detto di essere preoccupato che il 6 gennaio la violenza avrebbe potuto essere "davvero brutta". La donna ha detto poi che Meadows l'aveva avvertita che le cose sarebbero potute andare "davvero, davvero male" quel giorno. Ma le dichiarazioni più forti di Cassidy Hutchinson hanno riguardato il comportamento di Donald Trump e ciò che il presidente fece il giorno dell'assalto contro il verdetto elettorale che premiava Joe Biden. 

Trump, ha detto Hutchinson, sapeva che c'erano persone armate e con giubbotti anti proiettili al comizio che aveva organizzato il 6 gennaio, poco prima di incitare la folla dei suoi fan ad andare al Capitol per bloccare la certificazione della vittoria di Joe Biden. Non solo lo sapeva, ma avrebbe anche chiesto che al suo raduno fossero rimossi i "fottuti metal detector".  "Non sono qui per farmi del male", avrebbe detto Trump insistendo che i metal detector fossero rimossi. Hutchinson ha rivelato anche che un altro funzionario della Casa Bianca, Tony Ornato, aveva avvertito il presidente della presenza di armi. L'ex assistente di Meadows ha ricordato di averlo informato dell'inizio delle violenze e lui le ha ignorate limitandosi a chiedere: "Quanto deve parlare ancora Trump?". 

Donald Trump inoltre voleva personalmente tornare a Capitol Hill durante l'assalto dei suoi sostenitori. Secondo l'ex assistente del capo dello staff della Casa Bianca, il servizio di sicurezza del presidente inizialmente cercò di trovare un modo per riportare il presidente al Campidoglio, ma poi decise che non era il caso suscitando l'ira di Trump: "Sono il fottuto presidente, portatemi là", avrebbe sbottato Donald Trump con il capo della sua sicurezza. In preda all'ira, poi, avrebbe addirittura tentato di prendere la guida della limousine presidenziale blindata - The Beast - afferrando per un attimo le spalle dell'autista per allungarsi sul volante.

Cassidy Hutchinson ha detto di non esser stata testimone dell'accaduto, ma che l'episodio dell'ira violentissima di Trump le è stato raccontato. Citando cose riferitele dal suo ex capo Mark Meadows, la testimome ha detto infine che Trump avrebbe condiviso gli slogan e i cartelli dei suoi sostenitori che inneggiavano all'impiccagione del vicepresidente Mike Pence, colpevole di voler certificare la vittoria elettorale di Biden.

Donald Trump ha smentito su Twitter di aver cercato di prendere il controllo della "Beast", definendo "falsità" le dichiarazioni di Hutchinson e chiamando lei "delatrice" e "menzognera". Trump ha smentito seccamente anche un altro episodio riferito dalla donna, quello in cui il presidente avrebbe scagliato del cibo contro il muro. Trump era furioso - ha testimoniato sotto giuramento la giovane donna - perché il ministro della Giustizia, William Barr, gli aveva detto che non c'era alcuna prova di brogli elettorali nell'elezione presidenziale vinta da Joe Biden. "Falsità - ha scritto Trump - . E perché mai avrebbe dovuto pulire lei stessa? Io a mala pena so chi sia". Hutchinson ha raccontato che fu lei stessa a prendere uno strofinaccio e a pulire il ketchup dal muro.

La donna ha tra l'altro rivelato che sia il suo ex capo Mark Meadows che Rudy Giuliani hanno chiesto la grazia presidenziale dopo la drammatica manifestazione di quel 6 gennaio.

I dettagli sul 6 gennaio. Una testimone ha raccontato che Trump voleva mettersi alla guida dell’auto per raggiungere la marcia su Capitol Hill, L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.

Cassidy Hutchison, all’epoca dei fatti assistente del capo staff della Casa Bianca Mark Meadows, ha testimoniato davanti alla commissione di inchiesta. L’ex presidente sapeva che c’erano persone armate al suo comizio e avrebbe cercato di prendere la limousine presidenziale per raggiungere la manifestazione. 

Pur sapendo che molti dei manifestati in marcia su Washington erano armati, il 6 gennaio del 2021 Donald Trump avrebbe intimato ai servizi segreti di lasciarli arrivare fino alla Casa Bianca e al Congresso senza passare per i metal detector perché «non ce l’hanno con me». Non solo. L’ex presidente avrebbe cercato di andare fino al Congresso e reagì con violenza quando i suoi assistenti glielo impedirono per non esporlo a gravi conseguenze legali: prima provò a mettersi al volante di The Beast, la limousine presidenziale, poi prese per il collo l’agente dei servizi che la guidava.

Questo è quello che ha raccontato il 28 giugno Cassidy Hutchinson, allora assistente di Mark Meadows, il capo di gabinetto del presidente, davanti alla Commissione parlamentare che indaga sull’assalto al Congresso di un anno e mezzo fa.

Nuovi dettagli sulle ore più drammatiche vissute dalla democrazia americana, che confermano le voci di un Trump furioso col suo vice. Un presidente fuori controllo fino al punto di spingere il suo avvocato, Pat Cipollone, ad avvertire Meadows che il presidente stava rischiando gravi conseguenze penali per ostruzione delle elezioni.

Hutchinson aveva già reso una lunga testimonianza alla Commissione, ma in questo nuovo hearing straordinario ha accettato di ricostruire quasi minuto per minuto quanto avvenuto alla Casa Bianca quel 6 gennaio e nei giorni immediatamente precedenti: dall’organizzazione dell’assalto al Congresso con l’obiettivo di convincere Pence e i parlamentari a non ratificare la vittoria di Joe Biden fino al rifiuto di Trump di fermare gli assaltatori del Congresso guidati dai suoi fedelissimi Proud Boys.

Interrogata dalla deputata repubblicana Liz Cheney, Hutchinson ha raccontato gli eventi di una giornata drammatica partendo da quando, affacciandosi sulla piazza dell’Eclipse, luogo del suo comizio incendiario, Trump si infuriò perché vide grossi spazi vuoti. Trump sapeva che i manifestanti che entrano in piazza devono lasciare le armi che hanno addosso e molti, allora, preferirono non varcare la soglia. Trump sapeva che erano armati ma la cosa non lo preoccupò: «Non ce l’hanno con me». Così chiese ai servizi segreti, ha raccontato Hutchinson, di rimuovere la barriera dei metal detector.

Quando, più tardi, poi i manifestanti sfondano le barriere di polizia a protezione del Congresso e minacciano di impiccare Mike Pence, l’avvocato Cipollone sollecita Meadows a fare qualcosa per costringere Trump a fermare il suo popolo. Ma si sarebbe sentito rispondere: «L’hai sentito: lui pensa che Pence se lo meriti. Pensa che loro non stiano facendo nulla di male».

Nonostante le pressioni dei leader repubblicani, dei conduttori della Fox a lui vicini e dei suoi stessi figli, per altre due ore Trump si rifiuterà d’intervenire.

Finché dopo il suo comizio, cercherà di raggiungere i manifestanti sulla sua limousine. Meadows e il suo vice, Tony Ornato, decidono per il ritorno alla Casa Bianca. Trump si ribella, cerca di afferrare il volante, poi prende per il collo l’autista. Hutchinson racconta i suoi attacchi d’ira, sempre più frequenti dopo la sconfitta elettorale. Fino a quel drammatico 6 gennaio. Quando alcuni collaboratori, davanti alla sua folle ostinazione, pensarono per un momento anche di attivare la procedura costituzionale per la rimozione del presidente per evidente incapacità di intendere e di volere.

Indagine su un tentato golpe. Le tre donne che stanno salvando la democrazia americana. Stefano Pistolini su L'Inkiesta il 30 Giugno 2022.

La speaker democratica della Camera Nancy Pelosi ha affidato il rosolamento di Trump alla repubblicana Liz Cheney. Grazie alla preziosa testimonianza di Cassidy Hutchinson, che lavorava alla Casa Bianca, insieme potrebbero incriminare l’ex presidente per aver fomentato l’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021.

L’eccellente Bill Kristol, commentatore politico di centro-destra, già fondatore del “Weekly Standard” e ora a “The Bulwark”, ha fatto la provocazione giusta, twittando una frase da “Democrazia in America” di Tocqueville: «Se mi chiedessero a chi io attribuisca il merito della singolare prosperità e della crescente forza di questo popolo, io risponderei alla superiorità delle sue donne». 

E prima della citazione ha scritto semplicemente tre nomi: Cheney. Hutchinson. Pelosi. Ovvero la Speaker democratica che ha fortissimamente voluto l’istituzione della Commissione per indagare i moventi e le responsabilità all’origine dei fatti del 6 gennaio 2021, con l’attacco insurrezionale armato al Campidoglio, dove il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence doveva vidimare la regolarità delle elezioni di novembre e la successione di Joe Biden sulla poltrona di Donald Trump alla Casa Bianca. 

Poi Liz Cheney, ovvero la vicepresidente della Commissione in questione, anima e motore dei lavori in corso che stanno rivelando all’America un succedersi di fatti che provocano stupore e indignazione, nel constatare che quel giorno non si trattava di proteste spontanee, ma della delirante orchestrazione di un colpo di Stato che ora può condurre all’incriminazione di Trump per attentato alla Costituzione, seppellendo ogni sua possibile disegno di ritorno sulla scena politica nazionale. 

E Liz Cheney, repubblicana indipendente da sempre in aperto e vocale contrasto con la visione trumpiana, si sta trasformando nel martello che, udienza dopo udienza, pianta i chiodi nella croce dell’ex-presidente smascherando, a colpi di testimonianze, la premeditazione del piano che provocò gli eventi di quella giornata, nonché le sgangherate strategie di Trump e soci, in testa a tutti Rudy Giuliani – suo spin doctor di mefistofelica approssimazione.

Proprio il dato che la scelta della Pelosi sia caduta sulla figlia dell’ex-numero due di George W. Bush suggerisce un’astuzia sottilmente femminile nel sottoporre Trump a un atroce rosolamento, condotto da una personalità con quel nome, quell’appartenenza e quella rappresentatività d’una certa America conservatrice. 

Infine la terza protagonista di queste ore, nella messinscena che ricorda un dramma elisabettiano, per quanti filoni narrativi si intrecciano, avvicinandosi a un epilogo che sarà pirotecnico. Nei giorni dell’atroce negazione della autodeterminazione femminile prodotta dalla Corte Suprema con la cancellazione della legge che preservava il diritto d’aborto oltreoceano, donne di caratura preziosa stanno inchiodando il volgare spirito di sopraffazione maschile di cui è stata preda l’istituzione principale del paese, ovvero la sua presidenza. 

A gettare benzina sul fuoco delle asserzioni di Liz Cheney e della sua architettura della colpevolezza di Trump, arriva la testimonianza di Cassidy Hutchinson, 25 anni, ex-assistente di Mark Meadows, capo dello staff della Casa Bianca nella scorsa amministrazione. Hutchinson ha raccontato di fronte alla commissione della Camera come Donald Trump fosse al corrente, prima dell’irruzione al Congresso, delle intenzioni bellicose dei manifestanti e del fatto che disponessero di armi. E che per questo motivo avrebbe comandato la rimozione dei metal detector stradali, che avrebbero ostacolato i sostenitori che si stavano radunando a Washington. «Non me ne frega un cazzo se sono armati. Lasciate che la mia gente entri. Marceranno fino al Campidoglio», sono le parole riportate dalla Hutchinson, che nell’udienza ha parlato con tranquillità, ricordando d’essersi «spaventata per quel che sarebbe potuto accadere», in particolare dopo la conversazione, precedente all’irruzione al Congresso, a cui avevano partecipato Rudy Giuliani e il suo capo Meadows, che avrebbe detto che «le cose sarebbero potute mettersi molto male», in quella che Giuliani sosteneva sarebbe stata «una grande giornata». 

La testimone ha inoltre riferito che Trump avrebbe voluto raggiungere personalmente Capitol Hill durante l’assalto e che gli uomini della sicurezza avrebbero provato ad accontentarlo, solo alla fine decidendo di soprassedere: «Sono il fottuto presidente, portatemi là!», sarebbe sbottato Trump, afferrando il volante di The Beast, l’auto blindata presidenziale, in una scena da “Dottor Stranamore”.  

Sulla sua piattaforma Truth Social, Trump ha reagito alla testimonianza della Hutchinson bollandola di «falsità» e «accuse ridicole». Liz Cheney invece l’ha ringraziata per il coraggio: «La nazione è tenuta in vita da chi conosce la differenza tra giusto e sbagliato. Gli americani sappiano che ciò che oggi ha fatto Hutchinson non è facile».

A botta calda, la reazione di Bill Kristol appare di pacata lungimiranza. Segna il confine tra deliri di onnipotenza e capacità speculativa al cospetto della realtà. Perfino l’altra villain di queste ultime ore americane, Ghislaine Maxwell, schiacciata dalla condanna a vent’anni di galera per la complicità nelle malefatte sessuali del fu Jeffrey Epstein, acquisisce una dimensione vagamente sacrificale. 

Nel silenzio delle opinioni inespresse, il raffronto tra forza e ragione, il cui interstizio ha la forma della sopraffazione, descrive la natura perenne di un equilibrio che sovente continua a essere illusorio.

Liz Cheney si oppone a Trump e si inabissa (nell’indifferenza). Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022. 

Le primarie tra le minacce per la figlia dell’ex vicepresidente repubblicano

I trumpiani si sono dati appuntamento ieri a mezzogiorno davanti alla sede dell’Fbi di Cheyenne, la capitale del Wyoming. Domani si voterà per le primarie repubblicane. Sarà il momento decisivo per Liz Cheney, l’anti-Trump, l’anti papa del mondo conservatore. Ma i fedelissimi dell’ex presidente sembrano pensare ad altro, alle manovre del «sistema» per impedire a «The Donald» di vincere nel 2024 . Forse perché il risultato del Wyoming appare scontato: Cheney ha poche speranze di restare deputata a Washington. Nel 2016 e poi nel 2018 vinse il turno preliminare con percentuali schiaccianti, tra il 65 e il 70%. Ora i sondaggi le accreditano un consenso pari appena al 28%, quasi trenta punti in meno rispetto alla sua rivale, Harriet Hageman, appoggiata da Trump e da circa 100 parlamentari del Congresso.

Sappiamo che il consenso di Cheney è in caduta libera da ormai un anno e mezzo. Con altri nove compagni di partito ha votato a favore dell’impeachment contro Trump e poi ha accettato la proposta di Nancy Pelosi: vicepresidente della Commissione di inchiesta sull’assalto a Capitol Hill.

Ora il Wyoming, 600 mila abitanti, lo Stato dei Cheney, potrebbe voltarle le spalle. Suo padre, ex vicepresidente di George W. Bush, vi arrivò con i genitori. Cominciò qui la scalata politica, mantenendo, dal 1979 al 1989, il seggio da deputato che ora è della figlia. Cheney, 56 anni, è cresciuta a Casper. Come il padre è partita da qui. Ha studiato, si è sposata, ha avuto cinque figli, si è costruita una fama di conservatrice inflessibile, intransigente, arrivando a litigare con la sorella Marie, omosessuale dichiarata (poi la crisi familiare è rientrata). Per almeno dieci anni Cheney ha dominato il territorio. Adesso è costretta a nascondersi. Nessun comizio, nessun evento pubblico. Solo interviste televisive e qualche incontro in circoli ristretti. Nelle ultime settimane ha ricevuto troppe minacce. Serie e credibili.

Così la campagna più attesa, osservata con attenzione dalla politica nazionale, sta scivolando via in un clima surreale. A Cheyenne non c’è agitazione. Dopo un lungo giro per le strade di questa cittadina di 65 mila abitanti, abbiamo contato pochi cartelli piantati nei giardinetti davanti alle casette e alle ville, e divisi tra Cheney e Hageman. Tutti gli altri per i candidati locali alla carica di segretario di Stato o di sceriffo. Anche gli attivisti sembrano mimetizzarsi. Sabato scorso, i sostenitori di Liz avevano organizzato il tour «Defend principles: knock doors for Cheney». Il programma era ambizioso: «bussare alle porte» delle abitazioni fino a domenica pomeriggio. Ma sabato mattina si sono presentati in pochi davanti al Municipio di Cheyenne, il punto di ritrovo. E alla fine la maratona si è risolta in un semplice e breve volantinaggio.

In teoria questa competizione non avrebbe ragione di essere. I programmi delle due concorrenti sono identici. Entrambe seguono alla lettera le indicazioni che il partito repubblicano ha messo in vetrina, nella sua sede, in centro, non lontano dall’unica attrazione di Cheyenne: l’antica stazione ferroviaria della Union Pacific. Per titoli: «Proteggere gli innocenti» (cioè no all’aborto); «no a nuove tasse»; «ridurre la spesa pubblica»; «no alla legalizzazione della marijuana»; «correttezza nei diritti civili». Del resto Harriet Hageman, 58 anni, avvocata, è stata una delle collaboratrici di Liz nel 2014, quando la figlia di Dick tentò, invano, la scalata allo scranno da senatore. Ora Harriet si è convertita al trumpismo puro. I commentatori dei media americani pensano che Cheney userà la sconfitta come piattaforma per proporsi come alternativa a Trump sul piano nazionale. Forse si presenterà come indipendente nelle elezioni di midterm. Forse correrà per le primarie repubblicane nel 2024. Sì, ma con quali «centurie», con quali voti?

Intanto sarà interessante verificare quanti democratici del Wyoming voteranno per lei. Magari in tanti, come sospettano i repubblicani, in questa tornata di primarie. Ma sul lungo periodo gli stessi elettori di Cheney sono scettici. La signora Johanna Vailpondo, 60 anni, si gode il fresco serale nel giardinetto di casa. È una fan di Liz, ma si chiede: «Perché mai i progressisti pro aborto dovrebbero appoggiare una come lei che è al cento per cento “pro life”»?

Dall’assalto a Capitol Hill alla scomparsa di Mifsud: la strana storia che passa dall’Italia. Gianluca Zanella su Inside Over il 28 giugno 2022.

Sono iniziate lo scorso 9 giugno le audizioni pubbliche, in diretta tv, della commissione d’inchiesta della Camera statunitense per chiarire se dietro l’assalto del 6 gennaio 2021 a Capitol Hill, c’era l’allora neo ex presidente Donald Trump. Una storia ancora tutta da chiarire, a metà tra la farsa (ricordiamo tutti lo “sciamano”) e la tragedia (cinque morti). In un certo senso, una simbolica conclusione dell’era trumpiana. Un’era che, sin dal principio, ha visto nel nostro paese un palcoscenico di non secondaria importanza.

Ricorderete la vicenda che ha visto protagonista (assente, come nelle migliori trame di libri gialli) il professore Joseph Mifsud, maltese, docente presso la Link Campus di Roma, l’università fondata dall’ex ministro Vincenzo Scotti.

Il professore, al centro dello scandalo noto come Russiagate – una storia di spionaggio vecchio stile dove non si è mai ben capito se Trump dovesse giovarne o meno -, è scomparso ormai da più di quattro anni, da quando, il 21 maggio 2018, fu visto a Zurigo nello studio dei suoi avvocati. Sospettato di essere un agente segreto al soldo prima dei russi, poi di settori deviati (o comunque ostili a Trump) della Cia e infine al soldo dei servizi italiani, di lui si sono completamente perse le tracce e, secondo diverse fonti vicine ad apparati d’intelligence, non ci sono molte probabilità che possa tornare allo scoperto per chiarire la sua posizione.

Sempre l’Italia torna a giocare un ruolo – ovviamente poco chiaro – in una vicenda che si pone come cinghia di trasmissione tra queste due storie appena menzionate. Come nel caso dell’assalto a Capitol Hill, anche in questa occasione ci troviamo di fronte a una situazione che lascia più di un interrogativo aperto, ma che abbiamo avuto modo di conoscere in anteprima e che, dal nostro punto di vista, risulta interessante.

Protagonista di questo “spin-off” della saga trumpiana, un personaggio assolutamente unico nel suo genere: Gaetano Saya. Un nome che per molti non significa nulla, ma che molti altri collegheranno immediatamente a una strana storia che l’ha visto, insieme al socio Riccardo Sindoca, regista e attore principale della fondazione, ascesa e caduta del Dipartimento studi strategici antiterrorismo, meglio noto con l’acronimo DSSA. Un centro studi che – tra simbologia che ammiccava a massoneria, Nato e Terzo Reich – venne indicato come centrale di controspionaggio eversiva o, secondo alcuni, “fatta in casa”. Ad ogni modo illegale. Tanto illegale che alla fine Saya e Sindoca passarono i guai, così come molti dei loro seguaci, fasciati in divise dallo stile discutibile, inquadrati nelle formazioni della Guardia nazionale italiana, tra le cui file figuravano elementi della polizia di Stato, ex appartenenti ai servizi segreti, faccendieri e chi più ne ha, più ne metta [doveroso però ricordare che tutte le persone coinvolte, Saya e Sindoca in primis, vennero assolte per “non luogo a procedere perché il fatto non sussiste”].

Ma la vicenda umana, professionale e giudiziaria di Gaetano Saya non può certo ridursi a questo inciampo di percorso. L’uomo ne ha viste e fatte tante da poterne scrivere un libro, ma non è questa la sede per ripercorre la sua carriera, basti solamente dire che – in un groviglio di verità sussurrate e roboanti menzogne abilmente miscelate tra loro, con un pizzico di millanteria e una spolverata di messaggi in codice per orecchie ben allenate – piaccia o no, Gaetano Saya lo spionaggio – o come dice lui, l’intelligence – ce l’ha nel sangue.

Come entra Saya in questa storia? È il 27 maggio 2022, poco prima dell’inizio del processo/evento a Trump. Siamo a Genova, in un’aula del Tribunale per i minori.

Un uomo di cui non faremo il nome (abbiamo tentato senza successo di metterci in contatto con lui, ci riproveremo e cercheremo di ascoltare la sua versione dei fatti) parla di fronte al giudice, impegnato in una situazione che attiene alla sua sfera privata. Dettaglio non da poco: l’uomo è un avvocato, dunque ben conscio di quanto le parole dette in una simile circostanza abbiano un peso.

Il racconto che sciorina di fronte all’uditorio si colloca poco prima del Natale 2020: sua moglie – che tramite un amico comune qualche mese prima aveva conosciuto Gaetano Saya – gli avrebbe riferito che “ci sarebbe stata una guerra civile in America” e “un assalto al Campidoglio”.

Effettivamente, neanche un mese dopo – il 6 gennaio 2021 – avviene quello che sappiamo. L’avvocato sembra sicuro che la moglie non goda di doti profetiche, ma che quelle informazioni gliele abbia date Saya: “Quando effettivamente c’è stato l’assalto al Campidoglio, realizzavo che il sig. Saya aveva contatti con la destra estrema americana e dicevo a mia moglie di non frequentarlo perché pericoloso”. Ad aggiungere un elemento di mistero in più, la visita di due sedicenti giornalisti che avrebbero fatto visita all’avvocato, chiedendo di poter intervistare la sua consorte in merito ai contatti intrattenuti con Saya. Di chi fossero questi due giornalisti, non ne abbiamo idea. Quel che è certo è che questa vicenda non è stata fin ora oggetto delle attenzioni della stampa, quindi le cose sono due: o l’avvocato ricorda male, oppure i due giornalisti non erano veri giornalisti.

Sempre che questa storia corrisponda al vero. Sì, perché in effetti la domanda viene spontanea: per quale motivo un avvocato, in una tappa di un inter processuale che nulla ha a che spartire con vicende di spionaggio, dovrebbe tirare in ballo un personaggio come Saya legandolo a una vicenda d’oltreoceano? Non avendolo potuto chiedere al diretto interessato, siamo andati da Saya, che smentisce con fermezza le parole dell’avvocato: “Non ho mai avuto alcun contatto con una presunta estrema destra americana che, per inciso, nemmeno esiste. Non sapevo nulla dell’attacco al Campidoglio; le affermazioni di questa persona sono gravi e le porterò all’attenzione delle sedi competenti”.

A questo punto, però, abbiamo fatto notare a Gaetano Saya una cosa a nostro avviso piuttosto evidente: vere o no, le parole dell’avvocato nascondono (neanche troppo) un’acredine nei suoi confronti difficile da spiegare, a meno di una conoscenza diretta – e di uno screzio – tra i due.

A questo punto, la spiegazione di Saya è di quelle che spiazzano: “È vero, noi abbiamo avvicinato la moglie dell’avvocato. Stavamo indagando su di lui. Probabilmente lui l’ha scoperto e ha pensato bene di mischiare le carte in questo modo”. La prima domanda a seguito di questa risposta è stata: “Noi” chi? Perché il plurale? Saya si mette a ridere: “Sono vincolato dal segreto”. Ce lo aspettavamo, ma insistiamo comunque. Siamo consapevoli di camminare su un filo, ma nonostante tutto la storia inizia a farsi quanto meno curiosa e noi vorremmo vederci chiaro, ma ciò che aggiunge l’ex direttore del DSSA non aiuta certo a fare luce: “Quando dico noi mi riferisco a un’entità sovranazionale. Una struttura d’intelligence di ambito Nato”.

Va bene, ci torniamo, ma prima la seconda domanda: “Per quale motivo stavate indagando su questa persona?”. E qui ecco lo scenario che sfiora l’incredibile: A seguito dell’esplosione del caso Russiagate e della scomparsa del professor Mifsud “l’entità sovranazionale ci ha chiesto [e qui compare un secondo plurale, ma sorvoliamo] di provare a rintracciarlo e di ricostruire la sua rete di appoggio in Italia. L’avvocato era già attenzionato e ci è stato chiesto di verificare se ci fossero dei punti di compromissione”. E, nemmeno a dirlo, i punti di compromissione ci sarebbero. Con buona probabilità, ci dice Saya, l’avvocato e il professore maltese scomparso nel nulla si conoscevano.

Veniamo adesso alle nostre considerazioni. Se qualcuno, magari lo stesso Gaetano Saya, ci avesse raccontato questa storia omettendo la parte dell’avvocato non avremmo stentato a definirla come minimo una smargiassata. Ora, pur nutrendo dei legittimi sospetti su alcuni passaggi e su dettagli non proprio limpidi, le parole dette da un avvocato nell’aula di un tribunale non possono passare inosservate. Certo, anche lui potrebbe aver millantato, mentito, mistificato. Ma resta un fatto: l’uomo attribuisce a Saya la conoscenza – con circa un mese di anticipo – di quanto sarebbe accaduto a Washington.

Lo stesso Saya conferma che, in effetti, un collegamento tra lui e l’avvocato c’era e, sempre stando a Saya, lui e non specificate “altre persone” avrebbero lavorato su mandato di un’ “entità sovranazionale” per verificare se il predetto avvocato facesse parte di una rete di supporto per la “latitanza” del professore Joseph Mifsud. Ripetiamo: un’entità sovranazionale d’intelligence, di ambito Nato e che, stando al contesto, non possiamo non immaginare sia riferibile agli Stati Uniti, si sarebbe rivolta non ai servizi segreti ufficiali, ma a Gaetano Saya e alla sua non meglio specificata rete di controspionaggio, probabilmente erede di quel DSSA di cui abbiamo già accennato.

Non ne abbiamo certezza, ma è ipotizzabile che le parole dell’avvocato abbiano innescato la curiosità non solo nostra, ma dell’autorità giudiziaria. Molte sono le cose da approfondire di questa vicenda, come per esempio il tempismo di queste affermazioni, rilasciate poco prima che iniziasse in America il processo per i fatti di Capitol Hill. Certo, può essere una coincidenza, ma se non fosse così, bisognerebbe capire perché. Bisognerebbe verificare il significato di quelle parole, capire perché l’avvocato abbia tirato in ballo Saya; bisognerebbe capire se veramente fosse da “attenzionato” da Saya e su mandato di quale entità d’intelligence straniera [e perché, tra le altre cose, questa presunta entità non si sia rivolta ai veri servizi segreti]. Insomma, continueremo a seguire questa storia dai contorni incerti, sicuri che altri sviluppi non mancheranno.

Sull'assalto a Capitol Hill il solito inutile accanimento contro Donald Trump. Paola Tommasi su Il Tempo il 30 giugno 2022.

Su Donald Trump più la si spara grossa più si ha credito. «Testimonianza menzognera e ridicola», così l’ex Presidente Usa ha liquidato l’accusa secondo la quale avrebbe voluto partecipare in prima persona all’attacco al Congresso del 6 gennaio 2021 per manifestare contro l’elezione, per lui «rubata», di Joe Biden alla Casa Bianca.

Stando alla ricostruzione di Cassidy Hutchinson, collaboratrice dell’ex capo di gabinetto di Trump, quest’ultimo avrebbe preso per il collo l’autista che ha rifiutato di portarlo al Campidoglio e tentato di mettersi lui stesso al volante della limousine per raggiungere i manifestanti. Dichiarazioni che stanno facendo il giro del mondo ma da cui la stessa testimone ha preso le distanze dicendo che non ha assistito al fatto in prima persona ma le sarebbe stato raccontato. Ai fini legali, dunque, quelle parole lasciano il tempo che trovano ma ai fini mediatici la macchina del fango internazionale è partita e su Trump, si sa, si può dire qualsiasi cosa. Anzi, più l’accusa è esagerata più fa notizia.

Come accadde nel 2018 quando l’ex pornodiva Stormy Daniels rese pubblico un incontro extra coniugale avuto con il magnate nel 2006, che ha portato sfortuna invece al suo avvocato, Michael Avenatti, poi finito in prigione. E come campato in aria era il dossier diffuso nel 2017 dall’ex agente dei servizi segreti inglesi Christopher Steele che faceva riferimento a un video erotico compromettente dell’ex Presidente totalmente falso. L’errore di Trump è uno: non aver preso in modo netto le distanze da quanto accaduto la notte del 6 gennaio 2021. Perché le istituzioni sono sacre e inviolabili e perché ora la sua presidenza, che ha avuto tanti aspetti positivi, soprattutto in economia e in politica estera, verrà ricordata invece per l’attacco a Capitol Hill. Non una novità per noi italiani, che tante volte abbiamo visto trattato allo stesso modo l’ex Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Anche lui fu esposto al pubblico ludibrio per una frase mai pronunciata, quella con cui, si scrisse, aveva definito «culona inchiavabile» l’allora Cancelliera tedesca Angela Merkel. Venne fuori che fu pura invenzione ma è rimasta nell’immaginario comune molto più di qualunque riforma del governo Berlusconi. Fa riflettere il fatto che questi atteggiamenti accadano sempre nei confronti di Presidenti o ex Presidenti di destra-centrodestra, contro i quali tutto è consentito, anche oltre i limiti del vero e dell’immaginazione, pur di ridicolizzarli e nella totale mancanza di rispetto del ruolo istituzionale che ricoprono o hanno ricoperto. Mezzi cui si ricorre non riuscendo ad attaccarli nel merito delle misure da loro varate nel corso del proprio mandato.

Ma quest’ultima clamorosa rivelazione, probabilmente falsa e molto romanzata, rischia di rivelarsi un boomerang per i democratici americani, in difficoltà per le elezioni di midterm che si terranno il prossimo novembre visti gli scarsi risultati del Presidente Joe Biden, ritenuto dalla maggioranza, secondo i sondaggi, responsabile del peggioramento delle condizioni economiche di famiglie e imprese.

L’accanimento nei confronti di Donald Trump è evidente e rischia di far aumentare il consenso di cui l’ex Presidente gode negli Usa nonché la voglia che lui stesso ha di ricandidarsi nel 2024, soprattutto se dall’altra parte a correre per la riconferma ci sarà proprio Biden. Anche perché gli attacchi alle democrazie sono sempre da condannare, ci mancherebbe altro, e mai quanto oggi ne siamo consapevoli con la guerra in Ucraina in corso, ma tra gli americani la percezione che le ultime elezioni presidenziali non siano state proprio limpide è ancora molto diffusa, pur essendo passati quasi due anni. E più Biden va avanti con le sue gaffes più gli elettori rimpiangono Trump.

Stati Uniti: Trump sotto le bombe. Piccole Note il 29 giugno 2022 su Il Giornale.

La testimonianza di Cassidy Hutchinson alla Commissione d’inchiesta sui fatti del 6 gennaio domina sui media americani, rimbalzando da testata a tesata, riempiendo i video delle Tv americane di opinioni e analisi. La Hutchinson ha inchiodato Trump, dicono un po’ tutti, raccontando come alcuni funzionari vicini al presidente le abbiano confidato che questi, durante l’assalto a Capitol Hill, volesse guidare la rivolta, arrivando addirittura ad afferrare il volante della limousine presidenziale per costringere l’autista a portarlo sul luogo dell’assalto, innescando anche un diverbio, e quasi uno scontro, con lo stesso.

Non solo, nella furia successiva, avrebbe anche gettato il pranzo contro una parete dell’ufficio nel quale era stato portato contro la sua volontà…

“Per due splendide ore in diretta televisiva”, scrive il New York Times, la Hutchinson ha raccontato i fatti che gli erano stati riferiti dalle persone più vicine all’ex presidente con dovizia di particolari. Un articolo lungo e quasi commosso, quello del Nyt, che in una breve parentesi, ben nascosta tra le righe riporta: “(Più tardi nel corso della giornata, i funzionari dei servizi segreti che hanno chiesto l’anonimato hanno affermato che i due uomini che erano nella limousine presidenziale con Trump sono pronti a dichiarare sotto giuramento che nessuno dei due è stato aggredito dall’ex presidente e che egli non ha afferrato il volante)”.

La testimonianza della Hutchinson è arrivata a sorpresa, con una convocazione urgente della Commissione, che aveva preannunciato rivelazioni bomba. E la bomba è arrivata, preceduta di poche ore dalla notizia della morte di Michael Stenger, il sergente d’armi del Senato, cioè il responsabile della sicurezza del Palazzo, il quale, due giorni prima dell’assalto, avvertito dal suo omologo della Camera, Paul Irving, dei rischi di una manifestazione violenta e allertato sulla necessità di chiedere la tutela della Guardia Nazionale, si era limitato a verificare soltanto quanto tempo fosse necessario al loro intervento in caso di emergenza (Npr).

Dopo l’assalto a Capitol Hill, Stenger aveva dato le dimissioni, come tanti funzionari del tempo, accettando le responsabilità sul mancato intervento delle forze di sicurezza, ancora inspiegabile e inspiegato.

Ma questa è un’altra storia, forse. La storia di ieri è quella raccontata dalla Hutchinson, che rischia di perdere Trump, che finora aveva retto al tentativo della Commissione – di parte e con limitata possibilità di difesa da parte del convitato di pietra (Trump, appunto) – di incriminarlo per corrodere la sua presa sul partito repubblicano e impedirne la candidatura alle presidenziali del 2024.

Davvero incredibile la storia di un Trump che tenta di afferrare il volante della limousine… ma questo è quanto è stato detto.

E, se le parole della Hutchinson verranno confermate da quanti asserisce che gli abbiano riferito i fatti, per Trump saranno guai seri. Come da parentesi del New York Times, le persone chiamate in causa dalla Hutchinson avrebbero dichiarato di essere pronti a smentire e dovrebbero essere convocati subito dalla Commissione, che perà difficilmente provvederà a farlo, tenendo così Trump a cuocere a fuoco lento e sperando che, nel frattempo, le smentite di ieri si trasformino in conferme (il tempo, nelle lotte politiche, è una variabile non secondaria).

Guerra aperta, dunque, in America, che va in parallelo con la guerra ucraina, dal momento che i trumpiani sono riluttanti a sostenere la guerra “difensiva” di Kiev, cosa che gli ha attirato ancor di più le attenzioni dello stato profondo.

La testimonianza della Hutchinson rilancia i democratici, che, da sicuri perdenti nelle midterm del prossimo novembre, possono ora sperare di ottenere almeno un pareggio, potendo sviare l’attenzione dai temi sensibili – anzitutto l’inflazione, che sta corrodendo le già esigue casse della classe media e operaia – alla corruzione di Trump…

A dare una mano ai democratici è anche la sentenza della Corte Suprema sull’aborto, che ha negato validità al verdetto emesso a suo tempo sul caso Roe v. Wade, dichiarando che l’aborto non è un diritto che discende dalla Costituzione (vedi Piccolenote). A spiegare come tale sentenza abbia conseguenze politiche è l’autorevole Politico:

“L’eredità di Donald Trump è stata processata martedì a Washington. Ma era il suo futuro di leader del Partito Repubblicano ad essere messo alla prova in altre zone del Paese, nelle prime elezioni primarie svolte dopo [il ribaltamento della sentenza] Roe v. Wade”.

“In più della metà degli Stati in questi giorni si sono tenute le primarie e si inizia a vedere quanto possa essere importante Trump per il GOP e quanto possa essere importante Roe per i Democratici” [Roe era la donna che aveva chiesto di abortire ndr].

I democratici, continua Politico, “stanno cercando disperatamente di evitare il disastro a novembre, e il loro messaggio su Roe e i loro interventi alle primarie repubblicane in Colorado e Illinois martedì, l’ultimo grande round di primarie multistatali, hanno offerto il primo test della nuova prospettiva dei Democratici per le elezioni di Midterm”.

Quindi, dopo aver snocciolato l’importanza per tale scadenza di quanto uscirà dalla Commissione d’inchiesta sul 6 gennaio, annota: “Il miglior contraccolpo per i Democratici è quasi certamente il ribaltamento della Corte Suprema del caso Roe v. Wade . E i democratici lo sanno. A giudicare dalle primarie di martedì, il partito al potere a Washington correrà contro la Corte in autunno”…

Di questa conseguenza politica del verdetto della Corte avevamo accennato nella nota pregressa succitata. La conferma non stupisce, ma ci sembrava doveroso riportarla.

Paolo Mastrolilli per “la Repubblica” il 22 giugno 2022.

«Trump e Giuliani mi hanno chiesto di violare il giuramento di fedeltà alla Costituzione». È rotta da commozione e rabbia, la voce dello Speaker della Camera dell'Arizona Rusty Bowers, quando lancia questa drammatica accusa contro l'ex presidente. 

Poco dopo, alle audizioni della Commissione d'inchiesta della Camera sull'assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, testimonia il segretario di Stato della Georgia Brad Raffensperger, aggiungendo che «Trump ha perso le elezioni in maniera chiara e legale, perché 28mila repubblicani hanno rifiutato di votarlo. Ma invece di accettare il risultato, ha premuto su di me affinché gli trovassi schede inesistenti per farlo vincere».

La giornata di ieri potrebbe passare alla storia come il momento della svolta, nella campagna per incriminare Trump e impedirgli di ricandidarsi alla Casa Bianca. 

Bowers ha denunciato le pressioni di Trump, Giuliani e i loro alleati, come la moglie del giudice della Corte Suprema Thomas, Ginni, per rovesciare il risultato. «Volevano che cambiassi retroattivamente le leggi, per consentire al Parlamento dell'Arizona di nominare un gruppo di grandi elettori alternativo a quello determinato dal risultato di novembre. Mi sono rifiutato. Non ho mai detto a Trump che aveva vinto, mente».

Raffensperger, segretario di Stato della Georgia e quindi responsabile delle elezioni, ha ricordato che «Trump mi ha chiamato e ha detto: "Voglio che mi trovi 11.780 voti, cioè uno in più di quelli che abbiamo"», e così scavalcare Biden. Il suo assistente Gabriel Sterling ha aggiunto: «Ha incitato le violenze, io e mia moglie abbiamo ricevuto minacce di morte». La Commissione ha poi rivelato che il senatore del Wisconsin Johnson aveva offerto a Pence grandi elettori falsi.

Queste testimonianze erano fondamentali per almeno due motivi. Il primo era demolire la linea difensiva usata finora da Trump, allo scopo di evitare che la Commissione d'inchiesta trasferisca al dipartimento della Giustizia le informazioni raccolte finora, per incriminarlo. L'ex presidente potrebbe essere accusato di aver ostruito i lavori del Parlamento e cospirato per la sedizione. Per sostenere questa linea, però, i procuratori dovrebbero provare la sua malafede, dimostrando che sapeva di aver perso regolarmente contro Biden.

Trump sembra orientato a difendersi sostenendo che era convinto che le elezioni fossero state rubate, e quindi non aveva l'intenzione di violare la legge, ma piuttosto di difenderla. Dalla conversazione con Raffensperger e le pressioni su Bowers, si capisce invece che sapeva di aver perso, e quindi stava cercando di ostruire il Congresso in malafede. Ciò potrebbe convincere il segretario alla Giustizia Garland ad incriminarlo. 

Il secondo motivo è l'inchiesta già aperta in Georgia sulle pressioni fatte su Raffensperger, che secondo esperti legali come l'ex procuratore del Watergate Nick Akerman rappresentano il reato per cui l'ex presidente rischia di più.

Primo, perché l'intento di violare la legge è evidente, nel momento in cui sollecita il segretario di Stato a trovargli un voto in più di Biden. Secondo, perché la prova è contenuta nella telefonata registrata, quindi è inconfutabile e non può essere modificata durante un eventuale interrogatorio in aula. Nella Fulton County la procuratrice Fani Willis ha già creato un Grand Jury a cui presentare le prove, e ora potrà usare anche quelle raccolte dalla Commissione d'inchiesta della Camera per incastrare Trump.

Francesco Semprini per “La Stampa” il 23 giugno 2022.

«Il partito repubblicano è a un bivio, se vuole vincere deve seguire la sua anima movimentista di cui Donald Trump è il leader». Quando raggiungiamo al telefono Rudolph Giuliani, già sindaco della Grande Mela ai tempi della "tolleranza zero" e fedelissimo del Tycoon, è col figlio Andrew a fare campagna per le primarie del Grand Old Party (28 giugno) per la carica di governatore dello Stato di New York. 

Come va la maratona elettorale?

«Benissimo, nei dibattiti Andrew è il migliore, c'è una calorosa risposta del pubblico, i repubblicani di New York sono con lui».

Il futuro del partito è quindi nelle mani di persone come suo figlio e come il governatore della Florida Ron de Santis?

«I repubblicani sono a un bivio. Stiamo affrontando un momento difficile, da una parte c'è un partito obsoleto, incancrenito che agevola la corruzione dilagante portata dai democratici. 

Dall'altra c'è un vero partito repubblicano, quello degli America First Republican, composto da persone unite attorno a principi e valori fondanti, un Gop determinato a contrastare il crimine, contrario a ogni forma di collusione con i democratici e con chiunque sia corrotto. Un partito unito nell'attuare e difendere i principi costituzionali». 

E Trump ne è il leader?

«Donald Trump è il leader dei repubblicani, il partito ufficiale ha tanti problemi, è costituto da persone valide, ma anche da individui che principalmente collaborano con i democratici, così come da politici corrotti. 

Al contrario il popolo repubblicano non ne vuole sapere di compromessi con chi vuole il male del Paese, e questo popolo vede in Trump il leader. Donald è il punto di riferimento di un movimento che non ha nulla a che fare con il Gop nella sua accezione obsoleta, tanto meno con l'establishment vecchio stile diventato come o peggio dei democratici».

Veniamo alla Commissione sul 6 gennaio 2021, Trump credeva veramente che i voti fossero stati truccati?

«Senza dubbio sì, Trump sin dall'inizio ne era convinto e aveva le prove del furto, così come il sottoscritto. E ne siamo convinti tuttora. Ci sono migliaia di elettori che sono convinti della stessa cosa, così come ci sono state persone istruite a manipolare il voto, truccare le macchine elettorali, a manovrare il voto per posta. E ci sono persone a cui è stato impedito di votare. In diversi Stati ci sono state centinaia di casi. C'è stata una manipolazione attuata secondo metodi scientifici, schemi concertati, e che non è stato possibile contestare».

Faccia un esempio

«Abbiamo raccolto, attraverso la geolocalizzazione, le prove di alcuni individui che hanno portato nella notte centinaia, migliaia di schede nei seggi. Erano persone pagate per fare questo». 

E dove sarebbe avvenuto?

 «Penso per esempio alla Pennsylvania, quello Stato è un chiaro esempio del furto». 

Il tema del "furto elettorale" è centrale anche nella campagna che Trump ha inaugurato per le elezioni di metà mandato, e in vista del 2024.  Chi c'è dietro quello che vi ostinate a chiamare "il furto"?

«Partiamo da un presupposto, il partito democratico e Black Lives Matter sono esattamente la stessa cosa, non c'è differenza, sono entrambi finanziati da George Soros, il denaro proviene dalla stessa organizzazione, dagli stessi ambienti. Blm, l'apparato democratico e Soros agiscono in perfetto coordinamento fra loro. Gli attivisti di Blm arrestati per violenze nelle manifestazioni sono assistiti e rilasciati grazie al denaro che ha raccolto per loro Kamala Harris». 

Vuol dire che c'è una cupola a protezione dagli attivisti di sinistra?

«Stano spettacolarizzando il processo politico per i fatti del 6 gennaio 2021, dove peraltro sono stati uccisi due sostenitori di Trump, di cui a nessuno interessa capire come sono stati uccisi e da chi. Così come non si dice nulla delle città ostaggio delle violenze di Antifa, Blm, anarchici, antagonisti ed estremisti di ogni sorta. Basta guardare cosa è succede a Portland, in Oregon, ma anche in altre città. Abbiamo mai sentito parlarne Joe Biden o il partito democratico? No, perché in quel caso tutto è permesso». 

Però ci sono legami anche fra Trump e gruppi come i Proud Boys?

«Il legame tra Trump e queste organizzazioni è quasi inesistente rispetto al legame diretto tra il partito democratico e Antifa o Blm. È la stessa storia del Russiagate, dopo quattro anni e 45 milioni di dollari spesi per un'indagine sui presunti legami tra Mosca e Trump, si è appurato che non c'è stata complicità o ingerenza concertata. Al contrario le responsabilità di Hillary Clinton nelle vicende elettorali, o i legami tra Hunter Biden e ambienti ucraini sono evidenti, di questo però non si parla più, specie in tempi di guerra».

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2022.  

Le ultime audizioni della Commissione sul 6 gennaio hanno lasciato il segno. Venerdì scorso Donald Trump, parlando in un comizio a Nashville, ha criticato duramente il leader della minoranza repubblicana alla Camera, Kevin McCarthy: «Perché non ha messo nessuno dei nostri nel Comitato?». Negli ultimi giorni l'ex presidente ha assistito, come milioni di americani, al massiccio flusso di clip e testimonianze: una più sconcertante dell'altra. Il lavoro della Commissione punta a dimostrare come l'ex presidente avesse un piano per attuare «un colpo di Stato», coartando i funzionari degli Stati in bilico e spingendo i supporter ad assaltare Capitol Hill.

Secondo la Cnn Trump si starebbe lamentando con i suoi collaboratori per una scelta che, in realtà, lui stesso ha indirizzato. Nel luglio del 2021, la Speaker della Camera, la democratica Nancy Pelosi, istituì un Comitato speciale per indagare su tutto ciò che portò ai tumulti del 6 gennaio. Trump immediatamente liquidò l'iniziativa come «una caccia alla streghe» e, di fatto, impose all'establishment repubblicano di boicottarla.

McCarthy, tuttavia, propose alla Speaker cinque nomi, tra i quali quelli di Jim Jordan e Jim Banks. Pelosi bocciò l'offerta, sostenendo che Jordan e Banks avessero partecipato attivamente al tentativo di rovesciare il risultato delle elezioni presidenziali 2020. A quel punto McCarthy ritirò l'intera delegazione e nel Comitato entrarono due repubblicani anti-Trump: Liz Cheney e Adam Kinzinger. Il timone, dunque, è rimasto per un anno e mezzo nelle mani dei democratici e dei due conservatori dissidenti. Com' era prevedibile i trumpiani non hanno più avuto la possibilità di contestare i risultati via via emersi dalle indagini.

Solo ora Trump si è accorto di aver lasciato campo libero ai suoi avversari, vecchi e nuovi. La Commissione, per esempio, ha messo in buona luce Mike Pence. Il 6 gennaio l'ex vice presidente è apparso come il garante ultimo della Costituzione, «un uomo al servizio della nazione» e non del suo boss, in furiosa attesa nello Studio Ovale. Inoltre il pubblico ha potuto fare la conoscenza, in diretta televisiva e senza filtri, dei collaboratori più stretti di Trump. Ecco allora il giurista John Eastman e l'ex sindaco di New York Rudy Giuliani inventare, consapevolmente, false teorie per annullare voti validi. Ecco le clip di Ivanka Trump e del marito Jared Kushner: anche loro hanno preso le distanze.

Forse l'audizione più pericolosa per il campo trumpiano è stata quella di martedì 21 giugno. Per circa tre ore abbiamo riascoltato l'ex presidente intimare al Segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger: «Trovami 11 mila schede». Ma le intimidazioni toccarono persino due impiegate degli uffici elettorali di Atlanta, Shaye Moss e sua madre Ruby Freeman. Giuliani accusò la signora Freeman di aver truccato i conteggi portando illegalmente nel seggio delle schede a favore di Joe Biden, nascoste in valigia. Un'affermazione semplicemente ridicola. Una delle tante che ora si ritorcono contro la propaganda trumpiana. 

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 17 giugno 2022.

Prima dell'assalto a Capitol Hill, alla Casa Bianca si vissero giorni rabbiosi. Donald Trump cercò in tutti i modi di convincere il suo vice, Mike Pence, a non ratificare il voto dei 50 Stati nella cerimonia prevista al Congresso, il 6 gennaio 2021. Quella stessa mattina, Trump invitò tutta la sua famiglia nello Studio Ovale. 

A un certo punto telefonò al suo vice. Diversi testimoni hanno raccontato che cosa sentirono. Ivanka Trump, allora consigliera del padre, ha riferito: «La conversazione era molto calda, non lo avevo mai sentito parlare così con il suo vice». C'era anche Nicholas Luna, un altro collaboratore: «Ho sentito il presidente ripetere: "Sei un cagasotto"». 

La terza audizione della Commissione d'inchiesta parlamentare, trasmessa in diretta televisiva, ha ricostruito il rapporto tra i due uomini nell'immediata vigilia del «tentato colpo di Stato». «The Donald» forzò talmente la mano che Marc Short, il capo dello staff di Pence, disse ai servizi segreti di rafforzare le misure di protezione. 

Ma il vero regista della frattura fu un giurista, John Eastman, pronto a prostituirsi intellettualmente pur di compiacere il presidente. Eastman parlò per primo dal palco montato sulla Mall, la mattina del 6 gennaio. Cappotto color cammello, borsalino marrone, annunciò alle migliaia di supporter che «la legge consentiva al vice presidente di annullare i voti truccati o rimandare le schede incerte agli Stati».

Una teoria sgangherata, totalmente infondata. Non esiste alcuna norma che assegni al vice presidente un qualche potere discrezionale nella procedura elettorale. Ma il passaggio più agghiacciante è che lo stesso Eastman ne fosse consapevole. 

Uno dei testimoni presenti ieri in aula, Greg Jacob, consigliere giuridico di Pence, ha riferito che il 4 gennaio si tenne una riunione ristretta nell'Oval Office. Nelle settimane precedenti, Eastman, un super conservatore, aveva preparato un documento per spiegare la sua tesi. Trump ne era entusiasta. Ma Pence, dopo una serie di consultazioni, si era convinto che quella «fosse roba da manicomio».

I due legali, Eastman e Jacob, entrarono nei dettagli giuridici. E alla fine, secondo Jacob, l'interlocutore riconobbe che effettivamente la sua impostazione fosse «illegale» e che sarebbe stata bocciata all'unanimità («9 a zero») dalla Corte Suprema. 

Tuttavia il 5 gennaio Eastman cambiò posizione e tornò a chiedere a Pence «di rigettare le schede». E all'obiezione che questo avrebbe potuto innescare disordini violenti, Eastman replicò: «C'è sempre stata un po' di violenza nella nostra storia». 

Il vice presidente non si unì al gruppo dei cospiratori, apparsi in tutto il loro squallore nei video trasmessi in aula. Rudy Giuliani, gli ex consiglieri Jason Miller e Steve Bannon, l'anchorman di Fox News , Sean Hannity. Tutti sapevano che stavano spacciando falsità agli americani. La Commissione ora allargherà le indagini, chiedendo di testimoniare anche a Ginni Thomas, la moglie del giudice della Corte Suprema, Clarence Thomas.

Ginni, tra l'altro, scambiò alcune e-mail proprio con Eastman. L'audizione di ieri, però, ha avuto anche un significato politico, da tenere presente in vista delle elezioni presidenziali del 2024. Il ticket che ha governato gli Stati Uniti dal 2017 al 2020 si è irrimediabilmente sciolto. Sarebbe improprio, adesso, parlare di duello per la leadership del partito repubblicano. Trump resta in controllo di gran parte del mondo conservatore. Pence, però, è uno degli esponenti di un movimento alternativo che si sta diffondendo nell'establishment di Washington, ma anche nelle primarie in corso nel Paese. Non sempre vincono i candidati sponsorizzati da Trump.

Paolo Mastrolilli per repubblica.it il 12 giugno 2022.

Il titolo più crudele, imitato da molti, lo ha fatto il sito conservatore Drudgereport: "Don ha buttato sotto il bus Ivanka". Ma dietro al colore della lite famigliare, sulla testimonianza della figlia di Trump alla Commissione d'inchiesta sull'assalto al Congresso del 6 gennaio, ci sono vari aspetti con importanti ramificazioni politiche e legali. 

Ivanka ha fatto la prima apparizione con un breve video, trasmesso durante l'audizione di giovedì. Poco prima l'ex segretario alla Giustizia Barr aveva definito le accuse del padre sul furto delle elezioni "bullshit", termine piuttosto volgare che in italiano si traduce "cazzate". Interrogata in proposito, la figlia prediletta ha risposto così: "Ha avuto un effetto sulla mia prospettiva. Rispetto l'Attorney General Barr, perciò ho accettato cosa diceva".

Suo marito Jared Kushner ha aggiunto che quando aveva sentito il consigliere legale della Casa Bianca Cipollone minacciare le dimissioni, aveva pensato che "stesse solo frignando". L'ex presidente ha risposto dalla sua piattaforma Truth: "Ivanka Trump non era coinvolta nello studio dei risultati elettorali. Si era tirata fuori da tempo, e a mio giudizio stava solo cercando di essere rispettosa nei confronti di Barr e della sua posizione di segretario alla Giustizia (lui faceva schifo!)". 

Gli esegeti dell'ex famiglia presidenziale ci hanno letto tre messaggi. Il primo era liquidare il giudizio negativo di Ivanka, perché se neppure tua figlia crede alla "grande bugia" con cui hai fomentato l'assalto al Congresso, davvero non c'era ragione plausibile per rovesciare la più antica democrazia del mondo moderno. Il secondo era evitare lo scontro frontale, sottolineando che lei non intendeva prendere le distanze dal padre, ma solo apparire gentile con Barr e rispettosa della sua carica istituzionale. Il terzo era chiarire che lui invece non avverte questa esigenza, e intima ai sostenitori di non dare sponde ai traditori.

Il problema però è più grave di così. Ivanka è sempre stata la preferita, e infatti Donald l'aveva portata col marito Jared a Washington come consigliera a tutto campo. Lei era democratica, pro aborto, addirittura amica di lunga data di Chelsea Clinton negli ambienti liberal di New York, ma si era convertita a "Trump republican" per sfruttare l'occasione di avere il padre alla Casa Bianca. Le sue ambizioni vanno oltre la gestione del business familiare, al punto che molti la ritengono ancora una possibile candidata presidenziale. 

Quando il padre aveva perso le elezioni, però, lei e Jared avevano rapidamente preso le distanze. Un paio di giorni dopo, durante la colazione nella lussuosa casa di Kalorama, il marito l'aveva informata che la famiglia si sarebbe trasferita in Florida e non avrebbe avuto alcun ruolo nella campagna per rovesciare il risultato. Questo era stato visto come un tradimento dagli alleati irriducibili di Donald, ma in parte anche dai suoi oppositori, che speravano nella funzione calmante della figlia moderata, proprio per evitare un epilogo come l'assalto del 6 gennaio.

Invece Ivanka e Jared lasciarono tutto in mano a personaggi come l'esaurito Giuliani, con i risultati noti. Ora lei parla ancora regolarmente col padre, ma il marito è stato a Mar a Lago solo una volta, mentre invece ha usato i contatti stabiliti durante la presidenza per creare un fondo di investimenti da un paio di miliardi di dollari con business dall'Arabia a Israele.

Così Ivanka e Jared cercano di camminare sopra un'insidiosa fune sospesa, per evitare la rottura con Donald, nel caso si candidasse e rivincesse nel 2024, ma anche per mettersi al riparo dalle potenziali conseguenze legali dei suoi errori, collaborando con l'inchiesta della Camera. Resta da vedere se riusciranno ad arrivare intatti alla fine della fune, perché da una parte rischiano di diventare la chiave per incriminare Trump, e dall'altra difficilmente saranno assolti dall'opinione pubblica.

Anna Guaita per “Il Messaggero” l'11 giugno 2022.

Due ore in prima serata per un appuntamento che non aveva nulla in comune con le normali udienze a cui il Congresso ci ha abituato. Niente protagonismo dei deputati ma toni sobri, a momenti funesti, per presentare la teoria che il 6 gennaio del 2021 la democrazia americana ha corso il rischio di cadere per un tentativo di colpo di stato organizzato direttamente da Donald Trump con un pugno di fedelissimi, e che il rischio «non è finito». Solo due deputati della Commissione Investigativa hanno parlato, il democratico Bennie Thompson e la repubblicana dissidente Liz Cheney, gli altri sono rimasti in silenzio sul palco mentre il lavoro della Commissione veniva presentato al pubblico, in quella che era la prima di sei udienze che si terranno entro il mese di giugno.

Cheney ha avuto il compito di delineare i contorni del caso, intrecciando la ricostruzione con testimonianze video di ex collaboratori della Casa Bianca che rivelavano per la prima volta come all'ex presidente fosse stato ripetutamente detto che aveva realmente perso le elezioni, ma nonostante ciò avesse continuato a ingannare i suoi elettori sostenendo di aver vinto e di essere stato derubato della vittoria. Fra le testimonianze anche quella dell'ex ministro della Giustizia Bill Barr che aveva «esplicitamente confermato» a Trump «almeno tre volte» che le affermazioni di frode elettorale erano «ca...ate». Dopo Barr anche le parole di Ivanka sono state un chiodo sulla bara delle false affermazioni di Trump: «Rispetto il procuratore generale Barr, ho accettato quello che ha detto e ha influenzato la mia prospettiva». 

ACCUSE DALLA FAMIGLIA Devono essere state brucianti per Trump le parole della figlia, al punto che è arrivato a sfogarsi contro di lei sulla sua piattaforma social: «Ivanka non è stata coinvolta nello studio dei risultati elettorali. Si era ritirata da tempo e, secondo me, stava solo cercando di essere rispettosa nei confronti di Bill Barr e della sua posizione di ministro (ha fatto schifo!)».

Peraltro Trump ha rifiutato in pieno le udienze, condannandole come un circo e ribadendo che invece il 6 gennaio era stato «il più grande movimento» della storia americana. 

Nell'arco delle due ore di udienza, attraverso le parole della poliziotta Caroline Edwards e del documentarista britannico Nick Quested è stato una volta per tutte confermato quanto violenti fossero gli uomini che, rispondendo all'appello di Trump, si erano dati appuntamento a Washington, dove hanno sfondato le finestre e le porte del Campidoglio e invaso le sue aule al grido «impicchiamo Mike Pence». C'è stato un sussulto di shock nell'aula delle udienze, quando Cheney ha letto una testimonianza secondo cui Trump aveva reagito dimostrando di condividere quel grido, perché Pence rifiutandosi di capovolgere il risultato delle elezioni forse «si meritava» di essere impiccato.

GLI AGENTI Edwards, una dei 150 poliziotti feriti quel giorno, ha raccontato come erano stati picchiati, bastonati, oltraggiati, soffocati con gas: «Era una caos, una carneficina, scivolavo nel sangue dei colleghi». «Chiunque creda che non sia stato violento, può vedere nelle immagini che ho girato quanto violento sia stato» ha detto Quested, che stava girando un documentario sulla milizia estremista Proud Boys e che aveva registrato l'incontro il giorno prima fra questi e i membri di un'altra simile milizia, quella degli Oath Keepers, che stavano nascondendo armi nella vicinanza di Washington nel caso fosse stato necessario uno scontro armato con le forze federali.

Le milizie si erano organizzate per la guerriglia dopo che Trump in persona aveva lanciato un tweet in dicembre, convocando a Washington i suoi fedelissimi, proprio per il 6 gennaio, la giornata in cui il Congresso doveva ratificare l'elezione di Biden. L'ultima speranza di Trump, che aveva tentato di capovolgere il risultato delle elezioni affermando che c'erano stati illeciti in vari Stati ma era rimasto sconfitto in ogni ricorso in tribunale, era appunto di creare una massa di popolo che bloccasse la ratifica. Se Pence avesse obbedito, cinque Stati cruciali avrebbero avuto il modo di presentare delegati alternativi, e riconfermare Trump altri quattro anni.

E Putin ha perso l’ “amico” Donald Trump…Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 10 Giugno 2022. 

La testimonianza di poche ore fa di Liz Cheney la figlia di Dick , l’ex potentissimo Vicepresidente USA inchioda definitivamente Trump alle proprie responsabilità sul tragico assalto alla Casa Bianca del 6 Gennaio 2021. I Repubblicani lo scaricano cinque mesi prima delle prossime elezioni di medio termine in cui si rinnovano trentaquattro seggi su cento del Senato e tutta la Camera . Ció influisce direttamente sulle candidature repubblicane al Parlamento il prossimo 8 Novembre 2022 e apre la strada a forti novità per le Presidenziali del 2024 , da scegliersi nelle prossime Primarie . Il Partito Democratico appare in prospettiva ingessato nell’attuale coppia Biden Harris. 

Ma il Governo in carica sembra sempre di più aver ripristinato l’antico salubre rispetto tra i due Partiti in competizione , superando le feroci divisioni , autolesive dell’interesse di medio-lungo termine degli USA. Putin non troverà più alcun alleato sul territorio statunitense . L’Europa respira .

Per le complicità italiane del Presidente russo le prospettive sono unanimemente negative.

Matteo Salvini fa sempre più fatica a svincolarsi dalla prolungata contiguità russa e dai sondaggi impietosi . Giorgia Meloni cerca frettolosamente di far dimenticare la sua dichiarata preferenza per Trump , sigillata dalla calda accoglienza del rude Segretario di Stato americano Mike Pompeo in visita in Vaticano per rimproverare al Pontefice l’eccesso di contiguità con il Presidente cinese Xì. La Meloni fu l’unica politica italiana ricevuta a braccia aperte dal Ministro degli Esteri di Trump. 

Molto più nota la conclamata amicizia con il presidente ungherese Viktor Orban , “mantenuto” da Putin con forniture di gas e petrolio a prezzi inferiori al mercato per i fortunati proxy del Presidente . Silvio Berlusconi rivela un’insolita timidezza verso l’invasore russo. Trascurabili errori le molteplici onorificenze date da Mattarella a vari russi su richiesta di Di Maio , e quello di Confindustria per l’ultimo viaggio a Mosca, a ridosso dell’invasione dell’Ucraina. Redazione CdG 1947

Giuseppe Sarcina per corriere.it il 10 Giugno 2022. 

Indignazione, orrore, emozioni e, soprattutto, tanti elementi, difficile da confutare, che chiamano in causa la responsabilità di Donald Trump. La Commissione che indaga sull’assalto a Capitol Hill ha tenuto ieri sera, giovedì 9 giugno, la prima di sei audizioni in diretta televisiva. 

Per molti versi è sembrato il logico proseguimento della procedura di impeachment contro l’ex presidente, nel gennaio del 2021. Trump si salvò grazie al soccorso dei senatori repubblicani. 

Ora questa specie di processo pubblico non avrà conseguenze giuridiche immediate. A meno che il Dipartimento di Giustizia, che sta conducendo un’indagine parallela, non decida di incriminare direttamente Trump.

Lo stesso presidente della Commissione, Bennie Thompson, ha chiarito che i parlamentari «sono pronti a collaborare con il ministro della Giustizia Merryck Garland». La vice presidente della Commissione, la repubblicana «dissidente» Liz Cheney, ha riassunto i risultati principali dell’inchiesta, alternando il ragionamento con alcune clip in cui sono comparsi, tra gli altri, Ivanka Trump, Jared Kushner e l’ex ministro della Giustizia William Barr. 

Secondo Cheney, Trump aveva «un piano in sette punti» per ribaltare la sconfitta nelle elezioni presidenziali del 2020. Un «vero colpo di Stato», per Bennie Thompson.

Dalle testimonianze raccolte risulta evidente come praticamente tutti i collaboratori principali di «The Donald», compresi Ivanka e il marito Jared, fossero convinti della regolarità del voto. E anche Trump lo era. 

Il primo passaggio del suo progetto, però, era costruire una falsa versione, «la grande bugia»: tutti i consiglieri avrebbero dovuto sostenere pubblicamente che le elezioni erano state truccate.

Come sappiamo l’ex leader della Casa Bianca si affidò a Rudy Giuliani per imbastire una serie di sgangherati ricorsi giudiziari. Tutti respinti. Nello stesso tempo, fomentava la piazza e preparava il terreno per l’assalto del 6 gennaio. Uno dei testimoni, il documentarista Nick Quested, ha raccontato i preparativi della vigilia. I suoi filmati, alcuni inediti, mostrano i leader dei «Proud Boys» e degli Oath Keepers incontrarsi la sera del 5 gennaio in un garage di Washington e confabulare di «azioni su Capitol Hill».

La mattina del 6 gennaio almeno 200 Proud Boys si muovono verso il Congresso già verso le 10:30, molto prima di mezzogiorno, quando Trump arringa la folla sulla Mall. Ciò significa che almeno questa formazione di estremisti aveva premeditato l’attacco. La Commissione ha poi proiettato una serie di video per una ventina di minuti. Alcuni ormai famigliari, altri mai visti. Tutti impressionanti. Le immagini, tra l’altro, spazzano via una delle tante stupidaggini che abbiamo ascoltato nei giorni immediatamente successivi ai tumulti e cioè che la polizia avrebbe lasciato campo libero ai vandali.

È vero esattamente il contrario, come ha riferito l’altra testimone della serata, Caroline Edwards, agente in servizio a Capitol Hill. È stata la parte più emotiva dell’audizione. Caroline ha raccontato di essere stata ferita due volte, di aver perso coscienza per qualche minuto, sbattendo la testa contro i gradini. E ha ricordato di aver visto accanto a sé il collega Brian Sickinick «diventare bianco come un foglio di carta». Brian morirà in seguito alle ferite, così come quattro manifestanti. Nell’aula c’erano anche i famigliari del poliziotto, in lacrime. In serata i repubblicani hanno accusato i democratici di aver estrapolato le frasi dei collaboratori di Trump. Ma ci sarà tempo e modo di verificarlo nelle prossime occasioni, quando le testimonianze verranno riproposte integralmente.

Secondo la commissione che indaga sulla rivolta del Campidoglio, Trump è all’origine della cospirazione. Il Domani il 10 giugno 2022.

Sono iniziate ieri le audizioni pubbliche, ma i parlamentari hanno già ricevuto testimonianze da cui emerge che Trump non poteva non essere consapevole di aver perso le elezioni e che ha avuto un ruolo attivo nella fomentazione della rivolta

È iniziato stanotte ora italiana il ciclo di audizioni della commissione d’inchiesta del parlamento americano sui fatti del 6 gennaio 2021, quando è stato attaccato il Campidoglio dopo la sconfitta del presidente uscente Donald Trump, che in un primo momento si era opposto al risultato definitivo delle elezioni e lo aveva appellato in tutte le sedi possibili. 

Secondo quanto emerge dalle prime testimonianze raccolte, alcuni parlamentari lo definiscono esplicitamente come un tentativo di golpe organizzato da Trump, che aveva appena perso le elezioni contro il suo rivale Joe Biden. Alcuni membri della commissione hanno rivelato di aver ascoltato testimonianze del fatto che lo stesso Trump avesse appoggiato l’idea di impiccare il suo vice, Mike Pence, come chiedevano i sostenitori. La vicepresidente repubblicana della commissione Liz Cheney ha raccontato che secondo alcune testimonianze, quando è stato informato dell’idea dei rivoltosi di impiccare Pence, critico nei confronti della sua opposizione, ha detto: «Forse i nostri sostenitori hanno avuto l’idea migliore» aggiungendo che Pence «se lo meritava». 

«Ho avuto tre discussioni con il presidente Trump e gli ho detto chiaramente che non credevo che le elezioni fossero state rubate» e che il tentativo di capovolgere il risultato del voto era una «cazzata». Lo ha detto l'ex ministro della Giustizia William Barr.

IL RUOLO DI TRUMP

Secondo il presidente democratico Bennie Thompson, «Donald Trump era il centro di questa cospirazione» e il presidente uscente «ha spinto un gruppo di nemici interni alla Costituzione a raggiungere il Campidoglio e sovvertire la democrazia americana».  

Cheney sostiene che alla fine emergerà che Trump fosse consapevole di aver perso davvero le elezioni. Tra i testimoni appaiono anche diversi assistenti di Trump e sua figlia Ivanka accompagnata dal marito Jared Kushner. «Nonostante ciò, il presidente si è impegnato a diffondere informazioni false e fraudolente per convincere grandi fette della popolazione americana che le elezioni fossero state rubate» ha detto Cheney. 

Secondo i commentatori, il momento storico dell’inizio dei lavori della commissione può garantire ai democratici, che a novembre rischiano di perdere la maggioranza alle elezioni di metà mandato, il contrasto necessario rispetto ai repubblicani che hanno sostenuto Trump per migliorare la propria posizione. 

La commissione è convocata per lunedì prossimo. Secondo Thompson emergerà nel dettaglio come Trump abbia acceso la miccia della rivolta con la sua bugia a proposito delle elezioni rubate. 

Testo di Mike Pence pubblicato da “La Stampa” il 13 novembre 2022.

Tredici giorni dopo le elezioni del 2020, pranzai con il presidente Trump. Gli dissi che se i suoi ricorsi legali non avessero portato a niente, avrebbe potuto semplicemente accettare l'esito delle elezioni, procedere con la transizione e il passaggio di consegne, e prepararsi a un ritorno politico vincendo il ballottaggio in Georgia per il Senato, la corsa per la poltrona di governatore della Virginia nel 2021 e conquistare la Camera e il Senato nel 2022. 

A quel punto, nel 2024 avrebbe potuto candidarsi alla presidenza e vincere. Mi parve distaccato, forse anche sfinito: «Non so il 2024 è così lontano». In una telefonata del 5 dicembre, il presidente per la prima volta parlò di mettere in discussione i risultati elettorali davanti al Congresso.

A metà dicembre, su Internet pullulavano le congetture sul mio ruolo. Un irresponsabile spot televisivo di un gruppo che si fa chiamare Lincoln Project ipotizzò che quando mi avessero chiamato a presiedere l'assembla generale del Congresso per procedere alla conta dei voti si sarebbe dimostrato che io sapevo che «era finita» e che, assolvendo al mio dovere costituzionale, avrei inferto il colpo di grazia alla rielezione del presidente. 

Da quel che mi risulta, quella fu la prima volta che qualcuno alluse al fatto che ero in grado di alterare il risultato elettorale. Si trattava di un'affermazione antipatica, studiata apposta per irritare il presidente. E funzionò. Durante una riunione di gabinetto, a dicembre, il presidente Trump mi disse che lo spot «mi metteva in cattiva luce».  

Risposi che non rispondeva a verità: io avevo appoggiato in pieno i ricorsi legali contro i risultati elettorali e avrei continuato a farlo. Il 19 dicembre il presidente alluse a una manifestazione a Washington il 6 gennaio. Pensai che sarebbe stata utile per attirare l'attenzione sui ricorsi. Avevo appena parlato con un senatore dell'importanza di esprimere preoccupazioni sul risultato elettorale davanti al Congresso e al popolo americano. 

Il 21 dicembre, alla Casa Bianca Jim Jordan, rappresentante dell'Ohio per il partito repubblicano, guidò i legislatori in una discussione sui piani finalizzati a presentare ricorso. Promisi che tutte le obiezioni debitamente presentate sarebbero state accolte e discusse. 

Il 23 dicembre, salii a bordo dell'Air Force Two con la mia famiglia per andare a trascorrere il Natale con alcuni amici. Mentre sorvolavamo l'America, il presidente Trump ritwittò un articolo intitolato "Operation Pence Card", nel quale si accennava alla teoria secondo cui, nel caso in cui fosse fallita ogni altra iniziativa, il 6 gennaio avrei potuto modificare l'esito delle elezioni. Lo mostrai a mia moglie Karen, e lei sollevò gli occhi al cielo.

(...) Molto presto, la mattina del primo dell'anno, il telefono squillò. Il rappresentante del Texas Louie Gohmert e altri repubblicani avevano sporto denuncia chiedendo a un giudice federale di dichiarare che io avevo «la facoltà e l'autorità esclusiva» di decidere quali voti elettorali dovessero essere contati.  

Il presidente disse che quella mattina non aveva intenzione di ritrovarsi a leggere un titolo come "Pence si oppone alla denuncia di Gohmert". Gli dissi che mi ero opposto. «Se te ne è concessa facoltà - proseguì - perché mai dovresti opporti?». Gli risposi, come avevo già fatto in molte occasioni, che non credevo di avere quell'autorità in base alla Costituzione. «Sei troppo onesto - mi rimproverò -. Centinaia di migliaia di persone ti odieranno. La gente penserà che tu sia un idiota». (...)

Il 4 gennaio, Mark Meadows, capo dello staff del presidente, mi convocò allo Studio Ovale per incontrare un lungo elenco di partecipanti, tra cui il giurista John Eastman. Ascoltai con il dovuto rispetto quando Eastman sostenne che avrei dovuto modificare la procedura che prevede di aprire e contare i voti elettorali in ordine alfabetico, lasciando per ultimi i cinque stati in ballo. 

Eastman dichiarò che avevo la facoltà di rispedire indietro i voti agli Stati fino a quando ciascuna legislatura non avesse certificato quali voti contestati erano accettabili. Avevo già confermato che non vi erano voti contestati. Eastman ribadì più volte la sua tesi, dicendo che si trattava solo di una teoria legale.

Gli chiesi: «Pensa che io abbia la facoltà di respingere i voti contestati?». «Be', non se ne è mai parlato in un tribunale; quindi, penso che sia una questione aperta», balbettò. A quel punto mi girai verso il presidente, che era distratto, e dissi: «Signor Presidente, ha sentito? Perfino il suo avvocato non pensa che io abbia l'autorità di contestare i risultati elettorali». Il presidente annuì. Mentre Eastman si sforzava di spiegare meglio le cose, il presidente rispose: «Preferirei il contrario». (...) 

Il 5 gennaio ricevetti una telefonata urgente: il presidente voleva vedermi allo Studio Ovale. I suoi legali, Eastman incluso, volevano che io respingessi i voti contestati. (...) Proprio prima di andare a coricarmi, vidi che il comitato elettorale di Trump aveva rilasciato una dichiarazione. 

Il New York Times riferiva che avevo detto al presidente che non credevo di avere la facoltà di fermare l'autenticazione del risultato elettorale da parte del Congresso. Era vero, ma la dichiarazione diceva che si trattava di "fake news".

Ebbi subito l'impressione che il 6 gennaio 2021 sarebbe stato un giorno lunghissimo. L'indomani mi alzai presto e mi misi a scrivere una dichiarazione per il Congresso. Poco dopo le 11 squillò il telefono. Era il presidente. Gli dissi che «malgrado il comunicato stampa che ha reso noto ieri sera, sono sempre stato lealmente dalla sua parte».  

Gli ripetei che non credevo di avere la facoltà di decidere quali voti potevano essere ammessi e quali no, e gli dissi che avrei inviato al Congresso un comunicato di conferma, prima che avesse inizio l'assemblea plenaria.  

Il presidente si scagliò contro di me. «Sarai ricordato alla stregua di un codardo. Se lo fai, cinque anni fa ho commesso un errore madornale!». Quando però disse «non stai proteggendo il nostro Paese! Dovresti sostenerlo e difenderlo!», gli rammentai con calma che avevamo «entrambi giurato di sostenere e difendere la Costituzione». 

(...) Mentre il nostro corteo di auto arrivava in Campidoglio, vidi migliaia di manifestanti attendere tranquillamente sul prato Est e provai compassione per tutte quelle brave persone che avevano raggiunto Washington perché era stato detto loro che il risultato elettorale poteva essere ribaltato. 

Quando entrammo, applaudirono. Mi girai verso mia figlia e le dissi con un sospiro: «Che Dio li benedica. Rimarranno così delusi». Non avevo idea che a un isolato di distanza, sul lato Ovest del Campidoglio, si fosse formato quello che in seguito sarebbe stato descritto come un "muro di persone".  

Mentre facevo strada ai senatori al piano della Camera, l'atmosfera era solenne. Non c'era nessun segnale o indizio del caos che si stava scatenando fuori. (...) Quaranta minuti dopo, mentre parlava il repubblicano James Lankford dell'Oklahoma, la parlamentare del Senato Elizabeth MacDonough, seduta a poca distanza da me, si sporse in avanti e mi sussurrò: «Signor vicepresidente, i manifestanti hanno fatto irruzione sfondando le porte dell'edificio al primo piano. Volevo solo informarla». 

Un uomo della mia scorta dei servizi segreti entrò in Senato, venne dritto verso di me e mi disse: «Signor vicepresidente, dobbiamo andare via». Confidando nel fatto che la polizia del Campidoglio degli Stati Uniti avrebbe preso subito il controllo della situazione, gli dissi che avremmo atteso nell'ufficio accanto, riservato a me in qualità di presidente del Senato. 

Timothy Giebels, agente capo della mia scorta, entrò in quell'ufficio affollato e mi disse subito: «Signore, dobbiamo portarla immediatamente fuori dall'edificio». I manifestanti, che avevano fatto irruzione sfondando le porte del Campidoglio dal lato della Camera, si stavano dirigendo verso il Senato.(...) Dissi agli agenti della scorta che non avrei abbandonato il mio posto. Giebels insistette affinché andassi via. I facinorosi raggiunsero il nostro piano.

Gli puntai un dito sul petto e gli dissi: «Lei non mi sta ascoltando. Io non me ne vado. Non permetterò che questa gente assista alla fuga dal Campidoglio di un corteo di 16 automobili». «Ok» rispose, con un tono di voce che chiaramente intendeva che non era affatto ok. «In ogni caso, non possiamo restare qui. 

Questo ufficio ha porte di vetro e non possiamo proteggerla». A quel punto mia figlia Charlotte chiese: «Non c'è un altro posto nel quale mio padre possa andare, pur rimanendo sempre all'interno del Campidoglio?». Giebels rispose che potevamo dirigerci verso lo scarico merci e i garage, pochi piani più giù. Io acconsentii.

Le scale furono messe in sicurezza. Ci dirigemmo lentamente nell'atrio. Tutto attorno a noi c'era un turbinio convulso e caotico: gli agenti della sicurezza e delle forze dell'ordine davano indicazioni alle persone, i funzionari gridavano e correvano al sicuro. Sentii passi frenetici e cori rabbiosi. (...) Giebels iniziò a farmi strada verso le auto, ma io mi fermai e dissi: «Non salirò a bordo».

In garage non c'era una televisione, quindi la mia scorta mi mise al corrente della situazione usando le radio della polizia e Twitter. Zach Bauer, il mio imperturbabile assistente, mi si avvicinò un po' imbarazzato e mi porse il suo telefono. Alle 14.24 il presidente aveva spedito il seguente tweet: «Mike Pence non ha avuto il coraggio di fare quello che andava fatto per proteggere il nostro Paese e la nostra Costituzione, dando agli stati la possibilità di autenticare una serie di correzioni, non i voti fraudolenti o inaccurati che era stato loro chiesto di autenticare in precedenza. Gli Stati Uniti d'America esigono la verità».  

I facinorosi stavano mettendo a soqquadro il Campidoglio. Più tardi mi fu riferito che stavano gridando «Impiccate Mike Pence». Ignorai il tweet e mi rimisi al lavoro. (..) Alle 14.38 fu chiaro che alla Casa Bianca avevano avuto la meglio le persone più lucide.  

Il presidente twittò: «Per favore, aiutate gli agenti della polizia del Campidoglio e delle forze dell'ordine. Loro stanno dalla parte del nostro Paese. State tranquilli!». (...) Alle 19, ci permisero di tornare nel mio ufficio. 

Quando l'assemblea riprese, cambiò tutto. Molti legislatori ritirarono il loro sostegno alle obiezioni che erano state presentate. Aldilà della violenza e della devastazione, i facinorosi del 6 gennaio erano riusciti a porre fine alle discussioni sulle irregolarità del voto.  

Intorno alle 3.40 di notte, la senatrice Amy Klobuchar del Minnesota lesse i risultati delle elezioni del 2020. L'11 gennaio incontrai il presidente. Appariva stanco, la voce era più debole del solito. «Come stai?», esordì. «Come stanno Karen e Charlotte?». Risposi freddamente che stavamo bene e gli dissi che il 6 gennaio anche loro si trovavano in Campidoglio. 

Con un pizzico di rammarico, rispose: «L'ho appena saputo». Poi mi chiese: «Hai avuto paura?». «No - risposi -. Ero arrabbiato. Quel giorno, presidente, lei e io abbiamo avuto delle divergenze e vedere quelle persone devastare il Campidoglio mi ha mandato su tutte le furie». (...)  

Il 14 gennaio, il giorno dopo che il presidente Trump fu messo sotto accusa per la seconda volta, feci visita allo Studio Ovale. La sera prima il presidente aveva denunciato senza mezzi termini le violenze in Campidoglio e aveva esortato tutti alla calma e all'unità nazionale. Mi congratulai per le sue parole. «Sapevo che ti sarebbero piaciute», disse. 

Mi parve scoraggiato, quindi gli rammentai che stavo pregando per lui. «Non disturbarti», disse. Mentre mi alzavo per congedarmi, disse: «È stato bello». «È stato un privilegio, signor presidente», risposi. «Sì, con te lo è stato». Mentre camminavo verso la porta, mi fermai, guardai il presidente negli occhi e gli dissi: «Immagino che non saremo d'accordo soltanto su due cose». «Quali?». Gli ricordai le nostre divergenze del 6 gennaio e poi dissi: «Inoltre, io non smetterò mai di pregare per lei». 

Il presidente sorrise e disse: «Va bene. Non cambiare mai». *Mike Pence è stato vicepresidente degli Stati Uniti dal 2017 al 2021. Questo brano è un'anticipazione dal suo libro So Help Me God.

Assalto a Capitol Hill. L'udienza diventa show "Fu un golpe di Trump". Diana Alfieri l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.

La commissione contro l'ex presidente. Il suo portavoce: "È un circo". L'accusa in diretta tv.

Donald Trump è stato il regista di un vero e proprio colpo di Stato. «Il 6 gennaio è stato il culmine di un tentato golpe. Un tentativo sfacciato di capovolgere il governo. La violenza non è stata un incidente. È stato l'ultimo disperato tentativo di Trump di fermare il trasferimento di potere». Lo afferma senza giri di parole Bennie Thompson, il presidente della commissione parlamentare di inchiesta sui fatti del 6 gennaio 2021, che attinge anche a una suggestione storica: «Nel 1814 il Campidoglio è stato assalito da una forza straniera, mentre il 6 gennaio è stato assalito da nemici interni».

È stata un'udienza quasi hollywoodiana la prima pubblica (trasmessa anche in diretta tv) della commissione composta da sette deputati democratici e da due repubblicani, che però sembrano essere più severi con l'ex presidenti dei suoi avversari naturali. Momento clou un filmato di dieci minuti che monta nuove immagini inedite raccolte in un filmato e la testimonianza di una degli agenti feriti e di altre persone sentite a porte chiuse. Nel video si sentono tra l'altro i manifestanti gridare «impiccate Mike Pence» e si vedono i poliziotti assaliti chiedere aiuto con concitazione, quasi disperazione. Tutto questo materiale tra il docudrama e la fiction per sostenere un'unica tesi: la fiamma dell'assalto a Capitol Hill da parte di una folla variopinta e arrabbiata l'ha accesa lui, Donald Trump.

Ma l'udienza ha inizio con le parole a dir poco enfatiche di Thompson. «Il 6 gennaio e le bugie che hanno portato all'insurrezione hanno messo due secoli e mezzo di democrazia a rischio. La nostra democrazia resta in pericolo. Il complotto non è finito». Poi ecco il carico, quella della «patriota e amica» Liz Cheney, la repubblicana trasformatasi nella nemica pubblica numero uno dell'ex presidente. Secondo la pasionaria di destra «l'obiettivo di Trump era restare al potere nonostante avesse perso le elezioni» e «l'attacco al Capitol, che nei primi tweet Trump non ha condannato bensì giustificato, non è stato un evento spontaneo» ma la parte di un «sofisticato piano in sette punti per capovolgere il voto e restare al potere». Cheney, che ricorda le pressioni operate dal tycoon sul suo vice Mike Pence affinché rifiutasse il conteggio dei voti elettorali, sciorina spezzoni delle testimonianze dell'ex ministro della Giustizia di Trump William Barr («ho avuto tre discussioni con il presidente Trump e gli ho detto chiaramente che non credevo che le elezioni fossero state rubate, gli ho detto ripetutamente che non vedevo prove di frode») e della figlia di Trump Ivanka («rispetto Barr e ho accettato quanto ha detto sulle elezioni, ovvero che mio padre aveva perso»). Infine le parole forse più toccanti, quelle di Caroline Edwards, una delle agenti ferite, che appre ancora profondamente turbata dalla vicenda. Parla di «scene di guerra», di quanto sconvolgente fosse vedere «i volti di quegli americani come lei» insultarla e picchiarla.

Trump si fa vivo solo per definire l'udienza una nuova frode: «La commissione non ha mostrato le testimonianze positive, ha rifiutato di parlare di frode elettorale e di irregolarità, e ha deciso di usare un produttore di documentari del network di Abc per mostrare solo immagini negative. Il nostro paese è veramente nei guai». Il suo portavoce Taylor Budowich va oltre: «Questa non è un'udienza legislativa, è una produzione tv. Questo circo non catturerà l'attenzione del pubblico».

Dagotraduzione da Axios il 2 maggio 2022.

In una memoria del 10 maggio, l'ex segretario alla Difesa Mark Esper ha raccontato che quando i manifestanti riempirono le strade per protestare contro la morte di George Floyd. l'ex presidente Trump disse: «Non puoi semplicemente sparargli? Sparagli alle gambe o a qualcos’altro?». 

Perché è importante: il libro, "A Sacred Oath", contiene vivide rivelazioni in prima persona di un membro di spicco del gabinetto, che rafforzano i resoconti di estranei sull'estrema disfunzione nella Casa Bianca di Trump. 

Esper, che in precedenza era stato segretario dell'esercito, è stato licenziato da Trump dopo le elezioni del 2020. Nella prima settimana di giugno 2020, «è stato surreale, seduto davanti alla scrivania Resolute, all'interno dello Studio Ovale, con questa idea che pesava pesantemente nell'aria, e il presidente rosso in viso che si lamentava a gran voce delle proteste in corso a Washington, DC», scrive Esper.

«La buona notizia: questa non è stata una decisione difficile», continua Esper. «La cattiva notizia: dovevo trovare un modo per riportare indietro Trump senza creare il pasticcio che stavo cercando di evitare». 

Dietro le quinte: il libro è stato esaminato ai massimi livelli del Pentagono. Mi è stato detto che come parte del processo di autorizzazione, il libro è stato recensito in tutto o in parte da quasi tre dozzine di generali a 4 stelle, anziani civili e alcuni membri del gabinetto.

Alcuni di loro avevano assistito all’episodio raccontato da Esper. Durante la revisione della sicurezza del libro, Esper ha citato in giudizio il Pentagono per una disputa sulla classificazione. 

Contesto: Esper ha fatto infuriare Trump affermando pubblicamente nel giugno 2020 che si opponeva all'invocare l'Insurrection Act - una legge del 1807 che consente al presidente di utilizzare truppe in servizio attivo sul suolo statunitense - al fine di reprimere le proteste contro l'ingiustizia razziale.

Michael Bender - allora con il Wall Street Journal, ora con il NY Times - ha riferito l'anno scorso nel suo libro "Frankly, We Did Win This Election", che Trump ha ripetutamente chiesto alle forze dell'ordine di sparare ai manifestanti durante accese riunioni all'interno dello Studio Ovale.

Da corriere.it il 26 marzo 2022.

Fra le elezioni del 2020 e l’assalto al Congresso del 6 gennaio la moglie del giudice Clarence Thomas, il più conservatore della Corte Suprema, ha inviato una pioggia di messaggini all’allora capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows, implorandolo di agire per capovolgere il risultato del voto. 

«Salvateci dalla distruzione dell’America da parte della sinistra», ha scritto l’ultraconservatrice Ginni Thomas invocando uno degli slogan popolari sulle piattaforme online della destra.

Il riferimento era alla teoria del complotto secondo cui, alla fine, Donald Trump avrebbe in realtà vinto le elezioni che gli sarebbero poi state «rubate». Di «elezione rubata» ha parlato, per settimane, lo stesso presidente uscente.

Definendo l’Election Day del 3 novembre un «furto», Ginni Thomas nei suoi messaggi ha parlato anche di vere e proprie frodi elettorali —ad esempio in Arizona. 

I contatti di Ginni con la Casa Bianca di Trump includevano anche Jared Kushner, il genero-consigliere dell’ex presidente, e Sidney Powell, una delle legali del tycoon. 

I messaggini della consorte di Clarence Thomas gettano un’ombra sulla Corte Suprema, già ritenuta troppo politicizzata con le nomine effettuate da Trump. Fra i suoi giudici Thomas è il più fedele difensore dell’ex presidente.

Ora la sua statura e il suo ruolo all’interno della Corte sembrano in qualche modo in pericolo: la carica di giudice della Corte Suprema è a vita ma l’operato di Ginni Thomas mette a rischio la credibilità e la reputazione dei «saggi» — così vengono anche chiamati i giudici della Corte — già colpita da un sistema di nomina e di conferma che solleva non poche critiche.

L’ultimo esempio in ordine temporale è quello di Ketajin Brown Jackson, nominata da Joe Biden alla Corte Suprema. Nel corso delle audizioni di conferma Brown Jackson è stata attaccata e criticata dai repubblicani, anche da quelli che solo due anni fa avevano votato a suo favore per il precedente incarico. In aula si è assistito a un circo politico che ha sminuito la portata di un evento storico, come la possibilità di avere la prima donna afroamericana alla Corte, e che rischia di avere ripercussioni di ben più lungo termine.

(ANSA il 24 marzo 2022) - Donald Trump è colpevole di "numerosi" reati e il fatto che non sia ritenuto responsabile delle sue azioni è un "grave fallimento della giustizia". Lo afferma Mark Pomerantz, il pubblico ministero che si è dimesso il mese scorso dalla squadra del procuratore di Manhattan che sta indagando sull'ex presidente. Dimissioni legate ai dubbi del procuratore di Manhattan Alvin Bragg sul procedere contro l'ex presidente. Le accuse di numerosi reati e di fallimento della giustizia sono contenute nella lettera di dimissioni di Pomerantz, riportata dal New York Times.

(ANSA il 3 marzo 2022) - La Commissione della Camera Usa che indaga sull'assalto a Capitol Hill del sei gennaio del 2021 ha concluso che l'allora presidente Donald Trump e il suo entourage hanno cercato di "ostacolare in modo illegale il Congresso nel conteggio dei voti elettorali" e "hanno cospirato per frodare gli Stati Uniti". Lo rivela Politico precisando che i risultati dell'indagine sono stati inviati ad una Corte Federale questa sera. Secondo l'inchiesta, Trump ha infranto "diverse leggi cercando di impedire al Congresso di Certificare la sua sconfitta". 

Secondo la commissione che indaga sull'assalto del 6 gennaio, l'ex presidente Trump e il suo avvocato John Eastman facevano parte di una "cospirazione criminale" per ribaltare il risultato delle elezioni presidenziali del 2020, vinte da Joe Biden. L'invio dei risultati dell'indagine ad una Corte federale fa parte del tentativo della Commissione di aver accesso alle email dell'avvocato che ha rivendicato il segreto professionale.

Il Paradiso perduto d'America: così è svanito il sogno americano. Francesca Salvatore il 28 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nel libro Il Tramonto del sogno americano edito da Giubilei Regnani, l'autore ripercorre le contraddizioni che attraversano gli Stati Uniti attingendo non solo alla storia del Nuovo mondo, ma soprattutto alla sua cultura, come libri, canzoni o film.

Il Tramonto del sogno americano di Alberto Bellotto, primo libro della nuova collana curata da Andrea Indini edita da Giubilei Regnani, guida il lettore, anche quello meno avvezzo alle faccende americane, attraverso la strettissima attualità di quella che sembra essere la seconda “età dell’ansia” per l’Unione, analizzandola attraverso i fondamenti della storia del Paese. Con occhio scevro dalle idealizzazioni dell’American dream quanto dall’antiamericanismo radical chic, i tratti distintivi della società d’Oltreoceano vengono snocciolati per guidare a comprendere l’oggi. I cromosomi del complesso Dna americano vengono sequenziati attraverso un leitmotiv piacevolissimo che è la cultura popolare. Nello spiegare l'America convivono, fra le pagine, John Denver e John Steinbeck, Leonardo Di Caprio e John Ford, il sergente Hartmann e Marylin Monroe, Jimi Hendrix e Sex and City, Eddie Wedder e Forrest Gump, Henry David Thoreau e Johnny Cash.

Si parte dall’America violenta, quella dei riots che, quasi con fare ciclico, interessano le grandi città del nord e del sud: a ondate, mettono a ferro e fuoco i grandi distretti per poi lasciar tornare la quiete, as usual. C’è poi il razzismo: nella nazione che nacque come mescola e che venne riproposta come melting pot, le discriminazioni razziali sembrano confermarsi come sistemiche: dalla “peculiare istituzione”, passando per il Jim Crow System fino al Black Lives Matter, non v’è luogo d’America che non sia stato toccato dalla segregazione: un mito che Bellotto cerca di sfatare, dati alla mano, è quello di un sud segregazionista vs. un nord progressista, così come la dicotomia democratici-solo- pro ethnics/repubblicani-solo-razzisti. Difficoltà croniche che sempre più spesso si tenta di scavalcare attraverso l’esasperazione della cancel culture, spostando l’attenzione più sui simboli che sulle azioni concrete per sanare le ferite di un Paese arrugginito e scollato.

Quei Tornanti che portano al dubbio sul politicamente corretto

Poi c’è lo sport, altro filo conduttore della nazione, dai campetti delle periferie fino alle paillettes della finale del Super Bowl, che fa da sfondo alle vite di veri eroi e antieroi nazionali: non c’è messaggio che in America non sia passato anche attraverso gli atleti. Che si tratti dei pugni alzati di Tommie Smith e John Carlos, dell’epopea di vita di Rubin “Hurricane” Carter e di Babe Ruth o delle imprese di Michael Jordan, gli spalti sono un topos della nazione. Pallacanestro e football, ancora oggi, salvano migliaia di ragazzini da contesti decadenti e degradati; restano i più popolari perché maggiormente accessibili e praticabili quasi ovunque. Bellotto, anche questa volta dati alla mano, sfata però il mito dello sport che si schiera compatto dinanzi al razzismo e alle discriminazioni: se gli atleti si sono quasi sempre mostrati uniti nei gesti, mostrando l’inclusività nelle squadre, società e dirigenze restano conventicole Wasp.

A fare da fil rouge nella storia degli Stati Uniti, l’idea della frontiera: quella fisica, croce e delizia dei pionieri, poi quella riscritta da Kennedy, e poi quella ancora da riscrivere, oggi. L’autore racconta attraverso la vita di tutti i giorni, il sentimento americano del continuo mutare che passa attraverso disastri ecologici, case costruite infinite volte, trasferimenti da una costa all’altra. Dall’assenza del mito del posto fisso fino all’ossessione survivalista, gli americani vengono raccontati nella loro abitudine al cambiamento, alla ricerca dei segni della predestinazione che li accompagna dai tempi della Mayflower.

Il libro si sofferma, poi, su un’idiosincrasia atavica degli americani per le tasse. La nazione che partorì il principio del no taxation without representation oggi vive una spaccatura epocale tra ricchi e poveri, soprattutto dopo il 2008. Una crisi terribile che ha fatto venir meno la mobilità sociale su cui si è sempre fondato il sogno americano. È questa faglia che addolora e avvelena il Paese, fagocitando perfino la questione razziale: la vera battaglia, adesso, è tra l’America agiata e quella dei working poors. Vi è poi un luogo ben preciso in cui il peggio della discriminazione incontra la povertà: ed è la “nazione indiana”, termine patinato per definire il complesso delle riserve destinate ai nativi ove regnano carenze idriche, sovraffollamento, ludopatie, alcolismo e veri “deserti alimentari”. Un’onta per il popolo, anzi i popoli, che possono dirsi davvero “americani” dal principio. 

Se c’è invece un dramma realmente trasversale, per età, sesso, etnia e classe sociale è quello delle dipendenze. L’autore racconta bene quanto gli armadietti bianchi dei farmaci, nei bagni dei cittadini americani, pullulino di strumenti di morte: dai banali antidolorifici (la panacea per chi, senza assistenza sanitaria, può curare solo i sintomi) fino ai barbiturici nelle classiche boccette color arancio. Non serve arrivare alle droghe pesanti nella terra che pur vive il dramma degli oppioidi e dell’eroina: si muore per molto meno nelle case americane, spesso più volte nella stessa famiglia.

Nell’America violenta e contorta, un posto sacro è occupato dal Secondo Emendamento, il fondamento costituzionale sul quale i cittadini americani erigono il proprio diritto a imbracciare le armi. Un rapporto complesso e quasi viscerale con fucili e pistole: dai personaggi simbolo della storia, passando per i pionieri, fino al cinema di oggi. Le armi per gli americani costituiscono la soglia più intima del proprio diritto alla sicurezza ma, allo stesso tempo, sono la ragione delle più grandi tragedie nazionali. Il mondo americano fa i conti continuamente, attraverso le mass shootings, con una regolamentazione del possesso di armi fallace e dominata dalle grandi lobby come la Nra: su questo tema si verifica la saldatura tra l’americano che si è ribellato agli inglesi, quello che ha attraversato la frontiera e quello che vive nell’America della pandemia, dove l’arma è drammaticamente libertà d’espressione per certi gruppi sociali a cui Washington non riesce o non vuole mettere un freno.

In questo strano Paese, perennemente sospeso fra la “città sulla collina” e Sodoma, tutto viaggia sul filo che separa la mania dalla fobia. Il sesso non fa eccezione. Permea la cultura popolare a suon di materiali porno, proprio in quello che è anche il regno del moralismo puritano. Questo problema nazionale con il sesso affligge anche la Casa Bianca e il Congresso: la maggior parte degli scandali pubblici, infatti, ha che fare proprio con gli aspetti pruriginosi della vita privata dei politici o, peggio ancora, con reati di tipo sessuale. Ma se si guardano i dati, si arriva addirittura a scoprire che la libertà sessuale, che ha fatto degli Stati Uniti degli anni Sessanta il proprio terreno di cultura, è andata perdendosi nel suo senso più complesso, nonostante il cinismo pop di serie come Sex and City, che hanno ri-sdoganato la libertà sessuale dopo gli anni duri dell’Aids.

Non si può, capire l’America senza comprendere come funziona la macchina che sta dietro alle scelte del Pentagono, ricorda l’autore. Quasi tutte le generazioni americane hanno combattuto una guerra e da tempo immemore arruolarsi è un modo per mettere assieme il pranzo con la cena, soprattutto in certe aree del Paese. Qui la moria dei soldati affligge la comunità più che altrove e dissemina le strade di “tenenti Dan”, lasciati in balia di sé stessi. Nel racconto trova posto anche un'analisi sulla ossessione per i complotti e gli X-files: la società americana, più di altre, tenderebbe a rispondere, infatti, a problemi complessi con risposte semplici. Ecco spiegato il florilegio di teorie sugli alieni, il fenomeno Qanon, le reazioni isteriche alla pandemia, le leggende sulle città fantasma, l'ossessione per massoni, comunisti e neonazisti, fino al cold case per eccellenza: l'uccisione di John Fitzgerald Kennedy.

All'interno di questo ritratto della giostra americana, l'autore trova un posto perfino al verbo perdersi. La nazione caotica per eccellenza è anche il luogo perfetto per scomparire. Lo hanno fatto in tanti, da Henry David Thoreau a Christopher McCandless, assieme a centinaia di altri piccoli grandi eremiti in fuga dal caos. Last but not least, Bellotto chiude il suo ritratto chiedendosi che fine abbia fatto il sogno americano in questo Paradise lost. La risposta che si dà è che la domanda stessa non ha senso, considerando che America e americani, in fondo, “non esistono”. Essendo irripetibile il miracolo degli anni Trenta, il sogno americano sembra cambiare pelle: da e pluribus unum a e pluribus… e basta.

Costanza Rizzacasa per "la Lettura - Corriere della Sera" il 14 febbraio 2022.

«Siamo sull'orlo di una nuova guerra civile?». Se lo chiedeva, in un editoriale, il direttore del «New Yorker» David Remnick, sottolineando come, per la prima volta in 246 anni, l'America si trovi sospesa tra democrazia e autocrazia. L'anocracy, così si chiama questo stato di profonda incertezza, aumenta radicalmente, secondo gli esperti, le probabilità di episodi di sangue come il tentato colpo di Stato del 6 gennaio 2021, quando frange estremiste trumpiane invasero il Campidoglio per sovvertire il risultato elettorale, e perfino il rischio di una nuova guerra civile. 

È la tesi del saggio How Civil Wars Start. And How to Stop Them , di Barbara F. Walter (Crown, 2022), studiosa di guerre civili e terrorismo dell'Università della California a San Diego, consulente delle Nazioni Unite e del Pentagono e già membro della task force della Cia che studia le radici della violenza politica in vari Paesi del mondo. 

Citando dati del Center for Systemic Peace della Virginia, cui la task force si appoggia, Walter osserva che è la Svizzera, oggi, seguita dalla Nuova Zelanda, la democrazia più antica del mondo. «Gli Stati Uniti, attraversati da correnti illiberali e da instabilità crescente, non sono neanche nello stesso campionato del Canada, della Costa Rica e del Giappone». 

E certo una guerra civile, oggi, avrebbe poco in comune con i campi di battaglia dell'Ottocento. Walter prevede attentati terroristici continui, attacchi dinamitardi, assassinii politici. «Dal Ku Klux Klan al tentato rapimento, nel 2020, della governatrice del Michigan Gretchen Whitmer da parte di un gruppo armato di ultradestra: sono fatti che dimostrano come la democrazia in America - dice - non sia mai stata una condizione stabile. Ma se le istituzioni democratiche non verranno rafforzate, episodi come quello del 6 gennaio 2021 saranno sempre più probabili». 

Un dato su tutti: solo un terzo degli elettori repubblicani oggi si fiderebbe del risultato di un'elezione qualora il proprio candidato dovesse perdere. Una situazione che non nasce con Donald Trump ma arriva da lontano. Segnale precoce di quanto stiamo vedendo era stato, per esempio, l'attentato suprematista di Oklahoma City del 1995, con 168 morti.  

Ma è stata soprattutto l'elezione di Barack Obama, con la minaccia di una democrazia multirazziale, a scatenare i suprematisti bianchi. Quando Obama si insediò, nel 2009, gli Stati Uniti contavano circa 43 gruppi armati di ultradestra: tre anni dopo erano più di 300. Vero, ogni anno, solo nel 4% dei Paesi in cui si verificano le condizioni per una guerra civile questa scoppia davvero, ma Walter e i colleghi hanno individuato certi fattori di rischio secondo cui gli Stati Uniti si trovano già in zona pericolo. 

Il primo, il polity score o indice dell'ordinamento politico, valuta su una scala da +10 a -10 se un Paese vada verso la democrazia o se ne allontani. «Qui, i Paesi di mezzo, cioè quelli con un punteggio tra +5 e -5, né piene democrazie né piene autocrazie ma appunto anocracy , tra cui gli Usa, scesi in pochi anni da +10 a +5, corrono due volte più delle autocrazie e tre volte più delle democrazie il rischio di instabilità politica o di guerra civile».  

Un altro fattore è la faziosità ( factionalism ), che si verifica quando un partito si fonda non sull'ideologia politica ma su questioni come la religione e la razza. Per gli esperti, la coesistenza di anocracy e faziosità è l'indicatore più certo di una guerra civile. 

Walter non è sola nelle sue conclusioni, tanto che dalla Svezia l'International Institute for Democracy and Electoral Assistance di Stoccolma classifica oggi gli Stati Uniti come una «democrazia in regressione». Si spinge oltre il giornalista canadese Stephen Marche nel saggio The Next Civil War. Dispatches from the American Future (Simon & Schuster, 2022). Due libri che non potrebbero essere più diversi, quello di Walter, analitico, e di Marche, apocalittico, ma che delineano quadri simili. 

«La prossima guerra civile americana - scrive Marche - è già qui. Solo che ci rifiutiamo di vederla». Due cose stanno accadendo, osserva. La destra americana non ha più fiducia nel governo, e la sua politica è sempre più spesso quella delle armi. La sinistra è più lenta a capire che il sistema sta collassando, e si perde nelle sue lotte intestine. 

Marche traccia un parallelo con la vigilia della «prima» guerra civile americana, quando anche le menti più intelligenti e informate del Paese, scrive, non riuscirono a prevedere il conflitto. «Anche quando, nell'aprile 1861, i confederati bombardarono Fort Sumter, nel Sud Carolina, bombardamento che si concluse con la resa dell'esercito americano e l'inizio della guerra civile, nessuno credeva ancora che la guerra fosse inevitabile. Il Nord era così impreparato a un conflitto che non aveva munizioni». 

Ora come allora, gli Stati Uniti fingono di non accorgersi, dice il giornalista canadese. Tuttavia gli elementi ci sono tutti. Il sistema politico è così travolto dall'odio che anche le più semplici funzioni di governo diventano impossibili. La fiducia nel Congresso è ai minimi storici. Chi dovrebbe tutelare l'ordine a livello locale si ribella all'autorità federale. 

Intanto la polizia del Campidoglio registra un aumento del 107% nelle minacce a membri del Congresso, e minacce di morte sono all'ordine del giorno per chiunque sia coinvolto nella gestione delle elezioni. Dopo il voto del 2020, un terzo degli scrutatori dichiarava di non sentirsi al sicuro.  

Soprattutto, l'estrema destra si è infiltrata nelle forze dell'ordine, al punto che è in discussione la loro capacità di contrastare il terrorismo di matrice nazionale. Certo, dice Marche, gli Stati Uniti hanno vissuto il Vietnam, gli assassinii di John Fitzgerald Kennedy e di Martin Luther King, il Watergate. Ma non hanno mai avuto una crisi istituzionale come quella attuale.  

Inoltre, mentre il Paese diventa sempre più eterogeneo, la politica lo riflette sempre meno. Nel 2040, il 50% degli americani vivrà in soli otto Stati. Il 30% dei cittadini controllerà il 68% del Senato, e la cattiva ripartizione premierà in modo schiacciante elettori bianchi senza un'istruzione superiore. «Il sistema è rotto. Gli Stati Uniti devono reinventarsi o morire».

Salvare la democrazia. La battaglia americana per difendere il diritto di votare. Stacey Abrams, Patrick Healy Linkiesta il 7 Gennaio 2022.

Negli Stati Uniti è sotto attacco l’idea che tutti i cittadini debbano poter partecipare alla scelta di chi amministra la cosa pubblica. Solo se ci prenderemo cura della nostra forma di governo la renderemo più funzionante e in grado di resistere agli attacchi che sta ricevendo. Dall’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review 

Questo è un articolo dell’ultimo numero di Linkiesta Magazine + New York Times World Review in edicola a Milano e Roma e ordinabile qui.

Pubblichiamo il dialogo tra la politica del Partito democratico americano Patrick Stacey Abrams e Patrick Healy, vicedirettore della sezione “Opinion” del New York Times. 

Stacey Abrams ha guidato il Partito democratico nella Camera dei rappresentanti della Georgia e nel 2018 è stata candidata dal suo partito alla carica di governatore di quello Stato americano. È la fondatrice del New Georgia Project, che si occupa della registrazione dei cittadini nelle liste degli elettori, ed è anche la fondatrice di Fair Fight Action, con cui si batte per promuovere elezioni corrette, istruire gli elettori sui loro diritti ed evitare cancellazioni indebite dei cittadini dalle liste degli elettori. Abrams ha conversato con Patrick Healy del New York Times. Il dibattito è stato editato e condensato.

Healy

Voglio partire facendole una domanda sullo stato della democrazia e chiedendole, nello specifico, se il sistema democratico in Georgia, negli Stati Uniti e nel mondo stia mostrando capacità di resilienza o se stia invece mostrandosi vulnerabile al cospetto di quelli che, nella politica o nell’informazione, agiscono in cattiva fede e dei loro alleati?

Abrams

L’indebolimento del sistema è iniziato sul serio dopo l’elezione di Barack Obama, ma c’è stata un’accelerazione con lo sventramento dello United States’ Voting Rights Act. Nel 2013, con la sentenza della Corte suprema degli Stati Uniti “Shelby County vs Holder” (riguardo alla costituzionalità di due disposizioni del Voting Rights Act, ndr), abbiamo assistito a un notevole abbassamento delle barriere di protezione che mettevano le fasce più vulnerabili della popolazione al riparo dalla cancellazione dalle liste degli elettori. Ma, in parallelo, abbiamo assistito anche al proseguimento dell’evoluzione, durata suppergiù quarant’anni, della nozione secondo cui dovremmo tutti partecipare alla democrazia e dovremmo poter contare sul governo per cui votiamo.

Stiamo osservando lo sventramento dell’infrastruttura attraverso cui si vota ma anche questo continuo attacco che mette in dubbio l’utilità stessa del governo. E stiamo osservando l’indebolimento della resilienza e la marcia dell’autoritarismo che avanza sotto una veste diversa ma con un obiettivo simile, che è il soffocamento del voto e delle voci delle minoranze, il consolidamento del potere, lo sviluppo di una sola ideologia e, purtroppo, il rifiuto dell’idea che siamo tutti sulla stessa barca.

E quindi penso che oggi la situazione sia questa: osserviamo il percorso di 600 proposte di legge in 48 Stati che puntano a colpire il diritto di voto ma osserviamo anche lo sforzo che viene fatto, a livello nazionale, attraverso il Freedom to Vote Act e il John Lewis Voting Rights Advancement Act, che suscita allo stesso tempo una sensazione di speranza ma anche una sensazione di disperazione per essere ancora a questo punto nel 2021.

Healy

Che cosa ci dice della salute della democrazia il fatto che il partito di maggioranza, quello Democratico, che esprime il presidente, ha la maggioranza alla Camera e controlla il Senato, non sembra ancora capace di bloccare questa avanzata?

Abrams

Gli Stati Uniti hanno un sistema che crea qualche problema particolare, dal momento che il Senato può essere tenuto sotto controllo attraverso il filibustering, e cioè l’ostruzionismo. Questo è un antiquato meccanismo che permette al partito di minoranza di bloccare le decisioni della maggioranza semplicemente rifiutandosi di concludere il dibattito. È una cosa che esiste da molto tempo ma di cui si è fatto un uso ignobile durante le battaglie per i diritti civili negli anni Cinquanta e Sessanta.

Healy

Come mai, secondo lei, così tanti sistemi democratici, non solo negli Stati Uniti ma in tutto il mondo, sono o impreparati o troppo vulnerabili per riuscire ad affrontare le strategie e le tattiche di alcuni attori in cattiva fede, dei loro finanziatori e dei loro alleati nel mondo dell’informazione?

Abrams

Purtroppo abbiamo questa visione idilliaca della democrazia. Ci ricordiamo dell’ascesa dei valori democratici e della distruzione dei regimi autoritari dopo la Seconda guerra mondiale. Ma siamo stati testimoni del fatto che l’ethos democratico non ha la stabilità che davamo per scontato che avesse. Abbiamo visto Paesi molto stabili cadere nelle mani dell’autoritarismo. Perché la democrazia è vista come una soluzione vitale e permanente solo finché è il sistema che fornisce il numero più grande di vantaggi ai cittadini.

Certamente ci sono studiosi e teorici migliori di me che hanno sottolineato che la competenza è l’elemento che determina se una democrazia può resistere a chi la attacca. Di contro, nelle nazioni in cui abbiamo visto prevalere l’autoritarismo, questo è spesso avvenuto perché chi lo ha promosso è stato capace di promettere più stabilità e più competenza rispetto a un fragile sistema democratico.

Penso che in tutto il mondo dobbiamo essere consapevoli del fatto che è nostra responsabilità non soltanto promuovere i vantaggi della democrazia come processo partecipativo ma anche dimostrare che è nei fatti un sistema ben funzionante di governo dei Paesi. E se l’autoritarismo, seppur annullando i diritti individuali, riesce a mostrarsi come un sistema di governo che funziona, allora i nostri argomenti iniziano a perdere forza. Ma è un problema risolvibile se vogliamo prenderne consapevolezza e ci diamo da fare per sistemare le cose.

Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 22 gennaio 2022.

Un anno dopo riecco Amanda Gorman. Il 20 gennaio 2021 diventò una star mondiale, partecipando alla cerimonia di inaugurazione della presidenza Biden. La giovane poetessa afroamericana, oggi ventitreenne, recitò i versi di The Hill We Climb , la collina che noi scaliamo. La performance entusiasmò la rete e i media. Amanda fu ammirata anche per la bellezza e la sua originale eleganza: soprabito giallo di Prada e soprattutto un grande nastro di satin rosso sui capelli.

Giovedì 20 gennaio, nell'anniversario di quel giorno memorabile, il New York Times ha pubblicato un intervento di Gorman che sta facendo discutere. La scrittrice racconta che fu quasi sul punto di rifiutare l'invito di Biden. «Ero terrorizzata», scrive. «Avevo paura di deludere il mio popolo, la mia stessa poesia. Ma ero anche terrorizzata a livello fisico. Il Covid ancora infuriava e la mia fascia d'età non poteva essere vaccinata. Inoltre solo poche settimane prima, terroristi interni avevano assaltato Capitol Hill...».

Poi ecco la parte più controversa: «Non sapevo che sarei diventata famosa, ma sapevo che con l'inaugurazione sarei diventata altamente visibile, che è una cosa molto pericolosa negli Stati Uniti, specie se sei "black", ti esponi pubblicamente e non hai la protezione del Secret Service». Infine Gorman si dichiara delusa per ciò che è accaduto in America negli ultimi dodici mesi: «Il nostro Paese è sempre afflitto dalla pandemia, dalle ineguaglianze e dalle crisi ambientali». 

Per Amanda, però, le cose sono andate meglio. Non un percorso da outsider , da coscienza critica del mondo progressista americano, come qualcuno aveva immaginato e forse anche sperato. In realtà la poetessa si è limitata a qualche commento su temi politico sociali da osservatrice esterna, a beneficio dei suoi 1,5 milioni di supporter su Twitter.

Si è dedicata alla poesia, pubblicando due libri, The Hill We Climb e Call Us What We Carry . Nel frattempo ha firmato un contratto da testimonial con la casa di prodotti cosmetici, Estée Lauder, spiegando in una clip che «la bellezza significa essere se stessi», mentre l'inquadratura indugiava sui lineamenti perfetti e sullo sguardo, per l'occasione, da vamp.

Poi sono arrivate due copertine: una per la rivista Vogue sul suo look; l'altra con Time a corredo di un servizio in cui riflette su «arte, identità e ottimismo» con Michelle Obama. In mezzo la partecipazione allo show del Super Bowl. Insomma le paure sembrano essere passate. E, un po' scherzando, un po' no, Amanda annuncia: «Nel 2036 mi candiderò alla Casa Bianca». 

Gabinetto presidenziale Trump gettava documenti ufficiali nel water della Casa Bianca. Linkiesta il 10 Febbraio 2022.

La giornalista del New York Times Maggie Haberman, in un libro che uscirà a ottobre, rivela che durante il mandato trumpiano il personale della residenza di tanto in tanto trovava pezzi di carta stampata che intasavano un bagno e avevano ragione di credere che The Donald avesse provato a occultare qualcosa. 

Quando Donald Trump era presidente degli Stati Uniti scaricava documenti ufficiali in un water della Casa Bianca. Sembrerebbe una vignetta del New Yorker o dell’Atlantic, invece è uno degli scoop emersi dall’ultimo libro della giornalista Maggie Haberman, “Confidence Man”, che sarà pubblicato negli Stati Uniti a ottobre.

Haberman è una giornalista del New York Times che ha seguito con estrema scrupolosità Trump negli anni della sua presidenza. Ma non solo: ne ha seguito ampiamente le vicende dal 2011, quando era una giornalista di Politico, e in precedenza era entrata in contatto con lui quando lavorava per il New York Post e il Daily News.

Nel suo libro, sottotitolato “The Making of Donald Trump and the Breaking of America”, Haberman rivela che durante i quattro anni di amministrazione Trump il personale della residenza della Casa Bianca di tanto in tanto si imbatteva in pezzi di carta stampata che intasavano un gabinetto, e avevano ragione di credere che il presidente avesse provato a scaricare qualcosa di nascosto.

Questo dettaglio «aggiunge una nuova vivida dimensione agli errori di Trump nella conservazione dei documenti del governo», scrive la testata americana Axios, dopo aver letto in anteprima alcune pagine del lavoro di Maggie Haberman. 

La notizia dei documenti nel gabinetto sarebbe di per sé già molto significativa. Ma un po’ di contesto restituisce un valore ancora maggiore. Questo scoop arriva pochi giorni dopo che la National Archives and Records Administration (Nara), un’agenzia del governo degli Stati Uniti incaricata di conservare i più importanti documenti governativi e storici del Paese, ha fatto sapere di aver recuperato 15 scatole di documenti nella residenza di Trump a Mar-a-Lago: all’interno potenzialmente potrebbe esserci materiale “classificato”, ovvero coperto da vincolo di segretezza.

In particolare, la National Archives and Records Administration avrebbe chiesto al Dipartimento di Giustizia dell’amministrazione di Joe Biden di indagare nel dettaglio sulla gestione dei documenti ufficiali da parte della precedente amministrazione. Non per semplice scrupolo, ovviamente: la richiesta «rientra nell’ambito delle indagini sull’assalto del 6 gennaio 2021 al Campidoglio», scrive Axios.

Tra i documenti portati via da Trump – secondo l’agenzia – ci sarebbero anche le lettere scambiate con il dittatore nordcoreano Kim Jong-un e la lettera che gli scrisse Barack Obama prima di lasciargli il posto alla scrivania dello Studio Ovale. Documenti che l’ex presidente avrebbe dovuto consegnare alla National Archives nel gennaio del 2021, quando lasciò la Casa Bianca, ma non lo fece.

Il Washington Post spiega che i funzionari della National Archives and Records Administration «sospettavano che Trump avesse forse violato le leggi sulla gestione dei documenti del governo». Secondo loro Trump avrebbe più volte contravvenuto al Presidential Records Act, una legge che impone ai presidenti statunitensi di consegnare alla National Archives tutti i documenti ufficiali prodotti dalla propria amministrazione. Cosa che Trump non faceva: strappava regolarmente i suoi documenti.

'GIULIANI GUIDÒ PIANO STAFF TRUMP PER FALSI ELETTORI IN 7 STATI'. (ANSA il 21 gennaio 2022) - Dirigenti della campagna elettorale di Donald Trump, guidati dal suo allora avvocato Rudi Giuliani, gestirono gli sforzi nel dicembre 2020 per installare falsi grandi elettori in sette Stati allo scopo di ribaltare l'esito del voto, con tanto di falsi certificati che alla fine furono mandati anche agli Archivi nazionali.

Lo riferisce la Cnn, citando tre fonti direttamente a conoscenza del piano, tra cui Meshawn Maddock, co-presidente del partito repubblicano in Michigan e tra i 16 falsi elettori di quello Stato. Il piano interessò Pennsylvania, Georgia, Michigan, Arizona, Wisconsin, Nevada e New Mexico (ANSA).

«IVANKA COLLABORI CON NOI» ORA L'INDAGINE SUL 6 GENNAIO ARRIVA ALLA FIGLIA DI TRUMP. Giuseppe Sarcina per il “Corriere della Sera” il 21 gennaio 2022. 

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto ieri la richiesta di Donald Trump. L'ex presidente aveva fatto ricorso per impedire la consegna alla Commissione di inchiesta sul 6 gennaio di documenti considerati utili per le indagini. Nello stesso tempo l'organismo insediato dalla Speaker Nancy Pelosi ha inviato una lettera a Ivanka Trump, sollecitandone la collaborazione. 

Liz Cheney, repubblicana e vice presidente della Commissione, aveva spiegato nei giorni scorsi: «Sappiamo che Ivanka entrò almeno due volte nello Studio Ovale per convincere suo padre a fermare le violenze a Capitol Hill». Finora la famiglia Trump si è rifiutata di cooperare in alcun modo con i parlamentari-inquirenti.

Anzi sabato scorso, 15 gennaio, nel comizio a Florence, in Arizona, l'ex presidente aveva definito il lavoro della Commissione «l'ennesima caccia alla streghe» nei suoi confronti. E il nome di Liz Cheney è stato tra i più fischiati dai supporter. L'inchiesta, però, va avanti. La decisione della Corte Suprema rappresenta un colpo per la strategia ostruzionista di Trump. Otto giudici su nove si sono trovati d'accordo sul principio base: un ex capo dello Stato non può invocare il cosiddetto «privilegio presidenziale» per impedire la consultazione di carte e file da parte del Congresso. 

Tra i sei giudici conservatori, si è dissociato solo Clarence Thomas. Tutti gli altri hanno bocciato la tesi trumpiana, compresi i tre magistrati scelti dallo stesso ex presidente: Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett. La Corte Suprema ha sempre dato torto a Trump su tutto ciò che riguarda le elezioni 2020 e ora l'assalto a Capitol Hill.

Gli Archivi federali hanno subito iniziato a inviare il materiale alla Commissione: pro memoria, messaggi tra i consiglieri della Casa Bianca e così via. Intanto la Procura distrettuale di Fulton County, ad Atlanta, ha chiesto la convocazione di un grand jury per indagare sulle manovre di Trump per rovesciare i risultati elettorali in Georgia.

Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" il 20 gennaio 2022. 

Ecco le prime accuse formali contro il clan di Donald Trump. Martedì 18 gennaio, la procuratrice dello Stato di New York, Letitia James, ha depositato in tribunale l'atto che contesta alla Trump Organization di aver gonfiato il valore di sei asset immobiliari «in modo fraudolento e fuorviante». 

È una causa di diritto civile, quindi non ci sono imputazioni penali. Nel dicembre scorso James aveva già convocato di imperio ( subpoena ) l'ex presidente, nonché i figli Donald jr e Ivanka. Per tutta risposta Trump aveva incaricato gli avvocati di denunciare la procuratrice, sostenendo che agisse «in base a motivazioni politiche».

Letitia James, 63 anni, è stata eletta nel 2019 alla carica di Attorney general con il partito democratico: prima donna afroamericana. Negli ultimi mesi si era candidata per il posto da Governatore, ma poi ha rinunciato. La sua inchiesta corre in parallelo a quella del procuratore distrettuale di New York, Alvin Bragg, che sta esaminando praticamente le stesse operazioni finanziarie, ma con possibili ripercussioni penali. James ritiene che il clan Trump abbia artificialmente sopravvalutato le proprietà per ottenere più facilmente il rifinanziamento dei prestiti bancari, coperture assicurative e deduzioni fiscali.

La lista comprende, tra l'altro, il golf club Westchester County a New York e quello di Aberdeen in Scozia; un edificio a Wall Street e la stessa abitazione newyorkese di Donald e Melania, la penthouse nella Trump Tower a Manhattan. 

Dai documenti fiscali e bancari risulta, per esempio, che gli amministratori trumpiani abbiano stimato in 435 milioni di dollari il valore dell'Aberdeenshire golf club scozzese, dichiarando che il complesso comprendesse 2.500 case di lusso, mentre in realtà i periti della magistratura hanno verificato che ci sono 1.500 più modesti appartamenti per le vacanze.

Oppure nel 2015 la Trump Organization quotò 735 milioni di dollari la Torre al numero 40 di Wall Street. Ma uno degli istituti finanziatori concluse che ne valesse 257. Infine l'attico su tre livelli nella Trump Tower,la residenza ufficiale del costruttore newyorkese, prima che decidesse di correre per la Casa Bianca. Fin dal 2012 Trump aveva notificato una superficie di 2.787 metri quadrati contro la reale dimensione di 1.021 metri quadrati. Lo spazio, «aggiunto in maniera truffaldina», portò la valutazione della sfarzosa dimora a 373 milioni di dollari, rispetto alla stima più congrua di circa 200 milioni di dollari.

La procuratrice James è arrivata a queste conclusioni soprattutto grazie all'interrogatorio di Allen Weisselberg, 74 anni, per 46 «contabile» della famiglia Trump. Era una figura a malapena conosciuta nel ristretto circolo degli affari newyorkesi. Ombra e potere fino al 27 febbraio del 2019. Quel giorno l'ex avvocato Michael Cohen, il «pitbull» di Donald Trump, viene chiamato a deporre nella Commissione Vigilanza della Camera. Cohen, in diretta tv, parlò molto del suo ex boss, ma soprattutto chiamò in causa Weisselberg, il direttore finanziario della holding.

Tutti gli affari, spiegò Cohen, passavano dalla sua scrivania, comprese quelle più imbarazzanti. Per esempio c'erano le firme di Weisselberg e di Donald Jr, il primogenito dell'ex presidente, sull'assegno da 130 mila dollari versato alla ex pornostar Stormy Daniels, pochi giorni prima delle elezioni del 2016, perché tacesse sulla relazione sessuale con il capo clan, consumata nel 2005.

Davanti al televisore c'era anche Cyrus Vance, procuratore del Distretto di Manhattan. Aveva cominciato a indagare sulla Trump Organization nel 2018 e, naturalmente, conosceva benissimo il ruolo di Weisselberg. Dal primo gennaio 2022 l'inchiesta penale è passata a Bragg, il nuovo capo della Procura. Da qui potrebbero arrivare guai ancora più seri per «The Donald».

A. Sim. per "la Stampa" il 17 gennaio 2022.

«Trump è un sintomo dei malesseri americani, un prodotto delle divisioni laceranti che pervadono la società e il sistema politico statunitense». Stephen Marche è scrittore e saggista, il suo ultimo libro si intitola «The Next Civil War», è uscito pochi giorni fa e ha un sottotitolo intrigante: «Dispacci dal futuro americano». 

Marche ha intervistato oltre duecento fra esperti, analisti, leader militari, storici, politici e ha applicato modelli predittivi. I dispacci dal futuro ci dicono che gli Stati Uniti stanno volgendo al termine, e non è questione di quando ma anche di come, sostiene lo scrittore. 

Non c'è un po' di catastrofismo in tutto ciò?

«Tutto può succedere, nessuno ha la sfera di cristallo, ma i germi del declino sono visibili». 

Quali sono e quale ingranaggio si è inceppato?

«Non c'è più il collante che per decenni ha tenuto insieme il mosaico americano, gli Sioux con i Seminole, i bianchi con i neri, i ricchi con i poveri, etnie diverse accomunati da due cose: la Costituzione e l'idea che la libertà alla fine aiuta a conseguire la felicità. La Carta americana è il frutto del genio, anziché porre al centro questioni come la religione o altri principi morali, si fonda sulla forza di un sistema politico capace di far convivere le differenze originando così quella ricerca di libertà e creatività, economica e spirituale, che è il nocciolo del Paese».

Perché questo meccanismo non funziona più?

«Il sistema politico sta collassando perché l'impianto costituzionale è troppo vecchio. Diceva Jefferson che le Costituzioni devono cambiare quando è necessario per stare al passo con i tempi; la nostra ha quasi 240 anni e mostra tutta l'età. Lo scollamento con la realtà ha portato la gente a perdere la fiducia nelle istituzioni. La popolarità del Congresso è scesa al 10%, alla Corte suprema, scelta dal presidente e che oggi non riflette la composizione della popolazione, è lasciato il compito di decidere cose importantissime per la nazione. Gli squilibri del sistema di voto sono pericolosi: nel 2040 il 30% degli americani controllerà con il loro voto il 70% del Senato». 

Sui repubblicani è calata l'onda trumpiana, l'ex presidente parla sempre di Maga, la sua idea di Make American Great Again. Non ha spaccato il Paese e poi i Repubblicani?

«Trump è un sintomo della crisi non la causa e questa è una delle argomentazioni che più fatico a spiegare negli ambienti della sinistra americana. Io non credo che se nel 2016 Hillary Clinton avesse vinto le elezioni, le forze che minano la stabilità e la crescita della nazione oggi sarebbero vinte. L'unità cui tutti tendono è una chimera. Non c'è stata con Obama e con Bush. Anzi, fenomeni come l'iper-partigianeria, la polarizzazione del Paese in stati blu e rossi, l'affiliazione quasi tribale a democratici o ai repubblicani, la violenza contro lo Stato federale, le diseguaglianze economiche, la nascita di movimenti di estrema destra anti-governo nazionale sono ben presenti e non dipendono da Trump». 

Trump chiudendo il comizio ha detto: «Nel 2024 ritorneremo alla Casa Bianca». Dietro quel ritorneremo c'è lui?

«Mi fido di quanto raccolto in ambienti vicini a lui, quindi direi di sì. Ma dipende tutto da lui, se deciderà di ripresentarsi nessuno fra i repubblicani oserà opporsi». Quando ha avuto la percezione di questa deriva verso la «guerra civile»? «Il giorno dell'insediamento di Trump nel 2017. C'era il caos a Washington, gruppi di "opposte tifoserie" a scontrarsi, insultarsi, bisticciare. Poi la sera è successa una cosa emblematica».

Ovvero?

«Sono andato a un party a Georgetown: c'era un giovane funzionario di basso livello del Dipartimento dell'Agricoltura. Aveva tolto le foto dei precedenti presidenti dall'ufficio. Gli chiesi il perché. "Non c'è più un governo", rispose. In quel momento ho capito che il sistema era fallito. Se anche un funzionario pubblico ragiona con categorie tribali non c'è soluzione». 

E se dal nulla spuntasse un nuovo leader? Qualcuno in grado di emozionare l'America, di farne riscoprire l'unità e ridare smalto a quel motto «E pluribus Unum»?

«I leader nascono perché il popolo li spinge e perché il sistema li riconosce. Siamo ormai oltre a questa fase, non c'è un guaritore della nazione. Anche perché i poteri del presidente sono limitati. Come ho scritto nella prefazione del mio libro: il problema non è chi è al potere, ma le strutture del potere stesso».

Trump, il comizio-show in Arizona: chi lo segue (ancora) e che cosa vogliono i suoi fan. Giuseppe Sarcina su Il Corriere della Sera il 16 gennaio 2022.   

Gli attacchi a Fauci, Pelosi e Biden: «Biden non sa neanche dove si trova. Fauci? Si comporta come se fosse il re degli Stati Uniti. Ci riprenderemo la Casa Bianca». Il movimento trumpiano è ancora lì. Sabato sera i supporter dell’ex presidente sono accorsi a migliaia a Florence, un villaggio a sud di Phoenix, sospeso nei grandi spazi dell’Arizona. Sono arrivati dalla California, dal Texas, dal New Mexico. Hanno sopportato code in auto anche di due ore, prima di raggiungere i parcheggi. E un’onda formata soprattutto da adulti, tra i quaranta e i sessanta anni. Tante donne, pochi giovani. Con una forte presenza del mondo evangelico iper conservatore. Nessuno ha la mascherina e quasi tutti guardano con stupore i pochi che la indossano. C’è qualche volto truce, qualche felpa che rimanda alle milizie dell’estrema destra. Ma l’atmosfera è distesa.

Non sappiamo se questa spinta basterà a riportare Donald Trump alla Casa Bianca. L’esule di Mar-a-Lago ne è certo: «Nelle elezioni di midterm di quest’anno conquisteremo la Camera e il Senato; poi nel 2024 noi ci riprenderemo la Casa Bianca». Dove quel «noi», come è sempre stato chiaro, significa «io». Lo schema è più o meno quello della campagna 2016. «The Donald» agita, fomenta la piazza. La usa come spalla per la sua performance.

A Florence per la prima mezz’ora Trump sembra aver ritrovato lo smalto dei suoi tempi migliori. Ha aggiornato il repertorio delle sue battute che disgusta metà dell’America ed entusiasma l’altra metà. Joe Biden? «Un disastro totale, non sa neanche dove si trova». Seguono «Kamala», cioè la vice presidente Kamala Harris, la Speaker della Camera Nancy Pelosi, la repubblicana «rinnegata» Liz Cheney. Il più fischiato è Anthony Fauci: «Dava consigli anche a me, solo che io non lo ascoltavo. Ora, invece, sembra il re di questo Paese». Dall’audience sale lo slogan una volta riservato a Hillary Clinton: «Lock him up», mettetelo dentro.

Il comizio dell’Arizona era molto atteso. Joe Biden è oggettivamente in difficoltà su vari fronti: dalla pandemia alla riforma del diritto di voto. Trump aveva l’occasione per parlare all’intera nazione, non solo ai fedelissimi.

Ci ha provato solo nella prima parte, la più breve, attaccando duramente le politiche del rivale: «Il contagio? Biden aveva detto che l’avrebbe sradicato e invece eccoci qua con gli ospedali ancora pieni». Immigrazione: «Stanno entrando a milioni e milioni illegalmente; Biden ha bloccato il muro che stavamo per finire, mancavano solo tre settimane». E poi l’inflazione, l’energia, la catena delle forniture: «Non ne avevamo mai neanche sentito parlare. Ci voleva Joe per avere anche questo problema». Insomma, pur con tante inesattezze ed esagerazioni, un discorso da leader dell’opposizione, con un posizionamento politico-sociale: «Sono contro l’obbligatorietà del vaccino, Fauci e Biden hanno chiuso tutto, rovinato la nostra economia, chiuso in casa le persone. Hanno trasformato gli Stati Uniti nel Venezuela. Ma noi ci riprenderemo la nostra libertà e il nostro Paese».

Il problema, però, specie per la larga fascia di conservatori moderati, è che «i contenuti» sono una parte accessoria della campagna «Save America», Trump 2024.

Sul palco di Florence, con il passare dei minuti, emergono le vere priorità e le ossessioni di un politico rancoroso e vittimista, incapace se non di accettare, almeno di superare la sconfitta netta e indiscutibile del 2020. La reazione del suo pubblico è sorprendente. Lo asseconda per un po’, poi, complice un vento gelido, sprofonda in un insolito silenzio. Si fa fatica a seguire una serie di numeri, di percentuali. Tutto falso, come provato da decine di verifiche degli Stati e dalle sentenze dei giudici. Per Trump la storia è un’altra. E l’assalto a Capitol Hill è la conseguenza delle «elezioni rubate»: «Tutti parlano di quelli che sono entrati nell’edificio, ma nessuno della più grande protesta che si sia mai vista nella storia. La gente era andata a Washington per rivendicare i suoi diritti». Segue l’appello più sconcertante: «Aiutiamo i prigionieri politici», che sarebbero i miliziani e gli sbandati che hanno sfasciato vetri, uffici e bivaccato nelle aule parlamentari.

Ma ora ciò che conta qui, nel prato del ranch, è che la performance stia diventando addirittura noiosa. Molti se ne vanno con largo anticipo. Lo spiazzo affollato si svuota rapidamente, mentre Trump sta ancora parlando.

Valeria Robecco per ilgiornale.it il 6 gennaio 2022. È sempre più caldo il clima in occasione dell'anniversario dell'assalto a Capitol Hill. Donald Trump gioca d'astuzia e alla vigilia del primo anno dall'insurrezione dei suoi sostenitori in Capidoglio rinuncia al discorso da Mar-a-Lago, puntando tutto sul comizio del 15 gennaio in Arizona. Joe Biden invece, in caduta libera nei sondaggi, tenta di approfittare del suo passo indietro e con una mossa aggressiva fa sapere tramite la portavoce della Casa Bianca Jen Psaki che denuncerà la responsabilità del suo predecessore nei fatti del 6 gennaio scorso. «Biden vede il 6 gennaio come il tragico culmine di quello che quattro anni di presidenza Trump hanno portato al nostro Paese», ha spiegato.

Il presidente Usa oggi terrà un discorso dalla Statuary Hall del Congresso insieme alla sua vice Kamala Harris, e come ha rivelato Psaki «parlerà della verità su ciò che è accaduto, non delle bugie che alcuni hanno diffuso da allora e del pericolo che ha rappresentato per lo stato di diritto e il nostro sistema di governo democratico». Inoltre, «commemorerà gli eroi del 6 gennaio, in particolare i coraggiosi uomini e donne delle forze dell'ordine che hanno combattuto per sostenere la Costituzione e proteggere il Campidoglio e le vite delle persone che erano lì. 

Grazie ai loro sforzi, la nostra democrazia ha resistito all'attacco e la volontà degli oltre 150 milioni di persone che hanno votato alle elezioni presidenziali è stata infine registrata dal Congresso». Durante l'attacco sono morti quattro sostenitori di Trump - di cui tre per emergenze mediche - e un agente della polizia di Capitol Hill è deceduto il giorno successivo. Decine di agenti sono invece rimasti feriti, e nei mesi successivi quattro si sono suicidati.

L'ex Comandante in Capo, intanto, per una volta ha dato ascolto ai suoi alleati decidendo di fare un passo indietro, ma non senza polemiche. «Parlerò di molti temi importanti nel mio comizio di sabato 15 gennaio in Arizona, ma alla luce della faziosità e della disonestà della commissione d'inchiesta sul 6 gennaio, cancello la conferenza stampa in programma a Mar-a-Lago», ha fatto sapere alla vigilia dell'anniversario, rilanciando però la sua teoria delle «elezioni rubate», e definendole addirittura «il crimine del secolo». «È ormai chiaro a tutti che i media non riporteranno il fatto che Nancy Pelosi ha negato la richiesta per la Guardia Nazionale o per l'esercito a Capitol Hill», ha proseguito il tycoon.

Nel frattempo, la commissione che indaga sui fatti dell'Epifania vuole sentire l'ex vicepresidente americano Mike Pence, ma secondo i media statunitensi non è chiaro se lui collaborerà o meno con l'inchiesta. Convocato anche uno dei più fidati alleati e consiglieri dell'ex presidente, il popolare anchor di Fox News Sean Hannity, chiamato a spiegare i motivi della sua preoccupazione alla vigilia dell'attacco, come rivelano alcuni suoi nuovi sms appena diffusi. Il 5 gennaio scrisse all'allora inquilino della Casa Bianca «sono molto preoccupato in merito alle le prossime 48 ore». 

Biden, intanto, è sempre più in difficoltà nei sondaggi: l'ultima proiezione di Cnbc ha riferito che ha chiuso il 2021 col un nuovo record negativo di consensi (il 44%, mentre il 56% lo boccia). Il presidente appare in difficoltà su tutti i fronti, dalla pandemia alla ripresa economica flagellata dall'inflazione, sino all'imbarazzante stallo al Congresso della sua agenda bloccata da un solo senatore democratico.

Massimo Gaggi, Viviana Mazza, Giuseppe Sarcina per corriere.it il 6 gennaio 2022. Oggi, alle 15 italiane, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden e la vicepresidente Kamala Harris hanno parlato a Capitol Hill, nell’anniversario dell’assalto da parte dei sostenitori di Donald Trump del 6 gennaio 2021. 

Il presidente e la sua vice hanno chiamato in causa direttamente l’ex presidente Trump, attribuendogli la responsabilità politica dei tumulti che causarono 5 morti e affermando che l’ex presidente «cercò di sovvertire la costituzione e il voto» perché «non sapendo perdere» ha «creato una rete di menzogne sulle elezioni».

Di fronte a una serie di «bugie», Biden ha voluto ristabilire «la verità dei fatti» su quanto avvenuto: «Siamo al centro di una lotta tra la democrazia e l’autocrazia. Non l’ho voluta, ma non mi tirerò indietro: e non permetterò a nessuno di mettere il coltello alla gola della democrazia», ha detto. 

Pochi minuti dopo la fine del discorso, Trump ha affermato che quello di Biden è stato un «teatrino politico» per «mascherare i suoi fallimenti». Il presidente, «che sta distruggendo la nostra nazione con politiche folli di confini aperti, elezioni corrotte, disastrose politiche energetiche, mandati incostituzionali e devastanti chiusure delle scuole, ha usato oggi il mio nome per cercare di dividere ulteriormente l’America». 

In realtà, e non a caso, Biden ha accusato Trump — lungo tutto il suo discorso — senza mai pronunciarne il nome.

«Oggi, un anno fa, la democrazia fu attaccata. La volontà del popolo finì sotto assalto. E la nostra costituzione fronteggiò la più grave delle minacce», aveva twittato il presidente prima di arrivare nella sala che fu teatro dell’attacco. 

«Se chiudete gli occhi, e pensate a quei momenti, cosa vedete? Una torma di persone che hanno causato distruzione, portando la bandiera confederata — quella di chi voleva distruggere gli Stati Uniti — in questo edificio. Non era mai successo: è successo un anno fa, qui. Cosa non abbiamo visto? Non abbiamo visto l’intervento dell’allora presidente, che non ha fatto nulla, per ore, rimanendo seduto a guardare la televisione. Non era un gruppo di turisti: era un’insurrezione armata, di persone che volevano sovvertire il risultato delle elezioni. Questo non è rivangare il passato: è evitare che venga sepolto, è evitare che si ripeta».

Trump — ha attaccato ancora Biden — ha creato «una rete di bugie e le ha diffuse. Ha cercato di riscrivere la storia. E visto che non ha mai accettato di aver perso, ha posto il suo interesse personale di fronte a quello della nazione. Per l’ex presidente, il suo ego ferito conta più della nostra democrazia o della nostra Costituzione». 

«E questo è il momento di decidere che tipo di nazione saremo. Saremo una nazione che accetta la violenza politica? Saremo una nazione che permette ai politici eletti di rovesciare la volontà legalmente espressa dal popolo? Saremo una nazione che vive alla luce della verità o all’ombra delle menzogne? La strada davanti a noi è quella di riconoscere la verità e vivere sulla base di essa», ha detto Biden.

«L’enorme bugia che l’ex presidente e i suoi continuano a ripetere è che l’insurrezione è avvenuta non quel giorno, ma il giorno delle elezioni. Non è così: in quel giorno è stato compiuto da milioni di americani il più alto gesto della democrazia. La verità è che le elezioni sono state la più grande manifestazione di democrazia mai vista in questo Paese, perché il più alto numero di statunitensi decise, quel giorno, di votare, nonostante la pandemia. In questo momento, in molti Stati, vengono votate leggi non per proteggere la democrazia, ma per impedire a persone di votare. L’ex presidente e i suoi supporter hanno capito che l’unico modo per loro per vincere è impedire alle persone di votare: è un comportamento non democratico, e antiamericano».

L’altra «grande bugia» detta da Trump è che «il risultato delle elezioni non possa essere ritenuto affidabile. È falso: non ci sono mai state elezioni tanto controllate, tutte le cause legali fatte dai repubblicani sono state bocciate. L’ex presidente è un ex presidente sconfitto: sconfitto da un margine di milioni di voti».

La terza «bugia» di Trump, ha detto ancora Biden, «è che i manifestanti siano i veri patrioti. È quello che pensate, se guardate a quella devastazione, a quelle persone che hanno, letteralmente, defecato nei corridoi del Congresso? Non erano al servizio dell’America, erano al servizio di una sola persona». 

Ma in America, ha detto Biden, «non ci sarà posto per uomini forti, dittatori, autocrati». Siamo a un «momento decisivo della storia»: a una «battaglia per l’anima dell’America. Il 6 gennaio non sarà la fine della democrazia: ma l’inizio di una nuova era. Non ho cercato questa battaglia: ma non mi tirerò indietro, non permetterò che la violenza prevalga la democrazia. Al cuore dell’America arde la fiamma della libertà, della democrazia: non siamo la terra di re, autocrati. Dio protegga chiunque vigila sulla nostra democrazia». 

Secondo i sondaggi, però, il 72% degli americani ritiene che Trump non abbia responsabilità per quanto accaduto il 6 gennaio, l’80% definisce «l’assalto» una «protesta» e il 75% sostiene che anziché imparare da questo anniversario bisognerebbe semplicemente voltare pagina. Il 58% ritiene poi che l’elezione di Biden non sia stata legittima.

Non solo: gli assalitori — inizialmente criminalizzati anche da reti come la Fox che aveva tentato di descriverli come infiltrati della sinistra antifa — sono stati trasformati in vittime della repressione giudiziaria dei tribunali di Biden (in realtà composti da giudici in grande parte nominati da presidenti repubblicani). Tanto che, secondo un’indagine di Politico.com, sono almeno 57 i protagonisti di quella drammatica giornata che si sono già candidati nel 2021 o stanno per farlo quest’anno a cariche politiche usando la marcia sul Congresso come trampolino elettorale. 

Tra essi molti candidati ai parlamenti degli Stati, ma anche 24 in corsa per il Congresso di Washington e 5 aspiranti governatori, da Ryan Kelley in Michigan a Doug Mastriano in Pennsylvania. 

Oggi un conservatore di vecchio stampo come Karl Rove critica le bugie del suo partito sul «Wall Street Journal», ma ogni ribellione è scoraggiata dal destino dei pochi parlamentari repubblicani che hanno osato contestare Trump: i 10 che lo misero sotto impeachment non hanno avuto vita facile nell’ultimo anno (dimissionari, paria, contestati da sfidanti trumpiani nei loro Stati).

Non a caso, l’ex presidente democratico 97enne Jimmy Carter è intervenuto oggi con un emotivo editoriale sul «New York Times», in cui nota che il Paese che una volta promuoveva la democrazia nel mondo ora «rischia un vero e proprio conflitto civile e di perdere la nostra preziosa democrazia». 

In ogni caso la Casa Bianca si prepara a un cambio di strategia. Il rivale di Mar-a-Lago non sarà più semplicemente ignorato dai big democratici, come è stato finora. Nello stesso tempo Biden e Harris inizieranno una campagna sul campo per spingere il Congresso ad approvare i disegni di legge che garantiscono il diritto di voto, specie delle minoranze. 

Trump — che ha annullato il suo discorso, inizialmente programmato per oggi — risponderà sabato 15 gennaio, con un comizio a Florence, 105 chilometri a sud di Phoenix, in Arizona.

La settimana prossima, dunque, parte di fatto la lunga sfida per le elezioni di midterm del primo novembre e, in prospettiva, per le presidenziali del 2024.

David Smith per theguardian.com il 10 gennaio 2022. Joe Biden ha trascorso un anno nella speranza che l'America potesse tornare alla normalità. Ma giovedì scorso, il primo anniversario dell'insurrezione al Campidoglio degli Stati Uniti, il presidente ha finalmente riconosciuto la portata dell'attuale minaccia alla democrazia americana. 

«In questo momento, dobbiamo decidere - ha detto Biden nella Statuary Hall, dove i rivoltosi avevano fatto irruzione un anno prima - Che tipo di nazione saremo? Diventeremo una nazione che accetta la violenza politica come norma?».

È una domanda che molti in America e, non solo, si stanno ponendo. In una società profondamente divisa, dove anche una tragedia nazionale come quella del 6 gennaio ha solo allontanato le persone, si teme che quel giorno sia stato solo l'inizio di un'ondata di disordini, conflitti e terrorismo interno. 

Una sfilza di recenti sondaggi mostra come una significativa minoranza di americani sia a proprio agio con l'idea della violenza contro il governo. Anche parlare di una seconda guerra civile americana è passato dal fantasy marginale al mainstream dei media. 

«È in arrivo una guerra civile?» era il titolo di un articolo del New Yorker di questa settimana. «Stiamo davvero affrontando una seconda guerra civile?» era il titolo sul New York Times di venerdì. Tre generali statunitensi in pensione hanno scritto un articolo sul Washington Post avvertendo che un altro tentativo di colpo di stato "potrebbe portare alla guerra civile". 

Il semplice fatto che tali nozioni stiano diventando di dominio pubblico mostra che ciò che una volta era impensabile è diventato pensabile, anche se alcuni sostengono che rimane fermamente improbabile.

L'ansia è alimentata dal rancore a Washington, dove il desiderio di bipartitismo di Biden si è schiantato contro l'opposizione repubblicana radicalizzata. Le osservazioni del presidente giovedì – («Non permetterò a nessuno di mettere un pugnale alla gola della nostra democrazia») sembravano riconoscere che non può esserci discussione quando uno dei principali partiti americani ha abbracciato l'autoritarismo.

Infatti quasi nessun repubblicano ha partecipato alle commemorazioni mentre il partito cerca di riscrivere la storia, facendo passare la folla che ha cercato di ribaltare la sconfitta elettorale di Trump come martiri che combattono per la democrazia. Tucker Carlson, l'host più seguito sulla rete conservatrice Fox News, ha rifiutato di riprodurre qualsiasi clip del discorso di Biden, sostenendo che il 6 gennaio 2021 "a malapena è considerato una nota a piè di pagina" storicamente perché "non è successo molto quel giorno".

Con il culto di Trump più dominante che mai nel partito repubblicano e gruppi di destra radicale come gli Oath Keepers e i Proud Boys in marcia, alcuni considerano la minaccia alla democrazia più grande ora di quanto non fosse un anno fa. Tra coloro che lanciano l'allarme c'è Barbara Walter, politologa dell'Università della California e autrice di un nuovo libro, “How Civil Wars Start: And How to Stop Them”. 

In precedenza Walter ha fatto parte della task force per l'instabilità politica, un comitato consultivo della CIA, che aveva un modello per prevedere la violenza politica in paesi di tutto il mondo, ad eccezione degli stessi Stati Uniti. Eppure, con l'ascesa della demagogia razzista di Trump, Walter, che ha studiato le guerre civili per 30 anni, ha riconosciuto segni rivelatori alle sue porte.

Uno è stato l'emergere di un governo che non è né completamente democratico né completamente autocratico: un'"anocrazia" . L'altro è un paesaggio che si trasforma in politiche identitarie in cui i partiti non si organizzano più attorno a ideologia o politiche specifiche ma secondo linee razziali, etniche o religiose. 

Walter ha detto all'Observer: «Alle elezioni del 2020, il 90% del partito repubblicano era ormai bianco. Sulla task force, se dovessimo vedere che in un altro paese multietnico e multireligioso che si basa su un sistema bipartitico, questa è quella che chiameremmo una super fazione e una super fazione è particolarmente pericolosa".

Nemmeno il più cupo pessimista prevede una replica della guerra civile del 1861-65 con un esercito blu e un esercito rosso che combattono battaglie campali. «Sembrerebbe più simile all'Irlanda del Nord e a ciò che ha vissuto la Gran Bretagna, dove c’è stato più un'insurrezione - ha continuato Walter - Probabilmente sarebbe più decentralizzato dell'Irlanda del Nord perché abbiamo un paese così grande e ci sono così tante milizie in tutto il paese. Si rivolgerebbero a tattiche non convenzionali, in particolare al terrorismo, forse anche un po' di guerriglia, prenderebbero di mira edifici federali, sinagoghe, luoghi con grandi folle. La strategia sarebbe quella di intimidire e spaventare gli americani facendogli credere che il governo federale non è in grado di prendersi cura di loro».

Un complotto del 2020 per rapire Gretchen Whitmer, il governatore democratico del Michigan, potrebbe essere un segno. Walter suggerisce che figure dell'opposizione, repubblicani moderati e giudici ritenuti antipatici potrebbero diventare tutti potenziali obiettivi. 

«Potrei anche immaginare situazioni in cui le milizie, insieme alle forze dell'ordine in quelle aree, si ritagliano piccoli etnostati bianchi in aree dove ciò è possibile a causa del modo in cui il potere è diviso qui negli Stati Uniti. Certamente non assomiglierebbe per niente alla guerra civile avvenuta negli anni '60 dell'Ottocento».

Walter osserva che la maggior parte delle persone tende a presumere che le guerre civili siano iniziate dai poveri o dagli oppressi. Non così. Nel caso dell'America, è un contraccolpo di una maggioranza bianca destinata a diventare una minoranza intorno al 2045, un'eclissi simboleggiata dall'elezione di Barack Obama nel 2008. 

L'accademico ha spiegato: «I gruppi che tendono a scatenare guerre civili sono i gruppi che un tempo erano politicamente dominanti ma sono in declino. O hanno perso il potere politico o stanno perdendo potere politico e credono davvero che il Paese sia loro di diritto e sono giustificati nell'usare la forza per riprendere il controllo perché il sistema non funziona più per loro».

Un anno dopo l'insurrezione del 6 gennaio, l'atmosfera a Capitol Hill rimane tossica in mezzo al crollo della civiltà, della fiducia e delle norme condivise. Diversi membri repubblicani del Congresso hanno ricevuto messaggi minacciosi, inclusa una minaccia di morte, dopo aver votato per un disegno di legge sulle infrastrutture altrimenti bipartisan a cui Trump si è opposto.

I due repubblicani del comitato ristretto della Camera dei rappresentanti che indaga sull'attacco del 6 gennaio, Liz Cheney e Adam Kinzinger, devono affrontare l'appello per essere banditi dal loro partito. Il democratico Ilhan Omar del Minnesota, musulmano di origine somala, ha subito abusi islamofobici.

Eppure i sostenitori di Trump sostengono che sono loro che combattono per salvare la democrazia. Il mese scorso la deputata georgiana Marjorie Taylor Greene, che ha criticato il trattamento riservato agli imputati del 6 gennaio incarcerati per il loro ruolo nell'attacco, ha chiesto un "divorzio nazionale" tra gli stati blu e rossi. Il democratico Ruben Gallego ha risposto con forza: «Non c'è 'divorzio nazionale'. O sei per la guerra civile o no. Dillo solo se vuoi una guerra civile e dichiarati ufficialmente un traditore». 

C'è anche la prospettiva che Trump si candidi di nuovo alla presidenza nel 2024. Gli stati guidati dai repubblicani stanno imponendo leggi sulla restrizione degli elettori calcolate per favorire il partito mentre i lealisti di Trump stanno cercando di farsi carico delle elezioni. Una contestata corsa alla Casa Bianca potrebbe creare un cocktail incendiario. 

James Hawdon, direttore del Center for Peace Studies and Violence Prevention presso la Virginia Tech University, ha dichiarato: «Non mi piace essere un allarmista, ma il Paese si sta muovendo sempre più verso la violenza. Un'altra elezione contestata potrebbe avere gravi conseguenze».

Sebbene la maggior parte degli americani sia cresciuta dando per scontata la sua stabile democrazia, questa è anche una società in cui la violenza è la norma, non l'eccezione, dal genocidio dei nativi americani alla schiavitù, dalla guerra civile a quattro omicidi presidenziali, dalla violenza armata che si prende 40.000 vite all'anno per un complesso militare-industriale che ha ucciso milioni di persone all'estero. 

Larry Jacobs, direttore del Center for the Study of Politics and Governance dell'Università del Minnesota, ha dichiarato: «L'America non è disabituata alla violenza. È una società molto violenta e ciò di cui stiamo parlando è che alla violenza viene data un'agenda politica esplicita. È una specie di terrificante nuova direzione in America».

Sebbene al momento non preveda che la violenza politica diventi endemica, Jacobs concorda sul fatto che qualsiasi disfacimento del genere assomiglierebbe molto probabilmente anche ai guai dell'Irlanda del Nord. «Vedremmo questi attacchi terroristici episodici e sparsi» ha aggiunto. Il modello dell'Irlanda del Nord è quello che francamente teme di più perché non ci vuole un gran numero di persone per farlo e in questo momento ci sono gruppi altamente motivati e ben armati. La domanda è: l'FBI si è infiltrato in loro a sufficienza per poterli mettere fuori combattimento prima che lanciassero una campagna di terrore? 

«Naturalmente, in America non aiuta il fatto che le armi siano prevalenti. Chiunque può prendere una pistola e tu hai pronto accesso agli esplosivi. Tutto questo sta accendendo per la posizione precaria in cui ci troviamo ora». Niente, però, è inevitabile. 

Biden ha anche usato il suo discorso per elogiare le elezioni del 2020 come la più grande dimostrazione di democrazia nella storia degli Stati Uniti con un record di oltre 150 milioni di persone che hanno votato nonostante una pandemia. Le false sfide di Trump al risultato sono state respinte da quello che rimane un solido sistema giudiziario e controllate da quella che rimane una vivace società civile e media.

In un controllo di realtà, Josh Kertzer, un politologo dell'Università di Harvard, ha twittato: «Conosco molti studiosi di guerra civile e ... pochissimi di loro pensano che gli Stati Uniti siano sull'orlo di una guerra civile». 

Eppure il presupposto che “non può succedere qui” è vecchio quanto la politica stessa. Walter ha intervistato molti sopravvissuti sulla fase che ha portato alle guerre civili. «Quello che tutti hanno detto, che fossero a Baghdad o Sarajevo o Kiev, è che non ce l'aspettavamo - ha ricordato - In effetti, non eravamo disposti ad accettare che qualcosa non andasse fino a quando non abbiamo sentito sparare una mitragliatrice sul pendio della collina. E a quel punto era troppo tardi».

A. Gu. Per "il Messaggero" il 6 gennaio 2022. Nel 1972, quando aveva 22 anni, Julie Jenkins sposò il ragazzo che aveva conosciuto mentre studiava a Firenze, Mauro Fancelli. Da quel momento l'erede della fortuna dei supermercati Publix ha trascorso la maggior parte del tempo in Toscana, con il marito e i figli, e solo i mesi invernali nella sua Florida.  

Tuttavia, pur distante, Julie ha sviluppato una grande simpatia per Donald Trump e, per sostenerlo, ha aumentato i suoi contributi al partito repubblicano al punto da essere stata indicata come la donatrice «più generosa» della manifestazione del 6 gennaio degenerata nell'assalto al Congresso. 

Il presidente della Commissione Inquirente della Camera, Bennie Thompson, ha confermato che la signora «ha avuto un ruolo importante» nel finanziamento di quella giornata, e che ai membri della Commissione che indagano sul sovvenzionamento dei trasporti, degli alloggi e dell'alimentazione delle migliaia e migliaia di persone arrivate a Washington da 45 Stati, sarebbe piaciuto parlarle. 

La signora stessa intendeva prendere parte alla manifestazione e aveva prenotato una camera nello stesso albergo in cui si era riunito lo stato maggiore dei sostenitori di Trump, ma, per paura della pandemia, all'ultimo cancellò il viaggio. Secondo testimonianze raccolte dal Washington Post e dal Wall Street Journal, a spingere Julie a sborsare 650mila dollari sarebbe stata l'influenza del noto arringatore cospirazionista Alex Jones, sfegatato sostenitore dell'infondata teoria che le elezioni presidenziali del 2020 siano state in realtà vinte da Trump e rubate da Biden. 

Julie, va ricordato, aveva già contribuito alla campagna di Trump con quasi un milione di dollari. La famiglia di Julie, la 39esima per ricchezza negli Stati Uniti, di solide tradizioni repubblicane e molto attiva nella beneficenza, si è distanziata da queste simpatie anti-istituzionali.  

Anche la dirigenza della catena dei supermercati Publix, che vanta ben 1.300 punti vendita nel sud degli Stati Uniti, ha messo in chiaro di non avere nessuna influenza sulle operazioni finanziarie della signora e, anzi, di essere «profondamente turbata dal coinvolgimento della signora Fancelli negli eventi che hanno portato al tragico attacco contro il Campidoglio». 

In verità, dopo che la manifestazione era sfociata nella violenza, con morti e feriti, la signora Fancelli ha rilasciato un commento di precisazione: «Sono orgogliosa di essere una conservatrice e ho una vera preoccupazione circa l'integrità delle elezioni, ma non sosterrei mai la violenza, e in particolare gli orrendi e tragici eventi che si sono svolti il 6 gennaio». 

Dopo questa dichiarazione, però, la signora si è chiusa in un totale silenzio e ha rifiutato ogni contatto con la stampa. In questo silenzio, comunque, non c'è nulla di strano, la signora ha sempre vissuto una vita molto ritirata e non si espone agli occhi del pubblico, neanche quando si dedica alle attività benefiche a favore dei bambini poveri e degli anziani.  

L'imprenditore Melvin Floyd Sembler, che è stato ambasciatore degli Usa in Italia dal 2001 al 2005 durante la presidenza di George Bush, andò a farle visita nella villa in Toscana, e ha detto ai media americani che Julie «è una ricca signora simpatica, di una famiglia simpatica, che firma assegni per progetti in cui crede. Ma mi chiedo se ha capito che stava firmando assegni per il 6 gennaio». 

Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 7 gennaio 2022. L'assalto al Congresso di un anno fa mise in pericolo la democrazia degli Stati Uniti, ma il successivo ritorno a un'apparente normalità delle dinamiche politiche - se si può considerare normale la guerra di trincea tra repubblicani e democratici - ha fatto pensare a molti americani che il peggio sia passato e che quello choc sia stato salutare. Non è così e a dimostrarlo ci sono non solo le iniziative legislative degli Stati a guida repubblicana per modificare le leggi elettorali rendendo meno agevole l'esercizio del diritto di voto e tentando in alcuni casi addirittura di trasferire l'ultima parola sulla ratifica del risultato elettorale da organi tecnici indipendenti ad assemblee politiche: è la stessa percezione della gravità di quanto accaduto quel giorno a essere cambiata nel tempo tra i conservatori. 

Già nei mesi scorsi era emerso che la quota di elettori repubblicani che nei giorni della rivolta avevano attribuito qualche responsabilità per l'accaduto a Trump e al partito conservatore, sono scesi da un iniziale 41 per cento a poco più del 20 per cento.

Sondaggi di qualche giorno fa, poi, come riferito lunedì dal Corriere nella newsletter AmericaCina, indicano che ormai per il 34 per cento degli americani è legittimo ribellarsi in modo violento al governo, se si ritiene che stia comprimendo le libertà o altri diritti dei cittadini. 

Ma è la stessa narrativa sul 6 gennaio dei media di destra che è cambiata trasformando gli assalitori - inizialmente criminalizzati anche da reti come la Fox che aveva tentato di descriverli come infiltrati della sinistra antifa - in vittime della repressione giudiziaria dei tribunali di Biden (in realtà composti soprattutto da giudici nominati da presidenti repubblicani).

E così gli assalitori di un anno fa diventano martiri e l'aver partecipato alla marcia sul Congresso appare addirittura una medaglia agli occhi di una destra sempre più radicalizzata. Risultato: secondo un'indagine di Politico.com, sono almeno 57 i protagonisti di quella drammatica giornata che si sono già candidati nel 2021 o stanno per farlo quest' anno a cariche politiche usando la marcia sul Congresso come trampolino elettorale. Tra essi molti candidati ai parlamenti degli Stati, ma anche 24 in corsa per il Congresso di Washington e 5 aspiranti governatori, da Ryan Kelley in Michigan a Doug Mastriano in Pennsylvania.

Che fine hanno fatto gli assalitori di Capitol Hill? Poche condanne e tanti candidati. Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2022. A un anno dall’attacco al Congresso sono 57 i protagonisti di quella drammatica giornata che si sono già candidati o stanno per farlo. E gli imputati risulterebbero con il doppio delle probabilità di essere scarcerati in attesa del processo rispetto agli imputati ordinari. E con oltre 4 volte meno probabilità di essere condannati.

A un anno dall’assalto al Congresso che minacciò di fermare il trasferimento democratico del potere negli Usa, che fine hanno fatto i protagonisti di quel drammatico 6 gennaio? In questi 12 mesi non soltanto è cambiata tra i conservatori la percezione della gravità di quel che è accaduto (oggi il 34% degli americani giustifica la violenza politica), ma sui media di destra è cambiata anche la narrativa su quella giornata: gli assalitori — inizialmente criminalizzati anche da reti come la Fox — sono stati trasformati in vittime della repressione giudiziaria dei tribunali di Biden (in realtà composti da giudici in grande parte nominati da presidenti repubblicani). Non stupisce così che finora siano stati condannati solo lo Sciamano dei Qanon e chi ha ammesso di aver attaccato con violenza i poliziotti.

Pochi condannati (e in modo lieve) e tanti candidati: molti stanno usando la marcia sul Congresso addirittura come trampolino elettorale. Sono almeno 57 i protagonisti di quella drammatica giornata che si sono già candidati nel 2021 o stanno per farlo quest’anno a cariche politiche stima un’indagine di Politico.com. Tra loro molti candidati ai parlamenti degli Stati, ma anche 24 in corsa per il Congresso di Washington e 5 aspiranti governatori, da Ryan Kelley in Michigan a Doug Mastriano in Pennsylvania. 

Dopo un anno di indagini sul più grande evento criminale di massa nella storia degli Stati Uniti, sembra che la giustizia fatichi a seguire il suo corso: molti degli imputati del 6 gennaio sono trattati con i guanti, in modo a dir poco indulgente, a guardare i risultati dell’inchiesta condotta da «Slate». La rivista americana ha analizzato le vicende di 733 persone arrestate per l’assalto al Campidoglio incrociando database disponibili pubblicamente e centinaia di fascicoli personali. La tendenza è chiara: gli imputati per i fatti del 6 gennaio sono stati mandati a casa in attesa del processo in una proporzione decisamente maggiore rispetto al resto della popolazione carceraria nel 2019 (l’85% contro il 42%) . In altre parole: gli imputati del 6 gennaio avrebbero il doppio delle probabilità di essere scarcerati in attesa del processo rispetto agli imputati ordinari e oltre quattro volte meno probabilità di essere condannati. Non solo: le condanne emesse sono state più leggere di quelle richieste normalmente per i reo confessi. 

Cosa sappiamo degli imputati?

Dei 733 arrestati, 702 sono stati accusati da un tribunale distrettuale federale e 31 in una Superior Court, che si occupa di solito di casi meno gravi. Di questi 31 imputati di livello più basso, sei sono donne, 24 sono uomini, una era una donna trans inizialmente accusata di possesso illegale di armi. Di questi 14 sono stati rilasciati su cauzione in attesa del processo. Tra loro le influencer madre e figlia del Gop dell’Oregon Kristina e Yevgeniya Malimon, difese da uno degli avvocati di Trump sull’impeachment.

Dei 702 imputati nel tribunale distrettuale, almeno 99 si sono dichiarati colpevoli e sono in attesa di giudizio. 72 imputati si sono dichiarati colpevoli e sono già stati condannati. Due sono morti, due sono latitanti e uno non si è opposto. I restanti 526 si sono dichiarati non colpevoli.

Quanti sono gli imputati carcere?

Pochissimi. L’85 per cento degli imputati in carico al tribunale distrettuale ha ottenuto una sorta di rilascio anticipato e solo il 15 per cento ha dovuto attendere il processo in carcere. Il trattamento speciale riservato agli assalitori del Campidoglio salta all’occhio confrontando le percentuali: nel 2019, solo il 42% degli imputati federali è stato scarcerato in attesa della data del processo o della risoluzione del caso mentre il 58 è stato costretto ad attendere il processo in carcere.

I motivi di questo «trattamento speciale»

Ci sono una serie di spiegazioni plausibili per questo fenomeno. Solo il 30 percento degli arrestati il 6 gennaio aveva precedenti penali, fa notare l’analista politico Robert Pape, contro il 73% dei condannati per crimini federali. Inoltre gli imputati nei casi del 6 gennaio hanno molte più probabilità di essere bianchi rispetto a quelli di un tipico procedimento penale federale. Secondo una prima stima di Pape, il 95% degli imputati del 6 gennaio erano bianchi contro il 52% negli Stati Uniti nel 2018 . Gli studi hanno dimostrato che il sistema di giustizia penale è pieno di pregiudizi che portano a disparità razziali sconcertanti.

Infine, non meno importante, gli imputati del 6 gennaio sembrano avere più risorse rispetto all’imputato criminale medio, assumendo avvocati privati di livello che costano quattro volte di più di quelli presi da un imputato medio. 

Cosa sappiamo delle persone accusate di aggressione ai polizi?

Un numero relativamente limitato delle persone accusate di aver aggredito gli ufficiali ha legami con gruppi di estrema destra o ha avuto problemi con la legge in passato. 

Cosa è successo alle persone che si sono dichiarate colpevoli?

Degli oltre 170 imputati che si sono dichiarati colpevoli, almeno 70 sono già stati condannati . Il 44% di loro trascorrerà in carcere da 14 giorni a 5 anni. Un altro 25 per cento sconterà una pena diversa in carcere e il resto in libertà vigilata. Molti imputati hanno ricevuto una pena inferiore a quella chiesta dal pm. A iniziare dallo sciamano QAnon, Jacob Chansley: 41 mesi invece di 51.

Quanti sono ancora detenuti?

Sono 76 gli imputati ancora detenuti in carcere con l’accusa di aver aggredito violentemente agenti di polizia. Molti di loro hanno precedenti penali. Alcuni sono accusati di aver aggredito l’ex agente di polizia del Campidoglio Michael Fanone. Timothy Desjardins avrebbe attaccato gli ufficiali con una gamba di un tavolo. Andrew Quentin Taake avrebbe picchiato gli agenti con una frusta di metallo. È stato denunciato dopo essersi vantato dell’incidente con una donna sull’app di appuntamenti Bumble. Michael J. Lopatic Sr. è un ex marine: attaccando gli ufficiali ha impedito loro di prestare i primi soccorsi a quanti erano stati calpestati nella rivolta e qualcuno poi è morto. Alcune dei detenuti sono membri di gruppi estremisti come i Proud Boys e gli Oath Keepers. 

Gli imputati hanno violato le condizioni del loro rilascio?

A otto persone attualmente detenute in carcere era stato originariamente concesso il rilascio anticipato per poi essere rinviate in carcere per vari motivi. Tra loro c’è una delle due donne detenute coinvolte nella rivolta al Campidoglio, Pauline Bauer. Altri due imputati del 6 gennaio, inizialmente rilasciati e poi incarcerati di nuovo, erano alti leader del Proud Boy, accusati di aver organizzato la violenza iniziale che ha portato la folla a prendere il sopravvento sul Campidoglio. 

In libertà alcuni degli assalitori più famosi

L’assalto è stato senza precedenti anche perché gli insorti hanno documentato ogni loro mossa, permettendo al mondo di guardare le loro «gesta» in tempo reale. Tra i rivoltosi più in vista quel giorno e poi rilasciati ci sono Robert Keith Packer, che indossava la maglietta «Camp Auschwitz» durante la rivolta, e Kevin Seefried, fotografato mentre portava una bandiera confederata. E c’è il padre, James Rahm Jr., che si è vantato di aver «pisciato» nell’ufficio della portavoce Nancy Pelosi e «mio figlio ha il video». Tra loro anche l’agente di polizia di Chicago Karol Chwiesiuk che indossava una felpa del dipartimento durante l’assalto.

L’America del 6 gennaio. I negazionisti della minaccia populista alla democrazia, e i loro facilitatori. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 6 Gennaio 2022.  Disinformazione, fake news e “verità alternative” sono “extinction-level event”, far finta di niente è irresponsabile e pericoloso.  

In questi anni molti hanno sostenuto che post-verità, fake news e campagne di disinformazione online fossero, fondamentalmente, fesserie. Alibi di una sinistra incapace di accettare le sconfitte, sempre in cerca di nuove scuse, nuovi capri espiatori e nuovi nemici da demonizzare.

Esattamente un anno fa, il 6 gennaio 2021, abbiamo avuto la prova che quei molti si sbagliavano: una campagna di disinformazione sulle presunte frodi elettorali dei Democratici, talmente presunte che la loro denuncia era cominciata diversi mesi prima delle elezioni, culminava quel giorno in un assalto al Congresso, con il dichiarato intento di impedire la proclamazione del legittimo vincitore, Joe Biden. Un breve, grottesco, incredibile episodio di guerra civile che ha lasciato sul terreno cinque morti.

Un attimo prima, in un comizio organizzato di proposito a poca distanza da lì, Donald Trump aveva detto alla folla: «Cammineremo lungo Pennsylvania Avenue, io amo Pennsylvania Avenue, e andremo al Campidoglio e proveremo a dare ai nostri repubblicani, i deboli, perché i forti non hanno bisogno del nostro aiuto, proveremo a dare loro il tipo di orgoglio e audacia di cui hanno bisogno per riprendersi il nostro paese». Difficile dire cosa sarebbe successo se il vicepresidente Mike Pence avesse ceduto alle pressioni di Trump e si fosse rifiutato di certificare il risultato elettorale, come voleva la folla.

Come se non bastasse, mentre i suoi sostenitori, da lui aizzati, assaltavano il Congresso, con il dichiarato intento di impedire la proclamazione del risultato del voto, Trump rifiutava per ore di dire anche solo mezza parola per fermarli, nonostante, come ora sappiamo, persino i suoi più stretti familiari, dinanzi alle immagini di quelle violenze assurde, lo pregassero di intervenire.

«Se la maggioranza dei repubblicani continua a piegarsi al “fatto alternativo” politicamente più pernicioso, e cioè che le elezioni del 2020 sono state una frode che giustifica la scelta di dare ai parlamenti degli Stati repubblicani il potere di rovesciare la volontà degli elettori e di rimuovere i supervisori del processo elettorale democratici e repubblicani che contribuirono a salvare la nostra democrazia dichiarando correttamente il vincitore, allora l’America non è solo nei guai. È diretta verso quello che gli scienziati chiamano “an extinction-level event”», ha scritto Thomas Friedman sul New York Times, citando ironicamente «Don’t look up», il film Netflix sull’arrivo di una cometa capace di distruggere la Terra e tutto il dibattito che si apre tra esperti e negazionisti.

In Italia però tra i negazionisti della minaccia alla democrazia non ci sono solo i fascisti più o meno dichiarati. Non ci sono solo i leader della destra sovranista che fino all’ultimo hanno finto di credere pubblicamente alla disinformazione trumpiana sulle «elezioni rubate». Ci sono fior di giornalisti e intellettuali di sinistra, c’è un sacco di gente che la sa lunghissima su come va il mondo, e che da anni contribuisce a minimizzare e legittimare le manovre eversive dei nazional-populisti, quando non arriva a farne propri gli stessi slogan contro «le élite» e il «pensiero mainstream».

A tutti costoro suggerirei la lettura del bel saggio di Antonio Nicita, “Il mercato delle verità – Come la disinformazione minaccia la democrazia”, pubblicato recentemente dal Mulino. Ma soprattutto consiglierei non tanto di guardare in alto, ma di guardarsi allo specchio. A importare nella politica italiana le tecniche di disinformazione e destabilizzazione fondate sulla diffusione virale di teorie della cospirazione, a cominciare dalle tesi no vax, non sono stati infatti né i salviniani né i meloniani, ma i grillini. Con il sostegno diretto o indiretto, e la legittimazione, forniti non solo dai loro diversi alleati politici, a seconda dei momenti, ma da un’intera classe giornalistica e intellettuale.

L’anniversario del tentato golpe del 6 gennaio e i numerosi segnali circa il tentativo trumpiano di riprovarci al prossimo giro dovrebbero essere dunque motivo di seria riflessione anche per noi, per guardare con attenzione a quello che sta succedendo all’America e che un giorno potrebbe succedere all’Italia, ma anche per guardarci dentro.

Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" il 5 gennaio 2022. Indizi, documenti, testimoni. Ma non abbiamo ancora risposte definitive alle domande chiave sull'assalto del 6 gennaio. A cominciare dalle più importanti: c'era un piano concordato con la Casa Bianca? Fu una manovra sovversiva concepita da Donald Trump o la situazione sfuggì di mano anche all'ex presidente? I filoni di indagine sono due. Da una parte il lavoro investigativo dell'Fbi e della magistratura. Dall'altra la ricostruzione dei fatti e del contesto politico a opera della commissione parlamentare insediata il 24 giugno 2021 dalla speaker della Camera, Nancy Pelosi. Ne fanno parte nove deputati: sette democratici e due repubblicani, Liz Cheney e Adam Kinzinger, che si sono dissociati dal boicottaggio deciso dalla leadership trumpiana. 

1 A che punto sono le indagini della magistratura?

Venerdì 31 dicembre, il procuratore generale di Washington, Matt Graves, ha fatto il punto sui risultati raggiunti finora. Il 6 gennaio 2021 una folla di almeno 30 mila persone ascoltarono prima il comizio di Trump e poi marciarono verso Capitol Hill. Possiamo riferire, per esperienza diretta, che tra i manifestanti c'era di tutto: sostenitori trumpiani arrabbiati, ma innocui e inquietanti gruppi organizzati, attrezzati con elmetti, giubbotti anti proiettile, bastoni, spray urticante. L'Fbi ha stimato che circa duemila militanti parteciparono attivamente all'assalto del Congresso. L'attenzione si è concentrata su tre formazioni: «Proud Boys», «Oath Keepers» e, da ultimo, «1st Amendment Praetorian». I tumulti causarono la morte di un poliziotto e di quattro manifestanti.

2 Ci sono state condanne?

Il procuratore Graves ha precisato che, al momento, «sono stati incriminati 725 individui con diverse accuse». Di questi 225 dovranno rispondere di «aggressione o resistenza a pubblico ufficiale»; 75 avevano con sé «armi potenzialmente letali». Oltre 140 agenti furono feriti. Circa 165 imputati si sono dichiarati colpevoli di vari reati. Per il momento i tribunali ne hanno giudicati 70: 31 sono in prigione; 18 agli arresti domiciliari; 21 in libertà vigilata. 

3 Quali sono le complicità politiche?

Oggi il ministro della Giustizia, Merrick Garland, spiegherà pubblicamente come proseguirà l'inchiesta penale. Molto probabilmente ripeterà che i giudici «andranno fino in fondo». In altre parole: verificheranno quali siano state le responsabilità di Trump, dei suoi ministri e dei suoi consiglieri. In parallelo si sta muovendo la commissione di inchiesta della Camera che ha già raccolto la versione di 300 testimoni ed esaminato 35 mila documenti, nonostante le cause intentate dagli avvocati trumpiani e il rifiuto di collaborare di personaggi come lo «stratega» Steve Bannon e l'ex capo dello staff della Casa Bianca, Mark Meadows. La commissione ha mobiliato 40 specialisti che stanno esplorando tre piste: i possibili collegamenti tra le frange più violente e gli organizzatori dei comizi; il legame tra questi organizzatori sul campo e i consiglieri dell'ex presidente, compresi i parlamentari; il ruolo della Casa Bianca, cioè di Trump e della sua famiglia. 

4 Qual è stato il ruolo di Trump?

Ed eccoci al punto cruciale. Tutta l'attività investigativa a un certo punto potrebbe bussare alle porte di Mar-a-Lago, la residenza dell'ex presidente. Trump è sfuggito all'impeachment grazie al voto dei repubblicani al Senato, il 13 febbraio 2021. Ma la ricostruzione dei fatti lascia pochi dubbi: il leader della Casa Bianca ha incoraggiato l'assalto. La commissione parlamentare ha diffuso le mail, gli sms inviati dai consiglieri al presidente, compresi quelli del figlio Donald Jr. Tutti, anche Ivanka Trump, gli chiedevano di bloccare i disordini con un appello pubblico. Trump lo fece con grande ritardo, quando ormai il Campidoglio era in balia di veri miliziani e di altre presenze grottesche, come lo «Sciamano». Gli aspetti da chiarire sono tanti. Trump, per esempio, ignorò per ore la richiesta, che a un certo punto divenne una supplica, di mandare rinforzi. La commissione presenterà un rapporto finale nei prossimi mesi. È molto probabile che raccomanderà al dipartimento di Giustizia di perseguire l'ex presidente per aver ignorato il suo dovere numero uno: garantire la sicurezza delle istituzioni nazionali. Tanto più che, dopo il 6 gennaio, continuò a vessare i funzionari statali per sovvertire il risultato elettorale. 

Anna Guaita per "il Messaggero" il 5 gennaio 2022. Con quel suo abbigliamento da scalcinato guerriero vichingo, Jacob Anthony Angeli Chansley aveva colpito l'immaginario collettivo.

C'era chi l'aveva trovato simpatico e chi lo giudicava solo un buffone innocuo. Di certo, per un po' ha fatto trend, tanto che varie riviste avevano indicato dove trovare i vari capi di abbigliamento che aveva sfoggiato.

Diversa è stata l'opinione del giudice Royce Lamberth, che non si è fatto affascinare e a novembre lo ha condannato a 41 mesi di prigione per «aver ostacolato con condotta violenta il regolare svolgimento di una cerimonia ufficiale». 

Chansley, diventato noto come «lo sciamano di QAnon», era stato uno dei primi 30 insorti che si erano introdotti con la violenza nel Palazzo del Congresso il 6 gennaio dell'anno scorso, allo scopo di interrompere la proceduta di ratifica della vittoria elettorale di Joe Biden. 

Le stesse telecamere della Camera lo hanno immortalato mentre grida che bisognava impiccare Mike Pence, il vicepresidente che si era rifiutato di disobbedire alla Costituzione e fare il gioco di Donald Trump.

Lo sciamano è uno dei 165 insorti identificati e già condannati, ma altre centinaia aspettano il proprio turno davanti ai giudici. Ed è probabile che tutti questi casi non si risolvano prima dell'estate. 

Sono oramai più di sei mesi che 9 deputati della Camera e 19 giudici federali del distretto di Washington lavorano a ritmo accelerato per concludere quella che è stata definita «la più grande inchiesta e azione penale della storia americana».

I due gruppi lavorano su binari diversi: la Commissione Inquirente della Camera deve chiarire chi e come abbia organizzato l'insurrezione del 6 gennaio; i giudici processano gli esecutori materiali dell'attacco al palazzo del Congresso. 

Chansley è stato forse il più conosciuto degli insorti condannati, ma altre facce note, come quella di Russel James Peterson, l'uomo che si stravaccò sulla sedia di Nancy Pelosi profferendo frasi offensive in direzione della speaker della Camera, o come quella di Riley June Williams, che rubò il laptop di Nancy con l'intenzione di venderlo ai servizi segreti russi, hanno avuto già il primo incontro con i giudici e rischiano tutti vari mesi di carcere.

Gli appuntamenti più interessanti devono ancora arrivare, in particolare quelli con i miliziani delle associazioni suprematiste degli Oath Keepers e dei Proud Boys, che sembra abbiano avuto diretti contatti strategici con le «menti» che hanno organizzato la manifestazione del 6 gennaio.

Alcuni di loro erano stati visti la sera precedente in un noto albergo di Washington dove si trovavano i principali consiglieri di Trump, da Steve Bannon a Rudy Giuliani a John Eastman.

Nell'albergo sarebbe stata creata una «war room» a cui facevano capo le varie componenti della manifestazione «Stop the Steal», Fermate il furto, basata sull'infondata teoria che le elezioni fossero state «rubate». 

Le indagini sulla war room sono appannaggio della Commissione della Camera, composta da nove deputati, di cui solo due repubblicani.

La commissione sarebbe stata divisa equamente fra i due partiti se il capogruppo repubblicano, Kevin McCarthy non avesse fatto pressioni sulla Pelosi perché includesse alcuni membri chiaramente compromessi con Donald Trump e il suo gruppo di consiglieri eversivi. 

Le stesse indagini della Commissione hanno confermato, per esempio, che il deputato Jim Jordan, proposto da McCartyhy, era in contatto telefonico con la war room mentre avveniva l'attacco.

La Commissione ha ascoltato 300 testimoni e ha ricostruito particolari inediti, come il fatto che Trump se ne stesse seduto nel suo studio a guardare la telecronaca dell'attacco al Congresso, rifiutandosi di richiamare all'ordine i suoi seguaci nonostante le suppliche che arrivavano anche dai suoi familiari, come Ivanka, e dai suoi sostenitori, come i giornalisti della Fox.

Si è scoperto che Trump voleva sostituire in extremis il ministro della Giustizia con uno che gli prometteva di abolire i risultati elettorali in alcuni Stati. 

Molte cose, però, non sono ancora chiare, e chi le conosce si rifiuta di parlare. 

Bannon, consigliere di Trump, è stato incriminato per aver disobbedito a un mandato di comparizione e sarà processato a luglio. Stessa sorte rischia l'ex capo dello staff Mark Meadows. 

La Commissione promette che entro l'estate sarà in grado di presentare una prima stesura del rapporto, con una serie di udienze pubbliche che dovranno servire da monito perché simili attacchi alla democrazia non si ripetano.

“Un appello al cielo”, perché l’assalto al Campidoglio era prevedibile. Stefano Magni su Inside Over il 6 gennaio 2022. Il 6 gennaio di un anno fa pareva di assistere ad un film. Un assalto al Campidoglio, da parte di una folla in rivolta. Chi lo avrebbe mai pensato? Sicuramente non lo ha previsto la Capitol Police che, in quel giorno di Epifania del 2021, era talmente sotto-organico da non riuscire a contenere gli assalitori. Se hanno fatto scalpore le scene, girate dal giornalista freelance Marcus Di Paola, in cui gli assedianti trattano con i poliziotti e vengono fatti passare, questo non lo si deve a qualche complotto o collusione con le forze dell’ordine, ma proprio ad una carenza di personale della polizia. Solo dopo i fatti del 6 gennaio, quando Joe Biden è stato infine confermato dal Congresso di nuovo riunito, Washington è stata pacificamente “invasa” da 26mila guardie nazionali che hanno protetto la sede del potere legislativo americano.

Il comportamento delle forze di sicurezza indica che l’intelligence nazionale non avesse previsto lo scenario di una protesta che culminasse con l’assalto del Campidoglio. Il perché di questa disattenzione è evidente: tuttora non c’è accordo su quel che è successo quel 6 gennaio.

La questione del colpo di Stato

Almeno in parte, la narrazione successiva all’assalto al Campidoglio è arrivata a parlare di “colpo di Stato”. La prestigiosa Foreign Policy, con un articolo a firma dello scienziato politico Paul Musgrave, rilanciava subito la tesi del “colpo di Stato americano”. Benché lamentasse la mancanza di allarme da parte dei suoi colleghi politologi e commentatori politici, Musgrave non è il solo ad interpretare l’assalto al Campidoglio come un tentativo golpe. Anche Biden, nel suo discorso del 6 gennaio, parlava di “attacco alla democrazia senza precedenti” e chiedeva a Trump di “porre fine a questo assedio”.

Invece non era un colpo di Stato, secondo il think tank libertario Mises Institute con un un pezzo a firma di Ryan McMaken. A dimostrazione che non c’era un piano di conquista e consolidamento del potere, l’autore libertario cita la disorganizzazione e la mancanza di coordinamento dei rivoltosi, l’assenza di un loro obiettivo chiaro anche una volta entrati nel palazzo del legislativo e la facilità con cui poi la folla è stata dispersa. In senso proprio, ricorda McMaken, un colpo di Stato è un atto di forza illegale compiuto da un pezzo dell’élite statale (l’esercito e parte dei suoi vertici, nella maggior parte dei casi) per rovesciare un governo in carica. Non è sicuramente questo il caso.

Se non si è trattato di un colpo di Stato, allora cosa è successo? La manifestazione del 6 gennaio di fronte al Campidoglio era prevista ed era stata anche autorizzata nell’ultima settimana di dicembre. Nel suo discusso discorso ai sostenitori (che è alla base del secondo processo di impeachment), il presidente uscente Donald Trump li aveva invitati a farsi sentire dai rappresentanti “in modo pacifico e patriottico”. Era pacifica la stragrande maggioranza dei manifestanti, come è noto a chiunque abbia assistito alla manifestazione, o vi abbia partecipato. Un’ala più radicale della manifestazione, abbastanza consistente da travolgere la polizia, si è staccata dal corteo principale per far irruzione in Campidoglio, per “farsi sentire” direttamente nelle orecchie dei senatori e rappresentanti, riuniti nell’edificio per la conferma di Biden alla presidenza. Tutto quello che hanno ottenuto è stato di spaventare i membri del Congresso, anche quelli repubblicani, al costo di quattro morti, fra cui Ashli Babbit, veterana dell’aeronautica, uccisa da un agente con un colpo di pistola sparato a bruciapelo.

La protesta della destra conservatrice

Il perché di un’azione così (almeno apparentemente) insensata e controproducente, lo si può comprendere solo alla luce della cultura più ignorata e bistrattata dai media e dalla politica: quella della destra conservatrice americana. Contrariamente alla tradizione europea, i conservatori statunitensi non sono i custodi delle istituzioni dello Stato, ma i loro potenziali nemici. Negli Stati Uniti il concetto europeo di “Stato sovrano” non è mai esistito. Gli Usa sono nati da una ribellione di coloni contro lo Stato centrale, le sue regole e tasse. Simboli della rivoluzione americana, come la prima bandiera con le 13 stelle (delle tredici colonie originarie) disposte in cerchio, o la Gadsden Flag (gialla, con la serpe e la scritta “Non calpestarmi”) erano abbondantemente presenti, sia al Campidoglio che nelle altre manifestazioni conservatrici pro-Trump. Erano anche i simboli e gli ideali del precedente moto anti-establishment, quello del Tea Party, sorto fra il 2008 e il 2009 su iniziativa di quei movimenti conservatori e libertari che non si sentivano più rappresentati neppure dal Partito Repubblicano. L’elezione di Donald Trump nel 2016 ha segnato la fine del movimento Tea Party, ma non quella della protesta contro la “palude”, come viene soprannominato l’establishment corrotto, bipartisan, sia democratico che repubblicano. Trump stesso ha incarnato, personalmente, sin dal suo insediamento, la rivolta contro l’élite.

“Quando non v’è giudice sulla terra, non rimane che l’appello a Dio nel cielo”, scriveva il filosofo John Locke (1632-1704) all’indomani della Gloriosa Rivoluzione inglese. I rivoluzionari americani lo presero alla lettera e nella stessa dichiarazione di Indipendenza, del 1776, leggiamo: “Ma quando una lunga serie di abusi e di malversazioni, volti invariabilmente a perseguire lo stesso obiettivo, rivela il disegno di ridurre gli uomini all’assolutismo, allora è loro diritto, è loro dovere rovesciare un siffatto governo e provvedere nuove garanzie alla loro sicurezza per l’avvenire”. Questo è il vero Dna dei conservatori americani. Se il patto fra lo Stato e il popolo è rotto, il popolo ha il diritto di rovesciare il governo, o quantomeno di disobbedirgli.

Giusta o sbagliata che sia questa percezione, un’ampia fetta dell’opinione pubblica repubblicana ha considerato l’elezione di Joe Biden come frutto di una frode elettorale. E non solo: si è sentita discriminata dai media mainstream nei quattro anni di presidenza Trump, privata della libertà e della proprietà dalle misure anti-Covid negli Stati in cui è stato imposto il lockdown, lasciata indifesa e in balìa delle manifestazioni più violente di Black Lives Matter e infine esclusa dal dibattito, anche nei social network. Sentendosi privata della libertà di parola e di voto, questa parte della destra americana ha pensato che non rimanesse altro “che l’appello a Dio nel cielo”.

Un’America sempre più divisa: la pesante eredità del 6 gennaio. Alberto Bellotto su Inside Over il 6 gennaio 2022. I fatti del 6 gennaio 2021 restano una ferita aperta e sanguinante nella storia recente degli Stati Uniti. L’assalto al Congresso da parte di un gruppo di sostenitori del presidente uscente Donald Trump stenta ad essere elaborato da cittadini ed elettori, anzi sta diventando sempre di più la pietra angolare della nuova polarizzazione americana. Fin dall’elezione del tycoon in questa sponda dell’Atlantico abbiamo imparato a scoprire una nazione non più così unita, con repubblicani e democratici che hanno smesso di dialogare e si sono radicalizzati.

L’eredità dell’assalto

Che il clima sia rovente lo conferma anche un sondaggio del Washington Post e dell’Università del Maryland. Ben il 34% degli americani si è detto convinto che la violenza contro il governo sia sempre giustificata, uno dei numeri più alti mai registrati negli ultimi anni. Il dato cambia però a seconda degli schieramenti e sale al 41% tra gli indipendenti e al 40% tra i repubblicani per poi scendere al 23% dei democratici.

Questa è la prima di una lunga serie di spaccature. Prima fra tutte quella sul comportamento del presidente uscente. Se da un lato per il 60% degli americani Trump ha una “grande responsabilità” dietro ai fatti del 6 gennaio, dall’altro il 72% dei repubblicani e l’83% di coloro che hanno votato Trump, si dice convinto che sostanzialmente The Donald non abbia avuto alcun tipo di responsabilità. Anche sugli autori materiali dell’assalto non tutto il Paese è concorde. A livello nazionale il 54% li definisce per lo più come violenti, ma tra repubblicani questa percentuale scende al 26%. Per i il 78% dei dem, invece, la grande maggioranza degli assaltatori era tutt’altro che pacifica.

Il clima creato dall’assalto ha riflessi anche nella percezione del presidente in carica. Per sette americani su 10 Joe Biden siede a pieno titolo alla Casa Bianca, ma resta un 30% di elettori che considera la sua elezione illegittima. E anche qui gran parte dei repubblicani lo considera un usurpatore con il 58% di chi dice di aderire al Gop che si dice convinto di un’elezione rubata. Anche se la percentuale è andata via via in calo dopo le primissime rilevazioni avvenute dopo l’attacco.

L’inverno della democrazia

I numeri contro l’amministrazione Biden non sorprendono. E a differenza di quanto lamentino molti democratici e liberal non è nemmeno una novità. Un sondaggio dell’autunno 2017 condotto dopo il primo anno di Trump alla Casa Bianca fotografò una situazione analoga. Il 67% dei dem e il 68% degli elettori di Hillary Clinton sostenevano che il tycoon non era stato eletto in modo legittimo. Lo stesso Russiagate che ha accompagnato tutta l’amministrazione repubblicana altro non era che un modo per sottolineare l’illegittimità del voto. E oggi come allora il fenomeno si presenti a parti invertite.

Il problema è che lo stato di salute della democrazia in America sembra sempre più deteriorato. Oggi solo il 54% degli elettori (il 60% tra i dem e il 58% tra i repubblicani) dice di essere molto o abbastanza orgoglioso di come funziona la democrazia americana. Il numero è uno dei più bassi di sempre, un valore in declino da almeno due decenni. Nel 2002 a un anno dagli attentati dell’11 settembre la percentuale era intorno al 90%, dieci anni dopo era diminuita al 74% e nel 2017 al 63%. Altri due dati per completare il quadro. Sempre nel 2002 ben il 48% degli americani si era detto “molto orgoglioso” del modo in cui funzionava la democrazia nel proprio Paese, ma nel giro di vent’anni il numero è crollato all’11%.

Il crollo verticale della fiducia nel sistema democratico è iniziato soprattutto nel corso degli ultimi anni dalla presidenza di Barack Obama. Fino ai primi anni 2000 il 90% di democratici e repubblicani si diceva soddisfatto per la democrazia, poi a partire dal 2017 tra i due schieramenti si è aperta la spaccatura con fiduce e sfiduce alterne in base a chi fosse in quel momento presidente.

Il dibattito sul voto

Questo declino ha una ricaduta diretta sul processo democratico, sul voto, sull’accettare i risultati e quindi sulla convivenza tra anime diverse del Paese. A oltre un anno dal voto che ha incoronato Biden il 30% degli elettori è convinto sia esistita una grande frode che abbia sottratto la legittima vittoria a Donald Trump. Anche su questo i due schieramenti hanno una visione opposta. L’88% dei dem parla di assenza di irregolarità, mentre il 62% di repubblicani afferma che esistono prove incontrovertibili del furto.

I fatti del 6 gennaio hanno minato la fiducia nei confronti dell’intero sistema e quindi dello Stato. Almeno un americano su tre si dice convinto che nelle elezioni di metà mandato previste per il prossimo novembre il suo voto non verrà conteggiato nel modo corretto, timore ancora più forte tra i repubblicani. A cascata le paure riguardano anche l’accesso stesso al voto con il 30% degli elettori che si dice preoccupato per l’opportunità di votare, molti dei quali democratici.

Nell’ultimo anno, infatti i due grandi partiti che guidano il Paese hanno cercato di portare avanti, ognuno a suo modo, delle formule per modificare l’accesso al voto. I repubblicani hanno agito soprattutto a livello statale andando a modificare leggi sulla registrazione nelle liste elettorali, introducendo maggiori controlli ai seggi o limitando l’uso del voto per corrispondenza tanto criticato da Trump. I dem, soprattuto quelli più a sinistra hanno provato ad agire a livello federale in parte provando a far passare un provvedimento che portasse alla registrazione automatica degli elettori, mentre altri hanno avanzato riforme più ambiziose che superino il sistema dei collegi. Anche se al vaglio ci sono anche altre idee come allargare l’Unione al democratico Porto Rico e guadagnare così due senatori, o addirittura rivedere gli equilibri tra Camera dei rappresentanti e Senato.

Ma la vera nota dolente per la democrazia americana, che per secoli è stata l’esempio da seguire, è il crollo di fiducia nel passaggio stesso delle consegne. Sempre più persone dubitano che gli avversari politici siano in grado di accettare l’esito del voto. In particolare i dubbi riguardano la possibilità che i funzionari di uno Stato accettino un voto nazionale a loro sfavorevole. Il 56% dei repubblicani, ad esempio, non è sicuro che i funzionari degli stati a guida democratica accettino un risultato che li penalizza e che quindi convalidino l’elezione di deputati e senatori. Tra i dem il numero dei preoccupati sale fino al 67%.

Una guerra civile fredda

A un anno dai fatti che hanno sconvolto Washington e l’America tutta gli interrogativi rimangono. Già da tempo gli analisti sono concordi sul fatto che il Paese sia lacerato e che si stiano creando due universi, democratici e repubblicani, incapaci di parlarsi e trovare un terreno comune. Anche la capacità di convergere al centro che il Congresso ha avuto per tutto il Novecento sembra essersi esaurita. Jennifer McCoy, esperta di movimenti sociali e ricercatrice alla Georgia State University ha raccontato a Vox come il clima che si respira nel Paese sia sempre più segnato del “noi contro loro”. Un clima da guerra civile fredda che potrebbe infiammarsi presto.

Secondo uno studio della stessa McCoy nessuna democrazia matura occidentale ha mai sperimentato un livello di polarizzazione politica così forte come quella americana. Ma l’aspetto più inquietante, sottolinea l’analista, è che “una volta raggiunto questo livello di divisone è molti difficile tornare indietro”. Ma questa rottura dove può portare? Secondo scienziati politici, sociologi e analisti i risultati possono essere molti e molto imprevedibili. Si va dalle battaglie legali sulla legittimità di ogni singolo voto, a grandi manifestazioni di piazza, passando per un Congresso paralizzato e scontri violenti tra le frange più estreme. Fenomeni non nuovi per l’America e visti spesso in modalità spot negli ultimi anni. È il caso del Russiagate e delle contestazioni di Trump, ma anche della calda estate di Black lives matter o ancora degli scontri di Charlottesville nel 2017 fino ad arrivare al 6 gennaio 2021.

Dalla sua elezione in poi Biden ha provato in tutti i modi a riunire il Paese come promesso in campagna elettorale, ma dopo un anno i risultati non arrivano. Anzi. Con il calo dei consensi registrato negli ultimi sei mesi il rischio di una nuova stagione di rabbia è alle porte.

La rivolta, i morti, i suicidi e l’inchiesta: un anno dopo Capitol Hill. Lorenzo Vita su Inside Over il 6 gennaio 2022. Un anno dopo l’assalto di Capitol Hill, la verità è una parola che riesce a polarizzare ancora l’America. I repubblicani filo-Trump chiedono verità sulle elezioni che hanno consacrato Joe Biden alla presidenza degli Stati Uniti. La chiamano “stolen election” e sono tanti nella base del partito a desiderare ulteriore chiarezza nonostante tribunali e inchieste abbiano certificato la validità del voto. Dall’altro lato, i democratici e i repubblicani moderati chiedono un’altra verità: quella sull’assedio di Capitol Hill, tempio della democrazia americana, e sul ruolo di Donald Trump nella decisione della folla di entrare nel Congresso sfondando la barriera della polizia e quel muro di sacralità che ha sempre costituito l’area istituzionale di Washington. Un golpe ispirato dall’ala oltranzista vicina a Trump? Un incendio di cui il presidente fu piromane ma che non aveva intenzione di far estendere in modo così violento? Uno schema per screditare il capo della Casa Bianca e far sì che venisse definitivamente incriminato e condannato all’oblio?

I morti e la “maledizione”

Le domande circolano con insistenza da quando gli americani e l’intero pianeta osservarono quanto accadeva nella capitale degli Stati Uniti. E per adesso le certezze sono poche. Innanzitutto i morti: cinque negli scontri e quattro poliziotti che si sono suicidati dopo l’assedio. Le vittime durante i “riots” sono state quattro tra i manifestanti e un agente di polizia.

La più nota è Ashli Babbitt, veterana dell’Aeronautica, 35 anni, freddata da un poliziotto mentre tentava di sfondare la porta per entrare nella Camera, lì dove erano rinchiusi i membri del parlamento. Il colpo, sparato ad altezza uomo, è stato ripreso da una telecamera il cui video ha fatto il giro del mondo ed è diventato un simbolo per molti sostenitori pro Trump. Un’altra vittima tra i manifestanti è Kevin Greeson, 55enne dell’Alabama, che è stato colto da infarto all’esterno del Congresso. Sorte simile a quella di Benjamin Phillips, fondatore di Trumparoo, colto da un ictus a Washington mentre era impegnato nella marcia dei sostenitori del presidente Usa. Negli scontri è morta anche Roseanne Boyland, 34 anni, schiacciata dalla folla che cercava di entrare a Capitol Hill. Così come nella guerriglia del Congresso è morto l’agente Brian D. Sicknick, 42 anni, ucciso dalle ferite inferte dai rivoltosi mentre faceva il suo dovere nel tempio della democrazia. 

Quattro invece i poliziotti che si sono tolti la vita dopo aver prestato servizio a Washington il 6 gennaio 2021. Qualcuno l’ha definita una “maledizione” che incombe sulle forze dell’ordine. Una volta tornati a casa, per poche ore, giorni o anche settimane quattro membri delle forze di sicurezza hanno riportato dei segni indelebili nel proprio animo e si sono uccisi: Jeffrery Smith, traumatizzato dalla violenza degli assedianti, Howard Liebengood, caduto in stato di depressione e suicidatosi dopo alcuni giorni, Gunther Hashida e Kyle DeFreytag, veterani del Metropolitan Police Department di Washington, che si sono tolti la vita dopo che per mesi non sono più stati gli stessi. I feriti tra le forze dell’ordine durante l’assedio furono 140.

Accuse, polemiche e arresti

Ai morti di quella battaglia e delle settimane successive, si aggiungono le polemiche, che non si sono mai interrotte dal 6 gennaio scorso, e il corso della giustizia.

Le prime polemiche riguardarono quelle domande sorte immediatamente dopo l’assedio. Quelle centinaia di persone che hanno assaltato Capitol Hill non sembravano un’orda così imponente da rendere impossibile un blocco prima che colpisse il cuore di Washington. Inoltre, dovevano esserci avvisaglie che avrebbero dovuto attivare un rafforzamento complessivo del servizio d’ordine intorno al Congresso e all’interno della marcia dei trumpisti.

Tanti iniziarono ad accusare i servizi di informazioni e le forze dell’ordine di essere stati completamente colti di sorpresa dalla manifestazione, e alcuni hanno puntato il dito contro il potere politico, accusato in quel momento di non avere voluto controllare le proteste lasciando che diventassero un qualcosa di insurrezionale. Il rimpallo di responsabilità si è scatenato sin da subito, tra Capitol Police, dipartimento di Giustizia, Homeland Security e Fbi. Qualcuno ha accusato la polizia di avere volutamente applicato una linea non troppo dura nei confronti dei manifestanti, con il sospetto incrociato di chi riteneva alcuni agenti alleati dei rivoltosi e chi invece alleati degli anti Trump, lasciando così scatenare appositamente il caos per poi delegittimare le proteste contro Biden.

Le indagini e i processi

Per capire meglio le responsabilità di alcuni agenti della Capitol Police, si è svolta un’inchiesta all’interno del corpo di polizia che ha visto l’avvio di 38 indagini individuali e la richiesta di sanzioni disciplinari per sei agenti accusati di condotta inappropriata, mancato rispetto delle direttive, commenti impropri e diffusione inappropriata di informazioni. Nessuna incriminazione è stata però di natura penale.

Dubbi riguardavano anche la Guardia nazionale. Il generale Mark Milley aveva assicurato sin dal momento dell’assedio che i suoi uomini erano pronti, ma che il sindaco di Washington avrebbe chiesto il loro dispiegamento solo poco prima dell’assedio e con numeri ridotti. Nancy Pelosi chiese aiuto ai governatori del Maryland e della Virginia proprio perché gli uomini di Washington DC non avrebbero ricevuto l’ordine di attivarsi. Secondo fonti accreditate, inoltre, sembra sia stato proprio Mike Pence – che i manifestanti minacciavano di impiccagione – a dare l’ordine di mobilitare la Guardia Nazionale. E tutto questo senza l’ok del presidente. Mentre altri ritengono che il Pentagono abbia evitato di inserirsi in quella battaglia al Congresso per evitare di rimanere impantanata in un pericoloso scontro politico.

A un anno dall’assalto di Capitol Hill, quello che è certo è che la giustizia ha continuato a fare il suo corso. Su 725 persone ufficialmente accusate di aver preso parte alla battaglia di Washington, 600 sono state incriminate di violazione di zona riservata, 30 sono accusati di furto di beni governativi (molti ricordano Adam Johnson, che se ne andava via sorridendo con il leggio di Pelosi), 75 di avere usato armi contro le forze dell’ordine. Come riporta Agi, 275 persone sono invece accusate di ostruzione e impedimento del normale processo di certificazione elettorale, ovvero l’anticamera di un attentato alla democrazia. Per loro la pena massima prevista è quella di 20 anni di reclusione, ma ancora non si è arrivati in gran parte alla fine dei processi. Più di 500 persone, infatti, devono ancora essere giudicate: cinque appartenenti a gruppi di estrema destra si sono dichiarati colpevoli di “cospirazione” ma attira l’attenzione dei media anche il gruppo di trenta veterani dei Marine che presero parte alla guerriglia. L’uomo che ha subito per ora la condanna più grave è Robert Scott Palmer: cinque anni e tre mesi per aver aggredito un agente della Capitol Police con un estintore.

Tuttavia, sono in tanti a non ritenere soddisfacenti i risultati ottenuti dalla giustiziati. Condannato il famigerato “sciamano” – Jacob Chansley, simbolo di quella giornata – e iniziati a punire i soggetti che hanno preso parte alle violenze, il vero nodo delle inchieste riguarda il ruolo della Casa Bianca e di chi era dietro quella rivolta di piazza.

Il ruolo del circolo di Trump

La commissione speciale d’inchiesta per i fatti del 6 gennaio 2021 punta a trovare le definitive responsabilità del presidente Trump e degli uomini a lui più vicini. I fedelissimi, quelli che erano rimasti con lui nel momento finale, asserragliati nella “War Room” del Willard Hotel di Washington. Tra questi, i due su cui sono puntati i fari dell’organismo della Camera dei rappresentanti sono Steve Bannon e Mark Meadows. Il primo, riavvicinatosi all’ex capo della Casa Bianca dopo esserne stato allontanato, è stato accusato di oltraggio al Congresso per essersi rifiutato di testimoniare. Il secondo, ex chief of staff di The Donald, aveva prima deciso di collaborare con la Commissione consegnando un file Power Point che avrebbero provato il tentativo di golpe, poi ha clamorosamente (e misteriosamente) ritrattato.

La Commissione, che nasceva come idea bipartisan, ha trovato l’opposizione di buona parte del partito repubblicano. Tendenzialmente per due motivi. Il primo è perché Trump ha ancora un peso rilevante all’interno del partito e della base elettorale e perché fino a questo momento l’ex capo della Casa Bianca sta colpendo qualsiasi rivale. Le elezioni di mid-term rischiano di essere disastrose per Biden e la pazza idea del tycoon di nuovo in corsa per il 2024 inizia a essere non più così remota. Il secondo motivo è che molti ritengono che l’inchiesta sia orientata non a scoprire la verità dei fatti, ma a incolpare Trump. Un metodo che dimostrerebbe l’assenza di imparzialità. L’attualmente composizione (sette dem e due repubblicani) non aiuta certo a chiarire i dubbi.

Nel frattempo però l’organismo della Camera lavora, pur con tutte le difficoltà, muovendo un vero e proprio esercito di testimoni e specialisti. Come scrive il Corriere della Sera, sono 300 le persone chiamate a testimoniare sui fatti, 40 gli specialisti arruolati per verificare diverse piste in cui si dirama l’inchiesta. Per ora sono 35mila i documenti ottenuti e alcuni retroscena danno un quadro sempre più complesso della vicenda e del “cerchio magico”. La figlia del presidente, Ivanka, avrebbe chiesto al padre di desistere da quella marcia e di fermare l’assedio a Capitol Hill. Alcuni giornalisti di Fox, il canale che ha sempre avuto un filo diretto con l’ala trumpiana, avevano addirittura fatto appello al capo dello Stato per fermare l’assalto. Resta poi il dubbio sul ruolo del capo della Casa Bianca nel fermare la richiesta di rinforzi, e quindi il ruolo del vicepresidente Pence. Solo dopo alcune ore Trump, forse resosi conto di quanto stava accadendo, decise di parlare e chiedere alla folla di fermarsi. Ma era troppo tardi: gli Stati Uniti e il mondo osservavano con stupore quanto stava accadendo nella capitale dell’Occidente. 

Che cos’è il Partito Repubblicano americano. Andrea Muratore su Inside Over il 6 gennaio 2022. Da Abraham Lincoln a Richard Nixon, da Teddy Roosevelt a Donald Trump: nella sua storia il Partito Repubblicano americano ha consolidato più volte la sua influenza politica sugli Stati Uniti esprimendo alcuni dei presidenti più importanti della storia del Paese. In perenne dualismo con il Partito Democratico, il “Grand Old Party” è attivo dal 1854, risultando una delle formazioni più antiche al mondo. Oggi è rappresentante organico dei settori conservatori e della destra politica Usa.

L'evoluzione del partito

I Repubblicani nacquero ufficialmente nel 1854 sulla base del vecchio Partito Whig, attraverso l’incorporazione di diverse fazioni politiche attive soprattutto al Nord degli Stati Uniti, unite principalmente dalla volontà di opporsi al governo Democratico dell’epoca e contrastare la temuta espansione nell’Ovest del sistema schiavistico degli Stati meridionali, ritenuta frenante per gli interessi dell’industria e dello sviluppo interno.

L’elezione di Abraham Lincoln alla Casa Bianca aprì la strada all’abolizione della schiavitù ma anche alla Guerra Civile americana (1861-1865) in cui il Partito Repubblicano guidò l’Unione alla vittoria contro la secessione guidata dai Democratici segregazionisti del Sud.

Dopo la Guerra Civile, i repubblicani vinsero otto elezioni presidenziali su dieci tra il 1868 e il 1908, aprendo una fase di egemonia sulla politica americana che sarebbe durata fino all’ascesa di Woodrow Wilson alla Casa Bianca. In quest’ottica maturò una prima maturazione sistemica del partito, che divenne dapprima il grande portavoce dell’industrializzazione del Paese, del consolidamento della potenza economica a stelle e strisce, ma anche un sostanziale critico dell’ideologia del destino manifesto. Dopo lo scatenamento degli appetiti coloniali delle potenze europee nell’età dell’imperialismo tardo ottocentesco, tuttavia, anche i Repubblicani approvarono una svolta espansionista: i presidenti McKinley e Roosevelt ruppero una storia consolidata e, partendo dall’America Latina e dalla guerra alla Spagna (1898) interiorizzarono i dogmi dell’imperialismo a stelle e strisce.

Dato che i conservatori-populisti Democratici del Sud appoggiarono la segregazione razziale per diversi decenni, a inizio Novecento in entrambe le formazioni prevalsero tendenze orientanti tanto a destra quanto a sinistra i partiti-guida dell’America. I Repubblicani si riorientarono verso il liberismo dopo la Grande Guerra, ma le loro amministrazioni postbelliche furono travolte dalla Grande Depressione.

Dopo la Seconda guerra mondiale, fu la scelta di guidare il fronte anticomunista e il duro contrasto all’Unione Sovietica a promuovere un avvicinamento sensibile dei Repubblicani al campo conservatore. La crescita dell’influenza dei movimenti evangelici, dei potentati finanziari e dei pensatori della scuola di Chicago crearono il terreno di coltura per quell’unione tra liberismo classico, utilitarismo e individualismo morale su cui germogliò l’ideologia neoliberista. A partire dalla fallimentare candidatura di Barry Goldwater alla Casa Bianca (1964) il Grand Old Party iniziò a cercare di conquistare le fasce elettorali del Sud spostandosi nettamente a destra: Richard Nixon nel 1968 e nel 1972 e Ronald Reagan nel 1980 e nel 1984 completarono il percorso sfondando ovunque, dal Texas all’Alabama.

Con Reagan i Repubblicani divennero il partito della destra conservatrice, dei movimenti protestanti, della classe media dell’America profonda, dell’avversione al progressismo delle élite urbane delle metropoli. L’identikit del partito è stato scolpito definitivamente proprio nell’era dell’ex attore diventato presidente, mentre a livello di politica estera il forte anticomunismo di Reagan si è trasformato poi nel sostegno all’egemonia unipolare da parte di George Bush jr. (2001-2008) e nell’ideologia America First di Donald Trump, ultimo (per ora) presidente repubblicano, che scalando il partito da outsider nel 2016 lo ha poi gradualmente trasformato accentuandone i tratti identitari.

I presidenti repubblicani

Da Lincoln a Trump, sono stati ben diciannove i presidenti esponenti del Partito Repubblicano. Quattro di questi, Chester Arthur (1881-1885), Theodore Roosevelt (1901-1909), Calvin Coolidge (1923-1929) e Gerald Ford (1974-1977) non furono formalmente eletti al momento del loro insediamento. Arthur e Roosevelt subentrarono ai presidenti Garfield e McKinley morti assassinati (con Lincoln, tre dei primi sette presidenti del Gop caddero in questo modo), Coolidge a Warren Harding, morto in carica, Ford al dimissionario Richard Nixon. Di questi, poi, Roosevelt e Coolidge hanno conquistato mandati popolari in successive elezioni, mentre Ford fu l’unico presidente a entrare in carica senza essersi presentato alle elezioni nemmeno come candidato vicepresidente. Era subentrato infatti a Spryo Agnew, vecchio vice di Nixon, solo un anno prima delle dimissioni del presidente in carica.

I Repubblicani hanno presentato come presidenti ex generali (Ulysses S. Grant dopo la guerra civile, Dwight Eisenohwer negli Anni Cinquanta), ex capi della Cia (George Bush senior) e, con Donald Trump, il primo leader privo di agganci politici precedenti al momento dell’elezione presidenziale.

Nella loro amministrazione hanno nel corso di un secolo e mezzo ottenuto: l’abolizione della schiavitù (con Lincoln), il completamento dell’espansione territoriale (tra Grant e McKinley), lo sviluppo del potenziale navale degli Usa (Roosevelt), il consolidamento del piano di sviluppo e modernizzazione post-seconda guerra mondiale (Eisenhower). Negli ultimi decenni la loro agenda si è molto spostata sulla partita fiscale e sulla riduzione delle imposte a cittadini e imprese, oscillando invece tra interventismo e isolazionismo in politica estera.

Le correnti del partito

L’ascesa di Trump ha sicuramente scompignato le carte nel Partito Repubblicano, inserendosi trasversalmente a diverse correnti politiche presenti nella formazione conservatrice. Diverse linee di tendenza sono però ancora riconoscibili.

Le presidenze di Barack Obama e l’opposizione repubblicana all’agenda del primo capo di Stato afroamericano della storia Usa ha reso trasversale a tutte le correnti la difesa dell’idea che il libero mercato, la libertà d’impresa e la deregolazione siano gli unici fondamenti per un’autentica prosperità. Esse sono interpretate in senso nazional-liberista dai trumpiani, favorevoli a un mix di sostegni fiscali e investimenti interni, che però combattono soprattutto sul fronte del contrasto al politicamente corretto, all’immigrazione e al declino dell’identità americana le loro battaglie politiche, saldandosi in particolar modo con i paleoconservatori e i membri della destra interna del partito.

I neoconservatori sono oggigiorno presenti in frange minoritarie nel partito dopo la loro parabola nelle amministrazioni di Bush junior. Sono a favore di una politica estera interventista, comprendendo anche l’azione militare preventiva contro precise nazioni nemiche in alcune circostanze, e sono iper-liberisti sul fronte economico.

Il “correntone” centrale dei Repubblicani più tradizionali unisce figure aperte a un moderato conservatorismo sociale e a una fiscalità favorevole, così come politici che non temono aperture in senso di battaglie ritenute eccessivamente sbilanciate sul fronte progressista, come quella amibentale.

Oggigiorno minoritaria è l’ala dei Repubblicani progressisti, vera e propria “Sinistra” interna del partito che in passato ha visto esponenti di peso come il sindaco di New York Fiorello La Guardia e l’ex vicepresidente Nelson Rockfeller. Di recente in seno ad essi sono spiccati un nuovo sindaco di New York, Michael Bloomberg (poi divenuto indipendente) e l’ex governatore della California Arnold Schwarzenegger. Essi da una parte sono conservatori o moderati fiscalmente, ma sono anche a favore dell’aborto, dei diritti dei gay, del controllo delle armi e contro la pena di morte.

Da non sottovalutare anche l’ala dei Libertari. Un vero e proprio fenomeno tutto americano, quello dei Libertari unisce politici iper-liberisti, fautori dell’individualismo, del libero porto d’armi e del governo minimo, ma comprende anche i più feroci avversori di tutte le politiche di interventismo estero degli Usa. Attualmente, l’esponente più coerente di questa corrente è il Senatore del Kentucky, Rand Paul, figlio dell’ex deputato Ron Paul, suo leader storico, a lungo sentitosi a casa nel Partito Repubblicano. Le cui trasformazioni sono state, spesso, immagine di quelle dell’America.

Che cos’è il Partito Democratico americano. "Ora sono il partito dell'odio". Musk silura i dem americani. Marco Leardi il 19 Maggio 2022 su Il Giornale.

Elon Musk volta e spalle ai democratici americani, di cui era stato sostenitore. "Ora sono il partito della divisione e dell'odio, voterò repubblicano", ha scritto il magnate in un tweet.

"Ora sono il partito della divisione e dell'odio". Elon Musk volta le spalle ai democratici americani e anzi, li rinnega proprio. Il miliardario della Silicon Valley, un tempo sostenitore della sinistra dem a stelle e strisce, ora ha cambiato idea: lo ha riferito lui stesso, con parole che risuonano come uno schiaffo alla compagine politica guidata da Joe Biden. In un tweet pubblicato nelle scorse ore, il fondatore di Tesla si è inserito a modo suo nel dibattito in vista delle elezioni di midterm e lo ha fatto lanciandosi in un endorsement per i repubblicani.

"In passato ho votato democratico, perché erano (soprattutto) il partito della gentilezza. Ma sono diventati il partito della divisione e dell'odio, quindi non posso più sostenerli e voterò repubblicano. Ora guarda la loro campagna di trucchi sporchi contro di me", ha twittato Elon Musk, riuscendo ancora una volta ad attirare l'attenzione su di sé. Già nella mattinata di ieri l'imprenditore, durante un podcast, aveva espresso le proprie intenzioni di voto in riferimento alle elezioni di metà mandato che costituiranno una vera e propria prova del fuoco per l'attuale presidenza americana.

Che il milionario sudafricano non sopportasse più le contraddizioni e le mosse politiche della sinistra statunitense era ormai chiaro, così come era evidente la reciprocità di questi attriti. Nelle scorse settimane, quando Musk si era lanciato alla conquista di Twitter, erano stati soprattutto i democratici a manifestare critiche e contrarietà alla mossa. "Questo accordo è pericoloso per la nostra democrazia", aveveva accusato la senatrice democratica Elizabeth Warren, auspicando l'introduzione di "una tassa sui ricchi e di regole più stringenti affinché Big Tech sia responsabile". Affermazioni che certo non potevano lasciare in silenzio il diretto interessato.

Già in passato, il magnate di Tesla e SpaceX aveva assicurato su Twitter che "gli attacchi politici" nei suoi confronti sarebbero aumentati "a dismisura nei mesi a venire". E lo stesso Elon non aveva fatto nulla per evitarli. Anzi. Pochi giorni fa, l'imprenditore aveva aperto al ritorno di Donald Trump sulla popolare piattaforma, facendo infuriare ancora di più la sinitra (in questo caso globale) e i sostenitori del politicamente corretto via social. Ma la battaglia, su quel fronte, sembra essersi arenata.

Musk ha infatti dichiarato la momentanea sospensione del suo accordo per l'acquisizione di Twitter. Prima di finalizzare l'affare (per un valore di 44miliardi di dollari offerti), il fondatore di Tesla ha infatti chiesto chiarimenti sul reale numero di utenti falsi presenti sulla piattaforma. Secondo alcune stime meno del 5%, secondo Elon molti di più: circa il 20%. Una cifra che potrebbe cambiare le carte in tavola nella valutazione del reale valore della società.

Sintesi dell’articolo di Chiara Currò Dossi per Corriere dell'Alto Adige pubblicata da “la Verità” il 30 settembre 2022.

L'ex presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha chiesto oltre 1 milione di euro, per se e il suo staff, per partecipare come relatore ai Sustainability Days a Bolzano, svoltisi dal 6 al 9 settembre scorsi. La clamorosa richiesta è emersa nella polemica scoppiata sui compensi stellari (fino a 22.000 euro ciascuno) erogati ai relatori dell'evento, che è costato complessivamente 2,4 milioni di euro pubblici, dei quali 131.075 sono andati a chi ha preso la parola.

La Provincia autonoma ha difeso la scelta: «Le tariffe le hanno fissate gli ospiti», ha spiegato Klaus Egger, incaricato speciale per la sostenibilità della Provincia autonoma, «e dal momento che rientravano nel budget abbiamo accettato. A Obama invece abbiamo detto no». Franz Ploner, consigliere provinciale del gruppo Team K, ha annunciato un esposto alla Corte dei conti: la giunta avrebbe finanziato uno show politico e la propria campagna elettorale con i soldi dei contribuenti.

La guerra segreta tra Obama e Biden che ha spaccato i dem. Alberto Bellotto su Il Giornale l'11 settembre 2022.

Primavera 2021, l’amministrazione di Joe Biden è insediata solo da qualche mese. Il neo presidente e il suo team godono di una certa benevolenza dei media. La raffica di ordini esecutivi dà la sensazione che il vento sia cambiato alla Casa Bianca. La campagna vaccinale viaggia a gonfie vele e anche al Congresso Biden porta a casa vittorie bipartisan significative. Giornali e giornalisti parlano addirittura del nuovo Franklin Delano Roosevelt o del nuovo Lyndon Johnson. In quel contesto, il presidente si lascia andare a un commento tagliente registrato da un membro del suo staff: “Sono sicuro che Barack [Obama] non sia contento della copertura mediatica riservata a questa amministrazione dipinta come più incisiva della sua”.

Il retroscena è stato raccolto qualche mese fa in un libro di due giornalisti del New York Times e di fatto manda in frantumi l’immagine idilliaca del tandem Obama-Biden. Sempre nella primavera del 2021, la speaker della camera Nancy Pelosi si lascia andare a un altro commento acido parlando con un’amica: “Obama? È geloso di Biden”.

Retroscena, voci, indiscrezioni uscite nella stampa e smentite in più di un'occasione. Ma in realtà altre decine di fonti hanno confermato che tra i due non tutto è rosa e fiori. Ad aprile, ospite alla Casa Bianca, Obama ha tenuto un breve discorso aprendo con una fase: “Grazie, vice presidente Biden”. L’interessato ha risposto con una risata e un saluto. Poi lo stesso Obama ha confermato che si trattava di una battuta già decisa. Ma la boutade non è andata giù allo staff del presidente.

Certo l’amicizia tra i due è reale e la stima reciproca non è mai mancata. Alla fine degli otto anni al potere, il presidente ha omaggiato il suo vice con una medaglia della libertà, massima onorificenza della Casa Bianca. Eppure, notano i retroscenisti della stampa americana, la famosa “bromance” tra i due (parola inglese che indica una specie di profondo amore fraterno) sarebbe solo un’esagerazione di giornali e social network.

La guerra degli staff

Se l’amicizia genuina non è in discussione, non va dimenticata la profonda differenza tra i due. Separati sul piano generazionale con una differenza di età che sfiora i 20 anni, si trovano agli antipodi per quanto riguarda i background culturali e politici. Biden ha servito come senatore per 36 anni, Obama solo per due. Il primo, incline alle gaffe, è un comunicatore di cuore che spesso non rispetta copioni e protocolli, il secondo, figlio di Harvard, è abile nei discorsi e profondo pensatore.

Negli anni dell’amministrazione Obama si sono poi create non poche frizioni tra i rispettivi staff, con ruggini che si trascinano fino ad oggi. L’ultimo fronte di tensione tra i due cerchi magici riguarda proprio il modo in cui la macchina di Biden promuove l’agenda del presidente. I lealisti di Obama, ha scritto il Washington Post, sono frustrati e irritati dal fatto che membri dell’attuale Casa Bianca vadano a dire alla stampa di come la nuova amministrazione stia evitando gli stessi errori di quella di Obama, in particolare sul modo di pubblicizzare le riforme fatte.

Lo stesso Biden nel marzo di un anno fa si è lasciato andare a un commento critico contro la sua ex amministrazione e cioè che Obama era stato troppo modesto nel promuovere il pacchetto di aiuti varato nel 2009 per la crisi finanziaria e che questo era costato caro ai democratici alle elezioni i metà mandato del 2010. Lo staff di Biden, al contrario, mal digerisce la supponenza degli obamiani, che ritengono inutile un simile tour, come a voler criticare il progetto autunnale di Biden che mira a promuovere l’agenda della sua Casa Bianca in vista del voto di novembre.

Questa guerra invisibile fatta di mezze frasi, rivelazioni ai giornali e battute ha visto una serie di battaglie che partono da lontano. Nel 2008, nel pieno delle primarie dem che avrebbero poi incoronato Obama, Biden si lascia sfuggire un commento tagliente sul senatore dell’Illinois: “Abbiamo”; disse, “il primo afroamericano mainstream capace, brillante, pulito e di bell’aspetto”. Monta brevemente una polemica, Biden si scusa e qualche mese dopo Obama lo sceglie come vice, troppo importante il suo apporto di voti nel Midwest bianco e operaio. Ma da quel momento una parte dello staff di Obama lo ha messo nel mirino.

Biden dal canto suo ha continuato a essere se stesso per tutto il suo mandato, di fatto mettendo in difficoltà l’amministrazione tra gaffe e balzi in avanti. Eclatante il caso del 2012: Obama ha appena lanciato la campagna per la rielezione e ha quindi un atteggiamento cauto su molti temi. Qualche giorno dopo Biden rilascia un’intervista in cui si definisce favorevole alle unioni gay, di fatto costringendo Obama e l’amministrazione a prendere posizione.

Lo strappo tra i due

Negli anni gli sgarbi contro Biden e il suo staff non sono mancati e il cerchio magico dell’attuale presidente ha annotato tutto. Già nel 2012, quando Obama ottiene il secondo mandato, qualcuno nel cerchio magico del primo presidente vuole eliminare Biden dal ticket presidenziale. Ma la vera rottura tra i due si consuma tra il 2015 e il 2016. Lo racconta molto bene un altro retoscenista, il giornalista del New York Magazine Gabriel Debenedetti, che sull’unione imperfetta tra i due ha scritto un libro.

Novembre 2016, Trump ha appena battuto Hillary Clinton e Joe Biden ribolle di rabbia. Non solo per la vittoria del tycoon, ma anche perché è convinto che solo lui sarebbe stato in grado di fermare i repubblicani. È arrabbiato anche perché è stato lo stesso presciente uscente, Obama, a impedirgli di correre.

Nell’autunno del 2015, poco prima dell'inizio della stagione delle primarie, infatti, Obama aveva inviato due consiglieri senior della sua amministrazione da Biden con il compito di dissuaderlo dal correre per la nomination democratica, di fatto aprendo la strada all'appoggio del suo amico-presidente a Hillary Clinton. Una mossa, ha raccontato Debenedetti a Politico, che spinge Biden a prenderla sul personale.

La vendetta di Biden contro Obama e il suo staff si abbatte così su Clinton. Il senatore del Delaware decide di incontrare Bernie Sanders e offrirgli qualche consiglio in vista delle primarie. Alla fine la nomination va comunque alla ex Segretaria di Stato, ma dopo una lunga ed estenuate campagna elettorale che ha finito col rendere mainstream una figura secondaria come il socialista del Vermont.

La lunga strada verso il 2020

Persino nel 2020, l’anno del grande scontro con Donald Trump, Obama e soprattutto il suo entourage, si sono mostrati freddi sulla candidatura di Biden. Per diverso tempo l’ex presidente ha tardato a dare la benedizione all’amico, aspettando quattro mesi dall’inizio delle primarie per il suo appoggio ufficiale. Lo stesso Obama avrebbe confidato ad amici e consiglieri di non ritenere adeguato Biden per vincere nei primi Stati delle primarie, come il New Hampshire e l'Ohio, che infatti hanno registrato l'exploit di Bernie Sanders e Pete Buttigieg. Paradossalmente la campagna di Biden è poi decollata in Sud Carolina grazie al voto afroamericano spinto dall'amicizia con Obama.

Le tensioni tra lo staff di Biden e i lealisti di Obama non si sono appianate nemmeno dopo la vittoria contro The Donald, in particolare per la diffidenza dei primi. Se è vero che per costruire la sua squadra ha pescato da funzionari dell’era Obama, è anche vero che diversi consiglieri non sono stati visti di buon occhio proprio perché saliti sul carro del vincitore all’ultimo minuto.

In più, molti dei fedelissimi di Biden mal sopportano le prime letture fatte dopo il voto del 2020, quando la vittoria viene vista come una sorta di restaurazione di Obama, immagine che lo stesso presidente ha cercato di cancellare. Questo perché al di là dell’amicizia, tra i due esiste una normale rivalità politica che coinvolge tutti i presidenti, quella per la memoria collettiva. Obama doveva essere il presidente che portava l’America nel futuro. Biden, paradossalmente, si è mostrato ancora più ambizioso: essere il presidente che la riunifica e risana i malesseri sociali dopo il ciclone Trump. Due eredità diverse e a tratti in conflitto.

DAGONEWS il 7 aprile 2022.

Joe Biden è stato ripreso mentre veniva ignorato da staff e colleghi mentre una folla delirante si accalcava intorno a Barack Obama durante il primo invito alla Casa Bianca dell’ex presidente da quando ha lasciato l’incarico. 

Nelle immagini si vede un gruppetto di persone che porge le mani e tenta di parlare con l’ex presidente mentre il povero “Sleepy Joe” vaga con sguardo perso e l’aria confusa, allargando le braccia e mostrando la sua esasperazione.

Suoi social la scena non è certo passata inosservata: «Credo che sappiamo chi comanda davvero la Casa Bianca e non è Joe!» è uno dei tanti messaggi postati in rete. Una serie di prese per i fondelli che hanno costretto Obama, alla Casa Bianca per celebrare il 12° anniversario del lancio dell'Affordable Care Act, a intervenire per tentare di nobilitare Biden: «È sempre bello ritrovarsi con @Potus. Grazie per tutto quello che stai facendo per aiutare un numero ancora maggiore di americani ad avere accesso a un'assistenza sanitaria di qualità e conveniente».

Kamala Harris, impopolare vice del presidente meno amato. Stefano Magni su Inside Over l'8 aprile 2022.

Secondo indiscrezioni raccolte da due giornalisti del New York Times, Jill Biden, futura first lady, non avrebbe affatto visto di buon occhio la cooptazione di Kamala Harris nel ticket presidenziale. Su una cosa erano tutti d’accordo: la candidata vicepresidente doveva essere una donna di colore, esattamente lo stesso criterio di scelta adottato, anche in queste settimane, per la nuova nomina alla Corte Suprema. Ma Kamala Harris era invisa alla moglie del candidato Biden, perché lo aveva sfidato nelle primarie del Partito Democratico, dove lo aveva anche indirettamente accusato di razzismo. “Ci sono milioni di persone negli Stati Uniti, perché dobbiamo scegliere proprio una che ha criticato Joe?” Già perché? Mai scelta si è rivelata più controproducente, come dimostrano le dimissioni a raffica nello staff della vicepresidente. Che sta continuando a collezionare gaffe, anche in tempo delle peggior crisi di politica estera degli ultimi vent’anni.

Ora che le elezioni sono acqua passata, queste piccole/grandi controversie emergono nel libro This Will Not Pass: Trump, Biden and the Battle for America’ s Future di Jonathan Martin e Alexander Burns. La scelta della Harris, oltre che per il sesso e il colore della pelle, venne fatta proprio per ricucire il partito dopo una facile vittoria di Biden nelle elezioni primarie del 2020. Una candidata della sinistra del partito, attenta al problema degli immigrati, ex ministro della giustizia della California (dunque anche Silicon Valley e Big Tech): è stata una scelta strategica, indubbiamente. Ma non ha pagato. La prima controversia ha riguardato la sua incredibile assenza, nel pieno della crisi degli immigrati illegali dal Messico, il più alto numero di ingressi dal 1960. Nel suo viaggio di Stato in Guatemala e in Messico aveva stupito tutti per aver detto agli aspiranti emigranti di “non venire”, dopo una campagna elettorale tutta improntata sull’accoglienza ed anni di polemica con l’amministrazione Trump proprio sull’immigrazione.

Poi sono arrivate le risate. La prima sull’Afghanistan, nel pieno della ritirata americana, quando una giornalista le stava chiedendo cosa avrebbe fatto l’amministrazione per gli americani rimasti intrappolati nel Paese. La seconda, stesso identico errore, provocata probabilmente da uno scambio di battute e di sguardi con il presidente polacco Andrzej Duda, ma proprio mentre una giornalista le chiedeva cosa avrebbero fatto gli Stati Uniti per accogliere i profughi di guerra ucraini. I fact checkers si sono messi subito al lavoro per dimostrare che (come nel caso precedente) la Harris non aveva riso a causa della domanda. Si è però trattato di un tempismo sbagliato. Nessun problema se si parlasse di una persona qualunque, ma una vicepresidente non se lo può permettere.

I risultati sono sotto gli occhi di tutti. La debolezza dell’amministrazione Biden si traduce in una sempre minore popolarità. Il presidente, dopo aver goduto di un tasso di approvazione stabilmente superiore al 50% fino alla primavera del 2021, oggi sta letteralmente affondando. Un calo costante, che continua, nonostante la guerra in Ucraina, una crisi in cui gli Usa sono coinvolti (benché non siano partecipi direttamente) e che, con un altro presidente, avrebbe probabilmente consolidato il consenso attorno al comandante in capo. Ora 7 americani su 10 non approvano Biden, secondo un sondaggio commissionato dalla Nbc, che pure è un network tutt’altro che di sinistra.

Non si tratta neppure dell’impopolarità della guerra in sé, né della scelta del presidente democratico ad aver deciso di appoggiare apertamente la causa dell’Ucraina. Nello stesso sondaggio Nbc, infatti, il 67% degli intervistati esprime un parere positivo su Volodymyr Zelensky e appena l’1% dice di avere un buon concetto di Vladimir Putin, il 51% ha un’idea positiva della Nato contro solo il 14% negativa.

È dunque proprio l’amministrazione Biden in sé a risultare altamente impopolare. Il sondaggio Nbc è confermato dalla media dei rilevamenti effettuata da Real Clear Politics: 42,9% favorevoli contro il 51,9% sfavorevoli. E a trainare questa tendenza negativa c’è sicuramente Kamala Harris: sulla vicepresidente, solo il 37,7% si dice a favore del suo operato contro il 52,1% di sfavorevoli. Tutti numeri su cui i Democratici dovranno riflettere bene, prima delle elezioni di Medio Termine che si terranno a novembre.

Andrea Muratore su Inside Over il 6 gennaio 2022. Il Partito Democratico americano vanta quasi duecento anni di storia e, essendo in attività dal 1828, può definirsi come la formazione politica oggigiorno più antica al mondo. La formazione dell’attuale presidente Joe Biden e della vicepresidente Kamala Harris ha alle spalle una lunga storia che l’ha vista attraversare, nella sua lunga storia, l’intero arco politico negli Stati Uniti. Dalle origini come formazione conservatrice, attenta alla difesa dello schiavismo negli Stati del Sud e segregazionista, il Partito Democratico è poi diventato il contenitore politico artefice del New Deal, della svolta dei diritti civili, infine del multiculturalismo. La sua storia, assieme a quella del Partito Repubblicano, racconta due secoli di evoluzione degli States.

Una storia articolata

Il Partito Democratico è il diretto erede del dallo storico Partito Democratico-Repubblicano fondato da Thomas Jefferson nel 1792 come espressione dei piccoli proprietari degli Stati del Sud, ostili al centralismo predicato dalle ex colonie britanniche del New England in senso federalista.

Dal 1800 al 1824 Jefferson, James Madison e James Monroe furono eletti alla presidenza come espressione di questa formazione, che fu la principale portavoce dell’ideologia dell’espansione a Ovest e dell’accrescimento dimensionale dell’Unione, al cui dilatarsi iniziarono a esprimersi diverse posizioni politiche. Fu l’ascesa del primo presidente populista, Andrew Jackson, a sancire la scissione tra il Partito Democratico e una serie di formazioni minori tra cui si sarebbe distinto, in seguito, il Partito Whig, espressione della borghesia finanziaria del Nord da cui nel 1854 sarebbe emerso il Partito Repubblicano.

All’elezione di Abrahm Lincoln, repubblicano, avvenuta nel 1860, la principale divisione tra Repubblicani e Democratici era palese: i Repubblicani, oggi definibili “a sinistra” dello spettro politico, erano a favore del protezionismo, della crescita industriale, degli investimenti interni, del superamento della schiavitù; i Democratici, invece, difendevano il latifondo agrario e la schiavitù, guidando la secessione e dando fuoco alle polveri della Guerra Civile tra il 1861 e il 1865.

Dopo l’assassinio di Lincoln, a livello nazionale la politica americana fu monopolizzata dai Repubblicani, che sospesero temporaneamente dall’Unione alcuni Stati meridionali e ammisero al voto gli ex schiavi afroamericani, per cui il Partito Democratico fu per qualche tempo fuori gioco. In cambio, però, il partito potè consolidare le sue roccaforti negli Stati segregazionisti del Sud; sarebbe stato Grover Cleveland ad aggiungere, a conquista della frontiera in via di completamento, frange di proletariato urbano, di immigrati cattolici e esponenti della piccola imprenditoria al blocco elettorale democratico, consentendo ai Democratici la riconquista della Casa Bianca nel 1884.

Iniziò l’inesorabile spostamento al centro prima e a sinistra poi del partito: dapprima con la forma populista di William Bryan e in seguito con quella istituzionale di Woodrow Wilson, i democratici tra fine Ottocento e inizio Novecento coniugarono conservatorismo identitario, frange crescenti di progressismo sociale e internazionalismo, mentre i Repubblicani erano più conservatori sul piano sociale e isolazionisti.

Anche il più progressista Franklin Delano Roosevelt poté costruire il New Deal puntando sull’alleanza con le classi conservatrici. Roosevelt seppe iniziare a far sfondare i Dem nel nuovo elettorato afroamericano con le sue politiche economiche keynesiane e a partire dal Secondo dopoguerra iniziò a cambiare la coalizione sociale con l’uscita dei Democratici sudisti dal partito. In genere, gli abitanti bianchi del Sud continuarono a votare per i Democratici nelle elezioni locali e in quelle per il Congresso (in cui molti Democratici sudisti erano conservatori), ma ad abbandonare il partito o a favore dei Repubblicani o di candidati del Sud indipendenti alle elezioni presidenziali.

Nella Guerra Fredda i democratici furono il partito del più ferreo anticomunismo (con John Fitzgerald Kennedy) e del progetto della great society; con Lyndon Johnson promossero l’apertura delle prime misure di sanità pubblica e chiusero il cerchio promuovendo la legge sui diritti civili. L’ascesa della questione ambientalista e del progressismo liberal a favore delle minoranze a partire dalla metà degli Anni Settanta ha definitivamente fatto transitare nel centro-sinistra i democratici, divenuti infine il partito-sponsor della globalizzazione neoliberista con Bill Clinton e del tentativo di governarla dopo i disastri delle guerre afghane e irachene e la crisi finanziaria del 2007-2008 prima (presidenze di Barack Obama) e la tempesta pandemica da Covid-19 poi (attuale presidenza Biden).

I presidenti democratici

Diversi presidenti democratici tra i quindici che il partito ha eletto nel corso degli utlimi due secoli hanno segnato profondamente la storia degli Usa.

Andrew Jackson fu presidente dal 1828 al 1836. Da capo dello Stato lanciò una profonda operazione di democratizzazione delle strutture politiche statunitensi, precedentemente dominate dalle ristrette oligarchie terriere del Sud e da quelle finanziarie del Nord. Andando spesso anche contro l’interesse dei suoi referenti al Sud, tentò di aumentare la centralizzazione politica offrendo, in cambio, spazio alle correnti più libertarie abolendo la Bank of United States, antesignana della Federal Reserve; durante il suo mandato furono progressivamente abolite le restrizioni di voto e introdotto il voto segreto; molte cariche pubbliche, statali e locali, divennero elettive; si intensificarono infine le campagne contro gli Indiani d’America.

Nella Grande Guerra il presidente che condusse alla vittoria fu Woodrow Wilson, alfiere di un interventismo “missionario” che echeggiava il sostegno del suo partito al destino manifesto quale ideologia di espansione di Washington. Wilson del resto fu un convintissimo sudista che fece però passare leggi progressiste, come quella sull’antimonopolio e la riforma costituzionale che diede il voto alle donne, senza tuttavia promuovere i diritti degli afroamericani, al contrario sostenendo e promuovendo la segregazione razziale come gli altri Democratici suoi coevi.

Franklin Delano Roosevelt si impegnò per superare l’estasi liberista dei governi repubblicani degli Anni Venti che condusse alla Grande Depressione. Fautore di politiche di intervento pubblico molto massicce il governo del presidente democratico potè superare veramente la Grande Depressione solo con l’effetto leva garantito dallo scoppio della Seconda guerra mondiale e dal compattamento del Paese nel regime di economia bellica. Il sostegno di figure come padre Charles Couglin, il radio-predicatore nemico di Wall Street, alla sua figura, è sintomatico di un’evoluzione sociale avvenuta nella base elettorale dei dem, sempre meno elitisti, durante i suoi lunghi mandati.

John Kennedy tradusse definitivamente in realtà questi propositi e inaugurò un’apertura dei dem verso la conquista della maggioranza dell’elettorato delle minoranze. Questo avrebbe portato, infine, i dem a essere il primo partito capace di eleggere un afroamericano, Barack Obama, alla Casa Bianca, nel 2008. Kennedy e l’attuale inquilino della Casa Bianca, Joe Biden, sono altresì gli unici cattolici eletti presidenti nella storia americana.

Le correnti attuali

Oggigiorno il Partito Democratico è una formazione liberal-progressista con correnti interne estremamente diversificate a seconda delle basi politiche e territoriali di riferimento.

Scomparsa la corrente dei Democratici del Sud passata nei Repubblicani, esiste tuttavia una fascia di centristi, liberali in politica economica e più conservatori della media del partito sui diritti civili, che consentono ai dem di presidiare fasce di elettorato a lungo ostili negli ultimi decenni: un esempio classico è Joe Manchin, Senatore dello Stato della West Virginia.

Negli ultimi anni sta prendendo piede la corrende dei Progressive Democrats, esponenti della sinistra interna e aperti alla lotta ai monopoli finanziari e tecnologici, alla sanità universale, alla democratizzazione del sistema politico, a un welfare all’Europea e a tutte le battaglie proprie della cultura liberal predominante tra gli studenti e la nuova borghesia urbana. L’esponente tipico di questa corrente è stato, negli ultimi anni, il Senatore del Vermont Bernie Sanders.

Relativamente maggioritaria resta, comunque, la corrente dei Democratici Centristi, così chiamati in quanto non si professano propriamente di sinistra e si rifanno piuttosto al centrismo liberale e alla terza via di ispirazione blairiana. Tra questi vi sono importanti personaggi quali i presidenti Bill Clinton, Barack Obama e Joe Biden. Essi rappresentano l’ossatura del partito e di parte della classe dirigente americana. I maggiori custodi di una lunga storia che deve sempre essere mediata con le spinte provenienti dall’esterno. Come del resto Biden ha ben dovuto comprendere, bilanciandosi tra pressioni dei radicali e mediazioni con i conservatori, fin dai primi giorni del suo mandato.

Giuseppe Sarcina per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.  

Basta incroci sospetti tra Congresso e Wall Street. Dentro e fuori il Parlamento americano sta crescendo una corrente per stroncare potenziali conflitti di interesse e l'insider trading. 

La senatrice Kirsten Gillibrand e la deputata californiana Katie Porter, tutte e due democratiche, propongono di vietare ai parlamentari l'acquisto e la vendita di titoli in Borsa.

Ci sono altre proposte simili, come quella avanzata da Elizabeth Warren, senatrice e punto di riferimento dei democratici radical. 

Per mesi la Speaker Nancy Pelosi si è opposta, sostenendo che anche i deputati avessero il diritto «di operare sul mercato» come tutti gli altri cittadini. Ma mercoledì 9 febbraio ha ceduto alle pressioni, chiedendo che i vincoli siano estesi anche ai nove giudici della Corte Suprema. 

Gillibrand è stata la promotrice dello «Stop trading on Congressional Knowledge», lo «Stock Act», varato nel 2012. 

E' un provvedimento anti-insider trading, poiché proibisce a senatori e deputati di utilizzare informazioni non ancora pubbliche per orientare i propri investimenti finanziari. Lo «Stock Act», però, non è bastato per arginare il fenomeno. Secondo i dati raccolti dal sito Insider, circa un quinto dei parlamentari, 129 su 535, non ha rispettato in pieno le regole.

Nell'elenco figurano nomi noti come la senatrice democratica Dianne Feinstein (California) e il senatore repubblicano Tommy Tuberville (Alabama). Il problema, però, è molto più ampio. 

Al di là dell'insider trading si estende la vasta e sfuggente materia dei potenziali conflitti di interesse. La stessa Pelosi è al centro di polemiche ricorrenti per il trading azionario curato dal marito Paul Pelosi.

Bisognerà vedere, dunque, se alla fine la nuova legge estenderà il divieto di giocare in Borsa anche ai familiari dei politici. In ogni caso è interessante esaminare la composizione del portafoglio della Speaker, così come risulta dalle dichiarazioni ufficiali, elaborate dal sito «Open Secrets».

I dati si riferiscono al 2018. La ricchezza totale di Pelosi è pari a 114 milioni di dollari che comprendono 68 milioni in asset finanziari di varia natura. Tra i titoli spiccano Apple (con un valore tra i 5 e 25 milioni di dollari); Visa (5-25 milioni); Walt Disney (1- 5 milioni); Salesforce (1-5 milioni); Facebook (500 mila-1 milione); Amazon (500 mila-1 milione). L'attività di quasi tutte queste società sono condizionate dalle scelte del Congresso. 

Inoltre i lobbisti di Apple, di Facebook e di altri sono in costante contatto con lo staff dei parlamentari. E' facile immaginare, anche se difficile da provare, il possibile corto circuito tra politica e interessi personali. Senza contare che quasi tutte le imprese finanziano apertamente deputati e senatori. Naturalmente il caso Pelosi non è l'unico. Nel grafico qui accanto riportiamo gli esempi più vistosi. Il senatore democratico Mark Warner ha investito in Citibank e Wells Fargo. La senatrice Feinstein in Alphabet (Google),Visa e Carlton Hotel. Il deputato repubblicano Vern Buchanan ha puntato sulle finanziarie Bny Mellon e Vangard, nonché su Morgan Stanley. E così via.

(ANSA il 30 maggio 2022) - Il marito della speaker della camera negli Usa Nancy Pelosi, Paul Pelosi, è stato arrestato in California per guida in stato di ebbrezza. Lo riporta il sito Tmz, sottolineando che Paul Pelosi è stato arrestato poco prima della mezzanotte nella contea di Napa. La cauzione per il suo rilascio è stata fissata a 5.000 dollari.

La speaker della Camera non era con il marito al momento dell'arresto. "La Speaker non commenta fatti privati, che sono accaduti mentre lei era sulla costa orientale" degli Stati Uniti, fa sapere un portavoce. Paul Pelosi, 82 anni, è infatti stato arrestato in California. Nancy Pelosi invece è intervenuta oggi alla Brown University, a Rhode Island. Nancy Pelosi e il marito sono sposati dal 1963 dopo essere incontrati alla Georgetown University.

(ANSA il 25 agosto 2022) - Cinque di giorni di carcere e tre anni di libertà vigilata. E' la condanna inflitta a Paul Pelosi, il marito della potente Speaker della Camera Nancy Pelosi, per un incidente automobilistico mentre era ubriaco. Dei cinque giorni dietro le sbarre Pelosi ne ha già scontati due e altri due gli sono stati condonati.

Il giorno restante lo trascorrerà a un corso in tribunale. Il marito della Speaker - che si è dichiarato colpevole di uno dei capi di accusa mossi nei suoi confronti per ridurre al minimo il carcere - dovrà anche pagare multe per 1.700 dollari, sottoporsi a un corso per guida in stato di ebbrezza e installare sul suo veicolo un dispositivo per il controllo del tasso alcolico che, se risulterà superiore ai limiti, impedirà l'avvio del motore. 

Con la sentenza è stato diffuso il video dell'incidente del 28 maggio nella Napa Valley, in California, mentre la moglie era sull'altra costa del Paese, a Rhode Island. L'82enne era a bordo della Porsche quando, tentando di attraversare la SR-29, si è scontrato con una Jeep. Al di là di qualche graffio, Pelosi è uscito illeso dall'incidente così come il guidatore dell'altro veicolo.

Il video girato dalle telecamere della polizia mostra Pelosi definirsi agli agenti come una "personalità di alto profilo" e consegnare loro la patente e il tesserino della '11-99 Foundation', associazione di beneficienza che offre assistenza agli agenti stradali della California e aiuti in termini di finanziamenti scolastici ai loro figli. I poliziotti lo rassicurano sul fatto di non volergli creare problemi: "Se ci ha raccontato la verità, non ha nulla da temere", dice uno degli agenti. Pelosi, i cui test hanno rivelato un tasso alcolico sopra la media, confessa di aver bevuto un bicchiere di champagne prima di cena intorno alle 19, e poi un bicchiere di vino.

Le immagini lo ritraggono nel tentativo di superare il test dell'alcol: ma incontra non poche difficoltà e agli agenti non sfugge. I due poliziotti parlano infatti di "oggettivi" segnali di ubriachezza: "Si deve appoggiare all'auto solo per restare in equilibrio", si sentono dire. Ma nonostante lo spavento, per Pelosi l'incidente si è tradotto solo in grattacapo momentaneo, senza implicazioni gravi né per lui né per la moglie.

DAGONEWS il 6 ottobre 2022.

La speaker della Camera Nancy Pelosi ha visto il suo patrimonio netto aumentare di 140 milioni di dollari dalla crisi finanziaria del 2008 “grazie in gran parte alle operazioni del marito in società che sono state sovvenzionate anche grazie al lavoro della Pelosi alla camera”. È quanto sostiene “The Washington free bacon” che ha fatto i conti in tasca alla speaker che, ora che ha un piede fuori dal Congresso, sta sostenendo una proposta che vieterebbe ai suoi colleghi di acquistare o vendere singole azioni.

Pelosi per anni è stata contraria alla proposta dicendo che lei e i suoi colleghi dovevano essere liberi di partecipare pienamente all'economia di libero mercato. Dopo aver respinto proposte simili, Pelosi ora ha cambiato idea. I leader democratici della Camera hanno presentato martedì scorso la legge sulla lotta ai conflitti di interesse finanziari nel governo, ma non sono riusciti a portare la misura al voto che è stato aggiornato a prima delle elezioni di medio termine.

Pelosi è stata perseguitata dalle accuse secondo cui suo marito, Paul Pelosi, commercia titoli sulla base di informazioni privilegiate raccolte grazie alla sua posizione al Congresso. A marzo, Paul Pelosi ha opzionato azioni Tesla per un valore di $ 5 milioni proprio mentre la moglie spingeva per sussidi per i veicoli elettrici. E a giugno, Paul Pelosi ha esercitato opzion call per acquistare fino a 5 milioni di dollari dal produttore di schede Nvidia poche settimane prima che la Camera considerasse un disegno di legge per fornire sussidi per oltre 50 miliardi di dollari ai produttori nazionali di semiconduttori.

Pelosi, ha dichiarato nel novembre 2020 dopo essere stata nominata per un quarto mandato come speaker, che avrebbe rinunciato al ruolo alla fine del 2022. Mentre a gennaio ha annunciato che si sarebbe candidata per la rielezione nel 2022, si vocifera che lascerà il Congresso se i repubblicani riprendessero la Camera nelle prossime elezioni di medio termine. Ecco perché, secondo i maligni, solo adesso sta portando avanti la proposta sul conflitto di interesse.

Chi è Nancy Pelosi. Andrea Muratore l'8 Agosto 2022 su Inside Over.

Nancy Pelosi è una figura centrale nell’attuale sistema di potere del Partito Democratico americano e una delle figure più in vista tra i membri della formazione del presidente Joe Biden. Oltre a esser stata, prima dell’ascesa alla vicepresidenza di Kamala Harris nel gennaio 2021, la donna a toccare le cariche più apicali nella politica Usa, unica nella storia americana a guidare da Speaker la Camera dei Rappresentanti (2007-2011 e dal 2019 ad oggi), è anche la figura di origini italoamericane arrivata ai ruoli di maggior prestigio nel sistema istituzionale a stelle e strisce.

Una lunga storia politica

L’attuale Speaker della Camera è nata come Nancy D’Alessandro a Baltimora, in Maryland, il 26 marzo 1940. Suo padre, Thomas D’Alessandro Jr. (1903-1987) era nato da genitori italiani emigrati da Montenerodomo, piccolo comune dell’area abruzzese del Sangro in provincia di Chieti. Sua madre, Annunziata Lombardi, era nata nel 1909 a Fornelli, in Molise, ed era arrivata in America coi genitori nel 1912.

La politica è stata una costante nella famiglia D’Alessandro. Thomas si conquistò nella città di residenza una grande fama come broker assicurativo, stimato per la sua onestà e competenza in un periodo storico in cui gravava ancora l’eredità del caos portato a inizio Anni Venti da Charles Ponzi, autore di una delle truffe più celebri della storia, nella vicina Boston. A partire da questa fama, iniziò per lui un importante cursus honorum politico: membro della Camera dei Delegati del Maryland (1926-1933), membro del Consiglio comunale di Baltimora (1933-1938), in seguito deputato a Washington (1938-1947) e, a coronamento della sua carriera, sindaco di Baltimora (1947-1959). Tutto questo all’interno del Partito Democratico che dopo la Grande Depressione dominò la politica americana con Franklin Delano Roosevelt e Henry S. Truman controllando la presidenza dal 1933 al 1953. Thomas d’Alessandro III, fratello maggiore della Pelosi, avrebbe seguito le orme paterne diventando a sua volta sindaco di Baltimora dal 1967 al 1971.

La giovane figlia di una delle famiglie più in vista di Baltimora si è formata tra le high school a Baltimora e il Trinity College di Washington, ove si è laureata in Scienze Politiche e ha conosciuto il futuro marito, Paul Pelosi, di cui ha assunto il cognome dopo essersi sposata nel 1963.

La politica è stata per Nancy Pelosi una professione costante: assistente allo studio del Senatore del Maryland Daniel Brewster subito dopo la laurea, è entrata nei ranghi del partito sostenendo le mosse del padre e del fratello prima di spostarsi, assieme al marito, in California. La scelta fu, col senno di poi, felice per entrambi: Paul Pelosi divenne un investitore esperto in società tecnologiche, detenendo quote in aziende come AT&T e Microsoft, mentre la moglie ebbe la possibilità di costruire una carriera politica di rango nazionale.

La decana della California al Congresso

La figura che più ha contribuito a lanciare in orbita la carriera di Nancy Pelosi è stata quella di Philip Burton (1926-1983), vero e proprio “guastatore” in un Partito Democratico che andava abbracciando in alcune sue frange posizioni radicali e critiche della tradizionale impostazione del sistema del partito dell’asinello. Dai tempi di Roosevelt, infatti, negli Stati del Sud i Democratici erano tradizionalmente conservatori sui temi civili in cambio del sostegno alle grandi politiche sociali e di welfare. Dai tempi di Lyndon Johnson questo iniziò a cambiare, ma fu soprattutto per l’operato di uomini come Burton che le istanze liberal e più spiccatamente progressiste iniziarono a farsi strada.

Nancy Pelosi si spostò a San Francisco dove Burton aveva il suo feudo elettorale nel seggio più centrale della città alla Camera dei Rappresentanti, detenuto dai democratici dal 1949 tanto da diventare quello controllato da più tempo in tutti gli Usa. Da amica, collaboratrice di ufficio e portavoce di Burton divenne centrale nelle sue battaglie e acquisì la fama di persona di spicco nella Sinistra dem. Alla morte di Burton, per un aneurisma, nel 1983, la moglie Sala gli successe per il controllo del seggio. E quando a sua volta Sala Burton morì, nel 1987, poco dopo la riconferma al Congresso, fu proprio Nancy Pelosi ad esser scelta per concorrere all’elezione speciale per il rinnovo del seggio. La Pelosi lo conquistò, lo confermò alle elezioni del 1988 e in seguito avrebbe vinto le elezioni nel distretto per altre sedici volte tra il 1990 e il 2020 tanto da diventare la deputata da più tempo in carica per la California.

La prima Speaker donna della storia Usa

Da deputata, Nancy Pelosi ha promosso una serie di politiche sempre coincidenti con la volontà di promuovere una visione aperta e progressista della società Usa, contribuendo a emergere tra i Democratici come una degli artefici della polarizzazione con il Partito Repubblicano a partire dagli Anni Novanta. Forte sostenitrice del diritto all’aborto, si è sempre scontrata fino alla scelta della Corte Suprema nel 2022 di abolire la Roe vs Wade con ogni proposta restrittiva in tal senso; a favore della legalizzazione dei migranti irregolari, ha anche criticato la guerra in Iraq e si è spesa per anni a favore degli investimenti in rinnovabili.

Più volte membro dello House Intelligence Committee, Pelosi non ha però dimenticato a più riprese di essere donna dell’establishment Usa. Ha, ad esempio, sostenuto in tal senso i programmi di sorveglianza di massa messi in campo dalle amministrazioni Bush ed Obama, pur criticando al contempo le tecniche di interrogatorio utilizzate a Guantanamo. Si è detta a favore della lotta alle disuguaglianze e alle fragilità del sistema sanitario, ma sul fronte economico è anche un’attenta sostenitrice della necessità di conseguire il pareggio di bilancio.

Questa sua capacità di mediare tra istanze personali e logiche di partito le ha, a più riprese, attratto critiche da ogni parte della formazione, ma insieme alla grande conoscenza dei regolamenti parlamentari e alla scelta di non lasciare mai la Camera per il Senato le ha permesso di fare strada. Nel 2001 divenne House Minority Whip, vice del capo dell’opposizione alla Camera Dick Gephardt, da lei sostituito nel 2002. Come Minority Whip e Minority Leader la Pelosi divenne la prima donna della storia Usa a detenere queste cariche, e dopo la vittoria democratica alle midterm del 2006 nel gennaio 2007 fu incoronata come prima Speaker donna della Camera dei Rappresentanti, ottenendo la terza carica per rilevanza nella politica Usa.

I mandati da Speaker

Ad oggi, entrambi i mandati da Speaker della Pelosi sono stati divisi tra presidenze repubblicane e presidenze democratiche. Tra il 2007 e il 2011, infatti, Pelosi ha visto l’avvicendamento tra George W. Bush e Barack Obama. Nel 2007 fu decisiva per bloccare l’impeachment al Presidente repubblicano per il caso delle dichiarazioni sulle armi di distruzione di massa in Iraq; negli anni successivi sarebbe invece stata molto favorevole alla riforma sanitaria targata Obama.

La svolta “barricadera” della Pelosi si è però manifestata quando nel 2019 è tornata alla carica di Speaker dopo 8 anni di egemonia repubblicana come donna di lungo corso negli apparati federali Usa diventando la contraltare del presidente Donald Trump, da lei avversato con tutta la forza che ha usato contro il tycoon repubblicano l’establishment liberal-progressista. Nancy Pelosi ha tentato due volte di colpire Trump con l’impeachment, lo ha definito una minaccia per la democrazia dopo i fatti di Capitol Hill, ha cavalcato la narrativa sul Russiagate, ha in ultima istanza contribuito all’ascesa di Biden utilizzando la carica come leva contro l’inquilino della Casa Bianca. A ottant’anni passati, nel 2021 con la nuova amministrazione Nancy Pelosi è giunta all’apice dell’influenza politica. Tanto da diventare una figura attiva anche sul piano internazionale: la controversa visita a Taiwan dell’estate 2022 ne ha segnato per la prima volta il ruolo di figura divisiva anche sul piano internazionale, l’ha vista interprete della rivalità tra Usa e Cina in nome dell’agenda dell’amministrazione. E nulla di diverso ci si poteva aspettare da colei che si può definire con ogni crisma la donna rivelatasi più influente nella storia politica Usa.

Mirko Molteni per "Libero quotidiano" il 13 gennaio 2022.  

In America, una proposta di legge per vietare non solo ai parlamentari del Congresso, ma anche ai loro famigliari, di fare affari sul mercato azionario approfittando dell'accesso a informazioni riservate, riporta l'attenzione sulle speculazioni del marito della speaker della Camera Nancy Pelosi, che avrebbero permesso alla famiglia di accumulare un patrimonio netto di 25 milioni di dollari. 

Ancora a 81 anni, Paul Pelosi ha fatto un nuovo colpaccio nel giugno 2021 con opzioni sul pacchetto di Alphabet Inc., solo uno dei colossi di cui la famiglia possiede quote, fra cui Micron Technology Inc., Roblox Corp., Salesforce.com Inc., Walt Disney Co. e Marriot International Inc.

Il divieto di lucrare sulle azioni profittando della propria posizione, che dà accesso a informazioni negate ai normali risparmiatori, è in vigore per i membri del Congresso dal 4 aprile 2012, quando fu firmato dal presidente Barack Obama il cosiddetto Stock Act. Esso però non si applica a coniugi o figli di deputati e senatori, come se in famiglia non si parlasse di ciò che bolle in pentola. 

La proposta d'estendere il divieto ai famigliari dei parlamentari USA è stata avanzata da un giovane senatore democratico della Georgia, il 34enne Thomas Jonathan Ossoff, detto "Jon", che cerca appoggi anche fra i Repubblicani per presentare una legge bipartisan. 

La Pelosi, toccata nel portafoglio, e forse indispettita dal sentirsi "scippata" di richiami etici da uno "sbarbato" del suo stesso partito, si è detta contraria, appannando l'immagine da "pasionaria" sfoderata in occasione dell'assalto della destra a Capitol Hill il 6 gennaio 2021 e del suo primo anniversario: «Siamo in un'economia del libero mercato e i coniugi non dovrebbero avere ostacoli, devono poter partecipare al mercato azionario».

Certo, non è l'unico caso, per esempio il senatore repubblicano Rand Paul ha ammesso che sua moglie ha comprato azioni di Gilead Sciences Inc., che produce farmaci anti-Covid. Ma spicca il contrasto ideale nel caso di Nancy, sempre pronta ad attaccare il miliardario Trump quasi fosse incarnazione della "barbarie".

 Massimo Gaggi per il "Corriere della Sera" il 14 gennaio 2022.  

Gli americani amano gli acronimi e BIPOC a Hollywood ora è il più gettonato. Sta per «black, indigenous and people of color», cioè neri, indigeni, gente di altri colori. La CBS ha deciso che dall'anno prossimo la metà dei suoi sceneggiatori e autori dovranno appartenere a queste minoranze etniche. Anche la ABC e gli altri studi cinematografici hanno codificato rigidi standard d'inclusione che, di fatto, emarginano molti sceneggiatori bianchi. 

Da più di un anno, poi, l'Academy of Motion Pictures, l'ente che governa gli Oscar, ha definito una serie di criteri - la piattaforma con acronimo RAISE che definisce standard di rappresentatività e inclusione - ai quali un film deve uniformarsi se vuole essere candidato al premio per la migliore produzione. 

Per anni la cancel culture - la campagna per l'eliminazione delle statue di personaggi invisi alle minoranze, come i generali confederati, esploratori come Cristoforo Colombo e gli stessi Padri della Patria, da Washington a Lincoln - è stata vissuta come un parto delle accademie liberal americane nelle quali docenti e studenti cancellavano colleghi e compagni «fuori linea». 

Ma è Hollywood che ha sempre avuto la capacità di anticipare (o produrre) i mutamenti socialmente più rilevanti. È appena scomparso Sidney Poitier che nel 1967 sul set di Indovina chi viene a cena aprì la strada ai matrimoni interrazziali. Anche stavolta sarà il mondo del cinema a definire i nuovi canoni sociali? Magari con una politica di inclusione delle minoranze etniche, delle donne e delle comunità gay talmente marcata da schiacciare i maschi bianchi?  

Molti di loro non protestano nel timore di essere cancellati definitivamente. Sono pochi ad avere la forza di denunciare. Come Quentin Tarantino: «Ideologia che uccide la creatività e l'arte». I neri che animano la cultura woke non negano gli eccessi ma li considerano una reazione legittima ai tanti anni di forzata subalternità. 

Ci sono agenzie che hanno creato database di donne, gay e neri registrati come sceneggiatori, cameramen, aiuto registi, direttori artistici, tecnici del suono: ai produttori conviene scegliere lì la squadra per un film se vogliono avere successo. I giurati dei Golden Globe hanno fatto grossi errori, ma la repentina scomparsa dalla tv e da Internet, per l'accusa di mancanza di diversity, di un evento che era il terzo show più visto al mondo fa riflettere.

Massimo Basile per repubblica.it il 21 aprile 2022.

Dopo “Il giovane Holden" di J. D. Salinger e i romanzi di Toni Morrison, l’America conservatrice ha scoperto il diavolo anche nei numeri. La Florida ha bocciato 54 testi di matematica su 132 destinati alle scuole pubbliche, soprattutto elementari, perché contengono “argomenti proibiti e strategie non richieste”, come l’apprendimento emotivo e la teoria critica della razza.

Oltre il 40 per cento dei testi non approvati rappresenta il record per la Florida. Il dipartimento scolastico non è entrato nel dettaglio del provvedimento, ma i divieti fanno parte del nuovo corso di quello che per molti progressisti sta diventando l’Ayatollah americano: il governatore repubblicano Ron DeSantis. 

Dopo la firma della legge chiamata “Don’t say gay”, con cui vieta di affrontare nelle scuole pubbliche elementari il tema dell’identità sessuale, DeSantis - sempre più indicato come possibile candidato presidenziale nel 2024 - punta a diventare il riferimento dell’America integralista. Dalle sue conferenze stampa vengono cacciati i giornalisti pronti a fare domande sugli sgravi fiscali per centinaia di milioni di dollari a favore dei più ricchi.

Nel frattempo il governatore ha firmato una legge per vietare l’aborto oltre le quindici settimane, anche in caso di stupro e incesto, ma non vuole fermarsi qui: ha dichiarato guerra a Disney, per aver contestato la legge che discrimina i temi gay, chiedendo di togliere alla compagnia lo status speciale, e presto firmerà un’altra legge, conosciuta come ‘Stop Woke Act’, con cui verrà proibito trattare a scuola temi sul razzismo o il sesso che possano “mettere a disagio” gli studenti.

Nella crociata sono finiti anche i numeri. Il governatore ha trovato tra le pagine dei manuali scolastici riferimenti all’apprendimento “emotivo”, considerato un tema fuori contesto. “La matematica è certezza - ha spiegato - è trovare la risposta giusta e noi vogliamo che i bambini imparino a trovare la risposta giusta. Non è questione su come ti senti davanti a un problema”. DeSantis si è scagliato contro l’”indottrinamento” dei bambini.

Al “rogo” sono finiti anche i popolari manuali di algebra e matematica della serie Big Ideas Learning, perché contenevano lezioni su come affrontare problemi complicati e non farsi prendere dallo sconforto. I concetti di “consapevolezza sociale” e “capacità di relazioni” sono visti come subdoli.

Tra i passaggi segnalati come “impropri” quello di un cartone in cui alcuni animali aiutavano un altro ad avere fiducia nell’attraversare un ponte traballante. In un altro, un cane femmina star del cinema confessava di sentirsi sola, e altri animali si offrivano di diventare sue amiche. La Florida si inserisce nell’ondata degli Stati conservatori che stanno restringendo il campo delle materie scolastiche.

Se in California i manuali trattato temi come storia dell’emancipazione di gay, lesbiche e transgender, in Texas si preferisce valorizzare i benefici del libero mercato e dell’imprenditoria. 

Quelli della Florida, storicamente, sono simili al Texas e all’opposto di New York. A confermare questa differenza, la Public Libray di New York, la terza più grande libreria del Nord America, ha deciso di mettere a disposizione dei lettori, dai tredici anni in su, decine di libri “proibiti”. Alle biografie di Martin Luther King e Rosa Parks, probabilmente adesso aggiungerà anche qualche “pericoloso” manuale di algebra.

Anna Guaita per “il Messaggero” il 20 aprile 2022.

La matematica non è un'opinione, si dice sempre. Ma in Florida sembra che il governatore Ron DeSantis la pensi diversamente. Il suo governo ha infatti deciso di bocciare 54 dei 132 libri di testo di matematica proposti per le scuole elementari e medie. La notizia ha generato non poca indignazione quando il Dipartimento dell'Istruzione ha chiarito che i testi vengono rifiutati perché «incorporano argomenti proibiti o strategie non richieste, tra cui l'apprendimento socio-emotivo e la teoria critica della razza».

Ovviamente c'è stata una reazione da parte di genitori e politici che volevano chiarimenti. Ma il Dipartimento non ha fatto esempi precisi, sostenendo che citare i testi avrebbe violato i diritti d'autore del libro. L'apprendimento socio-emotivo, contro cui puntano il dito, consiste nell'aiutare gli scolari a diventare consapevoli delle proprie emozioni e imparare a gestirle.

La Critical Race Theory, oggi spauracchio dei repubblicani, è in realtà una teoria studiata solo all'università che analizza come il razzismo sia ricamato nella tela delle istituzioni stesse, e sia quindi sistemico. Oggi però la CRT ha assunto per i repubblicani un significato allargato a includere quasi ogni forma di insegnamento del passato razzista degli Usa, insegnamento che è percepito come un modo per far sentire in colpa gli scolari di razza bianca.

Che queste decisioni vengano prese in Florida non deve stupire, quello che era uno Stato sonnacchioso di turisti e pensionati ha assunto un peso politico enorme con la presenza di Donald Trump, che vi abita, e per il governatore populista Ron DeSantis che ha raccolto il testimone di Trump e intende presentarsi alle presidenziali del 2024 se l'ex presidente non lo farà.

 DeSantis è stato uno dei negazionisti nella pandemia, contrario a maschere, vaccino e lockdown, e ora si erge a paladino delle rivendicazioni dei bianchi conservatori che si sentono sopraffatti dai movimenti per i diritti dei gay, dal matrimonio omosessuale, dall'uscire allo scoperto di personalità transgender, per non parlare del movimento per i diritti degli afroamericani, di Black Lives Matter e della crescente pressione perché si trovi un modo di ripagare i discendenti degli schiavi.

DeSantis sta facendo del suo Stato un faro per coloro che sognano un ritorno al passato, a un'America bianca e religiosa, anni Cinquanta, e ha firmato una legge che limita il modo in cui vengono discussi e insegnati in classe l'orientamento sessuale, l'identità di genere e le abilità socio-emotive. La legge sarebbe stata concepita per «ridare ai genitori autorità su quello che i figli studiano» e consente alle famiglie di far causa alle scuole, se vedono che le direttive vengono violate.

La legge, soprannominata Don't say gay dalla comunità Lgbtq, sta già facendo proseliti in altri Stati. E il governatore si appresta a firmare un'altra discussa legge che vieterà agli istituti scolastici di insegnare eventi storici in modo tale che possa indurre gli studenti a provare disagio a causa della loro razza. 

Sono numerosi i repubblicani moderati che non vogliono seguire il partito su questa strada estremista, ma dopotutto anche loro giustificano il partito, sostenendo che a monte la colpa sia dei democratici che hanno esagerato nella «cancel culture» e nella lotta di genere, ad esempio con la rimozione di statue di individui nel passato considerati eroi ma condannati per la loro politica schiavista, o con le richieste di pari trattamento nello sport per le atlete transgender.

Per questi repubblicani quindi il Paese è in preda a estremismi sia della destra che della «sinistra anti-liberal». La differenza fra i due esempi sta comunque nel fatto che a imporre fenomeni di cancel culture a sinistra è stata la base o le classi universitarie, mentre a destra sono i governanti. Cosa sia peggio è dopotutto una questione di opinione.

Alberto Simoni per “la Stampa” il 10 aprile 2022.

Greg Locke è un pastore di un villaggio vicino a Nashville, Tennessee, e ha organizzato un falò. Di libri. L'ha annunciato una domenica durante il sermone: ha convocato giornalisti e fotografi; quindi, ha avviato una diretta su You Tube e ha appiccato il fuoco in un grande bidone.

Uno dopo l'altro i fedeli si sono uniti a lui, gettando fra le fiamme copie di Harry Potter, l'intera saga di Twilight e diverse altre opere che secondo Locke deviano i piccoli americani dalla retta via. Non è un capitolo mancante di Fahrenheit 451, il libro distopico di Ray Bradbury che immaginava roghi di libri in una cittadina statunitense nel 2049. Quel che ha fatto il pastore Locke è effettivamente successo nell'America profonda - Dio, patria e fucile - una domenica di febbraio del 2022, 27 anni prima della proiezione di Bradbury.

Qualche giorno dopo, il consiglio scolastico di un distretto sempre del Tennessee si radunava per scegliere quali libri potevano finire sugli scaffali delle biblioteche scolastiche per i ragazzi delle medie. Al bando è finito Maus, il capolavoro in graphic novel di Art Spiegelman, premio Pulitzer, sull'Olocausto. La colpa di Spiegelman è quella di aver dipinto alcune donne senza veli e di aver messo la scritta «God damn» («Accidenti a Dio») fra i disegni. 

Se il piromane culturale Locke è un unicum che media e tv americane hanno trattato al limite del folklore, il caso di Spiegelman invece è la fotografia di quanto l'America del terzo millennio sia immersa in un clima di «guerra culturale», dove se la minoranza - gay e comunità Lgbtq e neri fondamentalmente - cerca spazi di espressione negategli per decenni ed è aiutata in questo dal mondo liberal, dall'altra vi è un rumorosa parte che a colpi di petizioni, denunce, mozioni prova a togliere da scuole e biblioteche tutto ciò che non rientra nei canoni dell'americano patriota, bianco, cristiano e finendo così per alimentare una «cancel culture» al contrario.

L'Associazione delle biblioteche americane (Ala), ogni anno, stila un report sulle proposte di «censure» che arrivano nelle scuole. La fotografia scattata per il 2021 è incredibile: i tentativi di eliminare dai cataloghi alcuni testi hanno raggiunto il livello record da 20 anni. Ci sono state ben 729 richieste di rimozione: 1597 libri sono finiti sulla graticola, alcuni sono stati tolti dagli scaffali. E tutti per gli stessi contenuti: questioni Lgtbt, identità di genere e razzismo.

Nel 2020 all'indice erano finiti meno di 1000 libri, nel 2019 appena 566. Come ha spiegato Deborah Caldwell-Stone, direttrice dell'Ala, è solo l'inizio. La sua previsione è che il 2022 - cominciato con il rogo di Nashville e la censura di Maus - supererà anche il primato del 2021. Il fatto è che la scuola è diventata «la Ground zero» della guerra culturale fra due Americhe sempre più distanti e, ancora più evidente, prive di punti di contatto.

Il motivo è che i conservatori più radicali hanno deciso di trasformare i «board» scolastici in un'arena politica. Si sono candidati in massa per farsi eleggere nei distretti scolastici e poter così influenzare didattica, cultura e vita nelle scuole. In un distretto rurale dello Stato di Washington, per esempio, Ashley Sova, no mask, teorica dell'«home schooling», pistola in vita e aderente al movimento radicale di destra «Three Percent», è entrata all'Eatonville School Board e stravolto le dinamiche di un'intesa comunità, dove, fino all'avvento di Donald Trump e all'assalto a Capitol Hill, liberal e conservatori dividevano gli stessi spazi e condividevano le medesime esperienze. Ha deciso di candidarsi perché ritiene che «i genitori devono avere l'ultima parola su quel che viene insegnato ai loro figli».

Le lezioni e i testi sull'inclusione, la diversità, l'educazione sessuale e il gender sono diventati il suo bersaglio. Eppure sette americani su 10, sono i dati di un sondaggio di marzo, sono contrari alla rimozione dei libri e il 74% si fida della capacità di discernimento di bibliotecarie e scuole.

Nell'elenco dei 10 libri nel mirino, quelli con tematiche di genere, sono i più colpiti. Almeno stando alle motivazioni registrate dalle biblioteche sparse negli States. 

Gender Queer di Maia Kobane (primo in assoluto quanto a lamentele e rimosso ovunque) ha immagini esplicite e promuove contenuti LgbtQia+, All Boys Aren't Blue di George M.

Johnson è stato bandito perché «profano»; The Hate U Givedi Angie Thomas invece è un'istigazione a promuovere messaggi contro la polizia ed è un compendio di indottrinamenti sull'agenda sociale.

E pazienza se il cuore del bestseller è la sparatoria fra la polizia e un giovane afroamericano, cronaca più che fiction nell'America di questi Anni Venti dove la violenza razziale è in continua ascesa. All'indice pure il libro d'esordio di Toni Morrison, The Bluest Eye: è sessualmente esplicito e descrive abusi sui bambini. John L. Jackson, dean della Scuola di Comunicazione della Pennsylvania, ha sintetizzato quanto avviene, dicendo che «la battaglia sui libri altro non è che un microcosmo delle divisioni politiche del Paese».

 E infatti spesso dietro le decisioni di censura ci sono appoggi, spinte e sostegni dei governatori o dei politici. Lo scorso autunno Glenn Youngkin, repubblicano che con toni moderati incarna un'agenda trumpiana, ha vinto le elezioni per diventare governatore della Virginia, sostenendo la crociata contro la graphic novel di Maia Kobane. Il governatore della Florida Ron DeSantis, odore di candidatura alla Casa Bianca nel 2024, ha siglato una legge che dà ai genitori la possibilità di verificare ogni testo a disposizione dei figli e di porre «il veto» alla loro distribuzione.

La storia più incredibile però viene dal Texas, dove Matt Krause, deputato locale, ha stilato una personale lista di 850 libri da espellere dal circuito scolastico e ha girato ogni distretto per verificare quali e quanti di questi libri fossero a portata di ragazzo. Poi si è candidato al posto di procuratore del Texas. Ha perso. 

Se "coprire" il Male è più facile che comprenderlo. Luigi Mascheroni il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'ideologia woke continua a dilagare nei campus universitari americani, a riprova del fatto che i crimini maggiori contro la cultura li commettono le élite intellettuali, professori e studenti delle migliori famiglie, altro che analfabeti incolti che si trascinano alle periferie del mondo. Sul fronte della cancel culture, la «cultura della cancellazione», sembra che a ogni passo in avanti ne corrispondano due indietro. E così, nei giorni scorsi, dopo la buona notizia che la George Washington University ha permesso all'ormai famigerato giudice della Corte Suprema americana Clarence Thomas di continuare a insegnare dopo che gli studenti avevano chiesto di licenziarlo a causa della contestatissima sentenza sull'aborto, ecco che un busto del presidente Abraham Lincoln è stato rimosso dalla biblioteca della Cornell University (mai sottovalutare la stupidità di alcuni studenti). «Qualcuno si è lamentato ed è sparito», ha detto un professore di Biologia della Cornell, Randy Wayne. Non solo: è stata rimossa anche una targa commemorativa del suo discorso di Gettysburg, uno dei più importanti della storia americana. Ora: Lincoln guidò gli Stati Uniti in una guerra che pose fine alla schiavitù, firmò il «proclama di emancipazione» delle persone di colore e morì assassinato. Ma ciò, per alcuni zeloti dell'ideologia woke, non basta a scusarlo del fatto che lui stesso possedesse alcuni schiavi. Via il busto, via la targa, via la Memoria... Non c'è pace per i monumenti e per la Storia al di là dell'Atlantico. Ora traballa anche «la colonna del Duce» a Chicago, un simbolo per la comunità italo-americana. Dono di Benito Mussolini alla città dell'Illinois nel 1934 per commemorare la trionfale «Crociera aerea del decennale» di Italo Balbo, avvenuta, tra folle festanti, festeggiamenti infiniti e una colazione dell'aviatore alla Casa Bianca l'anno precedente, la colonna corinzia di marmo verde che il Duce aveva fatto prelevare dagli scavi di Ostia Antica per regalarla alla municipalità di Chicago, oggi - dopo anni di lamentele, discussioni, proteste e difese - rischia di essere rimossa per sempre. La mayor della città, Lori Lighfoot, probabilmente per ingraziarsi il favore elettorale dell'area democratica e dei movimenti Black Lives Matter, ha incluso il monumento fra quelli da cancellare, proponendo anche di cambiare nome alla «Balbo Drive», la via cittadina intitolata all'eroe italiano in quel lontano ed eroico 1933. Ancora una volta, con la compiacenza di emeriti professori, nel caso specifico lo storico Fraser Ottanelli della University of South Florida, il Passato viene rimosso, come qualcosa di cui vergognarsi, quando semmai si dovrebbe contestualizzarlo, discuterlo e tramandarlo, nelle sue pagine gloriose come in quelle tragiche. «La Storia, buona, brutta o cattiva che sia, va sempre rispettata» hanno infatti giustamente protestato molti italo-americani. «Cancellare» è un verbo sempre più semplice rispetto al complesso «comprendere».

La Censura. Pronomi neutri, generi “non binari” e queer: cosa si insegna nelle scuole Usa. Roberto Vivaldelli il 4 Settembre 2022 su Inside Over.

La Radical Gender Theory fa breccia nelle scuole statunitensi. Secondo questa “teoria” promossa da docenti liberal e organizzazioni ultra-progressiste e pro-Lgbtq, gli uomini bianchi europei hanno creato un sistema oppressivo basato sul capitalismo, la supremazia bianca e l'”eteronormatività”, cioè la promozione dell’eterosessualità, il concetto di maschio-femmina e le norme familiari “borghesi”. Le minoranze razziali e sessuali devono dunque unirsi sotto la bandiera dell'”intersezionalità” e smantellare i “sistemi di oppressione” promossi dal patriarcato. L’ultimo esempio di scuola statunitense contaminata dalla Radical gender Theory riguarda la Springfield Public Schools, il più grande distretto scolastico pubblico del Missouri, che ha adottato un programma di formazione radicale sulla teoria del genere che incoraggia gli insegnanti a credere che “il genere è un universo” e ad affermare che delle identità di genere “non binarie”. A renderlo è il City-Journal.

Il programma pro-gender in Missouri

Nel programma presentato a insegnanti e dipendenti del distretto scolastico del Missouri, viene spiegato che questi ultimi devono comprendere i loro “privilegi” e che che alcuni gruppi – cioè gli uomini eterosessuali, bianchi, cisgender – hanno “potere” e “privilegio” sugli altri in base alle categorie di “razza”, “genere”, “identità” e “orientamento sessuale”. Agli insegnanti viene quindi chiesto di classificarsi e rendere conto della loro razza, sesso, genere, orientamento sessuale e stato socioeconomico. Follie della politica dell’identità. I promotori del programma raccontano agli stessi insegnanti che alle persone viene assegnato un “sesso biologico assegnato alla nascita”, che spesso è in conflitto con “l’identità di genere” e “l’espressione di genere”. Pertanto, ai docenti viene chiesto di riconoscere le identità “non binarie”, di “genere non conforme”, e arricchire il loro vocabolario con le espressioni “drag queen”, “pansessuale” e “poliamoroso”.

Secondo questo programma di formazione, gli insegnanti dovrebbero anche utilizzare i “pronomi di genere preferiti” dei loro studenti. Nella presentazione, è incluso anche video con bambini “gender-queer” e “non binari”, intitolato “Perché i pronomi di genere contano”, in cui si afferma che “il genere è un universo”, che alcuni bambini “non hanno un genere” e che “indicare un genere sbagliato verso una persona trans è un atto di violenza”.”La mia identità, anche se non puoi vederla, deve comunque essere confermata”, dice uno dei bambini “non binari” nel video. Il programma è stato condiviso anche con altre scuole. Alla Parkview High School, la Springfield Public Schools ha inviato uno dei suoi “Equity Champions”, l’insegnante Ashley Blankinship, per spiegare ai suoi colleghi che devono “riconoscere i [loro] privilegi” e “prende atto del loro disagio” come parte del “Programma di formazione LGBTQ+ 101”. Blankinship ha fatto intendere agli insegnanti che devono studiare e riconoscere le identità sessuali come “queer”, “pansessuale” e “genere non conforme” e utilizzare i pronomi “loro/loro” per gli studenti “non binari”.

Chi promuove la Radical gender Theory

La principale organizzazione nazionale dietro questa campagna, la rete Gsa, è un’organizzazione no-profit che ha a disposizione un buddget annuale milionario, secondo quanto riportato da Fox News. Gsa Network, infatti, funge da organizzazione ombrello per oltre 4.000 associazioni pro-gender e pro-Lgbtq in 40 stati. “Gsa Network è un’organizzazione Lgbtq di nuova generazione per la giustizia razziale e di genere che autorizza e forma i leader giovani queer, trans a sostenere, organizzare e mobilitare un movimento intersezionale per scuole più sicure e comunità più sane” si legge sul sito web dell’organizzazione.

E ancora: “Gsa Network sta lavorando per rafforzare la capacità di costruzione del movimento dei giovani Lgbtq+ e la giustizia razziale e di genere nelle scuole e sviluppare la prossima generazione di leader Lgbtq+”, in particolare “i giovani a basso reddito e i giovani di colore in California e a livello nazionale”. Nel 2016, “abbiamo formalmente cambiato il nostro nome in Genders & Sexualities Alliance Network (ex Gay-Straight Alliance Network) dopo aver ascoltato innumerevoli leader giovanili che capiscono che i loro generi e sessualità sono unicamente loro e vanno oltre le etichette di gay e etero, e i limiti di un sistema binario di genere”. Dietro questo movimento pro-transgender ci sono, naturalmente, alcuni “filantropi” multimilionari e ricchi finanziatori. Nel 2013, secondo il Washington Times, il magnate liberal George Soros, fondatore dell’Open Society Foundations, ha donato all’organizzazione 100 mila dollari.

Da ansa.it il 20 agosto 2022.

La censura dei libri colpisce ancora negli Stati Uniti e dopo il Florida è la volta del Texas. Una scuola nello Stato conservatore ha deciso, infatti, di ritirare 41 libri tra i quali la Bibbia e una versione illustrata del 'Diario di Anna Frank'. Lo riporta la Cnn. 

Il Keller Independent School District, vicino Fort Worth, ha introdotto da qualche anno la politica di mettere libri e materiale scolastico 'in prova' per 30 giorni prima di decidere se includerli nei suoi programmi. In passato sono stati messi in discussione soprattutto libri dedicati ai temi Lgbtq+ come 'All Boys Aren't Blue' di George M. Johnson, che alla fine la scuola ha deciso di mantenere ma solo alle superiori, e 'Gender Queer' di Maia Kobabe, che è stato fatto fuori. Anche il romanzo della scrittrice premio Nobel Toni Morrison 'The Bluest Eye' è stato contestato ma alla fine ha superato la selezione.

Quest'anno è toccato alla Bibbia e a una versione illustrata del 'Diario di Anna Frank', che saranno sottoposti all'esame di una Commissione speciale dopo le proteste formali di alcuni genitori, insegnanti e impiegati. La censura dei libri sta diventando un problema negli Stati Uniti. 

Secondo PEN America, la principale organizzazione Usa per la promozione della letteratura e la difesa della libertà di espressione, sono stati ben 1.586 i libri vietati in 86 distretti scolastici in 26 stati dal 31 luglio 2021 al 31 marzo 2022. Il Texas è in testa con il maggior numero libri censurati, 713, seguita da Pennsylvania e Florida.

In questo Stato lo scorso aprile il governatore ultraconservatore Ron DeSantis, uno degli aspiranti alle primarie repubblicane per le presidenziali del 2024, ha messo al bando oltre 50 libri di matematica per i loro contenuti "politici". 54 su 132 testi respinti dal dipartimento dell'istruzione, il 41% del totale accusati di "indottrinare" gli alunni con "contenuti socio-emotivi" e "politici", secondo il governatore.

Libri proibiti e guerra per la scuola: cosa succede davvero negli Usa. Alberto Bellotto su Il Giornale il 2 settembre 2022.  

In alcune scuole degli Stati Uniti basta poco per perdere il lavoro. È quello che è successo a Summer Boismier, insegnante in un liceo di Norman, sobborgo di Oklahoma City. Boismier è stata costretta a dimettersi dopo aver esposto nella sua classe una lista di volumi dal titolo “Libri che lo Stato non vuole che tu legga”. Una risposta, ha raccontato la professoressa, a una legge del Sooner State che impone limiti agli educatori sugli insegnamenti riguardanti questioni di razza o genere.

Boismier è solo l’ultima insegnante vittima della guerra dei libri che sta infiammando le comunità americane. Da diversi anni nei consigli scolastici delle varie contee che compongono gli Stati Uniti si stanno combattendo aspre battaglie per vietare libri o fumetti nelle scuole. Si tratta di una delle guerre culturali più accese tra quelle che dividono sempre di più la società americana.

Una delle ultime battaglie ha riguardato la città di Keller, in Texas, dove una quarantina di libri sono stati messi al bando nelle scuole, tra i quali un adattamento a fumetti del Diario di Anna Frank. In passato altri libri, come il volume Maus, sono finiti negli indici di qualche distretto. Anche in Florida gli scontri non sono mancati. Tra luglio 2021 e marzo 2022, in otto distretti scolastici del Sunshine State sono finiti all’indice 200 volumi.

Non mancano neanche le fake news. Nelle ultime settimane, sui social ha avuto molto risalto una lista di 25 titoli che la Florida avrebbe bandito da tutte le scuole dello Stato, tra questi anche il libro Il buio oltre la siepe. Peccato che non solo la lista fosse falsa, ma soprattutto che non esistano bandi a livello statale in Florida. In questo scontro, il paradosso più grande è che gli americani, tutti senza distinzione tra democratici e repubblicani, sono contrari a un divieto in senso stretto.

I numeri del fenomeno

Ma quanto è ampio il fenomeno? E perché spiegarlo è più complesso di quanto sembri? Partiamo dalla prima domanda, dai numeri. Diverse associazioni per i diritti civili e la libertà di espressione hanno provato a monitorare messe al bando e tentativi di revisione delle biblioteche scolastiche. Secondo le stime di una di queste, la PEN America, tra il primo luglio 2021 e il 31 marzo di quest’anno i libri proibiti dai distretti scolastici di mezza America sono stati 1.145.

I più attivi su questo fronte sono stati i texani con 713 libri finiti all’indice, seguiti quasi a sorpresa non da uno Stato conservatore del Sud, ma da uno Swing State come la Pennsylvania, che ne ha banditi 456. Gli altri membri dell’Unione si sono mossi in ordine sparso, ma molti Stati conservatori dell’America profonda, come il Mississippi, l’Alabama, la Louisiana o il West Virginia, non hanno preso di mira i libri; mentre in luoghi più democratici, come nello Stato di New York, in Illinois o in Virginia, qualche volume è finito all’indice.

Per Deborah Caldwell-Stone, esponente della American Library Association (l’associazione delle biblioteche americane), nel giro di poco tempo si è passati da 1-2 libri finiti all’indice ogni anno a 5-6 libri posti sotto indagine al giorno. Per Caldwell-Stone il 2015 è l’anno in cui la grande battaglia sui libri è iniziata. Prima di quella data gli scontri tra genitori non mancavano, ma riguardavano per lo più questioni legate all’educazione sessuale o alla religione. A partire da quel momento il dibattito si è spostato sui temi del gender e della razza.

Chi finisce sotto tiro

Nel periodo considerato dal PAM America, tra gli oltre mille volumi banditi, il 41% aveva personaggi principali afroamericani, il 22% si concentrava su temi legati alla razza o al razzismo e il 33% si occupava di temi e personaggi della galassia Lgbtq.

Scorrendo i lunghi elenchi delle associazioni che monitorano i ban, si trovano moltissimi volumi a tema razziale o sull’identità di genere. Anche se in mezzo, ci sono libri di altre categorie, come il Diario di Anna Frank, Maus, V per Vendetta di Alan Moore, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, Peter Pan di J. M. Barrie, Il cacciatore di aquiloni di Khaled Hosseini, Lolita di Vladimir Nabokov e pure Uomini e topi di John Steinbeck.

Questa guerra dei libri si è inasprita lì dove un tempo c’era poco interesse: i consigli scolastici. Negli Stati Uniti, diversamente che da noi, quasi ogni carica che si trova a maneggiare soldi pubblici è elettiva. È il caso ad esempio dei pubblici ministeri che vengono eletti e che scelgono quali crimini perseguire e quali no. I consigli scolastici non fanno eccezione. Le cariche sono elettive e chiunque nella comunità si può candidare e partecipare alla gestione delle scuole del distretto.

Oggi gruppi di genitori e grandi associazioni genitoriali, come ad esempio Moms for Liberty, hanno lanciato vaste campagne “elettorali” e portato una parte dello scontro in questi consigli. E le vittime sono stati proprio i libri. Gli esponenti di queste associazioni hanno difeso la richiesta di porre un freno ai testi spiegando di voler evitare che bambini e ragazzi entrino in contatto con “contenuti sessuali espliciti”, “linguaggi offensivi”, ma anche la teoria critica della razza, un quadro teorico accademico che afferma come il razzismo negli Stati Uniti sia sistemico e connaturato nelle stesse istituzioni americane.

Cosa dicono i sondaggi

Questa “guerra” ai libri può essere letta in modo molto diverso se la si osserva dai sondaggi. Ne bastano pochi per capire come i veri obbiettivi degli scontri nei consigli scolastici non siano i libri. E che anzi i vari volumi messi all’indice sono delle vittime collaterali in un certo senso.

A febbraio un sondaggio di YouGov condotto per Cbs News ha rilevato che l’87% degli americani è contrario alla messa al bando di libri su temi come razza o schiavitù. Un’altra indagine fatta a marzo dall’Hart Reserarch Associates per conto dell’American Library Association ha scopetto che il 71% degli elettori è contrario agli sforzi per rimuovere i libri dalle biblioteche pubbliche. Una terza e ultima rilevazione ha messo in luce che solo il 12% degli americani sostiene la rimozione dalla scuole di libri su “argomenti divisivi”.

Persino se si prova a scorporare i dati in base alle convinzioni politiche i numeri non cambiano di molto. Il 75% dei democratici è contrario agli indici, così come il 70% dei repubblicani. Come si conciliano quindi questi sondaggi con quello che avviene in decine di consigli scolastici? Osservando il tutto dalla prospettiva di come e cosa insegnare ai figli. Su questo gli elettori sono davvero spaccati a metà.

Lo scontro sull’istruzione

Prendiamo la teoria critica sulla razza. Sebbene non esistano programmi specifici di insegnamento nelle scuole medie e superiori (altro discorso ben più complesso riguarda l’istruzione universitaria), il tema divide moltissimo le due Americhe. L’81% dei democratici vedrebbe positivamente l’insegnamento della teoria critica, mentre l’86% dei repubblicani lo vede con un’accezione negativa.

Questo è il sintomo di una divisione più ampia. Interrogati su cosa li preoccupi davvero intorno ai temi della scuola, la maggior parte dei cittadini ha parlato di bullismo, libri proibiti e studenti che mancano gli obbiettivi di apprendimento. Ma se le stesse domande vengono divise per il partito di appartenenza, la forbice si fa enorme.

Il gap principale si nota proprio sul ban del libri: per il 57% dei dem è un rischio che gli studenti corrono, mentre è pericoloso solo per il 28% dei repubblicani. Il 62% degli elettori del Gop teme, invece, che gli studenti vengano indottrinati a idee troppo liberal, contro il 16% dei democratici. E il 36% dei conservatori ha paura che i ragazzi entrino in contatto con testi inappropriati.

Il termometro di questa divisione lo si ha anche sul tema del coinvolgimento dei genitori nelle scelte delle scuole. Il 37% dei repubblicani teme di restare tagliato fuori. Mentre il 16% dei democratici ha detto di aver paura di un eccessivo coinvolgimento nei processi decisionali.

Ecco quindi che i libri finiti all’indice non sono altro che l’ennesimo capitolo di una guerra tra due mondi culturali che faticano sempre di più a parlarsi e a capirsi. Una spaccatura che ha coinvolto la scuola e che anzi l’ha trasformata in un ennesimo campo di battaglia. È probabile che nei prossimi mesi, o anni, la guerra si intensifichi.

L’uso massiccio della didattica a distanza durante le fasi acute della pandemia ha portato sempre più genitori in contatto con la quotidianità della scuola e degli insegnamenti. E molti repubblicani non sembrano essere contenti di cosa (e come) viene insegnato nelle scuole. Non è un caso che proprio Donald Trump abbia promesso l’abolizione del dipartimento dell’Istruzione nell’eventualità di un suo ritorno alla Casa Bianca.

Cancel culture: se l’Occidente terrorizzato si autocensura. Dopo l'inchiesta del "Times" su tutti i libri proibiti o sconsigliati negli atenei britannici, una riflessione sugli eccessi del politicamente corretto. E su come la fine del discorso pubblico lasci spazio solo alle sue caricature. Corrado Augias La Repubblica l'11 Agosto 2022.

Ha fatto bene Antonello Guerrera a segnalare prontamente (su Repubblica di ieri) da Londra il fenomeno delle letture proibite o sconsigliate nelle università inglesi. Vi figurano autori moderni e contemporanei ma anche il padre di ogni letteratura, Shakespeare nientemeno, nel cui Sogno di una notte di mezza estate si scorgerebbero segni di classismo. Non vado a controllare, è possibile che ci siano, così come è certo che nei libretti della lirica italiana compaiano pesanti riferimenti agli abietti zingari e al sangue dei negri.

Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” l'11 agosto 2022.

(…) gli atenei britannici stanno rimuovendo decine di titoli, persino premi Pulitzer come La ferrovia sotterranea di Colson Whitehead del 2017, dai loro corsi e per un altro migliaio c'è l'imbarazzo dell'avvertimento agli studenti: se non volete leggerli, potete evitarli, in quanto controversi o potenzialmente pericolosi. Forse il caso di Whitehead, uno degli scrittori più celebri in America, è il più paradossale. Perché per i giudici del Pulitzer, la sua descrizione delle tensioni razziali combinano «la violenza della schiavitù e il dramma della fuga in un mito che parla agli Stati Uniti di oggi».

Tanto che lo stesso romanzo non solo ha vinto il National Book Award in America, ma è stato pubblicamente lodato da presidenti e star come Barack Obama e Oprah Winfrey.

Ma proprio quelle descrizioni crude della schiavitù, encomiate oltreoceano, sono degne di censura per la Essex University, dove il libro è stato rimosso permanentemente per «passaggi espliciti di violenza e schiavitù». 

Ma come? Spostiamoci poco lontano, all'Università inglese del Sussex. Qui a perire sotto l'implacabile scure censoria è stata la tragedia teatrale La signorina Julie (1888) del grande intellettuale svedese August Strindberg, tra i destinatari dei "biglietti della follia" di Nietzsche a fine XIX secolo. La motivazione: «contiene dialoghi sul suicidio» e alcuni studenti hanno contestato i «potenziali effetti psicologici dell'opera ».

(…) Il Pasto nudo di William Burroughs è stato bollato dalla Cardiff metropolitan University per il «linguaggio scioccante e controverso» e quindi può essere rimpiazzato da altre opere in alcuni corsi di letteratura. Stesso destino per Charlie Hebdo , che gli studenti di francese alla Nottingham Trent possono evitare perché «razzista, sessista, islamofobo e bigotto». 

Mentre ad Aberdeen, sempre dopo le lamentele di alcuni iscritti, «avvertimenti per l'uso» sono stati destinati addirittura a opere come Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare («attenti al classismo»), Geoffrey Chaucer («può essere arduo a livello emozionale » ), Oliver Twist di Charles Dickens («abusi su minori»), ma anche Jane Austen, Charlotte Brontë e Agatha Christie.

Gli atenei si difendono parlando di scelte dettate dagli studenti o comunque non obbligatorie nella stragrande maggioranza dei casi per i laureandi. Scrittrici come Rachel Charlton-Dailey parlano di sensazionalismo e che «avvertimenti simili sono sempre esistiti». «Certo che le università devono proteggere la salute mentale dei propri studenti», ribatte il sottosegretario dell'Istruzione britannico James Cleverly, «ma allo stesso tempo non si può non affrontare il passato. Se alcuni testi sono complessi, vanno capiti, non censurati. E poi sinceramente, mi turba l'idea che in un'università gli studenti non abbiano lo spirito critico e la maturità per leggere classici del genere».(…)

Ora il Texas mette al bando anche il Diario di Anna Frank. Usa, secondo il comitato del distretto scolastico di Keller sarebbe un’opera «pornografica». Daniele Zaccaria il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

«Dobbiamo proteggere i nostri bambini dai contenuti sessualmente espliciti», così ha detto Charles Randklev, presidente del consiglio di amministrazione del distretto scolastico di Keller, (una area metropolitana nel Texas del nord che ospita oltre 35mila studenti) per giustificare il ritiro, assieme a un’altra quarantina di libri, del Diario di Anna Frank dalle biblioteche scolastiche, o meglio di una graphic novel ispirata al celebre Diario realizzata dal regista israeliano Ari Folman e dall’illustratore David Polonsky.

Un’opera che il New York Times Book Review ha definito come «coinvolgente, di alto valore morale e specialmente adatta per i più giovani». Ora sarà sottoposta a «revisione» da parte del Comitato di genitori, dirigenti scolastici e «membri della comunità» per verificare la sua idoneità al giovane pubblico: «Gli scorsi anni abbiamo trovato libri decisamente inadeguati, anche opere pornografiche!», tuona Randklev. Chissà se si riferiva a The Bluest Eye, il romanzo della scrittrice afroamericana Toni Morrison che racconta gli amori di una ragazzina nera negli anni 40 sullo sfondo dei conflitti razziali, fatto sparire anch’esso dagli scaffali dei college assieme a tanti libri che affrontano tematiche razziali e di genere. Tra questi il famigerato Gender Queer di Maia Kobabe che per i cristianissimi esponenti del comitato di censura è un libro maledetto un po’ come i Versetti satanici per un fondamentalista islamico.

Ma in cosa il Diario di Anna Frank sarebbe osceno? Per quali oscuri motivi il dramma della bambina ebrea olandese che ha illuminato intere generazioni sugli orrori del nazismo sarebbe oggi un’opera diseducativa? Per il momento non è dato saperlo ma la commissione promette che lavorerà in modo «trasparente» ce che presto deciderà nel merito. «I libri che soddisfano le nuove linee guida verranno restituiti alle biblioteche non appena verrà confermato che rispettano la nuova politica» si legge in una mail dei una dirigente del distretto pubblicata dal Texas Tribune. Lo zelo dei censori spesso flirta con il ridicolo, ma in Texas sull’argomento c’è ben poco da scherzare e il distretto scolastico di Keller è diventato in tal senso un vero e proprio laboratorio della cancel culture di destra (quella “progressista” invece tiene banco nei campus universitari per ricchi e nell’industria cinematografica).

All’inizio del 2021 il governatore repubblicano ultraconservatore Greg Abbot aveva lanciato la crociata scrivendo una lettera al Segretario all’educazione in cui lo invitava a dichiarare guerra alla «pornografia» nelle scuole pubbliche e a spulciare tutte le biblioteche degli istituti. E poi ha mobilitato il Patriot Mobile Action, un comitato lobbista di integralisti religiosi che è riuscito a piazzare 11 rappresentanti nei consigli scolastici del nord del Texas. I più fanatici sono stati eletti proprio nel consiglio distrettuale di Keller e sono entrati in servizio lo scorso maggio. Gli effetti non hanno tardato a manifestarsi.

Un rapporto di aprile di PEN America, un’organizzazione di difesa della libertà di parola, fotografa una realtà inquietante in cui l’offensiva per mettere al bando i volumi procede a ritmi esponenziali di anno in anno. Facendo delle biblioteche scolastiche un campo di battaglia dello scontro culturale. Il PEN ha rilevato che 1.586 libri sono stati vietati in 86 distretti scolastici da luglio 2021 a marzo 2022, colpendo oltre 2 milioni di studenti. Il Texas, si è classificato naturalmente al primo posto su altri 25 stati , con 713 libri censurati o vietati.

Una scuola in Texas vieta 41 libri, anche la Bibbia. ANSA il 17 agosto 2022.

La censura dei libri colpisce ancora negli Stati Uniti e dopo il Florida è la volta del Texas. Una scuola nello Stato conservatore ha deciso, infatti, di ritirare 41 libri tra i quali la Bibbia e una versione illustrata del 'Diario di Anna Frank'. Lo riporta la Cnn.

Il Keller Independent School District, vicino Fort Worth, ha introdotto da qualche anno la politica di mettere libri e materiale scolastico 'in prova' per 30 giorni prima di decidere se includerli nei suoi programmi. In passato sono stati messi in discussione soprattutto libri dedicati ai temi Lgbtq+ come 'All Boys Aren't Blue' di George M. Johnson, che alla fine la scuola ha deciso di mantenere ma solo alle superiori, e 'Gender Queer' di Maia Kobabe, che è stato fatto fuori. Anche il romanzo della scrittrice premio Nobel Toni Morrison 'The Bluest Eye' è stato contestato ma alla fine ha superato la selezione.

Quest'anno è toccato alla Bibbia e a una versione illustrata del 'Diario di Anna Frank', che saranno sottoposti all'esame di una Commissione speciale dopo le proteste formali di alcuni genitori, insegnanti e impiegati. La censura dei libri sta diventando un problema negli Stati Uniti. Secondo PEN America, la principale organizzazione Usa per la promozione della letteratura e la difesa della libertà di espressione, sono stati ben 1.586 i libri vietati in 86 distretti scolastici in 26 stati dal 31 luglio 2021 al 31 marzo 2022. Il Texas è in testa con il maggior numero libri censurati, 713, seguita da Pennsylvania e Florida. In questo Stato lo scorso aprile il governatore ultraconservatore Ron DeSantis, uno degli aspiranti alle primarie repubblicane per le presidenziali del 2024, ha messo al bando oltre 50 libri di matematica per i loro contenuti "politici". 54 su 132 testi respinti dal dipartimento dell'istruzione, il 41% del totale accusati di "indottrinare" gli alunni con "contenuti socio-emotivi" e "politici", secondo il governatore. (ANSA).

Che cosa è la Woke Revolution e perché non va sottovalutata. Stefano Magni su Inside Over il 2 gennaio 2022. La “cancel culture”, la “woke revolution” e poi sempre il “politically correct” sono termini inglesi che stanno entrando anche nel lessico comune italiano, in quello giornalistico soprattutto. Si tratta di fenomeni ancora poco radicati nella coscienza comune, evanescenti, inafferrabili. Non esiste nulla di tutto ciò, secondo la maggior parte degli opinionisti di sinistra: sono solo paranoie dei conservatori, buone per far propaganda e demonizzare l’avversario. Sono invece tre aspetti di una rivoluzione culturale in corso, negli Stati Uniti e nel Regno Unito, non solo secondo gli opinionisti di destra, ma anche per tutte quelle personalità di sinistra (giornalisti e docenti, soprattutto) che ne sono rimasti vittima. L’associazione Fire (“Foundation for Individual Rights in Education”, fondazione per la difesa dei diritti individuali nell’educazione) permette di comprendere correttamente la portata del fenomeno: è minoritario, ma importante e rischia di dilagare in futuro.

La “woke revolution” prende il nome dallo slang afro-americano e non a caso si è diffusa ultimamente a seguito del movimento Black Lives Matter, soprattutto dal 2015 in poi. Woke vuol dire letteralmente “in allerta”, anche se ultimamente è diventata la definizione del più generico “consapevole” (del problema, dell’ingiustizia, ecc…). Stare “in allerta” era d’obbligo per quei neri che uscivano dal loro quartiere e che rischiavano di fare una brutta fine per mano dei bianchi, ai tempi della segregazione. Dopo mezzo secolo dalla fine definitiva della segregazione, per molti neri il ghetto dà ancora un senso di protezione nei confronti del mondo esterno ed ogni episodio di brutalità della polizia contro un nero disarmato è indicato come prova di un razzismo persistente. Nelle università più costose d’America sono invece gli studenti (molto spesso bianchi) e gli intellettuali che sentono il dovere di restare “in allerta” per scovare ogni traccia di razzismo nel discorso pubblico. Un gesto, una parola, un tono di voce, possono sembrare innocui, ma, secondo gli woke, sono minacce velate o segni di un razzismo residuo.

Il politically correct è il codice che definisce ciò che per un woke è corretto o scorretto. E il razzismo contro cui lottano non è solo quello contro i neri, ma anche contro tutti coloro che sono visti come gli oppressi di ieri e di oggi: omosessuali, donne, immigrati, membri di minoranze etniche e religiose, transgender, animali (difesi da umani, in questo caso). Ma le categorie si estendono di continuo e in modi e tempi difficilmente prevedibili. La cancel culture è il modo in cui gli woke esercitano la giustizia. Ed è un eufemismo per definire la nuova forma di linciaggio online: il colpevole viene bandito, dopo una campagna di odio in rete, nelle università e in pubblica piazza, dopo il boicottaggio, il ritiro di ogni invito e infine anche il licenziamento. Se l’ingiustizia è un simbolo, come una statua, si chiede la sua rimozione. Se è un film, si chiede la sua cancellazione. Se è un testo, non deve essere più venduto. E così di seguito, fino al reset del passato.

Secondo i dati della Fire, dal 2015 al 2021, 426 docenti sono stati segnalati per aver espresso opinioni controcorrente, tre quarti di essi (314) hanno subito sanzioni. Il trend è in forte crescita: si contavano 24 casi di segnalazione nel 2016, sono arrivati a 113 nel 2020. La maggior parte dei docenti è stata contestata per discorsi che riguardano la questione razziale. Nei due terzi dei casi, solo perché hanno espresso un loro parere personale. Quasi sempre, le segnalazioni arrivano da gruppi organizzati di studenti di estrema sinistra o anche da colleghi dei docenti. Secondo Greg Lukianoff, il direttore di Fire, gli studenti sono già “tendenzialmente liberal” e all’università incontrano docenti “molto liberal” e un personale non docente “estremamente liberal”.

La sua fondazione fornisce una mappa aggiornata di scuole e università in cui la libertà di espressione è minacciata da regolamenti interni. E stila la classifica delle istituzioni in cui la libertà di parola è maggiormente repressa, ogni anno. La gran maggioranza delle istituzioni è in zona gialla, dunque a rischio. Solo una minoranza è nella zona verde (maggior tutela della libertà di espressione) e sono già di più le istituzioni in zona rossa, dove la repressione è esplicita. I docenti che si definiscono conservatori sono una minoranza sparuta (2,5%), dunque la politicizzazione nelle università e i fenomeni di cancel culture sono quasi esclusivamente appannaggio della sinistra. Il fenomeno è minoritario, ma importante appunto: episodi di censura sono avvenuti nel 65% delle università più influenti degli Stati Uniti e in ciascuna delle dieci scuole più prestigiose si sono registrati almeno 10 casi. Si tratta dunque di un fenomeno che colpisce l’élite del futuro.

Il quadro che fornisce Fire è parziale, perché riguarda solo l’educazione, a tutti i livelli. Mentre la “woke revolution” riguarda anche altri settori importanti della società. I media, prima di tutto, il cinema e l’arte e sempre più anche il mondo delle grandi aziende. Le multinazionali dell’informatica, le Big Tech sono a trazione woke, già da anni. Basti l’esempio di Netflix, attentissima a non dire nulla di scorretto, eppure una battuta di troppo sui transgender è scappata al comico afroamericano Dave Chapelle. Il risultato immediato è stato uno sciopero del personale e una campagna mediatica che ha indotto Chapelle ad incontrare i rappresentanti della comunità transgender.

Bari Weiss è la scrittrice e giornalista ebrea (membro di una minoranza, dunque, ma “privilegiata” secondo i canoni del nuovo antirazzismo) che ha rassegnato le dimissioni dal New York Times perché subiva mobbing dai suoi colleghi woke e non era difesa dai superiori. La sua è diventata la battaglia di tutte le vittime della cancel culture, vittime di sinistra soprattutto, epurate da chi è più puro. Sulla rivista conservatrice Commentary, la Weiss ha scritto un articolo-manifesto che descrive non solo le caratteristiche della woke revolution, ma porta anche numerosi esempi che permettono di comprendere quanto il fenomeno sia infido e pervasivo. Per Bari Weiss, infatti, “si viene condannati per quello che si è” e non per quel che si fa. Il maschio, bianco, eterosessuale, ma anche la donna ebrea bianca, sono “privilegiati”.

In una terza elementare si insegna ai bambini bianchi di liberarsi e pentirsi del loro privilegio, innato. In un’altra scuola, prestigiosa, per altro, si ritiene che un insegnante bianco non possa tenere lezioni a bambini neri. Non si distingue neppure l’intenzionalità, anche un fraintendimento può portare a una condanna: un operaio che scrocchia le dita in modo “sospetto” (che ricorda un gesto identificativo dei suprematisti bianchi) viene licenziato in tronco. Un professore di linguistica che insegna l’uso del “like” (come) e ha studenti cinesi, viene tacciato di razzismo perché “like” in cinese ha un suono simile a quello dell’ormai impronunciabile parola latina con cui si identificavano i neri. Sono storie surreali, angosciose che ricordano i regimi totalitari di Stalin e di Mao più che la terra della libertà. Secondo Bari Weiss, il mostro woke è cresciuto per mancanza di coraggio di chi avrebbe dovuto opporsi: è un atteggiamento infantile a cui gli adulti, i responsabili, gli insegnanti, non hanno mai risposto con un “no”. Ma nessuno, neppure Bari Weiss o Greg Lukianoff, riesce a individuare la radice di questa rivoluzione culturale.

Se tutto ciò vi ricorda il marxismo leninismo applicato in Urss e in Cina, ma anche nei movimenti più violenti del nostro Sessantotto, forse avete ragione. La nuova sinistra non è molto distante dalla vecchia logica della lotta di classe. E se il fenomeno è cresciuto è perché negli Usa, che non sono mai stati comunisti, il marxismo è sempre più di moda nelle università, spesso filtrato attraverso lo studio di Gramsci, il filosofo italiano più influente nella cultura americana da vent’anni a questa parte.

“Così l’ideologia woke sta indebolendo l’esercito Usa”. Roberto Vivaldelli il 29 Novembre 2022 su Inside Over.

L’ideologia “woke” – fondata sull’ossessione per le minoranze, promossa dagli ultra-progressisti americani – sta indebolendo dall’interno anche l’esercito più forte del mondo: quello degli Stati Uniti d’America. Il senatore repubblicano della Florida, Marco Rubio, da poco rieletto, e il deputato Chip Roy del Texas, hanno redatto un dossier intitolato “Woke Warfighters – come l’ideologia politica si sta indebolendo i militari americani”. Secondo i due esponenti del Gop, “il mondo è un posto pericoloso e la follia dell’amministrazione Biden sta erodendo la nostra più grande fonte di sicurezza”.

Come? Una delle prime azioni di Segretario della difesa, Lloyd Austin, è stata quella di promettere di liberare l’esercito da “razzisti ed estremisti”, abbracciando la controversa Teoria critica della razza, nata in seno al mondo degli studiosi della New left americana degli anni ’70 e ’80 e agli studiosi di diritto e giurisprudenza afroamericani – come il defunto docente di Harvard Derrick Bell o Kimberlé Williams Crenshaw – e diventata oggi uno dei pilastri del politically correct e del pensiero postmodernista che circola nei campus americani e nei salotti più progressisti d’America.

Così Biden ha introdotto l’ideologia liberal tra le forze armate

Risultato: l’iniziativa di Austin attraverso il “Countering Extremist Activity Working Group”(CEAWG), nato per liberare l’esercito dallo spauracchio del razzismo, è stata un vero flop e un costoso dispendio di energie e denaro. Su 2,1 milioni di militari e riservisti, su cui può contare l’esercito Usa, solo 100 persone sono state “attenzionate” dal gruppo che si occupa di monitorare il razzismo. Rubio e Roy notano che a capo del CEAWG creato da Austin c’è un certo Bishop Garrison, un “fanatico antirazzista” che denigra sistematicamente i conservatori, secondo il quale “il razzismo sistemico è uno delle nostre più grandi sfide per la sicurezza nazionale”.

Non solo. L’amministrazione Biden vuole indottrinare la nuova leadership di militari all’ideologia “woke” attraverso altre iniziative. Di recente, un ammiraglio, presso l’Accademia Navale, ha spiegato agli studenti che devono leggere il libro “How to be an antiracist” di Ibram X. Kendi, saggio – molto in voga fra i circoli progressisti – che spiega come il “capitalismo sia razzista” e che i bianchi sono intrinsecamente privilegiati. Tracce di progressismo woke si trovano anche nella Strategia di Sicurezza nazionale del 2022, nella quale emerge la priorità dell’amministrazione Biden: quella di promuovere “l’inclusione e la diversità” nelle forze armate.

Sulle forze armate speciali

Da questo indottrinamento coatto dei dogmi ultra-progressisti non sfuggono nemmeno le Forze speciali. Nelle prime righe del del Piano Strategico Diversità e Inclusione del SOCOM (Comando delle Operazioni Speciali degli Stati Uniti) si legge che “diversità e inclusione sono imperativi operativi”. Il programma continua dicendo che “i leader devono integrare la diversità e gli sforzi di inclusione in obiettivi unitari, obiettivi di missione, iniziative gestionali e priorità operative”. Il piano rileva anche che il SOCOM implementerà le operazioni speciali riguardanti l’inclusione e la diversità, qualsiasi cosa voglia dire. “L’unico obiettivo delle nostre forze speciali dovrebbe essere efficacia – notato Rubio e Roy -. Ogni altro la considerazione deve essere subordinata a e al servizio di tale fine”.

Educati alla follia progressista

Altro che moderata: anche sul fronte culturale e dell’educazione, l’amministrazione Biden ha ceduto all’ala più estremista e radicale del partito democratico, quella che si rifà all’ideologia “woke”, appunto, e abbraccia tutte le battaglie identitarie e culturali degli ultra-liberal. Nell’ambito del “Department of Defense Education Activity” (DoDEA), sistema scolastico federale con sede ad Alexandria, Virginia, responsabile della pianificazione, direzione, coordinamento e gestione dei programmi educativi dalla scuola materna fino al 12° grado per conto del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (DoD), è stata creata la figura del Chief Diversity Equity and Inclusivity (DEI) – Capo Diversità Equità e inclusività – affidata ad un’altra figura tutt’altro che moderata come Kelisa Wing. Come notano Rubio e Roy nel loro reporter, Wing è stata autrice di diversi tweet dispregiativi e razzisti nei confronti dei bianchi. Wing ha scritto un libro nel quale, rivolgendosi ai bimbi bianchi, afferma che godono di un “privilegio che fa male a molte persone”. Sembra grottesco e folle ma è un’ideologia che spopola fra democratici e progressisti, come dimostra il report di Marco Rubio e Chip Roy sull’esercito Usa.

"È razzista". Così vogliono cancellare Shakespeare. Roberto Vivaldelli il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La crociata woke sta cercando di "cancellare" il Bardo: le sue opere sono accusate di essere piene di suprematismo bianco, misoginia, omofobia e razzismo. Il tribunale del politicamente corretto ha già emesso la sua sentenza.

I crociati del politicamente corretto hanno messo nel mirino William Shakespeare. Il Bardo, infatti, è da tempo bersagliato dai progressisti woke che lo vogliono "eliminare" in ogni modo, dai teatri passando per i curriculum scolastici, per sostituirlo con modelli più "inclusivi". Come accade con ogni fondamentalismo, si pretende di giudicare il celebre drammaturgo morto nel 1616 con gli standard morali di oggi, o meglio, con i canoni stabiliti dall'ossessione identitaria. E così, mancando completamente il senso della storia, Shakespeare viene superficialmente etichettato come "razzista", "sessista" e "colonialista" e le sue meraviglisoe opere boicottate, rivisitate, decontestualizzate. O peggio ancora, censurate. Gli esempi recenti di attacchi a Shakespeare sono molteplici.

L'anno scorso Sir Michael Morpurgo, 78 anni, si è rifiutato di includere Il mercante di Venezia nel suo libro per bambini, definendo il Bardo "antisemita". Negli Stati Uniti, un numero crescente di insegnanti "woke", secondo il New York Post, si rifiuta di far studiare il drammaturgo agli studenti, accusando le sue opere classiche di promuovere "misoginia, razzismo, omofobia, classismo, antisemitismo e misoginia". Alcuni insegnanti di letteratura inglese hanno raccontato allo School Library Journal (SLJ) come hanno abbandonato opere come Romeo e Giulietta e Amleto per "dare spazio a voci moderne, diverse e inclusive".

Shakespeare, la battaglia "woke" per eliminarlo

"Shakespeare era uno strumento utilizzato per 'civilizzare' i neri nell'impero inglese", spiega la studiosa di Shakespeare Ayanna Thompson, professoressa di inglese all'Arizona State University. Gli insegnanti devono anche "sfidare la Whiteness" e la convinzione che le opere di Shakespeare siano "universali”, osserva Jeffrey Austin, che è a capo del dipartimento di letteratura inglese di una scuola superiore del Michigan. L'ex insegnante di una scuola pubblica dello stato di Washington, Claire Bruncke, ha dichiarato a SLJ di aver bandito il Bardo dalla sua classe per "allontanarsi dal centrare la narrativa su uomini bianchi, cisgender ed eterosessuali. Eliminare Shakespeare è stato un passo che potevo facilmente fare per lavorare in tal senso. E ne è valsa la pena per i miei studenti", ha insistito. Altri insegnanti hanno affermato di essere rimasti fedeli a Shakespeare, ma di "rivisitare" le sue opere attraverso una lente più moderna. È il caso di Sarah Mulhern Gross, un'insegnante di inglese alla High Technology High School di Lincroft, ha affermato di insegnare a scuola "Romeo e Giulietta" facendo però un'analisi della "mascolinità tossica" contenuta nell'opera. Secondo l'autrice dell'articolo pubblicato sul School Library Journal, in definitiva, "le opere del drammaturgo sono piene di idee problematiche e superate, con abbondanza di misoginia, razzismo, omofobia, classismo, antisemitismo e misoginia".

Il Bardo e i "seminari antirazzisti"

Nel Regno Unito non va meglio. Come riporta Il Foglio, infatti, Mary Bousted, segretaria della National Education Union, il più potente sindacato degli insegnanti del Paese, spiega che si deve andare oltre il celebre drammaturgo e poeta ."Come insegnante non ho problemi con Shakespeare, ma so che in una scuola dove si parlano trentotto lingue oltre all'inglese devo avere scrittori afro-caraibici nel curriculum, e poi scrittori indiani e cinesi". Per questo, ha detto Bousted, il curriculum dovrà andare oltre il Bardo e gli altri autori bianchi. Gli studenti di Cambridge, nel frattempo, ricevono "un'avvertimento" prima di leggere Shakespeare, così da non restarne sconvolti. Come se non bastasse, la British Library vuole "rietichettare" il "First Folio" del poeta, la fonte principale di molte delle sue opere, per rifletterne i "legami coloniali". E non finisce qua.

Come già riportato da Il Giornale lo scorso ottobre, il celebre Globe Theatre di Londra - il teatro londinese ricostruito nel 1997 dove recitò la compagnia del Bardo - ha organizzato in autunno una serie di "seminari antirazzisti" per sviscerare e riflettere sulle opere del Bardo. Nel mirino c'è soprattutto La Tempesta, opera che appartiene all'ultima fase della produzione del drammaturgo inglese, bollata già da tempo nel mondo anglosassone come "razzista" e "colonialista". Contro la follia woke si è scagliata la Royal Shakespeare Company, la quale ha avvertito che la cancellazione del noto drammaturgo per questioni che turbano il pubblico moderno politicamente corretto è "la cosa peggiore che possiamo fare".

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al Russiagate pubblicato per La Vela. I suoi articoli sono tradotti in varie lingue e pubblicati su siti internazionali 

"Il Signore degli Anelli vittima del politicamente corretto": bufera online contro la serie Amazon. Roberto Vivaldelli il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

"Ci è sembrato naturale che un adattamento del lavoro di Tolkien riflettesse l'aspetto reale del mondo", ha affermato il produttore esecutivo Lindsey Weber. Il Signore degli Anelli vittima del politically correct, scatta la protesta online.

Molti fan di Tolkien non hanno per nulla gradito il primo teaser della nuova serie Amazon Prime Video Il Signore degli Anelli: Gli anelli del potere mostrato per la prima volta durante il Super Bowl di domenica. Il motivo è semplice: fra elfi e nani neri, la serie, in onda dal prossimo 2 settembre - il programma televisivo più costoso mai realizzato da Amazon Studios - sembra strizzare eccessivamente l'occhio alla nuova moda del politicamente corretto. Un Tolkien in versione "woke", secondo i canoni estetici del progressismo identitario. Ne è nata così una protesta sotto forma di "comment bombing" che ha preso di mira la pagina Youtube del teaser. Migliaia i commenti, tutti con medesima citazione tolkeniana: "Il male non è in grado di creare nulla di nuovo, può solo distorcere e distruggere ciò che è stato inventato o fatto dalle forze del bene". Il cast "woke" e forzatamente multiculturale scelto da Amazon non piace affatto ai fan di vecchia data dello scrittore e studioso britannico.

La serie, inoltre, spiega The National News, girata in Nuova Zelanda e nel Regno Unito, non è basata su un romanzo specifico di Tolkien, ma ne è ispirata, e porta sullo schermo, per la prima volta, le "leggende eroiche della leggendaria storia della Seconda Era della Terra di Mezzo", secondo Amazon Studios. Lo studio promette che "porterà gli spettatori indietro a un'era in cui sono stati forgiati grandi poteri, i regni sono saliti alla gloria e sono caduti in rovina, eroi improbabili sono stati messi alla prova, la speranza è stata appesa ai fili più sottili e il più grande cattivo che sia mai scaturito dalla penna di Tolkien minacciava di coprire tutto il mondo nelle tenebre". Gli stessi Amazon studios confermano di aver riletto l'autore inglese secondo i canoni della modernità: "Ci è sembrato naturale che un adattamento del lavoro di Tolkien riflettesse l'aspetto reale del mondo", ha detto il produttore esecutivo Lindsey Weber a Vanity Fair, che ha recentemente pubblicato diverse foto della serie. "Tolkien è per tutti. Le sue storie parlano delle sue razze immaginarie che fanno del loro meglio quando lasciano l'isolamento delle proprie culture e si uniscono". Un vero e proprio inno al multiculturalismo.

Così Amazon si piega al politicamente corretto

Come già anticipato nelle scorse settimane, Amazon Prime introdurrà nella nuova serie dedicata a Il Signore degli Anelli una "tribù multietnica", ritraendo così i Pelopiedi (Harfoots), una delle tre razze di Hobbit che abitano al di là delle Montagne Nebbiose, nelle Terre Selvagge, originariamente descritta da Tolkien come più piccola e dalla pelle più "abbronzata" e scura rispetto agli altri Hobbit. Nell'universo di Tolkien, gli Harfoots sono fisicamente meno possenti, hanno le mani piccole. Amano vivere presso le colline, all'interno delle quali costruiscono le tipiche case hobbit dette Smíal. Se ci fossero dubbi dubbi sulla trasposizione televisiva all'insegna del politically correct, basta ascoltare le parole pronunciate dall'attore Sir Lenny Henry ai microfoni della Bbc: "Siamo Hobbit ma ci chiamiamo Harfoot, siamo multiculturali, noi siamo una tribù, non una razza, quindi siamo neri, asiatici e scuri, ci sono anche dei tizi Maori". I primi scatti diffusi in questi giorni hanno confermato le indiscrezioni delle scorse settimane e riacceso le polemiche sulle concessioni al politically correct della serie.

Gli elfi e i nani neri ne sono la prova. Ismael Cruz Cordova vestirà infatti i panni di Arondir, un "elfo silvano", personaggio originale della serie che come spiega Everyeye, Tolkien non aveva mai nominato nei suoi scritti. L'attore, nato a Puerto Rico nel 1987, ha la pelle scura e non rientra per nulla nel canone estetico elfico tradizionale. Accanto ad Arondir ci sarà anche la prima donna nana di colore: si tratta di Disa, mostrata anche lei nel teaser del Super Bowl. Altra forzatura della nuova serie de Il Signore degli Anelli che a molti fan non è piaciuta per nulla.

Tolkien, cattolico e "conservatore": se ne facciano una ragione i fondamentalisti "woke"

Di destra o di sinistra? Sarebbe sbagliato strumentalizzare e banalizzare il pensiero del professore fino a questo punto. Tirato per la giacchetta da ogni ideologia e fazione politica da decenni, ciò che si può tranquillamente affermare è che il professor Tolkien era un sincero cattolico e un conservatore vecchio stampo e chissà cosa penserebbe delle riletture "woke" delle sue opere. Come riportato in Lettere (p. 273, numero 142), epistolario che raccoglie le 354 lettere scritte dall'autore inglese dal 1914 fino alla morte, "ovviamente Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un'opera religiosa e cattolica; all'inizio lo è stato inconsciamente, ma lo è diventata consapevolmente nella revisione. È per questo motivo che non ho inserito, o ho eliminato, praticamente ogni riferimento a qualsiasi tipo di religione, culto o pratica religiosa, nel mondo immaginario. L'elemento religioso è infatti insito nella storia e nel simbolismo". Nel Signore degli Anelli, insisteva l'autore in un'altra lettera, "il conflitto essenziale non riguarda la libertà, anche se è naturalmente compresa. Riguarda Dio e il suo diritto esclusivo agli onori divini".

Roberto Vivaldelli (1989) è giornalista dal 2014 e collabora con IlGiornale.it, Gli Occhi della Guerra e il quotidiano L'Adige. Esperto di comunicazione e relazioni internazionali,  è autore del saggio Fake News. Manipolazione e propaganda mediatica dalla guerra in Siria al

"No al pensiero unico". E nelle scuole Usa scatta la guerra ai liberal. Stefano Magni il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Nelle scuole americane è in corso una lotta per l'educazione tra i gruppi di genitori conservatori che vogliono avere il diritto di decidere in libertà per i propri figli e la compagine liberal che vuole imporre un modello unico.

Dopo anni che si discute della nuova censura negli Stati Uniti, la stampa italiana pare essersene accorta. Ma con i soliti pregiudizi. I casi più clamorosi di cui si parla sui nostri quotidiani sono quello della scuola del Tennessee (Stato sudista e conservatore) che ha eliminato fra i libri consigliati ai ragazzi, su richiesta dei genitori, anche Maus di Art Spiegelman e quello della scuola del Texas (altro Stato sudista) che si sforza di dare “due punti di vista opposti” su tutto, anche sulla Shoah.

Partiamo dal Tennessee: Maus è il celebre libro a fumetti sulla storia della Shoah in cui gli ebrei sono rappresentati come topi e i nazisti come gatti. Non sono mamme gattare che ne hanno chiesto il divieto, ma madri conservatrici, non si direbbero neppure simpatizzanti per il nazismo, ma che considerano il libro e le immagini di Spiegelman non adatte ad un pubblico di bambini. Perché, spesso, si dimentica di dire anche qual è l’età dei destinatari: 12 e 13 anni, perché è di una scuola media che stiamo parlando. Questo dettaglio cambia molto, perché se è vero che è giusto introdurre il tema della Shoah anche fra i bambini, occorre anche vedere come. Ed è legittimo un dialogo fra genitori e insegnanti sull’opportunità di far leggere un fumetto destinato ad un pubblico adulto, per scene di violenza e nudità che contiene. Insomma si fa presto a liquidare l’episodio come un esempio di ignoranza dei sudisti conservatori (e magari anche di un po’ di revival nazista), perché anche un genitore italiano si porrebbe esattamente lo stesso problema.

Arriviamo al Texas, dove la preside di una scuola superiore di Southlake ha dichiarato che, per evitare l’ideologizzazione dell’insegnamento, ogni argomento controverso deve essere letto attraverso testi che esprimano più di un punto di vista. Punti di vista diversi anche sull’Olocausto, chiede l’incredulo insegnante? Anche l’Olocausto risponde l’ignara preside. Ignara della bufera che è esplosa, prima solo nazionale e poi anche internazionale. Ora il Texas è diventato, nel suo insieme, uno Stato di negazionisti, secondo l’opinione pubblica internazionale. Mentre la preside stava sottolineando un problema reale: l’ideologizzazione delle lezioni.

Ideologizzazione e sessualizzazione dell’insegnamento ai minori, fin dalle elementari, sono due problemi su cui i genitori americani si sono risvegliati negli ultimi due anni, soprattutto. Non perché Trump sta galvanizzando un’opinione pubblica di destra o vuole i voti delle mamme, come spesso si legge nei commenti dei quotidiani liberal, ma perché, come spiega Jonathan Butcher, della Heritage Foundation, la didattica a distanza americana ha permesso anche ai genitori di assistere alle lezioni dei figli. E si sono accorti, nella maggior parte dei casi, di pagare la retta per indottrinare i figli ad un’ideologia di estrema sinistra. Progetti come 1619, cioè la riscrittura della storia americana in chiave anti-razzista (il 1619 è l’anno in cui sbarcò il primo carico di schiavi in Nord America e gli anti-razzisti lo considerano il vero anno di nascita degli Usa, nazione “fondata sugli schiavi”) sono diventati anche programmi scolastici in migliaia di scuole, pubbliche e private. La sessualizzazione è l’altra faccia del problema, come constata la Heritage Foundation: "I bambini sono bombardati di contenuti sessuali, non solo sui social media, ma anche a scuola".

In uno scoop dello scorso agosto, la testa di giornalismo d’inchiesta Project Veritas (bannata dai migliori social network), aveva mostrato, in un’intervista con telecamera nascosta, cosa dicesse un professore marxista di una scuola pubblica di Sacramento. Simpatizzante “antifa”, coperto di tatuaggi, vestito come un militante di un centro sociale, spiegava con candore: “Ho 180 giorni per trasformare i miei studenti in rivoluzionari”. Con metodi spicci, come mandarli nelle manifestazioni e premiando gli studenti che si dimostrano più attivisti. “Loro (gli studenti, ndr) fanno un quiz ideologico e io appendo i risultati in classe. Ogni anno, loro diventano sempre più di sinistra. Io penso: queste ideologie sono considerate estremiste, no? Tempi estremi partoriscono ideologie estreme. Giusto? Questa è la ragione per la quale i ragazzi della generazione Z, questi ragazzi, stanno diventando sempre più di sinistra”.

La reazione a questa deriva ideologica (ed è solo la reazione che fa notizia in Italia, non il fenomeno che l’ha innescata) si sta palesando solo negli ultimi mesi, a livello locale e di società civile. A livello locale è la Florida in prima linea, con il governatore Ron De Santis che ha promosso la legge sui Diritti dei Genitori nell’Educazione. Si tratta di una legge che impone maggiore trasparenza sui programmi scolastici e maggior responsabilità nei confronti dei genitori. La legge è stata subito etichettata come discriminatoria nei confronti dei gay (Biden l’ha ribattezzata “Don’t Say Gay”), perché è stata introdotta anche a seguito della protesta contro l’eccessiva sessualizzazione nei programmi scolastici. Le madri conservatrici si sono organizzate in associazioni come le Moms for Liberty, per chiedere maggior trasparenza sui programmi scolastici e più voce in capitolo nei consigli. E soprattutto: più libertà di istruzione, perché l’istruzione pubblica negli Usa non è un monolite come in Italia, ma una rete spontanea di scuole locali, private, nate da attività caritative e pubbliche. E negli anni scolastici del Covid, anche lo homeschooling, l’educazione domestica dei figli, è raddoppiato, passando dal 5,4% all’11,1% delle famiglie con figli in età scolare.

Qui si scontrano due visioni opposte sul futuro della generazione Z. La tendenza dei progressisti, adottata da Biden, è quella di diffondere e potenziare il più possibile la scuola pubblica e rendere i figli indipendenti dai genitori, il prima possibile. Per il progressista (liberal) medio, i problemi sessuali e comportamentali insorgono in famiglia, se ai figli non si impartisce subito una completa educazione sessuale. Viceversa, per i conservatori, l’educazione spetta ai genitori e la scuola è un ausilio. Se l’ausilio esclude i genitori, lì nasce il problema. E semmai i bambini sviluppano problemi sessuali e comportamentali se vengono esposti troppo presto ad un bombardamento di nozioni iper-sessualizzate. Questa è la vera posta in gioco.

Stefano Magni, nato a Milano nel 1976, è un giornalista e saggista. Redattore de La Nuova Bussola Quotidiana, già redattore esteri de L’Opinione. Ha pubblicato, con l’editore Libertates Contro gli Statosauri, per il federalismo (Milano, 2010); Quanto vale un Laogai, gli occidentali e il mistero della Cina (Milano, 2012); i romanzi Piazza Caporetto, controstoria della Grande Guerra (Milano, 2015) e RYAN 1983 (Milano, 2018); per l’editore Rubbettino ha tradotto e curato l’edizione italiana del classico di scienza politica Stati Assassini (Soveria Mannelli, 2005) di Rudolph J. Rummel; con la Fondazione Magna Carta ha pubblicato il libro inchiesta It’s Tea Party Time (Roma, 2011); con le edizioni Istituto Bruno Leoni ha curato e tradotto This Lady is not for Turning, i grandi discorsi di Margaret Thatcher (Milano, 2013) e ha tradotto Storia e cambiamento sociale (Milano, 2017) di Robert Nisbet, vincitore del Premio Amerigo 2018. Dal 2016 è Research Assistant presso la Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali dell’Università degli Studi di Milano

Alabama, stop "cancel culture". Legge a tutela dei monumenti. Marco Valle l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La proposta: "Fino a 20 anni di cella per chi danneggia durante una rivolta. E 5mila euro di multa al giorno".

Da qualche anno negli Stati Uniti le statue «politicamente scorrette» in particolare quelle dei generali della Confederazione defunta nel lontano 1865 e del povero Cristoforo Colombo vengono giù come le olive durante la bacchiatura, perdono letteralmente la testa, imbrattate, buttate tra le onde o gettate nelle discariche.

Tutto ha avuto inizio a Baltimora nel 2017, quando il sindaco Catherine Pugh rimosse di notte e in tutta fretta la statua del generale Lee tirandola giù dal piedistallo dal quale per oltre 130 anni aveva scrutato la metropoli. La follia è proseguita poi in altre città grandi e piccole. All'inizio del 2020, dopo la morte dell'afro-americano George Floyd e l'incattivirsi della mobilitazione anti Trump, l'ondata si è trasformata in uno tsunami che nulla risparmia. A Dallas è stato necessario proteggere con un robusto cordone di sicurezza il Cimitero della Guerra Civile, il sacrario dei caduti locali della Confederazione, assalito dai militanti «antirazzisti» decisi a prendersela anche con lapidi e monumenti funebri.

È la cancel culture, un'ondata d'iconoclastia amplificata dal movimento Black lives matter. Nel mirino dei cancellatori appoggiati fragorosamente dal partito democratico e da quasi tutti i media sono finite statue, bandiere, quadri, strade, feste, tradizioni. Basta con i monumenti, interdette le bandiere, le festività (compreso l'incolpevole Colombus day). Persino Via col vento nonostante l'Oscar a Hattie McDaniel, prima donna di colore a vincere il premio è finito dietro la lavagna. Poi la caccia è continuata nelle università: proibiti Shakespeare, Euripide, Eschilo, Kipling, Dante e ogni altro autore «scorretto». L'obiettivo è ripulire l'immondo passato per trasformare il mondo in una pagina bianca e ripartire da un imprecisato anno zero della purezza. Lo stesso stile e il medesimo obiettivo delle dittature comuniste e delle teocrazie più cupe.

Per fortuna, qualcuno ragiona e reagisce. È il caso dello stato dell'Alabama, il cuore profondo di Dixie. Già nel 2017 il Senato locale aveva varato, per merito del repubblicano Gerard Allen, il Memorial Preservation Act, una legge che vietava esplicitamente «il trasferimento, la rimozione, l'alterazione o qualsiasi altra forma di danneggiamento contro i monumento esistenti da 40 anni o più». Per le amministrazioni comunali che non rispettavano le norme era prevista una multa una tantum di 25.000 dollari. Un segnale forte che però non ha scoraggiato gli iconoclasti e i loro sponsor politici. Nonostante la legge, hanno perseverato nella crociata, abbattendo in questi anni altri dodici monumenti.

Ma il senatore Allen è un tipo tosto ed è tornato alla carica con un nuovo disegno di legge che prevede multe salatissime per chiunque (amministratori o manifestanti) rimuova «il patrimonio monumentale»: 5000 dollari di multa per ogni giorno che passa prima che l'installazione sia ripristinata «in ottimo stato». In più, se la statua viene danneggiata durante una rivolta o un «raduno illegale», il reato diventa un crimine di classe B con una pena prevista di 20 anni di carcere. Martedì scorso, con un solo voto contrario, il progetto è stato approvato dalla commissione per gli affari governativi dello Stato. Il prossimo passo sarà nell'aula del Senato, dove i democratici hanno promesso battaglia. Ma Gerard Allen non demorde e si dichiara ottimista al punto da proporre agli avversari l'erezione a Selma di una statua per il defunto leader afroamericano John Lewis. Un ramoscello d'ulivo in una mano guantata. Marco Valle

La storia di Robert Lee: dall’inizio diseredato al successo di West Point. Matteo Muzio su Inside Over il 5 agosto 2022.

Diseredato di una prominente famiglia della Virginia, combattente della guerra del Messico, eroe di una repubblica di schiavisti, traditore degli Stati Uniti, rettore della Washington University ed educatore dei suoi studenti, icona del Nuovo Sud e modello di combattente americano. Il generale Robert Lee, figura storica al centro di numerose polemiche riguardanti alcune statue che sono state rimosse, ha incarnato le contraddizioni della giovane repubblica americana nei suoi momenti fondamentali. Ripercorreremo quindi le tappe della vita di questa figura storica per spogliarla dalle retoriche agiografiche e demonizzatrici che l’hanno caratterizzata nei decenni durante la sua vita e dopo la sua morte.

Si parte dall’inizio, dal suo background familiare, in apparenza molto privilegiato: il suo avo Richard Lee era un ricco mercante arrivò dallo Shropshire inglese nella colonia della Virginia nel 1639 per fare fortuna con il tabacco. Già suo figlio Richard Lee II fece parte della Camera dei Borghesi, l’organismo di autogoverno della colonia e negli anni seguenti altri esponenti della famiglia presero parte alle vicende rivoluzionarie: Richard Henry Lee fu uno dei firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza e suo figlio Henry sarebbe stato uno dei più abili ufficiali di cavalleria della guerra, apprezzato da George Washington. Tutte caratteristiche che farebbero pensare a una vita di privilegio non solo di status ma anche dal punto di vista reddituale. Niente di più sbagliato. Il padre Henry fece investimenti sbagliati che lo fecero anche incarcerare per debiti. Uno scandalo che però non intaccò l’idea che famiglie come la loro, di anglosassoni protestanti, fossero composte di leader naturali.

Il piccolo Robert, nato nel 1807, in una situazione familiare precaria, crebbe quindi in un’atmosfera di conservatorismo valoriale forte, che per tutta la vita lo portò a pensare che il miglior modo per governare la cosa pubblica fosse di farlo senza creare strappi nella società, ma assecondandone i movimenti e nel caso correggerla quando questa esprimesse la volontà di correre troppo. Robert non era il primogenito: anzi, sua madre Anne Hill Carter era la seconda moglie di suo padre e lui era il quarto figlio. La sfortuna del padre non si fermò dopo aver scontato la sua pena: la sua vicinanza al Partito Federalista e il suo essere filobritannico lo mise in contrasto con l’amministrazione di Thomas Jefferson e quella del suo successore James Madison, rischiando di essere linciato durante una rivolta a Baltimora, dove si trovava per una riunione del partito. Venne gravemente ferito e dovette lasciare la sua casa di Alexandria, in Virginia, tentando di andare nei Caraibi, per ripartire da zero.

Ma le ferite lo avrebbero fatto morire nel 1818, all’età di 62 anni. Lee si ritrovò a undici anni con una madre vedova di classe media, quarto di cinque figli, senza nessuna strada tracciata di fronte a sé. La via davanti a sé gli venne tracciata da un parente, William Henry Fitzhugh, che li ospitava nella sua casa di Fairfax, in Virginia e che scrisse al segretario alla guerra di allora John Calhoun per ottenere un posto per il giovane Robert all’accademia di West Point, l’istituzione che formava (e lo fa tuttora) gli ufficiali di carriera dell’esercito americano e dove avrebbe anche ricevuto una laurea in ingegneria (fino al 1824 era l’unica istituzione statunitense a fornirne una): qualora non avesse amato la vita militare, avrebbe potuto spendere il titolo accademico nella vita civile. Al giovane Robert la vita militare gli piacque molto: non era semplice, peraltro.

La vita dei cadetti era scandita da una rigida disciplina e da un complesso sistema di violazioni, che venivano sanzionate con delle penalizzazioni sul profitto e sull’esame finale, calcolato in duemillesimi, che racchiudeva una summa di tutti gli insegnamenti e un’esercitazione militare. Lee fu l’unico a non ricevere nemmeno un ammonizione, avendo rispettato tutte le prescrizioni in modo scrupoloso. E dire che bastava pochissimo per essere sanzionati: un cadetto ne ottenne una per aver protestato per una mancata partenza anticipata per poter festeggiare il Natale insieme con i suoi genitori.  Pur non violando mai il regolamento, Lee iniziò a pensare che quel complesso sistema di regole, che puniva severamente un bottone slacciata, fosse eccessivo. All’esame finale nel 1829 fu il secondo dietro un certo Charles Mason, un futuro imprenditore ferroviario di successo, prendendo il voto 1966/2000 contro i 1995/2000 del suo compagno di corso. I due risultati migliori della storia dell’accademia.

Quando Lee fece ritorno nella casa, all’età di 22 anni, sua madre stava morendo. Robert Lee era orfano e solo. Durante il soggiorno a casa nell’estate del 1829 riconobbe una giovane donna che aveva conosciuto da bambino: suo padre, nonostante fosse caduto in disgrazia, aveva contatti con i principali esponenti del partito federalista, tra cui il figliastro di George Washington, George Parke Custis, che aveva ereditato la tenuta di Mount Vernon. Si recò con la figlia Mary a rendere omaggio alla cara Anne: Lee era un giovane uomo con molte ammiratrici ma non poteva non pensare al suo avvenire. Quella era la rampolla della mancata famiglia reale d’America, con una vasta tenuta di 3.200 ettari, con coltivazioni attive di tabacco, cotone e l’allevamento di bachi da seta. Senza contare l’immenso prestigio che la famiglia si portava dietro.

Mary inoltre era intelligente, si interessava di politica e sapeva conversare. La sua religiosità concludeva l’elenco dei pregi che per Lee ci volevano in una buona moglie. Cominciò a scriverle, con discrezione, nel 1830, anche perché la madre di lei, Mary Lee Fitzhugh, operava una lettura preventiva delle sue missive. Il padre George però non era convinto che quell’ufficialetto spiantato, che sarebbe stato destinato a una vita vagabonda in giro per le installazioni militari americane, a costruire ponti e a riparare forti, fosse l’uomo giusto per la sua unica, preziosa, figlia. Infatti la sua prima proposta nel 1830 venne rifiutata. Ma il giovane Robert, nel 1831 di stanza a Fort Monroe, nella penisola della Virginia che si bagnava nella baia di Chesapeake, si vide accettata la sua proposta. Sua moglie sarebbe stata una compagna fedele, forse un po’ occhiuta anche riguardo ai suoi contatti con giovani donne che ne ammiravano la figura, ma preziosa, nonostante la salute che si sarebbe rivelata malferma. Anche il patrimonio non sarebbe stato quello che Lee si aspettava. Almeno però poteva cominciare la sua vita di militare non da solo. E sarebbe diventato così, sul campo di battaglia, uno dei più promettenti ufficiali dell’esercito americano.

Il pericoloso ritorno dei libri proibiti. Negli Usa sempre più genitori vorrebbero bandire alcuni libri nelle scuole. Ci sono continue richieste secondo il New York Times che racconta un fenomeno che passa dai tribunali. CHIARA PIZZIMENTI su Vanityfair l'8 febbraio 2022.  

In Wyoming un procuratore provinciale ha ipotizzato accuse contro impiegati di librerie che avevano sui loro scaffali volumi come Questo libro è gay. In Oklahoma è stata presentata una legge per proibire alle biblioteche delle scuole pubbliche di avere libri sul sesso, sull'identità sessuale o di genere. In Tennessee l'ultimo caso che riguarda una graphic novel famosa in tutto il mondo, MAUS, di Art Spiegelman. Il consiglio sull'educazione della contea di McMinn ha votato per rimuovere questo libro premiato con il Pulitzer da un programma scolastico sull'olocausto per nudità e parole volgari.

Sono solo alcuni degli esempi che il New York Times riporta in un articolo in cui racconta una pericolosa tendenza che sta riprendendo piede negli Stati Uniti: elenchi di libri proibiti con numeri che non si vedevano da decenni. L'American Library Association ha fatto sapere di avere 330 report di contestazioni ognuno con all'interno più di un libro, lo scorso autunno.

«Qui negli Usa è un fenomeno molto evidente quello del ritorno all'indice dei libro proibiti con il tentativo di mettere sotto processo librai e bibliotecari che li propongono» spiega Suzanne Nossel, che guida l'organizzazione per la libertà di espressione PEN America. Finora questi tentati di messa sotto accusa non sono riusciti, ma il clima non è positivo secondo l'organizzazione che si scaglia contro i gruppi conservatori che stanno uscendo dai consigli scolastici per arrivare alla politica locale sostenendo questi temi.

I libri più spesso messi all'indice ci sono quelle che riguardano tematiche razziali, di genere e sessualità. Fra questo anche testi notissimi come L'occhio più azzurro, il primo romanzo della scrittrice afroamericana Toni Morrison. «Non sapevo nemmeno che si potesse fare causa in questo modo per un libro» spiega George Johnson, autore di All Boys Aren’t Blue di cui è stata chiesta la rimozione in 14 stati.

Chi insiste per togliere questi libri dagli scaffali li ritiene radicali e ideologizzati. Vale per esempio per The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood. Queste persone vogliono far prevalere il diritto dei genitori a crescere i figli secondo le proprie idee, non pensando che eliminare questi libri toglie ad altri il diritto di crescere in libertà i figli.

Alcune biblioteche hanno già meccanismi per cui alcuni libri non sono accessibili ai ragazzi in base alle scelte dei genitori. Laurie Halse Anderson, autrice di libri young adult, ricorda che attaccare questi libri significa rimuovere anche una possibilità di confronto aperto sulle tematiche che trattano.

Tiffany Justice fondatrice di Moms for Liberty, Mamme per la libertà, dice che un genitore non dovrebbe essere attaccato perché si chiede se un libro è appropriato. In particolare per libri in cui c'è sesso in diverse forme è il genitore a dover scegliere perché i figli non abbiano conseguenze sullo sviluppo della loro sessualità.

Christopher M. Finan, direttore esecutivo della National Coalition Against Censorship, dice che non si vedeva un livello tale di richieste di censura dagli anni Ottanta. E ora il movimento è amplificato dai social media. Non sono solo libri recenti a finire sotto accusa. Ci sono anche classici come Uomini e Topi e Il buio oltre la siepe (per l'utilizzo di termini razzisti) fra i 10 più messi in discussione del 2020.

"Gettate quei libri nel fuoco". La guerra che mette all'indice il sapere. Alberto Bellotto il 6 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Gli Stati Uniti sono nel bel mezzo di una guerra culturale. Il mondo progressista e quello conservatore sono impegnati in una battaglia che ha il suo terreno di scontro nelle scuole. L’oggetto al centro di queste schermaglie sono i libri. Definiti osceni da qualcuno, volgari da altri e per molti razzisti.

L’ultimo a finire all’indice dei libri proibiti è stato "Maus", la celebre graphic novel di Art Spiegelman sull’Olocausto. Il consiglio scolastico della contea di McMinn, in Tennessee, il 10 gennaio scorso ha deciso di bandirlo dal curriculum di studio di una terza media perché all’interno ci sarebbero immagini inappropriate come dei nudi femminili. La vicenda di McMinn non è un caso isolato. Come tanti piccoli fuochi in molti consigli scolastici si è aperta la battaglia sui libri da vietare.

All’inizio dell’anno nella contea di Spotsylvania, in Virginia, è andato in scena uno scambio emblematico di questa “guerra”. La madre di un bambino si è avvicinata a un microfono e ha spiegato come tutti i ragazzi della scuola siano esposti alla “pornografia”. Nel mirino della donna è finito “Chiamami con il tuo nome” di André Aciman, poi diventato un film diretto da Luca Guadagnino, e “33 Snowfish”. “Cercando nel catalogo online della biblioteca locale”, ha detto la mamma, “ho trovato 172 risultati per libri che includono la parola “gay”, 84 risultati per libri con la parola “lesbica” e soltanto 19 risultati per libri con la parola “Gesù” – ma la metà di questi è sui musulmani”.

Alla donna ha fatto eco un altro membro del consiglio dicendo “penso dovremmo gettare quei libri nel fuoco”. Un’esagerazione che richiama anni bui della storia occidentale, ma che purtroppo ha anche avuto un seguito grottesco. Nel vicino Tennessee un pastore ha letteralmente bruciato i libri di Harry Potter e Twilight con l’accusa di stregoneria. Eccessi che forse offuscano quello che realmente c’è dietro a questa battaglia. L'esito delle riunioni del consiglio ha portato a una massiccia revisione dei libri in mano al distretto: le cinque biblioteche che lo compongono hanno 65mila titoli e per settimane una squadra di 30 persone è stata posta alla revisione dei contenuti ritenuti inappropriati.

La battaglia negli Stati repubblicani

C’è un primo livello, quello politico cavalcato da entrambi i partiti, e poi uno quotidiano, formato da genitori preoccupati per l’educazione dei figli. Partiamo dalla dimensione politica. L’impulso a cancellare i libri non è oggi una cosa solo di destra, o solo di sinistra. Ma il percorso di cancellazione arriva da strade diverse.

Negli ultimi due anni l’universo conservatore ha puntato il dito soprattutto contro i testi della Critical race theory e del mondo lgbt, considerati indottrinanti quando palesemente anti-americani. In molti Stati “rossi” sono spuntate norme e battaglie scolastiche per porre un freno a questi testi, per toglierli dalle biblioteche scolastiche. Si tratta di Texas, Ohio, Wyoming, Utah, Oklaoma, ma anche Florida e la Virginia. Nel Lone Star State c’è il gruppo di repubblicani più agguerrito. Il governatore Greg Abbott ha lanciato un’inchiesta per verificare addirittura “attività criminali” che coinvolgano la “pornografia” nella vuole. Un deputato statale del Gop, Matt Krause ha stilato un elenco di 850 libri sui quali servono “verifiche”. Nel distretto scolastico di Goddard, in Kansas, ben 29 libri sono stati tolti dopo queste verifiche.

Questi controlli riguardano quelli che vengono considerati contenuti espliciti dei libri, che nel caso repubblicano riguardano storie con al centro tematiche gay e abusi sessuali. E così a finire nel mirino ci sono libri come "Il racconto dell'ancella" di Margaret Atwood o "Tra me e il mondo" di Ta-Nehisi Coates. Chiaramente la politica conservatrice punta sulla moralizzazione delle scuole perché sa bene che in un anno elettorale come il 2022 ogni battaglia culturale sarà utile per superare i democratici alle elezioni di metà mandato e metter così in difficoltà una presidenza già traballante come quella di Joe Biden.

I precedenti

Eppure questa battaglia moralizzatrice non è nuova. La lotta a contenuti scabrosi parte da lontano, ma è sufficiente fermarsi agli anni ’80 per capire come i contenuti espliciti, che fanno scandalo, non siano una novità. All’epoca una violenta critica contro il linguaggio esplicito di alcune canzoni di Prince convinse la moglie di un deputato del Tennessee, Al Gore (futuro vicepresidente di Bill Clinton) a ingaggiare una battaglia contro contenuti volgari che portò alla nascita delle famose etichette Parental Advisory sui dischi con contenuti inappropriati.

Un po’ come allora oggi il ruolo dei genitori resta centrale al di là dei movimenti dei partiti. E appunto si gioca nell’azione quotidiana nei consigli scolastici. L’elezione a governatore della Virginia di Glenn Youngkin è un caso emblematico. Nel corso della campagna elettorale Youngkin si è fatto portavoce di quelle famiglie preoccupate per l’educazione dei figli. La pandemia, e soprattutto la didattica a distanza, hanno portato molte madri e padri a stretto contatto con gli studi dei figli e questo ha iniziato ad incrinare il rapporto con l’istruzione e i libri che vengono consigliati a scuola.

Il Washington Post ha raccolto le opinioni di molti di questi “genitori attivi”. Uno di loro Latham, ha spiegato candidamente come “dovrebbe essere una scelta dei genitori esporre i propri figli a contenuti sessuali. Se un libro è in biblioteca, non ho più questa scelta”. Ad onor del vero in molti distretti è possibile per i genitori imporre blocchi chirurgici ai propri figli e le biblioteche sono attrezzate a vietare questo o quel libro al singolo studente. Ma questo per molti non è sufficiente.

Anche la sinistra vieta

A sinistra la situazione non è migliore. Qui la tendenza a voler cancellare o eliminare i libri arriva dalle Università, dai grandi circoli liberal. A finire nel mirino sono stati soprattutto i classici. Due fra tutti sono stati casi emblematici: “Le avventure di Huckleberry Finn” di Mark Twin e “Il buio oltre la siepe” di Harper Lee. Giudicati troppo bianchi e soprattutto troppo razzisti per avere dignità di lettura e dignità di restare in una biblioteca. Il libro della Lee per molto tempo è stato introvabile in un distretto dello Stato di Washington.

La differenza tra la destra e la sinistra sta forse nei principi che guidano questa battaglia ai libri. Principi che si inseriscono nella grande spaccatura della società americana. I liberal sono concentrati soprattutto in un’intesa opera di riscrittura della storia, nella volontà di cancellare simboli di un passato complesso e a tratti controverso. Pensiamo solo alla battaglia per togliere e rimuovere le statue, ultime in ordine di tempo quella del padre fondatore Thomas Jefferson o del presidente Teddy Roosevelt.

A destra invece ci si concentra di più sulla preservazione del passato. Non è un caso se qualche mese fa il vicegovernatore del Texas sia intervenuto in prima persona per bloccare una presentazione del libro “Forget the Alamo”. Un testo storico che revisiona il ruolo dei patrioti americani uccisi da truppe messicane nel 1854.

© Fornito da Il Giornale Una scena del film "Il buio oltre la siepe" tratto dal romanzo di Harper Lee

Lo spettro dell’anti-intellettualismo

Come abbiamo visto la spinta a voler eliminare i libri parte da molto lontano, ancora prima che la società americana si spaccate così tanto. E si insinua in quella tensione tra élite colte e classi popolari con livelli di istruzione più bassi. Per quasi tutto il Novecento il pensiero americano è stato affascinato dall’antiintellettualismo. Nel 1964, Richard Hofstadter vinse il premio Pulitzer per un libro dal titolo eloquente: “L’anti-intellettualismo nella vita americana”. Un trattato in cui si delinea come in tutta la storia del paese sia percorsa dalla diffidenza nei confronti delle élite e della tecnocrazia. Diffidenza riesplosa con gli anni della crisi e sublimata nell’elezione di un presidente di rottura come Donald Trump.

Oggi il nuovo-vecchio obbiettivo sono i libri. Da cancellare se il passato e ingombrante, o da eliminare se questo rappresenta una critica alle contraddizioni del sogno americano. Quello che è certo è che sta emergendo una nuova classe di famiglie americane che colpite nel vivo vogliono continuare a coltivare l’unicità del mito americano proteggendo i figli dai dolori e dalle violenze del mondo. Un tentativo forse lodevole ma difficile.

Baron Braswell è un consulente finanziario e pastore afroamericano. Ha 60 anni e vive in Virginia. Intervenendo nel consiglio scolastico della sua contea ha chiesto di riammettere tutti i libri, quelli con contenuti sessuali espliciti e quelli più “razzisti”. “Quando ero al liceo negli anni '70”, ha raccontato, “mi sono imbattuto nella lettura di “Huckleberry Finn”e per la presenza della N-Word l’ho ritenuto offensivo, ma i miei genitori non si sono mai lamentati in casa del libro e allo stesso tempo io non ho mai manifestato particolare disagio”. “Sono contento”, ha aggiunto, “che mia madre mi abbia permesso di leggerlo”.

Forse il pensiero di Braswell potrebbe aiutare molti, a sinistra come a destra, a decidere cosa fare con questo o quel libro “difficile”: “So chi sono, e non lascerò che ‘Huckleberry Finn’ mi definisca come persona, non è mai stato così. Ma era una storia interessante”.

"Razzista": e la cancel culture elimina il Premio Pulitzer. Roberto Vivaldelli su il Giornale il 28 Gennaio 2022.  

Per chi non lo conoscesse, Edward O. Wilson, morto lo scorso 26 dicembre, è stato un biologo statunitense di fama mondiale. Fondatore della sociobiologia, docente ad Harvard nel 1956, nella sua carriera Wilson ha fatto una serie di importanti scoperte scientifiche, inclusa quella secondo cui le le formiche comunicano principalmente attraverso la trasmissione di sostanze chimiche, i feromoni. Nel 1971 ha pubblicato The Insect Societies, il suo lavoro definitivo sulle formiche e altri insetti. Il libro ha fornito un quadro completo dell'ecologia, della dinamica della popolazione e del comportamento sociale di migliaia di specie. Nel celebre In Human Nature (1978), per il quale ha ricevuto un Premio Pulitzer nel 1979, Wilson ha discusso l'applicazione della sociobiologia all'aggressività umana, alla sessualità e all'etica. Un intellettuale fondamentale, ora preso di mira dai fondamentalisti del politicamente corretto che vorrebbero ridiscutere e rivedere la sua autorevolissima figura.

Wilson accusato di razzismo

A poche settimane dalla sua morte, come riporta Il Foglio, la rivista Scientific American ha pubblicato un articolo piuttosto controverso contestato da numerosi scienziati, nel quale il celebre biologo viene accusato e tacciato di razzismo. Nel suo editoriale, Monica R. McLemore, professoressa associata presso il Dipartimento di infermieristica per la salute della famiglia e studiosa presso l'Advancing New Standards in Reproductive Health all'Università della California, San Francisco, spiega come New Synthesis di Wilson abbia "contribuito alla falsa dicotomia tra natura ed educazione" e lanciato l'idea che le differenze tra gli esseri umani potrebbero essere spiegate dalla genetica, dall'ereditarietà e da altri meccanismi biologici. "Scoprire che Wilson la pensasse in questo modo è stata una grande delusione" osserva McLemore. Il biologo americano, afferma, "era sicuro delle convinzioni problematiche. I suoi predecessori - il matematico Karl Pearson, l'antropologo Francis Galton, Charles Darwin, Gregor Mendel e altri - non erano da meno e pubblicarono anche loro opere e teorie piene di idee razziste sulla distribuzione della salute e delle malattie nelle popolazioni, senza alcuna attenzione al contesto".

Ma la cosa più grave è che questo processo ideologico e mediatico avviene senza che l'interpellato, deceduto lo scorso dicembre, possa quantomeno difendersi dalla nuova inquisizione della correttezza politica. Un fatto grave, a maggior ragione perché le accuse arrivano da una rivista che si considera generalmente scientifica e autorevole. Le idee e le teorie di Wilson possono essere riviste, messe in discussione e rivisitate, ma etichettarlo come "razzista" e gettarlo nella pattumiera nella storia è un abominio tipico della cancel culture.

"Non è razzista credere nelle differenze genetiche"

A smascherare i deliri buonisti della rivista americana ci ha pensato il deputato conservatore Daniel Finkelstein sul The Times, il quale ha sottolineato il fatto che credere nelle differenze genetiche non sia affatto sinonimo di "razzismo" come i progressisti identitari vorrebbero far credere. Nel novembre del 1978, ricorda Finkelstein, una donna si avvicinò al massimo esperto mondiale di formiche e cominciò a versargli una brocca d'acqua sulla testa. L'episodio accadde durante un incontro dell'American Association for the Advancement of Science, e lo scienziato contestato era proprio Edward O Wilson, che stava per tenere una conferenza sulla sociobiologia, un campo in cui era un pioniere. "Fu un attacco alla verità, alla libertà di pensiero e allo sforzo scientifico. E l'attacco non è ancora finito. Rimane del lavoro da fare per resistergli" spiega Finkelstein. L'editoriale scomposto di Scientific American ne è la dimostrazione.

"Figlio di put..." Joe Biden senza freni insulta il giornalista: beccato. Il video clamoroso. Il Tempo il 25 gennaio 2022.

Joe Biden è convinto che il microfono sia spento e insulta il giornalista dell'odiata Fox News. Un fuori onda clamoroso quello scappato alla Casa Bianca dove "spleepy Joe" stava rispondendo alle domande dei cronisti. Particolarmente agguerrito è sembrato Peter Doocy, il corrispondente da Washington per il network conservatore, insoddisfatto perché il presidente degli Statio Uniti aveva eluso alcune domande sull'economia. "Vuole rispondere a domande sull'inflazione? Crede che l'inflazione sia un tema chiave in vista delle elezioni di medio termine?", chiede il giornalista quando la conferenza stampa era stata già dichiarata chiusa, e il presidente probabilmente pensava che l'audio della sala fosse stato stento.

Parlando ad alta voce, probabilmente rivolto ai suoi collaboratori, non distanti, Biden si è lasciato andare: "No, è una grande risorsa. Più inflazione" dice ironicamente prima di offendere: "Che stupido figlio di putt...". Il video rilanciato da C-Span (di seguito e a questo link) ha fatto presto il giro del mondo e rilanciato dai network critici nei confronti del "commander in chef" democratico, sempre più sulla graticola.  

Il doppiopesismo liberal sulle offese di Biden. Marco Gervasoni il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La democrazia muore nell'oscurità. La peste bruna è sbarcata in America. La Casa Bianca vuole censurare i giornalisti, forse persino eliminarli.

La democrazia muore nell'oscurità. La peste bruna è sbarcata in America. La Casa Bianca vuole censurare i giornalisti, forse persino eliminarli. Quando viene soppressa o minacciata una voce libera, muore la libertà di tutti. Analoghe espressioni, di allarmata e un po' ridicola, retorica, avreste letto se, in luogo di Biden, fosse stato Trump ad accusare la madre di un giornalista Fox di esercitare il mestiere più antico del mondo. E invece, nessun commento o quasi dai media liberal, cioè quasi tutti. In fondo, dicono, il presidente è un gaffeur, e uno che per distrazione può invitare Putin a invadere «un pochino» l'Ucraina, può anche dire son of a bitch a un cronista di una delle poche tv non di sinistra del paese. In effetti, il presidente non appare lucidissimo, detto con tutto il rispetto e, vedendo il video, nel caso si esprime con un tono ironico e divertito. Si sa poi che, almeno negli uomini di una certa età americani, si tratta di un'espressione amichevole. Del resto non pare che il cronista Fox abbia alzato gli isterici lai che, a parti invertite, se il presidente fosse stato Trump e la rete Cnn, avremmo sentito. Si vede che i giornalisti conservatori sono più ironici e meno permalosi di quelli di sinistra, sai che novità. Ma spesso i piccoli casi ci permettono di proporre delle riflessioni più a fondo. Non bisogna infatti stupirsi di questo doppio registro. Ormai da molti anni il giornalismo non solo americano è dominato dalla sinistra, e l'ultimo cronista si sente investito da una missione salvifica militante. Non deve più raccontare quello che ha visto, ma dimostrare quanto la destra faccia schifo. È una mentalità neppure più politica. È religiosa, di una religiosa settaria e spietata, che esercita la demonologia. Per loro l'avversario è Satana, a cui non va perdonato nulla: anche quando sembra fare del Bene, sta facendo del Male. Al contrario, chi combatte il Male, cioè loro e i loro referenti politici, deve esser scusato in tutto, proprio perché impegnati in questa lotta. Diversamente dal cristianesimo, questa religione progressista non ammette perdono e non possiede valori: i suoi adepti non credono in nulla, se non nel potere. Ma lamentarsi non serve: semmai, la destra dovrebbe battersi il petto per avere sottovalutato l'occupazione della sfera culturale. Ma è sempre in tempo per rimediare: anche perché, semmai dovesse tornare al potere, la sinistra non le farà passare neppure una battuta innocente, quale era quella di Biden. Marco Gervasoni

Joe Biden, le gaffe più imbarazzanti del Presidente Usa. Terrorismo, deforestazione, epidemie: un solo luogo, molte sfide. Roberto Vivaldelli su Inside Over il 26 gennaio 2022.  

Non è un momento facile per il presidente degli Stati Uniti Joe Biden, alle prese con l’aumento dell’inflazione, la gestione della pandemia, la crescita della criminalità nelle grandi città americane, l’incapacità di approvare il Build Back Better, la tensione geopolitica con la Federazione Russa per l’Ucraina. Una serie di nodi irrisolti che stanno facendo precipitare i consensi dell’inquilino della Casa Bianca: secondo l’ultimo sondaggio condotto da Harvard CAPS/Harris per The Hill, infatti, il tasso di approvazione del presidente Biden è sceso al 39%, minimo storico da quando l’ex senatore del Delaware si è insediato alla Casa Bianca. In questo clima, tutt’altro che felice per la sua presidenza, ci mancava solo l’ennesima e imbarazzante gaffe. Una delle tante che hanno segnato il suo primo anno da presidente degli Stati Uniti.

Insulti al giornalista di Fox News

Durante una conferenza stampa svoltasi ieri nella East Room, forse convinto che il microfono fosse spento, il presidente Usa si è lasciato scappare un pesantissimo insulto all’indirizzo del giornalista Pete Doocy definendolo “stupido figlio di put..”, dopo che l’inviato di Fox News aveva posto una domanda sull’inflazione e sulle ripercussioni dell’aumento generale dei prezzi sulle elezioni di medio termine. “Pensa che l’inflazione abbia una responsabilità politica e incida sulle elezioni di medio termine?” ha chiesto il giornalista al presidente mentre i giornalisti stavano lasciando la East Room. Il presidente non ha affatto gradito il quesito e ha risposto con una certa dose di sarcasmo : “No, è una grande risorsa. Che stupido figlio di puttana”. Il microfono era proprio di fronte a Biden.

Il video, condiviso fra gli altri dal giornalista di Politico Alex Thompson, è diventato rapidamente virale sui social media. Successivamente, come ha raccontato lo stesso Doocy a Sean Hannity, il presidente lo ha chiamato per “chiarire” la questione. Vicenda chiusa sì, ma la figuraccia rimane, e purtroppo per Joe Biden non è la prima gaffe della sua vita, anzi. Nell’ultimo anno ne ha collezionate parecchie.

Quello “svarione” che ha fatto arrabbiare Kiev

Non più tardi di mercoledì scorso, Joe Biden è stato protagonista di una conferenza stampa a dir poco disastrosa e sconcertante. Come ha osservato Gian Micalessin su Il Giornale, il presidente prima si è detto certo che Putin “muoverà” verso l’Ucraina, poi inizia a cavillare distinguendo tra “un’incursione minore che ci porterebbe a dividerci sul cosa fare e cosa non fare” e uno scenario in cui “le forze russe attraversano il confine uccidendo i combattenti ucraini”. Un distinguo politicamente e strategicamente disastroso, interpretato dagli avversari repubblicani, e da molti giornalisti, alla stregua di “un semaforo verde che offre a Putin l’occasione di entrare in Ucraina a suo piacere”. Biden ha poi ammesso che alla fine la reazione americana dipenderà da “quello che lui (Putin, ndr) farà” e “dalla misura in cui riusciremo a ottenere l’unità sul fronte della Nato”. Uno svarione ancor più grave, ha sottolineato Micalessin, perché il Comandante in Capo ha ammesso di essere in balia delle mosse avversarie. Gaffe che peraltro Kiev non ha affatto gradito.

Gaffe al G7 e davanti alla Regina Elisabetta

Lo scorso dicembre, durante il discorso di inaugurazione della South Carolina State University, ateneo storicamente afroamericano, ha più volte accidentalmente definito la vicepresidente Kamala Harris “presidente” e storpiato il nome di George Floyd, l’autotrasportatore afroamericano ucciso dalla polizia il 25 maggio del 2020, a Minneapolis. Il 12 gennaio, “Sleepy Joe” – così come lo ha apostrofato Donald Trump in passato – ha nuovamente definito Kamala Harris “presidente” in un altro lapsus, questa volta durante uno speech ad Atlanta sul tema del diritto di voto. Riferendosi all’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2020, Biden ha dichiarato: “La scorsa settimana, il presidente Harris ed io siamo stati al Campidoglio degli Stati Uniti per ricordare uno di quei momenti che segnano la storia americana”. A settembre ha fatto il giro del mondo il video in cui l’inquilino della Casa Bianca, durante un vertice con i primi ministri di Regno Unito e Australia, si è “dimenticato il nome” del capo del governo di Canberra Scott Morrison. Annunciando la nascita dell’alleanza AUSUK nel settore della sicurezza, Biden ha infatti accusato un vuoto di memoria nel rivolgersi al collega per ringraziarlo.

Continue amnesie e mancanza di lucidità: l’inquilino della Casa Bianca, 79 anni compiuti lo scorso novembre, sembra non riuscire proprio a stare lontano dagli scivoloni. Anche quando partecipa ai palcoscenici internazionali più in vista e rappresenta la prima superpotenza mondiale. Lo scorso giugno, durante il G7 in Cornovaglia, ha confuso per ben tre volte la Libia e la Siria mentre stava rispondendo a una domanda di un giornalista sulle possibili azioni che l’amministrazione intendeva intraprendere contro la Russia. E non finisce qui. Come ricorda Il Giorno, il presidente Usa ha rotto il protocollo durante l’incontro con la regina Elisabetta, che aveva invitato Biden e la first lady a prendere un the nel castello di Windsor. Al cospetto della sovrana il presidente non si è tolto gli occhiali da sole mentre veniva eseguito l’inno nazionale degli Stati Uniti. Ma forse la figuraccia più imbarazzante Biden l’ha rimediata durante la Cop26 di Glasgow, quando al presidente Usa è “sfuggito” un peto – “lungo e rumoroso” – in presenza di Camilla Parker Bowles. Una vicenda che ha imbarazzato, e non poco, la Casa Bianca.

Le accuse di violenza sessuale

Alle gaffe si aggiungono le gravissime accuse di violenza sessuale formulate dalla sua ex collaboratrice, Tara Reade, recentemente intervistata dal Giornale. La donna, una delle otto che nel 2019 si sono fatte avanti sostenendo di essere state molestate da Joe Biden, al tempo senatore e oggi presidente degli Stati Uniti d’America, spiega che l’episodio, com’è noto alle cronache, risale al 1993, quando portò all’esponente dem una borsa per la palestra. All’epoca nello staff di Biden, Reade sostiene di essere stata toccata, baciata e infine “penetrata con le dita” dall’allora senatore del Delaware fra le mura di Capitol Hill. Qual è il crocevia del mondo di domani?

·        Kennedy: Le Morti Democratiche.

Le spie che diedero l'atomica a Stalin. Storia di Andrea Muratore su Il Giornale il 15 dicembre 2022.

Grandi scienziati diventati spie ma che oggi possiamo vedere, al contempo, come traditori e eroi. Traditori, perché passarono, spesso per ideologia, i segreti atomici e delle "armi finali" decisive per chiudere la Seconda guerra mondiale dagli Stati Uniti e il Regno Unito all'Unione Sovietica di Stalin. Eroi, col senno di poi, perché la parità atomica e l'incubo della mutua distruzione assicurata furono, in fin dei conti, il vero potere frenante, il katehon, contro la degenerazione della Guerra Fredda in Terza guerra mondiale.

Innescarono il riarmo, consegnarono i segreti dell'arma finale alla superpotenza comunista ai tempi di Iosif Stalin, piegarono alla politica la scienza. Ma quasi mai lo fecero per venalità e, anzi, proprio col loro agire fecero capire la necessità di regolamentare la competizione sugli armamenti per evitare un Far West nucleare.

Stalin, dal 1943, iniziò a desiderare ardentemente la bomba atomica. Risolta la fase più drammatica dell'aggressione nazista, diede al fedelissimo Lavrentij Beria il compito di strutturare politicamente il programma atomico guidato dal fisico Igor Kurcatov. A questo piano, lo spionaggio diede una sponda fondamentale per chiudere rapidamente il divario con l'Occidente, ai tempi ancora alleato dell'Urss, e portare Mosca al suo primo test atomico, condotto a Semipalatinsk, in Kazakistan, nel 1949.

Parliamo di un processo che i Paesi anglosassoni impegnati nella ricerca dell'atomica, anche dopo gli attacchi di Hiroshima e Nagasaki che ne svelarono al mondo l'impatto, avevano già iniziato a capire all'indomani della fine della Seconda guerra mondiale. La "Guerra Fredda", in un certo senso, iniziò a Ottawa, capitale del Canada, il 5 settembre 1945, tre giorni dopo la resa del Giappone agli Alleati. Quel giorno Igor Gouzenko, attaché all'ambasciata sovietica, chiese asilo in Canada portando decine di documenti compromettenti sullo spionaggio sovietico in Canada e negli Usa, comprendenti anche dossier sulle ricerche industriali volte all'ottenimento dell'arma atomica.

La rete di spie comprendeva l'economista Angela Chapman, il fisico Raymond Boyer e il deputato comunista Fred Rose, che passava ai sovietici i verbali delle sedute straordinarie e segrete dedicate alla discussione sui risultati americani del Progetto Manhattan.

Fondamentale, come ricorda Alfredo Mantici in Spie atomiche, anche l'operato di Klaus Fuchs, cittadino tedesco in fuga dal regime nazista riparato in Gran Bretagna. Fuchs fu allievo di Max Born ed è ritenuto uno dei più grandi teorici della storia del Novecento. Entrò a far parte dell'équipe di scienziati del laboratorio di Harwell per le ricerche atomiche, e fu messo a capo di un dipartimento nel 1942, per poi andare in America alla Columbia a lavorare al Progetto Manhattan l'anno successivo. Fuchs, nota Mantici, fu "l'inventore di un metodo per calcolare l'energia di un assemblaggio fissile estremamente critico" e controllare la trasformazione dell'uranio in plutonio, decisivo per costruire un'arma atomica. Prontamente consegnato all'Nkgb, l'onnipotente servizio segreto di Mosca, per tramite della spia Harry Gold, industriale chimico di Philadelphia figlio di cittadini russi. E negli ultimi anni, importante anche lo studio che ha portato al nome di un altro agente doppiogiochista, Oscar Seborer, cittadino americano che, come ricordato da Davide Bartoccini su Il Foglio, passò documenti particolarmente preziosi ai sovietici.

La storia di queste figure si incrocia con quella mitica dei Cambridge Five, i cinque agenti doppiogiochisti britannici al servizio dei sovietici che oltre a trasferire segreti a Mosca fecero opera di trasmissione di nomi e identità di doppiogiochisti attivi sul suolo sovietico al soldo dell'Occidente. Kim Philby (nome in codice: Stanley), Guy Burgess (nome in codice: Hicks), Donald Duart Maclean (nome in codice: Homer), Anthony Blunt (nome in codice: Johnson) e John Cairncross (nome in codice: Liszt). Tra questi Maclean, nota Gnosis, ebbe un ruolo decisivo tra le spie atomiche: "aveva accesso all’Atomic Energy Commission e non gli fu difficile sottrarre documenti che furono utilizzati dall’Unione Sovietica per mettere a punto la bomba atomica".

Ancor più profonda l'infiltrazione di Caincross: funzionario del Foreign Office britannico prima e del Tesoro poi che "trasmise quasi tutta la documentazione sulle strategie pianificate da Churchill nel War Cabinet, il Consiglio di Guerra, fornì notizie sui comitati creati per studiare l’applicazione delle scienze allo sforzo bellico e, probabilmente, fu il primo agente a informare i sovietici della decisione di inglesi e americani di costruire la bomba atomica.

Una storia complessa e decisamente oscura che ebbe più ramificazioni attorno al "cervellone" centrale di Mosca. Prescindendo dai giudizi morali sul regime stalinista, va detto che indubbiamente, però, l'atomica sovietica ebbe il duplice risultato di ottenere quel pareggio atomico tra superpotenze che fu alla base dell'equilibrio del terrore della Guerra Fredda e, dall'altro lato, di compattare il campo occidentale aiutando a riscoprire comunanze valoriali e identitarie oltre ogni differenza. Le spie atomiche, anche se non in contatto tra loro, accelerarono la storia. E sul fronte occidentale la loro avventura deve insegnare molto circa la necessità di mediare tra rivoluzioni scientifiche, applicazioni concrete e tutela della sicurezza quando si tratta di asset critici decisivi per la sicurezza nazionale. Perché, ieri come oggi, a far la differenza è il fattore umano.

Assassinio Kennedy, la Casa Bianca rende pubbliche oltre 13 mila pagine riservate. Viviana Mazza su Il Corriere della Sera il 16 Dicembre 2022.

Gli Stati Uniti hanno deciso di desecretare nuove carte sull’omicidio del presidente Kennedy, avvenuto il 22 novembre 1963. Erano tutti file della Cia

Il governo degli Stati Uniti ha reso pubblici altri 13.173 file sull’assassinio del presidente Kennedy: storici ed esperti hanno cominciato ad analizzarli. Molti di loro non si aspettano che le nuove carte modifichino la conclusione ufficiale che il suo assassino, Lee Harvey Oswald, abbia agito da solo il 22 novembre del 1963 a Dallas, ma per i prossimi mesi studieranno nei dettagli ogni singola pagina. A questo punto, sono stati divulgati il 97% dei documenti sull’omicidio di Kennedy contenuti negli Archivi nazionali, ma – osservano gli esperti – il fatto stesso che ci siano voluti 59 anni e che le agenzie di intelligence continuino a tenere riservate alcune informazioni contribuisce ad alimentare i sospetti e le teorie cospirative. Agli occhi di molti il caso resterà sempre aperto: i sondaggi rivelano che la maggior parte degli americani crede che «altri» fossero coinvolti nell’assassinio oltre a Oswald.

Gli storici sono particolarmente interessati ad un viaggio di Oswald a Mexico City alcune settimane prima dell’assassinio di Jfk e speravano di avere qualche dato in più su un suo incontro con un agente del Kgb nell’ottobre 1963. Uno dei documenti resi pubblici ieri mostra che il presidente del Messico aiutò gli Stati Uniti a intercettare le comunicazioni presso l’ambasciata sovietica, tenendo all’oscuro altri politici e funzionari del suo governo. Ma i ricercatori della Mary Ferrell Foundation, che hanno fatto causa al governo Usa chiedendo la completa e trasparente pubblicazione di tutti i file, obiettano che la Cia non ha mai consegnato alcune carte agli Archivi nazionali (la Cia afferma che ha diffuso il 95% delle carte in suo possesso sul caso, 84mila su un totale di 87mila).

Tra le informazioni mancanti ci sarebbero 44 documenti sull’agente della Cia George Joannides, che guidava e monitorava un gruppo anti-Fidel Castro chiamato Directorio Revolucionario Estudiantil, che entrò in contatto con Oswald a New Orleans meno di quattro mesi prima che sparasse a Kennedy – cosa che la Cia ha a lungo tenuto nascosta, anche durante un’inchiesta del Congresso negli anni 70 (e anzi nominò lo stesso Joannides come intermediario con gli investigatori) - portando alcuni a sospettare sulla complicità dell’agenzia nell’omicidio. Mentre Oswald interagiva con il Directorio e diventava noto come un attivista che appoggiava Castro, il Pentagono stava sviluppando un piano chiamato Operation Northwoods, per organizzare attacchi negli Stati Uniti da attribuire a Cuba e giustificare uno scontro militare per rifarsi del fallimento della Baia dei Porci di due anni prima.

I ricercatori della Mary Ferrell Foundation sostengono che la Cia ha evitato in particolare di diffondere le carte sull’Operazione Northwoods, come pure quelle che riguardano i piani per assassinare Castro e un memorandum del 30 giugno 1961 di Arthur Schesinger Jr per il presidente Kennedy, al fine di riorganizzare l’agenzia dopo la Baia dei Porci (quest’ultimo faceva parte dei flle di ieri ma pieno di parti oscurate). La Cia contesta il numero di documenti su Joannides che sarebbero rimasti in suo possesso e dichiara che la maggior parte sono già pubblici. Alcuni ricercatori sospettano che ciò che manca possa includere altri indizi su contatti del governo Usa con Oswald. È una specie di puzzle per Rex Bradford, presidente della Mary Ferrell Foundation, il quale scoprì vent’anni fa che una registrazione di una conversazione tra il direttore dell’Fbi J. Edgar Hoover con Lyndon Johnson, tenutasi 22 ore dopo l’assassinio fu misteriosamente cancellata. Ne esiste una trascrizione, in cui Hoover parla del viaggio di Oswald a Mexico City prima dell’assassinio, ma non c’è modo di verificarne la veridicità. Lui crede che il sospetto di un legame tra Oswald e i comunisti in Messico possa essere stato usato per influenzare la Warren Commission, stabilita da Johnson per investigare sull’assassinio, che alla fine decretò che il killer aveva agito da solo.

Una legge del 1992 richiedeva che il governo rendesse pubblici tutti i documenti sul caso entro il 26 ottobre 2017, a meno che il presidente non avesse scelto di evitarlo per motivi di sicurezza nazionale. Trump ne pubblicò alcuni quell’anno, ma su pressione della Cia e dell’Fbi accettò di prendere ancora un po’ di tempo, per avere la certezza che non ci fossero problemi di sicurezza nazionale, anche se chiese di evitare il più possibile di oscurare i contenuti.

Usa, la Casa Bianca pubblica 13mila pagine "riservate" su caso Kennedy. E c'è anche l'Italia. Paolo Mastrolilli su La Repubblica il 16 Dicembre 2022.

L'amministrazione Biden ha pubblicato più di tredicimila documenti "riservati" e legati all'assassinio del presidente John F. Kennedy, ucciso 59 anni fa a Dallas, Texas. I 13173 file sono stati messi in rete sul sito web dei National Archives

C'è anche l'Italia, nei 13.173 documenti finora segreti sull'uccisione del presidente John Kennedy a Dallas, pubblicati ieri sera dagli Archivi nazionali americani. Si va dai presunti legami con il nostro paese di Clay Shaw, l'unico sospetto processato e scagionato per l'omicidio, alla preoccupazione che il nostro paese fosse usato per mandare armi a Cuba. Non si tratta di rivelazioni che aiutano a capire come fu ordito il complotto contro il capo della Casa Bianca, come del resto la maggior parte delle carte rilasciate, ma spiegano la portata davvero globale di quella tragedia.

Nel 1992 il Congresso aveva approvato il John F. Kennedy Assassination Records Collection Act, che nel nome della trasparenza ordinava di pubblicare tutti i documenti ancora rimasti segreti sull'omicidio di Kennedy, allo scopo di fare chiarezza e possibilmente mettere fine alle teorie cospirative. La distribuzione delle carte sarebbe dovuta avvenire entro l'ottobre del 2017, ma prima Trump e poi Biden l'hanno rimandata, per motivi di sicurezza. Ora la revisione è stata completata e 13.173 documenti sono stati rilasciati, ossia circa il 70% di quelli ancora rimasti segreti. Con questo ultimo atto, il 97% dei quasi cinque milioni di pagine scritte sull'attentato del 22 novembre 1963 è stato messo a disposizione del pubblico. Quello che resta è stato perduto o è ancora protetto dal segreto, e quindi gli scettici più incalliti resteranno comunque sospettosi. La maggior parte degli studiosi che sta analizzando le carte, però, ha detto di non aspettarsi novità in grado di riscrivere la storia, perché la verità è stata già divulgata e Lee Harvey Oswald aveva agito da solo.

Qualche notizia potrebbe venire dal suo misterioso viaggio di sei giorni a Città del Messico, dove poche settimane prima dell'attentato aveva visto spie cubane e sovietiche, intercettate da Cia ed Fbi. Due agenti del Kgb però ammettono di aver reclutato l'ex marine, ma non gli avevano dato alcun incarico, meno che meno l'uccisione del presidente, perché era troppo instabile e inaffidabile. Poi ci sono oltre 50.000 pagine sulla sua personalità e la sua storia, su cui forse le agenzie di intelligence sapevano più di quanto non avessero ammesso. Infine si potrebbe scoprire qualcosa su George Jaonnides, agente della Cia coinvolto tanto nell'indagine su Dallas, quanto nelle operazioni di spionaggio per rovesciare Fidel Castro.

L'Italia è citata in almeno sei occasioni. La più curiosa forse è quella riguardo Clay Shaw, l'imprenditore di New Orleans accusato dal procuratore Jim Garrison di aver cospirato con la Cia e gli attivisti David Ferrie e Guy Banister per organizzare il complotto, e poi assolto nel 1969. Il 5 marzo del 1967 il Messaggero e il Corriere della Sera avevano pubblicato articoli in cui si parlava dei rapporti di Shaw con il Centro Mondiale Commerciale, sospettato di essere in realtà un'operazione di copertura della Cia nel nostro paese, come la compagnia Permidex, per trasferire fondi usati nelle operazioni di spionaggio. Gli agenti segreti avevano indagato, ma non avevano trovato conferme, come aveva riferito un cablo dell'8 marzo.

Un altro documento interessante rivela l'esistenza di "una piccola colonia cubana in Italia, attivamente impegnata in attività rivoluzionarie militari destinate a Fidel". Il sospetto è che un certo Josè Antonio avesse fatto acquisti di armi e aeroplani in Inghilterra, Francia e Italia. Anche qui non vengono trovate conferme, ma l'autore del cablo si impegna a proseguire le indagini.

Un altro documento, però risalente agli anni Cinquanta, descrive il tentativo del Partito comunista del Territorio libero di Trieste di usare l'Unità per pubblicare foto imbarazzanti dell'allora ambasciatrice americana in Italia, Clare Luce. Erano immagini in cui appariva nuda, ma probabilmente si trattava di un falso che ritraeva una ballerina. Un cablo invece descrive il ruolo di Annie De Quendoz, definita come "amante sia di Che Guevara sia di Fidel". Poi c'è un documento che risponde alla richiesta di eventuali tracce di Oswald in Italia, e uno che elenca i diplomatici cubani in servizio nelle ambasciate di Roma presso lo Stato italiano e il Vaticano. Era già noto poi che Giulio Andreotti, ministro della Difesa all'epoca dell'attentato, aveva chiesto ai servizi americani informazioni sul fucile usato per uccidere Kennedy, perché sospettava fosse un Mannlicher Carcano arrivato dall'Italia.

Blonde è un fumettone barocco impossibile da ignorare. Blonde, il trailer del biopic Netflix su Marilyn Monroe. TERESA MARCHESI su Il Domani l'08 settembre 2022

Il film di Andrew Dominik su Marilyn Monroe è bignami del romanzo di Joyce Carol Oates: un fumettone barocco e sovraccarico, ma chi potrà ignorarlo?

L’attrice cubana Ana de Armas, chiamata a incarnare il mito, non ha né la luce né la carnalità del modello, ma l’illusione – certi sorrisi , certe espressioni smarrite – a tratti è inquietante

Ha tante tappe, tante stazioni, la vita breve del più totemico dei sex symbol, crocevia di magnetismo e fragilità, icona assoluta del XX secolo e oggetto di fantasie macabre e postume.

«E quindi il pubblico folto e osannante l’avrebbe guardata, avrebbe guardato lei, la splendida bambola meccanica del presidente, o piuttosto la bambola gonfiabile per lo spasso sessuale del presidente, l’avrebbero guardata e avrebbero immaginato quello che in realtà non potevano vedere, e immaginandolo l’avrebbero visto: l’ombra della fica, l’ombra di una ferita, l’ombra di un nulla tra le cosce burrose di quella voluttuosa femmina, come se già in sé quell’ombra fosse l’eucaristia, irta di mistero»:  pagina 748 della mia vecchia edizione Garzanti di Blonde, del 2000.

È uno stralcio della cronaca immaginaria e appassionata di Joyce Carol Oates, la ricostruzione del famoso “Happy Birthday Mister President”. Smaschera, la scrittrice, il cinismo brutale di quella festa. Marilyn è un trofeo da sbandierare. Biografia dell’anima, quella di Oates: i fatti nudi, l’ufficialità, penetrano nel racconto con circospezione. È una lettura ipnotica, se non ti lasci intimidire dallo spessore di un volumetto che sfiora le 800 pagine.

Sono trentasei anni di vita visti in soggettiva da Norma Jeane Baker, l’Attrice Bionda. Oates la chiama di rado Marilyn Monroe, è il nome dell’immagine pubblica, appartiene allo sfruttamento e all’abuso. Per i deuteragonisti, i mariti, usa definizioni generiche: l’Ex-Atleta, il Drammaturgo. Il Billy Wilder di A qualcuno piace caldo è W. Tony Curtis. che «sarebbe stato nemico della Monroe tutta la vita e dopo la morte quante sordide storie avrebbe raccontato su di lei», è C. Non servono i sottotitoli.

FUMETTONE BAROCCO

Nel fumettone che Andrew Dominik ha tratto dal libro – e che sarà su Netflix dal 28 settembre- il baccanale presidenziale non c’è. C’è invece una sovrabbondanza di feti parlanti che basterebbe ad alimentare un’intera campagna antiabortista. Vero è che la scrittrice mette i due aborti – uno volontario, il secondo subito, entrambi indelebili – in cima alla lista dei tormenti privati di Norma Jeane. E a onor del vero Oates ha ufficialmente dato semaforo verde al film, che con i suoi 165 minuti è un bignami del romanzo, parlando di una lettura «assolutamente femminista»: «Non credo che un altro regista maschio abbia mai realizzato nulla di simile».

È un fumettone barocco, sovraccarico, ma chi potrà permettersi il lusso di ignorarlo? Lo voleva Cannes, ma la barriera dell’uscita solo su piattaforma, demonizzata dal festival francese, ha bloccato il business. A Venezia è in concorso: tolleranza lungimirante che premia. Perché fa notizia, e comunque non è un biopic all’acqua di rose.

È il primo film Netflix Original marchiato dal divieto di visione ai minori di 17 anni. E ha tante tappe, tante stazioni, la vita breve del più totemico dei sex symbol, crocevia di magnetismo e fragilità, icona assoluta del XX secolo e oggetto di fantasie macabre e postume. Hugh Hefner sborsò 75mila dollari per il privilegio di farsi seppellire vicino a Marilyn.

TRAUMI 

Le grandi battaglie non si combattono sui palcoscenici, scriveva un signore che non usava le parole a sproposito, Jean Giono. Le battaglie che Oates attribuisce a Norma Jeane sono contro un fardello di traumi e dèmoni paralizzante, contro l’aggressione di «maschi d’uomo smaniosi ed eccitati che guardano». «Mi guardano ma non mi vedono», diceva lei.

È il 1954, alle due di notte si sta girando la scena più celebre di Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch ) e lei è, in tutte maiuscole per la scrittrice, La Ragazza sulla Grata della Metropolitana, «venere bionda, insonnia bionda, bionde gambe depilate di fresco divaricate». L’Ex-Atleta, il marito Joe Di Maggio ( Bobby Cannavale, nel film) la punirà per l’esibizione a forza di pugni: «Sono mani grosse, mani da atleta, mani esperte, mani col dorso ricoperto di esili peli neri».  

Chiamata a incarnare il Mito dopo blockbuster di lusso come No Time to Die e il recente The Gray Man con Ryan Gosling, la cubana Ana De Armas non ha né la luce né la carnalità del modello, ma l’illusione – certi sorrisi , certe espressioni smarrite – a tratti è inquietante. Brad Pitt, tra i produttori, grida al miracolo. Madre schizofrenica, orfanatrofio, Clark Gable contrabbandato in effigie come padre segreto e agognato: è già un miracolo, per un’orfana con madre viva, approdare ai fasti di Hollywood dopo tanta via crucis, passando per gli stupri autorizzati dei produttori.

Molto si tace e molto si dice. Non capisco l’alone di moralismo con cui il regista descrive il ménage à trois con due figli d’arte, Cass Chaplin ed Eddy G. Robinson, “ragazzacci” di liberi costumi figli di celebrità con nomi illustri «che gli pesavano addosso come menomazioni fisiche», scrive Oates. Con loro, in barba alla promiscuità, secondo la scrittrice, MM ha vissuto in realtà gli anni più teneri e meno inquietanti.

Sono “gemelli”: come lei, figli indesiderati. Dal romanzo, cito Eddy G. Robinson: «Cass ed io abbiamo una doppia maledizione: siamo figli e per giunta ci chiamiamo come loro, come quegli uomini che non volevano che noi nascessimo». E Cass Chaplin: «Tuo padre tu non l’hai mai conosciuto, quindi sei libera. Ti puoi inventare». È solo dal 1956 che per l’anagrafe, ufficialmente, Norma Jeane Baker diventa Marilyn Monroe.

GENIALE MARILYN

Poi arrivano le cascate di Niagara. La Rose Loomis del film è sotto contratto per mille dollari la settimana, e quella miseria, firmata quando era in bolletta, «le era sembrata un patrimonio». Seducente e perfida, Rose, ma hot: «era impossibile levarle gli occhi di dosso». «Per tutta la carriera, avrebbe fatto guadagnare milioni allo Studio e sì o no un decimo a Norma, i pezzi grossi dello Studio avrebbero fatto finta di non capire». «La gente era convinta che Marilyn Monroe si limitasse a interpretare sé stessa. Qualunque film facesse, e per quanto quel film fosse diverso dagli altri, la gente trovava sempre un modo per sminuirla. “Quella non sa recitare. Sta solo interpretando sé stessa”. E invece era un’attrice nata. Era un genio, sempre che uno creda nel genio». I dialoghi del film sono interamente farina di Oates.

Per Gli uomini preferiscono le bionde prende 500 dollari la settimana, contro i 100mila di Jane Russell, anche se la “bionda” è lei, è lei la regina del botteghino. È singolare che le madri delle massime icone pop americane di sempre, Elvis e Marilyn (Mickey Mouse fa caso a parte) si chiamassero entrambe Gladys. Meglio coprirsi gli occhi quando Ana De Armas “rifà” il numero di Diamonds Are a Girl’s Best Friends, perché è il meno riuscito del film, mentre le riproduzioni in fiction delle centinaia di foto consegnate alla Storia è davvero encomiabile.

POLVERE DI STELLE

 Dopo l’eroe italo-americano del baseball Marilyn sposa A. Miller (Adrien Brody nel film), e corona il suo sogno intellettuale: sentirsi un’attrice vera, con la tecnica giusta, che può aspirare a interpretare in teatro la Natasha delle Tre Sorelle di Cechov senza che si rida delle utopie di un’oca svampita. La «puttana svergognata» – secondo l’italo-americano Joe Di Maggio – che esibiva le bianche mutande da educanda sulle grate della metropolitana sembra alle spalle.

Ma il secondo aborto, naturale questa volta, non come il primo, sofferto ma esiziale per la carriera, di paternità incerta, avvelena il set di A Qualcuno Piace Caldo. Norma Jean è più consapevole, battute del copione come quel «sembra fatta di gelatina» le suonano insulti.

Lo sarebbero per questa stagione del #MeToo. Quando compare nei panni di Sugar Kane Kovalchich e canta I wanna be loved by you/ nobody else but you il remake è da brividi. Dominik ha ‘insertato’ Ana De Armas tra i veri attori del film, e la Marilyn finta è una replica impressionante.

All’appello mancano Come Sposare un Milionario, Il Principe e la Ballerina, Gli Spostati. C’è l’umiliante sveltina con «l’attraente leader del mondo libero», JFK. E il film non sposa l’omicidio di stato, operato dall’Fbi e accreditato da Oates nel suo libro. È polvere di stelle di Marilyn. Chissà se le chiamano star perché la loro luce ci arriva quando sono già estinte.

TERESA MARCHESI. Critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come inviata speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, Effedià - Sulla mia cattiva strada, su Fabrizio De André, presentato al Festival del Cinema di Roma e al Lincoln Center di New York, premiato con un Nastro d'Argento speciale, e Pivano Blues, su Fernanda Pivano. presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.

Una Marilyn postfemminista ma soprattutto tanto kitsch per l'ultimo film Netflix in gara. Fabio Ferzetti su L'Espresso l'8 Settembre 2022.  

Tutto quello che sapevamo su Marilyn Monroe, con qualcosa di più e qualcosa di meno, in un melodrammone che alterna bianco e nero e colore citando ogni possibile immagine già esistente della diva con cura filologica pari solo alla libertà delle licenze storiche. L'ultimo film Netflix in Concorso a Venezia, "Blonde" di Andrew Dominik, è ancora una volta una scelta discutibile.

Fuori gara ci avrebbe incuriosito, appassionato, forse commosso, come probabilmente accadrà a chi lo vedrà sulla piattaforma per cui è concepito nel taglio, nel ritmo e perfino nel tono delle immagini. Ma in Concorso alla Mostra è semplicemente fuori posto. A meno di non considerare il Festival solo in termini di promozione, e ogni film come un contenitore di premi virtuali. In questo senso "Blonde", tratto dal romanzo omonimo di Joyce Carol Oates (La Nave di Teseo), già oggetto di una miniserie tv vent'anni fa, è più interessante. quanto meno per la smagliante performance della cubana Ana de Armas, bruna, intensa, molto latina, dunque fisicamente lontana dalla vera Marilyn, ma capace di comunicare un'adesione emotiva perfino inquietante.

L'andamento è canonico, anzi agiografico (le vite infelici dei divi del cinema sono da un secolo ormai le nuove vite dei santi). Si comincia dall'infanzia terribile con la madre destinata a finire in manicomio e a trasmetterle il culto per un padre mai conosciuto ma ricco e famoso, almeno secondo la mamma, che nell'unica foto esistente sembra la brutta copia di Clark Gable. Si prosegue con i primi passi della starlet sul divano del produttore, come anticipato da una celebre scena di "Eva contro Eva" puntualmente e correttamente citata. E avanti così battendo su pochi tasti, sempre quelli, così il racconto procede spedito.

Quindi ecco Marilyn che ai provini cita Dostoevskij mentre tutti non fanno che guardarle il culo (diciamo meglio: Norma Jeane cita Dostoevskij mentre tutti guardano la futura Marilyn, il contrasto fra identità reale e fittizia è uno dei pilastri del film). Scena che si ripeterà più tardi, conquistando Arthur Miller, quando Marilyn, ormai celeberrima e disperata, coglie i riferimenti a Cechov nell'opera del grande drammaturgo lasciandolo sbalordito e innamorato.

La chiave dominante è infatti pesantemente postfemminista, Dunque giù con uomini e mariti maneschi (Joe Di Maggio, che credevamo esser stato uno dei pochi perbene). Vai con abusi, nostalgie del padre mai visto e fantasie di rinascita, dunque di procreazione. Che sfociano in aborti a catena, con feti volteggianti come nel "2001" di Kubrick, ma senza prospettive cosmiche. Quindi una veloce "soggettiva" intrauterina che farà far salti di gioia agli antiabortisti del mondo intero. E addirittura un feto che si rivolge a Marilyn ("Stavolta non mi farai del male, vero?)", tanto la diva è sempre impasticcata e non c'è limite al kitsch.

La parte più interessante, anche perché meno nota e largamente congetturale se non di fantasia, è il ménage à trois tra la futura diva e altri due figli problematici perché non voluti dai loro padri, Charlie Chaplin Jr e Eddy G. Robinson Jr. Figli di stelle del cinema, già amanti, ma capaci di dischiudere le porte del piacere e forse anche dell'amore a quella creatura smarrita (molto bello il passaggio dall'orgasmo alle cascate di "Niagara"). Sia pure a uso futuro ricatto grazie a una serie di foto esplicite.

Il resto naviga più basso. In una sfilata di maschi inadeguati o violenti il peggiore è John F. Kennedy, una sola scena che è un concentrato di nequizie: sesso orale steso sul letto, inguainato nel busto per la spina dorsale mentre telefona a raffica cercando di contenere gli scandali. Tanto l'Oscar per la finezza non esiste ma un premio a Venezia magari lo vinciamo.

“Blonde”, viaggio alla ricerca della vera Norma Jeane. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 9 Settembre 2022 

L’edizione numero 79 della Mostra del Cinema di Venezia rievoca la Hollywood degli Studios, dei divi irraggiungibili e le loro vite apparentemente da sogno con Blonde di Andrew Dominik, film biografico sull’esistenza tormentata di Marilyn Monroe. Dall’infanzia fino alla morte per quel che la maggioranza dell’opinione pubblica crede sia suicidio, Blonde, in concorso e su Netflix dal 28 settembre, si basa sull’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates e in America uscirà con un divieto ai minori di 17 anni. Scene forti dunque di un percorso, quello dentro la vita di una diva indiscussa e amatissima da donne e uomini, che si concentra sulla Norma Jeane Baker che si celava dietro l’impeccabile Marilyn.

A rappresentarla sul grande schermo, l’attrice cubana Ana De Armas, ex Bond girl, co-protagonista di Blade Runner 2049 accanto a Ryan Gosling ed ora, con questa interpretazione, in collegamento diretto con una possibile Coppa Volpi e, come Venezia spesso rende possibile, una nomination agli Oscar. «Dovevo comprendere, empatizzare e connettermi con il suo dolore e il suo trauma – confessa in conferenza De Armas. Sapevo che dovevo aprirmi e andare in posti che sapevo sarebbero stati scomodi, oscuri e vulnerabili. È lì che ho trovato il legame con Marilyn». Ma qual era il personaggio da rappresentare sullo schermo, Marilyn o Norma Jeane? Risponde emozionata l’attrice di Cena con Delitto: «Credo che la maggior parte del film si concentri sulla figura di Norma Jeane, penso che sia la sua storia. E poi ovviamente Marilyn ha il sopravvento un paio di volte, è presente perché sono la stessa persona. Ma trovare un equilibrio tra i due personaggi, non so, credo che entrambi avessero bisogno l’uno dell’altra e si alimentassero a vicenda. È stato tutto difficile».

Dura due ore e 46 minuti Blonde ed Andrew Dominik relega allo schermo nello schermo il glamour e la presunta gioia scintillante di Hollywood per dare spazio ad una donna, dalla grande forza e grande fragilità che, pur adorando profondamente ciò che faceva, è stata poco amata, usata e abbandonata. Prima di tutti dalla madre che l’ha sempre vista come un ostacolo. Blonde ci mostra una Norma Jeane vittima di violenze, abusi e un mondo del cinema che fa impallidire quello combattuto a spada tratta oggi: «Il MeToo l’avrebbe aiutata, ma non c’era», ricorda Andrew Dominik che decide di prendere posizione anche sulla teoria del suicidio: «Un’overdose è una forma di suicidio, io non credo all’omicidio. Essere un oggetto del desiderio può rivelarsi pericoloso, tanti ne sono stati distrutti. Perché la tua fama sta nella fantasia, nell’inconscio delle persone». Prima di vedere l’attesissimo Blonde, l’ultima parola ad Ana De Armas: «Ho partecipato a questo film come fosse un dono a me stessa, non per far cambiare le idee degli altri su di me. Qualunque cosa succeda, questo film ha cambiato la mia vita. E poi sarà quel che sarà». Chiara Nicoletti

Vita segreta di Marilyn Monroe: gli ultimi misteri di una diva. Nel suo Dea: Le vite segrete di Marilyn Monroe, Anthony Summers ha cercato di restituire dignità alla diva e alla donna. Con lo stile da grande romanzo, affronta la vita dell'attrice come una grande inchiesta giornalistica, distinguendo le prove dai pettegolezzi. Francesca Salvatore il 6 Settembre 2022 su Il Giornale.

Bella, desiderata, sfortunata. Di Marilyn Monroe la storia mediata da Hollywood ha sempre restituito un ritratto da femme fatale condito da citazioni banali su diamanti, capelli biondi e gocce di profumo. Come se l’esistenza terrena di Norma Jeane Mortenson Baker, questo il suo vero nome, fosse stata solo esteriorità e capriccio, dimenticando la bambina cresciuta troppo in fretta che finì i suoi giorni in solitudine.

Nel suo Dea: Le vite segrete di Marilyn Monroe, Anthony Summers ha cercato di restituire dignità a Norma Jeane e alla sua storia. In questo libro, diventato un cult (appena ripubblicato da La Nave di Teseo, 633 pg.), l’autore rifugge dalla ipocrita pruderie ma allo stesso tempo non cade mai nell’ossessione per il pruriginoso. Con il tono da grande romanzo, affronta la vita della diva come una grande inchiesta giornalistica, distinguendo con precisione prove e pettegolezzi.

La sposa bambina

Una vita grama che inizia nel 1926 all’insegna di una figura paterna velata di mistero, una madre assente. A gettare Norma in pasto al mondo degli adulti fu Grace McKee, la sua tutrice che aveva deciso di trasferirsi a Est con il suo nuovo marito. Poiché i due non volevano portare con loro la ragazza, la soluzione era trovarle un marito: la scelta cadde su Jim Dougherty, figlio di un vicino che conosceva bene. A soli sedici anni, imparava ad essere una buona donna di casa e reprimere l’adolescente desiderosa di svaghi: fuori, impazzava la Seconda guerra mondiale. Per Jim fu presto l’ora di partire per il Pacifico. La giovane moglie, nel frattempo, lavorava alla Radio Plane, una fabbrica di aerei bersaglio usati per le esercitazioni di tiro, circondata da uomini.

Alla fine del 1944, negli ultimi mesi di guerra, il soldato David Conover arrivò alla Radio Plane per fare un servizio fotografico sulle donne che lavoravano negli impianti bellici. Conover era un fotografo dell’esercito e il suo comandante era un certo capitano Ronald Reagan. Quelle foto fruttarono cinque volte il suo stipendio e qualcuna finì sulla scrivania della Blue Book Model Agency: Norma divento rapidamente una ragazza-copertina e Dougherty, di stanza in Cina, venne raggiunto dalla richiesta di divorzio. Nel frattempo Norma aveva iniziato una storia con André de Dienes, il primo fotografo a volerla immortalare nuda: una storia autentica, una delle poche in un mare di millantatori, pronti a giurare di aver fatto questo e quello con il corpo della futura divina.

Finì anche quella storia, all’improvviso, mentre Norma si trasformava in una vedova bambina, come ella stessa si definì, in un mare di squali come Hollywood. Da quel momento i piani del racconto si sovrappongono continuamente, in un continuo mescolarsi tra fondi di verità, le fantasie dell’attrice, le testimonianze di chi le fu vicino e le menzogne di chi volle arricchirsi con i dettagli sulle sue ossessioni. Il sesso e la maternità erano fra questi: nessuno è mai riuscito a saper con certezza se i racconti sulle molestie subite da ragazzina, sugli aborti e su un figlio dato addirittura in adozione corrispondessero a verità.

Norma diventa Marilyn

Avere un bambino fu allo stesso tempo desiderio famelico e incubo: avere una gravidanza sarebbe stato d’intralcio per la Norma che nell’estate del 1946 aveva ottenuto un ruolo di comparsa dalla Twentieth Century-Fox. Le avevano trovato anche un nome d’arte: Marilyn Monroe.

Le smanie di successo, tuttavia, si sono sempre accompagnate alla convinzione di non avere la preparazione adatta. L’attrice diceva di se: “Sapevo di essere scadente. Avvertivo materialmente la mia mancanza di talento come un abito da quattro soldi che uno si sente addosso. Ma, Dio, che voglia di imparare avevo!”. Rastrellava ancora ruoli minori e instabili, tanto che la Fox la licenziò, e colei che era già Marilyn fu costretta a vivere in camere ammobiliate condivise con altre compagne di avventura, lasciandosi tentare dai guadagni come call girl.

Una parte sempre poco raccontata della sua vita, offuscata da ritratti effimeri e voluttuosi, riguardò la cultura. Marilyn non era una sgallettata ignorante come spesso è stata dipinta. Quello per la cultura fu un interesse che perseguì per tutta la vita e che molti avrebbero visto come una posa: divorava Thomas Wolfe, James Joyce, libri di poesia, biografie e libri di storia. Agli inizi del 1949 era di nuovo al verde e senza lavoro. Non aveva che ventitré anni, ma il suo animo era già molto segnato. A venticinque, solo due anni più tardi, viveva, a distanza di pochi mesi, il suo vero debutto cinematografico e il terzo tentativo di suicidio, mentre Hollywood la maneggiava “come la cosa più esplosiva che si fosse mai vista”.

Ben presto fu il tempo della disastrosa relazione con Joe DiMaggio, un circo pubblico nutrito dai flash che regalò pubblicità ai protagonisti e un romanzetto d’amore precotto agli americani del Dopoguerra. La verità è che, come afferma Summers, “Nella fantasia, Marilyn era ora la sposa dell’America intera. Nella realtà, era un relitto tra le braccia di tanti, con un campione di baseball come ancora di salvezza”. Dopo vari annunci andati a vuoto, il matrimonio venne celebrato alla svelta il 14 gennaio del 1954. Iniziato nella discordia, sarebbe durato meno di nove mesi e, stando alle testimonianze e ai racconti della stessa Marilyn, fu scandito da violenze ripetute.

L'"esilio" e il matrimonio con Arthur Miller

Mentre a Hollywood tutti ormai accettavano la ventottenne attrice come star a tutti gli effetti, lei aveva già deciso di rifiutare loro, di voltare completamente le spalle allo star system – al marito, agli amanti, ai baroni del cinema, a tutto. Nel 1954, subito prima di Natale, indossò la sua parrucca nera e gli occhiali scuri e andò all’aeroporto di Los Angeles con in tasca un biglietto a nome di Zelda Zonk. La fuga, che le ragalò qualche mese di vita normale e castigata, si compì con la fondazione di una casa di produzione indipendente, la Marilyn Monroe Productions, di cui lei stessa era presidente, con il cinquantun per cento delle azioni. L’esilio in quel di New York non durò molto: all’orizzonte si stagliava un’altro matrimonio da record, quello con il più eminente drammaturgo d’America.

Arthur Miller: un “progetto” che pare Marilyn avesse già dai tempi dell’unione infelice con DiMaggio. A questo colpo si aggiunse il dietro-front della Fox, costretta a scendere a patti con l’attrice. La primavera del 1956 sembrò segnare una rinascita della diva tormentata, in amore come nel lavoro. Quello stesso anno, il 2 giugno, scoppiò la bomba. A Miller fu presentata l’ingiunzione di comparire davanti alla Commissione del Congresso che intendeva interrogarlo sulle sue presunte simpatie comuniste. Come Miller ben sapeva, si trattava di un’odissea che aveva rovinato dozzine di suoi colleghi. Resistette strenuamente per due anni agli assalti dei residui del maccartismo, supportato coraggiosamente dalla nuova compagna che mai lo abbandonò e che lo spronò a non cedere ai ricatti di quegli anni bui. Il matrimonio, celebrato nel giugno del 1956, apparve come un premio alla resistenza dei due e di Marilyn in particolare, nonchè una porta chiusa in faccia alla Guerra Fredda. Ma ben presto anche quello si trasformò in matrimonio infelice, caratterizzato dalla delusione di lui e dall’infelicità di lei annegata nei barbiturici, costellata da aborti e depressione.

Il difficile 1961 e l'incontro con i Kennedy

Nel frattempo, Marilyn soleva sedere al tavolo con personaggi del calibro di Kruscev e Sukarno, a dispetto della vulgata sulla sua frivolezza e poca intelligenza, mentre alla fine del 1960 il matrimonio con Miller si chiudeva a suon di carte bollate. Nel gennaio del 1961, forse troppo tardi, le si aprirono le porte della Payne Whitney Psychiatric Clinic di New York. La realtà, nel 1961, fu davvero dura. La sua segretaria di New York, Marjorie Stengel, avrebbe ricordato Marilyn, a trentacinque anni, come “l’essere umano più svuotato che avesse mai conosciuto”.

All’inizio del gennaio del 1961, dopo il rehab, Marilyn confidò ad amici che era recentemente andata a “un appuntamento con il prossimo presidente degli Stati Uniti”. La vicenda con il presidente e le ramificazioni che la collegano a John e Robert Kennedy, a Frank Sinatra e ai suoi amici sono diventate una sorta di leggenda. Nel giro di meno di due anni, nell’aura di quei rapporti, Marilyn sarebbe morta. Quale che fosse la natura precisa dei contatti incrociati con i fratelli Kennedy, si può dire che i due stavano giocando con il fuoco.

Quando Marilyn morì, il pericolo si era fatto estremo. Solo anni dopo ci si poté rendere conto della misura in cui i segreti personali dei Kennedy erano esposti, a quel tempo, ai loro peggiori nemici. A questa sarabanda si aggiunse un quarto elemento a complicare le cose: Frank Sinatra. Il grosso punto interrogativo sulla relazione tra Marilyn e Sinatra riguarda non tanto la persona di quest’ultimo, quanto l’opportunità che essa fornì ad altri di danneggiare i Kennedy. La vicinanza con il cantante portò Marilyn in un ambiente frequentato da alcuni dei peggiori nemici di Bob e John. Quanto ne sapesse la mafia e Sam Giancana non è mai stato chiaro.

Verso la fine

All’inizio del 1962, messa a bada la dipendenza da farmaci per qualche tempo, la diva comprò una casa tutta per sè. Da ormai un anno Marilyn non girava film e la percentuale sui profitti di quelli girati in precedenza non sarebbe arrivata ancora per molto tempo: quando comprò la casa aveva pochi liquidi a disposizione. Nessuno, sembra, fece caso a uno strano piccolo stemma inserito tra le mattonelle davanti alla porta della sua nuova abitazione. Il motto diceva, in latino, “cursum perficio”, ovvero “Sto finendo il mio viaggio.”

Da quel momento in poi, rimpallata continuamente da un fratello Kennedy all’altro, tra overdose e nuovi tentativi di suicidio, si trasformò via via in un fantasma, perennemente in vestaglia, svuotata e in preda a crisi maniaco-depressive. Una mina vagante anche per i Kennedy, che iniziarono a prenderne le distanze. “Lo sai da chi sono sempre dipesa?” aveva detto Marilyn al giornalista W.J. Weatherby. “Non dagli estranei, non dagli amici. Dal telefono!”. L’attrice fece lavorare sodo il suo “migliore amico” negli ultimi giorni della sua vita: chiusa in casa, bersagliò gli amici di telefonate.

Ed è così che venne ritrovata, nella notte del 5 agosto 1962, nella sua casa di Los Angeles: devastata dal Nembutal, un potente barbuturico, con il ricevitore del telefono in mano, come addormentata, in un mare di misteri. Non era più Marilyn Monroe: era tornata Norma Jeane.

Estratto dell'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.

Bello o brutto che sia, è come se tutti avessimo già visto questo Blonde che nessuno ha ancora visto. Il film-evento della Mostra di Venezia, che si aprirà il 31 agosto, è infatti solo un pretesto, l'ennesimo, per ritrovare la Marilyn che c'è nella mente di tutti e di ciascuno. Da sessant' anni, in un ingorgo di piacere e dispiacere, Marilyn è l'erotismo, il combattimento tra sofferenza e gioia della donna inventata dal maschio in stato di mobilitazione sessuale permanente, la femminilità surreale dell'onanismo che, diceva Kraus, «surroga la realtà, ma viene meglio».

Diciamo la verità: di film su Marilyn ne sono già usciti tanti, troppi ma, com' è insaziabile il bisogno di miracoli, così il mito è sempre affamato di "nuove verità": poliziesche, politiche, artistiche. E puntualmente saltano fuori foto e dettagli "inediti" che somigliano agli ovuli non fecondati, e ciclicamente finisce al rogo un nuovo colpevole, anche se i roghi non illuminano le tenebre già affollate di colpevoli: la mafia, i sovietici e poi Casa Bianca, Cia, Fbi, Kgb. 

E la sociologia rimette sotto accusa i soliti luoghi (comuni) d'America e i vizi sociali, che sono (ancora) quelli di Hollywood Babilonia (Adelphi 1959), l'assassino collettivo che una volta si chiamava "star system", qui con l'aggiunta di orfanatrofi-prigioni, padri adottivi stupratori, l'alcol come vulcano di improperi, gli ospedali per matti con le camere imbottite, le camicie di forza, gli psicofarmaci e i medici che la curarono (si fa per dire), l'ultimo dei quali, Ralph Greenson, è da sessant' anni il più sospettato dei colpevoli.

C'è una sola certezza che resiste al mito: Marilyn è stata uccisa dagli psicofarmaci che ancora oggi aggrediscono ma non guariscono i tormenti della mente. (…) Ma non dimentichiamo mai che Marilyn fu la cavia degli psicanalisti più ricchi e famosi, come ha autorevolmente raccontato Luciano Mecacci in un titolo che, ripubblicato quest' anno da Laterza, andrebbe imparato a memoria: Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicanalisi.

Barbara Costa per Dagospia il 6 Agosto 2022.   

“Ho passato un sacco di tempo in ginocchio!”. E ancora: “Ci sono andata, a letto con i produttori, sarei una bugiarda se lo negassi. Faceva parte del lavoro. Tutte lo facevano! I produttori volevano un campione della merce e se non ci stavi tu, ce n’erano altre 25 pronte a dire sì”. Signori, ecco come si diventa Marilyn Monroe. Qualcuno ancora crede alla favoletta della povera orfanella che si riscatta a Hollywood? Scaltra, furba, furbissima era Marilyn! Che fosse dalla vita sopraffatta e indifesa è ideale costruzione. Postuma.

A 60 anni dalla morte, è ora di riequilibrarne il mito. E il virgolettato che ho riportato, lo trovi bello scritto in "Goddess", non nuova biografia della diva di Anthony Summers, uno che a indagare su fatti e fattacci di star e di politici, non aveva rivali. E lo scrive, Summers: Marilyn non aveva problemi, non si faceva problemi, a offrirsi a chi il potere a Hollywood ce l’aveva e una parte previo p*mpino – e se bene lo sapevi succhiare, tanto da farti ricordare – te la assegnava, anche se “non basta andare a letto coi pezzi grossi per diventare una star”, precisava Marilyn, “comunque aiuta. Un sacco di attrici hanno avuto la loro prima occasione in quel modo!”.

E Marilyn i primi potenti di Hollywood li conosce quando fa la escort, e se li ritrova come clienti. Altro che lavoro da operaia, altro che le foto su Playboy! Quelle sono venute dopo. All’inizio Marilyn, ancora Norma Jean, fa la taxi-girl, cioè fa la escort. Come si può immaginare che una, bella ma come cento altre prima che a lei pensino gli stylist, senza titolo di studio, senza nulla di nulla, sia potuta assurgere a mito??? Bè, pure crepare giovane conta, ci sto, ma questo mica era nei piani.

Esibire il proprio corpo, concederne le grazie, e così fare fortuna. E esibirlo anche alla cinepresa, anche sul set, non avere pudori a recitare davvero nuda (come in "Niagara", lei sotto le lenzuola, come ne "Gli Spostati", a letto con Clark Gable). Senza vergogne inutili. A Marilyn va riconosciuto: non era una ipocrita!!! Mica come oggi, che le attrici… preciso, certe attrici, più si professano impegnate, più ne fanno dramma, insulto, se non tentato stupro, se un regista in una scena gli chiede un lembo di pelle scoperto in più. Se ne sentono oltraggiate. E si credono serie.

Ma torniamo a Marilyn e al suo mito, dacché sono 60 anni che ci scassano con lei e i Kennedy, lei ammazzata, in uno scenario di disgrazie. Ma disgrazie di che? Sono tutti quelli che sono venuti dopo, ad aver riscritto di loro pugno vita e destino di una donna morta giovane (schiava di medicinali potenti) trasformandola in una eroina dolorosa! E vittima. Ma vittima di che??? Di essersi sc*pata chi voleva, fratelli Kennedy compresi? 

Vorrei vedere chi, di fronte all’inquilino capo della Casa Bianca, e qui pure più che piacente… avrebbe risposto no grazie! E basta, con la spy story che l’avrebbero uccisa i Kennedy! Con la complicità di Sinatra! E della mafia! Non si contano i libri e i film su 'sta roba. Secondo Donald H. Wolfe, uno tra i (troppi) biografi di Marilyn, Sinatra avrebbe drogato Marilyn per nuda metterla in un’orgia e in tal posa fotografarla, e così ricattarne il silenzio sui Kennedy. Seee, come no… E se invece fosse andata così? Marilyn e JFK hanno sc*pato, qualche volta, al Carlyle Hotel di New York, dove si sa i Kennedy avevano un appartamento riservato, e va bene, sc*pato lei sopra lui sotto, come ha romanzato Joyce Carol Oates nel suo libro "Blonde" ora pure film, e Marilyn e Bobby hanno sc*pato sì, un paio di volte, in California, nell’auto di lei, e a casa di lei…

Da qui, da pochi incontri pur incantevoli, non dico di no, a farne una telenovela struggente che va avanti da 60 anni, ce ne vuole!!! Ma se Marilyn era così pazza dei Kennedy, perché – parallelamente a loro – flirtava con José Bolanõs, il suo toy-boy, e le foto vere di loro due sono in rete, e però sono assenti in ogni racconto di lei abbandonata e infelice? Occhio!!! 

Le foto in rete di John Kennedy e Marilyn, son tutte false, tutti fotomontaggi, tranne una: quella con Bobby, Marilyn, JFK e Isidore Miller, ex suocero di Marilyn. È l’unica salvatasi dal party di compleanno di JFK. Le altre – che c’erano! – sono state distrutte per ordine di Bobby. E Marilyn disperata perché Joe DiMaggio non se la voleva risposare??? Ma per favoreee! Lei seduceva chiunque a lei garbava: “Mai piangere per un uomo, ti si sbava il trucco! E il mio mascara vale di più”. 

Ma solo io vedo Marilyn come una donna moderna, che viveva da sola e si pagava i conti da sola (pagava pure quelli del marito Arthur Miller, dei due, era lui, l’uomo, il mantenuto), una donna piena di problemi e però una in gamba, morta dipendente dai farmaci? L’eroina tragica se la sono inventata e tramandata gli uomini a cui un’icona fragile e fatale faceva – e fa – comodo. Fa il loro buon gioco. E fa il gioco pure di tante donnette che con un abusato mito sfortunato ci si possono confrontare da vincenti. Da migliori. Porelle. Loro.

Mica Marilyn! Ma se una son 60 anni che la pensano derelitta, perché sono 60 anni che la imitano, invano, la rincorrono, invano, vogliono essere lei, e non ci riescono? Non sarà che quello che Marilyn Monroe si era costruito, nonostante tutto, lottando, cadendo, rialzandosi, ricadendo, è un personaggio indistruttibile, e inimitabile? 

Sono 60 anni che si tenta e non si è buoni a rimarcarne un mignolo. Da ultima, Kim Kardashian, che si è platinata inserendo quel suo c*lone in uno tra gli iconici abiti di Marilyn. Dio, quant’era goffa!?? Perché inadatta. Lo charme è istinto. Innato. Non te lo puoi inventare. Né instagrammare. ("Goddess" di Anthony Summers è stato appena ripubblicato in italiano, col titolo "Dea", per La Nave di Teseo, ed era ora!).  

Marilyn, la Dea bionda: una favola crudele. Marilyn Monroe, il Mito a sessant'anni dalla misteriosa scomparsa. Il mito del cinema a sessant'anni (oggi) dalla misteriosa scomparsa. I fotogrammi eterni, gli amanti, la morte. Resta l'icona per definizione del nostro tempo. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Agosto 2022

Marilyn Monroe se ne andò nella notte fra sabato 4 e domenica 5 agosto 1962. Sessant’anni fa oggi. La notizia era sulle prime pagine il lunedì mattina. La «Gazzetta» la pubblicò con rilievo (riproduciamo l’originale in miniatura) e articoli del nostro Pietro Marino e di Ruggero Orlando. La dea bionda aveva 36 anni e quella morte giovane e misteriosa la consegnò presto al mito. Il caso Marilyn continua a sollevare un interesse spasmodico, come conferma Blonde di Andrew Dominik, attesissimo alla prossima Mostra di Venezia. Il film targato Netflix è tratto dall’omonimo libro di Joyce Carol Oates, tradotto da Sergio Claudio Perroni per Bompiani nel 2000: una rivisitazione dei drammi dell’attrice nella Hollywood Babilonia di allora e di sempre. Protagonista è la Bond Girl cubana Ana de Armas, già attaccata dai fan di Marilyn - sulla base del solo trailer - per il tono della voce che non corrisponderebbe a quello «vellutato» della Monroe.

Ritroviamo la sua favola crudele nelle pagine di  Dea - Le vite segrete di Marilyn Monroe di Anthony Summers, appena pubblicato dalla Nave di Teseo, che ripropone anche Blonde. Mentre impazza il mercato dei cimeli: gli abiti di scena di Marilyn, le sue pose audaci o disilluse, un ritratto firmato da Andy Warhol - che la immortalò nei celebri multipli - battuto all’asta giorni fa per 195 milioni di dollari... Insomma, vola la leggenda di Norma Jeane Baker (poi Mortenson), il nome anagrafico della diva, nata a Los Angeles il 1° giugno 1926. La madre Gladys, instabile nella psicologia e nei rapporti affettivi, le sopravviverà fino al 1984. Il lascito simbolico di Marilyn si trasmette di generazione in generazione e contagia i social che pure tendono a dissacrare chicchessia. La sua traiettoria continua oltre il cursum perficio, citazione di una lettera di San Paolo che significa «sto concludendo la mia corsa», iscritta su una mattonella della villa in stile ispanico di Brentwood, Los Angeles, in cui la Monroe morì. Un dettaglio scovato da due tossicologi e una criminologa forense dell’Università di Firenze (Mari, Bertol e Gualco, L’enigma della morte di Marilyn Monroe, Le Lettere ed.,  2012). Un segno premonitore dell’«intossicazione da barbiturici» di cui parlava il referto dell’autopsia? Macché, i tre studiosi non concordano: «La modalità di somministrazione del tossico non è avvenuta per via orale. Non si è trattato di atto suicidario. L’omicidio è stato perpetrato a opera di ignoti, legati vuoi alla polizia, vuoi alla criminalità organizzata, vuoi ai servizi segreti... ».

Forse tenendo all’oscuro lo stesso presidente John Fitzgerald Kennedy, indicato come uno dei suoi amanti (si vociferò anche del fratello Bob Kennedy). Per JFK una svampitissima Marilyn due mesi prima, il 29 maggio 1962, s’era prestata a canticchiare il proverbiale Happy Birthday, Mr President al Madison Square Garden di New York. Marilyn resta l’icona per definizione del nostro tempo ossessionato dal divismo. Era stato il filosofo tedesco Gunther Anders a cogliere nel secondo dopoguerra il sentimento di «antiquatezza dell’uomo», cioè la vergogna di non essere una merce immortale come le altre. L’esito è l’ammirazione per le stelle del cinema che «irrompono nella sfera dei prodotti in serie, da noi riconosciuta superiore». Osservazioni perfette per descrivere la parabola della bambola gonfiabile e puntualmente sgonfiata, andata in sposa la prima volta – appena sedicenne – all’operaio Jimmy Dougherty, quindi moglie del campione di baseball Joe Di Maggio, e, ancora, convolata a ingiuste nozze con l’intellettuale Arthur Miller. Tre dei tanti naufragi.

Scrisse il poeta beat Ed Sanders nei versi di For Marilyn Monroe, August 5, 1962: «Chi è l’uomo che non hai mai avuto/ no mai avuto mai avuto/ in nessun giocatore di baseball sorridente/ o commediografo senza uccello/ e i tuoi seni! i tuoi seni! i tuoi seni guardano dall’Occhio della Pace/ bianchi nella loro essenza e i capezzoli sono stelle!». Il mito Marilyn va a conferma, ma anche a dispetto del suo talento e dell’aura di attrice «congelata» in alcuni fotogrammi. Fra tutti, lei con la gonna sollevata dall’aria di una grata in Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955), lo stesso regista che ne fece una sensualissima interprete comica in A qualcuno piace caldo al fianco della irresistibile coppia en travesti Lemmon-Curtis (1959).

«Mi è capitato spesso di finire su un calendario. Ma mai per una data precisa» recita una delle freddure di Marilyn, che ci aveva visto giusto: il suo tempo non finisce mai. È condannata al destino dei fantasmi o degli zombie: il perenne presente in un mondo che non sa più cosa siano il peccato e il candore, binomio indissolubile. Lei, un po’ puttana per allegria quando la madre lo era stata per tristezza. Lei, lo sguardo più malinconico del mondo. Lei, un mondo.

Tra luci e ombre. L’incomprensibile stella di Hollywood e il romanzo che racconta la sua anima. Anthony Summers su L'Inkiesta il 4 Agosto 2022.

Oltre l’immagine della diva, Marilyn è una foto traballante di dolore, sempre pronta a compiacere gli spettatori ma mai sé stessa. Anthony Summers la racconta nella biografia pubblicata da La Nave di Teseo, da cui è nato anche un documentario su Netflix

«Il mio ingresso a scuola, con le labbra dipinte e le sopracciglia ritoccate, suscitò i mormorii di tutti. Perché mi considerassero tanto attraente non ne ho la minima idea. Non desideravo essere baciata e non sognavo di essere sedotta da un duca né da un divo del cinema. La verità è che, nonostante il mio rossetto, il mio rimmel e le mie curve precoci, ero insensibile come un fossile. Ma pareva che alla gente facessi tutt’altra impressione». Così diceva Marilyn Monroe nel 1954, ripensando alla sua adolescenza; quanto meno, questi sono i ricordi riportati dallo scrittore Ben Hecht, al quale quell’anno la nuova star di successo, allora ventottenne, raccontò la storia della sua vita.

Hecht contava di redarre, come autore anonimo, l’autobiografia della giovane Marilyn, commissionata da un noto editore di New York. Questo è un documento importante, poiché in nessun’altra intervista Marilyn rese mai una confessione tanto ampia. Ma è anche un documento controverso.

Dopo una lunga serie di conversazioni con Hecht, Marilyn gli chiese di leggerle ad alta voce tutto il manoscritto: centosessanta pagine. Poi, secondo quanto raccontato dalla vedova di Hecht, si mise a ridere e a piangere e si disse elettrizzata. Non avrei mai immaginato che si potesse scrivere su di lei una storia così bella e Benny aveva colto precisamente ogni fase della sua vita.

Marilyn diede anche una mano a correggere il manoscritto, ma poi i rapporti si raffreddarono. Joe DiMaggio, allora suo marito, si oppose alla pubblicazione e Marilyn mandò a monte il progetto. Quando il testo comparve ugualmente sul British Empire News, Marilyn minacciò di intentare una causa per travisamento delle sue dichiarazioni.

Se lo scrittore non fu preciso, anche Marilyn selezionò accuratamente le proprie verità. Mentre erano in corso le interviste, Hecht disse al suo editore che a volte aveva la netta sensazione che Marilyn stesse inventando. “Quando dico che mente,” spiegò, “intendo che non dice la verità. Non credo che cerchi di ingannarmi, ma piuttosto che si abbandoni alle fantasie.” Egli dovette imparare a interpretare “il curioso linguaggio corporeo di Marilyn, per capire quando stava inoltrandosi in un racconto inventato e quando invece era sincera”.

Molte di queste dichiarazioni di Marilyn riguardanti la sua infanzia sono qui riportate così come si trovano nel manoscritto di Hecht. Dove possibile, esse sono state confermate o smentite da testimoni imparziali. Dobbiamo considerare le cose che ci racconta con accorto scetticismo, e questo non è uno svantaggio. 

Marilyn, figura su cui si è fantasticato in tutto il mondo, ha costruito la propria immagine, pubblica e privata, in base a una miscela di fatti e di fantasie autogratificanti, esercitando all’eccesso una comune facoltà umana. La fantasia era un tratto specifico di questa creatura, e la difficoltà della sfida sta nello scoprire la donna che vi si nascondeva dietro.

Le cose che Marilyn raccontò a Ben Hecht erano tristi e difficili da digerire negli anni cinquanta. Quelle che non raccontò avrebbero potuto mettere fine alla sua carriera d’attrice. Ma a quel tempo erano fatti che riguardavano lei soltanto.

A quindici anni Marilyn era ancora “Norma Jeane” (o Norma Jean, quando le andava di scriverlo così), il nome che le aveva dato sua madre alla nascita. Fu all’inizio di quell’anno, il 1942, che la sua tutrice, una donna di mezza età di nome Grace McKee, decise d’un tratto di assolvere il proprio incarico sospingendola nel mondo degli adulti.

I futuri trionfi e le future disgrazie di Norma Jeane sarebbero tutti dipesi da Marilyn. Il primo matrimonio, però, le fu combinato da Grace McKee, che aveva deciso di trasferirsi a Est con il suo nuovo marito. Poiché i due non volevano portare con loro la ragazza, la soluzione era trovarle un marito.

da “Dea: le vite segrete di Marilyn Monroe”, Anthony Summers, La nave di Teseo, 640 pagine, 21 euro

Luca Mastrantonio per corriere.it il 3 agosto 2022.

C’è una foto a colori del 1955 che ritrae Marilyn Monroe che legge l’ Ulisse di Joyce. Sono le ultime pagine, quelle del monologo di Molly Bloom, la moglie del protagonista Leopold, donna che si converte al sì, al potere di saper dire sì al mondo con tutta sé stessa, anima e corpo. La maggior parte delle persone, per pregiudizio o coda di paglia, perché non tutti hanno letto tutto l’Ulisse, pensano che sia una posa. In realtà il fotografo Eve Arnold, che scattò quel servizio a Long Island, racconta che l’attrice si portava dietro il librone e confessava di faticare a leggerlo ma era affascinata dal suono delle parole, dalla voce, la voce interiore dei personaggi, che è il vero dono di Joyce a chi lo legge e leggendolo si conosce. 

Cosa pensava Marilyn mentre leggeva? E come ripensava alla propria vita, senza filtri, in sincerità, con il cuore a nudo come fa Molly Bloom? La risposta, arricchita da una parziale omonimia con l’autore irlandese, è arrivata nel 1999 con Blonde, mille pagine in cui l’americana Joyce Carol Oates ha distillato la vita reale in un romanzo che intreccia tre fasi o livelli di Marilyn: il primo, è la tribolata ragazza di provincia, Norma Jeane Baker; poi, l’attrice, col nome d’arte pieno di emme per suscitare mormorii di apprezzamento (mmh...), voce infantile e make up artificiale, corpo a disposizione di sguardi e fantasie maschili;

infine, la Bionda, chioma di platino, vestiti costosi e pelle di burro, che mette assieme stile di vita altolocata e categoria porno, con una rivisitazione della vergine delle favole: fragile e fatua, facile e felice. Le tre donne hanno uno stesso cuore, cui Oates dà vita inventando un timbro che suona autentico, mescolando biografia e finzione: come la balbuzie di cui da giovane soffriva realmente e Oates sublima poi in chiave sentimentale («La balbuzie era ancora dentro Norma Jeane. Ma era scesa dalla lingua al suo cuoricino da colibrì, lì dove nessuno poteva scoprirla»); o come le poesie del diario, che Marilyn scriveva e Oates reinventa.

Dalle tante famiglie cui fu data in adozione, Oates ne ricava una sola, di fantasia; e di tanti veri amanti, problemi di salute, aborti e tentativi di suicidio, compaiono i più simbolici. Gli uomini della sua vita ci sono tutti, da Joe DiMaggio ad Arthur Miller, fino a J.F. Kennedy; più alcuni inventati, come Cass, figlio gay di Charlie Chaplin. Dal libro è stata tratta una serie nel 2001 e recentemente un film che Netflix lancerà il prossimo settembre, firmato da Andrew Dominik, protagonista Ana De Armas. Per Oates è una sorprendente lettura femminista di Marilyn. Per noi, oltre che un mito, dovrebbe essere anche un monito su cosa può celarsi oltre il successo e dentro chi non ha più una vera vita privata, come ci ha ricordato la scrittrice in occasione dei 60 anni dalla morte di Marilyn, il 5 agosto 1962. 

Cosa ricorda della notizia della precoce morte di Marilyn a 36 anni?

«In quanto morte dell’icona “Marilyn Monroe”, il fatto era avvolto da molti misteri. Ma a colpirmi fu la scoperta, successiva, che lei aveva pochi dollari nel suo conto in banca, che non bastavano per un funerale dignitoso, così il suo corpo fu portato all’obitorio della contea di Los Angeles. Alla fine sarà l’ex marito Joe DiMaggio a pagare per il funerale e la lapide. Questo è rivelatore: l’immagine glamour di una donna è solo qualcosa che viene venduta al pubblico da cinici produttori e imprenditori, mentre la donna in sé viene sfruttata. Una vittima, nonostante la sua bellezza e talento. Perché “Marilyn Monroe” è morta così giovane? La donna che era dietro l’artista, Norma Jeane Baker, era disperata per la sua vita già all’età di 36 anni». 

L’ispirazione del libro è venuta da una foto in cui Norma Jeane Baker è bruna e sconosciuta, come tante ragazze della grande provincia USA.

«Aveva solo 16 anni al tempo di quella foto. Era una ragazza che aveva abbandonato le scuole superiori e si era sposata da giovane, con un amico del vicinato, per evitare di essere rimandata in orfanotrofio fino all’età di 18 anni. 

In questa fotografia, Norma Jeane è carina ma non affascinante; ha i capelli castani, non biondo platino. È istruttivo vedere come “Marilyn Monroe” sia stata modellata su questa giovane ragazza americana volenterosa ma ingenua, per essere trasformata in un prodotto di consumo per gli studios di Hollywood».

Qual è l’aspetto meno indagato di Marilyn Monroe?

«Mentre riguardavo i film in ordine cronologico, da Giungla d’asfalto e La tua bocca brucia fino a Gli spostati, mi sono resa conto di un’attrice brillante ma sottovalutata. Le prove sono lì, sullo schermo, basta vedere i film». 

La vita di Marilyn e il suo romanzo sono pieni di punti di svolta: dalla ragazza alla star, dalla star al sex symbol. Punti spesso oscuri: penso alla scena del provino in cui viene violentata dal produttore che però quasi giustifica; o al celebre servizio fotografico di nudo su un panno rosso fatto per bisogni economici... Delle tante metamorfosi di Marilyn, ce ne è una che ricorda più di altre?

«Direi che il primo “punto di non ritorno” nella vita di Norma Jeane è una foto vestita da operaia durante la Seconda guerra mondiale, apparsa sul quotidiano militare Stars & Stripes. Penso sia stato l’inizio di quella trasformazione che ha portato la sua vita privata ad essere anche vita pubblica».

Marilyn aveva la sindrome dell’impostore e cercava continue conferme negli uomini. Chi l’ha amata o aiutata ad amarsi di più?

«I suoi mariti l’amavano molto, questo è fuori dubbio. Ma il suo bisogno di attenzione e le sue continue ansie mettevano a dura prova ogni relazione».

Estratto da “Dea. Le vite segrete di Marilyn Monroe”, di Anthony Summers,  pubblicato da “La Stampa” il 3 agosto 2022.

«Lo sai da chi sono sempre dipesa?» aveva detto Marilyn al giornalista W.J. Weatherby. «Non dagli estranei, non dagli amici. Dal telefono! È lui il mio migliore amico. Adoro telefonare agli amici, soprattutto di notte quando non riesco a dormire» . 

Marilyn fece lavorare sodo il suo «migliore amico» negli ultimi giorni della sua vita. (....) Sola con il suo telefono e le sue pillole, Marilyn fece una serie di chiamate in cerca di aiuto. Gli amici o non erano a casa o non capirono che questa disperazione era diversa dalla solita». 

Le ripetute chiamate a Robert Kennedy o i frenetici messaggi tramite Peter Lawford non riuscirono a farlo accorrere. Come tanti uomini o donne che intendono lasciare un amante, Kennedy può avere pensato che il sistema migliore fosse quello di tenersi a distanza con durezza e determinazione. Era anche più sicuro non arrischiare un'altra visita a casa di Marilyn, con il pericolo di esporsi ai nemici.

Oggi è impossibile dire se i nemici di Kennedy - gli emissari di Sam Giancana e Jimmy Hoffa - svolsero un ruolo attivo nelle ultime ore di Marilyn. Le prove mediche, come abbiamo visto, lasciano aperta la possibilità che la dose mortale di barbiturici le sia stata somministrata da qualcuno. Scenario più probabile, fu semplicemente lei a sottovalutare gli effetti di un'improvvisa dose massiccia, presa in aggiunta a un consumo ininterrotto di sedativi durante il giorno. 

In alternativa, potrebbe aver deciso lei di togliersi la vita. Più tardi, quel sabato sera, probabilmente poco dopo le 22, Marilyn fece la sua ultima telefonata a casa Lawford. Parlava in modo sconnesso e confuso, e a un tratto fu chiaro che stava scivolando nell'incoscienza. È giusto ipotizzare - e si vorrebbe credere - che la notizia provocò in Robert Kennedy una reazione decente, umana. 

Potrebbe essere stato lui, forse accompagnato o seguito da Peter Lawford, a precipitarsi a questo punto a casa di Marilyn. La trovarono in coma, ma non ancora morta. Qui la testimonianza secondo la quale fu chiamata un'ambulanza diventa cruciale. Se è esatto quello che dice il direttore del servizio ambulanze, Marilyn fu portata via dalla casa in coma, ma ancora viva. Potrebbe essere spirata all'arrivo all'ospedale di Santa Monica dove, senza trucco e avvolta nelle lenzuola, poteva non essere riconosciuta.

La mia opinione è che probabilmente morì prima di arrivare all'ospedale, e che la persona che l'accompagnò - lo stesso Kennedy, forse? - si trovò di fronte a un terribile dilemma. 

Marilyn era morta in circostanze che per il ministro della giustizia potevano significare la completa rovina. Anche nel caso che non avesse mai avuto una relazione con Marilyn - e tutte le prove suggeriscono il contrario - per un Kennedy essere trovato insieme a una Marilyn Monroe morta, anche in una legittima azione di pietoso soccorso, avrebbe significato sicuramente un disastro politico.

La soluzione era riportare il corpo nella casa di Brentwood, sul letto da cui aveva fatto la sua ultima, disperata telefonata. Occorreva tempo, soprattutto per permettere a Robert Kennedy di lasciare la città, e poi per ripulire la casa di Marilyn. 

Soltanto a questo punto arrivò la telefonata al dottor Greenson, che si precipitò sul posto e «scoprì» il corpo fra le 3.30 e le 4. Come indica la pista seguita dai reporter Hyams e Woodfield, il ministro della giustizia lasciò la California in aereo. 

Suo cognato Peter Lawford incaricò il detective privato Fred Otash di coprire qualsiasi traccia compromettente che potesse essere rimasta. In ogni caso, Otash e i suoi collaboratori furono in grado di fare poco. 

Quando entrarono in azione, nelle prime ore della domenica mattina, ingranaggi più potenti si erano messi in moto. Richiamato bruscamente dal concerto all'Hollywood Bowl, il consulente di pubbliche relazioni di Marilyn, Arthur Jacobs, che era un uomo di notevole potere a Los Angeles, si precipitò alla casa di Brentwood. 

Forse non seppe mai di tutti gli avvenimenti di quella notte, del viaggio a vuoto dell'ambulanza e degli spostamenti notturni di Robert Kennedy, ma era senza dubbio l'uomo giusto, come dice oggi sua moglie, per «sistemare» le cose. 

Nel frattempo qualcuno dotato di un potere effettivo - probabilmente lo stesso Robert Kennedy - svegliava il direttore dell'Fbi, J. Edgar Hoover. Da Washington partì l'ordine di far sparire i dati sulle telefonate fatte da Marilyn nelle ultime ore di vita, che erano ancora recuperabili presso la compagnia telefonica. Questa ricostruzione può non essere esatta in qualche particolare, ma è plausibile in base alle informazioni di cui oggi disponiamo. 

Per Robert Kennedy, quelle ore notturne e i giorni che seguirono dovettero essere i momenti più tormentati della sua vita. Se la nostra ricostruzione è esatta, la morte di Marilyn Monroe fu la sua Chappaquiddick. Se, contrariamente al meno fortunato fratello Ted, Robert sfuggì allo scandalo pubblico, fu per miracolo. 

Per sempre Marilyn: la diva morta 60 anni fa interpretò i sogni di un’intera epoca. Paolo Mereghetti su Il Corriere della Sera il 31 Luglio 2022.  

Affascinante attrice di talento, giudicata con sarcasmo Prigioniera dell’immagine di «oca giuliva» del cinema. 

Forse ha ragione chi sostiene che davanti a Marilyn si può solo tacere, che ogni parola rischia di essere stonata, di sembrare di troppo, perché certi innamoramenti e certe passioni non possono che uscire sminuite se le si affida alle parole.

Come descrivere quello che si prova vedendola sullo schermo mentre suona l’ukulele in «A qualcuno piace caldo», mentre cerca un po’ di fresco dalle grate della metropolitana di «Quando la moglie è in vacanza» oppure in maglione e calzamaglia nera mentre canta «My Heart Belongs to Daddy» in «Facciamo l’amore»? E sono solo le prime delle tante immagini che tornano alla mentre ripensando alla diva morta sessant’anni fa, il 4 agosto 1962, portandosi dietro il segreto di un fascino che non si poteva spiegare solo con la sua bellezza o con i film che aveva interpretato o con una vita sentimentale che in troppi si sono presi la briga di sporcare.

Se a tanti anni di distanza siamo ancora qui a rimpiangerla (alla Mostra di Venezia toccherà a Ana de Armas farla rivivere, in «Blonde»), vuol dire che davvero ha saputo dare forma ai sogni non solo della sua generazione ma a quelli di un’epoca tutta, gli anni Cinquanta di Kennedy e di Kruscev, di papa Giovanni e di Castro, di chi cercava il nuovo e di chi voleva dimenticare il passato. Anche a costo di pagare un prezzo troppo alto.

Forse nessuna attrice è stata vivisezionata ed esaminata come lei. E su nessuna si è esercitato il sarcasmo urticante di chi si sentiva in diritto di giudicare e condannare (dimentichiamo chi si è permesso di dire che «dirigere Marilyn è come dirigere Lassie. Ci vogliono quattordici ciak prima che abbai nel modo giusto» e rubrichiamolo nel cassetto di chi deve per forza fare sfoggio di cinismo). Certo, come tutte e come tutti i primi passi non sono stati subito spediti: è facile ironizzare su «Orchidea bionda» (1948), il suo primo ruolo da protagonista, dove è la ragazza di un burlesque soffocata dalla madre e insidiata dal proprietario del locale. Ma già due anni dopo, in «Eva contro Eva», al braccio di George Sanders, sa lasciare il segno. La sua gavetta fu lunga, costretta a passare attraverso i personaggi (spesso stereotipati) che Hollywood creava per chi pensava più bella che brava. Eppure quando finisce nelle mani di un regista che conosce il mestiere, capisci subito di essere di fronte a una rosa che deve solo sbocciare. Come accade altri due anni dopo in «Il magnifico scherzo», dove Howard Hawks (e gli sceneggiatori Ben Hetch, Charles Lederer e I. A. L. Diamond: tre geni assoluti) la trasformano in uno «spaccio di baci a orario continuo», indimenticabile quando mostra i suoi «acetati» (cioè le sue calze di nylon) all’impacciato Cary Grant. Un attore, va ricordato, che non era certo l’ultimo arrivato e a cui Marilyn offriva le batture come una grande professionista.

Fu facile ai tempi ironizzare sulle sue ambizioni artistiche, sulla sua voglia di personaggi diversi dalle «oche giulive» che le imponeva Hollywood. Ma basterebbe scorrere il quaderno di appunti usato durante «A qualcuno piace caldo» (l’ha pubblicato Taschen) per capire l’impegno che l’attrice metteva nel suo mestiere e la sua voglia di migliorare, di superarsi. Che forse non sempre veniva raccolto dai chi le stava accanto, ma che sapeva arrivare a chi la guardava sullo schermo.

Il suo unico vero sbaglio fu quello di non essersi costruita un personaggio capace di zittire la volgarità che imperava (e non solo allora) nel mondo del cinema, come seppero fare molte sue colleghe più furbe e «corazzate» di lei. Marilyn non nascondeva le sue fragilità in un modo di pescecani, le sue insicurezze di fronte a chi sembrava non averne. Confessava i suoi desideri e i suoi sogni con la semplicità e l’immediatezza di una bambina, andando ben al di là dei ruoli che il cinema le attribuiva. Per questo commuove ne «Gli spostati», perché quella neo-divorziata, che sembra continuamente dover fare i conti con il senso di abbandono (e di morte) che la circonda, ha finito per trasformarsi in un testamento a voce alta, nella disperata dichiarazione d’amore di chi non riesce a trovare un amico a cui confidarsi. Proprio come successe quella notte del 4 agosto, quando tutte le telefonate che fece finirono nel vuoto, lasciandola drammaticamente sola.

Marilyn Monroe nell’ultima intervista: «La prego, non mi faccia apparire ridicola». Jonathan Bazzi su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.

Sessant’anni fa moriva la diva. Da bambina non vista e non amata seppe trasformarsi nell’oggetto inesauribile del desiderio e assunse su di sé, fino a condurla al punto di rottura, la questione del rapporto fra noi stessi e gli altri. Avremmo potuto salvarla? 

Marilyn ovvero Norma Jeane Baker: la bambina non vista, non amata, sessualmente abusata a nove anni, figlia di una donna affetta da schizofrenia incapace di badare a lei, rimbalzata da una casa-famiglia all’altra, da una coppia affidataria all’altra, si trasforma nell’oggetto inesauribile del desiderio. Diva delle dive, ossessione collettiva, sogno che non smettiamo di sognare. Ha qualcosa di inspiegabile, fuori misura, la trasformazione di Norma Jeane in Marilyn Monroe, ma parlare di miti e icone significa chiamare in causa proprio questo surplus, salto tra i regni e le categorie dell’esistente. Già in vita e ancor di più con la morte Marilyn diventa un ultracorpo, presenza che vibra al di là di sé stessa ed esonda, prende dimora nell’immaginario collettivo. Questo superamento ha forse a che fare con le contraddizioni interne del personaggio/persona. Rifiutata da tutti e poi da tutti voluta, innocua e onnipotente, a disposizione eppure inafferrabile, leggerissima e disperata: le leggende sono ipnotici fermagli che tengono fermo giusto qualcosa in mezzo a una nebulosa di sensazioni e reazioni esterne, per accrescerne il fulgore, il ricordo, rinnovarne il prodigio.

IL 5 AGOSTO 1962 MORIVA A BRENTWOOD (LOS ANGELES) NORMA JEANE BAKER, IN ARTE MARILYN MONROE. IL SUO BISOGNO DI ESSERE GUARDATA L’HA RESA LA PIÙ BRAVA A FARSI SOGNARE. «DA PICCOLA NESSUNO MI DICEVA CHE ERO CARINA, BISOGNEREBBE DIRLO A TUTTE»

I commenti delle persone che l’hanno conosciuta - attori, attrici, amanti, fotografi, registi - risultano del tutto privi di mezze misure: genio della recitazione o incapace assoluta, improvvisata o stacanovista, mente prismatica o debilitata, donna fragilissima o calcolatrice implacabile, forza della natura. C’è chi pensa fosse del tutto consapevole - della cinepresa, dello sguardo altrui, della carriera - e chi la dipinge in balia delle situazioni, personali e mediatiche, una predestinata al dolore (il suo psicanalista la definì, di fatto, una causa persa), che smetteva di essere terrorizzata solo con bambini e animali («gli animali non la umiliavano», disse Arthur Miller). La sua capacità di reggere versioni disparate ed essere interpretabile a piacere, massimo grado della vulnerabilità/massimo grado della forza, è uno dei segreti della sua figura. Così, il fotografo Milton H. Greene: « Non avevo mai incontrato una che avesse quel tono di voce, quella gentilezza, quell’autentica dolcezza. Se per strada vedeva un cane morto, si metteva a piangere. Era così sensibile che bisognava stare sempre attenti al modo in cui le si parlava. In seguito avrei scoperto che era una schizoide, che poteva essere assolutamente brillante o assolutamente gentile, e poi tutto il contrario».

O ancora, Cecil Beaton, autore dei ritratti forse più belli di Marilyn, a proposito delle loro sedute: «Giocherella, squittisce compiaciuta, si adagia sul sofà. Si mette in bocca il gambo di un fiore, aspira una margherita come fosse una sigaretta. È una performance spontanea, improvvisata, vivace. Probabilmente finirà in lacrime». «Nuvola di panna e fragole», «matta come un cavallo», «baciarla era come baciare Hitler», «non era solo difficile, era impossibile», «bimba smarrita»: di qui e di là, e poi da nessuna parte: dov’è Marilyn Monroe? «Spesso ho una strana sensazione», confesserà lei, «come se stessi prendendo in giro qualcuno, ma non so chi. Forse me stessa, forse gli altri. Sapevo di appartenere al pubblico e al mondo, non per il talento o la bellezza, ma perché non ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro», dice Marilyn altrove.

Da niente a tutto

Vita microscopica e poi gigantesca, negli occhi di tutti: partita dalla più asfittica deprivazione, Norma Jeane è riuscita non solo a farsi vedere dal mondo ma in qualche modo a superarlo, contenerlo in sé. Ragazza venuta dal niente e affamata di tutto, riesce a espandere i suoi confini - della pelle diafana, dei suoi abiti sgargianti ed eccessivi, delle pose immortali: nuda a letto, velluto rosso, gonna che s’alza, happy birthday Mister President - sino farsi presenza simbolica, che assembla e offre tante donne possibili. Adolescente bloccata nel tempo, dea del sesso, imprenditrice, moglie esaltata e poi umiliata, amante dei fratelli più potenti d’America, paziente psichiatrica.

Monna Lisa

Anche così si spiegano gli infiniti tentativi di imitazione, citazione, possessione - da Madonna alla recente polemica per l’abito del 1962 indossato da Kim Kardashian sul red carpet dell’ultimo Met Gala, passando per Cindy Crawford, Gwen Stefani, Naomi Watts, Christina Aguilera, Angelina Jolie, Scarlett Johansson, Michelle Williams, Paris Hilton e G W tantissime altre. Come Monna Lisa, l’immagine di Marilyn penetra nel bagaglio iconografico universale e contamina tutto, continuando a produrre ovunque copie, tracce, marchi, segni di sé, senza mai davvero consumarsi, creare inflazione. L’orfana indesiderata diventa un clamoroso dispositivo mediatico. Dai ritratti seriali di Andy Warhol in poi - lo street artist Banksy nel 2005 ne ha prodotto una specie di sua versione aggiornata, con Kate Moss per protagonista, battuta all’asta quest’anno per un valore più alto degli originali warholiani -, la bambina non amata, incantesimo degli incantesimi, ha ottenuto non solo lo sguardo di massa ma la riproduzione intensiva e globale. È sotto gli occhi di tutti. 

Il desiderio e la sua fine

Marilyn, una sopravvissuta che desiderava molto, e perciò veniva molto desiderata. Il suo bisogno di sguardo l’ha resa la più brava a farsi sognare. Disse: «Quando ero piccola, nessuno mi diceva mai che ero carina. Bisognerebbe dirlo a tutte le ragazzine, anche se non lo sono». Marilyn è anche un grande mito sul lato oscuro del desiderio. Lei riempie i nostri occhi, giganteggia fulgida sugli schermi e sui miliardi di stampe e riproduzioni ma, allo stesso tempo, ci parla delle derive di tutta questa forza d’attrazione, insinua quali possono essere i sentieri fatali su cui i desideri conducono. Marilyn muore il 5 agosto 1962, a 36 anni, nel letto, con la cornetta del telefono in mano, e c’è chi ha visto in quel telefono abbandonato a terra un simbolo della sua vita, e della vita umana in generale. La sua storia è finita presto, e tutte le storie interrotte ci invitano a essere continuate nella mente, prolungate nello spazio/tempo di cui non hanno potuto disporre: avremmo potuto salvare Marilyn Monroe?

Le sue mancanze e le nostre

La maschera che occulta l’abisso: Marilyn tiene insieme una dimensione fissa, la bidimensionalità tipica di tutte le icone, e lampi di sconvolgente profondità. Piena di gioia e insieme facile allo strazio, in pubblico macchietta bionda dalla voce tutta sussurri e poi fuori incline, come racconta il costumista Travilla, a smottamenti segreti: «A uno sguardo superficiale sembrava una ragazza leggera. Ma quelli che la criticavano non l’hanno mai vista, come me, piangere come una bambina. Spesso si sentiva così inadeguata. Ogni tanto soffriva di tremende depressioni e si metteva a parlare di morte ». Continuiamo a tornare a lei, le sue mancanze primigenie sono le nostre: consciamente o no, Marilyn Monroe è un eccezionale campo di rispecchiamenti e proiezioni. Ancora oggi ha la capacità di creare narrazione, al di là delle cose che hanno cercato di farle raccontare sullo schermo, che erano poi sempre le stesse - accalappiatrice di mariti ricchi, preda svampita, corpo che riempie bei vestiti. Marilyn ha assecondato tutto questo - comprendere Marilyn è dunque anche comprendere l’addestramento alla femminilità - ma all’interno e fuori dal set ha raccontato altro.

Burattina e Burattinaia

Plasmata dalle figure che aveva attorno - che ne hanno modificato il nome, decolorato i capelli, che le hanno imposto come parlare, camminare, ammiccare -, è riuscita a impadronirsi di questi codici uniformi. Incoraggiata ad aderire a modelli già predisposti, sembrerebbe non essersi inventata nulla - dumb blonde, blonde bombshell, oca bionda, bomba sexy, pin up, in Italia le avremo chiamate “maggiorate”, - salvo poi scuotere lo stereotipo con la sua inquietudine, rendendolo tridimensionale e quindi umbratile, a tratti sinistro. Avendo così tanto bisogno di quello sguardo lei ha fatto sconfinare la caricatura nel mito, rivelandone insieme il potenziale tragico. Burattina e burattinaia, è stata pupazzo e ventriloquo della bambola che lei stessa ha accettato (finto) di essere, creandosi un sé artificiale. Da qui la frattura o dislocazione d’anima: tutto ciò che l’ha resa eccezionale stava forse anche alla base della sua sofferenza.

Le sagome di cartone

Marilyn non fu una donna emancipata nel senso canonico previsto dal femminismo, né di ieri né di oggi, non rifiutò le convenzioni sessiste e oppressive del suo mondo. La sua rivoluzione è di altro tipo. Ebbe bisogno del sistema, del male gaze , del desiderio dei maschi, per mettersi in salvo dalla voragine del passato e provare a sentirsi amata. Il sistema probabilmente ha logorato la sua mente e lacerato il suo cuore ma non ha annientato la sua personalità: mischiando il codice imposto con molte altre cose, sue, originali e struggenti, se n’è impadronita una volta e per sempre. Marilyn Monroe ha reso le sagome di cartone in cui hanno cercato di costringerla a forza molto più vere e vive di quel che volevano essere, e questo l’ha resa più grande del tempo. Ha assunto su di sé, fino a condurla al punto di rottura, alla nefasta, eclatante detonazione, la questione del rapporto tra l’io e gli altri, il nostro essere carne esposta sempre in attesa di una risposta dal mondo. Al giornalista di Life a cui rilascia l’ultima intervista prima di morire, la diva, l’icona, il sogno di tutti, chiede: «La prego, non mi faccia apparire ridicola». 

Joyce Carol Oates: «Marylin era volenterosa ma ingenua, fu trasformata in prodotto di consumo». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.  

A 60 anni dalla morte parla la grande scrittrice americana che all’attrice ha dedicato un libro monumentale: « In banca non aveva i soldi neppure per un funerale decente» 

C’è una foto a colori del 1955 che ritrae Marilyn Monroe che legge l’ Ulisse di Joyce. Sono le ultime pagine, quelle del monologo di Molly Bloom, la moglie del protagonista Leopold, donna che si converte al sì, al potere di saper dire sì al mondo con tutta sé stessa, anima e corpo. La maggior parte delle persone, per pregiudizio o coda di paglia, perché non tutti hanno letto tutto l’Ulisse, pensano che sia una posa. In realtà il fotografo Eve Arnold, che scattò quel servizio a Long Island, racconta che l’attrice si portava dietro il librone e confessava di faticare a leggerlo ma era affascinata dal suono delle parole, dalla voce, la voce interiore dei personaggi, che è il vero dono di Joyce a chi lo legge e leggendolo si conosce.

Cosa pensava Marilyn mentre leggeva? E come ripensava alla propria vita, senza filtri, in sincerità, con il cuore a nudo come fa Molly Bloom? La risposta, arricchita da una parziale omonimia con l’autore irlandese, è arrivata nel 1999 con Blonde, mille pagine in cui l’americana Joyce Carol Oates ha distillato la vita reale in un romanzo che intreccia tre fasi o livelli di Marilyn: il primo, è la tribolata ragazza di provincia, Norma Jeane Baker; poi, l’attrice, col nome d’arte pieno di emme per suscitare mormorii di apprezzamento (mmh...), voce infantile e make up artificiale, corpo a disposizione di sguardi e fantasie maschili; infine, la Bionda, chioma di platino, vestiti costosi e pelle di burro, che mette assieme stile di vita altolocata e categoria porno, con una rivisitazione della vergine delle favole: fragile e fatua, facile e felice. Le tre donne hanno uno stesso cuore, cui Oates dà vita inventando un timbro che suona autentico, mescolando biografia e finzione: come la balbuzie di cui da giovane soffriva realmente e Oates sublima poi in chiave sentimentale («La balbuzie era ancora dentro Norma Jeane. Ma era scesa dalla lingua al suo cuoricino da colibrì, lì dove nessuno poteva scoprirla»); o come le poesie del diario, che Marilyn scriveva e Oates reinventa.

Dalle tante famiglie cui fu data in adozione, Oates ne ricava una sola, di fantasia; e di tanti veri amanti, problemi di salute, aborti e tentativi di suicidio, compaiono i più simbolici. Gli uomini della sua vita ci sono tutti, da Joe DiMaggio ad Arthur Miller, fino a J.F. Kennedy; più alcuni inventati, come Cass, figlio gay di Charlie Chaplin. Dal libro è stata tratta una serie nel 2001 e recentemente un film che Netflix lancerà il prossimo settembre, firmato da Andrew Dominik, protagonista Ana De Armas. Per Oates è una sorprendente lettura femminista di Marilyn. Per noi, oltre che un mito, dovrebbe essere anche un monito su cosa può celarsi oltre il successo e dentro chi non ha più una vera vita privata, come ci ha ricordato la scrittrice in occasione dei 60 anni dalla morte di Marilyn, il 5 agosto 1962.

Cosa ricorda della notizia della precoce morte di Marilyn a 36 anni?

«In quanto morte dell’icona “Marilyn Monroe”, il fatto era avvolto da molti misteri. Ma a colpirmi fu la scoperta, successiva, che lei aveva pochi dollari nel suo conto in banca, che non bastavano per un funerale dignitoso, così il suo corpo fu portato all’obitorio della contea di Los Angeles. Alla fine sarà l’ex marito Joe DiMaggio a pagare per il funerale e la lapide. Questo è rivelatore: l’immagine glamour di una donna è solo qualcosa che viene venduta al pubblico da cinici produttori e imprenditori, mentre la donna in sé viene sfruttata. Una vittima, nonostante la sua bellezza e talento. Perché “Marilyn Monroe” è morta così giovane? La donna che era dietro l’artista, Norma Jeane Baker, era disperata per la sua vita già all’età di 36 anni».

L’ispirazione del libro è venuta da una foto in cui Norma Jeane Baker è bruna e sconosciuta, come tante ragazze della grande provincia USA.

«Aveva solo 16 anni al tempo di quella foto. Era una ragazza che aveva abbandonato le scuole superiori e si era sposata da giovane, con un amico del vicinato, per evitare di essere rimandata in orfanotrofio fino all’età di 18 anni. In questa fotografia, Norma Jeane è carina ma non affascinante; ha i capelli castani, non biondo platino. È istruttivo vedere come “Marilyn Monroe” sia stata modellata su questa giovane ragazza americana volenterosa ma ingenua, per essere trasformata in un prodotto di consumo per gli studios di Hollywood».

Qual è l’aspetto meno indagato di Marilyn Monroe?

«Mentre riguardavo i film in ordine cronologico, da Giungla d’asfalto e La tua bocca brucia fino a Gli spostati, mi sono resa conto di un’attrice brillante ma sottovalutata. Le prove sono lì, sullo schermo, basta vedere i film».

La vita di Marilyn e il suo romanzo sono pieni di punti di svolta: dalla ragazza alla star, dalla star al sex symbol. Punti spesso oscuri: penso alla scena del provino in cui viene violentata dal produttore che però quasi giustifica; o al celebre servizio fotografico di nudo su un panno rosso fatto per bisogni economici... Delle tante metamorfosi di Marilyn, ce ne è una che ricorda più di altre?

«Direi che il primo “punto di non ritorno” nella vita di Norma Jeane è una foto vestita da operaia durante la Seconda guerra mondiale, apparsa sul quotidiano militare Stars & Stripes. Penso sia stato l’inizio di quella trasformazione che ha portato la sua vita privata ad essere anche vita pubblica». Marilyn aveva la sindrome dell’impostore e cercava continue conferme negli uomini. Chi l’ha amata o aiutata ad amarsi di più? «I suoi mariti l’amavano molto, questo è fuori dubbio. Ma il suo bisogno di attenzione e le sue continue ansie mettevano a dura prova ogni relazione».

Dal corriere.it l'1 maggio 2022.

Lanciatissimo dalla stampa arriva su Netflix (in USA e Gran Bretagna, vedremo quando in Italia) The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes di Emma Cooper. È un nuovo attesissimo e «chiacchieratissimo» documentario dedicato alle ultime ore di vita di Marilyn Monroe. Per la prima volta vengono resi pubblici delle registrazioni finora segrete. Vedremo se aiuteranno a risolvere il «mistero» della bionda più atomica di Hollywood. 

Erano le 3.30 della notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. La sua governante Eunice Murray bussò alla sua porta, al 12305 di Fifth Helena Drive, a Brentwood, Los Angeles. Nessuna risposta. La donna chiamò allora il medico e lo psichiatra della diva. Fu quest’ultimo, alle 4.25 ad annunciarne la morte. E a chiamare la polizia.

The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes parte da qui. Da quando ufficialmente inizia il «mistero della morte di Marilyn Monroe». Su Netflix dal 27 aprile, gli anglosassoni potranno saperne di più. Magari sapere finalmente la verità. Fu davvero suicidio, come da versione ufficiale? Oppure qualcuno mise a tacere per sempre colei che era l’amante di Robert Kennedy e del fratello, il presidente JFK a cui aveva cantato Happy Birthday? Le voci e i dubbi circolarono da subito. Il documentario sembrerebbe confermarli…

Perché, come dice il titolo del docu, per la prima volta vengono resi pubblici audio finora mai ascoltati. Aggiungete le interviste esclusive a chi M.M. l’aveva incontrata nel suo ultimo giorno di vita. E in quelli subito precedenti. 

«La tragica morte dell’icona hollywoodiana Marilyn Monroe ha generato voci di complotti e cospirazioni per decenni. Spesso mettendo in ombra il suo talento e personalità. Ricostruendo le sue ultime ore attraverso registrazioni inedite e le testimonianze di chi la conosceva bene, il film illumina la sua storia. Quella di una vita affascinante e complessa. Offrendo una nuova visione di quella notte fatidica»… 

Tra le voci riportate nel documentario, quella che fosse incinta di uno dei due fratelli Kennedy. Viene riportata la frase dell’attrice: «Ho perso il mio bambino». Altra voce, quella che negli ultimi giorni avesse tentato di mettersi in contatto con Robert, il fratello minore allora Ministro della Giustizia. Come ha scritto Vanity Fair USA, l’attrice aveva confidato che avrebbe sposato l’uomo, già coniugato e con figli. Ne parlò in diverse telefonate ad amici.

Robert Kennedy ha sempre negato di aver incontrato l’attrice nei giorni precedenti la sua morte. E questo anche se alcuni testimoni dissero di averlo visto nei dintorni della villa di Brentwood. 

Jeanne Carmen, attrice e amica di Marilyn, raccontò che l’aveva sentita per telefono. Aveva la voce stanca. Le confidò che durante la notte una voce femminile l’aveva tempestata di telefonate. «Lascia stare Bobby, vagabonda. Lascialo stare», le aveva ripetuto. Alla sua richiesta di portarle pillole e vino, l’amica le rispose di no.

L’ultimo giorno della sua vita, Monroe telefonò anche al suo parrucchiere Sydney Guilaroff e al suo psichiatra. Il primo disse che era disperata e si sentiva minacciata «da uomini potenti con cui aveva avuto relazioni sessuali». Lei gli raccontò che Bobby Kennedy era stato da lei e l’aveva «minacciata». Il secondo, che la raggiunse alle 7 di sera, la trovò «rabbiosa». Tra le 21.30/22, allo sceneggiatore Jose Bolanos, disse che lei gli rivelò qualcosa «che avrebbe scioccato il mondo». Ma non svelò mai cosa… 

A tutt’oggi, le teorie complottistiche non si sono spente. Tra queste, quella che la diva sarebbe stata uccisa dall’FBI su richiesta dei Kennedy. Secondo altre fonti, sarebbe rimasta vittima della mafia.

 Marilyn Monroe, la morte 60 anni fa. Le immagini che costruirono il mito. Alberto Crespi su La Repubblica il  4 agosto 2022.

Dai primi scatti in chiave pin-up alle diverse trasformazioni volute da Hollywood: le foto che raccontano una carriera luminosa e un destino fatale

Lo scorso 1 giugno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Oggi siamo qui a celebrare i sessant’anni trascorsi dalla sua scomparsa, il 5 agosto 1962: ma la cosa più sorprendente, osservando la sua biografia, è che potrebbe essere ancora viva. Un’adorabile vecchietta, da tempo in pensione, sicuramente nascosta in qualche superattico newyorkese (non sarebbe rimasta a Hollywood nemmeno sotto tortura) e inaccessibile ai media e al pubblico come Greta Garbo.

Le due Marilyn

Forse è questo il motivo per cui Marilyn continua a essere “due” Marilyn, decisamente diverse l’una dall’altra. Come diva e come attrice è irrimediabilmente incasellata nel “suo” decennio, gli anni 50, l’ultima decade dorata della vecchia Hollywood che con lei tentò un disperato colpo di coda: creare una diva super-glamour proprio mentre il cinema classico si avviava a una fine gloriosa, tenendola rinchiusa in un’immagine che poteva rimandare a stelle del passato come Mae West o Jean Harlow – la stessa operazione che non riuscì invece con i divi maschi del decennio, i vari Marlon Brando, Monty Clift e Paul Newman, segnati invece dalla modernità. Come icona, invece, Marilyn è attualissima e non conosce né ha mai conosciuto declino. Viene quasi da pensare a che razza di influencer potrebbe essere, oggi, una come lei. A come cavalcherebbe i nuovi media, così come cavalcava quelli di allora.

Marilyn Monroe, un pugno di titoli per una leggenda

Pensare che lei avrebbe voluto “essere Marlon Brando”: un’attrice seria, intellettuale, capace di alternare il cinema al teatro. Come Brando, in fondo, ha fatto pochi film. Le filmografie gliene assegnano 31, ma quelli nei quali è protagonista sono di fatto una decina da Niagara (1953) in poi. Prima ci sono tante particine, spesso neanche accreditate, o valorizzate a posteriori (come la famosa scritta “postuma” nei titoli di testa di Una notte sui tetti, dei fratelli Marx: “E per 41 secondi sullo schermo, Marilyn Monroe!”). La sua leggenda è legata a un pugno di titoli, assai diversi fra loro (musical, commedie ma anche drammi e persino un western, La magnifica preda accanto a Robert Mitchum, bellissimo: da recuperare), e a molte altre cose che in ultima analisi sono più importanti e durature dei film. Nell’ordine: la morte prematura sulla quale ancora si discute, il controverso rapporto con la famiglia Kennedy, alcune campagne pubblicitarie divenute immortali, i servizi con alcuni grandi fotografi e, in generale, le mille metamorfosi che questa donna ha vissuto nella sua breve vita. Proviamo a raccontarne alcune.

La pin-up che piace agli americani

Norma Jeane Mortenson, o Norma Jeane Baker (sono i cognomi dei mariti di sua madre, non si è mai capito chi fosse davvero il padre), diventa Marilyn Monroe a 21 anni, nel 1947. Circolano parecchie sue foto di quell’epoca. Qui ne potete vedere una del 1949, in cui si mette il rossetto davanti a uno specchio, e due del 1950, scattate da Ed Clark.

Marilyn non è ancora famosa. Ed è molto diversa rispetto alle foto della maturità. In altre immagini ancora più antiche, ha i capelli scuri e un viso assai diverso. Hollywood interveniva in maniera pesante sulle fattezze delle attrici, basterebbe vedere certe foto di Rita Hayworth prima che le schiarissero la chioma e le “alzassero” la fronte cambiando l’attaccatura dei capelli, o di Marlene Dietrich in Germania, prima che in America le cavassero i molari per rendere il volto più emaciato e meno “paffuto”. Marilyn viene subito “veicolata” come una pin-up alla Betty Grable o alla Lana Turner, un modello femminile allora di moda. Nelle foto di questo periodo la fanno apparire sempre allegra e vestita da “ragazzina”. Nessun tormento, nessuna ombra. Una All American Girl come ce ne sono tante.

'Niagara', così Marilyn diventa adulta

Subito dopo vediamo una foto da Niagara: sono passati due-tre anni e tutto è cambiato. Niagara è un ruolo drammatico e nella foto Marilyn non sorride. Sembra molto più adulta e la pettinatura è già quella, un po’ cotonata, che Andy Warhol immortalerà nelle sue serigrafie.

'Niagara', 1953 Un anno dopo Niagara, nel 1954, il grande fotografo britannico Baron (nome d’arte di Sterling Henry Nahum) la fotografa sempre in posa seria, con dei pantaloni a righe e una camicia da uomo: la pin-up è sparita e probabilmente a Marilyn piace questo look quasi androgino (incredibile, eh?) che la fa apparire più matura dei suoi 28 anni. Curiosamente, qui “somiglia” ad alcune foto del periodo in cui era sposata con Arthur Miller, dal 1956 al 1961.

A qualcuno piace spiritosa

Dopo Niagara, Hollywood decide che Marilyn è più adatta a ruoli “leggeri” che valorizzino la sua sensualità e la sua immagine glamour. Ecco dunque l’enorme successo di Quando la moglie è in vacanza (1955), Come sposare un milionario (sempre 1953) e A qualcuno piace caldo (1959).La famosa foto della gonna sollevata dall’aria che esce dalla grata della metropolitana non ha bisogno di commenti: è una delle cinque-sei foto più famose della storia del cinema, forse del 900 tutto. Il regista racconta a Cameron Crowe in Conversazioni  con Billy Wilder (Adelphi, 2002) che i ragazzi della troupe litigarono per decidere chi dovesse stare sotto la grata per accendere il ventilatore.

Anche la foto tratta da Come sposare un milionario rende bene l’idea dell’immagine di femme fatale che il cinema vuole cucire addosso all’attrice. Per fortuna, produttori e registi sono abbastanza intelligenti da capire che rispetto alla Garbo o alla Dietrich Marilyn ha un’arma in più: è una femme fatale buffa, ironica, il che da un lato sottolinea la sua fragilità, dall’altro la rende una straordinaria comica potenziale. C’è bisogno di ricordare quanto è tenero e spiritoso il suo personaggio in A qualcuno piace caldo?

Marilyn, i Kennedy e l'inizio della fine

Ma se la femme fatale sullo schermo se la cava sempre, nella vita è un altro paio di maniche. Due foto celeberrime ci permettono di ricordare la sua frequentazione dei Kennedy. Nella prima è al leggìo, fotografata da dietro, mentre intona il leggendario “happy birthday” in onore di JFK. È una foto quasi impudica, il vestito non lascia nulla all’immaginazione.

Nell’altra è insieme ai due fratelli, John e Robert, ed è affascinante – e lievemente inquietante – che non si veda il viso di nessuno dei tre. Il rapporto con il presidente, e il modo in cui fu liquidata dal fratello, sono un momento dolorosissimo della sua vita e forse la premessa alla sua tragica fine.

Profumo di donna

Ma quel vestito così attillato non è un unicum: nell’ultima fase della sua vita l’America sta entrando negli anni 60 e dal glamour si passa decisamente al sexy. Marilyn viene “venduta” come una bomba del sesso, e fra tutte le campagne pubblicitarie e le sedute fotografiche che sfruttano la sua fisicità in questo senso rimane primeggia ovviamente quella per Chanel. Ne vediamo due scatti, del fotografo Ed Feingersh. Le fecero dire anche la famosa frase (“a letto indosso soltanto due gocce di Chanel n.5”) che è diventata uno slogan immortale.

'Gli spostati' sul viale del tramonto

È però giusto chiudere questo viaggio fotografico con due immagini prese dal set di un film bellissimo e maledetto, Gli spostati di John Huston (1961). È l’ultimo film nelle carriere di Marilyn e di Clark Gable, che morì d’infarto pochi giorni dopo la fine delle riprese, e uno degli ultimi per Montgomery Clift, già malato e morto cinque anni dopo, nel 1966.

Come è noto, è un film drammatico scritto da Arthur Miller, che fu l’ultimo marito di Marilyn e non certo il più tenero né il più empatico (crediamo sia giusto ricordare che l’unica, vera, grande storia d’amore di questa donna sfortunata fu quella con il fuoriclasse del baseball Joe Di Maggio, l’unico che fino alla sua morte nel 1999 portò una rosa sulla tomba di Marilyn ogni 1 giugno, giorno del suo compleanno).

Wilder, nel libro citato, non è generoso con Miller: «Era un imbecille. Durante le ultime riprese di A qualcuno piace caldo viene da me, mi prende da parte e mi fa: “Marilyn è incinta. La pregherei di non farla lavorare prima delle undici”. “Le undici?! Guardi che sua moglie non si presenta mai sul set prima delle undici! Sua moglie qua non c’è mai!”». Imbecille o meno, forse per merito di Huston Gli spostati è un bel film, e l’immagine di Marilyn in jeans e camicia bianca, con poco trucco e il viso sempre imbronciato, è tra le più belle, forse tra le più vere, di sempre.

Cloralio idrato, solitudine, i Kennedy: quel giallo dietro la morte di Marilyn Monroe. 60 anni di misteri attorno alla morte di una delle dive più note di tutti i tempi. Angela Leucci il 4 Agosto 2022 su Il Giornale

“È così fragile e sottile che può essere colta solo dalla cinepresa, come il volo di un colibrì”. Così Truman Capote descrisse Marilyn Monroe, forse l’attrice hollywoodiana più famosa di tutti i tempi, un’icona con i suoi capelli biondi, l’aria svampita e una dolcezza sconfinata. In molti hanno cercato di afferrarne l’essenza, altri hanno cercato di risolverne il mistero.

Perché quel 4 agosto 1962, con lei, è morto il sogno degli americani. Quello erotico certamente, ma non solo. L’agiografia su Marilyn restituisce un’immagine di caduta e redenzione, di sorriso dietro la sofferenza. In parte questa immagine era reale, in parte no. Ma, 60 anni dopo, a chi importa svelare la magia?

Chi è stata Marilyn Monroe

Classe 1926, ha vissuto la sua giovinezza a sprazzi con la madre, prendendo il cognome anagrafico, Mortenson, da uno dei suoi mariti, che però non era il padre. Come scrive Keith Badman ne “Gli ultimi giorni di Marilyn Monroe”, esistono parti della sua infanzia e della sua adolescenza che sono stati consegnati al mito per diversi motivi, come per giustificare il passato una volta che la diva divenne famosa, o anche perché lei stessa citava determinati eventi traumatici in modo diverso, a volte con la stessa persona. Lo fece perfino con l’amica e collega Shelley Winters, cui parlò per tre volte di un episodio di molestie sessuali avvenuto in tenera età.

Marilyn e la sua morte vanno integrati in un periodo storico molto particolare. Gli anni ’60, nel mondo in generale e negli Stati Uniti in particolare, portarono a grandi sconvolgimenti, che spesso riguardarono attentati a diverse personalità politiche, più o meno importanti. Marilyn, nella sua fragilità e col suo fascino, ne fu involontaria testimonial: prima della morte dei Kennedy, prima dell’attentato a Martin Luther King, il suo presunto suicidio ha rappresentato per molte persone un grande interrogativo. Fu solo l’inizio di un periodo tanto complesso e sanguinoso?

Nella sua carriera, Marilyn non fu una diva, ma la diva, la più famosa di un esercito di maggiorate pronte a portare il sogno erotico di una dolcezza sconfinata nel mondo. Fu accreditata come attrice in 33 pellicole, compreso “Something’s Got to Give”, rimasto incompleto, del quale resta al pubblico una scena della diva senza veli in piscina. Tra i suoi titoli più celebri “Gli uomini preferiscono le bionde”, “Come sposare un milionario”, “Quando la moglie è in vacanza” e “A qualcuno piace caldo”.

A fronte di una carriera a tratti luminosa, c’era però una profonda oscurità nella vita di Marilyn. Non solo per aver trascorso un’infanzia seppur non tragica molto infelice, ma anche per vari problemi di salute, tra cui la sua arcinota endometriosi. Per alleviare il dolore, l’attrice cercò qualunque rimedio, sviluppando una dipendenza da alcol e barbiturici che però ne alterarono la personalità, facendola apparire talvolta semplicemente bizzarra, talaltra violenta e rabbiosa.

I rapporti con i Kennedy

Una delle voci che si diffusero a macchia d’olio a partire dagli anni successivi alla morte di Marilyn è relativa a una presunta relazione tra la diva e i fratelli più famosi d’America, il non ancora senatore e all’epoca procuratore generale Robert Kennedy e il presidente John Fitzgerald Kennedy. Questa relazione è riportata in diversi libri e nelle voci di Wikipedia. Ma Badman riporta un'altra verità.

Infatti, incrociando date e appuntamenti riscontrabili, fonti e fatti, secondo il giornalista la prima relazione non solo non può essere presunta, ma è assolutamente falsa. Con Robert l’attrice ebbe per certo un piccolo flirt nel corso di un paio di feste molto pubbliche. E inoltre si ritiene che l’uomo, fortemente religioso, non avrebbe mai tradito la moglie. Tra J.F.K. e Marylin invece, sempre secondo Badman, ci fu in effetti un rapporto sessuale, a quanto pare poco soddisfacente da ambo le parti per via dei problemi di salute ossea del presidente, mentre i due erano ospiti in una villa di Bing Crosby.

Per cui è difficile immaginare quello che per anni è stato favoleggiato come un suicidio o un omicidio per mano della mafia possa aver a che fare con i Kennedy. Anche se più tardi spuntarono dei carteggi appartenuti a un celebre avvocato, in cui emergevano dei presunti rapporti tra i due politici e la mafia e il fatto che Marilyn ne fosse al corrente, tanto da stipulare un contratto per permettere alla madre di ottenere un vitalizio. Ma su questi documenti, dice Badman nel volume, sono stati sempre sollevati forti dubbi d’autenticità.

In altre parole quello che è sempre apparso come una cospirazione o un affare pruriginoso è solo poco più di una leggenda metropolitana. Anche in relazione a quel 19 maggio 1962, quando l’attrice, durante un gala in onore di J.F.K., cantò “Happy Birthday Mr. President”. Tra l’altro Marilyn aveva un accompagnatore d’eccezione, che non avrebbe abbandonato, a quella festa: Isadore Miller, padre del suo ex marito, lo scrittore Arthur Miller.

La morte

Marilyn non si è suicidata, non è stata uccisa, scrive Badman nel suo libro. È semplicemente morta in completa solitudine - rifiutata da un mondo di cui forse non aveva mai fatto parte - a causa di un mix errato di farmaci.

L’attrice faceva infatti uso di tranquillanti, il Nembutal nello specifico, e da qualche giorno anche del cloralio idrato: benché conoscesse molte sostanze a causa dell’abuso che ne faceva da anni, ignorava che questi farmaci possano essere usati insieme e questo le causò prima un malessere che poi diventò coma e quindi morte.

Marilyn Monroe è morta la sera del 4 agosto 1962, indicativamente tra le 20 e le 21, dopo aver assunto durante la giornata prima il Nembutal e poi il cloralio idrato perché non riusciva a prendere sonno. Cercò aiuto: alcuni non risposero alle sue telefonate perché erano fuori casa, altri sottovalutarono il pericolo, come Peter Lawford, anche lui attore oltre che cognato dei Kennedy. Lawford credette infatti che si trattasse solo di una disperata richiesta di attenzioni.

Neppure la “governante” di Marilyn, Eunice Murray - in realtà era più un’amica, cui i medici avevano chiesto di controllare l’attrice - si accorse di nulla, avendo un problema d’udito e a causa del fatto che stava guardando la tv a tutto volume. Fu però lei a trovare il corpo, supino con il busto appoggiato contro la porta della camera da letto. Il corpo fu spostato e la scena del crimine più volte inquinata, tanto che nelle foto passate alla storia la diva è a letto.

Le teorie

Nei giorni che precedettero il ritrovamento del suo corpo, Marilyn Monroe parlò, al telefono e dal vivo con diverse persone, che ne tracciarono un ritratto altalenante, a partire da Marlon Brando, cui promise una cena la settimana successiva e che la descrisse molto diversamente da una persona depressa. Resta però il fatto che l’attrice ebbe, nel pomeriggio precedente la sua morte, un’accesa discussione con Bobby Kennedy, e in precedenza una telefonata con una giornalista cui parlò dei fratelli Kennedy in tono deluso, accennando i piani del presidente nei confronti di Cuba e raccontando del progetto segreto che riguardava gli ufo.

Tutto questo alimentò una ridda di teorie, accresciute anche dalla scomparsa del “red book” della diva, un quadernetto rosso, un diario su cui l’attrice, che affermava di avere scarsa memoria, appuntava di tutto. Il diario, nonostante la sua esistenza sia stata spesso smentita, esisteva eccome: Marilyn lo portava con sé anche durante la seconda festa in cui incontrò Bobby Kennedy, e lo utilizzò per appuntare le risposte alle domande che gli poneva.

Tra le teorie più bizzarre sulla morte di Marilyn c’è la celeberrima ma falsa iniezione che le fu somministrata dal suo psichiatra Ralph Greenson nel tentativo di rianimarla: in realtà l’attrice non ricevette nessuna forma di soccorso, fu una sua amica mossa a pietà a chiamare per la prima volta un’ambulanza privata per il trasporto della salma alle prime luci del mattino.

Un podcast rivela perché Frank Sinatra e Marilyn Monroe non si sposarono

La più nota è sicuramente la teoria del suicidio, che però non venne in realtà supportata dai riscontri del coroner e dagli esami sul cadavere. Il fatto poi che il medico abbia trovato lo stomaco dell’attrice vuoto - poiché il tempo di assorbimento delle sostanze è minimo in una persona che è già in assuefazione a essi - ha dato voce ai cospirazionisti che hanno iniziato a parlare di omicidio.

Chi sostiene l’omicidio indica nei fantasiosi mandanti i Kennedy, la mafia o la Cia: l’attrice sarebbe stata uccisa perché sapeva troppo. Nonostante siano teorie piene di fascino, non hanno alcun fondamento.

Su Marilyn restano tanti pettegolezzi spesso immotivati, di Marilyn tanti film. Ma è anche giusto non dimenticare quell’agosto 1962. Quando di lei rimasero un corpo non reclamato da nessuno per quasi 21 ore, per poi essere riconosciuto dall’ex marito Joe DiMaggio, l’uomo che l’amò per tutta la propria vita, un cartellino all’alluce con il numero 81128, una vita triste e una morte in solitudine. E un mazzo di rose, inviato al funerale della diva da un uomo misterioso, corredato da una poesia di Elizabeth Barrett Browning. Quella che inizia con: “Quali sono i modi in cui ti amo? Fammeli contare”.

La notte in cui morì Marilyn Monroe. Il Post il 5 agosto 2022.

Sessant'anni fa fu ritrovata nella camera da letto della sua anonima casa di Los Angeles, in circostanze di cui si discute ancora oggi

Marilyn Monroe morì 60 anni fa, nella notte tra sabato 4 e domenica 5 agosto 1962, quando era una delle attrici più famose al mondo e un simbolo universale di erotismo e bellezza femminile, destinato a rimanere tale nei decenni successivi, tutt’oggi quasi senza rivali. Il 6 la notizia arrivò sui giornali di tutto il mondo, in molti casi in gran risalto sulle loro prime pagine. Aveva 36 anni, e fu ritrovata nella stanza da letto di una casa di sua proprietà a Los Angeles, nel distretto di Brentwood, al 12305 di Fifth Helena Drive. Da fuori oggi è una villa con piscina uguale alle centinaia di altre che la circondano.

Monroe era nata il primo giugno 1926 e il suo vero nome era Norma Jeane Mortenson (il cognome venne cambiato da Mortenson a Baker poco dopo la nascita). Nei suoi primi film aveva interpretato la parte della dumb blond, la bionda ingenua, ma col tempo mostrò di saper fare anche molte altre cose. Negli anni Cinquanta e Sessanta, anni di profondi cambiamenti sociali e globali, riuscì ad affermarsi – tra l’altro dopo aver studiato method acting all’Actors Studio di Lee Strasberg – come apprezzata attrice, sia comica che drammatica, non solo come sex symbol. 

Fu per anni l’attrice più pagata al mondo, e in vita o dopo diventò un’icona americana con ruoli e funzioni diversi: dalla contrapposizione all’Unione Sovietica all’antirazzismo al femminismo. Il racconto di lei descrisse spesso una donna combattuta tra la volontà di prendere in mano la sua vita e la sua immagine e le difficoltà nel farlo, in mezzo alle aspre critiche e spropositate attenzioni mediatiche che la accompagnarono per tutta la sua breve carriera.

Fu ovviamente una delle celebrità più commentate sui rotocalchi, che raccontarono per filo e per segno i suoi matrimoni: il primo, negli anni della Seconda guerra mondiale, con James Dougherty, il figlio dei vicini di casa; il secondo, con Joe DiMaggio, leggendario giocatore di baseball dei New York Yankees; e il terzo e ultimo con il drammaturgo Arthur Miller. Si parlò molto anche di altre relazioni vere o presunte di Monroe: su tutte quella con il presidente statunitense John F. Kennedy.

Negli anni Sessanta diversi giornali presero a scrivere con sempre più insistenza dei problemi di dipendenza di Monroe, legati all’alcol ma soprattutto al consumo di anfetamine e barbiturici, ad alcuni suoi insuccessi cinematografici e ai problemi che ebbe durante le riprese dei suoi ultimi film, per ansia e depressione.

I suoi ultimi due film completati – Facciamo l’amore e Gli spostati, scritto da Miller – uscirono nel 1960 e nel 1961 e, sebbene poi entrambi rivalutati, non piacquero né alla critica né al pubblico. Nel 1961 Monroe divorziò da Miller (si dice lui le avesse regalato la sceneggiatura del film per San Valentino e che però a lei non piacesse il suo personaggio) e nel maggio 1962 cantò per il compleanno di Kennedy festeggiato al Madison Square Garden di New York la famosa “Happy Birthday, Mr. President”.

In quegli anni, probabilmente per ristabilire la sua immagine dopo gli insuccessi cinematografici, Monroe fece lunghe interviste con riviste come Life, Cosmopolitan e Vogue e iniziò le riprese di Something’s Got to Give, rimasto però incompiuto (ne esistono solo alcuni minuti, compresa la scena nota come “Il bagno di Marilyn”).

È stato scritto, poi, che per mesi prima della sua morte Monroe passò gran parte del tempo nella sua casa in stile spagnolo al 12305 di Fifth Helena Drive: «praticamente nessun vicino l’ha vista più di una o due volte durante i sei mesi in cui ha vissuto in questo bungalow da due stanze da letto, che è modesto per gli standard di Hollywood», scrisse il New York Times nell’articolo che dettagliava la sua morte.

Su quel che successe il 4 agosto, l’ultimo giorno di vita di Monroe, è stato scritto e detto tantissimo, e tantissime volte le persone hanno ritrattato quanto scritto o detto. Si sa che era un periodo in cui Monroe non stava bene ed era seguita dal suo psichiatra, che quel giorno andarono a visitarla la sua addetta stampa e il fotografo Lawrence Schiller, e pare che Monroe fece, ricevette e tentò di fare anche molte telefonate.

Nella casa con lei c’era la governante Eunice Murray. Fu lei a trovarla incosciente nella notte tra il 4 e il 5, e ad avvisare Ralph Greenson, lo psichiatra. A dichiarare la sua morte e a parlarne come di un possibile suicidio conseguente all’assunzione di barbiturici fu, alcune ore dopo, la polizia di Los Angeles.

Murray, scrisse il 6 agosto 1962 il New York Times, fu «l’ultima persona a vederla viva» e ha raccontato che Monroe era andata a dormire verso le otto di sera. Disse di averla vista incosciente verso le 4 di notte, con la cornetta del telefono in una mano. Sempre il New York Times scrisse che «accanto al letto c’erano un flacone per pillole vuoto» e, sul comodino, diversi altri flaconi, pillole e medicinali.

Il Los Angeles Times scrisse, sempre il 6 agosto, che nel flacone vuoto avrebbero dovuto esserci 50 pillole e che la relativa prescrizione, che parlava di una pillola al giorno, era di due o tre giorni prima.

Quello stesso giorno Variety iniziò così il suo articolo: «Marilyn Monroe, che spesso aveva cercato senza successo di allontanarsi dal mondo [shut herself off from the world], ieri lo ha fatto».

Agli articoli di cronaca e alle celebrazioni di Monroe si accompagnarono ben presto le varie teorie sulla sua morte, alimentate dal fatto che, prima o dopo, chiunque ci ebbe a che fare, dall’autista dell’ambulanza al medico legale che ne fece l’autopsia, disse la sua. Ci fu chi parlò, tra le altre cose, di un fantomatico coinvolgimento della CIA o della mafia, in genere per via dei rapporti di Monroe con John Fitzgerald Kennedy e con suo fratello Robert.

Nel 1982, vent’anni dopo la morte, si fecero nuovi accertamenti sugli eventi di quella notte e sulle successive analisi e dichiarazioni, e anche in quel caso si parlò di probabile suicidio.

Il funerale, organizzato e pagato da DiMaggio, si tenne l’8 agosto: il discorso funebre lo fece Lee Strasberg, che le aveva insegnato recitazione, e tra le altre cose furono suonate la Sinfonia n. 6 di Tchaikovsky e “Over the Rainbow”.

Il funerale di Marilyn Monroe, 1962 (Central Press/Getty Images)

Per i vent’anni successivi, secondo certi resoconti per tre volte a settimana ogni settimana, DiMaggio fece arrivare rose rosse sulla sua tomba. Pare che prima di morire, a 84 anni nel 1999, lui disse: «finalmente riuscirò a vedere Marilyn».

Nell’articolo in cui ne annunciava la morte, il New York Times definì Monroe una «Venere contemporanea». Commentando la sua morte, il regista Joshua Logan, per il quale aveva recitato nel 1956 in Fermata d’autobus, disse invece che Monroe era stata «una delle persone più sottovalutate al mondo».

COME È MORTA MARILYN MONROE? IL MISTERO A 60 ANNI DA QUELLA NOTTE. La notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962 ci lasciava una delle più celebri dive del cinema hollywoodiano: ma quali sono le cause della morte di Marilyn Monroe? Di Giorgio Mirandolina il 3 agosto 2022 su style.corriere.it.

Sono trascorsi sessant'anni dalla morte di Marilyn Monroe, avvenuta esattamente nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962. Il giorno del decesso l'attrice venne trovata, a soli 36 anni, nel letto della sua abitazione al 12305 di Fifth Helena Drive, nella quale viveva da sola con la sua governante Eunice Murray. Le cause della sua morte sono avvolte nel mistero che perdura tuttora.

UN MISTERO NON ANCORA RISOLTO

La morte di Marilyn Monroe è sicuramente uno dei più grandi misteri di cronaca nera della storia hollywoodiana. Molti fan e estimatori continuano infatti a chiedersi: com'è morta Marilyn Monroe? Nonostante la folta produzione di film, documentari e libri prodotti per dare risposta al mistero, nessuno è di fatto mai riuscito a dipanarlo in maniera definitiva, rendendolo tuttora ancora irrisolto.

LE CAUSE DELLA MORTE DI MARILYN MONROE

Marilyn venne trovata nuda, con in mano la cornetta del telefono. Era notte fonda. Dai controlli dell'autopsia si stabili che la causa della morte era un'overdose di barbiturici: la versione ufficiale fu sempre quella del suicidio.

Ma l’idea che fosse rimasta vittima di un complotto partì subito. Di Bob Kennedy, magari, ma le teoria sulla morte furono davvero svariate e le testimonianze delle persone legate ad essa confermarono tutte una serie di stranezze e elementi poco chiari. 

IL FUNERALE DI MARILYN MONROE

Marilyn Monroe morì a soli 36 anni e il funerale fu organizzato dal suo ex marito, il campione di baseball Joe DiMaggio che ne pagò tutte le spese. La cerimonia si tenne al Westwood Memorial Park l’8 agosto 1962 a cui presenziarono solo trentuno persone. DiMaggio decise di invitare solo gli amici ristretti, lasciando da parte tutte le figure di spicco di Hollywood. Il rito funebre fu celebrato da A.J. Soldancon, accompagnato dalle note di Over the Rainbow di Judy Garland.

Dopo il funerale Marilyn Monroe venne sepolta nel Westwood Village Memorial Park Cemetery, a Westwood, un quartiere di Los Angeles. Il suo amico Truman Capote sostenne però all'epoca che l'attirce avrebbe voluto che le sue ceneri venissero disperse in mare.

La morte di Marilyn Monroe e tutto quello che accadde nei tre giorni successivi. Come cambiò il mondo la mattina del 6 agosto 1962, quando i notiziari annunciarono "Marilyn è morta". Debora Attanasio il 04/08/2022 su marieclaire.it.

Marilyn Monroe, che cercava senza successo di tagliarsi fuori dal mondo, ieri l'ha fatto davvero. L'attrice 36enne è stata trovata morta a letto nella sua casa di Brentwood, apparentemente vittima di un'overdose di sonniferi. Un ricevitore del telefono penzolava dalla sua mano senza vita e la polizia ha riferito di aver raccolto vicino al letto un flacone vuoto che da circa 50 capsule di Nembutal. (Variety, 6 agosto 1962)

Marilyn Monroe, la tormentata bellezza che non è riuscita a trovare la felicità nemmeno come star più brillante di Hollywood, è stata trovata morta domenica scorsa nella sua casa di Brentwood, apparentemente per un’overdose di sonniferi. La bionda attrice 36enne era nuda, sdraiata a faccia in giù sul letto e con in mano un ricevitore del telefono (Los Angeles Times, 6 agosto 1962).

Fu riportata così da due delle testate più diffuse negli Stati Uniti, con dovizia di particolari oggi impensabile, la notizia della morte di Marilyn Monroe, l'annuncio che la sua stella si era spenta nella solitudine con l'unica compagnia della sua barboncina. Si accendeva invece la macchina del mito che procede ancora spedita a distanza di 60 anni esatti e la cui genesi, che per chi non era ancora nato, è difficile da immaginare. Come è possibile che una donna così bella e sexy avesse messo fine alla sua vita tragicamente? Nessuno se ne faceva una ragione, e la domanda ha dato vita a inevitabili complottismi, all’ipotesi che fosse stata fatta fuori dai Kennedy perché depositaria di segreti di Stato, addirittura che sia ancora viva e nascosta. Sarebbe bello pensarlo, ma nessun complotto o insabbiamento sopravvive facilmente dopo tutto questo tempo, mentre sono affiorate negli anni sempre più testimonianze di chi c’era, e ha dovuto avere a che fare con le sue esequie.

Il mondo dopo Marilyn è iniziato la mattina del 5 agosto 1962, quando Eunice Murray, la domestica di Marilyn, si allarmò perché l’attrice non le apriva la porta. La signora Murray telefonò allo psichiatra Ralph Greenson che aveva in cura Marilyn e che arrivò di corsa. Greenson ruppe una finestra, riuscì a entrare è trovò la sua paziente morta, aggrovigliata nelle lenzuola di seta color champagne e con la cornetta del telefono in mano. Questa versione, oggi, viene smentita dal documentario Netflix I Segreti di Marilyn Monroe, secondo il quale la diva era ancora viva ed è morta in ambulanza, ma non ha importanza. Quello che conta è raccontare l’onda d’urto che fece seguito alla notizia della sua morte e che investì tutto il pianeta. Nel 1962 non esistevano i social, nemmeno ancora internet che verrà inventata l’anno dopo. A fare da cassa di risonanza erano i giornali perché persino la tv c'era solo nei paesi e nelle case economicamente più agiati. I commenti a una notizia si "scrivevano" con la voce, parlandone con amici e parenti, o anche estranei durante il breve incontro in un negozio, in un bar o nella sala d’attesa di un medico, ovunque. Nelle ore successive alla diffusione della notizia, le redazioni dei giornali americani ricevettero migliaia di telefonate di lettori sotto shock che volevano sapere maggiori dettagli e per tutto il mese di agosto del 1962 la vendita dei giornali, che continuavano a pubblicare articoli su di lei, raddoppiarono sia negli Stati Uniti che in Europa.

Ma raddoppiò anche la quota di suicidi a Los Angeles, come se il fantasma dell’attrice sussurrasse nell’orecchio di tutti quelli che come lei dovevano fare i conti con la depressione, incoraggiandoli a seguirla. Jean Cocteau, dalla Francia, rilasciò delle inaspettate dichiarazioni su Marilyn. Biasimava per quella scomparsa la stampa stessa, come accadrà molto tempo dopo per lady Diana: "la sua morte”, disse Cocteau, “dovrebbe servire come una terribile lezione per tutti coloro la cui occupazione principale consiste nello spiare e tormentare le star del cinema". Dopo lo shock iniziale, arrivò il momento delle dichiarazioni di attori e registi che avevano lavorato con lei, come oggi avrebbero fatto su Twitter. Laurence Olivier, che nel 1957 aveva recitato con lei nel film Il principe e la ballerina, disse che Marilyn era la vittima del “ballyhoo", il termine dispregiativo con cui si definiva l’eccesso di esposizione a cui i divi di Hollywood venivano costretti dalle cinque major cinematografiche. Joshua Logan, che l’aveva diretta in Fermata d’autobus, disse che era stata "una delle persone meno apprezzate al mondo". Col senno di poi, tutti i colleghi parlavano della sua solitudine e della sua fragilità, ma questo accade sempre quando ormai è troppo tardi.

Nel frattempo c’era da risolvere le questioni pratiche. Marilyn non aveva parenti consanguinei, non era più sposata, non aveva avuto figli. Non le sopravviva nessuno. In assenza di un genitore, di un marito, di un fratello, il coroner non aveva idea di chi avvisare prima che lo scoprisse la stampa. Alla fine rintracciò il suo ex marito Joe DiMaggio, il primo nome che gli venne in mente. Fu la scelta giusta. Il celebre giocatore di baseball e la diva avevano divorziato otto anni prima, i motivi esatti non sono mai stati chiari ma vanno dalla gelosia morbosa con le accuse di tradimenti che lui le rivolgeva, all'ingiusto biasimo perché non riusciva a portare avanti le gravidanze, come se fosse colpa sua. Marilyn aveva scritto sulla motivazione del divorzio “crudeltà mentale”. Ma in quel periodo gli ex coniugi si erano riavvicinati, lui era pentito di come l'aveva trattata e aveva anche detto al compagno di squadra Jerry Coleman che l’avrebbe risposata. Joe DiMaggio era devastato, corse all’obitorio e pianse disperatamente. Poi, mentre i medici legali requisivano il corpo per l'autopsia, il giocatore di baseball assunse la regia del funerale dell’ex moglie insieme alle uniche due persone di cui decise di fidarsi: Berniece Baker Miracle, la figlia dei genitori adottivi di Marilyn, e il suo manager Inez Melson. La prima cosa che fecero di comune accordo fu di escludere dalla funzione tutta la fauna glitterata di Hollywood, niente passerelle. I dirigenti degli studios, che volevano sfruttare l’evento come una vetrina promozionale per i loro artisti, protestarono vivamente ma DiMaggio fu irremovibile: "se non fosse stato per tutta questa gente lei sarebbe ancora qui", rispose durissimo. Venne aperto il testamento: Marilyn aveva lasciato in eredità la sua casa, i suoi abiti, i suoi oggetti personali al suo mentore, Lee Strasberg, più anziano di lei di 25 anni, e aveva aggiunto che se non le fosse sopravvissuto, l’esecutore testamentario designato avrebbe dovuto distribuire tutto “a sua esclusiva discrezione, tra i miei amici, colleghi e coloro ai quali sono devota”. Per fortuna dell’esecutore Strasberg era ancora vivo, sarebbe morto 20 anni dopo, perché delle indicazioni così vaghe sarebbero state problematiche.

Il funerale di Marilyn Monroe si tenne l'8 agosto al Westwood Village Memorial Park Cemetery, dove erano sepolti i suoi genitori adottivi Ana Lower e Grace McKee Goddard. Era chiuso al pubblico e un servizio di sicurezza controllava che non si avvicinassero fans, paparazzi e colleghi indesiderati. C’era solo una trentina di persone tra familiari e amici più stretti. Il commediografo Arthur Miller, l'ultimo marito di Marilyn, non si presentò. La sorellastra Berniece le aveva messo un abito verde di Emilio Pucci e un mazzo di roselline rosa tra le mani. L'elogio funebre fu pronunciato da Lee Strasberg, i musicisti hanno suonato la Sesta Sinfonia di Tchaikovsky e la canzone di Judy Garland Over the Rainbow. Prima di chiudere la bara, DiMaggio baciò le fredde labbra dell'ex moglie e le disse due volte "ti amo". Poi Marilyn fu sistemata nella cripta 24 di una sezione del cimitero dal nome suggestivo: Corridor of Memories, il corridoio dei ricordi. E tutto finì. Norma Jane Baker non c'era più. Rimase solo Marilyn, l’eco della sua voce registrata, i suoi film, e migliaia di foto. O forse tutto iniziò. Chissà cosa avrebbe pensato nel sapere che sarebbe stata amata così tanto, che il suo ex marito avrebbe fatto deporre sulla sua tomba rose fresche tre volte a settimana fino alla propria morte, nel 1999, e se avesse mai immaginato che il patron di Playboy Hugh Hefner, lui che di donne bellissime ne ha viste a centinaia, avrebbe pagato 75mila dollari per avere un posto nella sua stessa cripta a fianco a lei perché, disse ai giornali, “Trascorrere l'eternità accanto a Marilyn è un'opportunità troppo dolce per lasciarsela sfuggire”.

NELLA NOTTE FRA IL 4 E IL 5 AGOSTO. Suicidio o omicidio? Sessant’anni fa moriva Marilyn Monroe. Sessant'anni fa la morte di Marilyn Monroe

Marilyn Monroe moriva 60 anni fa, il 4 agosto 1962. Aveva 36 anni. Nata Norma Jeane Mortenson, è ricordata come un sex symbol degli anni Cinquanta e Sessanta e ha lasciato un segno  indelebile nella cultura pop (video via Ap). JONATHAN BAZZI, scrittore, su Il Domani il 27 aprile 2022 Aggiornato, 04 agosto 2022

Quest’anno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Li avrebbe compiuti, e invece non lo farà, perché è stata trovata morta nel letto, dalla sua governante, esattamente 60 anni fa, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, a 36 anni, nuda, con la cornetta del telefono in mano, portata via da un’overdose di barbiturici. Suicidio, omicidio, o qualcosa in mezzo tra i due. Mentre un documentario di Netflix varia la versione ufficiale della morte

Quest’anno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Li avrebbe compiuti, e invece non lo farà, perché è stata trovata morta nel letto, dalla sua governante, esattamente 60 anni fa, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, a 36 anni, nuda, con la cornetta del telefono in mano, portata via da un’overdose di barbiturici. Suicidio, omicidio, o qualcosa in mezzo tra i due.

Il documentario disponibile su Netflix I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti si concentra sull’ultima notte dell’attrice, ma anche sulla genesi del mito di Marilyn, sulla costruzione mitopoietica della più grande diva di tutti i tempi, utilizzando interviste inedite rilasciate da persone vicine all’attrice ad Anthony Summers durante la stesura del libro Goddess.

Il rapporto sentimentale coi due fratelli Kennedy, uno presidente degli Stati Uniti e l’altro procuratore generale, le amicizie scomode con gli esuli comunisti all’epoca della crisi di Cuba, i fascicoli dell’Fbi a suo carico, le cimici e le intercettazioni, gli scenari complottistici che a lungo hanno oscurato il talento e l’intelligenza dell’icona di Hollywood: la storia di Marilyn tiene dentro tutto, troppo, la luce e l’abisso, il sogno e il baratro senza rimedio.

MESSA IN SCENA

Il documentario varia la versione ufficiale della morte: Marilyn non sarebbe stata ritrovata riversa nel letto già morta, alle tre del mattino, come si è sempre pensato. Testimonianze dirette raccontano di un viaggio in autoambulanza ancora viva, diverse ore prima, e di una visita di quello che lei chiamava “il generale”, ovvero Bobby Kennedy, proprio quella sera, probabilmente insabbiata per proteggere il buon nome della famiglia più importante d’America. Una messa in scena, la vita di Marilyn, fino alla fine?

Una vita di cui tutto s’è detto, tutto si può dire. Marilyn la pin up giocattolo dei potenti, la diva scaltrissima, Marilyn la gonna che s’alza al passaggio della metro in Quando la moglie è in vacanza, a cui seguono le botte di Joe Di Maggio, geloso della scena che l’ha resa eterna. Le truccatrici riferiscono: «Abbiamo dovuto rimediare ai lividi sulle spalle». Marilyn la bionda, la scema, le tette di fuori.

Le grandi di Hollywood non la sopportano: arrivista, oca, non sa recitare. Lei fa di tutto per piacerti, dicono: ride, si spoglia, come la vuoi? Il documentario restituisce anche ciò che è stato sottratto al suo talento: Marilyn era un’attrice capace e appassionata, molto più capace e consapevole di quel che si è sempre pensato. 

Jane Russell di lei racconta: «Voleva imparare sempre di più. La sera io ero distrutta, lei andava dal coach. Voleva essere brava. E quando la telecamera si accendeva era come se una luce elettrica si attivasse in lei. Tutto prendeva vita». Altri aggiungono: «Un corpo autoilluminante, la stella». E ancora: «Attingeva a fondo dalla sua vita personale. Si immergeva a lungo e ne traeva qualcosa di unico e inesplorato».

VOCAZIONE AL MASSACRO

Nata da una donna mentalmente compromessa e incapace di badare a lei, Norma Jean Baker – il suo vero nome – passa l’infanzia tra affidi temporanei e case famiglia. Dieci famiglie affidatarie diverse, due anni di orfanotrofio. Cresce e ama troppo, come un’ingorda, dicono, scrivono: da un uomo all’altro, Joe Di Maggio, Arthur Miller, il rapporto promiscuo coi Kennedy, un po’ padri, un po’ diversivi. La psicologia dell’orfana, della trovatella. Da piccola, a ogni donna che vedeva: “Ecco una mamma”, e a ogni uomo: “Ecco un papà”. Marilyn donna Gemelli ascendente Leone, anche le stelle a sancire la subordinazione radicale allo sguardo degli altri: se in origine nessuno ti ha visto è obbligatorio essere un mito.

Donna-bambina, incatenata al palcoscenico da una fame di attenzioni che si fa vocazione al massacro: Marilyn s’è ammazzata, s’è drogata a morte, Marilyn è stata ammazzata, era fuori controllo. Voci, ancora oggi infinite voci. Il presidente e il fratello di Kennedy, la mafia, sapeva degli ufo? Marilyn la congiura, i segreti, vietato parlare. All’inizio del documentario sono le sue stesse parole in presa diretta a metterci in guardia, ripetendo un monito che risuona come un mantra retrospettivo, indicazione di metodo e sguardo. A un intervistatore Marilyn domanda: «Come si racconta la storia di una vita? Perché le cose vere alla fine circolano raramente. Di solito lo fanno quelle false».

La storia di Marilyn non smette di interrogarci, dato che in lei si sommano questioni fondamentali e perturbanti, come la genealogia del trauma, l’ambivalenza della fama, la natura onnipotente e contraddittoria del desiderio. La sua vita intera è un grande testo di epica contemporanea: se n’è accorta anni fa una fuoriclasse assoluta della narrazione come Joyce Carol Oates, che ne ha fatto un romanzo monumentale, Blonde (da poco ripubblicato in Italia da La Nave di Teseo), le cui pagine moltissimo raccontano anche delle dinamiche di potere di Hollywood, e del trattamento a lungo riservato al femminile in quel mondo.

Lady Gaga una volta su questo ha dichiarato: «È quando i produttori cominciano a comportarsi tipo: «Senza di me non esisteresti”, soprattutto nei confronti delle donne. Questi uomini hanno così tanto potere che riescono a dominare come nessun altro uomo può fare. In ogni momento, qualunque cosa vogliano: cocaina, soldi, champagne, ragazze, le ragazze più sexy che abbiate mai visto. Poi nella stanza entro io e otto volte su dieci mi considerano così, si aspettano da me quello che queste ragazze hanno da offrire, anche se io non ho assolutamente in mente quello. Non sono qui per questo. Non sono un recipiente per il tuo dolore, non sono solo un posto in cui puoi infilarlo. Quando volevano che fossi sexy o pop, io ci infilavo sempre qualche elemento assurdo per mantenere il controllo della situazione: se dovrò essere sexy ai Vmae cantare un brano sui paparazzi, lo farò morendo dissanguata, per ricordare a tutti cos’ha fatto la fama a Marilyn Monroe».

NIENTE ANDRÀ BENE

Una fama ricercata con tutte le forze, quella di Marilyn, per poi scoprire, una volta raggiunta, di essere più sola di prima. Nonostante l’euforia collettiva, le copertine, i successi a oltranza, Norma Jean riferiva allo psichiatra che la seguiva a domicilio, troppi giornalisti per riceverla in studio: «Niente andrà bene, niente andrà come voglio io. Non piaccio a nessuno, rovino tutto». E da lì i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, le dipendenze da sonniferi e antidepressivi con cui cercava forse solo di sentire un po’ meno.

La storia di Marilyn, indipendentemente dalle circostanze della sua morte, non smette di parlarci perché proietta le dinamiche di deprivazione affettiva su scala epocale, rendendole maestose e commoventi. Il massimo di bene e il massimo di male si possono toccare, in lei si sono toccati, creando scintille memorabili per l’immaginario sovragenerazionale ma non prive di conseguenze per l’ultracorpo abbacinante di questa donna minuscola e gigantesca.

Tutto è memorabile in Marilyn, dettagli dell’atto finale compresi: il testamento stranamente già steso, per precauzione, le indicazioni minuziose su come recitare anche il giorno del funerale, su come voleva andare alla tomba. La parrucca bionda de Gli Spostati, l’ultimo film, il vestito verde di Emilio Pucci, la bara tutta di bronzo massiccio, foderata di seta champagne. 

La madre non ce l’hanno portata, con la schizofrenia non sapeva neanche chi fosse. È finita ma non è finita, Marilyn istrionica e lieve, incantesimo evanescente, sotto gli occhi di tutti, ma anche Marilyn che non regge, stordita, obnubilata, che parla parole non sue. Marilyn disarmata, che ripete per tutta la vita: giochiamo?, vuoi giocare con me? È finita ma non è finita, Marilyn personaggio eterno ma persona impossibile: come si riesce a vivere, davvero, giorno per giorno?

Marilyn enorme, fulgida, tutta per sempre simbolica. Morta in un letto ma viva, ieri, oggi e domani, domani, nella mente del mondo, che ancora e sempre ripeti: «Cercare di essere felice è difficile quasi quanto cercare di essere una brava attrice».

JONATHAN BAZZI, scrittore. Ha esordito nel 2019 con Febbre (Fandango), Libro dell’Anno di Fahrenheit, Premio Bagutta Opera Prima e finalista al Premio Strega. 

Morte di Marilyn Monroe. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

La morte di Marilyn Monroe è stato un caso di cronaca nera avvenuto la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. Il fatto suscitò clamore e interesse nell'opinione pubblica statunitense e mondiale.

Il giorno del decesso l'attrice venne trovata nel letto della sua abitazione al 12305 di Fifth Helena Drive, dove viveva da sola con la sua governante Eunice Murray.

Le circostanze antecedenti il decesso.

Il giorno prima del decesso, Marilyn aveva più volte tentato di chiamare senza successo il suo ultimo amante Robert Kennedy, (tale affermazione trovò successivamente conferma grazie a un operatore telefonico che riferì di diverse chiamate effettuate dall'attrice all'hotel dove Kennedy risiedeva e dove lasciò numerosi messaggi). L'attrice, per consolarsi, chiamò dunque il critico letterario e amico Robert Slatzer, a cui confidò la tristezza di non riuscire a mettersi in contatto con il suo amato.

Il 4 agosto le aveva telefonato il suo ex marito Arthur Miller, poi verso le 18:30 l'amico massaggiatore Ralph Roberts, al quale aveva risposto lo psichiatra Ralph Greenson dicendo che Marilyn non si trovava in casa incuriosendo l'amico. L'ultima persona che le fece visita fu la sua addetta stampa, Patricia Newcomb, che la vide molto nervosa.

Altra telefonata, questa volta ricevuta, fu quella di Joe di Maggio junior, il figlio di un altro dei suoi mariti, Joe di Maggio; Isadore Miller, padre di Arthur, non riuscì invece a parlare con lei. Più tardi, verso le 19:30, Marilyn aveva chiamato anche Peter Lawford, cognato del presidente degli Stati Uniti d'America John Fitzgerald Kennedy. Tale telefonata fu confermata dallo stesso Lawford al giornalista Earl Wilson del New York Post solo anni dopo: le aveva telefonato per invitarla a cena, ma lei rifiutò, e nel salutarlo gli disse «goodbye». Tale saluto insospettì Lawford, che chiamò l'agente di Marilyn Milton Rudin che a sua volta cercò di chiamare l'attrice, la quale aveva telefonato poco prima al poeta Norman Rosten, altro suo amico, col quale prese un appuntamento per vedersi.

La versione ufficiale.

La versione ufficiale riporta che la governante, camminando nel corso della notte per il corridoio, vide la luce della stanza da letto della Monroe accesa, bussò alla porta, ma non ebbe alcuna risposta. Erano le 3.30 circa. Poco dopo, preoccupata, chiamò lo psichiatra che aveva in cura Marilyn, Ralph Greenson. Quest'ultimo, entrato nella camera da letto dell'attrice quando nell'appartamento era intanto giunto anche il medico Hyman Engelberg, ne uscì poco dopo, alle 4.25, annunciando la morte della Monroe. I presenti chiamarono quindi il dipartimento di polizia di Los Angeles.

Le indagini furono affidate al tenente Robert E. Byron. L'attrice si suicidò ingerendo una dose letale di pentobarbital, 47 pasticche prese insieme a una dose sconosciuta di idrato di cloralio.

Altre versioni.

Secondo quanto scritto nel libro-rivelazione Double Cross da Chuck Giancana, fratello minore di Sam Giancana capo di tutti i capi della Cosa Nostra di Chicago negli anni sessanta, 4 sicari agli ordini del boss sarebbero penetrati nella villa di Marilyn Monroe, a Hollywood, nella notte del 4 agosto del 1962 poco dopo che Robert (Bob) Kennedy, ministro della giustizia e fratello del presidente JFK, aveva lasciato la casa dell'attrice e amante. I quattro malavitosi sarebbero riusciti a immobilizzare Marilyn, a spogliarla e a ucciderla con una supposta velenosa. Il movente sarebbe stato quello di vendicarsi di Bob Kennedy, il quale da ministro della giustizia della Nuova Frontiera aveva promosso un'inchiesta senza precedenti sulla mafia. L'uccisione di Marilyn sarebbe servita, secondo le dichiarazioni di Chuck Giancana, a gettare l'ombra della responsabilità della sua morte su Bob Kennedy e rovinare così per sempre la sua carriera politica. L'obiettivo sarebbe stato raggiunto solo per metà, costando la vita all'attrice. Quella notte di agosto, Bob Kennedy fece visita a Marilyn: uscito Kennedy, sarebbero entrati i quattro sicari del boss di Chicago con i guanti in plastica per non lasciare impronte digitali, il viso coperto da passamontagna e la scatola con la supposta letale. Le avrebbero tappato la bocca con un tampone e le avrebbero infilato una supposta avvelenata. La supposta avrebbe agito con la stessa rapidità di un'iniezione letale, senza però lasciare tracce sul braccio o sulla gamba che avrebbero insospettito i medici legali durante l'autopsia, che in realtà, confermò questa ipotesi. Nella parte terminale del colon della Monroe si poteva vedere una sfumatura viola, segno, probabilmente, dell'azione della supposta.

Jack Clemmons.

A rispondere alla chiamata quella notte fu il sergente Jack Clemmons. Aveva telefonato Engelberg asserendo subito che si trattava di suicidio. Il poliziotto corse, preoccupato che fosse uno scherzo, all'abitazione della diva e nel frattempo chiamò un'altra pattuglia. Le fonti concordano nel dire che sia stato lui il primo ufficiale di polizia a giungere a casa della Monroe.

Eunice Murray gli disse che intorno alle 22.00 si era accorta della luce accesa nella camera della donna, ma non fece nulla trovando il fatto normale, ma verso le 24.00 nuovamente si alzò si avvicinò alla porta, bussò ma nessuno le rispose. Non riuscendo a mettersi in contatto con la donna, preoccupata chiamò Greenson, vi era un buco di ore che venne giustificato affermando che stavano aspettando l'autorizzazione della Fox per avvertire le autorità della morte dell'attrice.

La scena che si presentava al sergente era totalmente confusa, descrisse nel suo rapporto la posizione in cui trovò il cadavere: stesa con la pancia in giù in diagonale, coperta dal lenzuolo, Greenson aggiunse che stava stringendo il telefono quando l'aveva trovata. Clemmons raccontò a Robert Slatzer che si trattava di un evidente omicidio, venne informato dei fatti il capo della polizia William Parker. Tempo dopo, in vista dell'imminente intervista che Clemmons voleva rilasciare al giornalista Walter Winchell sull'accaduto, venne allontanato per sempre.

Thomas Noguchi.

Thomas Noguchi alla morte della Monroe era uno dei vicecoroner della Contea di Los Angeles. L'autopsia gli fu affidata dal suo mentore, il coroner Curphey. La iniziò alle 10.30 del 5 agosto 1962, l'operazione durò 5 ore rivelò circa 8 mg di idrato di cloralio e circa la metà di nembutal nel suo sangue. Terminò dicendo che si trattava di un «avvelenamento acuto di barbiturici» ma lasciando scritto nel rapporto anche «in sospeso». Venne intervistato molte volte sull'accaduto ma non trovando pace chiamò per un consulto il tossicologo R.J. Abernethy e gli spedì le carte che non gli arrivarono mai, che invece furono fotocopiate e archiviate.

Nel 1983 pubblicò un libro, Coroner che descriveva in dettaglio le varie autopsie che aveva eseguito sulle celebrità Nel mese di ottobre del 1985 dirà all'ABC Eyewitness News che durante l'autopsia non riuscì a spiegare le contusioni della donna ritrovate vicino all'anca e sulla schiena, inoltre affermò che lo stomaco era quasi vuoto mentre non aveva trovato tracce di pillole ingerite.

James Hall.

Fra le varie testimonianze oculari vi era quella di James Hall, autista di ambulanze. La sua dichiarazione si colloca in linea temporale prima dell'arrivo della polizia, intorno alle 3.00. Come raccontò a Anthony Summers, accorrendo a una chiamata lui e un medico trovarono Marilyn in semicoma; prima di trasportarla come richiesto, le fornirono ossigeno con cui la diva si riprese. La volevano portare in un ospedale per semplici controlli ma un medico non meglio identificato prese il corpo della donna e le fece un'iniezione intercardiaca che le spezzò una costola. L'attrice quindi morì davanti ai suoi occhi, e non trovando altre parole definì l'accaduto omicidio. L'iniezione viene riferita anche da un'altra testimonianza, quella di Norman Jeffries, parente di Eunice, tuttofare, avvertito dalla parente.

Lionel Grandison.

Lionel Grandison era un altro dei vicecoroner, il funzionario che firmò il certificato di morte[25] con l'indicazione di suicidio. Affermò in seguito che aveva protestato vivacemente al momento, egli era convinto che non si trattasse di suicidio ma di omicidio e che venne costretto a firmare quel certificato, così come gli era stato sottoposto. Era convinto che quei segni sul corpo dell'attrice che non trovavano spiegazione potessero essere stati provocati da un'iniezione e che i report dell'autopsia fossero stati alterati. Attaccò quindi pesantemente il suo capo, il coroner Theodore Curfey accusandolo di aver orchestrato il tutto.

John Miner.

John Miner era un procuratore che aveva assistito Noguchi durante l'autopsia, fu il primo a dissentire al riguardo dell'ipotesi del suicidio, notava la violenza con il quale quel corpo sembrava essere stato trattato, giungendo a scrivere nel suo rapporto «I can say definitely that it was not suicide»; in seguito corresse le sue affermazioni, volendo dire che non si trattava di un suicidio intenzionale.

In seguito nel programma televisivo Hard Copy dichiarò che durante le indagini vennero trascurati alcuni elementi che non coincidevano con la tesi del suicidio.

Eunice R. Murray.

Eunice R. Murray (1902 - 1994) era la governante e arredatrice d'interni di Marilyn Monroe. Fu secondo la versione ufficiale la prima persona che si allarmò per il destino dell'attrice. Conosceva Ralph Greenson da molto tempo in quanto anni prima fu una sua paziente, e fu lui a chiederle di stare accanto all'attrice in quel periodo.

Durante le varie testimonianze rese cambiò più volte versione fino a quella raccontata nel libro da lei scritto, The last months redatto insieme a Rose Shade, nome da sposata di Rose Murray imparentata con Eunice, pubblicato nel 1975, anche se in realtà si trattava in buona parte di un'intervista rilasciata dalla testimone nell'estate del 1973. Qui raccontò di aver spostato il cadavere, pulito la camera da letto e di aver lavato le lenzuola e i vestiti che indossava la donna. Aveva chiamato, prima della polizia, l'autista della limousine Rudy Kautzsky, che come testimoniò non vide mai il corpo dell'attrice quella sera, e il suo genero Norman Jeffries. Cambiò versione anche per quanto riguarda la posizione in cui trovò il corpo: inizialmente disse di aver trovato il corpo a terra, e poi sul letto nell'intento di effettuare una telefonata e ancora dopo nudo sempre sul letto.

Si trattava degli ultimi giorni di lavoro della donna, in quanto era stata licenziata.

Ralph Greenson.

Romeo Samuel Greenschpoon (1911 – 1979), è stato un celebre psichiatra che ebbe fra i suoi pazienti oltre a Marilyn anche Tony Curtis, Frank Sinatra, Vivien Leigh e altri. Lui fu il primo a trovare il cadavere; durante le indagini emersero, per le sue dichiarazioni, alcuni lati oscuri della vicenda:

Testimoniò che la donna ingerì un flacone intero di barbiturici: inizialmente non fu trovata traccia di alcun contenitore di acqua o altro liquido vicino al corpo. In seguito venne ritrovato un bicchiere mezzo vuoto vicino al letto dell'attrice, anche se si registrò un guasto nell'impianto idraulico segnalato poco prima dalla governante.

Testimoniò che infranse il vetro della finestra della camera da letto per entrare nella stanza della donna, chiusa a chiave, ma le tracce, i residui dei frammenti di vetro infranto vennero trovate all'esterno della villa e non nella camera come avrebbe dovuto essere, suggerendo che la finestra fosse stata invece rotta dall'interno.

Intorno alla mezzanotte del 5 agosto, il sergente Lynn Franklin fermò una Mercedes nera vicino a Roxbury Drive, che viaggiava a 120 km all'ora superando di molto il limite massimo di velocità. Alla guida dell'auto vi era Peter Lawford e dietro, riconosciuto dal poliziotto, Bob Kennedy. Vi era una terza persona e quando vide delle foto la riconobbe in Greenson. In seguito rilasciò un'intervista per un documentario francese dove non fece menzione del nome dello psichiatra.

Bernie Spindel.

Bernard Spindel (chiamato Bernie) era un esperto di intercettazioni telefoniche, che aveva collaborato più volte con l'FBI. All'epoca disse di lavorare per Jimmy Hoffa e che da lui ebbe l'incarico di sorvegliare le telefonate che provenivano dalla casa dell'attrice. A suo dire aveva registrato conversazioni di entrambi i fratelli Kennedy ma tali conversazioni vennero sequestrate.

L'esistenza di tali nastri fu confermata da Bill Holt, esperto di esplosivi e dall'avvocato Micheal Morrissey. Secondo la testimonianza di Spindel, si registrò una telefonata nelle prime ore del 5 agosto dove si sentiva chiaramente una voce che chiedeva se una persona fosse morta, come da dichiarazione resa da lui stesso davanti a Frank Hogan.

William Graf poi smentì quanto dichiarato da Spindel. Anni dopo, nel 1983, quando la villa fu comprata dall'attrice Veronica Hamel, durante i piccoli restauri e le nuove installazioni furono trovati dei cavi telefonici aggiuntivi a quelli normalmente usati.

Bob Kennedy.

Dopo anni di indagini private, il giornalista Jay Margolis e lo scrittore Richard Buskin hanno scritto nel 2014 il libro L'omicidio di Marilyn Monroe: Caso chiuso nel quale si menziona Robert Kennedy come il mandante della morte della Monroe. Altri partecipanti al delitto sarebbero stati una delle guardie del corpo di Kennedy, il cognato Peter Lawford e lo psichiatra di Marilyn, il Dr. Ralph Greenson, il quale avrebbe di fatto commesso l'omicidio, somministrando alla donna un'iniezione fatale.

A sostegno di quanto scritto nel libro, i due scrittori riportano dichiarazioni di alcuni testimoni e interviste ad alcuni personaggi coinvolti nella vicenda.

A possibile conferma di tali affermazioni c'è il fatto che intorno alla mezzanotte del 5 agosto, Lawford, Bob Kennedy e Greenson erano a bordo di una Mercedes nera che era stata fermata vicino alla casa della Monroe.

Atlantide, questa sera in tv con “Chi ha ucciso Marilyn?”: anticipazioni. Diego Capuano il 23 novembre 2022 today.it.

Andrea Purgatori si interroga sulla tragica morte di un mito della storia dello spettacolo. L’attrice ebbe una carriera folgorante, ma una vita sofferta. Il suo fu davvero un suicidio?

La nuova puntata di “Atlantide”, in onda oggi 23 novembre in prima serata su La7, ha come titolo “Chi ha ucciso Marilyn?”. A 60 anni dalla scomparsa di Marilyn Monroe ancora tanti sono i misteri nella quale è avvolta la sua fine. Andrea Purgatori presenta due documentari e ospita  Achille Bonito Oliva e Marianna Aprile.

Atlantide - Chi ha ucciso Marilyn?: le anticipazioni

Lo scorso 4 agosto è caduto un significativo anniversario: il 60° della scomparsa di Marilyn Monroe. Nata a Los Angeles il 1º giugno 1926 con il nome di Norma Jeane Mortenson Baker, debuttò sul grande schermo nel 1947 e pochi anni dopo arrivò la consacrazione: il 1953  rappresentò l’anno della svolta, con lungometraggi come “Niagara”, “Come sposare un miliardario” e, soprattutto, “Gli uomini preferiscono le bionde” di Howard Hawks. Nei successivi anni recitò in film di culto e fu diretta da grandi registi: valga per tutti Billy Wilder, con il quale girò “Quando la moglie è in vacanza” e il capolavoro “A qualcuno piace caldo”.

Cinema e spettacolo a parte, Marilyn visse però una vita infelice, fatta di relazioni fallimentari (come quelle con Joe Di Maggio e Arthur Miller), conoscenze rimaste in parte segrete (John Fitzgerald Kennedy), tre aborti. Il tutto è stato recentemente raccontato - in forma romanzata e provocatoria - dal discutibile film “Blonde”, diretto da Andrew Domikik per Netflix e con Ana De Armas come protagonista.

Marilyn Monroe fu trovata senza vita nella sua casa di Brentwood (Los Angeles) il 5 agosto 1962, all'età di trentasei anni, stroncata da un'overdose di barbiturici. Troppe, però, sono le cose rimaste irrisolte e poco chiare.

Nel corso della nuova puntata di "Atlantide", in onda oggi 23 novembre dalle 21.15 su La7, Andrea Purgatori introduce i documentari “Death of Marilyn Monroe” e “JFK revisited” e ospita Achille Bonito Oliva, Marianna Aprile. Spazio inoltre per la vignetta di Mauro Biani.

Resta il quesito di fondo: è possibile fare maggiore chiarezza sulla tragica fine di un'icona come Marilyn?

 

 

 

Marilyn Monroe, la fine misteriosa di un’attrice dal fascino immortale. Maurizio F. Corte, direttore de ilbiondino.org.

A 60 anni dalla scomparsa della diva americana, restano i dubbi sulla sua morte e sui legami con i Kennedy.

Com’è morta l’attrice Marilyn Monroe? Dove è morta: nella sua casa o all’ospedale? Quali legami vi sono tra il decesso dell’attrice e i fratelli Kennedy, John (allora presidente degli Stati Uniti) e Robert (ministro della Giustizia)?

Dalla notte fra sabato 4 e domenica 5 agosto del 1962, quando la bionda più famosa di Hollywood perde la vita, sono passati sessant’anni. Dopo tanto tempo restano intatti i dubbi sulla versione ufficiale della morte della più amata diva di Hollywood.

Del resto, in quegli anni non era difficile fornire una versione di comodo di fatti scomodi.

Pensiamo, negli Stati, all’omicidio di John Kennedy, a Dallas, nell’ottobre del 1963. E a quello del senatore Bob Kennedy, suo fratello, a Los Angeles, nel 1968, quando era pronto a vincere le primarie democratiche.

Esempi di depistaggi e versioni ufficiali infondate li abbiamo, in Italia, fra Anni Sessanta e Settanta, con i casi criminali della morte di Luigi Tenco (gennaio 1967), raccontato come un suicidio; e di Milena Sutter (maggio 1971), vicenda fatta passare per un sequestro e omicidio.

Marilyn Monroe, le versioni su quella notte d’agosto del 1962

Nel ricostruire in modo critico la vicenda della scomparsa della diva americana mi rifaccio a due articoli: uno del magazine Esquire e l’altro del magazine Town&Country.

I due giornali statunitensi riportano i punti importanti che emergono dal documentario di Netflix, l’ultimo di una serie di ricostruzioni della vicenda di Maryling. Il film inchiesta è intitolato I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti.

Il lavoro della regista Emma Cooper rivisita i reportage di Summers. Offre poi agli spettatori l’opportunità di ascoltare le registrazioni delle sue interviste.

Abbiamo quindi la governante della Monroe, la famiglia del suo psichiatra, un investigatore privato, amici e colleghi come John Huston e Billy Wilder.

L’obiettivo del film documentario è di scoprire com’era veramente la vita di Monroe prima della sua morte. E come sono state trascorse le sue ultime ore.

I FATTI SECONDO LA NARRAZIONE TRADIZIONALE

Vediamo i fatti. Alle ore 3.30 del 5 agosto 1962, lo psichiatra di Marilyn Monroe, il dottor Ralph Greenson, riesce a entrare nella sua camera da letto.

Irrompe nella stanza dopo aver rotto una finestra: trova l’attrice nel suo letto, senza vita. Marilyn ha accanto a sé una bottiglia vuota di sonniferi, sistemata sul vicino comodino.

Per il resto, stando al racconto fatto a suo tempo, la stanza da letto di Marilyn è in ordine. Non vi sono segni di colluttazione; o qualcosa che faccia pensare a un intervento esterno per cagionarne la morte.

Tutto era cominciato con la governante di Monroe, Eunice Murray, che si era svegliata nel cuore della notte. La governante aveva visto la luce accesa nella stanza di Marilyn.

La Murray aveva provato a entrare nella camera, per capire se andasse tutto bene. Ma aveva trovato la porta chiusa a chiave.

Di qui la preoccupazione della governante, che aveva chiamato lo psichiatra, il dottor Greenson, con il timore che Marilyn stesse male. Vi era poi stata l’irruzione del medico; e la constatazione del decesso della diva americana.

Tutto si sarebbe svolto, quindi, nelle prime ore di domenica 5 agosto 1962.

LA VERSIONE UFFICIALE E LA RICOSTRUZIONE DELLA MORTE

Fin qui siamo alla versione ufficiale dei fatti, resa nel 1962. Tutto fila: una donna famosa in preda alla depressione, l’abuso di barbiturici e la morte.

Suicidio o decesso involontario per un consumo eccessivo di pastiglie, questa la narrazione. Oppure c’è dell’altro?

In un nuovo documentario Netflix, The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes (I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti), il biografo della Monroe, Anthony Summers, presenta una nuova cronologia degli eventi della notte in cui l’attrice è morta.

La nuova ricostruzione è il frutto di interviste condotte per una versione aggiornata della biografia di Marilyn, pubblicata nel 1985. Una biografia intitolata Goddess.

Grazie alle nuove interviste audio con i membri della famiglia del dottor Greenson, lo psichiatra, il nuovo documentario di Netflix mette in campo le voci e le incongruenze che circondano la morte di Marilyn Monroe.

Il documentario su Netflix, della durata di 101 minuti in un unico film, smentisce insomma la verità ufficiale raccontata per anni.

Emerge, così, che non tutto quello che fu detto è vero. Restano, in compenso, ancora in ombra i rapporti di Marilyn con John Fitzgerald Kennedy e con Robert Kennedy, sui quali ho scritto alcuni articoli in questo blog.

Il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy

Le relazioni con John e Bob Kennedy

Il documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti approfondisce anche le presunte relazioni sentimentali dell’attrice. Quelle che più interessano sono con il presidente John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) e suo fratello, il ministro della Giustizia Robert Francis Kennedy (1925-1968).

Un’intervista con la vedova del press agent della Monroe, Arthur P. Jacobs, ha prodotto la svolta più significativa per il biografo Summers. Una svolta utile nel contestare la nota sequenza temporale della morte della Monroe.

Secondo il documentario di Netflix, le cose per la diva di Hollywood sarebbero andate in modo diverso. Intorno alle 22.30 di sabato 4 agosto, una persona avrebbe avvertito l’addetto stampa Jacobs che qualcosa non andava con Marilyn Monroe.

Questo avveniva mentre il press agent si trovava all’Hollywood Bowl, un anfiteatro per la musica sulle colline hollywoodiane. E accadeva, quindi, ben prima della scoperta ufficiale del cadavere, alle 3.30 del 5 agosto 1962, dell’attrice.

“Non è vera (la versione ufficiale, ndr.), perché mio marito era lì. Mio marito ha falsificato tutto“, dice la moglie di Arthur P. Jacobs nel nastro riprodotto nel documentario di Netflix.

Il biografo Summers conferma – con i membri dell’ambulanza che ha prestato i soccorsi all’attrice – che Marilyn è stata in realtà portata in ospedale la sera del 4 agosto, mentre era ancora viva. E che è morta durante il tragitto verso l’ospedale.

Nel documentario, la governante Eunice Murray afferma poi, su nastro audio, che Robert Kennedy era a casa di Marilyn Monroe nel pomeriggio di quel 4 agosto.

La notizia di un ministro della Giustizia nella casa di una diva famosa, il giorno in cui questa muore, avrebbe di certo fatto scalpore, se fosse stata resa nota.

L’AMORE PER BOBBY KENNEDY

Nei giorni precedenti la sua morte, secondo il resoconto del biografo Summers, Marilyn Monroe disse a un’amica che era “molto innamorata e avrebbe sposato Bobby Kennedy“.

La governante della diva di Hollywood, Eunice Murray, afferma – in un nastro audio inedito – anche un altro dettaglio importante: Bob Kennedy e la Monroe hanno avuto una terribile lite il giorno della sua morte, il 4 agosto 1962.

Il documentario conferma, poi, che Bob Kennedy è volato all’aeroporto in elicottero per prendere un volo intorno alle 2 o 3 del mattino, nella notte della morte di Marilyn Monroe. Ovvero domenica 5 agosto 1962.

La morte prematura di Marilyn Monroe all’età di 36 anni – l’attrice era nata il primo giugno del 1926 – è così sempre stata avvolta nel mistero. Ora possiamo capirne il motivo.

Adesso abbiamo il biografo Summers che, grazie ai nastri con le testimonianze, mette in luce le incongruenze nella sequenza temporale degli eventi della morte della Monroe. In questo modo, smentisce la verità ufficiale.

Restano, peraltro, intatti i più inquietanti dubbi e misteri presentati nel documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti.

IL RUOLO DEI FRATELLI KENNEDY

Questi i dubbi sul caso della Monroe, che toccano i vertici più alti degli Stati Uniti nel 1962:

il ruolo che i Kennedy hanno svolto nella vita di Marilyn,

i timori del governo sui legami della Monroe con il comunismo,

la presenza di Bob Kennedy il giorno della morte a casa dell’attrice

I segreti di Marylin Monroe: il lavoro per il documentario

Come osserva la regista, Emma Cooper, nel parlare con il magazine Town&Country, tutte le interviste audio raccolte nel film documentario di Netflix sono state fatte negli Anni Ottanta.

“Non ci sono interviste recenti, a parte le nostre con il biografo Tony Summers”, spiega la Cooper. “Ora, tutte quelle persone se ne sono andate. Non c’è più modo di fare un film come questo: questo le rende una risorsa storica“.

La realizzazione del film ha richiesto anni di lavoro. La lavorazione ha seguito il metodo del libro di Summers, il quale ha costruito relazioni con le persone nel tempo; tanto che quei testimoni si sono sentiti in grado di dire la loro verità sulla morte di Marilyn.

La riproduzione in cera, al museo di Istanbul, dell’attrice Marilyn Monroe

La voce di Marilyn finalmente si fa sentire

La regista Emma Cooper fa una serie di affermazioni assai importanti sul film documentario sulla Monroe.

“È molto strano che questo film esca finalmente nel mondo. Prima di iniziare a realizzarlo, sono andata a Hollywood e ho visitato la tomba di Marilyn“, dice la regista al magazine Town&Country.

“Ho provato a dirle che sono qui come una donna che è più grande di lei quando è morta, che sono gli Anni Venti del XXI secolo. E che spero di darle la voce giusta“, racconta la regista.

“L’unica cosa che è importante, per me, è che abbiamo la verità, e credo che l’abbiamo. Voglio che le altre persone, alla fine del film, provino la sensazione di averla conosciuta; e di conoscere le cose che sono successe alla fine della vita dell’attrice; e perché sono accadute”, sottolinea l’autrice del documentario di Netflix.

“Mi interessa solo Marilyn, che è stata curiosamente senza voce per anni. Parte del motivo per cui non ho mai intervistato nessuno tranne Tony è che il mio personaggio principale è Marilyn Monroe”, fa notare la regista del film.

“Ci sono tre elementi nel film: il biografo Tony Summers, le voci che ha registrato e Marilyn. Quindi, spero solo che la gente la senta nel film”, dice Emma Cooper.

UNA DONNA DIVENTATA UN MERAVIGLIOSO ENIGMA

“Marilyn è un meraviglioso enigma e la sua verità è molto più riconoscibile di quanto pensassi. Ha smesso di essere una vittima per me, è diventata una donna molto moderna“, sottolinea l’autrice del documentario di Netflix.

Il documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti presenta così la vicenda dell’agosto del 1962 sotto una luce assai diversa, rispetto a quanto sapevamo.

Lo fa grazie a un’operazione che un diligente ricercatore e un bravo giornalista compiono in casi del genere: l’andare a controllare, minuto per minuto, i fatti e la loro narrazione.

Accendendo le luci da vicino, utilizzando le testimonianze, prestando attenzione ai dettagli – come ho fatto sul caso di Milena Sutter e Lorenzo Bozano – è possibile smentire le versioni ufficiali di comodo.

I misteri sulla vicenda di Marilyn Monroe – che a 60 anni dalla morte fa ancora parlare – rimangono così intatti alla conclusione del film documentario di Netflix. Mentre un dato è certo: la storia, raccontata dal 1962, della scomparsa della diva americana non ha fondamento.

Maurizio F. Corte. Giornalista professionista, scrittore e media analyst. Insegna Giornalismo Interculturale e Multimedialità all’Università degli Studi di Verona. Dirige l’agenzia d’informazioni e consulenza Corte&Media. 

Jacqueline Kennedy Onassis. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Jacqueline Lee Kennedy Onassis, detta Jackie (Jackie O), nata Bouvier (Southampton, 28 luglio 1929 – New York, 19 maggio 1994), è stata una first lady statunitense.

Fu la moglie di John Fitzgerald Kennedy, 35º presidente degli Stati Uniti d'America, First lady dal 20 gennaio 1961 al 22 novembre 1963, data dell'assassinio del marito. Vedova, sposò nel 1968 l'armatore greco Aristotele Onassis.

Biografia.

Genealogia.

Dal lato paterno, Jacqueline discendeva da Michel Bouvier (1792-1874), appartenente ai Van Salees, una stirpe di mercanti di origine francese, olandese, inglese che si era stabilita a New Amsterdam (il primo nome con il quale era nota New York) nel XVIII secolo. Dal lato materno aveva ascendenze irlandesi.

Primi anni.

Jacqueline Lee Bouvier nacque in una famiglia dell'alta società newyorkese, come primogenita di John "Jack" Vernou Bouvier III (1891 - 1957), un broker di borsa di origine francese, e di Janet Norton Lee (1906 - 1989), figlia di un direttore di banca. Jacqueline ebbe una sorella più giovane, Caroline Lee (nota come Lee Radziwill) nata il 3 marzo 1933 e deceduta il 27 giugno 2019.

I suoi genitori divorziarono nel 1940 e la madre si risposò nel 1942 con l'erede della Standard Oil, Hugh Dudley Auchincloss, Jr. da cui ebbe altri due figli: Janet Jennings Auchincloss e James Lee Auchincloss.

Jacqueline trascorse le vacanze estive dei primi anni della sua vita nella tenuta dei nonni paterni a East Hampton, dove ebbe modo di praticare l'equitazione divenendo un'esperta cavallerizza e vincendo numerosi trofei e medaglie. Questo è un costume molto diffuso tra le famiglie di buona condizione sociale degli Stati Uniti. Jacqueline era molto legata a suo padre, per questo soffrì molto quando questi cadde vittima dell'alcolismo. Coltivò numerosi interessi quali la lettura, la poesia, la fotografia e la pittura.

Jacqueline frequentò la Miss Porter's School dal 1944 al 1947, poi il Vassar College dal 1947 al 1948 (dove venne anche nominata "debuttante dell'anno" nella stagione 1947-48) e i cui insegnanti la resero capace di un profondo attaccamento alla vita; infine, frequentò la George Washington University, dove ottenne la laurea in belle arti nel 1951.

Nel 1949 si recò a Parigi per un soggiorno di studio alla Sorbona, dove rimase affascinata dalla Francia e dalla sua cultura, sviluppando un senso del gusto e dell'eleganza che si sarebbe manifestato successivamente in molti aspetti della sua vita. Parlava correntemente italiano, francese e spagnolo, qualità che sfruttò nella campagna presidenziale del marito registrando discorsi per gli immigrati.

Come primo lavoro, The Washington Times le affidò una serie di inchieste fotografiche da realizzare intervistando personaggi noti nella capitale statunitense. Grazie a questo incarico divenne conosciuta negli ambienti politici di Washington, ed ebbe modo di incontrare il suo futuro marito John Fitzgerald Kennedy, allora giovane congressista del Massachusetts.

Primo matrimonio.

Jackie Bouvier e John F. Kennedy il giorno del loro matrimonio, tenutosi a Newport, nel Rhode IslandIl lancio del bouquet al suo matrimonio con Kennedy, nel 1953

Dopo un effimero fidanzamento col broker di borsa John Husted Jr., il 12 settembre 1953 Jacqueline sposò Kennedy, quando era senatore e astro nascente del Partito Democratico. La cerimonia si svolse a Newport, Rhode Island, celebrata dall'arcivescovo di Boston Richard James Cushing e seguita da un sontuoso ricevimento per 2000 invitati. La coppia ebbe quattro figli:

Arabella Kennedy (nata morta, 1956);

Caroline Bouvier Kennedy (1957). Quest'ultima si è sposata nel 1986 con Edwin Arthur Schlossberg, e ha avuto tre figli: Rose (1988), Tatiana (1990) e John (1993);

John Fitzgerald Kennedy Jr., erroneamente detto John-John, (1960-1999). Il nomignolo "John-John" deriva da un malinteso del reporter che non aveva capito che Kennedy stava chiamando, ripetendo il nome "John" due volte in rapida successione, suo figlio;

Patrick Bouvier Kennedy (nato e morto a 2 giorni di distanza nell'agosto 1963 a causa di una malformazione polmonare).

La coppia passò i primi due anni di vita coniugale a Georgetown, District of Columbia. Fu un periodo caratterizzato da diversi problemi di salute del marito, dovuti a traumi vertebrali riportati in guerra, a seguito dei quali dovette sottoporsi a due interventi chirurgici e passare lunghi periodi di convalescenza.

Jacqueline ebbe un'ammirazione, ricambiata, per suo suocero (che ne riconobbe il grande potenziale come moglie di un politico) e fu vicina anche a suo cognato Robert, detto Bobby. A differenza però dei membri della famiglia Kennedy, appassionati di sport e di competizioni, Jackie predilesse uno stile di vita più tranquillo e riservato.

First lady.

All'inizio della campagna per le elezioni presidenziali del 1960, Jacqueline cominciò ad affiancare costantemente suo marito attraverso tutti gli Stati Uniti; la sua seconda gravidanza le impedì tuttavia di portare a termine l'impegno per un preciso divieto dei medici dovuto all'esito sfavorevole della prima.

Nel voto dell'8 novembre 1960 Kennedy sconfisse di misura Richard Nixon, divenendo il 35º Presidente degli Stati Uniti d'America: Jackie Kennedy divenne una delle più giovani First lady della storia.

Come First lady (titolo che non gradiva in quanto le sembrava il nome di un cavallo), Jacqueline Kennedy si trovò a condurre una vita sotto i riflettori, ma tentò sempre di educare i figli al riparo dall'occhio dei media. La sua predilezione per l'alta moda e la scelta di piatti francesi per i menù dei ricevimenti alla Casa Bianca le procurò critiche da parte dei commentatori più sciovinisti, ma ciò non impedì di farla assurgere, grazie al suo spiccato buon gusto e alla raffinatezza degli abiti creati per lei dallo stilista Oleg Cassini, ad icona riconosciuta dell'eleganza occidentale.

La sua riconosciuta abilità sociale ebbe effetti positivi sulle relazioni internazionali statunitensi. È rimasto leggendario il suo savoir faire con il generale de Gaulle a Parigi e con il leader sovietico Nikita Kruscev, che rimase da lei affascinato nel corso del summit di Vienna, evento che pure fu un insuccesso politico di suo marito John.

La sua sensibilità artistica e storica le permise anche di occuparsi personalmente degli interni della Casa Bianca, ripristinando gli arredi originali e curandone l'allestimento; per l'occasione, il 14 febbraio 1962 Jackie Kennedy effettuò una celebre visita guidata alla Casa Bianca che fu trasmessa dalla televisione.

La coppia presidenziale si distinse in prima linea per il coinvolgimento in eventi sociali e culturali. Il loro interesse per l'arte, la musica e la cultura rivoluzionò anche lo svolgimento dei ricevimenti ufficiali, in quanto Jackie e John vollero circondarsi di artisti, celebrità e premi Nobel, che parteciparono ai pranzi e alle cerimonie, mescolandosi alle autorità politiche.

L'assassinio di Kennedy.

Jackie Kennedy pochi istanti prima dell'assassinio del maritoIl presidente John F. Kennedy e Jackie a La Morita, Barinas, durante la prima visita ufficiale di un presidente degli USA al Venezuela nel dicembre del 1961

Il 21 novembre 1963 Jacqueline e John lasciarono la base aerea militare di Andrews, prima si fermarono a San Antonio, e poi andarono a Houston per una visita alla NASA. La loro ultima fermata quel giorno fu a Forth Worth. Il giorno successivo i due volarono all'aeroporto di Dallas. Un breve tragitto in auto doveva portarli al Trademart dove era previsto che il presidente tenesse un discorso. Jackie era seduta nella berlina presidenziale accanto a suo marito quando questo fu colpito e ferito mortalmente alla testa in Piazza Dealey.

Il vicepresidente Johnson e sua moglie seguivano su un'altra auto della sfilata. Dopo che il presidente fu colpito, Jacqueline abbracciò John dicendo «Ti amo tanto, Jack». Provvide a far convocare un sacerdote per fargli avere l'assoluzione e l'estrema unzione. Dopo la morte di suo marito rifiutò di rimuovere le macchie di sangue dal suo abbigliamento e protestò perché le avevano lavato il sangue dal volto e dalle mani e i frammenti di cervello dai capelli. Continuò ad indossare il famoso vestito rosa con cui appare accanto a Lyndon B. Johnson durante il giuramento per la nomina del nuovo Presidente. Jacqueline disse a Lady Bird Johnson: «Voglio che vedano ciò che hanno fatto a John».

Il coraggio e il contegno dimostrato nei momenti successivi all'assassinio del marito le procurarono l'ammirazione dell'opinione pubblica. Jacqueline Kennedy, tenendo i figli per mano, seguì a piedi il feretro del marito dalla Casa Bianca alla cattedrale di St. Matthew e accese la fiamma eterna sulla sua tomba nel cimitero nazionale di Arlington. Il London Evening Standard scrisse: «Jacqueline Kennedy ha dato al popolo americano una cosa che gli era sempre mancata: la maestà».

Per un anno dopo il funerale Jacqueline portò avanti il lutto, durante il quale non fece apparizioni pubbliche, decise di vendere la casa in Virginia, dove la coppia aveva progettato di trascorrere gli anni successivi all'incarico presidenziale, e acquistò un lussuoso appartamento nella Quinta Strada a New York per poter avere maggior riservatezza. Anche in seguito continuò a onorare la memoria del marito recandosi presso la sua tomba in numerose occasioni pubbliche e private e partecipando a eventi commemorativi. A Boston fece costruire la Biblioteca John Fitzgerald Kennedy, che venne inaugurata nel 1979 da Jimmy Carter.

Il matrimonio con Onassis.

Jackie Kennedy nel 1962Jackie Kennedy con Valentino a Capri

Jacqueline fu molto vicina anche a suo cognato Robert nel corso della sua campagna presidenziale, dispensando consigli e comparendo in molte occasioni pubbliche, ma il 6 giugno 1968 anche Robert fu assassinato. Temendo che tutti i Kennedy potessero essere in qualche modo "nel mirino", Jacqueline decise di lasciare gli Stati Uniti e, dopo soli quattro mesi, il 20 ottobre 1968 sposò l'armatore greco Aristotele Onassis (che già conosceva da anni, conoscenza che aveva dato adito a voci di una loro eventuale, mai ammessa e mai provata, precedente relazione), il quale per lei aveva interrotto la lunga storia d'amore con la cantante lirica Maria Callas.

Col secondo matrimonio, celebrato con grande sfarzo nell'isola di Skorpios, Jacqueline perse la protezione dei servizi segreti americani, ma si legò ad un uomo che aveva denaro e potere a sufficienza per garantirle l'incolumità e lo status sociale cui era abituata. La relazione coniugale era stata puntigliosamente regolata da un contratto pre-matrimoniale, stilato dagli studi legali di fiducia dei coniugi. Vi era previsto di tutto, dal numero minimo di fine settimana che i coniugi dovevano trascorrere insieme ogni anno, a quale percentuale del patrimonio del marito le sarebbe toccata a titolo di "alimenti", in caso di divorzio, commisurata al numero di anni che sarebbe durato il matrimonio. Si tratta d'una prassi molto diffusa nell'alta società americana.

Il matrimonio tra Jacqueline e l'armatore non funzionò apparentemente bene: la coppia raramente trascorse il proprio tempo insieme più di quanto garantito dal contratto e Jacqueline finì per dedicarsi ai viaggi e allo shopping. Nonostante Onassis si trovasse bene con i figliastri Caroline e John (il figlio Alexander diede al giovane John le prime lezioni di volo, e per ironia del destino entrambi sono morti in seguito a incidenti aerei), la figlia Christina Onassis non legò mai con Jacqueline.

Quando Onassis morì, il 15 marzo 1975, la vedova poteva essere titolare di una cospicua eredità, ma la legge greca imponeva un tetto alla somma che un cittadino straniero poteva ereditare, e la disputa apertasi fra lei e Christina finì col farle accettare una liquidazione definitiva di 26 milioni di dollari. Per sposare Onassis si era convertita alla Chiesa ortodossa greca: di conseguenza, in base al Codice di diritto canonico allora vigente, era incorsa in due scomuniche in quanto scismatica e in quanto concubina (Onassis era divorziato). Ciononostante, ogni anno si presentava regolarmente alla messa dell'anniversario del marito e si accostava all'eucaristia. Questo suo comportamento (riprovevole anche dal punto di vista della Chiesa Ortodossa, che talvolta ammette i cattolici ai propri sacramenti, ma non consente mai che i propri fedeli, tanto più se sono dei neo-convertiti, ricevano i sacramenti in altre Chiese) e la mancanza di reazioni pubbliche al riguardo delle autorità ecclesiastiche, provocarono le proteste di molti, che, nelle sue stesse condizioni canoniche, si vedevano negare i sacramenti. Rimasta nuovamente vedova, si riconciliò con la Chiesa cattolica.

Gli ultimi anni e la morte.

La tomba di Jacqueline Lee Bouvier all'Arlington National Cemetery

Negli ultimi anni della sua vita Jacqueline visse a New York, dove collaborò con alcune riviste come esperta di arte egizia, e a Martha's Vineyard con Maurice Tempelsman, un industriale e commerciante di diamanti di origine belga che sembra, ma non ci sono prove certe, abbia sposato in articulo mortis. Continuò ad essere oggetto delle attenzioni dei media, come per la nota vicenda con il paparazzo Ron Galella, che la inseguì continuamente, nella sua vita privata, per immortalarla in scatti fotografici. Jacqueline denunciò Galella e, dopo il processo, il paparazzo fu obbligato a mantenere una distanza di 15 metri da lei.

Nel 1994 le fu diagnosticato un linfoma non Hodgkin che la condusse alla morte il 19 maggio dello stesso anno, all'età di 64 anni, nel suo appartamento sulla Fifth Avenue. Jacqueline Kennedy è sepolta a fianco del suo primo marito, John Fitzgerald Kennedy, nel Cimitero Nazionale della Contea di Arlington. Al servizio funebre parteciparono la famiglia Kennedy, Bill Clinton, Hillary Clinton, Lady Bird Johnson, Daryl Hannah, Arnold Schwarzenegger e Maurice Tempelsman.

Jackie Kennedy oggi avrebbe 93 anni. Ecco cosa possiamo ancora imparare da lei. Anna Lupini su La Repubblica il 28 luglio 2022.

Lo stile senza tempo di una donna simbolo di eleganza, che cambiò molte volte stile rimanendo sempre fedele a se stessa

Jackie Kennedy resta un modello per ogni First Lady. E non solo.

Jacqueline Lee Bouvier, è questo il nome con cui è nata Jackie Kennedy Onassis, conosciuta anche solamente come Jackie o Jackie O, che il 28 luglio avrebbe compiuto 93 anni. Tanti nomi per una sola persona, un'unica donna capace di rendere la sua figura immortale nell'immaginario comune e scolpire la propria figura tra i modelli di riferimento senza epoca quando si parla di stile ed eleganza.

Jackie ha vissuto, anche stilisticamente, delle vite molto diverse: la prima da First Lady quando suo marito John Fitzgerald Kennedy, sposato il 12 settembre del 1953, fu eletto presidente degli Stati Uniti. Durante i quasi tre anni di mandato presidenziale di JFK, Jackie Kennedy è stata la definizione stessa del bon ton chic. 

Perbenismo ed eleganza: lo stile ‘alla Jackie’ ha influenzato la moda per decenni. Dietro ai suoi look l'istinto infallibile di Oleg Cassini, che disegnava appositamente per lei. I tailleur bouclé, gli scolli a barca, il girocollo di perle e gli occhiali da sole oversize sono rimasti indelebili nell’immaginario collettivo. Tragicamente, a rimanere più impresso nella memoria è forse il completo rosa che indossava a Dallas il giorno in cui fu assassinato il marito: leggendaria è rimasta la scelta di non toglierlo subito, sebbene macchiato di sangue. E dibattuta è la storia dell’abito stesso: comunemente considerato un capo Chanel, esiste il dubbio che fosse invece di Cassini, oppure di Chez Ninon, boutique newyorkese a cui spesso la first lady si rivolgeva – anche per zittire i detrattori che la consideravano altrimenti troppo spendacciona e poco patriottica, dato il suo amore per la moda francese.

La seconda vita di Jackie, sposa Onassis

La seconda vita stilistica (e non solo) di Jacqueline è quella al fianco dell'armatore greco Aristotele Onassis, sposato il 20 ottobre del 1968: un periodo più mondano e meno rigoroso dettato da un'eleganza diversa fatta di occhialoni, foulard legati in testa e pantaloni Capri. L'immagine più celebre di quegli anni la ritrae nuda sull'isola di Skorpios: l'esatta antitesi dello stile bon ton che incarnava da first lady. 

La terza vita di Jackie, icona di stile

La sua terza vita fu quella vissuta da antesignana delle perennials. I suoi look newyorchesi, quando era ormai ben oltre i cinquanta, restano un sicuro punto di riferimento per ogni donna. Non a caso, una delle borse più riuscite di Gucci, porta il suo nome ed è ancora un oggetto del desiderio.

Ucciso JF Kennedy: il mondo è sconvolto. L’omicidio del presidente a Dallas nel 1963. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Novembre 2022.

Il 23 novembre 1963 tutto il mondo è sconvolto dalla tragica notizia dell’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, avvenuto il giorno prima a Dallas. Ecco la cronaca di quelle ore apparsa su «La Gazzetta del Mezzogiorno»: «Il presidente Kennedy è stato ucciso oggi, in pieno centro a Dallas, da tre colpi di fucile sparatigli da uno sconosciuto mentre attraversava la città a bordo di un’auto scoperta, seguito da un corteo di macchine. Kennedy è stato raggiunto al capo da uno dei colpi e, trasportato in ospedale immediatamente, è spirato 25 minuti più tardi».

In prima pagine le celebri foto del momento dell’attentato: si vede Jacqueline insanguinata, china su di lui. «Col presidente è rimasto gravemente ferito anche il governatore Connally, che gli era affianco sull’automobile al momento della sparatoria. Il vice presidente Johnson che automaticamente, da stasera, è il nuovo presidente degli Stati Uniti, si trovava in un’altra auto del corteo presidenziale». Il 22 novembre 1963 Kennedy si è recato insieme alla moglie a Dallas per partecipare ad un convegno.

Negli Stati Uniti si respira in quei mesi un’atmosfera tesa, difficile, soprattutto in merito alla questione razziale. Alle numerose dimostrazioni popolari contro le discriminazioni si erano opposti brutali interventi da parte della Polizia: gli episodi di violenza sconvolgevano il Paese. Tutto ciò aveva indotto il Presidente a presentare al Congresso, nel giugno 1963, una legge per garantire il diritto di voto ai neri e assicurare loro la parità con i bianchi nei servizi pubblici e privati.

Quel drammatico giorno il Presidente viene colpito da diversi proiettili: si accascia accanto a Jacqueline, che invano tenta di fargli scudo col suo corpo, si legge sulla «Gazzetta». Subito dopo, la Polizia ha fermato un giovane uomo e lo ha sottoposto a un interrogatorio: si chiama ​​Lee Harvey Oswald, ma al momento poco o niente si sa di lui. In prima pagina sul quotidiano compare l’editoriale di Oronzo Valentini: «Perché la terribile notizia colpisce il cuore di milioni e milioni di uomini, di ogni razza e di ogni età, sparsi in ogni continente? Poiché in realtà è a tutto il mondo che oggi vengono a mancare il pensiero e l’opera di un uomo che del vastissimo potere di cui disponeva, aveva fatto e intendeva fare sempre più uno strumento capace di aprire all’umanità nuove strade e nuovi orizzonti di vita e di sviluppo, di sospingerla verso la meta di una fratellanza universale». Oggi, 59 anni dopo, le circostanze del terribile attentato non sono ancora state del tutto chiarite: soltanto alcuni mesi fa sono emersi nuovi elementi a favore della cosiddetta «pista sovietica».

DAGONEWS il 25 novembre 2022.

Lee Harvey Oswald ha assassinato John F. Kennedy perché temeva di essere bollato come un "perdente" da sua moglie che lo ridicolizzava per la sua pretesa di essere un intellettuale marxista. 

Il nuovo sorprendente libro “The Oswalds: An Untold Account of Marina and Lee” di Paul Gregory rivela che Oswald è stato "umiliato" da Marina che lo ha deriso definendolo "sessualmente inadeguato" e lo ha tradito con un bell'uomo d'affari. 

Oswald sentiva che "il mondo sarebbe un posto migliore se gli avesse prestato attenzione". Tenne Marina come "prigioniera" e l’avrebbe picchiata nel loro appartamento a Dallas, proibendole di imparare l'inglese perché non voleva che si rendesse conto che non contava nulla. 

Gregory, che ha aspettato 60 anni per raccontare la storia, è un ricercatore presso l'Hoover Institution e professore di economia all'Università di Houston. Ma nel 1962 era un adolescente che viveva con la sua famiglia a Dallas e conobbe gli Oswald tramite suo padre, Peter. 

Secondo il libro, Oswald era “freddo” mentre Marina era una "bellezza timida e naturale" che indossava abiti sciatti che aveva portato con sé dall'Unione Sovietica. Sorrideva poco per coprire un dente cariato e aveva l'aria di un "gattino smarrito".

Gregory scrive: «Il timore di Lee era di essere smascherato e di essere bollato come perdente. L'immagine che ha promosso a Marina era quella di un intellettuale focoso e radicale che avrebbe reso il mondo un posto migliore se solo il mondo gli avesse prestato attenzione. Tali pensieri hanno mosso Marina, non all'ammirazione, ma alla derisione e poi alla paura quando ha avuto un'idea delle possibili conseguenze della sua vanagloria».

E' il 21 ottobre 1968: Jackie Kennedy sposa Aristotele Onassis. Sulla Gazzetta del Mezzogiorno la notizia in prima pagina e la foto, una delle poche scattate ai due, delle nozze blindate sulla privatissima isola greca di Skorpios. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Ottobre 2022.

«Senza neppure dover pronunciare il tradizionale «sì», Jacqueline Kennedy è diventata oggi la signora Onassis». È il 21 ottobre 1968 e in tutto il mondo non si parla d’altro: il giorno prima si è celebrato sulla privatissima isola greca di Skorpios il matrimonio tra l’ex first lady degli Stati Uniti e il potente armatore greco. Su “La Gazzetta del Mezzogiorno” la notizia compare in prima pagina, insieme alla foto dei due sposi mentre escono dalla cappella subito dopo il rito nuziale. Si tratta, spiega la didascalia, di una delle poche «telefoto» diramate delle agenzie: il maltempo ha giocato un brutto tiro ai reporters che sono rimasti bloccati per alcune ore nell’isola di Leucade.

«La trentanovenne Jackie è giunta sull’isola – fino a questa mattina essa si trovava a bordo del panfilo Christina, dove ha passato la notte insieme ai figli John jr. e Caroline – a bordo di un motoscafo, ed ha poi raggiunto la cappella in automobile: è entrata in chiesa ed è stata raggiunto dallo sposo, che portava un completo blu scuro. Pioggia e vento sferzavano l’isola quando i due hanno raggiunto la cappella. La cerimonia è iniziata alle quindici e diciassette ed è durata circa tre quarti d’ora. Solamente trenta persone sono state invitate al matrimonio, ma ad esso hanno potuto assistere anche alcuni inviati della stampa internazionale, quindici persone in tutto, tra giornalisti, fotografi ed uomini della televisione, dopo che Onassis aveva deciso di ridurre le severe disposizioni date alla guardia costiera greca le cui motovedette hanno comunque continuato a pattugliare le acque attorno alla piccola isola. Il matrimonio è stato celebrato secondo il rito della Chiesa greco-ortodossa».

Jacqueline non ha potuto proferire verbo perché secondo la prassi durante l’intera cerimonia solo l’officiante può parlare. Tuttavia, si legge sulla “Gazzetta” non è riuscita a trattenere le lacrime.

Per sposarla, Aristotele Onassis, 62 anni, ha lasciato Maria Callas e ha acconsentito a sottoscrivere un accordo pre-matrimoniale da 170 clausole.

Sorprende la presenza dei due figli di Onassis alla cerimonia: si era diffusa la notizia che i due ragazzi, di 19 e 17 anni, non approvassero la nuova unione del padre. Un’ultimo colpo di scena è stato messo in atto da Onassis stesso, racconta il cronista: «Immediatamente dopo la cerimonia, la prima cosa che ha fatto è stata quella di ordinare l’interruzione della linea telefonica tra l’isola ed il continente, e di non ripristinarla per almeno un’ora. In questo modo i pochi giornalisti che hanno potuto assistere al matrimonio sono rimasti isolati temporaneamente dal resto del mondo».

 La solitudine di Lem, l’amico che custodì i segreti di JFK. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Da adolescente veniva scambiato per uno dei fratelli Kennedy. Unico dello staff, aveva una stanza alla Casa Bianca. Spiegò a Jackie l’inevitabilità dei tradimenti in arrivo. 

Il presidente americano John Fitzgerald Kennedy con Jackie e il piccolo John John nel campo di golf di Atoka, nel 1963. Accanto a Jfk c’è Lem Billings

Il Leporello di Don John Kennedy si chiamava Lem Billings (1916-1981), misterioso amico di JFK dai tempi del liceo, segretario e accompagnatore e confessore e procacciatore occasionale di compagnie femminili del futuro presidente, l’uomo che sapeva tenere i segreti e che, come premio, ottenne di trasferirsi alla Casa Bianca dopo la vittoria alle presidenziali (non aveva un ufficio, aveva proprio una sua camera personale, unico tra i membri del nutrito staff). Non rilasciò mai interviste, tantomeno scrisse libri, unico tra gli uomini del presidente a restare muto (scrissero sui Kennedy anche le loro fantesche).

SI CONOBBERO RAGAZZI AL LICEO, ROSE LO CHIAMAVA «IL MIO QUINTO FIGLIO MASCHIO». OMOSESSUALE, DIEDE UNA SOLA INTERVISTA, ALLE SUE CONDIZIONI

La matriarca Rose Kennedy lo chiamava senza problemi «il mio quinto figlio maschio» e ormai anziano il senatore Ted Kennedy ricordava come negli anni della prima infanzia, in quella grande casa piena di fratelli e sorelle più grandi di lui che andavamo e venivano da scuole, università, viaggi e guerre lontane, era convinto che Lem fosse uno dei suoi fratelli.

Domande e risposte scritte

Negli anni del declino, dopo Dallas - l’agguato del 22 novembre 1963 che stroncò la vita di Kennedy e rese monca la sua - Billings venne contattato dalla storica Doris Kearns Goodwin, autrice di quello che tuttora è il libro di riferimento sulla famiglia d’origine irlandese del primo presidente cattolico (Biden è il secondo). Scelse, per la prima e unica volta, di parlare, almeno con lei che era ed è tuttora ricercatrice di serietà inappuntabile nonché moglie di un collaboratore di Bobby Kennedy. Eppure, anche quella volta, l’unica in cui accettò di parlare del suo amico fraterno, Billings azzerò le possibilità di commettere gaffes: chiese a Goodwin, e ottenne, di dettare le condizioni dell’intervista. Lei gli inviò la lista delle domande qualche giorno prima dell’incontro prefissato, incontro al quale lui si presentò con una risma di fogli dattiloscritti contenenti le sue risposte. Salutò Kearns Goodwin e cominciò a leggere ad alta voce, come a una conferenza ma più precisamente come a un recital di poesie, le sue risposte. 

I retroscena nel romanzo di Louis Bayard Jack & Lem

Proprio a causa - per colpa - della sua maniacale discrezione, gli storici si sono per forza di cose occupati poco di Billings, l’uomo che teneva i segreti nascosti nella cassaforte della sua devozione a JFK: c’è un solo saggio, Jack & Lem , di David Pitts, pubblicato qualche anno fa negli Usa da DaCapo. Adesso però viene in soccorso dei lettori un romanziere, Louis Bayard, che ha pubblicato Jackie & Me (Algonquin Books), romanzo che immagina liberamente quello che gli storici, senza elementi, possono solo ipotizzare. L’omosessualità di Billings, per esempio, è un fatto storico accertato: Bayard è un attento ricercatore storico - tra i suoi romanzi anche un bel giallo che ha come protagonista il giovane Edgar Allan Poe cadetto a West Point - e con intelligenza sceglie di dribblare la banalità. Invece di fare la scelta ovvia, quella di presentarci un Billings - che rimase scapolo a vita - innamorato di Kennedy che si adatta a fare il suo assistente non ufficiale pur di stargli vicino, l’autore mette al centro il tema della solitudine. Di tutti.

La solitudine di tutti

Solitudine di Lem ragazzo di ottima famiglia protestante della Pennsylvania rimasta senza un dollaro dopo la morte del padre (conobbe JFK al liceo per ricchi Choate dove arrivò grazie alla benevolenza del rettore, senza pagare la retta). Solitudine di Jackie, selezionata dal durissimo patriarca Joe senior perché «papà dice che senza una moglie non posso essere eletto presidente». Solitudine di JFK, che deve diventare presidente per coronare il sogno familiare di ascesa politica, figlio cadetto di salute cagionevole al quale passa il testimone dopo la morte in guerra del primogenito Joe junior, e invece dello storico o del giornalista o del diplomatico gli tocca fare il politico, Camera e Senato come cursus honorum necessario per arrivare al vero obiettivo familiare, la Casa Bianca. In una pagina rivelatrice, Bayard immagina JFK che chiede all’amico di descrivere in quattro aggettivi quella ragazza da marito che tanto lo intriga: «Affascinante», dice Lem. «Elegante. Sveglia». E infine, dopo una pausa: «Sola».

Il ritratto di Jackie

Jackie & Me è una storia di solitudini che comincia con una gita in spider dei tre protagonisti e si conclude con il matrimonio di Jack & Jackie. Bayard è straordinariamente bravo a dipingere il ritratto della giovane Jackie ragazza da marito. Figlia del bellissimo e smargiasso viveur Black Jack Bouvier che bruciò il patrimonio di famiglia tra donne e gioco d’azzardo e di mamma Janet che lascia il marito per risposarsi con il suo opposto, Hugh Auchincloss - solidissimo patrimonio, noioso, tranquillo, impotente. Ecco Jackie secondo Bayard: «Ma quale business aveva in mente Jackie? Era una creatura che allo stesso tempo era attratta e respinta dall’idea del matrimonio. La sua foto dell’annuario del liceo, per esempio... Rivoli di trecce brune progettati per far perdere la testa a qualche povero sciocco. Ma se si sposta lo sguardo sul testo di accompagnamento, si scopre che la sua più devota ambizione era “non essere una casalinga”». La sua “innata instabilità” la rende interessante per il donnaiolo Jack, e toccherà a Lem alla vigilia delle nozze spiegarle delicatamente, con il tatto del quale era maestro, che la fedeltà coniugale non sarà una priorità per il suo dinamicissimo marito.

L’AMORE PER IL PRESIDENTE UNÌ LEM E JACKIE, CHE POI SI SEPARARONO. ORA UN LIBRO RICUCE LE TRE STORIE E PROPONE UN FINALE SENZA RIMORSI

La tesi di laurea di Billings

Bayard è andato a scovare negli archivi la tesi di laurea di Billings su Tintoretto e così facendo c ancella la descrizione di Billings fatta da molti uomini dello staff kennedyano che - forse animati da una certa invidia per la vicinanza di Billings al presidente - lo descrivevano come una nullità, un pubblicitario di buona famiglia che aveva trasformato l’amicizia giovanile con JFK in una sinecura da maggiordomo non ufficiale. Invece nella tesi citata da Bayard vediamo le tracce dell’intelligenza brillante di Billings, e nel romanzo le discussioni sui pittori tra Lem e Jackie sono una delizia (Jack era totalmente disinteressato all’arte, lettore voracissimo di storia e politica). Ma il tema che più stimola Bayard, cresciuto a Henry James e Edith Wharton, è la descrizione del conformismo e della mediocrità delle famiglie “old money” di quell’era ormai lontanissima, l’immediato Dopoguerra: «Vedo gli ospiti del ricevimento alla Hammersmith Farm, seduti sotto tettoie e ombrelloni a guardare, tra un sorso di champagne e l’altro, un remoto tableaux di bovini Auchincloss che potrebbe essere stato dipinto da Constable o Poussin».

Uniti da un uomo che non c’era più

Il libro finisce nel 1981, poco prima della morte di Lem, quando il fato e i proiettili di Dallas hanno separato da 13 anni le vite di Lem e Jackie. La vede passare a New York, per caso, e anche se vivono non molto lontano l’uno dall’altra, non la ferma per salutarla. Un commiato senza parole. Il loro legame, così stretto, la cosa che li accomunava davvero, era l’amore per un uomo che non c’era più, ci lascia capire Bayard, con eleganza. Riflette così, Lem, sulla sua infinita solitudine: «Avrei potuto fare la cosa più ovvia, la cosa più importante - sistemarmi con qualcuno, persino avere una famiglia - ma quale vita avrebbe potuto essere più gratificante dell’essere il migliore amico di Jack Kennedy? No, signore, se quello fosse stato l’unico destino che mi sarebbe stato concesso, non avrei potuto chiedere di più».

Barbara Costa per Dagospia il 5 luglio 2022.

Ci sarà l’assassinio di Kennedy. Qualunque cosa accada. Chi sa la verità della storia? E la Storia, quella che ci scorre davanti, e quella che leggiamo sui libri – quella che ci fanno sapere – ha una sua chiave? Una sola? O quante? Esce una nuova edizione di "American Tabloid", di James Ellroy (Einaudi ed., dal 5 luglio), e allora: dov’è morto Kennedy, a Dallas, o a Miami? A Dallas, il 22 novembre 1963, data che chiude American Tabloid, pochi istanti prima di quello sparo… o quattro, sei, quanti…??? Se la testa di John Kennedy è scoppiata a Dallas, poteva in Ellroy scoppiare prima, a Miami, e per volere di chi? Mafia, CIA, servizi segreti deviati, Cuba, il Cremlino, Johnson, Hoover? E tu da che parte stai? A chi credi? Tifi per il cecchino solitario nel magazzino di libri, o sei per il team del complotto dietro la collinetta erbosa?

Stai con James Ellroy: piglia tutto, mischia tutto, mixa, shakera, servi: non è stata la mafia, non è stata solo la mafia. Non è stata la CIA, non è stata solo la CIA. Non è stato il governo, o solo il governo, o i servizi segreti infedeli, o non solo loro… hai capito, sì o no? Ogni persona vale la busta dei soldi sporchi che si intasca.

Sono i soldi, che fanno la Storia e muovono le azioni di ognuno di noi, grande o piccolo, a ogni modo corrotto. Sudori, bestemmie, e manovre di traditori, sbirri, spie, killer, giornalisti, alcolizzati, e miliardari paranoici, codeina sparata in vena, tassisti “con, sul sedile, una calibro 45 automatica”, politici, corrieri, mafiosi amici dei Castro, e su tutti “quel Kennedy, ch’è peggio di Castro”, quel Kennedy, deve morire, ricattato da chi, da Hoover, sì, no, anche, e dai mafiosi ex soci del padre, il vecchio Joe, “come credi che vi sia stato messo, il suo ragazzo, alla Casa Bianca?”.

I Kennedy li inguai con le donne. E le donne, in Ellroy, chiacchierine, mantidi a letto, sono rosse “un intrico di grosse vene che pulsano fra la peluria rossa, e le lentiggini”. Sono come sua madre: ammazzata, violentata, strangolata, e Ellroy era un bambino decenne. 

Se in ogni libro di Ellroy a un certo punto c’è Dio, in American Tabloid Dio è in Kennedy che appare a Barb, la rossa, in uno dei party di Peter Lawford. All’improvviso John Kennedy è davanti a Barb, e… “Gesù!”, “Non proprio, ma grazie lo stesso”, “Che ne dice di: buonasera, signor presidente?”, “E tu, che ne dici di: ciao, Jack?”.

Jack è il presidente degli Stati Uniti, e non perde tempo: con le donne sa come si fa. È stato educato così. John “2 minuti” Kennedy, e in American Tabloid è il tempo che JFK ci mette a mettertelo e a venirti dentro. James Ellroy si proclama “etero, di destra, cristiano, nazionalista, militarista, e capitalista”. Per lui JFK è stato uno statista di serie B, poi un martire. È suo fratello Bobby, l’eroe di Ellroy, e in American Tabloid Bobby è freddo, spietato, nei suoi sguardi, e nella sua guerra al crimine. Mafioso.

Fino a che è il crimine, mafioso, a venire da lui. Tu, lettore, non scordarlo: ci sarà l’omicidio di Kennedy. Qualunque cosa accada. E se Ellroy ci tartassa per farlo a Miami, per quella partita di eroina, dei Castro, alla mafia, della Florida, è eroina rubata, da due che se non voglion finirci loro, secchi, che secchino Kennedy, ora con Castro d’accordo (“no, tu e i tuoi amici cubani non potete assassinarlo…”).

Se Kennedy Cuba non la invade più, i casinò, e i bordelli, la mafia, come se li ripiglia? “Senti... digli pure addio… Sinatra non ci è servito a un caz*o! I Kennedy l’hanno cacciato a calci dalla Casa Bianca… li odio, qualcuno dovrebbe farli fuori… no, Bobby no… Jack capirebbe… Jack voleva la testa di Castro, la voleva anche la CIA… ora non la vuole più? Prima invade, poi si ritira… Jack è una f*ca, non riesce a decidersi. La vera f*ca è Fidel, gran puto…”) Ti sei perso, eh? Non te la sto intorbidendo, neppure un poco… Con Ellroy, la lettura balla in cerchi di LSD. Con Ellroy, ti basta sbattere le palpebre per perdere il filo. Ecco che Bobby ha a sé i registri coi movimenti dei soldi della mafia. Ha le prove. E le sbatte al muro. Tra quei nomi c’è suo padre…

Tu apri American Tabloid, e parti da qui: Kennedy deve morire. Come, ammazzato, dove, se si può, si faccia a Dallas, per mano di chi… Di uno, più d’uno, manovrato da tanti, su più livelli, e da nessuno. In mezzo, la fogna la più fogna d’America. Vale a dire la indistruttibile forza degli Stati Uniti. “L’America non è mai stata innocente”: è l’incipit di American Tabloid.

L’imene se ce l’aveva se l’è spezzato nella traversata, “sulla nave durante il viaggio di andata, e ci siamo guardati indietro senza alcun rimpianto”. E avete fatto bene!!! Noi non avremo mai un Italian Tabloid. O un France Tabloid, né un qualsiasi altro Paese del Caz*o Tabloid… Perché non c’è nessuno col fegato pari a James Ellroy in grado di cogliere la m*rda, la sua, più quella rinsecchita che ha concimato e permesso la sua. Ellroy è in questo, perdutamente, fin nelle più fonde viscere, patriota americano. 

E ama senza secondi fini il suo Paese da mangiarsela, la m*rda che produce e ammorba, per così farne oro noir letterario. Fictionalized. No, da noi… solo piscia sotto. Che vuoi farci, noi non abbiamo avuto, né avremo mai, un Kennedy, uomo, politico, da letterariamente martoriare accecati dai suoi segreti, e dalla sua testa saltata. Sta in larga parte qui, la nostra irriformabile e insopprimibile mollezza.

«Io sono un berlinese»: il discorso di Kennedy scolpito nella Storia. Annabella De Robertis su L'Inkiesta il 28 Giugno 2022

La storica foto di John Fitzgerald Kennedy, durante la parata per le strade di Berlino, accanto al sindaco della città, Willy Brandt, e al cancelliere della Germania ovest, Konrad Adenauer, compare in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 27 giugno 1963.

Il presidente degli Stati Uniti è arrivato da poche ore: «Una visita lampo» – scrive il corrispondente della «Gazzetta» Michele Passivich – «non più di sette ore in tutto, ma una visita fitta, calorosa, emozionante. John Kennedy si è mostrato a due milioni di persone, ha percorso in automobile e a piedi qualcosa come cento chilometri, ha pronunciato tre discorsi, davanti a centomila persone ammassate dinanzi alla sede della libera municipalità di Berlino Ovest».

Siamo in un momento cruciale della guerra fredda e Kennedy ha scelto il luogo simbolo dell’antagonismo tra blocchi contrapposti per pronunciare uno dei suoi più celebri discorsi. Solo un anno prima il governo della Germania Est aveva completato la costruzione del Muro che divideva in due la città di Berlino: quella barriera, che avrebbe dovuto garantire la continuità della Ddr, minacciata dalle fughe continue dei suoi cittadini e dall’esodo massiccio verso Occidente, contava già più di 26 morti. «A Berlino non ha potuto che abbracciare idealmente la folla che lo circondava commossa, rispondere commuovendosi egli stesso, usare parole infiammate per la città dell’estrema frontiera».

Ecco le parole pronunciate dal Presidente a Rudolph Wilde Platz: «Duemila anni fa, il più grande orgoglio era dire “civis Romanus sum”. Oggi, nel mondo libero, il più grande orgoglio è dire “Ich bin ein Berliner”». «Io sono un berlinese»: Kennedy pronuncia due volte questa espressione in tedesco per sottolineare la solidarietà di tutto l’Occidente nei confronti del popolo tedesco e per lanciare un messaggio di sfida e di condanna all’Unione Sovietica.

«La folla traboccante rispondeva con un urlo immenso a chi aveva toccato la corda più sensibile del suo cuore». E aggiunge: «Ci sono molte persone al mondo che non capiscono, o che dicono di non capire, quale sia la grande differenza tra il mondo libero e il mondo comunista. Che vengano a Berlino». Nella sua visione, che si fonda sul valore indivisibile della libertà, la divisione della Germania, così come quella dell’Europa, va contro la corrente della storia. Si tratta del suo ultimo significativo intervento pubblico: Kennedy verrà assassinato il 22 novembre 1963 a Dallas, in Texas, in circostanze mai del tutto chiarite.

(ANSA il 14 gennaio 2022) - Sirhan Sirhan, l'assassino di Robert Kennedy, resta in carcere. Il governatore della California, Gavin Newsom, ha negato la concessione della libertà vigilata. Lo riporta la Cnn. La decisione nonostante le raccomandazioni del California Parole Board e nonostante i due figli di Kennedy, Robert e Douglas, avessero espresso parere favorevole. 

Il resto della famiglia Kennedy resta contraria. Sirhan, 77 anni, giordano di origine palestinese, è recluso da 53 anni. Bob Kennedy, fratello di Jfk, fu ucciso nel marzo del '68 nella cucina dell'Hotel Ambassador di Los Angeles dopo un evento di campagna elettorale.

Sirhan fu inizialmente condannato alla pena di morte, ma questa fu tramutata in ergastolo nel 1972, dopo che la Corte Suprema della California dichiarò incostituzionale la pena capitale. Il governatore Newsom non ha mai nascosto di essere un grande ammiratore della figura di Bob Kennedy, definendolo il suo "eroe politico".  

 "Dopo decenni di reclusione - ha scritto motivando la sua decisione - il detenuto ha fallito nell'affrontare le mancanze che lo hanno portato ad assassinare il senatore Kennedy. A signor Sirhan manca quel discernimento che potrebbe evitargli di compiere lo stesso tipo di azioni pericolose del passato".

Gabriele Santoro per “il Messaggero” il 15 gennaio 2022.

Kerry Kennedy non nomina mai l'assassino del padre: non lo cita neanche una volta. Ma dell'uomo che sparò al senatore Robert Francis Kennedy si parla di nuovo. 

Perché il governatore della California ha deciso di negare la libertà vigilata a Sirhan Sirhan, il giordano di origine palestinese, che sparò al candidato che aveva appena vinto le primarie democratiche in California. 

Dall'omicidio dell'Hotel Ambassador di Los Angeles sono passati 54 anni e per l'assassino non è ancora il momento di uscire dalla cella. Kerry, la settima degli undici figli di Bob Kennedy ed Ethel, ha accolto con profondo sollievo la decisione di dire no alla libertà. Due dei suoi fratelli avevano dato parere favorevole, ma lei no.

Quale sentimento le ha suscitato la notizia?

«Siamo profondamente grati a al governatore Gavin Newsom per una scelta che contempla la giustizia». 

Perché?

 «Il tempo trascorso non è una misura sufficiente alla riabilitazione. Il killer non ha mai compreso la gravità del suo crimine. Questo è il caso di un atto premeditato, dell'assassinio di matrice terroristica e politica di nostro padre, ucciso in mezzo ad altre persone. Mia madre, incinta di mia sorella minore, rischiò la stessa sorte». 

Lei si sofferma spesso sulla premeditazione. Come mai?

«Ha scritto ripetutamente nel diario personale: Robert F. Kennedy deve morire. Lo accusava di sostenere Israele. Ha pianificato e realizzato l'attacco nel primo anniversario della Guerra dei sei giorni, cominciata il 5 giugno 1967.  Accecato dall'odio per la questione arabo israeliana ha privato l'America di una scelta importante per la presidenza che ancora viene rimpianta». 

Qual è il fondamento della vostra forte reazione alla precedente pronuncia del California Board of Parole Hearings, che aveva accettato la sedicesima istanza per la libertà vigilata?

«Credo nei diritti umani e mi sono sempre battuta, affinché fossero applicati alle persone private della libertà. La riabilitazione deve passare però da una trasformazione intima, assumendo le proprie responsabilità e mostrando rimorso. Bisogna avere coscienza dell'orrore che si è commesso e lavorarci per rielaborarlo. Ciò non è accaduto con lui».

Che cosa hanno lasciato quei colpi di pistola?

«Hanno inferto una ferita alla democrazia e deviato nel modo peggiore il corso della storia». 

Perché ritiene che Sirhan si debba ancora considerare un pericolo per la sicurezza pubblica?

«Lui non ha compiuto questi passi. Non si è fatto carico del crimine compiuto. Il suo rimorso non è mai apparso credibile».

Lei dunque non vede nessuna possibilità? «Non si è riabilitato e la sua liberazione sarebbe rischiosa per la società. In più ha cambiato innumerevoli volte e anche senza una motivazione chiara la propria versione dei fatti». 

A oltre mezzo secolo di distanza dalla morte di Robert Kennedy ritiene che ci siano tutti gli elementi per definire nitidamente la storia del suo assassinio?

«Sì, sono abbastanza convinta di questo. Le circostanze e gli eventi mi sembrano abbastanza chiari. Mio padre aveva espresso una visione che tuttora si scontra con la realtà. Intendeva ricucire le divisioni che laceravano, e lacerano, il Paese, cercando innanzitutto di sradicare il razzismo. 

Non vedo fantasmi nella notte in cui è stato assassinato. La scena del delitto era piena di testimoni e non esistono dubbi sulla dinamica dell'omicidio». 

L'America ha saputo elaborare il lutto?

«Penso che non ci siamo riusciti pienamente. La visione soprattutto di giustizia sociale è un cammino ancora da realizzare». 

Lei è riuscita a bilanciare il dolore con il dovere pubblico della memoria?

«È ancora molto difficile».

Che cosa ricorda dell'Hotel Ambassador?

«Ho impresse le immagini dei volti della festa. Avevo otto anni. La mattina mi svegliai molto presto a causa del fuso orario e dentro la stanza dell'albergo guardavo Bugs Bunny, quando mi raccontarono l'accaduto. Tornando in Virginia con il feretro, ho pregato, affinché quel dolore non dovesse mai provarlo nessun altro bambino al mondo».

·        Quei razzisti come i canadesi.

Da rainews.it il 5 settembre 2022.

Strage in Canada, in un'area a nord di Ottawa: la Polizia sta dando la caccia a due sospetti dopo una serie di accoltellamenti in cui sono state uccise 10 persone e altre 15 sono rimaste ferite. 

La polizia ha chiesto ai residenti di queste zone sperdute di usare la massima cautela e rimanere se possibile in casa. Dalle prime indicazioni sembra che alcune delle vittime siano state colpite a caso, altre di proposito. Ma il movente resta ignoto. I soccorritori hanno descritto “scene raccapriccianti”.

L'attacco è stato sferrato in 13 zone dei villaggi di James Smith Cree Nation e di Weldon, nella regione di Saskatchewan, dove le comunità locali hanno dichiarato lo stato d'emergenza. L'allerta è stata estesa all'Alberta e al Manitoba. 

“E' orribile quello che è successo nella nostra provincia oggi”, ha detto Rhonda Blackmore, assistente del commissario della polizia reale canadese. 

La caccia all'uomo dei sospettati

L'allerta è scattata alle 7 del mattino e due sospettati sono stati identificati dalla polizia che ne ha fornito i nomi, Damien Sanderson e Myles Sanderson, e ne ha diffuso le foto spiegando che potrebbero viaggiare su una Nissan Rogue nera. 

Le ricerche sono scattate nella vicina città di Regina dove la polizia è impegnata in vista di una partita di football canadese da tutto esaurito tra Saskatchewan Roughriders e Winnipeg Blue Bombers. 

Trudeau: “Accoltellamenti orribili e sconvolgenti”

Il premier canadese, Justin Trudeau, ha definito "orribili e sconvolgenti" gli accoltellamenti nella regione di Saskatchewan. "Penso alle persone che hanno perduto un loro caro e a quelle che sono rimaste ferite", ha aggiunto. 

Potrebbero esserci altre vittime tra i feriti che sono stati trasportati in vari ospedali, ha detto la polizia. James Smith Cree Nation è una comunità indigena con una popolazione di circa 3.400 persone in gran parte impegnate nell'agricoltura, nella caccia e nella pesca. Mentre Weldon, è un villaggio di circa 200 persone. 

Canada, Nativi: "Le droghe dietro le stragi" 

"Questa è la distruzione che affrontiamo quando le droghe illegali invadono le nostre comunità", la denuncia della Federazione delle nazioni indigene sovrane (Fsin), per la strage: gli accoltellamenti sono avvenuti nella regione di Saskatchewan, nell'ovest del Canada, in due villaggi in cui vivono comunità di nativi canadesi. La federazione ha espresso il suo cordoglio per le vittime e ha offerto solidarietà alle famiglie colpite. 

I precedenti in Canada

Si tratterebbe una delle uccisioni di massa più mortali nella storia del Canada. La furia di armi più mortale nella storia del paese nel 2020, quando un uomo travestito da agente di polizia aveva sparato a diverse persone nelle loro case appiccando incendi in tutta la provincia della Nuova Scozia, uccidendo 22 persone. Nel 2019 invece, un uomo aveva ucciso 10 pedoni investendoli con un furgone, a Toronto.

È morto il secondo fratello ricercato per gli accoltellamenti in Canada. The Canadian Press su Il Domani l'08 settembre 2022

Secondo fonti informate citate anche dal Guardian, è morto poco dopo il fermo a causa di ferite autoinflitte. Ancora non si conosce il momento degli assalti che hanno causato almeno dieci morti e quindici feriti

È morto anche il secondo dei due fratelli che erano ricercati in relazione alla serie di accoltellamenti nel Saskatchewan, in Canada che avevano causato almeno dieci vittime e altri ferimenti. Lo ha confermato la Royal Canadian Mounted Police. Myles Sanderson è stato intercettato e fermato intorno alle 15.30 ora locale di ieri, dopo giorni di caccia all'uomo. Rhonda Blackmore, comandante nel Saskatchewan, ha spiegato ai giornalisti che gli agenti hanno individuato un mezzo rubato dall'uomo e «lo hanno portato fuori strada», speronato verso un fosso. E, ha aggiunto, poco dopo essere stato fermato Sanderson è stato trasferito in ospedale per le sue condizioni di salute. Qui è stato confermato il decesso.

Secondo fonti informate citate anche dal Guardian, è morto poco dopo il fermo a causa di ferite autoinflitte. «Ora che Myles è morto forse non conosceremo mai il movente», ha detto Blackmore, confermando che nell'auto è stato trovato un coltello, anche se per ora non ci sono conferme che si tratti dell'arma usata negli attacchi che hanno fatto dieci morti e 18 feriti. Il fratello di Myles Sanderson, Damien, era stato trovato morto lunedì con «ferite evidenti» che la polizia ha detto di «non ritenere si tratti di lesioni autoinflitte».

GLI OMICIDI

I due uomini, di 30 e 31 anni, erano abitanti del posto. Le vittime sono state accoltellate in 13 località diverse e secondo la polizia alcune sono state prese di mira, mentre altre sono state colpite per motivi casuali. Si tratta di uno dei peggiori atti di violenza commessi recentemente in Canada e il primo ministro Justin Trudeau ha detto di avere «il cuore spezzato».

Canada, strage degli indigeni. Il secondo killer braccato, si toglie la vita prima dell’arresto della polizia. Redazione online per il “Corriere della Sera” l'8 settembre 2022.

Il killer degli indigeni è stato individuato e braccato dopo una fuga durata settantadue ore. Myles Sanderson, 30 anni, un uomo con 59 precedenti penali per aggressione, rapine e violenze, si è tolto la vita come il fratello, trovato morto poche ore dopo la strage 

L’incubo è finito. Il killer degli indigeni è stato individuato e braccato dopo una fuga durata settantadue ore. Myles Sanderson, 30 anni, un uomo con 59 precedenti penali per aggressione, rapine e violenze, si è tolto la vita. Si sarebbe suicidato, come il fratello, già trovato morto. Domenica, assieme al fratello Damien, 31 anni, aveva portato a termine un massacro, uccidendo a coltellate dieci persone e ferendone diciotto. Tutte le vittime, tranne una, facevano parte della comunità rurale di indigeni della regione di Saskatchewan, che confina a sud con il Montana e il Nord Dakota. Le vittime avevano tra i 23 e i 78 anni. Un ragazzino di 14 anni, che all’inizio era considerato tra i deceduti, è invece ferito e ricoverato in ospedale.

Non è ancora chiaro il movente che ha portato al massacro, avvenuto alla vigilia della festa di Labor Day, la giornata che chiude simbolicamente il periodo delle vacanze estive. I due fratelli erano entrati in azione intorno alle 5,40 di pomeriggio, colpendo in tredici posti diverse, in zone anche distanti una ventina di chilometri tra loro. Alcune vittime, secondo la polizia, erano state prese volutamente di mira, altre sono capitate nel posto sbagliato. Una famiglia di sei persone, trucidata dai due fratelli, potrebbe essere stata uno dei bersagli che hanno scatenato la furia omicida. Solo una persona non faceva parte della comunità indigena ed è quella che aveva più anni: Wesley Petterson, 78 anni, appassionato di natura, di uccellini, gestiva un bar nel villaggio di Weldon. Quando la notizia dell’arresto del killer si è diffusa nel pomeriggio, centinaia di persone hanno celebrato la fine dell’incubo.

«L’hanno preso, l’hanno preso», hanno detto in molti. «C’è finalmente un senso di sollievo», ha commentato Shania Peters, 22 anni, che nell’attacco ha persona la nonna, Gloria. «Molte persone — ha aggiunto — stanotte dormiranno meglio». Dei diciotto feriti, dieci restano in ospedale, tre sono in condizioni gravi. Fanno tutti parte della comunità della riserva di James Smith Cree Nation, un villaggio di poco più di duemila persone. Anche se non potrà riportare in vita i loro cari, la gente vuole sapere perché i due fratelli hanno massacrato la loro comunità. Nella prossime ore potrebbe arrivare la risposta.

Canada, trovato morto uno dei due killer della strage nella riserva: «Il fratello è in fuga, e ancora armato». Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.

Ventotto persone accoltellate da due uomini: dieci le vittime. Trudeau: un attacco orribile 

Uno dei due è stato trovato morto. L’altro, il fratello, resta in fuga. Continua dunque la massiccia caccia all’uomo nel cuore del Canada. Da due giorni le Giubbe Rosse, mitica polizia a cavallo del grande stato nordamericano, erano sulle tracce di due killer nelle provincie di Saskatchewan, Alberta e Manitoba, un’area grande quanto mezza Europa. 

Domenica, di prima mattina, i due uomini hanno accoltellato diverse persone all’interno della James Smith Cree Nation — una riserva delle Prime Nazioni, come vengono chiamate le comunità indigene in Canada — e nel vicino villaggio di Weldon, in Saskatchewan. 

Dieci persone sono morte e 18 sono rimaste ferite più o meno gravemente. «Attacchi orribili e strazianti — ha commentato il premier Justin Trudeau via Twitter —. Penso a coloro che hanno perso una persona cara e ai feriti». I cittadini di un’ampia zona circostante al teatro del massacro sono stati invitati a non uscire di casa, non aprire la porta a sconosciuti e non dare passaggi agli autostoppisti. 

Dopo la carneficina Damien Sanderson, 31 anni, e Myles Sanderson, 30, i ricercati, sono scappati a bordo di una Nissan Rogue. Verso mezzogiorno le telecamere li avrebbero individuati nella città di Regina, circa 330 chilometri a nord della riserva. Nella serata di lunedì, Damien è stato trovato morto. 

L’intero Canada continua ora a seguire la fuga di Myles, autore di una delle stragi più cruente della sua storia recente. 

Ancora sconosciuti i motivi che hanno scatenato la follia omicida. I leader indigeni hanno detto che potrebbero essere collegati alla droga. Più prudenti le autorità canadesi: «In questa fase, riteniamo che alcune vittime siano state prese di mira di proposito e altre siano state attaccate a caso», ha dichiarato Rhonda Blackmore, comandante locale della Polizia reale a cavallo. 

La James Smith Cree Nation, che ha una popolazione di 3.400 persone, perlopiù pescatori o contadini, ha dichiarato lo stato di emergenza e indetto una cerimonia di commemorazione per il prossimo 30 settembre. Il maggior numero dei morti si troverebbe nella riserva, ma i due killer hanno accoltellato a morte almeno due persone — un ultrasettantenne e una giovane donna, madre di due bambini — anche nel vicino villaggio di Weldon, di appena 200 abitanti. 

«Qui nessuno dormirà mai più. Saranno terrorizzati all’idea di aprire la porta di casa», ha detto uno di loro, Ruby Works, ai giornalisti. Le Prime nazioni rappresentano meno del 5% della popolazione canadese (circa 38 milioni di persone) e in genere soffrono i più alti livelli di povertà e disoccupazione, tossicodipendenza e suicidi.

·        Quei razzisti come i messicani.

(ANSA-AFP il 20 agosto 2022) - In Messico è stato arrestato l'ex procuratore generale nazionale Jesus Murillo Karam, che era incaricato di indagare sulla sorte dei 43 studenti 'desaparacidos' nel 2014 ad Ayotzinapa, e con lui sono finiti in manette anche 64 fra militari e poliziotti. L'operazione di polizia è avvenuta il giorno dopo la pubblicazione del rapporto della commissione d'indagine su quella vicenda che parlava di "delitto di stato", cioè del rapimento e assassinio degli studenti commessi dai narcotrafficanti con la complicità di giustizia e forze dell'ordine. Mandati d'arresto anche per 14 persone legate al cartello criminale 'Guerreros Unidos'.

Guido Olimpio per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2022.

Una strage dove sono riusciti a far sparire decine di vittime insieme alla verità. Una pagina nera di complicità collettiva, di collusioni e di bugie che, purtroppo, sono la consuetudine in Messico. E gli arresti arrivati a 8 anni dall'eccidio non possono essere considerati la conclusione, anche se coinvolgono personaggi di massimo rilievo. 

Le autorità messicane, dopo lunghe indagini rilanciate dal presidente Andrés Manuel López Obrador, hanno fornito la loro ricostruzione su quanto avvenne nell'estate del 2014 nella regione di Iguala, quando 43 studenti furono rapiti e uccisi. Un massacro per il quale sono stati spiccati 63 mandati di cattura riguardanti ufficiali di tutti gli apparati della sicurezza, compreso l'ex procuratore generale Jesús Murillo, l'uomo che avrebbe dovuto dare risposte e invece ha sotterrato il dossier usando teorie alternative.

Un muro di silenzio dietro il quale si sono nascosti in tanti. Difficile credere che l'allora presidente Peña Neto abbia creduto a ciò che gli raccontavano riguardo l'imboscata del 2014. Tutto si consuma nelle ore tragiche tra il 26 e il 27 settembre, quando i giovani aspiranti maestri sono a bordo di alcuni pullman, che dirottano per poter andare a una manifestazione di protesta. È una tattica che usano di frequente, solo che stavolta la loro iniziativa si tramuta nell'orrore.

Il convoglio è bloccato da agenti locali e banditi del cartello Guerreros Unidos legati da un patto di connivenza: i ragazzi sono portati via ed eliminati. I resti di soli tre di loro saranno ritrovati, gli altri diventeranno dei desaparecidos , i loro nomi aggiunti agli oltre centomila scomparsi di quella che è una guerra in cui la droga c'entra fino ad un certo punto. I traffici, infatti, sono un segmento in parallelo a manovre di influenza e partite di potere. 

La prima inchiesta aveva puntato tutto su un'operazione locale, coinvolgendo politici della zona e pedine spendibili. Confessioni estorte avevano raccontato di cadaveri inceneriti su una grande pira di legna e copertoni vicino a un torrente, le ossa frantumate. Un report mai preso per buono dalle famiglie e da investigatori indipendenti, una soluzione che permetteva di offrire delle teste all'opinione pubblica risparmiandone altre. Chi non credeva alla soluzione ammoniva a guardare in profondità, a considerare anche il ruolo dell'esercito.

Ora la nuova indagine, con la grande retata e le manette a Murillo, riscrive i fatti tirando dentro anche le forze armate, da anni schierate nelle strade contro i cartelli ma non di rado infiltrate dai gangster. I militari avevano un loro informatore su uno dei bus, sapevano cosa stava accadendo ma non hanno fatto nulla e poi hanno preferito tacere. La copertura si è quindi estesa ad altri inquirenti, ai federali, a funzionari di vario livello. 

Tra i ricercati spicca Tomas Zeron, all'epoca numero uno dell'Agenzia anti-crimine, altro depistatore, coinvolto in un clamoroso caso di tangenti e scappato in Israele dove vive in apparenza sicuro di non essere preso.

Smentita poi la tesi dei corpi cancellati con il fuoco lungo il fiume, scenario giudicato improbabile da esperti internazionali intervenuti per far luce sul «crimine di Stato». Che conserva ancora molti segreti, a partire dai due punti chiave. Il primo: non è chiaro il movente reale dell'assalto al corteo. Si è ipotizzato un errore della gang e dei loro referenti nell'individuare una possibile minaccia, pericolo inesistente che li ha portati a considerare gli studenti come alleati di una fazione rivale. 

Non sono mancati riferimenti a un carico di droga nascosto su uno dei pullman che doveva essere recuperato a ogni costo, a piste improbabili, a intrighi.

Il secondo: dove sono finiti i resti dei giovani? C'è chi ha ipotizzato il ricorso a un grande inceneritore vicino a una caserma, da qui vecchi sospetti. Per questo la «verità storica» - non quella promessa da Murillo mentre spargeva la cortina fumogena - non è ancora completa. 

Messico, arrestato il giudice che indagò sulla scomparsa dei 43 studenti. La Repubblica il 20 Agosto 2022.

Il suo rapporto, che definì "verità storica", taceva di torture, arresti impropri, poliziotti corrotti, criminalità organizzata e responsabilità di militari

Il giudice Murillo Karam che indagò sul caso più controverso della storia recente del Messico è finito in manette per aver insabbiato e manipolato le prove. Arrestato, insieme ad altre 63 persone tra poliziotti, militari, politici. La controversa versione ufficiale sulla scomparsa di 43 studenti di Ayotzinapa nel 2014 (sparirono nel nulla la notte fra il 26 e il 27 settembre 2014 nello Stato di Guerrero dopo aver prenotato dei pullman per partecipare a una manifestazione a Città del Messico) fu elaborata proprio dall'ex procuratore. Quel rapporto che Murillo pubblicò l'anno dopo, nel gennaio 2015, definendolo la "verità storica", era stato ampiamente screditato da esperti indipendenti e il procuratore generale si era dimesso. Le sue conclusioni non convinsero nessuno, soprattutto i familiari dei 43 studenti, ma anche secondo le Nazioni Unite che accusarono il giudice di aver supervisionato un insabbiamento ad ampio raggio dei fatti, comprese le testimonianze ottenute attraverso la tortura.

Secondo le indagini, Murillo Karam, sotto pressione per risolvere rapidamente il caso, nel 2014 dichiarò che gli studenti erano stati uccisi e i loro corpi bruciati da membri di una banda di narcotrafficanti. Ma la verità storica di Murillo taceva di torture, di arresti impropri, poliziotti corrotti, criminalità organizzata e responsabilità di militari e di altre istituzioni pubbliche. Fatti accertati invece dalla commissione che ha indagato per cercare la verità su quanto successo.

Messico, arrestato il procuratore generale "Insabbiò la scomparsa di 43 studenti". Murillo Karam in galera: aveva condotto la prima inchiesta sul bus sparito nel 2014, negando le responsabilità dell'esercito. Paolo Manzo il 21 Agosto 2022 su Il Giornale.

San Paolo. L'ex procuratore generale del Messico Jesus Murillo Karam è stato arrestato l'altro ieri con l'accusa pesantissima di «sparizione forzata, tortura e ostruzione alla giustizia» in relazione alla scomparsa nel 2014 di 43 studenti universitari e rischia 80 anni di carcere. Il caso commosse il mondo. Gli studenti dell'Università Normale di Ayotzinapa scomparvero la sera del 26 settembre 2014 mentre viaggiavano in autobus verso Città del Messico, dove dovevano partecipare a una manifestazione per la commemorazione del massacro di Tlatelolco del 2 ottobre 1968. Mentre attraversavano il territorio della città di Iguala, nello stato di Guerrero, svanirono nel nulla. Murillo aveva condotto la prima inchiesta sul caso e fu lui a imporre quella che, sino a due giorni fa, era considerata la «verità storica» su quel tragico evento. Una «verità» però zeppa di menzogne, soprattutto perché esonerava da qualsiasi responsabilità i militari. Con una nuova inchiesta, voluta dal presidente Andrés Manuel López Obrador, AMLO come lo chiamano tutti, è invece emerso che molti «servitori dello Stato» contribuirono a nascondere i fatti.

Non a caso, oltre a Murillo, che ieri ha passato la sua seconda notte nel carcere di Città del Messico, ieri sono stati emessi altri 83 mandati di cattura, 20 dei quali contro comandanti e soldati del 27° e 41° battaglione di Iguala, 5 contro autorità amministrative e giudiziarie, 33 contro agenti di polizia, 11 contro dipendenti pubblici e 14 contro i membri del cartello Guerreros Unidos.

Secondo la «verità storica» di Murillo alcuni poliziotti corrotti di Iguala avevano arrestato gli studenti e li avevano consegnati a Guerreros Unidos, che li aveva poi uccisi e inceneriti nella discarica di Cocula, gettandone i resti nel fiume San Juani. Questa versione, avallata dall'allora presidente Peña Nieto, fu subito criticata da esperti indipendenti, dalla Commissione interamericana per i diritti umani e dai parenti degli scomparsi, che da allora non hanno mai smesso di cercare la verità. Per loro, i corpi non potevano essere stati bruciati nella discarica.

Ora l'indagine della Commissione per la verità e l'accesso alla giustizia sul caso Ayotzinapa dà loro ragione. Dall'inchiesta che ha portato all'arresto di Murillo risulta infatti che militari statali (e non solo «pochi poliziotti locali corrotti») stavano monitorando in tempo reale tutti i movimenti degli studenti da quando avevano lasciato in bus la Normale Ayotzinapa, grazie ad almeno un infiltrato, il soldato-studente Julio César López Patolzin. A osservarli con attenzione durante l'ultimo tragitto c'erano anche alcuni agenti dell'OBI, gli organi di ricerca dell'intelligence.

Il coinvolgimento degli apparati statali non sorprende, basti pensare che all'inizio di quest'anno AMLO aveva già detto che alcuni membri della marina erano indagati per alterazione delle prove nella discarica dove sono stati poi trovati i resti ossei di tre studenti. Ieri lo stesso presidente ha chiesto a tutti i coinvolti nella scomparsa di affrontare la giustizia. «Dite la verità su questa situazione atroce e disumana perché giustizia sia fatta e perché non si possa mai più ripetere un'aberrazione simile», ha detto il presidente messicano. Dal canto suo, l'autorevole giornalista Epigmenio Ibarra ha assicurato che «se Peña Nieto e Murillo Karam avessero reagito immediatamente e ordinato un'operazione di ricerca e soccorso invece di preoccuparsi di insabbiare i responsabili e chiudere il caso, il destino dei 43 sarebbe stato molto diverso».

·        Quei razzisti come i peruviani.

(ANSA il 16 dicembre 2022) - L'ex presidente del Peru Pedro Castillo rimarrà detenuto per 18 mesi. Lo ha deciso il Tribunale per le indagini preliminari, che ha accolto la richiesta della Procura generale peruviana. Castillo è accusato di ribellione e tentato di colpo di stato. 

Dopo aver ascoltato gli interventi dell'accusa e della difesa, il giudice Juan Carlos Checkley Soria ha letto per quasi due ore gli argomenti a sostegno della sua decisione di accettare nei confronti di Castillo la richiesta della Procura di una custodia cautelare di 18 mesi.

Il magistrato, riferisce il quotidiano La Republica, ha precisato che l'ex capo dello stato dovrà restare in carcere fino al 6 giugno 2024, una decisione contro cui immediatamente la difesa di Castillo ha annunciato ricorso. 

La Procura generale aveva formulato la sua accusa sulla base un tentativo di colpo di stato realizzato da Castillo con un discorso alla Nazione il 7 dicembre, quando annunciò lo scioglimento del Parlamento, l'avvio di un processo di riforma della Costituzione e un sostanziale commissariamento di tutti gli organi giudiziari peruviani..

Perù, 22 i morti negli scontri tra manifestanti e polizia. Storia di Redazione Tgcom24 il 16 dicembre

In Perù è salito a 22 morti e molte decine di feriti il bilancio degli scontri tra manifestanti antigovernativi e forze dell'ordine in numerose città del centro-sud del Paese. Gli ultimi 3 decessi sono stati registrati venerdì a Pichanaki, nel dipartimento di Junin, città sulla cordigliera centrale peruviana dove si sono contati anche 52 feriti. Intanto le quattro ragazze che erano rimaste bloccate per tre giorni nel villaggio di Checacupe - Giulia Opizzi, Martina Meoni e le sorelle Federica e Lorenza Zani - sono giunte a Cusco, da dove proseguiranno probabilmente in aereo verso Lima.

Manifestazioni in tutto il Perù in difesa del presidente socialista Castillo. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 12 dicembre 2022.

Non si arresta in Perù l’ondata di proteste esplose a seguito della destituzione del presidente Pedro Castillo, al momento detenuto in carcere con l’accusa di ribellione e cospirazione. Dopo il voto di impeachment la sua ormai ex vice, Dina Boularte, è salita in carica come nuovo presidente, ma la popolazione non ha alcuna intenzione di attendere la scadenza del mandato (2026) per eleggere il nuovo capo di Stato e ha chiesto elezioni anticipate immediate, insieme al rilascio di Castillo. In numerose città delle regioni andine, dove Castillo gode del maggior supporto, polizia e cittadini sono giunti allo scontro nel corso di varie manifestazioni e proteste, fino a che nella mattinata di oggi non si sono iniziate a contare le prime vittime.

Hanno infatti 15 e 18 anni i due giovani rimasti uccisi da quelli che sembrerebbero colpi di armi da fuoco, secondo quanto riferito da una radio locale. Si trovavano tra i manifestanti che questa mattina hanno cercato di prendere d’assalto l’aeroporto della città di Andahuaylas, nella quale già nel fine settimana, nel corso delle proteste, a decine erano rimasti feriti tra poliziotti e manifestanti. Violenti scontri hanno avuto luogo anche nelle città di Cahamarca, Arequipa, Huancayo, Cusco e Puno. Anche le organizzazioni dei lavoratori rurali e i rappresentanti delle popolazioni indigene sono scesi in piazza e richiesto a gran voce uno sciopero illimitato a partire da domani in supporto a Castillo. Nel pomeriggio di domenica 11 dicembre, il partito di sinistra Free Peru ha organizzato un presidio in Plaza San Martin, storico epicentro delle proteste politiche del Paese. Per decidere come far fronte all’ondata di dissenso, nella stessa giornata il Congresso ha indetto una riunione straordinaria.

Figlio di una famiglia di contadini, con un trascorso di insegnamento nelle scuole delle zone rurali e come leader dei sindacati, Castillo aveva incontrato il favore delle popolazioni dell’entroterra, mentre non aveva riscosso altrettanto successo nella capitale Lima, situata sulla costa. Il suo governo, di ispirazione leninista-marxista e con pochissimi contatti con le élite, aveva trovato una netta avversione nell’organo del Congresso, in particolare nel partito liberista di Keiko Fujimori (Fuerza Popular), figlia dell’ex dittatore Fujimori, che aveva più volte osteggiato l’operato di Castillo e causato non pochi problemi all’esercizio del suo mandato. Di fatto, il mancato colpo di Stato di mercoledì era volto a impedire il terzo tentativo di votare l’impeachment da parte del Congresso. Castillo aveva annunciato di voler sciogliere l’organo e instaurare un governo di emergenza eccezionale, per poi convocare «al più presto» un nuovo Congresso con poteri costituenti per poter redigere la nuova Costituzione nell’arco di nove mesi. Il Congresso e la vicepresidente Boularte hanno definito tale tentativo un «colpo di Stato» e votato l’impeachment, motivandolo con cause di «incapacità morale». 

Mentre dagli Stati Uniti sono immediatamente giunte dichiarazioni di condanna all’operato di Castillo, alcuni dei presidenti e degli ex leader progressisti dell’America Latina stanno esprimendo il proprio sostegno all’ex presidente destituito: tra questi, il presidente messicano Obrador e l’ex presidente boliviano Evo Morales, che ha parlato di golpe portato a termine dalla «guerra ibrida dell’imperialismo».

Sono numerose le questioni di dubbia chiarezza circa l’intera vicenda. L’ultima di queste riguarda una lettera resa pubblica nella giornata di domenica dal deputato Guillermo Bermejo Rojas e redatta da Castillo, all’interno della quale questi spiega come “un gruppo di medici camuffati” e un “procuratore senza volto” gli abbiano prelevato il sangue “senza consenso”, nel tentativo di attuare un “piano machiavellico” ordito “dalla procura, dal presidente del congresso e dalla signora Dina Boularte”. Nel frattempo, Boularte ha dichiarato lo stato di emergenza nel sud del Paese e proposto di anticipare le elezioni nell’aprile del 2024, ovvero per un altro anno e tre mesi. Resta da vedere se alla cittadinanza andrà bene attendere ancora tanto a lungo. [di Valeria Casolaro]

Perù: la presidenza del socialista Castillo termina in un goffo tentativo di auto-golpe. Giorgia Audiello su L'Indipendente l’8 dicembre 2022.

Il presidente peruviano, Pedro Castillo, è stato destituito ieri dal suo incarico attraverso un voto di impeachment per «incapacità morale»: poco prima del voto Castillo aveva tentato di sciogliere la legislatura, provando ad attuare quello che è stato definito dal Parlamento peruviano e dalla sua vicepresidente, Dina Boluarte, un colpo di Stato. «Abbiamo preso la decisione di instaurare un governo di emergenza, per ristabilire la legge e la democrazia» aveva affermato Castillo. Tuttavia, il Congresso ha ignorato l’atto del presidente e ha deciso di procedere con l’impeachment, approvato da 101 parlamentari su un totale di 130, in una sessione trasmessa in diretta televisiva. Successivamente, Castillo è stato arrestato dalla polizia e Boluarte – appartenente allo stesso partito di Castillo, Perù Libre – ha assunto la presidenza, giurando di fronte alla plenaria del Congresso. Boluarte ha affermato che «c’è stato un tentativo di colpo di Stato che non ha avuto eco né nelle istituzioni né nelle strade. Chiedo una tregua politica per installare un governo di unità nazionale».

In un messaggio alla nazione, letto dal palazzo del governo e trasmesso in televisione, Castillo aveva illustrato i passaggi che avrebbe dovuto attuare per instaurare un governo d’emergenza: «Si impongono le seguenti misure: sciogliere temporaneamente il Congresso della Repubblica e istituire un governo di emergenza eccezionale; convocare al più presto un nuovo Congresso con poteri costituenti per redigere una nuova Costituzione entro un periodo non superiore a nove mesi». Il Congresso e la sua vicepresidente hanno però respinto con forza l’iniziativa: «Respingo la decisione di Pedro Castillo di perpetrare la rottura dell’ordine costituzionale chiudendo il Congresso. Questo è un colpo di Stato che aggrava la crisi politica e istituzionale che la società peruviana dovrà superare rispettando rigorosamente la legge», aveva scritto su Twitter l’attuale presidente del Perù. Allo stesso tempo, cinque ministri avevano rassegnato le dimissioni, così come anche il capo dell’esercito e alcuni ambasciatori, fra cui quelli alle Nazioni Unite e presso l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA).

Il tentato golpe arriva in seguito ad un periodo di profonda crisi politica che attraversa il Paese sudamericano: già a novembre centinaia di persone si erano riunite a Lima per protestare contro il governo e il presidente, chiedendone le dimissioni, per via dell’aumento dei prezzi del carburante, dei beni di prima necessità e dei fertilizzanti. Oltre a quello di ieri, Castillo aveva già subito due tentativi di impeachment e l’opposizione di destra stava cercando di avviare il terzo già da tempo: fin dalla sua elezione nel 2021, infatti, Castillo – di ispirazione marxista-leninista – è stato fortemente ostacolato nella sua ascesa politica dal partito rivale liberista, Fuerza Popular – guidato da Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori – che aveva contestato i risultati elettorali. La critica alla dittatura dei mercati e l’antiimperialismo di Castillo avevano suscitato la reazione ostile della destra, sostenuta anche dagli Stati Uniti. Proprio gli USA hanno condannato il tentativo di colpo di Stato portato avanti da Castillo: «Gli Stati Uniti esortano con forza il presidente Castillo a revocare il suo tentativo di chiudere il Parlamento e a permettere alle istituzioni democratiche del Perù di funzionare secondo la Costituzione», aveva twittato l’ambasciatore a Lima, Lisa Kenna.

Oltre alla vicepresidente, anche il capo della Corte costituzionale peruviana, Francisco Morales ha parlato di progetto di colpo di Stato. In seguito al voto del Congresso – secondo quanto riferito da El Pais – la polizia peruviana ha detenuto per tre ore l’ex presidente. Ora il Congresso si avvia verso un governo di unità nazionale, cercando una tregua tra tutte le forze politiche. Boluarte, prima donna presidente del Perù, ha detto di voler lottare «per i nullatenenti e gli esclusi». «Assumo la carica di presidente costituzionale della Repubblica consapevole dell’enorme responsabilità che mi compete e la mia prima invocazione, come non potrebbe essere altrimenti, è quella di fare appello alla più ampia unità di tutti i peruviani», ha detto di fronte al Parlamento.

L’ex presidente peruviano, Ollanta Humala (1990 – 2000), ha dichiarato alla radio RPP che «Da oggi, Castillo fa parte della triste schiera dei dittatori», riferendosi al caso analogo dell’ex presidente Alberto Fujimori (1990-2000), che sciolse il Congresso il 5 aprile 1992. [di Giorgia Audiello]

Alessandra Muglia per il "Corriere della Sera" il 7 febbraio 2022.

Nuovo terremoto politico in Perù, alla ricerca del suo quarto premier in sei mesi. Nominato primo ministro martedì scorso, Hector Valer è stato costretto dopo tre giorni a lasciare l'incarico, travolto dalle accuse di violenza domestica. Una nuova tegola anche per il presidente Pedro Castillo, che si ritrova ora a dover cambiare un'altra volta il governo. 

Venerdì scorso, appena 48 ore dopo aver insediato il suo terzo presidente del Consiglio, nel discorso alla nazione l'ex maestro-sindacalista ha annunciato un rimpasto, promettendo che il nuovo gabinetto sarà ampio e aperto a tutti i partiti. Un intervento non rinviabile: proprio dopo la nomina di Valer, erano emersi i rapporti presentati alla polizia nel 2016 in cui moglie (morta l'anno scorso) e figlia lo accusavano di violenze.

 In una denuncia visionata dal Guardian , la figlia 29enne racconta di essere stata «schiaffeggiata, presa a pugni e calci in faccia, i capelli tirati». Valer ha negato tutto. «Le denunce contro di me si basano su bugie», si è difeso cercando di arginare il polverone. Invano. A chiedere le sue dimissioni sono stati anche tre suoi ministri e ora il neopremier ha ufficializzato il passo indietro. 

La crisi rischia di travolgere anche la già compromessa leadership del presidente Pedro Castillo. Com' è che lui, considerato radicale di sinistra era finito a volere un ultraconservatore a capo del governo, con alle spalle una storia di commenti sessisti a rovinarne la reputazione? Valer, entrato in Parlamento con un partito di estrema destra, è poi passato a una formazione pro-Castillo. Il presidente invece ha fatto il percorso inverso: membro del partito marxista-leninista Perú Libre, si è spostato sempre più a destra da quando è entrato in carica lo scorso luglio. 

Tra l'altro anche prima aveva espresso opinioni conservatrici contrarie ai diritti Lgbtq, all'aborto e all'educazione sessuale, posizioni non troppo distanti da quelle dei suoi oppositori di estrema destra. I sospetti sulle sue credenziali di sinistra si sono rafforzati venerdì scorso quando è stato fotografato mentre rideva con il presidente brasiliano di estrema destra Jair Bolsonaro, che indossava il tipico cappello a tesa larga di Castillo a suggellare l'intesa tra i due leader. 

La presidenza peruviana resta dunque impantanata nella crisi. Il suo ex sfidante conservatore Keiko Fujimori da tempo chiede le dimissioni di Castillo. «Non sa come scegliere le persone; non sente la responsabilità della posizione», ha attaccato. Ma a protestare, per la prima volta, sono anche le persone che lo hanno votato. Nulla ancora è trapelato sulla prossima nomina. Quel che è certo è che non può più permettersi di sbagliarla.

Paolo Manzo per “il Giornale” il 7 Dicembre 2022. 

Il maestro marxista Pedro Castillo, esaltato un anno fa dai media italiani sul suo cavallo bianco come un paladino dei poveri peruviani- dal Corriere a Repubblica, andateveli a rileggere, vale la pena - è stato arrestato ieri per avere tentato ufficialmente di trasformarsi in un dittatore. 

L'oramai ex presidente del Perú, infatti, a reti unificate aveva annunciato poco prima del mezzogiorno di Lima la chiusura del Parlamento, il sequestro della magistratura e il coprifuoco in tutto il Paese, violando la costituzione del Paese andino.

Un colpo di stato con un «governo di eccezione» esattamente uguale, almeno nelle intenzioni, a quello di 30 anni fa del «neoliberale» Alberto Fujimori che, per la cronaca, dopo una condanna a 25 anni, è dal 2005 in carcere.

Castillo era adorato anche dal brasiliano Lula da Silva (ex carcerato graziato e neo presidente), dall'argentina Cristina Kirchner (ex presidenta, condannata l'altroieri a sei anni di carcere per una frode da un miliardo di dollari), dal presidente messicano Amlo, per non dire dai dittatori di Venezuela, Cuba e Nicaragua, i «fantastici tre» come li hanno già ribattezzati, ovvero Maduro, Díaz-Canel e Ortega. 

Vedremo nelle prossime ore il destino di Castillo, che prima dell'arresto dopo essere uscito con la sua famiglia da una porta di servizio della presidenza aveva tentato di rifugiarsi nell'ambasciata del Messico, bloccato a forza da comuni cittadini che lo hanno riconosciuto. Da lì al gabbio il percorso per il marxista Castillo è stato breve. 

Ieri il Parlamento del Perù aveva in programma una sessione per destituirlo per «incapacità morale», un unicum previsto dalla Costituzione del Paese andino. Castillo, nei mesi scorsi, aveva sondato il sostegno delle Forze Armate in caso di sua chiusura del Parlamento. Ieri ha tentato il golpe ma ha sbagliato totalmente i suoi calcoli. 

Questo celebrava ieri Repubblica, il gruppo mediatico che aveva appoggiato lo scorso anno la candidatura presidenziale di Castillo contro Keiko, la figlia di Alberto Fujimori. Ma soprattutto, le stesse Forze Armate ieri notte hanno diramato un comunicato invitando «la popolazione alla calma e a rimanere in casa» oltre a negare di appoggiare il golpe, attenendosi alla Costituzione.

Non solo, dopo avere salvato Castillo in almeno tre occasioni nei mesi scorsi, per complicità o ingenuità, ieri il Parlamento non è stato chiuso dalla polizia ma si è riunito e ha approvato, con 101 voti a favore, 6 contrari e 10 astenuti, la destituzione per «incapacità morale» del «maestro sul cavallo bianco» amante di Marx e Lenin.

Dal primo giorno alla sua presidenza Castillo aveva mostrato una totale incapacità di esercita re il potere, basti pensare che il giorno del suo insediamento, nel bel mezzo della pandemia che ha colpito il Perù più di ogni Paese al mondo e di una crisi economica terribile, non aveva neanche scelto il suo esecutivo. 

Il giorno dopo aveva nominato come premier addirittura un ammiratore della terrorista Edith Lagos, leader di Sendero Luminoso.

Nei suoi 16 mesi al potere il marxista Castillo ha scelto come ministri e in alte cariche pubbliche personaggi impresentabili, denunciati e indagati senza che avessero le credenziali né etiche né professionali per occupare incarichi pubblici.

A tutto questo si sono aggiunti i gravissimi scandali di corruzione in cui sono coinvolti lo stesso presidente e il suo ambiente, politico e familiare, oltre a essere vicino ad Antauro Humala, un militare golpista, fratello dell'ex presidente Ollanta, e al braccio politico di Sendero Luminoso. 

A 16 mesi dal suo insediamento, il Perù governato da Castillo è oggi più povero, più diseguale. Una parentesi di un governo autoritario, golpista almeno nelle intenzioni, a cui non dispiaceva affatto violare i diritti umani e le libertà, come a Cuba, in Nicaragua e Venezuela. 

Ovviamente nel silenzio dei media mainstream, italiani e non.

Una nuova leader in Sudamerica. Chi è Dina Boluarte, la prima donna alla guida del Perù dopo il tentato golpe del presidente Castillo. Redazione su Il Riformista l’8 Dicembre 2022

Dina Boluarte ha assunto l’incarico di nuovo presidente del Perù mercoledì, dopo che il Congresso ha estromesso l’ex presidente Pedro Castillo. È la prima presidente donna nella storia del Perù e il sesto presidente peruviano in meno di cinque anni. In questo contesto turbolento, Boluarte, che fino a poche ore fa era la vicepresidente del paese, ha assunto il ruolo di successore di Castillo dopo aver prestato giuramento prima della sessione plenaria del Congresso mercoledì pomeriggio.

Nel suo primo discorso da presidente, Boluarte mercoledì ha chiesto una “tregua politica per installare un governo di unità nazionale” e ha detto che avrebbe combattuto la corruzione con il sostegno dell’ufficio del procuratore generale e dell’ufficio del controllore del paese: “Il mio primo compito è combattere la corruzione, in tutte le forme”, ha detto Boluarte. “Ho visto con repulsione come la stampa e gli organi giudiziari hanno denunciato vergognosi atti di rapina ai danni del denaro di tutti i peruviani, questo cancro deve essere sradicato”.

Il predecessore di Boluarte, Castillo, è stato rimosso dall’incarico e arrestato mercoledì per aver incostituzionalmente dichiarato la chiusura temporanea del Congresso, secondo diversi analisti costituzionali del paese. Almeno sette ministri del gabinetto e altri alti funzionari si sono dimessi in segno di protesta contro la mossa di Castillo, accusando l’ex presidente di aver tentato un colpo di stato.

Dina Ercilia Boluarte Zegarra, 60 anni, si è laureata in Giurisprudenza presso l’Università Privata San Martín de Porres, dove ha anche conseguito il Master in Diritto Notarile e del Registro, secondo il suo curriculum. Ha iniziato la sua carriera politica nel 2007, presso il Registro Nazionale di Identificazione e Stato Civile di Surco, come consulente del senior management e, successivamente, come capo dell’ufficio locale.

Nel 2018 è stata candidata a sindaco di Surquillo con il Partito Peru Libre. Due anni dopo, nel 2020, si è candidata alle elezioni parlamentari straordinarie, ma non è riuscita a vincere un seggio. Durante le elezioni generali del 2021, Boluarte è stata candidata alla vicepresidenza per il partito Peru Libre. Castillo ha vinto la competizione in un secondo turno di votazioni con 8.836.380 voti, secondo la giuria elettorale nazionale (Jne). In un’intervista della Cnn quell’anno, Boluarte ha dichiarato: “Abbiamo bisogno di un Congresso che lavori per le esigenze della società peruviana e che si coordini positivamente con l’esecutivo in modo che entrambi i poteri dello Stato possano lavorare in modo coordinato per soddisfare le molteplici esigenze della società peruviana. Non vogliamo un Congresso ostruzionista (…) In nessun momento ho detto che chiuderemo il Congresso”.

Il 29 luglio 2021 ha prestato giuramento come ministro per lo sviluppo e l’inclusione sociale, carica che ha ricoperto fino al 25 novembre 2022, quando ha presentato le sue dimissioni dopo la nomina di Betssy Chávez a presidente del Consiglio dei ministri. “Oggi ho preso la decisione di non continuare nel prossimo gabinetto ministeriale. Dopo una profonda riflessione, non ho dubbi che l’attuale polarizzazione danneggi tutti, specialmente il cittadino comune che cerca di uscire dalla crisi politica ed economica “, ha scritto Boluarte, che non ha lasciato la vicepresidenza, in un tweet all’epoca. Tuttavia, è rimasta un membro del gabinetto come vicepresidente. Meno di due settimane dopo, ha prestato giuramento come nuovo leader peruviano.

·        Quei razzisti come gli haitiani.

Anatomia di un dramma: perché Haiti non riesce a rialzarsi? Michele Farina su Il Corriere della Sera il 09 Luglio 2022

Uragani, terremoti, povertà e criminalità spiegano solo in parte perché l’ex Hispaniola è uno dei luoghi più senza speranza del mondo. Ex colonia francese, fu il secondo Paese delle Americhe (dopo gli Stati Uniti) a dichiarare l’indipendenza. Ma qui gli eredi degli schiavi sono stati costretti a risarcire gli eredi degli schiavisti. 

Sotto il sole di Haiti, il Paese più vibrante e devastato delle Americhe, rovistare nel passato è un lusso per pochi. Quando la vita è in bilico, a che serve indugiare sulle glorie degli avi, i primi schiavi al mondo a guadagnarsi l’indipendenza a inizio Ottocento, o indagare sulle malefatte dei colonizzatori che si vendicarono imponendo un gigantesco pizzo a quel giovane Stato, affossandolo fino ai nostri giorni? Gli haitiani sono grandi consumatori di tempo presente: devono cogliere l’attimo e, primo, portare a casa la pelle, secondo, qualcosa da mangiare. Ad Haiti è anche vero che la gente sogna parecchio: un futuro altrove, un figlio che non ti venga rapito, una classe dirigente non troppo disonesta, una pagnotta che non sia fatta di terra, un salvacondotto per le persone come Luisa Dell’Orto, la suora italiana di 65 anni uccisa l’altra settimana per la strada a Port-au-Prince. Sognano i poveri, anche quando scavano nella spazzatura di Cité Soleil. Ma gli scavi nella storia no, quelli sono un hobby per ricchi e sapienti, per chi vive fuori dal Paese e dalla mizé (la miseria, in creolo), per chi può guardarsi alle spalle senza paura di distrarsi e magari trovarsi davanti un machete o il posto di blocco della gang di turno.

AD HAITI LA GENTE SOGNA PARECCHIO: UN FUTURO ALTROVE, UN FIGLIO CHE NON TI VENGA RAPITO, UN SALVACONDOTTO PER LE PERSONE COME LUISA DELL’ORTO, LA SUORA ITALIANA DI 65 ANNI UCCISA L’ALTRA SETTIMANA PER LA STRADA A PORT-AU-PRINCE

Luisa Dell’Orto, la suora italiana di 65 anni uccisa l’altra settimana per la strada a Port-au-Prince con 4 colpi di pistola: viveva e lavorava dal 2002 ad Haiti 

Raramente il presente è stato così cupo: basti dire che tutte le vie di accesso a Port-au-Prince, la capitale con oltre due milioni di abitanti, sono controllate da decine di bande criminali che si danno battaglia con i civili nel mezzo. L’instabile lottizzazione della violenza e la debolezza della polizia fanno sì che il porto, dove arriva la maggioranza delle materie prime, sia circondato. Dai moli guardando il mare, un mare impoverito come la terra intorno, oggi si fatica a ricordare il giorno in cui nella baia dei principi, 21 anni dopo l’indipendenza, affondò l’àncora il barone di Machau, inviato da re Carlo X di Francia con 500 cannoni spianati e un ultimatum per i governanti della rivoluzionaria Repubblica: dateci 150 milioni di franchi o apriamo il fuoco.

I GIORNALISTI DEL NEW YORK TIMES HANNO RICOSTRUITO LA STORIA DEL “RISCATTO” IMPOSTO DA PARIGI AD HAITI ALL’INIZIO DELL’800. AL CONTROLLO FRANCESE SUBENTRO’ QUELLO USA: NEL 1915 MARINES AMERICANI MARCIARONO SULL’ISOLA PER POI LASCIARLA NEL ‘34

Un ricatto bestiale, una cifra enorme che secondo Parigi doveva “compensare” le perdite subìte dai colonizzatori defraudati, i ricchi proprietari degli schiavi martoriati e delle piantagioni di zucchero e caffè che avevano fatto della colonia Hispaniola la più profittevole dei Caraibi. Anche Napoleone aveva provato a riprendersela, e le sue armate si erano ritirate avendo perso più soldati che a Waterloo. Ma dopo la Restaurazione la monarchia borbonica tornò alla carica, trovando dall’altra parte dell’oceano istituzioni incerte e stremate su cui tendere la trappola del “doppio debito”.

Negli Stati Uniti la schiavitù era ancora di casa

Port-au-Prince non aveva alleati, anzi: i vicini più potenti, gli Stati Uniti dove la schiavitù era ancora di casa, consideravano il successo della rivolta haitiana un pericoloso precedente da contrastare. In questo scenario, di fronte ai 500 cannoni lucenti del barone di Machau, il presidente haitiano si sottomise al mafioso ricatto degli ex padroni questuanti. E poiché le casse pubbliche non avevano soldi per compensare gli schiavisti di Sua Maestà, la Francia malignamente li offrì in prestito (con interessi da strozzini). E fu così che il doppio, beffardo giogo del riscatto e del prestito fu caricato sulle spalle degli abitanti di un Paese nascente e dei loro ignari discendenti per decenni a venire. «Gli schiavi combatterono per l’indipendenza. Per fargliela pagare, fu creata un’altra forma di schiavitù». Così riassume semplicemente Cedieu Joseph, capo di una piccola cooperativa di coltivatori di caffè nel paesino di Dondon, a chi gli chiede notizie.

LE BANCHE DI WALL STREET VIDERO NEL PAESE UN GRANDE AFFARE: L’OCCUPAZIONE MILITARE AMERICANA DURÒ DAL 1915 PER 19 ANNI. IL NODO DEL DOPPIO DEBITO

Lì, sulle montagne di Haiti, quella del doppio debito è una vaga certezza che si tramanda come certe oscure storie di una volta, storie che di fronte all’accecante luce del presente con i suoi freschi malanni perdono consistenza e scivolano nella leggenda. È stato così per le autorità francesi, che l’hanno sempre rubricato come il polveroso retaggio di una vicenda d’altri tempi. E quando sulla scena di Haiti, dopo mezzo secolo di dittatura (Papa Doc e Baby Doc), comparve nel 2003 un presidente con il dente avvelenato come il populista Jean-Bertrand Aristide, che chiedeva a gran voce a Parigi la restituzione del maltolto, finì tutto in niente: Aristide fu cacciato in esilio in Africa da un commando di “gendarmi” americani con grande sollievo (e con lo zampino) degli amici francesi. Scordiamoci il passato con le sue imbarazzanti richieste di risarcimenti. Da allora la musica di Haiti ha ripreso a viaggiare sui ritmi incalzanti del presente, una narrativa fatta di tragedie naturali (il terremoto, il colera, gli uragani) e malefatte umane: la corruzione, la disuguaglianza, la mancanza di un vero servizio pubblico, la violenza, le differenze lampanti con i vicini della Repubblica Dominicana.

Il ricatto di Parigi pesa sul reddito pro capite

A proposito di queste differenze: lo sapevate che il reddito degli haitiani sarebbe oggi cinque volte superiore a quello attuale, e dunque in linea con il relativo benessere dei “cugini” di Santo Domingo, se la Francia non avesse caricato sulla prima repubblica degli ex schiavi quella “doppia punizione” in denaro? Per stabilirlo ci è voluta una squadra di giornalisti e segugi del quotidiano americano New York Times, che ha riportato alla luce in tutti i dettagli più paradossali quello scandalo sepolto negli archivi delle banche e nelle corrispondenze tra ambasciatori, come certe scoperte archeologiche che cambiano la prospettiva e i giudizi della storia.

Il «progetto ransom»

Per mesi la squadra del progetto “Ransom” (“il pagamento di un riscatto”) ha spulciato migliaia di documenti tra Haiti, Francia e Stati Uniti. Materiale che neanche gli storici di professione avevano mai esplorato a fondo. Il Times ha seguito le tracce dei pagamenti finiti a Parigi, pari a 560 milioni di dollari attuali. Ha sottoposto i suoi calcoli all’attenzione di 15 economisti di fama internazionale, che ne hanno confermato l’esito: quel denaro sottratto agli haitiani (alla costruzione di ospedali, fabbriche, scuole) corrisponde a una “mancata crescita” quantificabile con una forbice che va dai 21 ai 115 miliardi di dollari, circa otto volte il Pil del Paese caraibico. La stretta perversa del debito è durata oltre cento anni fino al 1957, sotto la dittatura di un dottore chiamato François Duvalier. Al centro della rete dei profittatori ci fu una grande banca francese, il Crédit Industriel et Commercial, che da una parte finanziava la costruzione della Tour Eiffel e dall’altra (scrive il Times) “strangolava” l’economia di Haiti. Dopo l’inchiesta, il C.I.C non ha fatto causa al giornale americano, ma ha promesso di fare luce sul ruolo assunto nella “colonizzazione finanziaria” del Paese oltre oceano.

Gli schiavisti di Wall Street

Nel 1915, ai francesi si sostituirono gli americani, con le banche di Wall Street che videro nella gestione di Haiti un grande affare, tanto che l’occupazione militare Usa durò dal 1915 per 19 anni. La National City Bank, futura Citigroup, negli Anni 20 ammise di avere avuto i più alti margini di rendita proprio dalla gestione del debito pubblico di Haiti, un posto incredibile dove, nelle parole del Segretario di Stato William Bryan, «c’erano negri che parlavano francese». Pensateci, quando sentite una brutta notizia che arriva da Haiti: l’unico Paese al mondo dove gli eredi degli schiavi hanno dovuto risarcire gli eredi degli schiavisti.

·        Quei razzisti come i cubani.

(ANSA-AFP il 25 settembre 2022) - Matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma anche maternità surrogata e filiazione allargata: oggi i cubani sono chiamati alle urne per un referendum su un nuovo Codice della Famiglia, un testo molto avanzato in termini di diritti sociali ma ancora oggetto di forti resistenze. Oltre otto milioni di cubani sono chiamati a rispondere sì o no a una sola domanda: "Sei d'accordo con il Codice della Famiglia?" I seggi saranno aperti dalle 7:00 alle 18:00 ora locale (dalle 9:00 alle 20 in Italia).

La nuova legge, che modifica profondamente il testo in vigore dal 1975, definisce il matrimonio come l'unione di "due persone", legalizzando il matrimonio omosessuale e l'adozione da parte di coppie dello stesso sesso. Oltre a rafforzare i diritti dei bambini, degli anziani e dei disabili, il codice introduce la possibilità di riconoscere legalmente più padri e madri, oltre ai genitori biologici, nonché la maternità surrogata senza fini di lucro. Molti di questi temi sono fortemente sentiti a Cuba, in una società ancora intrisa di maschilismo e il cui governo comunista ha ostracizzato gli omosessuali negli anni '60 e '70. Tuttavia, negli ultimi vent'anni, l'atteggiamento delle autorità nei confronti degli omosessuali è cambiato notevolmente e il governo ha svolto una intensa campagna per il "sì".

(ANSA il 26 settembre 2022) - Con quasi il 67% dei voti favorevoli, Cuba ha detto "Sì" alla riforma del Codice della Famiglia sottoposta ieri a referendum, che introduce nel Paese matrimoni e adozioni gay e la maternità surrogata, tra le novità. 

 Lo ha annunciato oggi la presidente del Consiglio elettorale nazionale (Cen), Alina Balseiro, secondo quanto riportato dall'agenzia statale Prensa Latina. Balseiro ha affermato che, sebbene il conteggio debba ancora concludersi in alcuni collegi di tre province, il Cen convalida questi risultati come "validi e irreversibili". (ANSA).

Riportando i dati preliminari sul referendum, il Cen ha riferito che hanno partecipato al voto 6.251.786 cubani, pari al 74.01% degli 8,4 milioni di elettori registrati. Il numero totale di schede valide è di 5.892.705, che rappresenta il 94,25%. A favore del "Sì" sono state contate 3.936.790 schede, pari al 66,87%. A favore del "No" sono andate 1.950.090 schede, pari al 33,13%. Con la vittoria del 'Sì' al referendum, risulta approvato il nuovo Codice della Famiglia cubano, che andrà a sostituire il precedente del 1975.

Il nuovo testo introduce il matrimonio tra persone dello stesso sesso e le adozioni per coppie omosessuali. Disciplina la maternità surrogata e porta novità nel contrasto alla violenza di genere, insieme al divieto del matrimonio infantile. Tra le novità, prevede inoltre il trasferimento della "responsabilità genitoriale" dei minori agli anziani, cosa fondamentale per l'isola, terra di emigrazione.

Forza Cuba. Lo strano caso dei 497 medici cubani assunti in Calabria (e sfruttati da L’Avana). Maurizio Stefanini su L'Inkista il 31 Agosto 2022.

Secondo la Human Rights Foundation, il regime di Cuba affitterebbe a governi stranieri i suoi dottori, riducendoli a una condizione di semi schiavitù lavorativa per confermare il ruolo dell’isola come potenza medica mondiale. Il personale sanitario calabrese ha presentato un ricorso al Tar per contestare la decisione del presidente berlusconiano di Regione Roberto Occhiuto di assumerli per coprire supposte carenze

È finita al Tar la storia dei 497 medici cubani che il presidente della Regione Calabria Roberto Occhiuto ha deciso di assumere a tempo determinato, dicendo che in pratica che medici locali non hanno voglia di lavorare. I medici locali, appunto, ribattono che è la Regione che non offre loro le condizioni, ma questo è solo un aspetto della polemica. Un altro è che Occhiuto è di Forza Italia, e fa un po’ effetto vedere un partito che da una parte ha fatto storicamente campagne elettorale sul pericolo comunista e poi ricorre invece ai servigi di un regime comunista, facendone pure gli elogi. 

Sono appena usciti due rapporti in cui si denuncia l’affitto di medici cubani a governi stranieri come una vera e propria forma di schiavitù, dove il regime incassa almeno i tre quarti degli emolumenti e lascia agli «schiavi» le briciole. In effetti, in Calabria su 4700 euro pagati dalla Regione ai medici ne andrebbero solo 1200.  

«Non vorremmo che, considerata la carenza di risorse, il dumping salariale facesse il suo ingresso anche nel settore medico», è la denuncia di Cimo-Fesmed. E se vogliamo c’è qui un quarto aspetto paradossale, con tanti estimatori ideologici del regime cubano proprio in opposizione a un “ordine mondiale neoliberale” che si baserebbe sullo sfruttamento dei lavoratori del Terzo Mondo apposta per demolire i diritti dei lavoratori del Primo.    

Il sindacato, cui aderiscono Anpo-Ascoti, Cimo, Cimop e Fesmed, rileva una quantità di punti contestabili nell’accordo con la società cubana incaricata di individuare i medici disponibili a lavorare in Calabria. Sia formali che sostanziali. 

Secondo Guido Quici, presidente della Federazione Cimo-Fesmed e vicepresidente della Cida, «l’utilizzo della procedura dell’accordo quadro per l’affidamento di prestazioni di somministrazione di manodopera è in generale vietato dalla legge se non per il tramite delle Agenzie a ciò autorizzate, e in ogni caso è vietato per l’esercizio di funzioni dirigenziali quali quelle che spettano ai medici. Inoltre la regione Calabria, prima di adottare una soluzione estemporanea come quella di rivolgersi a Cuba, ha del tutto ignorato la possibilità di assumere i medici specializzandi degli ultimi anni di formazione, come previsto dalla legge».

Ma la protesta aggiunge che «non può lasciare indifferenti quanto emerso in una recente pubblicazione della statunitense Fondazione per i diritti umani, che fa luce su un vero e proprio traffico di medici cubani nel mondo per confermare il ruolo dell’isola come potenza medica mondiale: secondo il rapporto, in 60 anni oltre 400.000 professionisti sanitari sarebbero stati costretti da Cuba a lavorare all’estero, trattenendo tra il 75% e il 91% del loro stipendio».

Il rapporto di Human Rights Foundation si occupa in effetti del modo in cui le missioni mediche cubane sono utilizzate «per esportare il marchio ingannevole della diplomazia medica dell’isola e promuovere il mito di Cuba come ’potenza medica mondiale». I 400.000 operatori sono stati schierati in 164 Paesi, e presentati come «missionari della Rivoluzione Cubana». Attualmente ce ne sono tra 34.000 e 50.000 professionisti in più di 60 paesi in Africa, America Latina, Europa e Medio Oriente, e dal marzo del 2020 con l’’occasione del Covid il numero e le dimensioni di queste missioni sono aumentate, con l’invio di oltre 2.770 operatori in più in 26 paesi. Una anche in Italia, di cui c’è il sospetto che Cuba ne abbia approfittato per procurarsi il materiale servito per preparare i suoi vaccini.

Il regime cubano presenta queste missioni come mostra di «solidarietà» e c’è in molti la percezione che siano gratuite, esattamente come quelle che dall’Occidente vengono mandate nel Terzo Mondo. Non solo però non è così. Con produzioni tradizionali come zucchero e tabacco che il regime comunista ha distrutto al punto da arrivare a minimi storici e con la fine dell’aiuto sovietico, già dall’inizio del nuovo millennio affittare medici era diventata una delle principali fonti di entrate del regime. Con la pandemia che ha pesantemente danneggiato il turismo e con Trump che ha pure reso più difficili le rimesse negli ultimi due anni era divenuta quasi l’unica. Nel 2021 sono stati stimati tra i 6 e gli 8 miliardi di dollari all’anno. 

Poiché a Cuba i medici guadagnano l’equivalente di 150-200 dollari al mese, entrare nei programmi fa sperare di incassare qualcosa di più. E l’’88,4% di ex-partecipanti a missioni che ha potuto dare una testimonianza ha confermato che era stato spinto dalla povertà. Ma a quel punto, ricorda il rapporto, il personale «affronta violazioni dei propri diritti alla libertà di associazione, alla libertà di movimento e alla libertà di espressione». 

Secondo i calcoli fatti da Hrf, in realtà poiché la gran parte dei Paesi in cui i medici vanno sono del Terzo Mondo con il 9-25% di uno stipendio da medico del Terzo Mondo finiscono per prendere anche meno che a Cuba: la media è sui 70-75 dollari. Ma ad esempio in Brasile, dove pure c’è stata una polemica, il 9,36% di stipendio loro riservato equivaleva a 400 dollari. Più del doppio che a Cuba. I 1200 euro calabresi sarebbero sei volte il loro stipendio massimo cubano.      

Ci sarebbe, ovvia la tentazione di restare nel Paese, per provare a guadagnare uno stipendio intero. Ma, appunto, qua il regime cubano si blinda in molti modi. Innanzitutto, quasi la metà degli stipendi dei medici è conservata in un conto bancario cubano a cui i medici non possono accedere se non al loro ritorno a Cuba, dopo aver completato la loro missione. 

Se i lavoratori «abbandonano» la missione, il regime dopo averli dichiarati «traditori del Paese» confisca la parte del salario trattenuta sull’isola, a parte far passare guai ai familiari. Non potranno inoltre tornare nell’isola in visita se non dopo otto anni, e non potranno esercitare all’estero, perché lo Stato cubano non rilascia permessi o documenti per convalidare il titolo, e anzi dal 2018 ha addirittura vietato la legalizzazione di documenti accademici o di altro tipo per gli operatori sanitari che prestano servizio in missione o partecipano a eventi internazionali. In più il passaporto normale è sostituito da un passaporto speciale che impedisce di viaggiare in luoghi diversi da Cuba, e non viene consentita la residenza permanente nel Paese ospitante attraverso il matrimonio.

Ci sono state poi polemiche ulteriori sulla preparazione. In Venezuela, dove il regime ha pagato i medici cubani in barili di petrolio, c’è una diffusa lamentela sul fatto che in realtà la maggior parte di loro in realtà fossero semplici tecnici sanitari. Anche la Ong Prisoners Defenders ha appena presentato una denuncia secondo la quale i 600 membri della missione medica arrivata in Messico per assistere contro la pandemia erano in realtà militari, proprio per evitare il rischio di diserzioni. Prima di partire avrebbero solo ricevuto un corso intensivo di tre giorni che è poi risultato obsoleto, perchè non li metteva in grado di gestire i respiratori artificiali degli ospedali messicani. In questo caso il governo messicano avrebbe pagato 10.700 dollari per ogni membro della missione, che però ne ha ricevuti solo 600.    

Tornando al ricorso della Federazione Cimo-Fesmed, secondo Quici «il ricorso ad enti esterni per il reclutamento di medici crea una concorrenza sleale nel mercato del lavoro che va combattuta senza se e senza ma in tutta Italia, e mi auguro che alla lotta intrapresa dalla Federazione Cimo-Fesmed si uniscano presto altre associazioni di settore». 

«Se da una parte i medici delle cooperative vengono pagati anche cinque volte di più rispetto a un medico dipendente del Servizio sanitario nazionale, attirando sempre più professionisti che preferiscono non partecipare ai concorsi pubblici, ai medici stranieri che vengono in Italia, come nel caso dei colleghi cubani, vengono riconosciute retribuzioni inferiori rispetto alla media». Insomma, per la Cimo-Fesmed «l’unico modo per risolvere il problema della carenza di medici è formare nuovi professionisti e bandire concorsi per assumerli stabilmente all’interno del Servizio sanitario nazionale. I concorsi devono essere l’unica porta d’ingresso nel Sistema sanitario nazionale».

È morto Camilo Guevara, il secondo figlio del Che. La Repubblica il 30 Agosto 2022. 

È morto Camilo Guevara March, figlio secondogenito del rivoluzionario e guerrigliero Ernesto 'Che' Guevara. Lo ha annunciato il presidente cubano Miguel Díaz-Canel su Twitter.

"Con profondo dolore diciamo addio a Camilo, figlio del Che e promotore delle sue idee in qualità di direttore del Centro studi Che Guevara, che conserva parte della straordinaria eredità del padre. Un abbraccio alla madre, Aleida, alla vedova e alle figlie e all'intera famiglia Guevara March", si legge nel messaggio.

Secondo quanto confermato da fonti diplomatiche, Camilo Guevara March è deceduto ieri nella capitale venezuelana Caracas "a seguito di una tromboembolia polmonare che ha portato a un infarto", riporta l'agenzia di stampa statale cubana Prensa Latina. Aveva 60 anni.

Laureato in Diritto del Lavoro, lavorava come direttore del progetto del Centro Studi Che Guevara a L'Avana, istituzione incaricata di promuovere la conoscenza del pensiero, della vita e del lavoro del padre.

È morto Camilo Guevara, il secondo figlio del Che. Daniele Mastrogiacomo su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

La scomparsa, improvvisa, a Caracas per un infarto. Era il direttore del "Centro studi Che Guevara" all'Avana, un'istituzione che conserva l'eredità culturale del guerrigliero.

Una trombosi che gli ha fermato il cuore. È morto così Camilo Guevara March, quarto dei cinque figli di Ernesto “Che” Guevara che il mitico rivoluzionario aveva avuto dalla sua seconda moglie, Aleida March. Camilo era ancora giovane, aveva 60 anni e al momento del decesso si trovava a Caracas con cui faceva la spola da Cuba nel suo incessante lavoro di direttore del Centro Studi Che Guevara all’Avana.

Da tg24.sky.it il 30 Agosto 2022.

Camilo Guevara March, figlio secondogenito del rivoluzionario e guerrigliero argentino Ernesto 'Che' Guevara, è morto. Aveva 60 anni. Lo ha annunciato il presidente cubano Miguel Diaz-Canel con un post su Twitter.  Camilo era nato dalla seconda moglie del Che, Aleida March. 

Il decesso è avvenuto in Venezuela, a Caracas, per una crisi cardiaca "a seguito di una tromboembolia polmonare che ha portato a un infarto", riporta l'agenzia di stampa statale cubana Prensa Latina. 

Laureato in Diritto del Lavoro, era come direttore del progetto del Centro Studi Che Guevara a L'Avana, istituzione incaricata di promuovere la conoscenza del pensiero, della vita e del lavoro del padre. 

"Con profonda tristezza, diciamo arrivederci a Camillo", ha dichiarato il presidente cubano, sottolineando che il secondogenito del Che era "promotore delle sue idee in qualità di direttore del Centro Che, che conserva parte della straordinaria eredità del padre. Un abbraccio alla madre, Aleida, alla vedova e alle figlie e all'intera famiglia Guevara March".

Giraldo Cordova Cardin, il pugile guerrigliero. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud il 29 agosto 2022.

GIRALDO Cordova Cardin non si presentò la sera del 25 luglio 1953 all’arena Rafael Trejo dell’Avana, a Cuba, dove avrebbe dovuto combattere contro Julito Rojo nel torneo pugilistico chiamato “Guantes de oro”. Giraldo aveva 22 anni, aveva vinto tutti i cinque incontri disputati fin lì, era il favorito, forse il pugile più atteso della serata, ma non si presentò. Aveva altro da fare. Fu dichiarato sconfitto, e quella fu l’unica sconfitta nella sua carriera nella boxe.

Non combatté più, giacché l’ultimo suo combattimento, nel quale soccombette per sempre, lo effettuò quella notte stessa nell’assalto alla Caserma Moncada. Giraldo era un bravo ragazzo: stava con Fidel e con Che Guevara. Da bambino era poverissimo: aveva smesso di studiare presto, ma non aveva smesso di leggere. Aveva quasi imparato a memoria tutti gli scritti di Josè Marti (il nome intero José Julian Marti Perez), l’eroe dell’indipendenza di Cuba che era anche poeta. Alcuni suoi versi della raccolta “Versos sencillos” hanno costituito la base della popolarissima “Guantamanera”, una delle melodie caraibiche più conosciute ed eseguite: “Sono un uomo sincero/ Di dove cresce la palma/ E prima di morire voglio/ Far uscire i versi dalla mia anima./ Il mio verso è di un verde chiaro/ E di un color rosso acceso,/ Il mio verso è un cervo ferito,/ Che sul monte cerca riparo./ Coltivo la rosa bianca/ In giugno come in gennaio/ Per l’amico sincero/ Che mi dà la sua mano franca./ E per il crudele che mi strappa/ Il cuore con cui vivo/ Non coltivo né cardi né ortiche:/ Coltivo la rosa bianca./ Io conosco un dispiacere profondo/ Tra le pene senza nome:/ La schiavitù degli uomini/ E‘ la grande pena del mondo./ Con i poveri della terra/ Voglio dividere la mia sorte,/ Il ruscello della montagna/ Mi piace più del mare“, recita una bella traduzione.

A 12 anni, povero in canna, Giraldo già lavorava: alla raffineria di petrolio dell’Avana, la Fontecha; poi iniziò a dare una mano al commercio ambulante di suo padre Lazaro. Ma non abbandonò né la danza, né la musica, né la lettura, né la boxe, le passioni cubane. Non abbandonò nemmeno lo spirito di giustizia (qualcuno dirà di ribellione) che lo spinse un paio di volte ad affrontare a muso duro e pugni chiusi i poliziotti cubani quando gli sembrava che la facessero troppo grossa. Come quella volta che ne atterrò uno perché stava maltrattando un ragazzo chissà perché, o quell’altra che affrontò per la strada. L’agente in questione, in una serata al pub, era andato al bagno, lo aveva trovato occupato e, mezzo brillo e ancor di più arrogante, aveva cominciato a dare in escandescenze, era uscito dal locale e, in mezzo alla strada e tra i passanti, aveva tirato fuori il membro e cominciato a pisciare. Gilardo era andato a dirgli la sua e quello aveva tirato fuori anche la pistola; Gilardo non s’era fermato, la folla aveva cominciato un mormorio sinistro per il poliziotto che rinfoderò pistola e resto e batté in ritirata.

La svolta decisiva nella vita del pugile avvenne il 10 marzo 1952, il giorno in cui Fulgencio Batista, che da sergente si era promosso immediatamente generale in un riuscito golpe nel 1944, ne organizzò un altro, con l’appoggio della CIA, e riprese il potere all’Avana, liquidando in un amen il governo costituzionale di Carlos Prio Socarràs. Questo governo “convocò“ i possibili difensori della democrazia all’Università dell’Avana, dove, promise, “troverete le armi“. Tra gli studenti ben disposti s’era intrufolato anche Gilardo, ma le armi non arrivarono mai. Però la miccia del rivoluzionario era accesa.

Il pugile iniziò a frequentare regolarmente la Juventud Ortodoxa di via del Prado e divenne uno dei fedeli di Fidel. La cellula di appartenenza era quella di Fernando Chenard. Gilardo era tra i più assidui nell’addestramento alla guerriglia, che fosse dentro l’Università, o in una cava di Camito, o in una fattoria di Artemisa. Ballava, cantava, leggeva, tirava di boxe e s’addestrava. La mattina del 25 luglio 1953 partì per Santiago di Cuba, disse al padre Lazaro: “Vado a cercarmi un lavoro, così staremo meglio; farò in tempo a tornare per il torneo“. Il vecchio sorrise: non sapeva. Gilardo arrivò a destinazione, non cercò il lavoro ma i compagni. Domani assaliremo la Caserma Moncada, gli dissero. Lo fecero. Erano le 5,15 del 26 luglio, il match di boxe era già perduto, quando il pugile non più imbattuto, con addosso una divisa dell‘esercito cubano per confondere il nemico da assalire, salì su un mezzo di una colonna di rivoluzionari che si diressero alla Caserma Moncada. I soldati in caserma erano 400 e avevano mitragliatrici e fucili ipermoderni; i guerriglieri non arrivavano a 100 e l’armamento era modesto ed antiquato, tranne che nel cuore. Persero gli uomini di Fidel, vinsero quelli di Batista, per quella volta. Caddero, fra uccisi in azione e catturati e successivamente torturati e uccisi, in 61 possibili “barbudos“ del domani vittorioso.

Gilardo Cordova Cardin era tra i catturati, torturati, uccisi. Non ebbe i guanti d’oro, ma l’aureola del martire. Fidel Castro fu “solo“ catturato. Al pugile hanno dedicato una poesia di anonimo: “Giraldo Córdova/ candidato al titolo/ per le sue rapide mani/ per il suo colpo che poteva/ lasciare una leggenda d’ossa rotte,/ per l’ansioso danzare/ delle sue gambe, perfetto/ il gioco sciolto delle sue spalle/ solo subì una sconfitta/ per non presentazione/ per il resto il suo braccio tira sempre/ un jab definitivo al tronco…/ Nel suo ultimo incontro/ il popolo rimase ad aspettare/ e incitò e tifò con gioia/ per quella mancanza di rispetto/ mentre Giraldo lanciava/ montanti al viso/ della morte/ nel suo corpo a corpo/ alla caserma Moncada/ uomini di un unico ideale:/ la Libertà dei propri pari./ Non patirono/ più quella sete e a essa/ consacrarono la propria vita./ Furono cultori di un fiore,/ da cui uscì/ una nuova stella, la stella/ solitaria”.

Sergio Arcobelli per “Il Giornale” il 6 aprile 2022.

Una Rivoluzione presa a pugni. Dopo 60 anni di "proibizionismo", Cuba riaprirà ufficialmente le porte alla boxe professionistica. Sei dei migliori pugili olimpici dell'isola debutteranno infatti fra i pro' in Messico, da maggio, grazie a un accordo con Golden Ring Promotions. Sessant' anni dopo, dunque, Cuba rinnega quanto profetizzò Fidel Castro nel 1962 quando decise di bandire il denaro dallo sport «trasformando gli atleti in semplice mercanzia».

La decisione di ieri fa ripensare alla scelta di Teofilo Stevenson che per sostenere la causa rivoluzionaria si rifiutò di sfidare sul ring Muhammad Ali con una borsa milionaria. «Cosa sono cinque milioni di dollari rispetto all'amore di otto milioni di cubani?». Nel 2022 non è più così. Sì perché in un periodo di crisi nera che sta travolgendo Cuba, tra la pandemia e un'economia a pezzi, le casse dello Stato sono vuote.

Per evitare di continuare a perdere pugili che fuggono in cerca di fortuna all'estero, così come atleti di altre discipline quali baseball, pallavolo e atletica, il professionismo potrebbe consentire al ministero dello sport (Inder) di incassare cifre mai viste prima. Infatti, il ring è stata fin qui una miniera d'oro per l'Isola rossa, che ha conquistato 41 ori alle Olimpiadi e 80 titoli mondiali: nessuno vanta tante medaglie nel pugilato come Cuba.

«Sono tre anni e mezzo che lavoriamo a un contratto», ha spiegato alla tv di Stato il presidente della Federazione nazionale, Alberto Puig, aggiungendo che quattro cubani hanno già firmato contratti quadriennali. «È un privilegio aver raggiunto questo storico accordo con le autorità sportive cubane, che segnerà un prima e un dopo nel pugilato», ha affermato invece Gerardo Saldivar, presidente di Golden Ring Promotions.

A dire il vero, nel 2014 c'era stata una semi apertura con la WSB, le World Series of Boxing, che avevano permesso a Cuba di partecipare a match semi-professionistici: i `Domatori di Cuba' vinsero tre delle cinque edizioni, l'ultima delle quali nel 2018. «Partecipare ai campionati pro' aumenterà il nostro livello di competizione, perché affronteremo pugili di alto livello come noi e questo ci permetterà di rimanere nell'élite della boxe», ha commentato Julio César La Cruz, due ori olimpici fra Rio e Tokyo.

E a proposito di Giochi, l'annuncio dell'apertura del professionismo di Cuba arriva proprio mentre il futuro della boxe alle Olimpiadi sembra incerto, con il presidente del Cio, Thomas Bach, che a dicembre ha fatto capire che la nobile arte rischia di rimanere fuori da Los Angeles 2028, a causa dei numerosi scandali arbitrali. «La mafia olimpica ha rubato ori a Cuba», si lamentava Castro nel 2008 quando il dominio cubano non fu più totale in ogni categoria. Chissà cosa avrebbe detto oggi: «La boxe non è più quella di Fidel».

Mongoose, terrore a Cuba. Emanuel Pietrobon il 14 Agosto 2022 su Inside Over. 

Psicologia, chi la conosce e la sa maneggiare ha le chiavi del cervello dell’Uomo. Non è un caso che i servizi segreti e le forze armate delle potenze più lungimiranti, del passato e del presente, abbiano avuto e abbiano degli interi dipartimenti dedicati alle cosiddette operazioni psicologiche (psyops).

Conoscere la mente umana equivale a poterla dominare. Dominarla significa convertire gli umani in automi, trasformare i loro spettri in poltergeist e i loro incubi in realtà. Non deve stupire, dunque, che alcune delle operazioni sovversive più di successo della storia recente abbiano avuto un lato psicologico piuttosto pronunciato – Ajax in Iran, PBSUCCESS in Guatemala, la detronizzazione di Salvador Allende in Cile.

I casi studio di Iran, Guatemala e Cile comprovano qualcosa: nessuno più degli Stati Uniti ha saputo militarizzare meglio la psicologia, una disciplina che, se adeguatamente utilizzata, può permettere a strateghi e ingegneri sociali di creare le condizioni per colpi di stato e guerre civili nei paesi più variegati e nei contesti storici, sociali ed economici più differenti. Edward Bernays insegna.

Cuba, spina nel fianco degli Stati Uniti dal lontano 1959, vanta un incredibile record di resistenza alle psyops. Psyops fallite a causa dell’avarizia degli Stati Uniti, che, accecati dalla fame di cambio di regime, nello stato insulare hanno a lungo dimenticato due delle regole più importanti della guerra: conosci il tuo nemico, studia il terreno di scontro. Due regole che, se valorizzate, avrebbero permesso agli Stati Uniti di evitare i fallimenti della baia dei Porci e della terrificante operazione Mongoose.

Il contesto storico

Cuba, la stella dei Caraibi, si era allontanata dall’orbita degli Stati Uniti nel 1959, anno della Rivoluzione e della fuga di Fulgencio Batista, e nel 1961, cioè in occasione dello sbarco fallimentare nella baia dei Porci, ne aveva deturpato gravemente l’immagine a livello internazionale.

La débâcle era costata un prezzo enorme agli Stati Uniti in termini di credibilità e reputazione, ma non ne avrebbe in nessun modo fermato l’agenda per Cuba. Che, in quanto localizzata a pochi chilometri da Florida, andava riportata nella sfera di influenza a stelle e strisce ad ogni costo.

Fu nel contesto della ricerca di una soluzione non militare alla “questione cubana” che nella navescuola di Langley, casa della Central Intelligence Agency, qualcuno pensò che fosse giunto il momento di ivi applicare un’arma collaudata con successo tra Iran e Guatemala qualche anno prima: la psicologia.

Il nuovo piano anti-Castro avrebbe assunto il nome di operazione Mongoose e nacque con un obiettivo: creare un clima rovente, da colpo di stato e da guerra civile, per mezzo di attentati, omicidi, incidenti e psyops. A portare avanti le gesta sarebbe stato un insieme di cellule, alcune composte da ufficiali statunitensi e altre formate da agenti provocatori, empi ma utili alleati – come i gangster di Cosa nostra americana – e quinte colonne – l’opposizione anticastrista.

La Casa Bianca, se interrogata su quella strana ed efferata catena di delitti, si sarebbe riparata dietro lo scudo della negazione plausibile. Un piano perfetto, almeno sulla carta.

La pianificazione

L’operazione Mongoose fu autorizzata dalla presidenza Kennedy nel novembre 1961, attingendo ed ispirandosi ad un precedente piano in tre punti formulato dall’amministrazione Eisenhower nel 1960.

Il predecessore di JFK aveva immaginato di rovesciare Castro facendo leva su tre elementi: un’offensiva propagandistica su larga scala, un movimento armato composto da esuli, mercenari e quinte colonne, terrorismo. Stazioni radiofoniche operanti in Florida avrebbero dovuto raggiungere la popolazione cubana e stimolare la resistenza, che si riteneva ampia ma silenziata dalla repressione governativa – convinzione poi smentita dallo sbarco nella baia dei Porci. Un’armata finanziata e addestrata dagli Stati Uniti, il Fronte Rivoluzionario Democratico, avrebbe dovuto combattere il regime rivoluzionario. Il terrorismo come detonatore.

Il piano di Eisenhower, dopo un anno nel limbo, fu recuperato dal dimenticatoio all’indomani del clamoroso insuccesso sperimentato dagli Stati Uniti nella baia dei Porci. JFK era convinto, infatti, che la Casa Bianca avrebbe dovuto trovare una soluzione non militare e poco chiassosa al problema cubano, anche per non danneggiare ulteriormente la già sfigurata immagine della potenza-guida del Mondo libero.

Gli psico-strateghi della CIA avevano elaborato un piano all’apparenza perfetto, basato sulla conduzione di attentati, sabotaggi, omicidi e false flag sceneggiati e messi in atto in maniera tale da persuadere l’opinione pubblica cubana che esistesse una resistenza ampia al regime rivoluzionario e che fosse in corso una guerra civile.

Coerentemente con l’obiettivo di cui sopra, la CIA preparò un elenco di pregiati obiettivi militari, politici e simbolici da colpire, tra i quali le basi di Batabanó e Nueva Gerona, e di individui di alto profilo da eliminare, tra i quali lo stesso Fidel Castro.

In azione

Alcuni dei più grandi esperti di operazioni irregolari e asimmetriche dell’epoca furono chiamati a scrivere la sceneggiatura e la messinscena di Mongoose, tra i quali Edward Lansdale – con esperienza tra Filippine e Vietnam – e William King Harvey – soprannominato eloquentemente il James Bond americano.

La linea d’azione che avrebbero dovuto seguire gli agenti di Mongoose era chiara: creare incidenti apparentemente scollegati tra loro e compiere omicidi e sabotaggi in grado di gettare nel panico tanto la popolazione quanto il governo. Obiettivo: la diffusione di uno sconforto e di un’insicurezza tali da incoraggiare la società a chiedere, invocare e supportare un cambio di regime.

Le diverse cellule avrebbero agito in autonomia l’una dall’altra, dedicandosi a mansioni e missioni di natura diversa – dal rogo di campi di canna da zucchero al minamento di infrastrutture strategiche – e, spesso, rimanendo nell’ignoranza circa l’esistenza degli altri partecipanti.

Cosa nostra americana, tra le grandi vittime della caduta di Batista, accettò volentieri l’invito estesole dalla CIA. In palio, del resto, v’era la possibilità di riappropriarsi del patrimonio perduto con la Rivoluzione cubana. E siccome gli strateghi di Langley avevano intenzioni serie, avvicinarono il gangster più adatto al ruolo di generale di Mongoose: John Roselli, esponente di spicco dei Chicago Outfit e tra i costruttori di Hollywood e Las Vegas.

Roselli introdusse nella CIA due dei padroni di Miami, Sam Giancana e Santo Trafficante Jr, perché utili nel reclutamento di esuli cubani, nella raccolta di armi e nella possibile eliminazione di Castro. La storia del loro coinvolgimento è stata svelata dai cosiddetti Family Jewels nel 2007.

I primi nove mesi del 1962 sarebbero stati vissuti effettivamente con ansia da Castro, tanto che la storiografia ritiene che l’intervento sovietico nell’isola sia stato in parte motivato dalla paura che una guerra civile, o qualcosa di simile, fosse sul punto di scoppiare: sparatorie tra banditi apparsi dal nulla e forze dell’ordine, assalti a furgoni merci, campi dati alle fiamme, sabotaggi a depositi petroliferi, ferrovie e centrali elettriche.

La speranza-aspettativa della CIA era che Mongoose potesse culminare in un’insurrezione civile, genuina e su larga scala, entro ottobre dello stesso anno. Ma quel mese, invece, avrebbe avuto luogo la crisi dei missili.

Le lezioni di Mongoose

Mongoose fallì per lo stesso motivo alla base dell’insuccesso dello sbarco nella baia dei Porci: la scarsa aderenza alla realtà. I cubani erano più che felici dello status quo, e cioè di vivere sotto un regime comunista, e lo avevano già dimostrato nell’aprile 1961.

Una delle regole basilari dell’arte della sovversione vuole che esista un bacino di consenso di rilievo nel teatro da destabilizzare, pena un’elevata probabilità di fallimento dell’operazione. Perché se è vero che le condizioni per un colpo di stato o una guerra civile si possono anche creare, lo è altrettanto che è illogico attendersi un risultato positivo ad un solo anno di distanza da una débâcle che ha evidenziato un vasto appoggio popolare per il governo in carica.

Mongoose non ebbe successo perché nelle stanze dei bottoni degli Stati Uniti, accecati dalla paura rossa, nessuno credeva che potesse esistere un regime comunista basato sul consenso. Ma la storia avrebbe dato torto a questa errata convinzione più volte: dalla pervicace resistenza dell’ordine castrista all’elezione di Allende.

La stessa CIA, nel marzo 1962, aveva deciso di ignorare un rapporto di intelligence formulato a partire dalla raccolta di informazioni raccolte da quinte colonne a L’Avana: la popolazione cubana era divisa tra fermi sostenitori di Castro e apatici adattatisi, volenti o nolenti, alla realtà rivoluzionaria. Una rivolta interna veniva ritenuta improbabile. Ciononostante, secondo la Commissione Church, Mongoose sarebbe continuata fino agli anni Settanta. Un perseverare costato al contribuente americano circa 50 milioni di dollari l’anno e terminato in un nulla di fatto: Castro è morto nel suo letto, alla veneranda età di novant’anni, il 25 novembre 2016.

Dacci ancora un minuto del tuo tempo!

Se l’articolo che hai appena letto ti è piaciuto, domandati: se non l’avessi letto qui, avrei potuto leggerlo altrove? Se non ci fosse InsideOver, quante guerre dimenticate dai media rimarrebbero tali? Quante riflessioni sul mondo che ti circonda non potresti fare? Lavoriamo tutti i giorni per fornirti reportage e approfondimenti di qualità in maniera totalmente gratuita. Ma il tipo di giornalismo che facciamo è tutt’altro che “a buon mercato”. Se pensi che valga la pena di incoraggiarci e sostenerci, fallo ora.

·        Quei razzisti come i cileni.

Carri armati in Cile, l’ora della repressione. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Settembre 2022.

«Repressione spietata»: queste le notizie che giungono dal Cile, pubblicate su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 18 settembre 1973. È trascorsa meno di una settimana dal colpo di Stato che ha deposto violentemente Salvador Allende, il primo presidente socialista del Cile, democraticamente eletto soltanto tre anni prima. In prima pagina sul quotidiano compare la foto della vedova del Presidente cileno, che ha ottenuto asilo politico in Messico.

L’11 settembre 1973 i carri armati del generale Augusto Pinochet circondano La Moneda, il palazzo presidenziale, a Santiago. I golpisti chiedono le dimissioni di Allende e l’evacuazione dell’edificio. Alla pretese di Pinochet, il socialista risponde con un tragico e memorabile discorso: «Non mi dimetterò. Pagherò con la mia vita la lealtà del popolo».

Alle 13.45 i golpisti assaltano l’edificio: Allende, rimasto asserragliato nel Palazzo fino all’ultimo minuto, si toglie infine la vita. Il potere è assunto da una giunta militare, presieduta dal generale Pinochet, che sospende la Costituzione, scioglie il Congresso e proibisce ogni attività politica.

«Nuclei di resistenza continuano in Cile, soprattutto nei sobborghi di Santiago, dove gli operai occupano ancora piccole fabbriche», si legge sulla Gazzetta. Il giornalista dell’Associated Press Robert Ohman racconta che la giunta militare di governo, che ha bloccato tutte le fonti di informazione, ha ammesso che la resistenza armata continua, ma ha minimizzato gli episodi.

«Fonti autorevoli assicurano che continuano le fucilazioni sommarie di tutti i contravventori alla “legge di ferro” imposta dal quadrumvirato capeggiato dal generale Augusto Pinochet. Le pattuglie, che continuano numerose a perlustrare giorno e notte le vie di Santiago, hanno l’ordine di sparare a vista, contro qualsiasi persona che abbia una condotta sospetta».

Il Cile vivrà sotto il regime violento di Pinochet per quasi 17 anni: nel sangue sarà repressa ogni forma di opposizione e verrà instaurata una politica economica neo-liberista, che vanificherà i precedenti tentativi di riforma del governo di Unidad popular.

«È assolutamente impossibile fare un primo bilancio di questa sanguinosa tragedia cilena, sapere quante persone siano state passate per le armi. Come non è possibile azzardare una ipotesi sul numero generale delle vittime. La dichiarazione del generale Pinochet, fatta ad una radio europea, secondo la quale i morti non supererebbero il centinaio, ha fatto ridere amaramente i cileni. Una valutazione che potrebbe avvicinarsi alla realtà parla di circa cinquemila morti».

AL REFERENDUM VINCONO I “NO”. Il Cile boccia la nuova costituzione progressista. SUSANNA DE GUIO su Il Domani il 05 settembre 2022

Il 62 per cento degli elettori ha votato contro un documento che se fosse stato approvato sarebbe stato uno dei più radicali dell’America latina. Il governo di sinistra guidato dal presidente Gabriel Boric ha annunciato che presenterà un nuovo testo

Il Cile ha rifiutato la nuova costituzione che andava a plebiscito questa domenica 4 settembre. Con 62 per cento di voti contrari e 38 per cento a favore, il risultato ha dato chiaramente uno stop alla possibilità di cambiare il testo costituzionale tuttora vigente, approvato nel 1980, durante la dittatura di Pinochet.

Resta in vigore quella costituzione che, sebbene sia stata riformata in diverse occasioni dal ritorno alla democrazia, è stata contestata nelle piazze di tutto il Paese durante una rivolta sociale inedita esplosa nell’ottobre 2019 per rivendicare condizioni di vita migliori, l’accesso alla salute e all’educazione, un sistema di pensioni pubblico, la de-privatizzazione di beni comuni come l’acqua. È da queste enormi proteste che è partita la spinta per un processo costituente che, dopo quasi tre anni di gestazione, viene rigettato indietro con un duro colpo.

UNA COSTITUZIONE PROGRESSISTA

«Con questa costituzione pochi imprenditori si portano via tutta la ricchezza, con la nuova si ridistribuisce», spiegava Renato dopo aver votato, appena fuori dallo Stadio Nazionale, un luogo simbolico per la memoria storica della città di Santiago, poiché è stato carcere e centro di tortura durante la dittatura civico militare di Pinochet e in queste elezioni ha riaperto i battenti come seggio elettorale.

Si riferisce al modello neoliberista su cui si è costruito il Cile degli ultimi quarant’anni e che la costituzione elaborata da Jaime Guzmán, braccio destro del dittatore e volto noto dei Chicago Boys, ha facilitato nel suo sviluppo più radicale: secondo uno studio della Cepal di febbraio il Cile è il paese dell’America Latina in cui l’élite ricca concentra il patrimonio più alto. Solo nove persone accumulano il 16 per cento del prodotto interno lordo del Paese. Il World Inequality Report del 2022 segnala che l’1 per cento più ricco in Cile concentra il 49,6% della ricchezza totale del Paese.

Nella nuova costituzione, lo Stato avrebbe abbandonato il suo ruolo sussidiario per diventare uno «Stato sociale e democratico di diritto» che avrebbe garantito un ampio ventaglio di diritti politici, sociali, culturali, oltre a includere gli standard internazionali in materia di diritti umani.

LA CAMPAGNA PER IL NO

Fuori dal seggio, Daniel crede invece che la nuova costituzione sia stata scritta male: «Per me il lavoro della Convenzione è stato un circo di pagliacci, sono andati sul versante del comunismo». Come lui, in tanti pensano che sia necessaria una nuova costituzione, ma non quella che è stata scritta e sottoposta a plebiscito.

Questa è stata anche una delle parole d’ordine su cui si è concentrata la campagna del “rifiuto” del nuovo testo costituzionale, che ha fatto leva sul lemma del “rifiuto con amore.”

C’è stata una precisa strategia mediatica anche sui social secondo Pedro Santander, direttore del gruppo di ricerca Demoscopía Electronica del Espacio Público (DEEP), dell’Universidad Católica di Valparaiso, dove i volti più noti sia della destra tradizionale che della più estrema sono spariti per lasciare che assumessero la leadership utenti anonimi della rete, mentre sulla stampa, in tv e in radio apparivano soprattutto i politici della Democrazia Cristiana che si sono allontanati dalla linea del partito – schierata per l’approvazione - e di altri partiti di centro.

L’idea era di diluire il volto più pinochettista della campagna del rifiuto, e renderla una campagna cittadina, dove si potesse identificare una gran fetta di popolazione, e soprattutto quella che normalmente non va a votare. In un Paese dove l’affluenza alle urne è generalmente molto bassa, sotto il 50 per cento, per la prima volta dopo 10 anni il voto è tornato ad essere obbligatorio, e la difficoltà dei politologi nell’interpretare la scelta che avrebbe fatto questa componente dell’elettorato ha reso poco prevedere il risultato elettorale fino all’ultimo.

Quel che invece si vedeva chiaramente da mesi era il meticoloso lavoro portato avanti dalla destra per creare un clima politico avverso alla Convenzione, attraverso numerosi strumenti. I mezzi di comunicazione in Cile sono sostanzialmente un duopolio, e hanno riprodotto costantemente una linea editoriale affine al rifiuto, arrivando a dare voce alle numerose fake news che hanno punteggiato l’intero lavoro della Convenzione, richiamando perfino l’attenzione di cinque deputati democratici statunitensi, che hanno rivolto un appello ai CEO dei principali social network esprimendo preoccupazione per il livello di disinformazione che hanno lasciato circolare.

UN NUOVO TENTATIVO?

Per la prima volta in Cile, la costituzione è stata il risultato di un processo partecipativo e democratico, per la prima volta nel mondo è stata scritta con parità di genere e con seggi riservati per i popoli originari. Ma non è questo il cammino che hanno scelto i cileni e le cilene al voto.

Il presidente Gabriel Boric aveva già dichiarato da tempo che, qualsiasi fosse stato il risultato elettorale, avrebbe seguito il mandato del popolo cileno espresso con la prima votazione dell’ottobre 2020 quando un primo plebiscito determinava la volontà di cambiare la costituzione con il 78 per cento delle preferenze. Dopo il risultato del plebiscito, ha parlato al paese valorizzando la partecipazione al voto e confermando l’impegno «a costruire con il Congresso e la società civile un nuovo itinerario costituente che ci dia un testo che riesca a interpretare la grande maggioranza».

Il primo gesto di Boric, appena eletto presidente a marzo, era stato proprio visitare la Convenzione, che stava lavorando alla nuova costituzione, e il legame di questo governo con il processo costituzionale viene da più lontano, poiché Boric è stato uno dei principali artefici dell’Accordo per la Pace sociale e la nuova costituzione, firmato da un ampio ventaglio di forze politiche il 15 novembre 2019, che in quel momento cercava di canalizzare le proteste e riportare il Paese all’ordine. Per queste ragioni, il governo ha speso molte energie nel proteggere questo percorso ma il suo capitale politico, già consumato nei primi mesi di governo, non ha aiutato il voto.

D’altro canto, una forza politica di rilievo in questo processo costituente come quella femminista della Coordinadora 8M ha riconosciuto la sconfitta e dichiarato allo stesso tempo che continuerà a lavorare per una nuova costituzione che il popolo cileno ha rivendicato nelle piazze e nelle urne durante gli ultimi anni, perché «non c’è modo di fermare il fiume quando corre nel suo letto».

Perché il Cile ha detto “no” alla Costituzione “woke”. Roberto Vivaldelli il 6 Settembre 2022 su Inside Over.

Il governo cileno affronta le ripercussioni del voto di domenica scorsa. Il presidente cileno Gabriel Boric, infatti, ha annunciato cambiamenti nella composizione del suo governo, dopo il rigetto da parte degli elettori della bozza di nuova Costituzione nel referendum svoltosi domenica. In un discorso pronunciato a reti unificate dal palazzo della Moneda, una volta appreso dell’ampio rigetto della bozza di nuova Costituzione (61,86% per rechazò e 38,14% per apruebò), il capo dello Stato ha affermato che il messaggio del popolo cileno è stato di “insoddisfazione per la proposta che l’Assemblea costituente ha presentato al Cile”, nelle dichiarazioni riportate dall’agenzia Ansa.

Secondo molti osservatori, fino a pochi mesi fa c’era in Cile un sostegno schiacciante per l’abolizione dell’attuale costituzione, imposta nel 1980 dal dittatore Augusto Pinochet, considerata dalla maggior parte dei cileni come illegittima e causa della netta disuguaglianza economica che vive il Paese. Infatti, le richieste di una nuova costituzione erano emerse durante le grandi proteste che hanno infiammato il Paese nell’ottobre 2019, quando milioni di cileni sono scesi in piazza per marciare contro l’aumento del costo della vita. Nell’ottobre 2020, i cileni votarono per il 79% a favore di una nuova Costituzione che sostituisse la precedente di Pinochet.

Una costituzione troppo “woke”

I dati parlano chiaro. Come sottolinea l’Ispi, infatti, il Cile è uno dei paesi più diseguali del mondo, dove l’1% della popolazione detiene il 26,5% della ricchezza, e il 50% più povero solo il 2%. Ciò è il frutto di un regime fiscale regressivo, in base al quale tutti pagano poche tasse, senza alcuna distinzione tra l’1% e il resto della popolazione. Che cosa ha portato la maggioranza dei cileni, dunque, a rigettare la bozza della nuova Costituzione e a mantenere quella di Pinochet dopo le proteste di appena tre anni fa? Uno dei fattori è sicuramente l’eccessiva influenza dell’ideologia “woke” e ultra-progressista di matrice statunitense-anglosassone nella bozza bocciata dagli elettori. Ideologia che evidentemente fa fatica ad attecchire in un Paese dove la religione e il cattolicesimo, in particolare, continuano a rappresentare una forza trainante e dominante della società.

La bozza è stata redatta da un’assemblea marcatamente spostata a sinistra, fortemente influenzata dai liberal statunitensi in tema di diritti Lgbt e politiche identitarie. Il documento, diviso in 388 articoli, pone infatti l’accento sulle questioni sociali e sulla parità di genere, riconoscendo un sistema giudiziario parallelo per i territori indigeni e mettendo l’ambiente e il cambiamento climatico al centro dell’azione politica, in un Paese che è il primo produttore di rame al mondo e uno dei primi esportatori di litio. Nella bozza, l’assemblea aveva previsto l’introduzione del diritto all’istruzione gratuita, all’assistenza sanitaria e alla casa. L’articolo 25 vieta ogni forma di discriminazione basata su razza, religione o sesso, ma anche su opinioni politiche, “classe sociale” e altre “credenze”.

Impone inoltre al governo di risarcire tutte le forme di discriminazione passate. L’articolo 61, secondo National Review, avrebbe legalizzato l’aborto (quasi) fino al momento della nascita, in un Paese profondamente cattolico che ora vieta l’aborto con eccezioni solo in caso di stupro e rischio per la vita della madre. Anche gli aborti negli ospedali governativi sarebbero stati a carico dei contribuenti. A questo si aggiungono gli articoli 40 e 64 che affermano il diritto dei cileni all’educazione sessuale e al riconoscimento della loro identità di genere, oltre all’impegno ad attuare politiche per porre fine agli “stereotipi di genere”. La bozza vieta inoltre qualsiasi impresa educativa a scopo di lucro a tutti i livelli, con il risultato che molte scuole private avrebbero chiuso, qualora la bozza fosse stata approvata.

I cileni bocciano l’isteria sul clima

Grande attenzione nella Costituzione “woke” bocciata dai cileni era dedicata al tema dei cambiamenti climatici. Il Cile esporta la maggior parte del suo litio in Corea del Sud, Cina e Giappone, ed è anche il primo produttore mondiale di rame, componente fondamentale di cavi e circuiti elettrici. La nuova Costituzione avrebbe limitato alcune di queste attività, molto importanti per l’economia del Paese, concedendo maggiori diritti di partecipazione alle comunità locali e ponendo limiti all’attività mineraria nelle regioni sensibili. Evidentemente, i cileni, pur attenti e sensibili alle questioni climatiche, hanno imparato la lezione che proviene dallo Sri Lanka.

Come ha raccontato Federico Rampini sul Corriere della Sera, qui, a migliaia di chilometri di distanza, i fratelli Rajapaksa, ascoltando consiglieri occidentali dalle credenziali ultra-ambientaliste, cercarono di convertire l’intera agricoltura dell’isola ai metodi agro-biologici. Nell’impeto riformatore, agognando alla purezza degli ambientalisti dei paesi ricchi, vietarono l’importazione di fertilizzanti chimici sull’isola. Il risultato è stato una catastrofe agricola di proporzioni inaudite, il crollo dei raccolti, la penuria. Limitare l’attività per l’estrazione del rame e del litio avrebbe sicuramente migliorato l’ambiente e sarebbe stato un passo importante in un’ottica prettamente ecologica, ma avrebbe avuto importanti ripercussioni economiche, in una fase estremamente delicata di disordine globale e di ristrettezze economiche derivate dalla guerra in Ucraina e dall’inflazione. Questo ha probabilmente contribuito a convincere i cileni che non fosse così conveniente avere una nuova Costituzione solo perché quella di Pinochet non era più al passo coi tempi. Meglio attendere una bozza più equilibrata e meno “woke”.

Jorge von Marees, Hitler e il sogno della svastica sulle Ande. Pietro Emanueli su Inside Over il 19 Febbraio 2022.

Germania e Stati Uniti, a volte nemici, talvolta aminemici, ma mai completamente amici. Il loro è un rapporto di amore-odio, dove il secondo ha storicamente prevalso sul primo, che affonda le origini nella competizione tra grandi potenze tardo-ottocentesca, più precisamente nell’agenda antiamericana di Guglielmo II.

Quella dei sogni di egemonia del Kaiser sull’America, o meglio sulle Americhe, è una storia quasi sconosciuta, ignorata dai più, ma della quale è indispensabile scrivere, sulla quale è essenziale indagare, perché l’«aminimicizia» germano-americana di oggi è il risultato degli accadimenti di ieri. Accadimenti come il tentativo di Guglielmo II di intrufolarsi nella spinosa questione del Canale del Nicaragua. Accadimenti come il Telegramma Zimmermann – motivo conduttore dell’entrata degli Stati Uniti nella Grande guerra. E accadimenti come le azioni di disturbo del Terzo Reich tra Caraibi e Terra del fuoco, tra le quali le operazioni Bolivar e Pastorius, il Progetto 14 e l’eclatante tentativo di golpe consumato in Cile dai filonazisti di Jorge González von Marées all’alba della seconda guerra mondiale.

Jorge González von Marées nacque in quel di Santiago del Cile il 4 aprile 1900 in una famiglia dell’alta classe, di nobile lignaggio. Figlio di un ricco imprenditore del settore sanitario – Marcial González Azócar, fondatore della Clinica tedesca di Santiago (ancora oggi esistente) – e di una nobile imparentata con il pittore Hans von Marées – Sofía von Marées Sommer –, González avrebbe manifestato un interesse per i più deboli, in particolare per la classe operaia, sin dalla gioventù.

Cresciuto con un profondo di disagio, legato al fatto di avere del sangue blu nelle vene in una nazione capillarmente indigente e diseguale, González avrebbe trascorso la giovinezza e la prima età adulta a lavorare in senso contrario ai voleri dei genitori. Dapprima un ciclo di studi estremamente lungo, terminato soltanto nel 1932 – con una tesi dedicata alla questione operaia –, e dipoi la decisione di imboccarsi in una strada senza ritorno, rifiutando l’aiuto di due genitori disposti a farlo entrare nelle forze dell’ordine o in politica: l’adesione al nazismo.

La scelta che lo avrebbe condizionato tutta la vita, macchiandone per sempre l’immagine e incrinando i rapporti già logori con la famiglia, avvenne nel 1932, Quell’anno, in data 5 aprile, González, in collaborazione con l’economista Carlos Keller e il militare in pensione Francisco Javier Diaz, avrebbe dato vita al Movimento nazionalsocialista del Cile (MNS, Movimiento Nacional-Socialista de Chile).

Ufficialmente indipendenti, cioè privi di legami con il Terzo Reich – del quale, a detta di González, avrebbero condiviso soltanto l’ideologia –, i membri del MNS avrebbero svelato molto presto il loro (vero) volto, quello, cioè, di una quinta colonna mossa dalla longa manus di Adolf Hitler. Il loro stesso soprannome, del resto, non lasciava spazio alla fantasia: González e i suoi gregari si facevano chiamare los nacistas, i nazisti.

Nel 1933, ad un solo anno dalla fondazione, il MNS avrebbe cominciato a incutere timore ai dipendenti della Moneda. E il motivo non era dato dagli scontri pressoché quotidiani con i gruppi studenteschi di estrema sinistra, in prevalenza marxisti e stalinisti, che avevano portato un inusuale caos lungo le strade cilene. Il motivo era che González aveva costituito un corpo paramilitare ispirato alle camicie brune (Sturmabteilung), dandogli un nome altrettanto eloquente: Truppe naziste d’assalto (Tropas Nacistas de Asalto).

Carismatico, nonché forte di un cognome pesante, in grado di suscitare approvazione, González avrebbe successivamente riformato alcuni concetti-chiave del MNS, ad esempio depurandolo dalla giudeofobia e dal biancocentrismo, allo scopo di tentare la conquista di ampi settori dell’opinione pubblica. Una moderazione tattica, in vista delle parlamentari del 1937, che avrebbe permesso al MNS di raggiungere una serie di traguardi notevoli, tra i quali la presidenza della Federazione degli studenti universitari cileni e un trattamento simpatetico da parte della grande stampa, persino da El Mercurio, il giornale più letto della nazione.

Nel 1937, sorprendendo lo stesso González, il MNS sarebbe riuscito a entrare in Parlamento. Avendo ottenuto il 2,04% a livello nazionale, infatti, il piccolo partito fu in grado di eleggere tre deputati: Fernando Guarello Fitz-Henry, Gustavo Vargas Molinare e lo stesso González.

Che la presenza del MNS non sarebbe stata identica a quella degli partiti, però, la politica e la società lo avrebbero compreso molto rapidamente. Il giorno dell’apertura dei lavori del nuovo Congresso, infatti, González avrebbe estratto una pistola nel corso di un alterco con degli altri deputati; un gesto costatogli l’immunità parlamentare e precorritore di ciò che sarebbe accaduto di lì a breve.

Il tentato golpe

Il risibile eppur importante esito delle parlamentari aveva convinto il MNS che la presa del potere, della Moneda, fosse più che possibile. Le urne avevano prodotto un risultato esiguo, ma le strade erano movimentate e le forze armate in trepidazione. Tutto sembrava indicare, in breve, che i tempi maturi affinché la nazione delle Ande si unisse all’internazionale nazifascista.

Il 5 settembre 1938, alla vigilia delle presidenziali più attese del decennio e il giorno successivo alla Marcia della Vittoria – la discesa su Santiago di oltre diecimila nacistas –, un piccolo esercito del MNS tentò un azzardo passato alla storia: una sedizione avente l’obiettivo di detronizzare il presidente in carica, Arturo Alessandri, e sostituirlo con l’ex dittatore Carlos Ibáñez del Campo.

Speranza-aspettativa dei golpisti era che le loro gesta eclatanti dessero vita ad un effetto domino nelle forze armate, incoraggiando i fedelissimi dell’ex dittatore, gli ibañisti, a destituire Alessandri e proclamare un regime militare, simil-fascista, in tutto il Cile. 

Poco dopo lo scoccare delle dodici, al grido “¡Chileno, a la acción!“, più di trenta nacistas addestrati all’arte della guerra urbana – selezionati tra i migliori combattenti delle Truppe naziste d’assalto – avrebbero fatto irruzione nel Palazzo del Seguro Obrero, sede dell’omonima agenzia governativa responsabie delle politiche assistenzialistiche.

Guidati dal tenente Gerardo Gallmeyer Klotze, i putschisti avrebbero mietuto la prima vittima entro cinque minuti dall’inizio dell’assalto: il carabinero José Luis Salazer Aedo. Preso in ostaggio il personale e convertito l’edificio in un avamposto fortificato e colmo di trappole ad ogni piano, i nacistas avrebbero iniziato a comunicare le loro intenzioni via radio, esortando i cileni, sia civili sia militari, a scendere in strada per sostenere la rivoluzione in corso.

La reazione della presidenza sarebbe stata ferma, intransigente e fulminea. Alessandri, dopo aver preannunciato l’apertura di un fascicolo di indagine teso a far luce sull’esistenza di legami tra i golpisti, apparati statali e forze straniere, avrebbe ordinato ai Carabineros di fare irruzione nell’edificio e sedare quel putsch in tempi brevi e con ogni mezzo necessario.

Entro le quattordici, un tiratore scelto avrebbe eliminato Gallmeyer, privando i golpisti della loro guida. Ed entro le quindici, tra lo stupore generale, sarebbe cominciata la battaglia per il Cile. Poco dopo aver inviato il reggimento di fanteria Buin al Seguro Obrero, infatti, la presidenza avrebbe dovuto mobilitare il reggimento Tacna per via dello scoppio di disordini in altre parti della capitale, tra i quali l’occupazione del Palazzo centrale dell’università del Cile.

Ordine e sicurezza sarebbero stati restaurati entro il tramonto, ma ad un prezzo carissimo: il sangue dei putschisti tra le mani di Alessandri e dei Carabineros. Il presidente, invero, dette l’ordine agli uomini in divisa di giustiziare il maggior numero di aspiranti rivoluzionari. Un severo monito per l’intero ambiente nazionalsocialista cileno che, alla fine della giornata, sarebbe costato la vita a 59 nacistas e avrebbe scioccato tanto l’opinione pubblica quanto gli intellettuali cileni più celebri dell’epoca, come il poeta Gonzalo Rojas.

Le urne avrebbero punito Alessandri per quell’eccidio, passato alla storia come il Massacro del Seguro Obrero (Matanza del Seguro Obrero), decretando la vittoria del rivale Pedro Aguirre Cerda. E Cerda, consapevole di essere stato eletto (anche) per protesta, una volta in ufficio avrebbe proceduto ad amnistiare i putschisti in stato di detenzione, tra i quali González.

Il secondo dopoguerra e la morte

Dopo un periodo di silenzio e raccoglimento, caratterizzato da un profilo sostanzialmente basso, González avrebbe tentato un nuovo colpo di mano all’acme della seconda guerra mondiale. Con l’aiuto di Buenos Aires e Berlino, secondo i servizi segreti britannici e statunitensi, avrebbe voluto occupare la Moneda e instaurare una dittatura militare a Santiago. Questa volta, però, a fermare González non sarebbero stati i militari cileni: sarebbero stati gli americani, che inviarono l’incrociatore Trenton al largo di Valparaiso in segno di avvertimento, riuscendo negli obiettivi di farlo desistere e di placarne a tempo indefinito l’animo sobillatore.

Reinventatosi liberale negli anni Cinquanta, e per questo accusato di tradimento da ex camerati e nacistas di nuova generazione – come il celeberrimo Miguel Serrano –, González sarebbe morto a Santiago del Cile il 14 marzo 1962, all’età di 61 anni.

«Non resterà più nessuno». Isabel Allende difende la memoria di Pablo Neruda dalla cancel culture latinoamericana. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 28 Gennaio 2022.

Durante la presentazione del suo nuovo romanzo “Violeta”, la scrittrice cilena ha chiesto ai gruppi femministi di non eliminare ogni traccia del grande poeta, ma di sostenere la revisione della storia «in modo che sia raccontata come dovrebbe essere raccontata»

«Se ci mettiamo a tagliare teste, non resterà più nessuno». Forse Isabel Allende ha voluto saldare un antico debito, quando ha approfittato della presentazione del suo ultimo libro per scendere in campo contro la Cancel Culture e difendere Pablo Neruda dall’offensiva che le femministe gli hanno lanciato contro come stupratore confesso.

Lei stessa ha raccontato che da giovane era stata contattata dal poeta Premio Nobel. La convocò, le disse che seguiva con attenzione i suoi articoli, e sparò: «Lei deve essere la peggior giornalista di questo Paese, figliola. È incapace di essere obiettiva, si mette al centro di tutto, sospetto che mente abbastanza, e quando non ha la notizia, la inventa. Perché non si dedica piuttosto a scrivere romanzi? Nella letteratura questi difetti sono virtù».

In teoria terrificante, ma i due la presero a ridere, divennero amici, lei seguì il consiglio, ed in effetti divenne un grande fenomeno editoriale. Un esempio di fusione tra tecniche di letteratura di genere e la lezione dei grandi del boom latino-americano che può far arricciare il naso a chi i libri di García Márquez, Vargas Llosa o Cortázar li ha letti, e che però offre effettivamente qualcosa di molto più articolato del solito a un pubblico di lettori, e soprattutto lettrici, spesso al livello di Collana Harmony.

Anche il suo ultimo romanzo “Violeta”, in vendita anche in Italia dal 3 febbraio, si presenta con una chiave simile. La storia sentimentale di una donna, in sé, sarebbe letteratura rosa, e Isabel Allende lo ha detto spesso che le piacerebbe scrivere storie puramente rosa.

Però Violeta campa cent’anni, evocando così quelle matriarche di “Cent’anni di solitudine” recentemente citate anche dal disneyano “Encanto”. Il libro ha riferimenti alla lotta femminile per l’emancipazione che fanno impegnato, alludono a quel che sta succedendo nel Cile di oggi. E comunque una vicenda che parte dalla Spagnola del 1920 per arrivare al Covid del 2020 dà un tocco di attualità ulteriore.

Più di un tocco, anzi, se si pensa che grazie anche all’onda lunga dello smartworking avviata dalla pandemia la stessa presentazione del nuovo romanzo è stata fatta da Isabel Allende in modalità virtuale, a un pubblico di giornalisti sparso per il pianeta. Inevitabile parlare dunque anche di Me Too e Cancel Culture. E in Cile questo riguarda anche la mobilitazione femminista che si è risollevata l’anno scorso, contro la proposta di intitolare a Pablo Neruda l’aeroporto internazionale di Santiago del Cile.

Pablo Neruda è stato un leader del Partito Comunista cileno. Senatore nel 1945, fu costretto ad andare in esilio dopo la messa fuori legge del Pccch, e finì anche in Italia. È la storia raccontata nel romanzo del 1986 di Antonio Skármeta “Il postino di Neruda”, da cui il film del 1994 con Massimo Troisi.

Nel 1969 fu anche candidato comunista alle primarie di Unidad Popular, assieme a altri tre tra cui la spuntò il socialista Salvador Allende. E fu Nobel per la Letteratura nel 1971, dopo essere stato Premio Lenin per la Pace nel 1953.

La polemica pinochettista ha ovviamente accusato Allende di portare il Cile verso il comunismo, ma la realtà è che il Partito Comunista del Cile esprimeva una linea di moderatismo togliattiano che fu spiazzata dall’estremismo del governo allendista.

Neruda si era infatti candidato anche nel tentativo di dare a Unidad Popular una linea responsabile, e come attestano vari conoscenti lui in privato era piuttosto critico per la piega che stavano prendendo le cose. Pinochet non ebbe il coraggio di toccarlo apertamente, ma la sua morte in ospedale proprio 12 giorni dopo il golpe apparve sospetta: anche se stava comunque male per un cancro alle prostata, e il dolore per la tragedia politica non doveva essere passato senza conseguenze. Varie testimonianze riportano però di un aggravamento dopo una iniezione. Su questa base, nel 2013 e 2015 sono stati fatti esami sulla salma. Non sono state trovate tracce di veleni, ma la seconda volta si riscontrarono proteine dubbie.

Da qui una dichiarazione del governo cileno dell’epoca, secondo cui è probabile che Neruda non sia morto «a causa del cancro alla prostata di cui soffriva», e che «risulta chiaramente possibile e altamente probabile l’intervento di terzi», concludendo che al paziente «fu applicata un’iniezione o gli fu somministrato qualcosa per via orale che ha fatto precipitare la sua prognosi in appena sei ore». Ma c’è il dubbio se anche questa non sia stata una presa di posizione prettamente politica.

A ogni modo, prima di darsi alla politica e di emergere come poeta, Pablo Neruda era stato diplomatico, e con Allende lo sarebbe ridiventato per un paio di anni, dirigendo tra il 1970 e il 1972 l’ambasciata a Parigi. Tra gli anni ’20 e ‘30 era stato console tra Giava, Birmania e Ceylon. A suo dire, soprattutto per mettere la firma a cospicue spedizioni di tè, di cui i cileni sono tradizionalmente grandi consumatori. Tè e pane era in Cile la tradizionale cena di chi era troppo povero per permettersi due pasti al giorno.

Nella sua autobiografia “Confesso che ho vissuto” racconta appunto di quando era console del Cile a Colombo, e stava in un bungalow il cui gabinetto scaricava in «un semplice cubo di metallo sotto il buco rotondo». «Il cubo ogni giorno, di buon mattino, riappariva pulito – scrive – senza che riuscissi a capire come sparisse il suo contenuto. Una mattina mi ero alzato più presto del solito. Rimasi sbalordito vedendo cosa stava succedendo. Dal retro della casa, come una statua scura che camminava, entrò la donna più bella che avessi fino a quel momento visto a Ceylon, di razza tamil, della casta dei paria. Era vestita di un sari rosso e dorato, della tela più ruvida e grossolana. Sui piedi scalzi, portava pesanti cavigliere. Ai lati del naso le brillavano due puntini rossi. Saranno stati fondi di bicchiere, ma su di lei parevano rubini. Si diresse con passo solenne verso il gabinetto, senza neppure guardarmi, senza curarsi della mia esistenza, e scomparve con il sordido recipiente sulla testa, allontanandosi con il suo passo da dea».

Colpo di fulmine! «Era così bella – prosegue – che malgrado il suo umile lavoro mi lasciò turbato. Come se si trattasse di un animale scontroso, venuto dalla giungla, apparteneva a un’altra vita, a un mondo separato. La chiamai senza risultato. Poi qualche volta, sulla sua strada, le lasciai qualche regalo, seta o frutta. La donna passava senza sentire né guardare. Quel tragitto miserabile era stato trasformato dalla sua oscura bellezza nella cerimonia obbligatoria di una regina indifferente. Un mattino, deciso a tutto, l’afferrai per un polso e la guardai faccia a faccia. Non c’era nessuna lingua in cui potessi parlarle. Si lasciò guidare da me senza un sorriso e a un tratto fu nuda sul mio letto. La sottilissima vita, i fianchi pieni, la traboccante coppa del seno, la rendevano identica alle millenarie sculture del Sud dell’India. Fu l’incontro di un uomo e di una statua. Rimase tutto il tempo con gli occhi aperti, impassibile. Faceva bene a disprezzarmi. L’esperienza non venne più ripetuta».

Molto letterario, in realtà, e a quanto ne possiamo sapere potrebbe benissimo essere stata inventata. Ma, insomma, è la confessione di uno stupro. Uscita postuma nel 1974, quindi ormai senza più possibili conseguenze penali. Ma era stata di fatto come dimenticata, e nel 2016 dopo l’esumazione era stato fatto un nuovo funerale che era stata una celebrazione del poeta, probabile martire.

Proprio su quell’ondata emotiva nel novembre del 2018 era venuta dalla Camera la richiesta di intitolargli l’aeroporto della capitale. Ma nell’ottobre del 2017, dal caso Weinstein, era intanto montato il movimento , e il poeta da allora ne è stato investito in pieno.

Una brutta gatta da pelare per il prossimo presidente Boric: da una parte è salutato come l’erede di Allende, una nipote del presidente sarà suo ministro della Difesa, e Neruda è uno dei simboli di quel periodo; dall’altra è stato però eletto nell’ambito di una mobilitazione che è stata anche femminista, e avrà 14 ministri donna su 24.

«Forse la cosa più saggia sarebbe che la storia venisse insegnata come dovrebbe essere insegnata, non solo come raccontata dal vincitore, che di solito è l’uomo bianco, ma come raccontata dagli sconfitti, le voci silenziate, che sono quelle che devono essere portate nei testi di storia», ha detto dunque Isabel Allende. «Ma non puoi sempre eliminare quei simboli che ci ricordano quel passato, puoi piuttosto rivedere quel passato».

Nel dettaglio: «Neruda confessa di aver violentato una donna e le femministe cilene vogliono eliminare Neruda, ma una cosa è l’uomo che sbaglia, e tutti sbagliamo, e un’altra cosa è il lavoro. Se nel caso di un artista come Neruda vogliamo mantenere quello che ha fatto, rivediamo la sua vita privata, ma non eliminiamo tutto, perché altrimenti nessun burattino rimarrà con la testa». Ecco il consiglio dunque ai paladini della Cancel Culture: «Non eliminiamo la storia, andiamo a rivederla in modo che sia raccontata come dovrebbe essere raccontata».

Piuttosto che al passato, Isabel Allende ha consigliato di guardare al presente. Scrittrice che anche per il cognome è spesso associata a una certa mitologia della sinistra latinoamericana, la nipote di Allende ha mostrato di condividere le preoccupazioni di chi vede in questa sinistra ormai troppe involuzioni autoritarie.

Dopo aver firmato un appello contro la repressione a Cuba, nella conferenza di presentazione del libro ha ricordato la persecuzione che ha costretto all’esilio dal Nicaragua lo scrittore Sergio Ramírez, che del dittatore Daniel Ortega era stato addirittura vicepresidente. Ha denunciato anche la situazione in Venezuela, dove era andata in esilio dopo il golpe in Cile.

Se il suo primo romanzo “La casa degli spiriti” è in pratica il tentativo di scrivere una nuova “Cent’anni di solitudine” passando dall’ambientazione colombiana a un’ambientazione cilena e con una eroina donna che narra in prima persona (con qualche elemento ripreso dal “Gattopardo”), dopo l’altra storia cilena “D’amore e ombra” il suo terzo best-seller “Eva Luna” ripete il meccanismo con un’eroina venezuelana e sullo sfondo appunto della storia venezuelana. «Io ho conosciuto un Venezuela molto diverso da quello che c’è ora, e anche se non era un mondo ideale, quello che sta succedendo in Venezuela oggi è molto triste».

·        Quei razzisti come i venezuelani.

L’ex modella Camilla Fabri ricercata per riciclaggio, scappata con i soldi di Maduro. Alla madre: “Se succede qualcosa, andiamo a Dubai”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Aprile 2022.

L'ex modellina romana, finita a fare la commessa commessa dipendente nella boutique di una nota casa di abbigliamento di lusso nel centro di Milano, è ritenuta essere a conoscenza di quella mole enorme di soldi "frutto di corruzione e appropriazione indebita di fondi pubblici e riciclaggio commessi in territorio estero" come si legge nelle 81 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Francesca Ciranna.

Alex Nain Saab Moran nato a Barranquilla il 21 dicembre 1971, è di origine libanese, è il secondo di quattro fratelli, che hanno venduto portachiavi e divise promozionali per affari sino a quando ha incontrato Álvaro Pulido un un altro uomo d’affari colombiano imparentato con l’ex senatore colombiano Piedad Córdoba  che lo avrebbe invitato come suo partner in diverse attività in Venezuela. Viene considerato uno dei più stretti uomini di fiducia del presidente venezuelano Nicolas Maduro, per il quale si occupava di muovere all’estero importanti capitali. Aveva scelto l’Italia come base né per caso né per amore, dopo aver sposato un ex-modellina romana Camilla Fabri , sapendo di poter contare su contatti e coperture logistiche.

Fai clic per accettare i cookie di marketing e abilitare questo contenuto

Oltre cinquanta milioni di dollari partiti dal Venezuela, transitati in Liechtestein ed attraverso un giro per 26 società con sede in Italia, Russia, Inghilterra ed Emirati Arabi, finiti nelle tasche dell’imprenditore Alex Nain Saab Moran, che ne ha riciclato una parte in Italia ed il resto velocemente trasferiti in Russia e a Dubai grazie a una rete di prestanome italiani: sua moglie, la sorella Beatrice Fabri, il cognato Lorenzo, anche loro scappati con i soldi. Capitali secondo l’accusa, sono provento dei reati ipotizzati di corruzione e di appropriazione indebita di fondi pubblici venezuelani, destinati all’attuazione di un programma di sussidi alimentari, per i quali l’ imprenditore colombiano risulta imputato di fronte all’Autorità giudiziaria statunitense.

Agli arresti in Italia dovevano finire anche le persone a lui più care che sono praticamente tutti scappati all’estero, ed attualmente irraggiungibili) . A partire da sua moglie Camilla, 27 anni, la quale il Nucleo di polizia valutaria della Guardia di Finanza di Roma, scoprì essere diventata improvvisamente proprietaria di un appartamento la principale e più lussuosa via della Capitale a novembre del 2019 in via Condotti del valore di 4,750 milioni di euro. 

L’indagine italiana è partita proprio da quell’appartamento. Arrivando a ricostruire oggi questa fittissima rete di riciclaggio. Ma se i soldi sono stati individuati e, in parte, già sequestrati, gli investigatori non sanno invece dove si trovino i protagonisti di questa storia. Tre anni fa quando la Finanza eseguì il primo sequestro dell’appartamento Camilla Fabri era in Russia dove il marito, forte anche dei rapporti di Maduro con Vladimir Putin, aveva trovato accoglienza e copertura. 

L’ex modellina romana, finita a fare la commessa commessa dipendente nella boutique di una nota casa di abbigliamento di lusso nel centro di Milano, è ritenuta essere a conoscenza di quella mole enorme di soldi “frutto di corruzione e appropriazione indebita di fondi pubblici e riciclaggio commessi in territorio estero” come si legge nelle 81 pagine di ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip Francesca Ciranna.

Nella relazione delle Fiamme Gialle si parla della ricchezza “riciclata” da Alex Nain Saab Moran, attraverso i suoi familiari acquisiti in Italia: “Ci troviamo di fronte a una minima parte di un’attività ben più vasta”, infatti oltre ai 50 milioni di euro individuati dalle fiamme gialle, ci sono anche i 120 chili di oro depositati in Svizzera oltre ad almeno altrettanti soldi dei quali la Guardia Finanza ha individuato ricostruendone i movimenti, senza però poter intervenire in quanto sono circolati al di fuori dell’Italia. 

Secondo la DEA americana, con l’assistenza dell’ FBI di Miami il venezuelano Alex Nain Saab Mora gestirebbe un patrimonio che ammonta a circa 350 milioni di dollari, finendo nel 2019 insieme ai fratelli Luis Alberto ed Amir Luis ed al loro socio in affari Alvaro Pulido Vargas nelle liste Ofac, l’ Office of Foreign Asset Control del Dipartimento del Tesoro e della Financial Intelligence degli Stati Uniti d’ America, sezione ministeriale incaricata di far rispettare le sanzioni economiche e commerciali imposte dagli Stati Uniti contro nazione straniere, terroristi e trafficanti di stupefacenti che rappresentando una minaccia per la sicurezza nazionale o l’economia degli Stati Uniti.

Per poter muovere il denaro il manager venezuelano, aveva coinvolto tutta la famiglia della moglie. E così il cognato, Lorenzo Antonelli, marito di Beatrice Fabri della sorella di Camilla, che era diventato lo spallone principale. “Alex sta cercando disperatamente uno come Lorenzo” scriveva la Fabri in un messaggio inviato alla madre. Ad Antonelli viene attribuito un ruolo centrale nella vicenda dell’appartamento di via Condotti, così come indicato dal gip al momento del sequestro: «L’operazione si caratterizza per particolari profili di anomalia. Dal contratto è possibile evincere che la Fabri ha acquistato il diritto di abitazione vitalizio per l’importo di 4 milioni 275mila euro, mentre la nuda proprietà risulta acquistata dalla società di diritto inglese, Kinloch Investments, rappresentata da Lorenzo Antonelli, per un valore di 475 mila euro. Antonelli emerge come titolare di diverse società, tutte con sedi coincidenti con la Kinloch. Ma da una visura alla Camera di Commercio inglese risulta che il capitale sociale della stessa è interamente detenuto da Camilla Fabri».

Sono rimaste coinvolte nell’inchiesta della Procura di Roma anche due zie delle sorelle Fabri, Arianna e Patrizia Fiore, rispettivamente di 47 e 45 anni che “diventano improvvisamente manager di società internazionali” come si legge negli atti dell’inchiesta, le quali facevano da “teste di legno” lasciando utilizzare il loro nome ricevendo in cambio di un bonifico mensile da 5mila euro al mese.

Dopo l’arresto di Alex Nain Saab Moran a Capo Verde nell’ottobre 2021 e l’estradizione negli Usa in quell’occasione la moglie, si scagliò pubblicamente contro le autorità americane, accusandole di aver sequestrato il marito, amico del presidente venezuelano imputato per corruzione e appropriazione indebita. In una conferenza stampa tenuta a Caracas la Fabri disse in lacrime: «Quello che dà più fastidio agli Usa è che mio marito non si piegherà mai». In realtà il marito da circa un anno è diventato un “pentito” riempiendo pagine e pagine di verbale davanti alla Dea, la Drug Enforcement Administration americana, ricostruendo i sistemi di corruzione del governo colombiano. La moglie Camilla Fabri dopo un periodo in Russia, dove è nato il secondo figlio della coppia, si troverebbe ora in Venezuela.

Ad eccezione delle due zie, che da ieri sono ai domiciliari, tutti gli altri sono scappati. Un piano sicuramente già predisposto da tempo. Infatti, quando la madre, si mostrava preoccupata con la figlia Camilla Fabri per le conseguenze della relazione e del lavoro con Saab, la ragazza la tranquillizzava. “Stai tranquilla mamma, la situazione si risolve vivendo a Dubai”.

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” l'8 Aprile 2022.

Appare difficile che la sua citazione del «faccio cose, vedo gente» di Nanni Moretti fosse voluta quando Camilla Fabri illustrava alla madre Sabrina il ruolo pensato per le due zie (sorelle della donna) che con il suo aiuto puntava a coinvolgere nell'affare: «Firmano cose, aprono conti». 

Ma di sicuro la 28enne ex commessa della periferia romana e aspirante soubrette e miss, sapeva cosa stava facendo quando, sempre attraverso sua madre, trasmetteva loro le istruzioni per andare in scena a Dubai, Singapore, Parigi, Caracas, Istanbul: «Prima di tutto dovranno entrare da Louis Vuitton, Dior. Questi sono i completi, almeno quattro per uno, Alex vuole così». 

È una maxi operazione di riciclaggio internazionale convogliata in una gestione strettamente familiare di prestanome quella naufragata ieri nelle cinque ordinanze di custodia cautelare emesse dal gip di Roma.

Lei, Camilla, factotum nella gestione occulta di una fetta dei miliardi di patrimonio del marito, è all'estero, irreperibile, ed eviterà i domiciliari. Lui, il facoltoso 51enne, il colombiano-libanese Alex Naim Saab Moran è detenuto negli Stati Uniti e sarebbe altrimenti finito in carcere come chiesto dal pm Francesco Cascini, che ha coordinato le complesse indagini del Nucleo Valutario della Guardia di finanza. In carcere sarebbe finito anche Lorenzo Antonelli (oggi forse a Dubai) marito della sorella di Camilla, Beatrice, anche lei indagata. Ai domiciliari vanno invece le suddette zie della Fabri, Arianna e Patrizia Fiore, 47 e 45 anni rispettivamente, le uniche presenti nella Capitale. A tutti viene contestata l'associazione a delinquere. 

Saab Moran, amico del presidente venezuelano Nicolás Maduro, è sotto processo negli Stati Uniti e indagato dalle procure di mezza Europa come presunto «facilitatore» nel suo arricchimento illecito anche tramite la corruzione sugli appalti per gli aiuti alimentari alla popolazione. In questi mesi Camilla conduce una campagna in Venezuela per la liberazione del marito.

Parte dei suoi soldi sono transitati dall'Italia per essere ripuliti, convertiti in euro e poi nascosti in Russia (dove Moran e Fabri hanno vissuto per un periodo e dove è nato il loro secondo figlio) e in alcuni paradisi fiscali. Nell'ottobre 2019 la Finanza ha sequestrato un appartamento da 4,8 milioni di euro in via Condotti a Roma, acquistato tramite una società londinese ma di fatto di proprietà della 28enne.

Nella perquisizione, si apprende ora, sono emersi certificati per 120 chili di oro depositati a suo nome in una banca Svizzera.

Altri 1,8 milioni di euro sono stati sequestrati dal conto corrente di una banca italiana. Secondo gli inquirenti, l'equivalente di quanto avrebbero intascato le due zie di Fabri per aver fatto da prestanome in una trentina di società. 

Camilla Fabri, riassume il gip, «aveva un ruolo centrale nel reclutare amici e parenti, nel distribuire compiti e stipendi e nell'organizzare viaggi».

«Alex sta cercando disperatamente uno come Lorenzo - scriveva la 28enne in chat alla madre - sui trent' anni, anche una donna». E alle preoccupazioni della donna per la vita a cui andava incontro l'altra figlia Beatrice, Camilla ribatteva: «Stai tranquilla, mami, la situazione si risolve vivendo a Dubai». 

Quanto alle zie Arianna e Patrizia che «non avevano nessuna esperienza e, come per magia, diventano manager di società internazionali», il loro corrispettivo è di 5 mila euro al mese più «premi» da 15 mila euro all'occasione (25 mila per Lorenzo e Beatrice). Abbastanza per convincere anche Sabrina, la mamma di Camilla: «Wow, sono tantissimi». Anche lei si presta, ricordando a sua sorella Patrizia di «stampare e studiare in aereo il nickel e il carbone in inglese» per darsi una parvenza di credibilità: «Pure Lorenzo si sta studiando l'oro».

Fulvio Fiano per corriere.it il 9 aprile 2022.

La chat «famiglia» con cui Camilla Fabri teneva i contatti con i genitori non affrontava i banali temi di vita quotidiana comuni a tutti i gruppi di messaggistica di questo tipo: «Che mi dici di questa chiusura totale che ha messo l’America?», le chiede la mamma Sabrina Roberti, riferendosi al blocco dei conti all’estero di persone vicine al presidente Maduro, tra cui il marito di Camilla e suo genero Alex Naim Saab Moran. 

«Non lo so ancora», risponde la 28enne che quell’uomo ha sposato e per il quale, secondo l’ordinanza che giovedì l’avrebbe portata ai domiciliari se non fosse irreperibile all’estero, riciclava parte delle sue enormi somme di denaro illecito. «Spiegaci X favore», chiede ancora la mamma. E Camilla, nelle frasi spezzate tipiche delle chat: «Mami/allora/ potevano aver sanzionato anche a me/e quindi bloccare i miei conti/sono stata fortunata perché stavolta non lo hanno fatto però potrebbe capitare un giorno».

La mamma si preoccupa per l’altra figlia Beatrice e suo marito Lorenzo, coinvolto come prestanome, secondo le indagini del pm Francesco Cascini e del Nucleo valutario della guardia di finanza, nel vorticoso giro di società per nascondere i soldi dell’imprenditore colombiano di origini libanesi: «Lo stesso può accadere a Lorenzo — spiega la ex commessa e modella — quindi è preferibile che abbia tutto Bea. Lorenzo deve partire oggi, non può stare a Roma, tra un’ora deve stare in aeroporto, gli ho già fatto io il biglietto in business». 

Timori evidentemente superabili di fronte all’enorme ricchezza piovuta sulla famiglia, a partire dalla casa a piazza di Spagna valutata 4,8 milioni di euro: «Mami, la casa non si può intestare a voi, bisogna intestarla a Miriam (figlia di Camilla e Alex Naim, ndr) tramite una società, perché a me la leverebbero, mi levano tutto se succede qualcosa». La casa viene in effetti sequestrata nell’ottobre 2019 e nella perquisizione emergono certificati per 120 chili di oro depositato in Svizzera a nome della 28enne, oltre a quadri di valore. Sabrina Roberti e suo marito Federico, i genitori di Camilla, risultano invece intestatari di un appartamento a Cartagena, sulla costa caraibica della Colombia.

La parte dei leoni nella intestazione di società per favorire il riciclaggio delle somme di Saab Moran, oggi detenuto per corruzione negli Stati Uniti, la fanno oltre al cognato di Camilla, Lorenzo Antonelli, le sue due zie, Patrizia e Arianna, ossia la moglie del fratello di sua mamma e sua sorella, finite ai domiciliari. Camilla organizza per loro viaggi d’affari in continuazione per «mettere firme, aprire conti» legati alle varie società per le quali si prestano a comparire come amministratori dietro lauti compensi. La paga è di cinquemila al mese per le zie e diecimila per Lorenzo, più sostanziosi premi qui e là. «Soldi a uffa», come li definiscono. 

«A loro sembra strano», riferisce la mamma. «Ad Alex serve così, nient’altro», spiega Camilla. In un caso, addirittura per un errore contabile i tre ricevono più soldi del pattuito, 50mila euro: «Arianna voleva sapere se era normale — chiede la mamma, che fa da tramite, a Camilla — o se insomma è uno sbaglio». Sì, il bonus extra è un errore che verrà scalato nei mesi successivi: «Che cacchio di errori, però», si rammarica Sabrina.

Camilla provvede anche a fornire loro il necessario per avere un look credibile da manager internazionali: «Alle borse e alle scarpe (Louis Vuitton, Dior, ndr) provvedo io, lunedì a Parigi le faccio trovare una valigia con dentro i soldi e tutto», spiega alla mamma che fa da tramite. Le uniche raccomandazioni sono quelle di «dire di non conoscersi» tra loro e non farsi prendere la mano, come capita ad esempio a Lorenzo: «È tutto gasato», si compiace la suocera. Ma a Camilla non piace il suo atteggiamento: «Non deve essere gasato, deve stare calmo e molto serio. Va in giro per le banche e la gente non vuole sorrisetti, smorfie. Sono stata chiara con lui, non è un gioco, uno scherzo». 

E anche le zie «devono essere più scaltre, devono avere un quadro chiaro». Le due donne viaggiano in continuazione: Dubai, Turchia, Venezuela. Per loro due l’organizzazione ha però un occhio di riguardo, come spiega Sabrina alla cognata Patrizia: «Alex ha pregato Javier (un uomo di Saab Moran, ndr), di tener conto che tu e Arianna siete mamme e di mandarvi a casa non appena avete finito il lavoro».

Ma anche stavolta la fatica sembra ben ripagata: «Devo dire che oh io ogni giorno spendo un botto di soldi — chiosa Arianna — sarà che sto affrontando spese extra... ma ti giuro, meno male che c’è sta cosa perché io sennò con lo stipendio che c’avevo prima non lo so me ne sarei andata sotto i ponti».

Raffaella Troili per “il Messaggero” l'8 Aprile 2022.  

Riciclaggio internazionale, ricercata come latitante l'ex modella romana Camilla Fabri, 28 anni, accusata di aver sottratto e reinvestito fondi umanitari destinati ai bambini del Venezuela. Continua la saga che vede coinvolto Alex Nain Saab Moran imprenditore colombiano arrestato nel 2020 vicino al presidente Maduro, la moglie, Camilla Fabri, ex commessa di Milano, avvenente modella di Fidene, ex del calciatore laziale Felipe Anderson, qualche comparsata in tv, poi la svolta, in costa Azzurra, l'amore e il matrimonio. E un appartamento intestato a via Condotti, la bella vita ai Parioli, ora desaparecida in Venezuela dove continua a combattere per la liberazione del marito.

Il Nucleo speciale di Polizia valutaria della Guardia di finanza, su richiesta della Procura di Roma, ha dato esecuzione a una ordinanza emessa dal gip del Tribunale capitolino di misure cautelari personali nei confronti di cinque soggetti. L'indagine, coordinata dalla Procura, riguarda un'ipotesi di riciclaggio internazionale di somme che sarebbero provente dei reati ipotizzati di corruzione e di appropriazione indebita di fondi pubblici venezuelani, destinati all'attuazione di un programma di sussidi alimentari, per i quali l'imprenditore colombiano risulta imputato di fronte all'Autorità giudiziaria statunitense. 

Alex Saab, di recente arrestato all'aeroporto dell'isola di Capo Verde ed estradato in esecuzione del mandato emesso dagli Stati Uniti, avrebbe inoltre costituito numerose società attraverso le quali riciclare i proventi illeciti. In tale contesto investigativo, su delega della Procura capitolina, nell'ottobre 2019 lo stesso Nucleo speciale aveva già sottoposto a sequestro un appartamento di pregio nel centro storico, un attico al quarto piano, in via Condotti del valore di circa euro 4,8 milioni intestato alla moglie, nonché 1,8 milioni di euro giacenti su un conto corrente acceso presso una banca italiana. 

In base agli elementi finora raccolti dalle Fiamme Gialle, sono emersi indizi secondo i quali l'imprenditore colombiano avrebbe fittiziamente intestato le società di diritto estero a quattro cittadini italiani (familiari della moglie) che avrebbero quindi agito quali prestanomi. 

Sulla base del quadro accusatorio delineatosi nel corso delle investigazioni, il gip del Tribunale di Roma ha ora disposto: la custodia in carcere nei confronti di 2 indagati, le zie di Camilla, Arianna e Patrizia Fiore, 45 e 47 anni, gli arresti domiciliari nei confronti di 3; il sequestro preventivo finalizzato alla confisca per un importo di 1,6 mln di euro. 

LE MISURE Ai domiciliari il cognato Lorenzo Antonelli e la moglie Beatrice Fabri, sorella di Camilla, il fratello di Alex, Luis Alberto Saab Moran. Il denaro di Fabri sembra che arrivasse dal Regno Unito con versamenti dalla Kinlock Investment, una compagnia controllata da Antonelli, con azioni di un trust britannico e una compagnia di Dubai. «Secondo le indagini si legge su PanAm Post -, Antonelli è uno degli altri prestanome di Alex Saab e fa parte della direzione di Adon Trading FZE e altre compagnie controllate da lui. Camilla Fabri e Lorenzo Antonelli hanno casi aperti in Italia per riciclaggio, e le indagini seguono la pista di soldi arrivati da una rete di almeno 10 imprese».

Camilla attualmente si trova fuori dall'Italia ed è irreperibile, mentre il marito cinquantunenne Alex Naim Saab Moran è detenuto negli Stati Uniti. La modella, proprio nei giorni scorsi in Venezuela ha organizzato una manifestazione per chiedere la liberazione del marito. Sul palco una donna convinta dell'innocenza del marito, intorno a lei migliaia di persone. Il paradosso è che Alex Saab, era ricercato in tutto il mondo per via di una maxi tangente partita proprio dal Venezuela. Un patrimonio di 350 milioni di dollari riversati in vari paradisi fiscali, frutto di un giro di riciclaggio complicatissimo, di fatto rubati dai contratti sui sussidi alimentari che il Governo del Venezuela aveva stanziato per i più indigenti. 

Fulvio Fiano per corriere.it il 7 Aprile 2022.

Lei, la 28enne romana Camilla Fabri, è all’estero irreperibile. Lui, il facoltoso marito 51enne, il colombiano -libanese Alex Naim Saab Moran è detenuto negli Stati Uniti. Situazioni che li mettono al riparo dall’ordinanza di custodia emessa dal gip di Roma su indagini del Nucleo Valutario della guardia di finanza di Roma, coordinata dal pm Francesco Cascini. 

Sarebbero finiti ai domiciliari, assieme al marito della sorella di Fabri, Lorenzo Antonelli, anche lui all’estero. In carcere vanno invece le due zie della donna, Arianna e Patrizia Fiore, 47 e 45 anni rispettivamente, le uniche presenti nella Capitale. A tutti viene contestata l’associazione a delinquere e vario titolo il riciclaggio, l’autoriciclaggio e il trasferimento fraudolento di beni. 

È la conclusione di una complessa indagine dell’indagine nata tre anni fa che intreccia lo scandalo degli aiuti umanitari in Venezuela e le sponde di paesi compiacenti nel nascondere gli immensi capitali dell’imprenditore Saab Moran, amico del presidente di Caracas, Maduro. Moran si sarebbe impossessato di parte dei fondi destinati agli aiuti alla popolazione sotto embargo facendoli transitare dall’Italia per poi nasconderli in Russia e in alcuni paradisi fiscali. 

Alex Saab Moran- risulta imputato di fronte all’autorità giudiziaria statunitense con i reati ipotizzati di corruzione e di appropriazione indebita. Recentemente arrestato all’aeroporto dell’isola di Capo Verde ed estradato in esecuzione del mandato emesso dagli Stati Uniti, avrebbe inoltre costituito numerose società attraverso le quali riciclare i proventi illeciti. In questo contesto investigativo, su delega della Procura capitolina, nell’ottobre 2019 le Fiamme gialle avevano già sequestrato un appartamento di pregio nel centro storico di Roma (via Condotti), del valore di circa 4,8 milioni di euro, acquistato dalla commessa ed ex modella Camilla Fabri (moglie di Saab) nonché 1,8 milioni di euro giacenti su un conto corrente acceso presso una banca italiana.

Quest’ultima somma è l’equivalente di quanto avrebbero intascato le due zie di Fabri per aver fatto da prestanome nel tentativo di schermare la provenienza illecita del denaro. Quanto ad Antonelli, marito di Beatrice, sorella di Camilla, gli viene attribuito un ruolo centrale nella vicenda dell’appartamento di via Condotti, così riassunto dal gip al momento del sequestro: «L’operazione si caratterizza per particolari profili di anomalia. Dal contratto è possibile evincere che la Fabri ha acquistato il diritto di abitazione vitalizio per l’importo di 4 milioni 275mila euro, mentre la nuda proprietà risulta acquistata dalla società di diritto inglese, Kinloch Investments, rappresentata da Lorenzo Antonelli, per un valore di 475 mila euro. Antonelli emerge come titolare di diverse società, tutte con sedi coincidenti con la Kinloch. Ma da una visura alla Camera di Commercio inglese risulta che il capitale sociale della stessa è interamente detenuto da Camilla Fabri».

Dopo un periodo in Russia, dove è nato il secondo figlio della coppia, Fabri si troverebbe ora in Venezuela dove conduce una campagna pubblica per la liberazione del marito. Il ruolo di Saab Moran andrebbe secondo i media locali ben oltre l’aspetto imprenditoriale, essendo invece una sorta di emissario di Maduro in paesi amici in chiave anti-statunitense come la Russia, ma anche Cina e Iran per affari legati al petrolio.

(ANSA il 31 marzo 2022) - Il presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, ha affermato che è necessario creare un nuovo sistema di pagamenti internazionali, che "sia stabile" e che "non utilizzi le banche per cercare di cambiare i regimi come hanno fatto con il nostro Paese". 

In un discorso pronunciato dal palazzo presidenziale di Miraflores a Caracas davanti a rappresentanti del corpo diplomatico accreditato, Maduro ha sostenuto che, per quello che ci riguarda, "non vogliamo tornare al sistema Swift" esistente che viene utilizzato attualmente per realizzare le transazioni di pagamento globali.

Il capo dello Stato ha quindi constatato che "il Venezuela è stato estromesso dal sistema Swift - Grazie a Dio!, ha esclamato - e noi non vogliamo tornare indietro. Stiamo molto bene così come siamo, fuori dallo Swift, un sistema che ci è stato vietato per ragioni ideologiche, di parte, politiche per fare in modo che il nostro governo cadesse, che si provocasse una ecatombe economica che portasse ad un cambiamento di regime".

"Ecco perché ci hanno escluso dallo Swift, ma eccoci qui, vivi, respirando, sorridendo, felici, e lavorando". Inoltre, ha proseguito, "al Venezuela è stato vietato l'uso del dollaro", ma "una valuta di cambio internazionale non dovrebbe essere utilizzata per ricatti politici, o geopolitici". Una valuta da usare negli scambi internazionali, ha osservato, "deve essere stabile, in grado di resistere a circostanze di conflitto mondiale, o a qualsiasi altra emergenza. Una moneta rispettata, a cui tutti i Paesi del mondo abbiano uguale accesso. Insomma deve essere la pietra angolare di un nuovo sistema monetario".

Federico Fubini per il “Corriere della Sera” il 3 Aprile 2022.

Molto divide Paesi come la Cina, l'India, il Sudafrica o la Bolivia. Ma una delle ragioni che tiene insieme questi e altri governi in Asia, Africa e America Latina nell'evitare ogni critica alla Russia di Vladimir Putin, è la loro percezione comune dell'Occidente. Sono tutti insofferenti verso quello che considerano il dominio degli Stati Uniti e dell'Unione europea sulla globalizzazione e sulle rotte del commercio.

Eppure la diplomazia del petrolio innescata dalla guerra nel cuore dell'Europa sta mostrando il contrario. La Casa Bianca non riesce più a imporre gli accordi dei quali ha bisogno. L'Unione europea non ha ancora il peso politico per supplire ai limiti dell'Amministrazione americana. E l'effetto netto è meno petrolio in vendita sul mercato, a prezzi più alti.  

Il rincaro del greggio del 33% dal primo dicembre non sembra poter incontrare presto venti contrari che portino a una ritirata. Qualcos' altro invece sta chiaramente accadendo: le sanzioni contro la Russia stanno aprendo nuove rotte del petrolio e nuove intese commerciali fra potenze emergenti che tagliano fuori le economie ricche. La partita è aperta e tutto può ancora cambiare ma, per adesso, l'Occidente non la sta vincendo.

Se ne è avuto conferma negli ultimi giorni, quando l'Iran ha iniziato ad alzare sempre di più il prezzo di un accordo con gli Stati Uniti che porti a un aumento dell'offerta greggio sui mercati mondiali. Con quello arriverebbe anche a un calo del prezzo, del quale Joe Biden ha bisogno: in autunno dovrà affrontare difficili elezioni di mid-term al Congresso e il prezzo del carburante - ormai ai massimi da decenni - minaccia di facilitare un trionfo dei repubblicani. 

I rincari del petrolio innescati dalla guerra di Putin rischiano di fare del presidente americano un'anatra zoppa. Per questo Biden non ha esitato ad accelerare nei colloqui con l'Iran sul cosiddetto "Joint Comprehensive Plan of Action": un accordo con le cinque potenze del Consiglio di sicurezza dell'Onu (incluse Russia e Cina), più Germania e Unione europea, che dovrebbe portare a nuovi limiti al programma nucleare di Teheran e la fine delle sanzioni. 

Quell'accordo può valere quasi mezzo milione di barili di greggio in più al giorno dalla seconda metà dell'anno, perché l'Iran è il quarto Paese al mondo per la dimensione oceanica delle sue riserve. Oggi però è anche il grande produttore che in proporzione esporta di meno, a causa delle sanzioni legate al suo programma nucleare.

Da almeno una settimana i negoziatori europei e americani fanno capire che un accordo è vicino o un annuncio è atteso a giorni. Ma il regime degli Ayatollah ha rapidamente fiutato la disperazione degli occidentali di arrivare alla firma e alza il prezzo: ultima richiesta, togliere la Guardia rivoluzionaria islamica - una forza armata di Stato - dalla lista delle organizzazioni terroristiche dove l'aveva messa Donald Trump nel 2019. 

Ora Biden esita, perché qualunque concessione finirebbe sotto attacco in America. Si spiega anche così, con il ritardo dell'accordo sull'Iran, che la Casa Bianca abbia appena deciso di rilasciare una quantità senza precedenti di riserve strategiche di greggio per calmierare i prezzi. 

Infatti anche il cartello formato dall'Opec più la Russia si sta guardando bene dall'aiutare l'Occidente di fronte ai rincari dell'energia: in settimana, i grandi produttori si sono attenuti a un piano di aumenti marginali della produzione di molto meno di mezzo milione di barili al giorno (contro un consumo mondiale di quasi cento milioni). Una situazione del genere obbliga la Casa Bianca a esplorare tutte le strade della diplomazia del petrolio.

 Il 6 marzo tre emissari di Biden erano a Caracas per sondare Nicolás Maduro. Il dittatore venezuelano ne avrebbe da guadagnare la fine del suo isolamento, l'America l'accesso alle prime riserve petrolifere mondiali oggi di fatto congelate. 

Ma la fuga di notizie sul vertice di Caracas ha portato a un'ondata di proteste al Congresso di Washington e, anche qui, allo stallo. Funziona meglio invece la diplomazia fra Paesi emergenti con meno scrupoli. Giovedì scorso il ministro degli esteri di Mosca Sergei Lavrov era a Nuova Delhi: un accordo per vendere all'India il petrolio russo a forte sconto sui prezzi mondiali sembra ormai concluso.

Nel peggiore regime di Caracas. Le tre crisi simultanee in Venezuela che il mondo finge di non vedere. Micol Maccario su L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.

Il documentario “A la Calle” cerca di portare l’attenzione del mondo sulla lotta dei cittadini contro il dittatore Nicolas Maduro che ha portato il Paese nella catastrofe economica, sociale e sanitaria. «La pandemia è stata una scusa colta dal governo per attuare nuove repressioni», spiega a Linkiesta Tamara Taraciuk Broner, responsabile per le Americhe di Human Rights Watch.

In Venezuela è in corso da anni una crisi dei diritti umani. Non sono ammesse critiche al governo del presidente Nicolás Maduro Moros, non c’è libertà di stampa e qualunque tipo di protesta è repressa con violenza, tortura e detenzione. Chi è affetto da qualche patologia non ha la possibilità di curarsi perché le strutture sanitarie sono in una situazione di degrado e i prezzi delle medicine sono economicamente insostenibili. C’è una crisi alimentare, i beni di prima necessità disponibili sono pochi, quelli che si trovano al mercato nero hanno prezzi inaccessibili. La nazione è paralizzata dall’inflazione, il 94,5% dei venezuelani vive in povertà.

Eppure, non se ne parla quasi mai. O meglio, non a sufficienza. Nonostante la situazione, gli sforzi di opposizione al governo da parte dei cittadini sono costanti. È stato presentato il 23 febbraio dall’Istituto Leoni a Milano “A la Calle” (2020), diretto e prodotto da Nelson G. Navarrete e Maxx Caicedo, il documentario che cerca di portare attenzione su questo tema fotografando il dissenso dei venezuelani. Collaborando con alcune troupe televisive clandestine, i registi hanno documentato per tre anni ciò che accadeva con interviste esclusive a membri dell’opposizione, tra cui Leopoldo López – che ha ispirato un movimento nazionale con la sua incarcerazione – e l’attivista Nixon Leal.

«La situazione in Venezuela è una delle più chiuse dell’America Latina perché ci sono tre crisi simultanee. C’è una repressione totale contro gli oppositori, i giornalisti e coloro che lottano per i diritti umani. Grave è l’emergenza umanitaria che rende molto difficile l’accesso alla sanità. Infine, numerose sono le conseguenze sociali. Più di 20 milioni di persone sono state obbligate a emigrare dal Venezuela» ha affermato Tamara Taraciuk Broner, responsabile per le Americhe dell’organizzazione Human Rights Watch.

Il lavoro di Human Rights Watch consiste principalmente nel documentare la realtà del Paese. «Lo facciamo riferendoci sempre a fonti dirette. Intervistiamo persone in Venezuela e verifichiamo le testimonianze con attenzione. Poi divulghiamo. Il nostro fine è diffondere notizie sulle situazioni critiche che sta vivendo il Venezuela».

Perché in Italia si parla così poco di questa crisi? «È un Paese molto distante geograficamente, con cui è difficile collegarsi, nonostante ci sia una grande comunità italo-venezuelana. Ovviamente la situazione in Ucraina e in Russia in questo momento è al centro, però, in generale, c’è sempre un’altra crisi che viene percepita come più vicina. A volte è necessario pensare, quando succedono queste cose, al principio. Uno dovrebbe preoccuparsene perché i diritti umani sono valori universali, non riguardano solo i venezuelani» ha affermato la dottoressa Taraciuck. «Non è una crisi qualsiasi. La situazione umanitaria, la violazione dei diritti umani, i rifugiati, fanno sì che dovrebbe essere una crisi prioritaria».

Con la pandemia ha situazione è ulteriormente peggiorata perché «il Venezuela non era pronto a sopportare una situazione di così grande stress dal punto di vista medico. In seguito alla diffusione del Covid-19 ci sono state pesanti conseguenze sulla salute e sull’istruzione. Molti bambini non avevano a disposizione un computer o l’accesso a Internet. Gli effetti sono stati disastrosi. Inoltre la pandemia è stata una scusa colta dal governo per attuare nuove repressioni».

Un ulteriore problema è l’accesso alla libera informazione. Il governo di Maduro controlla radio, giornali, televisioni e utilizza questi mezzi per diffondere messaggi negativi con intento di discriminazione politica. «Nel 2019 la correlazione tra stigmatizzazione attraverso i mezzi di comunicazione e arresti arbitrari politicamente motivati era stata del 29 per cento, nel 2020 era salita al 42 per cento e nel 2021 è arrivata al 77 per cento» sostiene Amnesty International. L’unico modo per informarsi in modo più neutrale è per mezzo di Internet e dei social network. In tutto il Venezuela esiste solo più un giornale indipendente e di opposizione: “El Nacional”.

Nonostante le difficoltà la lotta per la libertà, come mostra “A La Calle”, non si ferma. «L’importante è non abituarsi. La situazione richiede molta pazienza e forza, però dobbiamo ricordare che ci riguarda tutti e, proprio per questo, bisogna resistere».

·        Quei razzisti come i colombiani.

Colombia in guerra. UNA LOTTA CONTROCORRENTE. Testo di Valentina Barile su Inside Over il 10 luglio 2022.

“Guerra interna di bassa intensità”: è così che viene definito il conflitto armato colombiano. Una guerra civile che dura da sessant’anni portando con sé, oltre alla morte, le terribili conseguenze della lotta sociale: sparizioni forzate, sequestri, attentati, minacce alla vita di chi fa sentire il proprio dissenso.

Violenza e sangue disegnavano il contesto sociale colombiano già prima dell’ascesa di Pablo Escobar a leader del cartello di Medellín e a maggior produttore-distributore di cocaina del mondo, quando l’impero dell’oro bianco era nelle mani di una regina: Griselda Blanco, la più efferata dei narcotrafficanti.

Lo Stato ha un ruolo fondamentale in questa lunga storia di violenza, giocando la sua partita con i cartelli della droga che rispetto al passato hanno cambiato forma e struttura, restando comunque la legge attuale. Gli altri attori in scena sono le Farc (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), l’Eln (Ejército de Liberación Nacional) e i paramilitari – gruppi armati di sinistra i primi due e di destra l’ultimo – che dialogano attraverso il fuoco, insanguinando le teste degli innocenti. Sulle strade della Colombia, oggi, sono gli uomini dell’esercito a garantire la viabilità; quando alzano il pollice significa che è possibile procedere in sicurezza ma appena dopo il tramonto ogni azione risponde a una legge diversa perché la Panamericana Sur diventa la via dei banditi.

Il dipartimento del Nariño, regione del Pacifico confinante a sud con l’Ecuador, è il più grande produttore di coca dello stato colombiano con una percentuale del 40%. A favorire il traffico è lo sbocco sull’oceano, a ovest, che viene convogliato su Tumaco, la cittadina portuale riconosciuta come l’epicentro mondiale del commercio della droga, il punto in cui viene smistata per essere inviata negli Stati Uniti e in Europa.

Il Nariño, attraversato prevalentemente dalla Cordigliera delle Ande, conserva storie di resistenza umana che si annidano negli angoli più remoti. Chiunque in Colombia soffre di una sparizione in famiglia o nel contesto personale più prossimo. Nel peggiore dei casi, c’è chi ha subito un episodio di violenza sulla propria pelle, e se può condividerlo significa che è sopravvissuto. 

La lotta contro un sistema criminale consolidatosi nel tempo è il faro per una nuova esistenza che Harold Wilson Montúfar Andrade – difensore dei diritti umani, coordinatore dell’Istituto Alexander von Humboldt e direttore dell’Espacio educativo para la paz y el buen vivir insieme alla ONG italiana Oikos – chiama “pervivencia”.

Dipartimento del Nariño, Colombia – Samaniego. Harold Wilson Montúfar Andrade nell’Espacio educativo para la paz y el buen vivir 

Letteralmente significa sopravvivenza, la vita che segue alla morte scampata. Harold è uno dei pochi fortunati a poter raccontare le sette volte in cui è stato sequestrato e rilasciato. 

Di sopravvivenza parla anche Alcibiades Trujillo Ortega, ex leader del movimento Lgbt e delle vittime del conflitto armato di Pasto (capitale dipartimentale del Nariño), costretto a lasciare la città per rifugiarsi dapprima in incognito nella periferia urbana e poi in un villaggio rurale, sfuggendo in qualche modo alle minacce e alla violenza.

 

Alcibiades ha barattato la rinuncia alla lotta per i propri diritti con una vita senza libertà, perché in Colombia, oggi, anche l’omosessualità rappresenta un pericolo per la propria vita oltre a essere motivo di emarginazione sociale. 

Dipartimento del Nariño, Colombia - Popayán, Alcibiades Trujillo Ortega, ex leader del movimento LGBT e delle vittime del conflitto armato

Di lacrime e desaparecidos racconta Doña María, dall’anima torturata per i suoi due figli uccisi e suo marito scomparso, ritratti insieme alle altre vittime sullo striscione che tiene appeso in sala da pranzo e che porta con sé in ogni manifestazione di protesta. Doña María come Martha Lucia Ceballos Vega, difensora dei diritti umani, e Gloría María Achicanoy López, membro dell’Associazione di vittime di sparizioni forzate, sono l’effetto di una lotta controcorrente che trascina nel suo fluire il dolore, le ferite e il sangue di generazioni di colombiani che non trovano pace.

Dipartimento del Nariño, Colombia – Doña María, 69 anni, vive nella periferia di Pasto. È stata costretta ad abbandonare la sua casa in un piccolo villaggio rurale della regione. 

Dona Maria è una delle tante vittime del conflitto che persevera da 60 anni nel territorio del Nariño, una delle regioni più colpite della Colombia. Qui si calcola che 4 persone su 10 hanno familiari dispersi, torturati o uccisi. Dona Maria ha 69 anni, vive sola nella periferia di Pasto, nel distretto di Nariño. 

È stata costretta, per sicurezza, ad abbandonare la sua casa e la sua terra in un piccolo villaggio nell’area rurale della Regione. Suo marito è uno dei desaparecidos e 2 dei sui figli sono stati uccisi dal Conflitto armato. Nonostante il dolore, Maria continua la sua lotta per non fare cadere nell’oblio gli atti di brutalità ingiustificata. Per poter sopravvivere lavora ancora, a chiamata, per il corrispettivo giornaliero di circa 5 dollari 

Dona Maria tiene in mano una foto del marito preso dai paramilitari 20 anni fa e da quel giorno e scomparso. Oltre al marito, ha perso i suoi 2 figli, uccisi dai componenti del Conflitto Armato Maria è una delle tante vittime del conflitto che persevera da 6O anni nel territorio del Nariño, una delle regioni più colpite della Colombia 

La re-esistenza, frutto di lotta, perdita, angoscia, è la possibilità di esistere ancora seppur con il “senza”. Jhon Jairo Paz gestisce il “Moneta, café y memoria”, lo spazio sociale di Pasto; un luogo di ascolto, di conforto, di speranza: quartier generale di studenti, volontari e attivisti che lavorano per la libertà e aiutano le vittime del conflitto nelle informazioni relative ai propri cari.

Nelle piantagioni di caffè si confondono i riti ancestrali e le nuove forme di economia che chiedono di affermarsi. Per molti agricoltori, la coltivazione della coca rappresenta l’unica certezza di sopravvivenza, assicurando una massiccia fonte di reddito corrispondente a un introito di 30,00 euro al giorno che permette di vivere una buona qualità di vita rispetto alla media. Nel dipartimento del Nariño si stimano più di 50.000 ettari di terra coltivata a coca; molte delle foreste esistenti sono state distrutte per essere adibite a piantagioni perché garantiscono i requisiti climatici adatti alla crescita della pianta.

Alcune delle riserve indigene mostrano i segni del martirio ambientale e sociale compiuto dal narcotraffico. “La Profundidad” è il paradiso terrestre di Samaniego (cittadina dipartimentale al confine con l’Ecuador), un’area che è stata sminata tra il 2007 e il 2010, e che attualmente è destinata a diverse coltivazioni tra le quali prevalgono quelle illegali di coca e di papavero.

I fertilizzanti e i pesticidi impiegati nelle piantagioni, e la benzina per la successiva lavorazione delle foglie, vanno poi a contaminare le acque del Rio San Juán e di altri fiumi sacri ai nativi.

Le comunità indigene e contadine resistono alla guerra civile perdendo risorse economiche e umane. I “graneros cafeteros” come Wilmer, Raúl, Javier, Rocío decidono di coltivare caffè rispettando i parametri della ecosostenibilità. Di conseguenza, la produzione di caffè o di canna da zucchero non sono così redditizie se si considerano i costi di esportazione, ma ci sono persone che si oppongono e lottano in questo modo, virando controcorrente. Wilmer rivela che più volte i narcotrafficanti gli hanno proposto di acquistare il suo terreno in cambio di grosse somme di denaro, ma lui non ha mai ceduto; non riuscirebbe a vivere senza le terre ereditate dalla sua famiglia.

I nativi Awá, nella foresta perduta del Sande al confine con l’Ecuador, vivono senza rete e farmaci. Non credono nella medicina occidentale, hanno paura. Tutto ciò che è occidentale li spaventa, anche se si tratta di un vaccino che salva la vita. Si curano con le piante medicinali che trovano in foresta, quando la foresta non è distrutta.

In molti dei territori colombiani, che in passato erano sotto il controllo delle Farc, oggi sventola la bandiera dell’Eln, gruppo armato più “moderato” che si identifica con il popolo e lotta per la difesa dei territori dall’estrazione mineraria illegale, dal commercio della coca – in parte finanziato dagli Stati Uniti e dallo stesso stato colombiano – e dalla microcriminalità.

L’Eln risolve la delinquenza con la “limpieza social”, giornate preannunciate di “pulizia sociale” che hanno l’unico scopo di eliminare persone specifiche che non si attengono alle leggi, anche quelle riconosciute solo dal proprio statuto. Nella maggior parte dei casi, però, capita che nei conflitti a fuoco perdono la vita anche le persone capitate lì per caso.

È su questo tema, infatti, che stanno lavorando alcuni leader dei diritti umani come Harold: giungere a una tregua con il “Pacto local de paz”. Si lavora affinché lo Stato accetti l’eradicazione delle piantagioni di coca volte al traffico illegale di stupefacenti, e non solo, anche per la bonifica dei territori dalle mine, che insieme agli episodi di guerriglia mietono vittime.

Ci sono municipi in cui è impossibile accedervi per l’enorme quantità di mine inesplose, territori in cui è complicata la vita per gli stessi residenti che si ritrovano in ostaggio nella propria casa, nella propria terra, senza una via d’uscita.

È la società civile che chiede ai gruppi armati di fermare la guerra per mettere fine al disastro umanitario che si perpetra da sessant’anni in Colombia. Testo di Valentina Barile

·        Quei razzisti come i brasiliani.

Sara Gandolfi per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2022.

Vecchio, diranno che sei vecchio. Invece, Lula è tornato. La Fenice che risorge dalle ceneri, l'eterno camaleonte capace di cambiare «per il bene del popolo». A 77 anni, con una nuova giovane moglie e «l'energia di un trentenne», si riprende la presidenza. L'unico in grado di riunire dietro di sé un'alleanza abbastanza forte per sconfiggere il bolsonarismo, ancor più che Bolsonaro. Anche se la strada per riuscirci è ancora lunga. 

Lula ha vinto ma non ha trionfato. Dovrà gestire un Brasile lacerato e diviso, dove in famiglia, nei bar e o fra amici si è smesso da tempo di parlare di politica per non litigare. Dovrà affronterà uno scenario economico complesso e carico di incertezze, molto diverso dagli anni d'oro del suo primo mandato, con l'inflazione che può tornare a correre veloce e un'economia che rallenta la crescita. E Bolsonaro non scompare: resta il leader di un'opposizione fortissima al Congresso. Lula è pronto a combattere.

Tre decisioni hanno cambiato il corso della sua vita. La prima la prese sua madre, una contadina semi-analfabeta dell'entroterra del Pernambuco, quando lui aveva sette anni. Dona Lindù si mise in viaggio con i suoi otto figli da Garanhuns fino a Santos, 2.500 km per raggiungere il marito, che nella cittadina portuale dello Stato di San Paolo si era fatto un'altra famiglia. 

Il presidente ricorda spesso la madre, maestra di resilienza. «Quando non c'era nemmeno un tozzo di pane da mangiare, diceva: "Domani andrà meglio". Il suo consiglio mi ha accompagnato sempre: "Sii testardo, figlio mio"».

Nella regione più ricca del Paese, Lula viene assunto in una fabbrica metallurgica. E qui prende la seconda decisione importante: entra nel sindacato mentre il Brasile vive sotto una dittatura militare. 

A fine anni '70 guida i grandi scioperi nel Sudest e finisce in carcere 31 giorni. In quella cella, costruisce il futuro del Partito dei lavoratori . 

Dopo tre tentativi falliti è eletto presidente nel 2002 e nel 2006. Quando lascia il Palazzo di Planalto, quattro anni dopo, alla «delfina» Dilma Rousseff è il presidente con il più alto indice di gradimento della storia in Brasile: oltre l'80% in un Paese che naviga col vento in poppa, grazie a export da record delle sue risorse primarie.

Per la sinistra mondiale, il leader venuto dalle terre aride e miserabili del sertão, che combatte contro le ineguaglianze e la povertà, è addirittura meglio di Castro, perché a differenza dell'"amico cubano", è stato eletto democraticamente. 

Piace ai «compagni» italiani Bertinotti e D'Alema ma anche agli imprenditori che con il Brasile fanno più affari che mai. Piace alla Chiesa che gli perdona il «cattolicesimo alla mia maniera» e al jet-set che si contende l'ex arringatore di operai trasformato in tribuno raffinato. L'unico che conquista Hugo Chávez e Berlusconi.

Durerà poco. Arrivano la recessione, l'impeachment di Dilma, l'enorme scandalo Lava Jato. Lula è indagato e condannato per i reati di corruzione passiva e riciclaggio. Il 7 aprile 2018 prende la terza decisione chiave: asserragliato nella sede del sindacato metallurgico, rifiuta di chiedere asilo politico presso un'ambasciata straniera e si consegna alla polizia federale. Resta in carcere per 580 giorni. Nel marzo 2021, la «fine del mio incubo»: il Tribunale supremo federale annulla per vizi tecnici le condanne. Tutti i reati di cui era accusato sono ormai finiti in prescrizione.

Oggi promette un «Brasile migliore», con investimenti nella sanità, nell'educazione, nell'ambiente. Le alleanze che ha dovuto stringere per battere Bolsonaro lo hanno spinto sempre più verso il centro. E in un Congresso dove non ha la maggioranza sarà costretto a continue mediazioni politiche, di cui peraltro è maestro.

Il Brasile è di nuovo di Lula. Ma il Paese resta spaccato. I camionisti bloccano 11 Stati. Paolo Manzo su Il Giornale l'1 novembre 2022.   

Il Brasile non è un Paese per principianti, come diceva già a suo tempo il mitico Tom Jobim. E così mentre nella redazione di O Globo i giornalisti esultavano come ad un gol di Neymar alla notizia ufficiale della vittoria di Lula (e sì che il calciatore appoggiava Bolsonaro), ieri i camionisti bloccavano le principali strade in 11 stati del Paese.

Entrambi avevano i loro motivi, molto pratici. La concessione televisiva di Globo, infatti, è scaduta lo scorso 5 ottobre, tre giorni dopo il primo turno e forse, anche per questo potrebbero pensare i maligni, il sondaggio Ipec commissionato dal gruppo mediatico era quello che dava come probabile la vittoria di Lula già un mese fa. Bolsonaro non ha mai detto che l'avrebbe rinnovata in caso di sua vittoria per la sua guerra aperta con Globo, soprattutto dopo le accuse di volere fare come il venezuelano Hugo Chávez che chiuse il principale canale tv privato a lui ostile, RCTV e, allora, è anche così che si può spiegare il «tifo da stadio» della redazione. I camionisti, invece, vogliono soprattutto che il prossimo esecutivo confermi due misure concesse dal governo uscente, ovvero l'eliminazione delle tasse statali sulla benzina, che fanno del brasiliano uno dei carburanti più economici delle Americhe e il «sussidio camionisti», elargito da Bolsonaro per scopi elettorali.

Sono queste le piccole cose che fanno del Brasile un Paese «non per principianti» e, allora, mentre il sito satirico Sensacionalista, visto il silenzio di tomba del presidente sconfitto, twittava «il governo Lula ottiene la prima vittoria facendo tacere Bolsonaro per 16 ore» (in realtà al momento in cui andiamo in stampa non ha ancora parlato, ma lo dovrebbe fare nella notte italiana), il futuro presidente cominciava ad articolare i nomi dei ministri che entreranno in carica con lui, a partire dal 1° gennaio del 2023.

Se sull'Economia è certo che si tratterà di una nomina politica, sulla Giustizia il nome in pole position è quello dell'ex governatore del Maranhão, il senatore Flavio Dino, mentre il leader alla Camera del Partito dei Lavoratori, il PT di Lula, il deputato Reginaldo Lopes, sarà quasi certamente il prossimo ministro dell'Educazione. Favorito a detta dei media brasiliani per concordare la transizione, che dovrà iniziare entro stasera come prevede la Costituzione verdeoro, è il vicepresidente eletto, l'ex governatore di San Paolo, Geraldo Alckmin. Sicuramente tra i nuovi ministri che, per la cronaca, Lula ha già detto di voler aumentare dai 24 attuali a 37, ci sarà il governatore di Bahia, Rui Costa, anche lui del PT.

Se Bolsonaro ha taciuto a lungo, ieri pomeriggio si è fatto sentire su Twitter uno dei suoi figli, il senatore Flávio: «Grazie a tutti coloro che ci hanno aiutato a salvare il patriottismo, che hanno pregato con noi e sono scesi in piazza, che hanno dato il loro sudore per il paese che sta lavorando e hanno dato a Bolsonaro il voto più grande della sua vita! Alziamo la testa e non molliamo il nostro Brasile! Dio al comando!».

Da segnalare, infine, la telefonata più importante di quelle ricevute da Lula e durata 20 minuti, quella di Joe Biden. L'inquilino della Casa Bianca ha chiamato per congratularsi elogiando «la forza delle istituzioni democratiche brasiliane dopo elezioni libere, eque e credibili». I due leader hanno discusso della forte relazione tra Stati Uniti e Brasile e si sono impegnati a continuare a lavorare insieme per affrontare le sfide comuni, in primis la lotta ai cambiamenti climatici, la salvaguardia della sicurezza alimentare, la promozione dell'inclusione e della democrazia e la gestione della migrazione regionale.

Ma il primo rischio è l'effetto Argentina. Paolo Manzo  su Il Giornale l'1 novembre 2022.  

Il Brasile si sta argentinizzando? La domanda è lecita visto che il primo presidente al mondo incontrato da Lula sia stato l'argentino Alberto Fernández, che domenica notte, appena resi noti i risultati, si è fiondato a San Paolo del Brasile (nella foto i due leader).

Ieri i due hanno pranzato all'Hotel Intercontinental di Alameda Santos, una via parallela di Avenida Paulista, il centro finanziario dell'America Latina. Dopo una riunione a porte chiuse tra il gotha del governo argentino e quello del futuro esecutivo brasiliano, Fernández ha dichiarato: «Tutto il mio amore, ammirazione e rispetto, caro compagno. Abbiamo un futuro che ci abbraccia e ci convoca». Poi ha aggiunto: «La tua vittoria apre una nuova era per la storia dell'America Latina. Un tempo di speranza e futuro che inizia oggi. Qui hai un partner con cui lavorare e sognare il benessere dei nostri popoli». La speranza di molti brasiliani, anche di tanti che hanno votato Lula, tuttavia, è che il loro futuro, soprattutto quello economico, non sia neanche lontanamente simile a quello degli argentini, alle prese con un'inflazione che chiuderà il 2022 oltre il 100%, una povertà infantile che è al 51% e una valuta, il peso, che in un anno ha perso nei confronti del real brasiliano il 400% del suo valore sul mercato nero (a Buenos Aires il cambio ufficiale è controllato, come in Venezuela). Il rischio che però, questo Lula ter, faccia danni sul fronte economico, nonostante i 600 miliardi di dollari di riserve di Brasilia, un'inflazione che si prevede chiuderà il 2022 al 5,7% (meno della metà di quella italiana), un debito pubblico sceso al 71% del Pil e una disoccupazione ai minimi dal 2015, il primo anno del secondo disastroso mandato della sua delfina Dilma Rousseff, è concreto.

E proprio per quanto riguarda il suo prossimo ministro dell'Economia, il neo presidente si è rifiutato di anticipare il nome durante la campagna elettorale, nonostante le pressioni del mondo finanziario, perché se per lui creare una squadra di governo è «come scegliere i migliori giocatori per una nazionale», sarebbe stata una «follia» rivelarlo prima della vittoria. Ora che la vittoria è arrivata sembra esserci una lotta tutta interna al PT, il Partito dei Lavoratori di Lula, proprio sulla scelta del nome e, di conseguenza, sulla linea economica che adotterà il prossimo governo verde-oro. L'ex presidente della banca centrale Henrique Meirelles, considerato il candidato in grado di calmare i mercati, nonostante abbia fatto campagna a sostegno di Lula, ha infatti dichiarato al sito di informazione brasiliano Metropoles, poche ore dopo il voto di domenica, di aver preso le distanze dalla «lettera del Brasile del futuro» diffusa lo scorso 27 ottobre dall'entourage del PT in cui Lula aveva promesso «responsabilità fiscale e sociale» senza ulteriori dettagli. «Ho scoperto la lettera dopo che è stata pubblicata», ha commentato seccamente Meirelles. Dietro quella lettera c'è uno degli strateghi economici della campagna di Lula, Aloízio Mercadante, ex ministro dell'Istruzione ed ex capo dello staff della presidenza nei due governi Rousseff. Oggi presiede la Fondazione Perseu Abramo, braccio accademico del PT, ed è legato all'ala più radicale rappresentata dal filo-cubano José Dirceu, ex capo di gabinetto della presidenza nel primo governo Lula, condannato per corruzione e riciclaggio a 27 anni. Il passo indietro di Meirelles conferma un rapporto interno della banca statunitense Citibank secondo il quale non lui ma un uomo di partito doc come Alexandre Padilha è il candidato più probabile alla guida del ministero dell'Economia, che tra l'altro sarà spacchettato in quattro ministeri. Padilha, medico, ex ministro della Sanità di Rousseff è un candidato al pari di altri tre fedelissimi come l'ex sindaco di San Paolo Fernando Haddad, il todo poderoso Jaques Wagner e Wellington Dias, senatori rispettivamente di Bahia e del Piauí.

(ANSA l'1 novembre 2022) - Il mancato riconoscimento del presidente conservatore Jair Bolsonaro (Pl) della vittoria dell'avversario Luiz Inacio Lula da Silva alimenta la tensione in Brasile. I sostenitori più radicali del leader di destra si stanno organizzando su internet per mantenere i blocchi di strade e autostrade (proteste adesso allargate a 20 stati su 27), e per raggiungere l'area dei Palazzi del potere a Brasilia, dove le forze dell'ordine hanno predisposto un ampio servizio d'ordine, secondo quanto pubblica l'online di informazione Estadao.

Su Telegram, queste frange intransigenti pianificano di arrivare all'Esplanade de ministerios, e parlano di "resistenza armata". I manifestanti incoraggiano anche l'incontro davanti al quartier generale dell'Esercito nella capitale federale. Un gruppo di sostenitori del presidente si trova già con le bandiere bolsonariste nel settore militare vicino alla sede del comando dell'edsercito.

(ANSA l'1 novembre 2022) - Cresce il caos in Brasile, dopo l'elezione a presidente di Luiz Inacio Lula da Silva: oltre ai blocchi stradali in corso in almeno 20 Stati, i 'bolsonaristi' si stanno organizzando per sit-in davanti alle caserme per chiedere l'"intervento federale". La convocazione, fatta attraverso gruppi WhatsApp, mirerebbe a dare tempo al presidente uscente, Jair Bolsonaro, di pronunciarsi ufficialmente sul risultato elettorale. L'obiettivo finale dei dimostranti - secondo alcuni opinionisti - sarebbe quello di far invocare l'articolo 142 della Costituzione, che prevede l'intervento delle Forze armate per "ristabilire l'ordine tra i poteri".

Emiliano Guanella per “La Stampa” l'1 novembre 2022.  

Incendiare il Brasile o ammettere una volta per tutte la sconfitta? Mentre Lula riceve presidenti e leader di sinistra sudamericani in un hotel a San Paolo, Bolsonaro è rimasto barricato nel palazzo del Planalto di Brasilia, un presidente Nerone disposto a scatenare la furia di camionisti, gli ultimi alleati nel suo goffo progetto da Trump dei Tropici.

La sconfitta al ballottaggio ha sconvolto il capitano e il suo clan; i tre figli, qualche militare e i pastori evangelici neo-pentecostali con la moglie Michelle. Dio, Patria e Famiglia, la spina dorsale della sua campagna, è diventata una formula schiacciata nel dubbio amletico sul che fare, la linea sottile tra il calcolo e la pazzia. Triste, solitario e finale, abbandonato da quegli ingrati dei partiti di destra che grazie a lui sono diventati senatori, deputati e governatori e che ora non vogliono certo perdere la poltrona. Jair Messias ha sbraitato per ore, camminando nei saloni del palazzo progettato dall'architetto comunista Oscar Niemeyer.

Domande che diventano sciabolate all'ego. Come è possibile arrivare così vicini al trionfo e farselo scappare, una rimonta incredibile, sette milioni di voti in più rispetto al primo turno, buttata al vento. Lula, nel frattempo, si gode nella piovosa San Paolo, ogni momento di un ritorno sognato per cinque anni.

«Se mi arrestano - disse nel 2017 prima di finire in carcere - divento un eroe, se mi uccidono sarò un martire, ma se un giorno mi faranno uscire vi prometto che diventerò di nuovo presidente». La vendetta è un piatto che va consumato freddo, molti dicono che da gennaio Lula farà di tutto per far finire il suo rivale dietro le sbarre.

Un duello che potrebbe minare le basi della quarta democrazia del Pianeta. I camionisti organizzati attraverso gruppi di Whatsapp hanno bloccato arterie cruciali del Paese in 18 Stati, come le «strade della soia», una per tutte la BR 163, che parte da Cuiabá e passa da Sinop, la capitale dell'agro business fondata dai fazendeiros figli di emigrati veneti. Da lì si sale verso il Pará, dove la foresta amazzonica brucia sotto il laissez-faire del governo. La rabbia è arrivata alle porte delle grandi metropoli, bloccando le vie di accesso a San Paolo, Rio de Janeiro, Belo Horizonte.

Un piano già visto in passato, il Cile di Allende e del golpe di Pinochet insegna. In Sudamerica il commercio passa quasi tutto su strada, con i camion fermi manca cibo, medicine, generi di prima necessità. La geografia politica del Brasile è anche in questo scontro tra la furia energica e destrorsa delle campagne contro la «mollezza» della sinistra delle grandi città. Nel suo assordante silenzio Bolsonaro è tornato alla sua genesi, quella del candidato outsider che frega tutti o del soldato che progetta un attentato in caserma per protestare contro gli stipendi da fame dei bassi ufficiali. La logica è stravolta, non risponde agli appelli dei suoi alleati che gli chiedono un gesto di responsabilità, il primo da quando è presidente.

Saranno amici o traditori, il suo cruccio è questo. Il presidente della Camera Arthur Lira, il governatore eletto di San Paolo Tarcisio De Freitas, l'ex giudice Sergio Moro, persino Tereza Cristina, la ministra dell'agricoltura amata dalle campagne. Lula osserva da lontano, riceve il presidente argentino Fernandez che lo incorona capo della sinistra nuovamente al potere in Sudamerica. Quando gli si chiede se romperà finalmente con i regimi autoritari di Venezuela e Nicaragua, lui fa il «cinese», predica la teoria della non ingerenza negli affari altrui, dopo aver chiesto ai leader globali per mesi di salvare l'Amazzonia e la democrazia brasiliana. Solo una delle tante contraddizioni dell'uomo dalle mille vite, che torna ad essere presidente in una nazione spaccata in due, con più problemi da risolvere che promesse da mantenere.

Il boom economico non basta a Bolsonaro. E Lula torna al potere. Vittoria sul filo di lana. L'ex presidente eletto dopo le condanne. Dubbi sulla transizione. Paolo Manzo il 31 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Alla fine Luiz Inácio Lula da Silva ha vinto, anche se di strettissima misura ed il Brasile svolta di nuovo a sinistra. Una lotta voto a voto, con il presidente uscente Jair Messias Bolsonaro, partito in testa fino allo scrutinio dei due terzi dei voti e poi, quando a San Paolo erano le 18.45 della sera, il boato di Jardim Paulista, quartiere chic della capitale finanziaria dell'America Latina, con i cori, vecchi di vent'anni di «Olé olé olé olá, Lulaaa, Lulaaa». Mentre andiamo in stampa, con il 91% dei voti scrutinati, Lula è avanti di appena un milione e 200mila voti, un'inezia se si considerano i 156 milioni di brasiliani che ieri erano attesi alle urne.

Alla fine, secondo le stime, Lula arriverà ad un vantaggio di poco meno di due milioni di voti, ovvero il 51% dei voti, contro il 49% del presidente uscente. Mai successo che ci fosse un divario così piccolo tra due candidati in Brasile così come è inedito che mai nella storia del paese del samba chi vince nel Minas Gerais, il secondo collegio elettorale più importante, e Bolsonaro lo ha fatto, non riuscisse ad occupare il Palacio do Planalto. Pur avendo vinto di largo margine anche a San Paolo e Rio de Janeiro, con il suo candidato Tarcisio neo governatore paulista, per la vittoria di Lula è stato decisivo il Nordest, soprattutto lo stato di Bahia, il quarto maggior collegio elettorale, dove l'ex difensore del terrorista Cesare Battisti ha letteralmente sbancato.

Come un'araba fenice Lula risorge come Lazzaro da una condanna a 12 anni per corruzione e riciclaggio confermata in tre gradi di giudizio, più un'altra a 13 anni ribadita in appello, da 580 giorni di carcere e dal disprezzo di metà del popolo brasiliano che nel 2018 aveva tentato un cambiamento eleggendo un capitano dell'esercito dal curriculum non proprio esaltante come Bolsonaro.

Tra gli elettori delusi il simbolo della Seleção che tenterà di conquistare il suo sesto titolo ai Mondiali in Qatar, ovvero Neymar, supporter di Bolsonaro che ieri, prima di digitare il codice 22 del «Mito» nell'urna elettronica, ha detto sul suo Instagram, accompagnando il post con una sua foto mentre stringe nelle mani la bandiera brasiliana, «sia fatta la volontà di Dio».

Dio ha scelto Lula e, come celebrava ieri a San Paolo l'ex premier spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, adesso «lui pronto per rimettere in sesto l'ordine mondiale in frantumi», anche se è tornato grazie ad un assegno in bianco che il popolo brasiliano gli ha firmato. Durante la sua campagna elettorale, infatti, il prossimo 39mo presidente del Brasile che si insedierà il primo gennaio 2022, non ha presentato alcun piano di governo economico né ha detto chi metterà a guidare l'unica economia delle Americhe che in questo periodo sta «tirando» e con omicidi diminuiti del 30% rispetto al 2018. Già perché checché ne dicano in Italia media, Partito Democratico e grillini, in Brasile la disoccupazione è scesa a settembre per la prima volta dopo 7 anni sotto il 9%, l'inflazione a fine 2022 si attesterà sotto il 6%, secondo tutte le agenzie compresa la Banca Centrale, ovvero la metà di quella italiana e meno della statunitense mentre la previsione di crescita del PIL quest'anno è attorno al 3%.

Vedremo se Lula riuscirà a salvare l'Amazzonia, come assicurato da Nature e se con lui l'armonia verde-oro sarà finalmente ritrovata dopo l'odio diffuso dall'«anti democratico» Bolsonaro.

Per assicurarsi che così sia, il presidente statunitense Joe Biden ieri ha mandato il suo consigliere per la sicurezza nazionale Jake Sullivan con il compito di «fare pressione sui funzionari del governo Bolsonaro per una transizione di potere normale». Tra i favoriti per il ministro dell'Economia Aloízio Mercadante, «un soldato di Zé Dirceu», già ex ministro filo-cubano di Lula, condannato a 27 anni di carcere per corruzione passiva e riciclaggio. Condanna confermata lo scorso aprile ma, come è noto, in Brasile importa poco.

Emiliano Guanella per “la Stampa” il 3 novembre 2022.

In un Brasile spaccato dalla protesta dei settori più radicali tra i seguaci del presidente Jair Bolsonaro una scena ha fatto rapidamente il giro dei social. Un gruppo di ultras organizzati del Corinthians, la squadra più popolare di San Paolo, si sono presentati davanti ad un blocco stradale dei camionisti appena fuori città; in dieci minuti hanno liberato la strada, stracciando i cartelli giganti inneggiando a un golpe militare. La forza del futebol che batte la rabbia della politica. Diverso il quadro davanti al comando militare della regione Sud-Est, nei pressi del parco Ibirapuera. È un grande accampamento dei patrioti bolsonaristi; tende ovunque, bandiere e ogni dieci minuti qualcuno che suona la diana o intona l'inno nazionale.

Davanti al Circolo Militare, che ha un debito enorme con il comune di San Paolo per l'occupazione dello spazio pubblico, c'è la signora Lucia, bardata da testa ai piedi, la maglietta d'ordinanza della seleção verde-oro. Prima di parlare vuole sapere da dove veniamo. «Voi in Italia avete fatto bene, avete scelto una donna di destra per liberarvi dai comunisti. Noi abbiamo vinto, ma la mafia di sinistra che ha comprato la corte elettorale ci ha rubato l'elezione. Siamo qui per ristabilire la verità, costi quel che costi». La rabbia generale è contro il Partito dei lavoratori ma anche contro i giudici della Corte Suprema, che da tre anni si scontrano con Bolsonaro. 

«Sette su undici sono stati nominati da Lula e Dilma Rousseff, sono nemici della Patria».

Complottismo e terrapiattismo sono il fil rouge della destra brasiliana. Dalla negazione del Covid, che qui ha fatto quasi 700.000 morti, al rifiuto del responso delle urne. Ci sono tanti motociclisti, uno dei pubblici preferiti di Bolsonaro, che ha organizzato diversi cortei in moto durante la campagna elettorale. Ogni tanto un gruppetto si stacca e va sull'Avenida Paulista, luogo simbolo della città; domenica sera il rosso la dominava per il comizio di vittoria di Lula, oggi è tutto un giallo-verde. Nel resto del Paese continuano, ma con meno forza, i blocchi stradali che hanno iniziato a causare i primi problemi di approvvigionamento in negozi, fabbriche e supermercati.

Nel suo breve discorso di due minuti il presidente ha incitato i suoi a manifestare pacificamente, molti dei suoi supporter ieri, giorno festivo in Brasile per la ricorrenza dei morti, hanno chiamato moglie e figli. La polizia federale non ha fatto nulla per fermarli, anzi, sono comparsi diversi video con gli agenti che rassicuravano i manifestanti. «Noi siamo qui per garantire la vostra sicurezza, serviamo i cittadini per bene come voi». Sarebbe andata diversamente con un panorama invertito, la destra vittoriosa e il movimento dei contadini «sem terra» pro Lula a protestare.

Tutti, a questo punto, si chiedono dove voglia andare Bolsonaro. Non ha riconosciuto la sconfitta, ma ha dato il suo placet al processo di transizione; dal punto di vista formale Lula può diventare presidente. La protesta potrebbe essere una dimostrazione di forza in chiave futura. 

Dal primo gennaio è un cittadino comune e su di lui potrebbero cadere decine di processi.

I motivi non mancherebbero, dalla cattiva gestione della pandemia, a scandali di fatture gonfiate del suo entourage, a compravendita di senatori e deputati con i fondi del «bilancio segreto» di 3,5 miliardi di euro fatto approvare quest' anno. Per questo soffia sulla brace della rivolta popolare, la minaccia di un incendio alla Trump.

Lula, nel frattempo, tira dritto. La parola d'ordine è non rispondere alle provocazioni della piazza e cercare di spostare il fuoco dell'attenzione su altri lidi. La transizione, che sarà molto difficile, è salva, questo quello che conta. Lula parteciperà questo fine settimana alla Cop27 in Egitto, lo scenario ideale per presentarsi come salvatore dell'Amazzonia rispetto al disastro dell'attuale governo (45.000 km quadrati di foresta distrutti, quanto Lombardia e Veneto messi insieme) e ricevere applausi dalla comunità internazionale.

Al ritorno, dovrà iniziare a formare il suo governo, cercando alleati anche al centro, per rassicurare i mercati nella speranza che nel frattempo si saranno placate in parte le velleità golpiste della base bolsonarista. Sei brasiliani su dieci, tra destra e astensione, non l'hanno votato, dovrà conciliare più che dividere. Non sarà facile. 

Viaggio in Amazzonia. Alla ricerca dei popoli e dei paesaggi lungo il più grande fiume del pianeta. Angelo Ferracuti, Giovanni Marrozzini su L'Inkiesta il 5 Settembre 2022

Lo scrittore Angelo Ferracuti e il fotografo Giovanni Marrozzini pubblicano un reportage su un luogo e una cultura a rischio di estinzione

Il Parco Jaú non è solo popolato da animali, ci sono piccoli gruppi di persone che vivono lì da sempre. Navigando, di tanto in tanto scorgiamo case seminascoste nel verde e

minuscole canoe senza motore legate agli alberi. Quando accostiamo in uno di questi villaggi sembra spopolato, poi individuiamo una casa e oltre un gruppo di persone. È una piccola comunità di cinque famiglie: piantano i banani, la manioca e pescano, conservando il pescato con il sale. Ogni due mesi vanno in barca fino a Novo Airão a vendere la farina, ma anche le banane e le castagne. La zona si chiama Seringazinho e in passato ospitava una grande comunità di raccoglitori di caucciù; poi, esaurita l’attività, al villaggio sono rimasti i discendenti.

Cassilda, una signora in carne, racconta che ancora prima che istituissero il parco e la riserva estrattiva nel 1989, loro già preservavano questo territorio. «Questa è la terra dove siamo nati, cresciuti e dove siamo capaci di lavorare» racconta. Vivono semplicemente, senza radio – la televisione la accendono una volta a settimana perché la benzina per il generatore costa cara –, possiedono due cellulari ma li usano solo quando vanno in città per contattare gli acquirenti dei loro prodotti.

Una ragazza minuta dal viso delicato, capelli castani e labbra carnose, tiene in braccio uno dei suoi figli. Si chiama Maria e ci dice che ama la Bibbia: «È un libro di grandi storie, appena posso la leggo». Tra una casa e quella successiva c’è un piccolo campo da calcio, le porte coi soli legni, senza rete. Qui i ragazzini, maschi e femmine, giocano durante i lunghi pomeriggi.

Anche se si mangia per lo più pesce, a volte gli uomini vanno a caccia di cinghiali. E tocca anche difendersi da animali pericolosi come il tigrillo, la Lachesis muta (o surucucù), il rettile più velenoso di tutta l’Amazzonia, o i serpenti corallo, che in determinate stagioni si avvicinano alle case. Gli abitanti del villaggio sono contenti di vivere qui. Questo è il loro mondo, sarebbe difficile stare da un’altra parte. «Qui abbiamo tutto. Non voglio andare a vivere in città» mi spiega Cassilda. «Troppo rumore, cibo immangiabile; e poi per trasferirci dovremmo lavorare, vendere la manodopera, e questo ci priverebbe della libertà.»

I ragazzini frequentano la scuola in un villaggio vicino. Adesso, per via del Covid-19, vanno solo a prendere i compiti, per poi riconsegnarli una volta terminati. Celindo è un ragazzone di ventidue anni, carnagione olivastra e fisico muscoloso e compatto da calciatore. «Per mangiare andiamo al fiume e peschiamo» dice. «È così che viviamo, non c’è bisogno di andare al mercato, che neppure esiste in questa zona. Viviamo alla giornata, finché Dio vuole.»

Evito di raccontare che impresa sia stata arrivare ai villaggi della riserva estrattiva di Rio Unini. Il fiume è un vero e proprio labirinto, basta sbagliare un’entrata e ci si perde.

Spesso i villaggi sono nascosti dietro la ricca vegetazione, e vi si accede da piccoli pertugi nella selva che solo una guida molto esperta può riconoscere. Mentre la barca avanza continuo a guardare quella muraglia verde e adesso mi appare come un enigma da espugnare con il pensiero. Più l’Amalassunta va, più si rafforza la sensazione di stare in una terra di nessuno, un luogo sospeso nel quale i sensi non mi sono d’aiuto. Giovanni dice che i nativi riescono a distinguere oltre cento sfumature di verde, mentre i nostri occhi solo quindici: figuriamoci decifrare il percorso del Rio! 

Edinaldo oggi era al timone ed è tornato indietro almeno due volte, nonostante il GPS. Ha fermato l’Amalassunta facendo manovra, imboccando subito dopo un altro braccio di fiume sperando fosse quello giusto. Per nostra fortuna in una base del Parco Jaú che confina con la riserva, Wilson, un addetto alla fiscalizzazione, come la chiamano qui, molto disponibile ci ha accompagnato fino al terzo villaggio, guidando Edinaldo e Caboco passo passo. Abbiamo navigato un’ora buona in un tratto largo, poi abbiamo imboccato l’affluente Unini, stretto tra la vegetazione e meno profondo. Mentre l’Amalassunta scivolava sull’acqua io me ne stavo a prua, seduto beato su una sedia a godermi il vento fresco che mi accarezzava la faccia.

Quando siamo arrivati a Lago das Pedras, un piccolo villaggio addossato a un greto, era in corso una festa religiosa. Il pastore della Chiesa evangelica intonava un sermone sgolandosi isterico, ammonendo i fedeli con tale veemenza che la sua voce arrivava fino alla nostra barca; tutto intorno si sentiva il suo discorso severo e ammonitore sulla fine del mondo, la lotta titanica tra il bene e il male, satana o vattelappesca.

Il villaggio è fatto di palafitte una vicina all’altra lungo la riva del fiume. Scendendo a terra scorgo i volti delle donne affacciate alle finestre e una distesa di panni colorati messi ad asciugare; riconosco anche il serbatoio per l’acqua piovana. Le ragazze girano con in mano la borsetta e il cellulare, mentre i bambini ci guardano spauriti. Accanto all’edificio in legno della chiesa è stato allestito un palco inghirlandato di fronte al quale si terrà la festa. Al fondo del villaggio, alcuni ragazzini stanno giocando a calcio in due campi paralleli, altri si arrampicano sugli alberi a pochi metri dalla riva e si tuffano armonici e gioiosi; si lanciano nell’aria facendo salti mortali, sparendo e riaffiorando subito dopo, in assoluta simbiosi con il fiume.

Vicino all’ultima casa del villaggio incontro Sebastião, un piccolo uomo con in testa un cappello di paglia simile a quelli dei vietcong. È il leader dell’associazione degli Abi-

tanti del Fiume Unini – AMORU. Mi spiega che l’associazione è nata poco dopo la caduta della dittatura militare, nel 1995, prima ancora che ci fosse la riserva estrattiva. «Il

governo ci voleva mandare via, dicevano che in un parco non doveva viverci nessuno, dovevamo andarcene» spiega. Ma loro hanno resistito. «Il nostro è un modo di vivere che conserva la foresta. Raccogliamo quello che la natura ci dà, piantiamo manioca, banane, ananas e facciamo la raccolta controllata del pesce, preservando le specie protette». Ancora oggi il loro punto di riferimento è Chico Mendes, il sindacalista leader dei seringueiros. «Ha lottato per la biodiversità e per il popolo» dice Sebastião con sguardo fiero e senza nascondere una certa commozione.

Loro si sentono i custodi di questa foresta: «Raccogliamo solo quello di cui abbiamo bisogno per vivere, la curiamo, ripiantiamo quando è necessario; invece, i fazendeiros e le aziende dell’agrobusiness non si fanno scrupoli». Qui vivono diciannove famiglie, una sessantina di persone. «Ogni famiglia lavora per sé» dice, «ma una parte dell’attività agricola è collettiva, come quando si deve piantare o pulire il terreno: quello lo facciamo insieme.»

Dice che dopo la pandemia le cose sono peggiorate, l’inflazione è molto alta e non riescono più a mantenersi con il proprio lavoro. Prima potevano anche vendere il pesce

al margine del Rio Negro, ma adesso non più. Per colpa di alcuni pescatori abusivi, la polizia federale ha aperto un’inchiesta che ha coinvolto anche loro.

Giovanni mi confessa che prima, mentre passeggiava per il villaggio, ha visto una bambina. «Mi è venuta incontro, aveva gli occhi un po’ spauriti, sorpresi. Ci siamo trovati entrambi di fronte a una specie di apparizione, e quell’incontro di sguardi mi ha riportato a casa, dai miei figli. Ho provato una nostalgia molto forte, quella che chi fa il mio

mestiere prova ogni volta che parte. Raccontiamo le vite degli altri, perdendoci parte della nostra.» La sera mangiamo i pacu fritti cucinati da Diego. Apparecchiamo come sempre sul ponte di sotto, avvicinando i tavoli di plastica e le sedie. Stamattina, a Moura, prima di partire abbiamo acquistato più di sette chili di pesce, e ora abbiamo il congelatore pieno.

Con il passare dei giorni abbiamo preso un po’ più di confidenza con Caboco, che poco per volta sta abbandonando la scontrosità iniziale. Che stia finalmente diventando uno di noi? In ogni caso, continuiamo a non fidarci del tutto. Finito di cenare conversiamo un po’ sul ponte superiore, poi raggiungiamo le cabine, mentre gli uomini dell’equipaggio si sistemano nelle amache. Io mi concedo un’ultima birra accompagnata da un Antico Toscano. Aspiro il fumo pastoso e osservo questa natura che basta a se stessa e in noi suscita così tante domande. Piccole barche di pescatori sfilano davanti ai miei occhi e si dileguano nella penombra della sera. A notte fonda mi sveglio ed esco dalla mia cabina. In lontananza sento ancora la voce potente del pastore che intona il suo discorso solenne, e la gente del villaggio che risponde all’unisono. Nel cielo brilla un grappolo infinito di stelle, e i movimenti leggeri del fiume scosso dalle piccole correnti trasformano il loro riflesso in fiammelle vive, come fossero lanterne che affiorano dall’acqua.

La mattina dopo Paulo, maglietta nera e un paio di jeans, arriva puntuale con la sua barca a motore. È una piccola piroga da pesca in legno chiaro; a bordo una coppia di remi e un grande cesto per la raccolta, dove prendiamo posto Ranusia, Giovanni e io. Lo avevamo incontrato ieri al villaggio e ci aveva promesso di portarci nella piantagione dove lavora, a qualche miglio da qui, raggiungibile solo dal fiume. Dopo una ventina di minuti, accosta la barca alla vegetazione e si inoltra in uno stretto canale. Dopo uno slalom tra le piante, su una piccola riva ci appare una capanna con il tetto di foglie. Si chiama Casa di Farina, è il posto dove cuoce la manioca.

«Volete vedere la mia piantagione?» ci chiede. In realtà, siamo venuti proprio per questo. Lo seguiamo oltre un ruscello, lungo un percorso che conosce solo lui. Là dove foglie di banano e rami di alberi ostruiscono il passaggio si apre la strada con il machete, imitato da Giovanni. In questa parte di foresta ci sono serpenti molto velenosi che potrebbero sgusciare tra i piedi all’improvviso o scivolare giù dagli alberi; rettili infidi che Paulo conosce molto bene. Un giorno ha ucciso un serpente jaracoca lungo un metro. «Quando veniamo a lavorare siamo già preparati ad affrontare queste bestie» dice. «Gli stivali di gomma sono fondamentali, se ti morde un surucucù sei spacciato.» Mentre cammino guardo attento il terreno, che l’erba alta rende ancora più insidioso, e sono sicuro che nella testa di tutti stanno passando gli stessi pensieri.

A un tratto il sentiero si interrompe. «Non pensavo fosse così folto» dice Paulo guardando l’intrico di rami che ci blocca il passaggio. Con il machete si fa strada in quella selva di alberi e cespugli fin quando non arriviamo al campo di manioca. Ci racconta di quando, proprio qui, è stato morso da un ragno. «Ho iniziato ad avere le vertigini, vedevo le stelle» dice. «Poi è diventato tutto nero e sono svenuto.» In un campo più lontano ha già tagliato gli alberi e sta aspettando che il sole li asciughi. «Poi preparerò il terreno col fuoco» dice, «prima di piantare banani e manioca.» Di solito, per evitare i momenti più caldi della giornata, lavora tre ore la mattina e poi torna nel tardo pomeriggio, quando il sole sta calando. Nonostante il molto lavoro, sopravvive a stento. «Molta fatica e pochi soldi» dice arreso, aggiustandosi il cappello di paglia.

Noto il ciondolo che porta al collo e incuriosito gli chiedo se abbia un significato particolare. «È solo per la bellezza» mi risponde. In effetti quella piccola chitarra con al centro una stella di Davide ha poco a che vedere con gli indigeni baré, l’etnia a cui lui appartiene.

Da Viaggio sul fiume mondo, Angelo Ferracuti, Giovanni Marrozzini, Mondadori, 228 pagine, 18,50 euro

È morto «l’uomo più solo al mondo». Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

L’uomo, conosciuto come «l’Uomo della buca», ha vissuto da solo per 26 anni. Era l’ultimo superstite del territorio indigeno di Tanaru, in Amazzonia: il resto della sua tribù era stato massacrato dagli allevatori che volevano espandere i pascoli. 

Era l’ultimo membro della sua tribù, l’ultimo e unico abitante del territorio indigeno di Tanaru, 8.000 ettari nello stato di Rondonia. Un fazzoletto di Amazzonia vergine circondata dalla deforestazione compiuta negli ultimi decenni da chi in questa regione del Brasile occidentale preferisce allevare bestiame. 

Lui ha vissuto solo, per 26 anni, sempre in fuga ed impaurito, volutamente isolato dalla cosiddetta civiltà. 

Era conosciuto come l’«Uomo della buca», perché scavava ampie buche per intrappolare gli animali, conficcando sul fondo paletti appuntiti, o per nascondersi dagli uomini «civilizzati». 

Lo hanno trovato morto, apparentemente per cause naturali, il 23 agosto su un'amaca fuori dalla sua capanna di paglia. 

Non sono stati riscontrati segni di violenza. Doveva avere intorno ai 60 anni. Il resto della sua tribù era stato massacrato dagli anni Settanta in poi, in una serie di attacchi degli allevatori che volevano espandere i pascoli. 

Almeno fino agli anni Novanta, però, viveva in comunità con una manciata di altri indigeni che rifiutavano qualsiasi contatto con altri esseri umani. Sono stati tutti uccisi, tranne lui. 

L’«Uomo della buca» era l’unico sopravvissuto. 

I suoi movimenti erano monitorati dal 1996. Una squadra dell’ente brasiliano per la protezione degli indigeni (Funai) lo aveva incrociato casualmente una volta nel folto della foresta e senza farsi vedere lo aveva filmato brevemente nel 2018. Lui era impegnato ad abbattere un tronco d’albero e non si era accorto di nulla. 

Da allora non era stato più avvistato, ma gli agenti del Funai si sono imbattuti nelle sue capanne, costruite con la paglia, e nelle buche profonde che aveva scavato, alcune delle quali avevano punte affilate sul fondo. Intorno alle capanne piantava mais e manioca e frutti come papaia e banane. 

«Il territorio di Tanaru è come una piccola isola di foresta in un mare di vasti allevamenti di bestiame», commenta Survival international, che per molti anni ha condotto una campagna per demarcare e proteggere la terra dell’«Uomo della buca». Invano. 

«Con la sua morte il genocidio del suo popolo è ora stato completato — dice Fiona Watson, direttrice del Dipartimento ricerca e advocacy di Survival International, che ha visitato il territorio nel 2004 —. Di un vero e proprio genocidio si tratta: l’eliminazione deliberata di un intero popolo da parte di allevatori di bestiame affamati di terra e ricchezza». E ancora: «Nessun esterno ha mai saputo il suo nome, e della sua tribù non si sa quasi nulla. L’«Uomo della buca» è il simbolo sia delle crudeltà e delle violenze inflitte ai popoli indigeni di tutto il mondo nel nome della colonizzazione e del profitto, sia della loro resistenza. Possiamo solo cercare di immaginare gli orrori a cui ha assistito nella sua vita e la solitudine della sua esistenza dopo che il resto della sua tribù morì, ma ha resistito con determinazione a tutti i tentativi di contatto e ha chiarito che voleva solo essere lasciato solo». 

E così è morto, solo. In una terra che è sempre stata del suo popolo, uno dei sette territori del Brasile protetti da Ordinanze di protezione territoriale. In base alla costituzione brasiliana, gli indigeni hanno diritto alla loro terra tradizionale, ma spesso la demarcazione non viene effettuata. E spesso gli indigeni vengono uccisi da chi vuole depredare il loro territorio. In Brasile ci sono circa 240 tribù indigene, molte delle quali minacciate da minatori, taglialegna e agricoltori illegali che invadono il loro territorio. 

Amazzonia, morto “L’uomo del Buco”: l’ultimo vero indigeno viveva isolato da 26 anni. La Stampa il 29 agosto 2022.

Lutto in Brasile per la morte dell'ultimo membro di un gruppo indigeno incontaminato nello Stato di Rondonia, al confine con la Bolivia. L'uomo, di cui non si conosceva il nome, è vissuto in totale isolamento negli ultimi 26 anni, ma era stato soprannominato "l'Uomo del Buco" perché scavava buche profonde, alcune delle quali usava per intrappolare gli animali mentre altre sarebbero punti di accesso a spazi nascosti. L'emittente Bbc ha riferito che il suo corpo senza vita é stato rinvenuto nei giorni scorsi su un'amaca fuori dalla sua capanna di paglia e non riportava segni di violenza. Secondo alcuni esperti di tribù indigene, l'ultimo esponente della tribù aveva una sessantina d'anni e in base ai primi accertamenti sarebbe morto per cause naturali. In effetti non ci sarebbero segni di incursioni nel suo territorio e nulla nella sua capanna è stato toccato, ma la polizia svolgerà comunque un'indagine post mortem. Per la propria sicurezza l' "Uomo del Buco" veniva monitorato da agenti dell'Agenzia per gli affari indigeni (Funai) del Brasile sin dal 1996. Nel 2018, i membri del Funai sono riusciti a filmarlo durante un incontro casuale nella giungla. Nel filmato viene visto mentre taglia un albero con un'ascia presumibilmente Le prove trovate nelle sue capanne e nei suoi campeggi suggeriscono inoltre che abbia piantato mais e manioca e frutti come papaia e banane. Gli altri sei membri rimasti della sua tribù, stabiliti da sempre nell'area indigena di Tanaru, sono stati uccisi nel 1995 e prima, negli anni '70, si sospetta che la stragrande maggioranza dei suoi esponenti sia stata eliminata da allevatori che volevano espandere la loro terra. Secondo la costituzione del Brasile, gli indigeni hanno diritto alla loro terra tradizionale, quindi è' noto che coloro che vogliono impossessarsene li uccidono. Survival International, un gruppo di pressione che si batte per i diritti delle popolazioni indigene, ha avvertito che in Brasile ci sono circa 240 tribù indigene, molte delle quali sono minacciate dal fatto che minatori, taglialegna e agricoltori illegali invadono il loro territorio, non solo nell'Amazzonia.

La sua tribù sterminata dagli allevatori: trovato adagiato su un'amaca. E’ morto l’indigeno della buca, ha vissuto in Amazzonia e per 26 anni ha resistito da solo alla colonizzazione. Redazione su Il Riformista il 29 Agosto 2022 

Lo hanno trovato adagiato su un’amaca, con il corpo coperto da piume, in quel fazzoletto di terra dell’Amazzonia rimasto incontaminato dalla deforestazione. E’ morto nella sua casa a cielo aperto, dove ha vissuto da solo negli ultimi 26 anni. Lo chiamavano Indio do Boraco, l’indigeno della buca, perché era abile a scavare fosse-trappola per gli animali di cui si nutriva. Buche dove lui stesso a volte si rifugiava dalla “civiltà“.

Era l’ultimo membro della sua tribù, quella presente nell’area protetta di Tanaru, nella giungla amazzonica di Rondonia, al confine tra Brasile e Bolivia. I funzionari del Funai, l’agenzia brasiliana creata per difendere le oltre 240 tribù indigene che vivono nei territori più isolati dell’Amazzonia, lo hanno trovato senza vita lo scorso 23 agosto. Era adagiato su un’amaca vicino alla capanna gialla dove viveva, coperto da piume forse perché sapeva che era arrivato il suo momento. La morte risalirebbe almeno a 30 giorni prima.

Non è chiara l’età dell’indigeno della buca. Oscillerebbe tra i 60 e i 70 anni. La sua tribù era stata massacrata dagli anni Settanta alla fine degli anni Novanta da allevatori spietati e pronti a tutti per espandere i pascoli. Lui era l’unico ad essere sopravvissuto con i suoi movimenti monitorati dal 1996. Una squadra del Funai lo aveva incrociato casualmente una volta nella fitta foresta e senza farsi vedere lo aveva filmato brevemente nel 2018: l’indigeno della buca era impegnato ad abbattere un tronco d’albero e non si era accorto di nulla.

Da allora non era stato più avvistato lasciando tuttavia numerose tracce della sua presenza: dalle capanne di paglia alle buche profonde usate per cacciare con punte affilate sul fondo.

“Con la sua morte il genocidio del suo popolo è ora stato completato — spiega Fiona Watson, direttrice del Dipartimento ricerca e advocacy di Survival International, che ha visitato il territorio nel 2004 —. Di un vero e proprio genocidio si tratta: l’eliminazione deliberata di un intero popolo da parte di allevatori di bestiame affamati di terra e ricchezza”.

“Nessuno ha mai saputo il suo nome, e della sua tribù non si sa quasi nulla. L’uomo della buca è il simbolo sia delle crudeltà e delle violenze inflitte ai popoli indigeni di tutto il mondo nel nome della colonizzazione e del profitto, sia della loro resistenza. Possiamo solo cercare di immaginare gli orrori a cui ha assistito nella sua vita e la solitudine della sua esistenza dopo che il resto della sua tribù morì, ma ha resistito con determinazione a tutti i tentativi di contatto e ha chiarito che voleva solo essere lasciato solo”, conclude Watson.

Brasile sconvolto. Leggenda dello sport uccisa in un locale, Leandro Lo freddato da un colpo alla fronte: fermato un poliziotto. Antonio Lamorte il riformista l'8 Agosto 2022 

Solo tre mesi fa Leandro Lo aveva vinto il suo ultimo titolo mondiale: era una vera e propria leggenda vivente del jiu jitsu. È morto, a 33 anni, ucciso con un colpo di pistola alla fronte dopo una lite in un locale. Per l’omicidio che ha sconvolto il Brasile è stato fermato un poliziotto trentenne fuori servizio, che si è consegnato la notte scorsa. Un’aggressione, una lite esplosa e degenerata per futili motivi, forse un fraintendimento a causare la tragedia.

La tragedia si è consumata all’alba di domenica. Leandro Lo aveva 33 anni. Era originario di San Paolo ed era figlio di un pugile, Luciano Pereira. Aveva cominciato anche lui con la boxe, il karate, la capoeira fino a passare al jiu-jitsu in adolescenza. A cambiare la sua vita il progetto sociale del professore Cicero Costha, “Combattendo per il bene”, nel quartiere Ipiranga, volto a offrire a ragazzi difficili un’alternativa salutare di formazione e integrazione. Lo nel 2015 aveva fondato la sua squadra, “Ns Brotherhood”. Campione mondiale in cinque diverse categorie, per otto volte, tra qualche giorno avrebbe disputato un altro campionato ad Austin, negli Stati Uniti.

Stava assistendo a uno spettacolo del gruppo Pixote, nel Club Sirio, in Avenida Indianapolis, zona Sud di San Paolo quando si è consumata la tragedia. Secondo l’avvocato della famiglia del lottatore il poliziotto fermato avrebbe provocato l’atleta. L’uomo è arrivato, ha cominciato a disturbare il gruppo di amici e ha preso a scuotere una bottiglia che era sul tavolo, prima di provocare Leandro Lo faccia a faccia, che a quel punto avrebbe steso e immobilizzato l’agente fuori servizio. Il tenente ha esploso un solo colpo, dritto alla testa del campione. I testimoni hanno raccontato che dopo avrebbe anche colpito a calci Lo che giaceva immobile a terra. Nessuno scampo.

A soccorrere per primo l’atleta un medico nel locale, che ha provato a rianimare l’atleta. Il campione è stato trasferito all’Ospedale Municipal Dr. Arthur Ribeiro de Saboya. Poco dopo la dichiarazione di morte cerebreale. La Polizia Militare ha detto di essere colpita dall’accaduto e di aver avviato un’“indagine amministrativa” secondo una nota della Segreteria di Sicurezza Pubblica di San Paolo. Il poliziotto che ha sparato è il tenente Henrique Otavio Oliveira Velozo. Il tribunale ha ordinato la sua detenzione per trenta giorni in attesa di ulteriori indagini. Sarebbe stato riconosciuto anche dalle telecamere della struttura ricettiva.

“Mio eroe, se stato un regalo di Dio nella mia vita”, ha scritto la madre dell’atleta in un omaggio al figlio su Instagram. “Mi mancherai tanto, è venuta a mancare un pezzo di me. Ti amo eternamente. Conserverò per sempre i bei ricordi, che sono molti. Mi hai fatta sentire la madre più amata del mondo. Grazie per il tuo amore”. Commozione e cordoglio espresso da migliaia di account sui social, lutto nel mondo dello sport brasiliano per una vicenda assurda e spaventosa che sta facendo il giro del mondo. Amici e colleghi del campione hanno aspettato presso il commissariato il tenente fermato. Secondo alcuni il tenente era cintura rossa di jiu-jitsu e conosceva Lo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

Enrico Spaccini per openon.line.it l'8 agosto 2022.

Decine e decine di amici, conoscenti o anche solo ammiratori di Leandro Lo sono scesi nella notte per le strade di San Paolo per protestare contro la polizia brasiliana. Tra i vari insulti e spruzzi di spray al peperoncino, si sente più volte pronunciare la parola «assassino». Lo era una leggenda per quei ragazzi e per gli appassionati del Jiu-jitsu brasiliano. 

A 33 anni era stato già per 8 volte campione del mondo di questa arte marziale in cui devi sottomettere l’avversario con sequenze di prese e mosse a terra. Una discussione e qualche bicchiere di troppo, hanno posto la parola fine sulla sua brillante carriera. 

Come raccontato da alcuni testimoni, nella notte tra il 6 e il 7 agosto Lo era insieme ad alcuni amici all’Esporte Clube Sirio a Planalto Paulista, nella zona sud di San Paolo quando un ospite ubriaco ha iniziato a discutere con lui. In pochi istanti, ha tentato di afferrare una bottiglia dal bancone del bar per usarla come arma contro il lottatore che, prontamente, è riuscito a immobilizzarlo e calmarlo.

L’assassinio

O almeno così credeva, perché come raccontato dalla testata brasiliana Ponte quando lo ha lasciato andare questo ha tirato fuori una pistola e gli ha sparato in testa. Il campione brasiliano è morto poco dopo in ospedale, mentre il suo assassino è riuscito a fuggire dopo averlo anche preso a calci. 

Qualcuno tra i presenti, però, ha riconosciuto grazie a delle foto quell’uomo che aveva con sé l’arma: si trattava del tenente Henrique Otavio Oliveira Velozo, un agente 30enne della polizia militare di San Paolo che quella sera era fuori servizio. Domenica 7 agosto Velozo si è presentato ai suoi superiori ed è stato arrestato per l’omicidio di Lo.

Alessandra Muglia per il “Corriere della Sera” il 10 agosto 2022.

Per l'ultimo saluto i suoi compagni di squadra si sono presentati in kimono, come aveva chiesto la madre, Fátima, che si è rivolta a lui chiamandolo «il mio eroe». Ma Leandro Lo, lottatore iridato, era l'eroe di tutto un Paese, il Brasile, a cui aveva regalato l'ottavo titolo mondiale soltanto tre mesi fa. In poche settimane si è passati dai festeggiamenti al lutto per una morte assurda. 

Il campione di arti marziali, la leggenda del jiu-jitsu brasiliano, è stato steso a terra per sempre a 33 anni da un proiettile in fronte in un locale di San Paolo, la sua città. Era lì con degli amici sabato sera a seguire un concerto, quando un tizio si è avvicinato al suo tavolo, minacciando i presenti con una bottiglia.

Il lottatore lo avrebbe bloccato a terra per evitare che la situazione degenerasse. Poco dopo alcuni ragazzi hanno aiutato l'aggressore a rialzarsi, invitandolo a calmarsi e ad andare via. Il provocatore una volta in piedi sembrava si stesse allontanando, la disputa pareva finita lì. E invece dopo un paio di passi «si è girato all'improvviso, ha tirato fuori una pistola e ha sparato a Leandro in testa», secondo quanto ricostruito da alcuni testimoni.

A colpire è stato un poliziotto fuori servizio, il tenente Henrique Otavio Oliveira Velozo, trentenne, anche lui lottatore di jiu-jitsu. È stato lui stesso ad autodenunciarsi al commissariato il giorno dopo. Ora si trova in stato di fermo con l'accusa di omicidio. Un tribunale di San Paolo ha ordinato 30 giorni di detenzione in attesa di ulteriori indagini: vogliono accertare cosa abbia scatenato la furia del tenente al «Clube Sirio», un club sportivo. 

L'indignazione si è riversata, copiosa, sui social. Ma anche in strada, al grido di «assassino». La rabbia è montata in un contesto di violenza ormai pervasiva in Brasile, anche per mano della polizia. Ben 6.416 vittime in un anno, mai così tante per interventi delle forze dell'ordine da quando questo indicatore ha iniziato a essere monitorato, nel 2013: l'aumento è stato del 190%, calcola il Forum brasiliano sulla Sicurezza Pubblica. Un'impennata di violenza in qualche modo incoraggiata dallo Stato che ne legittima l'uso in nome dell'ordine.

Del resto si parla di sfida «armata» anche nell'attuale corsa per le presidenziali, con Bolsonaro che vuole coinvolgere l'esercito nello spoglio e il rivale Lula che gira con il giubbotto anti-proiettile. «Il Brasile è in terapia intensiva. Abbiamo un presidente che rende omaggio a torturatori e dittatori. Corriamo il rischio di dover vivere ancora una volta una dittatura», ha denunciato l'ex ministro della Giustizia José Carlos Dias, promotore di un manifesto che ha raccolto un milione di firme a favore della democrazia, tra i timori che il presidente promuova un'insurrezione in stile Trump.

Contro la violenza armata si è espresso ieri padre Luciano Borges durante il funerale di Leandro Lo. «Chi uccide non vince mai», ha scandito ieri il sacerdote davanti ad amici e parenti in lacrime. Tra loro lo chef di fama internazionale Alex Atala. Il prete ha anche chiesto un applauso per i compagni di lotta definendoli «combattenti per una buona causa». E sono stati loro, in kimono, ad accompagnare il loro eroe dalla cappella al cimitero, per l'ultimo saluto.

·        Quei razzisti come gli argentini.

Emiliano Guanella per “la Stampa” il 18 Dicembre 2022.    

Non c'è niente di più argentino che il concetto «dell'allegria per il pueblo» e non c'è nulla di più forte del calcio per giungere, quasi per magia, a questo sentimento di euforia collettiva. Nel primo Mondiale senza Maradona la selección del Messi più maradoniano di tutti i tempi ha incendiato la passione di un Paese che arriva alla fine dell'anno stremato dall'ennesima e gravissima crisi economica.

Nell'ultimo mese l'inflazione è stata del 5%, su scala annuale è del 96%, un deprimente record mondiale, ma questo a nessuno importa più. Il futbol, qui, è pasión, ode nazionalpopolare, laboriosa conquista emozionale fatta di sforzi, talento e sacrifici. 

Non a caso oggi molti benedicono l'Arabia Saudita, quella debacle che ha obbligato i ragazzi di Scaloni a fare a pugni con la realtà. Da quasi favoriti a villani, da eroi predestinati ad oggetto degli sfottò dei brasiliani e dell'ironia di molti europei, tutto sembrava un film già visto; la celeste y blanca che si squaglia sul più bello e relega Messi all'ennesima delusione. 

Ma è arrivato l'orgoglio e l'etica del «paso a paso» di Basilesca memoria (da Aldo Basile, bicampione della Copa America ai tempi di Batistuta), testa bassa e a lavorare, trascinati da una Pulce in stato di grazia. Se i ragazzi a Doha ce la stavano mettendo tutta, in patria non si poteva essere da meno. 

I bambini delle scuole elementari con la maglietta sotto il grembiule bianco, i negozi con le bandiere al posto di Babbo Natale. È il primo Mondiale con la splendida primavera in fiore dei jacarandà, sono stati sistemati maxi schermi in piazze e parchi, i datori di lavoro hanno fatto uscire prima i loro dipendenti, nessuno si è dovuto fingere malato. 

Tutti i politici, dall'impopolare presidente Alberto Fernandez in giù, hanno approfittato della situazione, per un mese nessuno a reclamare della corruzione o della violenza, nessuno a chiedere perché nel granaio del mondo un bambino su due è malnutrito. Pane e circo, può dire chi da queste parti non è mai venuto e come dargli torto. Poco importa, l'hastag «Argentina, non sforzarti a capirla» ha fatto capolino in centinaia di video che ritraggono l'illogica follia mundialista. 

Gente che ha venduto l'auto per volare a Doha, chi ha perso il lavoro, la abuela (nonnetta) portata in trionfo su Tik Tok, la foto del pensionato di 82 anni di Entre Rios che si è piazzato con la sdraio davanti al negozio chiuso di elettrodomestici del suo paese per poter vedere la partita con l'Olanda davanti ad una tv da 52 pollici; tre giorni dopo gliene hanno regalata una nuova di zecca. C'è il nuovo inno cantato dal gruppo La Mosca, che parla dei ragazzi della guerra delle Malvinas e delle lacrime versate nelle tre finali perse tra 2014 e il 2020. 

La maledizione spezzata con la Copa America vinta contro i "brazucas" nel Maracanã, Lionel Andrés che fa la pace con la bacheca e accende il motore della Scaloneta. 

La chiosa del brano è una fitta al cuore, c'è il dolore della perdita e la felicità per il passaggio delle consegne, dramma e nostalgia, come in un tango. «C'è Diego, nel cielo lo possiamo vedere, è con Don Diego e con la Tota, a tifare per Lionel».  

Il riconoscimento per il percorso realizzato è generale, molti andranno a salutare la selección all'aeroporto anche se perderà. Messi ha messo finalmente a tacere tutti quelli che lo criticavano, sapendo diventare leader e condottiero anche con la pelota ferma. Quel "Que mirás bobo?" (cosa guardi, fesso?) al malcapitato oranje Weghorst è la quinta essenza della sua trasformazione maradoniana, l'abbraccio finale con la parte più passionale e virulenta del tifo, con buona pace dei moralisti di turno. 

 «La rabbia è il mio combustibile», diceva Diego e oggi quella rabbia è l'emblema della squadra che si sente pronta, senza trionfalismi ma senza paura a sfidare Mbappé e compagni. L'atroce incanto di essere argentini, diceva anni fa lo scrittore Marcos Aguinis, quel mix di emozioni e momenti sempre contrastanti, di gioie e dolori, di cadute e risalite. Il Paese dei cinque premi Nobel e della dittatura più sanguinaria d'America, di Quino e dei default a ripetizione. 

I sociologi stanno analizzando a fondo l'oasi di felicità pallonara che si sta vivendo nel mezzo del Titanic generale. «Il sentimento più diffuso rispetto al momento economico e politico del Paese - spiega Nicolas Rotelli - è la tristezza. Il calcio ha regalato una luce di sollievo in questo buio generale». Erano tutti pronti per un altro Natale con litigi in famiglia, giovani senza lavoro e anziani con pensioni da fame. Problemi che rimangono, questo è chiaro, ma il clima ora è un altro. 

È bastato, per così dire, il genio di Lionel, ma anche la freschezza di Julian Alvarez, la guapperia del Dibu Martinez, la modestia di Scaloni e dei suoi collaboratori Samuel, Ayala ed Aimar, tutti molto amati dai tifosi. Manca solo un passo ed è il più importante, ma comunque vada l'anno per gli argentini si è magicamente raddrizzato.

«Argentina 1985» e il compito civile del cinema di far sì che gli orrori non si ripetano. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022.

Il film di Santiago Mitre, applaudito alla Mostra di Venezia e ora disponibile su Prime Video, è il drammatico racconto della fine di un incubo

Questo film di Santiago Mitre, applaudito alla Mostra di Venezia da dove è uscito però senza alcun Leone, è il drammatico racconto della fine di un incubo, cioè della dittatura della giunta militare di che impose dal 1976 al 1983 un crudele regime di torture e desaparecidos, al comando del generale Jorge Rafael Videla (1925 – 2013) e di tutta la sua compagnia di orrore. Come lo fu «Vincitori e vinti» di Kramer nel 1960, con quel cast impressionante, che fu il lungo processo di Norimberga contro i crimini nazisti, «Argentina 1985» ha il compito di rimuovere un incubo per vie legali.

Ed è anche, oltre che una storia pubblica, la storia di un patimento, di una crisi, dei dubbi privati dell’avvocato Julio Strassera (come sempre insostituibile Ricardo Darín) che regge le sorti del dibattimento e da cui dipenderanno le sorti del processo e il parere della giuria popolare. E c’è anche un partner in tribunale che ha un suo curriculum di angosce, il più giovane Luis Moreno-Ocampo, l’altrettanto bravo Peter Lanzani. Ma, come si capisce facilmente, il film che dovete e potete vedere su Prime Video, ha soprattutto un compito civile ed educativo, deve spiegare cosa è successo a chi non era presente, per evitare che l’orrore si ripeta secondo i cicli e i ricicli storici.

Passano sullo schermo quattro mesi di preparazione e poi di dibattimento per organizzare gli atti di un processo che coinvolge tutto un paese, con 833 testimoni che non vedono l’ora di raccontare le brutture morali e materiali di cui sono state vittime e testi nei centri di tortura e nelle prigioni clandestine, con un omaggio alla storia crudele dell’umanità di ben 30.000 persone scomparse nel nulla e che ancora oggi le Mamme piangono. Nulla è facile, la dittatura ha ancora armi e uomini segreti e nascosti per minacciare rappresaglie, bombe e attentati mortali, ma questa volta il cinema sa cosa deve dire e come, conosce la meticolosità di un dibattimento che ci deve tenere incollati al banco del tribunale.

Sappiamo che c’è stato un delitto contro tutta una nazione, ciascuno è stato colpito nel suo intimo, quindi il regista mette in primo piano il fattore umano anche di chi deve giudicare un obbrobrio come questo, ma senza mai chiedere aiuto alla retorica, nasce tutto dalla voglia di spiegare e di ricordare, non di perdonare, perché il pericolo non è mai dietro l’angolo. Quindi abbiamo il dramma della prefazione quando gli avvocati prepararono l’istruttoria, poi la sfilata dei testi al processo (con una testimonianza da far paura) e infine arriva la sentenza che mette almeno in questo momento in pace gli uomini, come si dice, di buona volontà.

MAIL A DAGOSPIA il 12 dicembre 2022.

Riceviamo e pubblichiamo: La nazionale del Senegal non doveva presentarsi al mondiale, è razzista, non c’è neanche un bianco. Seguendo Erika Denise Edwards del Washington Post penso che questa nazionale sia il frutto di politiche razziali iniziate nel 70mila avanti cristo con la migrazione dell’homo sapiens. Un lettore

Tommaso Lorenzini per “Libero quotidiano” il 12 dicembre 2022.

Non temiamo smentite se affermiamo che riguardo al calcio, al soccer in questo caso, negli Usa si faccia confusione. Non tanto per cultura strettamente pallonara (viste le strutture e le forme di intrattenimento accessorie all'avanguardia) piuttosto per quell'oleoso politicamente corretto che negli States deve occuparsi di ogni cosa. E condizionare ogni cosa, proponendo teorie folli in nome di quell'ideologia "woke" (sveglio, «con il quale ci si riferisce allo "stare all'erta", "stare svegli" nei confronti di presunte ingiustizie sociali o razziali», come spiega Wikipedia) che ogni persona dotata di senso critico scansa con cura.

L'ultima predica arriva dal Washington Post, quotidiano che piace alla sinistra chic. È su quel giornale che un articolo si chiedeva se non fosse il caso di escludere gli «ignoranti» dal voto introducendo un esame di educazione civica da superare.

Stavolta, la scrittrice Erika Denise Edwards se la prende con l'Argentina, spiegando che la Selleccion è il frutto di politiche razziali iniziate quasi due secoli fa. Uno sbiancamento della nazione, con le persone di origine creola, india o di colore usate nel corso degli anni come carne da cannone per le guerre civili, vittime di un processo di «rimpiazzamento» come da piani ottocenteschi dell'allora presidente Sarmiento, ridotte oggi a spacciarsi per bianchi per ottenere diritti e facilitazioni nella vita quotidiana. 

Insomma, l'Albiceleste che domani sfida la Croazia in semifinale sarebbe un progetto di eugenetica, dove anche giocatori dai tratti chiaramente non "bianchi" come Acuna o Lautaro si dicono tali in nome del mito dell'«Argentina bianca». Una menzogna collettiva, secondo la Edwards, propagandata anche dallo stesso Maradona, epigono di ogni morocho (indio).

Anche se la storia spiega che l'Argentina è stato il primo Paese ad abolire la schiavitù, nel 1813, che l'ondata migratoria europea ha fatto spostare tanti "schiavi" nei Paesi vicini e che quasi tutti quei disgraziati rapiti dall'Africa venivano portati nelle regioni del nord del Sudamerica, soprattutto Colombia e Venezuela. Ora, "che c'importa di queste stupidate?".

Eppure è negli Usa che si disputeranno i Mondiali 2026. Non stupiamoci se proprio il Washington Post chieda di introdurre quote di colore per le nazionali, pena l'esclusione. Fantascienza? Nel rugby, il Sudafrica ha varato dal 2015 le quote nere, criticate peraltro dallo stesso capitano Kolisi (di colore).

La Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 dicembre 1985 nelle pagine degli Esteri. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Dicembre 2022.

La Gazzetta del Mezzogiorno dell’11 dicembre 1985 nelle pagine degli Esteri. Due giorni prima si è concluso lo storico processo alla Giunta Militare argentina, il «Juicio a las Juntas». A volerlo era stato Raúl Alfonsín, il primo capo di stato democraticamente eletto nel paese sudamericano dopo sette anni di dittatura militare: esponente dell​’Unione civica radicale, si era fortemente opposto al colpo di stato messo in atto nel 1976 dal generale Jorge Rafael Videla, che aveva deposto Isabelita Perón.

Si erano succedute al potere, negli anni a seguire, diverse giunte militari, avviando il cosiddetto «processo di riorganizzazione nazionale», che prevedeva, tra le altre cose, una violenta repressione del dissenso, dei partiti politici di opposizione e, in particolare, del socialismo. Consueta era divenuta la pratica, da parte di squadre non ufficiali della polizia o dell’esercito, dei sequestri: migliaia di attivisti, ma anche semplici cittadini estranei alla militanza politica, erano rapiti, torturati, inviati in campi di concentramento, oppure, nei casi più drammatici, sedati e poi lanciati nell’oceano o nel Rio della Plata, nei «voli della morte».

Alfonsín, una volta eletto Presidente dell’Argentina, decretò l’avvio delle indagini contro i nove membri delle primi tre «Juntas». Fu il procuratore Julio Strassera a guidare il pool di giovanissimi avvocati che riuscì a incriminare Videla e i suoi.

Così sulla «Gazzetta»: «Una condanna esemplare, ma anche equilibrata, quella emessa dalla Corte federale d’Appello Argentina alla fine dello storico processo contro i nove alti ufficiali che hanno fatto parte delle giunte militari che hanno governato il paese dopo il golpe del 1976: sono state emesse infatti cinque condanne, tra le quali due ergastoli per il generale Videla e l’ammiraglio Massera. Certo è che proprio i familiari delle migliaia di vittime della “guerra sporca contro la sovversione” non si sono detti del tutto soddisfatti dalla sentenza. Ad accusare i giudici di troppa tiepidezza sono state infatti le cosiddette madri della Plaza de Mayo che ieri hanno inscenato una manifestazione di protesta».

Proprio le madri che ogni settimana, durante la dittatura, scendevano in piazza per chiedere la verità sulla sorte dei loro figli, avevano fatto emergere il caso dei desaparecidos: si calcola che in Argentina, siano scomparsi circa 30.000 oppositori politici, ma le cifre non sono definitive. Nel 1990 la condanna sarà annullata da un contestato indulto emanato dal presidente Carlos Menem. Solo nel 2010 la sentenza sarà applicata e riporterà in carcere i militari.

La 'colonna sonora' dell'albiceleste. Cosa cantano i tifosi argentini al Mondiale in Qatar: il testo e il significato del coro per Messi e compagni. Redazione su Il Riformista l’8 Dicembre 2022

Gli argentini sperano possa essere la ‘colonna sonora’ del trionfo mondiale, la prima Coppa del Mondo dopo quella alzata in cielo nel 1986 da Diego Armando Maradona. È il coro che fa da sottofondo alle partite dell’albiceleste di Leo Messi durante i Mondiali in Qatar, giunti ormai nella fase clou.

Un sogno, quello della ‘Scaloneta’, la nazionale guidata dal ct Lionel Scaloni, evidente già nelle parole del coro tratto dalla canzone “Muchachos, Esta Noche Me Emborracho“, del gruppo “La mosca“.

Il testo della canzone-coro che il gruppo per l’occasione del Mondiale in Qatar ha voluto riadattare in chiave calcistica, è questo: “En Argentina nací, tierra de Diego y Lionel, de los pibes de Malvinas, que jamás olvidaré. No te lo puedo explicar, porque no vas a entender, las finales que perdimos, cuántos años las lloré. Pero eso se terminó, porque en el Maracaná, la final con los brazucas, les volvió a ganar papá. Muchachos, ahora nos volvimo’ a ilusionar, quiero ganar la tercera, quiero ser campeón mundial, y el Diego, en el cielo lo podemos ver, con Don Diego y con la Tota, alentándolo a Lionel”.

Questo invece il testo in italiano: “In Argentina sono nato, terra di Diego e Lionel. Dei ragazzi di Malvinas che mai dimenticherò. Non te lo posso spiegare perché non capirai, le finali che abbiamo perso quanti anni le ho piante. Però quello è finito perché nel Maracana la finale col Brasile l’ha vinta di nuovo papà. Ragazzi adesso ci siamo illusi di nuovo, voglio vincere la terza, voglio essere campione del mondo. E al Diego dal cielo lo possiamo vedere, con Don Diego (suo padre) e con la ToTa (sua madre) incitando Messi”.

Un coro intonato dagli stessi giocatori della nazionale albiceleste negli spogliatoi, come nel filmato pubblicato sui social dal difensore Otamendi.

Il testo evoca diversi fatti, sportivi e non, argentini: dai ragazzi della Malvinas, le isole Falkland al centro di una guerra con l’Inghilterra nel 1982, ai pianti per le finali dei Mondiali perse del 1990 e del 2014, fino al trionfo allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro della Copa America del 2021 contro gli odiati rivali brasiliani.

Maurizio Salvi e Ludovico Mori per ANSA il 7 Dicembre 2022.

Come previsto, ma anche meno del previsto. Il tribunale federale n.2 di Buenos Aires ha condannato la vicepresidente della Repubblica argentina, Cristina Fernández de Kirchner, a sei anni di carcere e all'interdizione perpetua dai pubblici uffici per il reato di amministrazione fraudolenta a danno della pubblica amministrazione per la concessione di appalti nel dipartimento di Santa Cruz, fra il 2003 e il 2015, un lasso di tempo che considera anche gli illeciti commessi durante il mandato presidenziale del marito Nestor Kirchner. 

L'ex first lady ha subito annunciato che, comunque vadano gli appelli, a fine mandato non si ricandiderà. A fronte di quanto aveva chiesto per lei dalla Procura che ha istruito il processo - 12 anni di prigione - i giudici hanno inflitto una pena dimezzata, assolvendola dall'altro reato importante contestatole: l'associazione illecita. Dei 13 imputati della causa conosciuta come 'Vialidad', all'imprenditore Lázaro Báez sono stati comminati sei anni e l'interdizione dei pubblici uffici, mentre sette altri imputati hanno ricevuto pene che variano fra i tre anni e mezzo e i sei di carcere. Quattro sono stati assolti. 

Subito dopo la lettura della sentenza, le cui motivazioni si conosceranno solo a marzo 2023, la vicepresidente è intervenuta in streaming attraverso i suoi canali social per ripetere che "si è trattato di una sentenza già scritta", sulla scia di una sua precedente dichiarazione in cui aveva dichiarato: "Il tribunale che mi processa sembra piuttosto un plotone di esecuzione". Kirchner ha criticato anche la sua condanna per amministrazione fraudolenta. Un reato che, ha detto, "non può fare riferimento a un presidente, che fin dalla riforma costituzionale del 1984 non amministra né esegue le partite di bilancio".

"Chi ha questa responsabilità è il capo di gabinetto, e nessun capo di gabinetto figura tra gli imputati", ha aggiunto. Si deve comunque ricordare che oltre al processo odierno, Cristina Kirchner è stata già rinviata a giudizio in altre quattro cause. In tre di esse i giudici hanno deciso il proscioglimento prima ancora dell'inizio della fase dibattimentale. I proscioglimenti sono tuttavia stati oggetto di appello in tutti e tre i casi e si attende quindi una decisione in merito da parte di tribunali superiori.

Si tratta delle cause denominate 'Dolar futuro', dove Kirchner è imputata per presunte irregolarità nella compravendita di divise; 'Memorandum con Iran', in cui è accusata di presunto insabbiamento e tradimento della patria; e di quella 'Hotesur', dove pure l'ex presidente è stata rinviata a giudizio con l'imputazione di associazione a delinquere e riciclaggio. L'unica altra causa in attesa dell'avvio della fase propriamente processuale è quella denominata 'Quaderni della corruzione', dove Kirchner è imputata per associazione a delinquere legata alla concessione di appalti per opere pubbliche.

Maurizio Stefanini per “Libero quotidiano” il 7 Dicembre 2022.

Secondo la vice-presidente argentina, la peronista di sinistra Cristina Kirchner, «gli italiani sono mafiosi per eredità genetica». Cioè, non è che la ex-presidente - ora tornata alla vicepresidenza assieme a quell' Alberto Fernandez che secondo molti non sarebbe che un paravento - ha detto esattamente così. 

Lo ha detto in modo abbastanza più volgare. «El lawfare (en la Argentina tuvo) un componente mafioso, debe ser por los ancestros de quien fuera..., la bragueta italiana...». Alla lettera: «la guerra giudiziaria in Argentina ha avuto una componente mafiosa deve essere per gli antenati di chi sa chi, la mutanda italiana». L' ultima locuzione si potrebbe rendere con un: «la trasmettono ai discendenti attraverso i testicoli». Ma data la raffinatezza del ragionamento forse ancora più rispondente sarebbe un «attraverso i coglioni». 

Lo ha detto sabato a Cuba, dove si trovava per una Fiera del Libro.

Che già sarebbe quasi come parlare da un convegno sul pluralismo religioso organizzato in Arabia Saudita o da un seminario sul diritto penale fatto a Teheran: ma tant' è. 

Presentava il suo libro, che si intitola Sinceramente. Con "lawfare" si riferiva alla sequela di 11 processi in cui è coinvolta, con ben 5 mandati di arresto preventivo non eseguiti per l' immunità parlamentare che ha ricercato apposta, facendosi prima eleggere come senatrice e poi come vicepresidente, che appunto come presidente del Senato in Argentina ha pure questa protezione. Il presidente della repubblica invece no: i maligni dicono che è per questo che avrebbe lasciato la carica a Fernandez. Per via di questa immunità lunedì la Cassazione argentina ha fatto cadere l' ultimo dei mandato di arresto ancora in piedi. Motivazione: è inutile, visto che è protetta dall' immunità.

Come mai tutte queste cause? Secondo gli antipatizzanti, semplicemente perché avrebbe rubato a tutto spiano, configurando un arricchimento illecito secondo alcuni stimato in ben 30 miliardi di dollari. Lei dice invece che è una persecuzione voluta dal suo predecessore Mauricio Macri. Che è appunto di origine italiana: da cui l' insinuazione. Il bello è che Papa Bergoglio, a sua volta di origine italiana, ha attivamente operato per consentire la vittoria elettorale della coalizione di Cristina.

Pure quello un complotto mafioso? Comunque di fronte all' insurrezione indignata degli italo-argentini il presidente Fernandez, che peraltro è appena stato in Italia, è andato subito dall' ambasciatore Manzo, twittando poi una foto abbracciato con lui assieme a una loda per l' apporto storico degli italiani alla crescita dell' Argentina.

Argentina, Cristina Kirchner: pistola puntata in faccia da un uomo che era tra i fan. "Premuto il grilletto, arma non ha sparato". La Repubblica il 2 Settembre 2022 

La vicepresidente stava rientrando a casa. Il presidente Fernandez: "E' stato un tentato omicidio". Arrestato l'aggressore

Una pistola puntata dritta in faccia, a pochi centimetri dal volto, mentre rientrava a casa. Momenti di paura in Argentina per il gesto di un uomo che ha aggredito la vicepresidente Cristina Kirchner. Era appena scesa dall'auto ed era diretta al portone della sua abitazione nel quartiere Recoleta di Buenos Aires, quando dalla folla dei sostenitori è spuntata l'arma, terrorizzandola. L'uomo è stato arrestato. Il presidente Alberto Fernandez ha parlato in tv di "tentato omicidio" e ha detto che "l'uomo ha premuto il grilletto ma la pistola non ha sparato". 

La notizia dell'episodio è stata riferita inizialmente dal ministro della Sicurezza Anìbal Fernàndez. Le immagini di quanto accaduto sono state trasmesse da diversi canali televisivi e sono circolate sui social. "Ora la situazione deve essere analizzata dal nostro personale per cercare di capire il movente e le intenzioni di questa persona", ha affermato il ministro Fernandez.

L'uomo impugnava un'arma carica (aveva 5 proiettili) e mirava alla testa. La vicepresidente era circondata dalla sicurezza, l'uomo è stato poi bloccato mentre la vicepresidente si riparava a terra. Dalla pistola non è partito alcun colpo. L'arrestato si era avvicinato a Kirchner mischiandosi ai tanti fan in attesa per salutarla e chiedere un autografo sul suo libro autobiografico.

Centinaia di attivisti radunati dalla scorsa settimana davanti all'abitazione di Cristina Kirchner, 69 anni, accusata di frode e corruzione relative all'aggiudicazione di appalti pubblici nella sua roccaforte di Santa Cruz durante i suoi due mandati presidenziali (2007-2015). L'accusa ha chiesto una condanna a 12 anni di reclusione e l'ergastolo.

L'attacco alla vicepresidente è stato condannato dalla coalizione di opposizione Insieme per il cambiamento, che ha chiesto un'indagine sui fatti, oltre che dal governo. Solidarietà alla vicepresidente è arrivata anche dal presidente venezuelano Nicola Maduro.

L'Argentina ti cerca di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) ,  Elena Basso. Foto di Erica Canepa. Coordinamento multimediale di Laura Pertici. Produzione Gedi Visual03 Agosto 2022

L’uomo che ha cercato di uccidere la vicepresidente argentina è un neonazista. Il Domani il 02 settembre 2022

Si chiama Fernando Andrés Sabag Montiel, ha 35 anni, sostiene il presidente brasiliano Bolsonaro ed è un frequentatore di pagine complottiste sul «comunismo satanico». La vicepresidente Cristina Kirchner è sopravvissuta solo perché la sua pistola si è inceppata

L’uomo che ha cercato di uccidere la vicepresidente argentina Cristina Kirchner è un sostenitore del presidente brasiliano Bolsonaro con tatuaggi nazisti e che frequenta pagine complottiste di estrema destra.

IL PROFILO

Si chiama Fernando Andrés Sabag Montiel ha 35 anni ed è brasiliano, ma dal 1993 vive in argentina. 

Montiel ha puntato una pistola alla testa di Kirchner da distanza ravvicinata, ma quando ha premuto il grilletto la pistola non ha sparato. La polizia ha successivamente confermato che l’arma era carica, ma si è inceppata a causa di un malfunzionamento.

Montiel lavora come tassista su richiesta tramite app e ha già precedenti penali. Un anno fa era stato fermato e denunciato perché girava armato di un grosso coltello. Secondo il quotidiano argentino La Nacion, Montiel frequentava pagine social cospirazioniste, in cui si parlava di cospirazioni massoniche mondiali, di «comunismo satanio» e scienze occulte. I suoi profili sono stati però tutti cancellati questa mattina.

Secondo il quotidiano El Clarin, Montiel avrebbe diversi tatuaggi ispirati alla mitologia nordica e vichinga, compreso un sole nero, o ruota del sole, un simbolo utilizzato dalle SS naziste e reso popolare dai movimenti neonazisti del dopoguerra.

(ANSA-AFP il 5 settembre 2022) -- La polizia argentina ha arrestato a Buenos Aires la compagna dell'aggressore della vicepresidente Cristina Kirchner, nell'ambito delle indagini sul tentativo di attentato. L'avvocato della Kirchner ha affermato di ritenere che l'uomo "non abbia agito da solo". 

La 23enne Brenda Uliarte è stata presa in custodia in una stazione del distretto di Palermo, su mandato del magistrato co-incaricato delle indagini María Eugenia Capuchetti. 

Nei giorni successivi all'attacco la Uliarte era stata intervistata dalle tv locali e aveva espresso la sua sorpresa dicendo che non avrebbe mai ritenuto Fernando André Sabag Montiel capace di un atto del genere: si lamentava "come tutti" dell'economia, ma non aveva mai menzionato la Kirchner "con aggressività".

Aveva anche detto di non averlo visto per 48 ore prima dell'incidente. Le analisi delle immagini di videosorveglianza avrebbero invece dimostrato che si trovava in sua compagnia il giorno dell'aggressione, il 1 settembre.

Argentina, Cristina Kirchner scampa a un attentato: «La pistola non ha sparato». Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 2 settembre 2022.

La vicepresidente argentina Cristina Kirchner è scampata a un attentato a Buenos Aires. Un uomo «le ha puntato la pistola alla testa, ha cercato di premere il grilletto ma il colpo non è partito» ha ricostruito il presidente Alberto Fernández in un messaggio sulla televisione nazionale definendo l’accaduto «l’incidente più grave da quando abbiamo recuperato la democrazia» nel 1983. Il video

Il tentativo di omicidio è stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza. Diversi canali televisivi hanno trasmesso l’immagine di un uomo che si avvicina alla Kirchner con una pistola e mira alla sua testa ma il colpo non parte. Lei era appena scesa dall’auto che l’aveva accompagnata a casa sua nel quartiere Recoleta di Buenos Aires.

Cristina Kirchner stava salutando i suoi sostenitori Lei si è coperta il volto ma il colpo non è partito. Il presidente Alberto Fernández ha detto che la pistola era carica di cinque proiettili. L’aggressore, che i media locali hanno identificato come un brasiliano di 35 anni, è stato arrestato. Kirchner stava tornando a casa dal tribunale: è nel mezzo di un processo per corruzione: Il 22 agosto, un procuratore federale ha chiesto che Kirchner sia condannata a 12 anni di carcere e le sia proibito di ricoprire cariche pubbliche a tempo indeterminato. Da allora centinaia di suoi sostenitori si sono radunati davanti alla sua abitazione in segno di protesta. Kirchner è anche presidente del Senato e gode dell’immunità parlamentare: non potrà essere incarcerata a meno che la sua condanna non sia ratificata dalla Corte Suprema del Paese, oppure che perda il seggio al Senato alle prossime elezioni di fine 2023. Kirchner ha affrontato numerosi altri processi per corruzione dopo i suoi mandati da presidente. Condanna bipartisan 

L’attacco alla vicepresidente è stato condannato oltre che dal governo anche dalla coalizione di opposizione Insieme per il cambiamento, che ha chiesto un’indagine sui fatti. «Ora la situazione deve essere analizzata dal nostro personale forense», ha annunciato il ministro della sicurezza Anibal Fernandez. Il presidente Fernández ha indetto per oggi una giornata di festa nazionale per dare agli argentini il tempo di «esprimersi in difesa della vita, della democrazia e in solidarietà con il nostro vicepresidente».

La peronista mancata sempre sotto i riflettori. Andrea Cuomo su Il Giornale l'1 settembre 2022.

In quella eterna telenovela che è la politica argentina, Cristina Fernàndez de Kirchner di anni sessantanove, da La Plata, è uno dei nomi più in alto in cartellone. La sua storia assomiglia molto a quella di Isabelita Peròn, che dapprima successe alla mitologica Evita nello stato di famiglia di Juan Domingo Peròn e poi prese il di lui posto alla Casa Rosada, sede della presidenza argentina, dopo la sua morte, nel 1974, prima che l'Argentina venisse ancora una volta inghiottita dal terrore di un golpe militare. 

A Cristina va dato atto che non ha aspettato che il marito Néstor morisse per mettersi alla guida dell'Argentina al suo posto. Il cambio della guardia in famiglia e nella leadership, in puro familismo platense, avvenne nel 2007, quando Néstor alla fine del suo primo mandato da presidente rinunciò alla ricandidatura preferendo il ruolo di primer caballero della volitiva moglie. Che avrebbe retto il Paese fino al 2015, costretta al ritiro non certo dal fatto che l'economia durante i suoi otto anni di «regno» fosse crollata anche a causa delle sue politiche protezionistiche, fatte di nazionalizzazioni selvagge e di inflazione alle stelle, e l'Argentina avesse conosciuto l'onta del fallimento; ma dalla trascurabile circostanza che a Buenos Aires dopo due mandati si è accompagnati alla porta della Casa Rosada. Onestà vuole che si ricordi che lei, Cristina, il tentativo di cambiare la costituzione per tentare un terzo mandato, come nelle tradizioni dei leader che vivono la democrazia come un fastidioso insetto da schiacciare, lo aveva fatto. Ma non essendo evidentemente troppo «dittatrice» il golpe bianco non le era riuscito. Si sarebbe consolata anni dopo, a partire dal 2019, accontentandosi di fare da vice al presidente Alberto Fernàndez, suo omonimo ma per una volta non parente. E Nestor, di grazia? Nel frattempo è morto anche lui, nel 2010, ad appena sessant'anni, lasciando alla vedova il peso di onorare da sola la dottrina del «kirchnerismo», che da quelle parti si entra nella storia politica soltanto diventando un sostantivo.

Cristina Kirchner è un personaggio molto controverso, disinvolto e contraddittorio. Gaffeuse convinta - degli italiani disse che erano «geneticamente mafiosi» al solo scopo di screditare l'avversario politico Mauricio Macri -, populista con la passione per l'alta moda - si narra che in pubblico non abbia mai indossato lo stesso outfit due volte - sembra non essere in grado di stare troppo a lungo lontana dai riflettori, fossero anche quelli che la illuminano di una luce sinistra. Pochi giorni fa un procuratore bonairense, tale Diego Luciani, nome da re e cognome da papa, ha chiesto di sbatterla in carcere per anni dodici perché secondo lui sarebbe stata, negli anni della presidenza, la burattinaia di una storiaccia di tangenti in Patagonia, storico feudo elettorale dei Kirchner. Un'accusa che non dovrebbe farla finire in carcere grazie all'immunità da senatrice ma potrebbe pesare sull'intenzione più volte manifestata di candidarsi di nuovo alla presidenza nelle elezioni del 2023; in molti la invocano stante la mancanza acclarata di leader carismatici di qualsivoglia colore politico.

Cristina, che prima di darsi alla politica per chiamata matrimoniale faceva l'avvocato, ha spesso frequentato le aule giudiziarie non per lavoro. Nel 2015 un altro procuratore, Alberto Nisman, l'aveva accusata di aver insabbiato le responsabilità dell'Iran in un attentato alla comunità ebraica argentina di Buenos Aires che aveva ucciso 85 persone. Finì con Nisman morto in circostanze misteriose e con le accuse archiviate. Un'altra pistola che ha fatto clic nella vita della señora Kirchner.

La leader argentina. Chi è Cristina Fernández de Kirchner, la vicepresidente ed ex presidente argentina scampata all’attentato sotto casa. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Settembre 2022

La vicepresidente dell’Argentina Cristina Fernández de Kirchner stava tornando a casa da un tribunale dove in questi giorni è in corso un processo in cui è imputata per corruzione. Quando si è avvicinata ai suoi sostenitori, nel quartiere della Recoleta di Buenos Aires, capitale dell’Argentina, per salutarli e firmare le copie di un suo libro, un uomo ha provato a spararle. Non è chiaro se il 35enne Fernando Andrés Sabag Montiel, brasiliano residente in Argentina, non sia riuscito a premere il grilletto o se l’arma si sia inceppata. La scena però è stata ripresa in diretta e ha fatto il giro del mondo.

L’uomo è stato arrestato. Ancora sconosciuti i motivi del gesto. Il Presidente argentino Alberto Fernández ha detto in diretta televisiva che “Cristina è ancora viva perché – per qualche ragione che non possiamo confermare tecnicamente in questo momento – l’arma, che aveva cinque proiettili, non ha sparato anche se è stato premuto il grilletto”. La giornata di venerdì 2 settembre è stata dichiarata di festa nazionale per dare alla popolazione il tempo di “esprimersi in difesa della vita, della democrazia e in solidarietà con la nostra vicepresidente”. L’Argentina è sconvolta: Cristina Kirchner è tra le personalità più influenti della politica degli ultimi decenni del Paese e dell’America latina, presidente per due volte, nessuna donna influente come lei in politica con l’eccezione di Evita Peron.

Cristina Elisabet Fernández de Kirchner è nata il 19 febbraio 1953 nella città di La Plata, in provincia di Buenos Aire. È stata la prima leader a essere eletta e a ricoprire tutte le posizioni della gerarchia nazionale. È stata first lady e Presidente, eletta due volte, nel 1007 e nel 2011 alla Casa Rosada. Dal 2019, quando il voto ha premiato Alberto Fernandez è vicepresidente.

Prima, molto prima, però aveva studiato diritto all’università di La Plata e, come membro del Partito Giustizialista (Peronista), ha rappresentato due volte la provincia di Santa Cruz al Senato e ha servito alla Camera dei deputati. Ha vinto le elezioni senatoriali nel 2005 per la provincia di Buenos Aires e ha ricoperto la carica di vicepresidente della commissione per l’Educazione.

Quando il marito Néster Carlos Kirchner, ex presidente, decise di non ricandidarsi alla rielezione del 2007, si candidò lei. E divenne la prima donna presidente dell’Argentina. Al voto del 2011 vene confermata con il 54% delle preferenze. Alle consultazioni presidenziali del 2015 non era ricandidabile, come previsto dalla Costituzione. In quel caso appoggiò il peronista Scioli che al ballottaggio venne sconfitto nettamente dal conservatore Mauricio Macri, leader di Cambiemos.

Da presidente attuò delle politiche di riforma protezionista che le procurano critiche dai settori legati al mondo agricolo. Per esempio aumentò le tasse sull’esportazione dei cereali nel tentativo di controllare i prezzi. Provvedimento revocato dopo l’ondata di scioperi. In politica estera sotto il suo governo l’Argentina ha rinnovato positivamente il rapporto di collaborazione con il FMI. È stata lei, nel 2010, a firmare la legge che nel 2010 ha resto l’Argentina il primo Paese dell’America Latina a consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso.

Il secondo mandato venne segnato dall’aumento dell’inflazione e dalle controversie legali con i creditori sulla ristrutturazione del debito. Dal 2017 è leader della coalizione Unidad Ciudadana e alle elezioni ottiene un seggio al Senato. La sua figura potente e divisiva le ha attirato spesso critiche, insulti anche di stampo misogino e machista durante la sua attività. Oggi è imputata in un processo per corruzione: per i detrattori è colpevole di aver favorito l’impresa edile di uno stretto alleato per gli appalti stradali durante i suoi due mandati e nella provincia di Santa Cruz. Il pm Diego Luciani ha chiesto per lei, la scorsa settimana, una condanna a dodici anni. La richiesta ha scatenato proteste. Kirchner ha definito le accuse motivate politicamente. Ha definito il processo “un plotone di esecuzione giudiziario mediatico”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Da “il Giornale” il 23 agosto 2022.

Il pubblico ministero Diego Luciani ha chiesto una condanna a 12 anni per l'attuale vice presidente dell'Argentina, Cristina Kirchner ritenendola il vertice di un'associazione a delinquere dedita a truffare lo Stato pilotando appalti di opere pubbliche. Il pm ha chiesto anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici e l'inibizione dei beni degli imputati per un ammontare pari a quasi un miliardo di dollari, cifra che corrisponderebbe alla stima dei danni perpetrati allo Stato attraverso il presunto «schema sistematico di corruzione» applicato negli anni tra il 2003 e il 2015.

 Nelle sue conclusioni Luciani afferma che non è applicabile «nessuna attenuante per i crimini commessi» nei confronti della ex presidenta. «Oggi più che mai la società reclama giustizia, una sentenza esemplare può essere il primo passo nella restaurazione della fiducia nelle istituzioni», ha concluso il pm. 

Poche ore prima che Luciani rendesse pubblica la richiesta di condanna la vice presidente aveva chiesto di essere nuovamente sentita dal tribunale a partire dal rilevamento di alcune presunte irregolarità processuali.

«A fronte della mancanza di prove emersa nel dibattimento orale e alle dichiarazioni dei testimoni che hanno demolito la denuncia di Javier Iguacel, i pubblici ministeri hanno introdotto nella loro accusa questioni che non erano mai state incluse», ha scritto Kirchner in un messaggio sul suo profilo Twitter. Anche se condannata, l'ex presidente non potrebbe andare in carcere in quanto, come senatrice eletta, gode dell'immunità parlamentare.

Giustizia contro l’oblio. Le nonne di Plaza de Mayo in lotta da 45 anni. Le guida Estela de Carlotto che ha potuto abbracciare suo nipote, uno degli oltre 400 figli di desaparecidos sterminati dagli uomini di Videla e i cui bambini vennero adottati dalle famiglie vicine al regime. Sabrina Pisu su L'Espresso il 3 Agosto 2022.

Con mio nipote è tornato anche il sangue di mia figlia, è tornata Laura. Mi ha illuminato la vita. Oggi siamo una famiglia. Mi dice “nonna ti voglio bene” e mi ha ridato la felicità». Estela Barnes de Carlotto non ha mai smesso di amare e combattere. Dal 1989 è la presidente delle “Abuelas de Plaza de Mayo”, le nonne che in Argentina, insieme alle “Madres”, portano avanti da quarantacinque anni la marcia su “Plaza de Mayo” a Buenos Aires, davanti alla Casa Rosada, sede presidenziale. Al grido «Nunca más», «Mai più», continuano a chiedere giustizia e cercare i loro nipoti, i bambini che portavano in grembo le loro figlie sequestrate tra il 1976 e il 1983, gli anni della dittatura iniziata dopo il golpe del generale Jorge Rafael Videla che il 24 marzo del 1976 ha destituito Isabelita, la seconda moglie di Juan Domingo Perón. Nonne, madri, che si battono per quei figli che tengono con loro, in quel simbolico “pañuelo blanco”, il fazzoletto bianco avvolto sulla testa come il pannolino di tela dei figli. Figli che continuano a vivere negli ideali che loro portano avanti e in una foto sbiadita, e stretta al petto. 

«La nostra è un’associazione umanitaria, è un lavoro di amore e incontro. Non importa se siamo ricche o povere, colte o meno, siamo nonne che soffrono ancora e cercano altri nipoti. Le nostre figlie sono state uccise dopo aver partorito e i militari si sono distribuiti fra loro i neonati, o li hanno dati a civili, quasi sempre complici, per farli crescere secondo le loro idee, una dinamica totalmente perversa», racconta Estela de Carlotto, 91 anni, occhi azzurri liquidi, profondi come l’abisso che ha visto e dal quale ha saputo risalire per non permettere che sua figlia Laura, che tutti i desaparecidos, venissero cancellati dalla Storia, e che i loro nipoti non conoscessero la verità.

Durante la dittatura, i militari hanno messo in atto una «riorganizzazione nazionale», con l’eliminazione fisica, e segreta, degli oppositori politici. «Ragazzi “colpevoli” di appartenere a una generazione che aveva creduto negli ideali del ’68. La Lotta armata era stata, di fatto, debellata già prima del marzo del ’76, con la decapitazione dei vertici militari e di intere colonne operative dei gruppi armati dell’Erp, “Esercito rivoluzionario del popolo”, di fede trotskista-guevarista, e dei “Montoneros”, di orientamento peronista»: dice Francesco Caporale, che è stato pubblico ministero dei tre processi per otto desaparecidos, tra cui la figlia di Estela de Carlotto, Laura con suo figlio Guido, celebrati in Italia, per volontà di Sandro Pertini, ma solo tra il 1999 ed il 2010, secondo l’articolo 8 del codice penale, che consente di giudicare in Italia delitti politici commessi all’estero in danno di cittadini italiani.

Sono circa 30 mila i desaparecidos, soprattutto giovani tra i venti e i venticinque anni, sequestrati nelle loro case, spesso di notte, bendati, incappucciati, caricati su vecchie Ford Falcon verdi senza targa e fagocitati negli oltre 350 “centri clandestini di detenzione” tenuti invisibili agli occhi della gente e della cui esistenza si sarebbe saputo solo nel 1983 quando in Argentina è tornata la democrazia, con le rivelazioni della Conadep, “Comisiòn nacionàl sobre la desapariciòn de personas”, commissione d’inchiesta istituita dall’appena eletto presidente Raúl Alfonsín per indagare sulla scomparsa degli oppositori. «Luoghi peggiori dei lager e sparsi ovunque in cui i detenuti erano costantemente incatenati e subivano torture inenarrabili», racconta l’ex pm Francesco Caporale che ha chiesto e ottenuto la pena dell’ergastolo per gli imputati, tra cui il generale Suárez Mason, «il padrone assoluto della vita e della morte di migliaia di giovani». Condanne fondamentali anche se, come spiega, «rimaste solo simboliche, nessuno di quei condannati, di cui l’Argentina non ha inteso concedere l’estradizione, ha mai scontato un solo giorno di carcere nel nostro Paese».

Torture come le scariche elettriche della «picana», strumento usato nella Pampa argentina per controllare il bestiame, elettrodi messi nelle parti intime del corpo, in bocca, sugli occhi, spesso fino a far fermare il cuore. Come il supplizio del «submarino», con il quale si immergeva ripetutamente il detenuto in una vasca e lo si tirava fuori, prima che affogasse. Le giovani donne subivano violenze sessuali.

Giovani spogliati, legati, narcotizzati con il Pentothal, caricati su aerei militari venivano gettati, ancora vivi, nelle acque del Rio de la Plata o nell’Atlantico Sur dai «voli della morte» praticati in centri come l’Esma, la Scuola di meccanica della Marina, o il Campo de Mayo.

Le “abuelas” sono state odiate, torturate, alcune uccise, definite «las locas», «le pazze», dai militari, perché non sono rimaste in silenzio, si sono opposte al disegno di «riconciliazione nazionale» di Raùl Alfonsìn che nel 1987 con la legge dell’ “Obediencia debìda”, ritenuta incostituzionale nel 2005 sotto il governo di Néstor Kirchner, ha tentato di far cadere l’oblio, scagionando da ogni responsabilità gli ufficiali di minor grado. Hanno gridato contro gli indulti concessi dal presidente Carlos Menem che hanno portato, tra il 1989 e il 1990, alla liberazione dei maggiori responsabili come l’ex dittatore Jorge Rafael Videla e l’ex ammiraglio della Marina Emilio Eduardo Massera, condannati nel 1985 durante i processi ai militari celebrati in Argentina.

Loro non hanno permesso oblio e impunità: «Io faccio tutto quello che posso anche fuori dall’Argentina. Spero di avere ancora abbastanza tempo per aiutare altre nonne, perché quello che è successo non venga mai dimenticato e non succeda altrove. La verità è sempre stata nascosta, deformata. Per molto tempo abbiamo pagato tutto di tasca nostra ma, quando la democrazia è tornata, lo Stato si è fatto carico delle spese, oggi abbiamo undici team di esperti con avvocati, psicologi, antropologi», continua Estela de Carlotto.

La sua vita è cambiata il primo agosto del 1977 quando suo marito Guido Carlotto, nato ad Arzignano, in provincia di Vicenza, e trasferitosi in Argentina dove aveva aperto una piccola fabbrica di vernici, viene sequestrato perché rivelasse dove si trovava sua figlia Laura, studentessa universitaria di Storia e militante nella “Juventud Peronista”.

Estela de Carlotto, maestra di una scuola elementare a La Plata, città a 60 chilometri da Buenos Aires dove vive ancora, cerca suo marito tra i corpi senza vita che a volte riaffioravano sulle rive del fiume, paga qualcuno che dice che lo avrebbe fatto liberare. Il 25 agosto viene liberato, è dimagrito 14 chili e le racconta le torture subite con la «picana» nel centro di detenzione in cui aveva assistito all’uccisione di molti giovani.

«Il suo corpo era talmente martoriato che rimase infermo per tutta la vita e, probabilmente, la sua morte nel 2001 è stata dovuta anche a questo».

Il 26 novembre 1977 sua figlia Laura è stata sequestrata con il suo compagno in una pasticceria di Buenos Aires, Estela de Carlotto non aveva sue notizie da dieci giorni quando le aveva scritto una lettera per dirle che aspettava un bambino e che avrebbe voluto chiamarlo Guido, come suo padre: «Era in clandestinità con il suo compagno e mi mandava delle lettere tramite una persona, mio marito l’andava a trovare periodicamente», ricorda Estela de Carlotto che per riavere sua figlia accetta di pagare un riscatto. Dopo settimane senza notizie, si rivolge a una collega, che era la sorella del generale Reynaldo Brignone, esponente della giunta militare, a cui chiede la liberazione. O almeno di avere il corpo. Laura era stata internata nel campo di concentramento clandestino “La Cacha”: «L’hanno torturata mentre era incinta, le dicevano sempre che il giorno dopo l’avrebbero liberata e che avrebbe potuto far nascere il figlio circondata dall’affetto dei suoi cari, ma lei aveva capito che l’avrebbero uccisa. E infatti è stata assassinata il 25 agosto del 1978, e il suo corpo martoriato».

Estela de Carlotto riceve dalla Polizia l’invito a recarsi al commissariato del paesino di Isidro Casanova, a circa 60 chilometri da La Plata: «Ci restituirono il corpo, così avevamo il “privilegio” di poter portare un fiore sulla tomba, anche se non eravamo certi che fosse il suo. Ne avemmo la certezza solo quando il corpo fu riesumato ed esaminato da un gruppo di antropologi forensi di fama mondiale».

Suo marito e suo fratello non le consentirono di vedere Laura. I militari avevano simulato un finto conflitto a fuoco, sua figlia aveva il volto sfigurato da colpi di arma esplosi a brevissima distanza, anche sul ventre per eliminare le prove della recente maternità. La sua ultima immagine di Laura è la mano che usciva dalla bara, che lei ha accarezzato.

Estela de Carlotto non si fa piegare dal dolore, cerca suo nipote per trentasei anni, fino a quando nel 2014 trova Guido Montoya Carlotto, che ha il nome di Ignacio Hurban. Era nato nell’Hospital Militar di Buenos Aires la notte del 26 giugno del 1978: mentre Laura piangeva dando la vita a suo figlio, sapendo che avrebbe perso la sua, Buenos Aires esultava per i suoi Mondiali di calcio, appena vinti battendo l’Olanda.

«Avevo preparato una culla per mio nipote», ricorda Estela de Carlotto: «Ho abbracciato fortissimo la giudice quando mi disse che potevo incontrarlo, perché aveva accettato. Quando la notizia divenne pubblica a Buenos Aires e in tutta l’Argentina c’è stata una grande festa perché la mia storia era nota, lui era il nipote di tutti gli argentini». Grazie al “Banco nacional de datos genéticos” le “abuleas” sono riuscite a identificare 130 nipoti, ne mancano 300: «È la prima banca dati genetica del mondo, dove ci sono i campioni di sangue delle nonne e di tutti quelli che hanno dubbi sulla propria identità, serve a identificare il Dna dei figli delle persone scomparse. Ora è un’istituzione universale, usata in tutto il mondo».

Il nipote è cresciuto nella Colonia San Miguel, non lontano da Olavarría, nella provincia di Buenos Aires, dove Clemente Hubron, il padre adottivo, era contadino in una fattoria. «Sono stata così felice di abbracciarlo, mi piacerebbe farlo sempre. Sono felice ogni volta che un nipote viene identificato e incontra la sua vera nonna, è come se fossero tutti un po’ nipoti miei. Noi nonne ci sosteniamo, dividiamo la gioia, e la sofferenza quando un nipote non vuole incontrare la vera nonna perché difende la sua vita, ormai instradata. È fondamentale rispettare la loro volontà».

Questa è la storia della dignità di queste donne che si sono battute fino a vedere riaperti dopo il 2005 una serie di processi che stanno facendo piena giustizia.

Loro non hai mai smesso di credere nelle istituzioni democratiche: «Chi ha commesso queste atrocità deve ancora ricevere le condanne che merita e che non devono venire da noi ma dai tribunali». La battaglia di queste madri e nonne continua convinte che, come grida il loro slogan che è una frase di Che Guevara: «La única lucha que se pierde es la que se abandona», «L’unica lotta che si perde è quella che si abbandona».

Quelle "matite spezzate" torturate con scariche elettriche. Francesca Bernasconi il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.

Tra il 16 e il 17 settembre 1976, dieci studenti argentini vennero rapiti dalla polizia della dittatura militare. Dopo violenze e torture, alcuni di loro vennero liberati e testimoniarono il terrore di quegli anni. Altri scomparvero per sempre.

Studenti rapiti, poi torturati e divenuti desaparecidos. Fu il risultato della Notte delle matite argentina, che deve il suo nome al titolo del documento firmato dal commissario capo della polizia di Buenos Aires, in cui venivano descritte le azioni da intraprendere contro alcuni alunni delle scuole secondarie, definiti "membri di un potenziale focolaio sovversivo". Quegli studenti scomparvero dalla città argentina di La Plata a partire dalla notte del 16 settembre 1976, furono torturati e tenuti prigionieri per anni. Molti di loro vennero uccisi, altri scomparvero per sempre.

Il contesto

Nel luglio del 1974 il presidente argentino Juan Domingo Perón morì, lasciando un vuoto governativo in una società che, per diversi anni prima di lui, era stata guidata da dittature militari o da governi civili non del tutto legittimi. A Perón succedette la vicepresidente María Estela Martínez de Perón, che governò il Paese per due anni, fino al golpe del 24 marzo 1976.

Quella notte, l'elicottero su cui viaggiava il presidente venne dirottato e María Estela Martínez venne arrestata e fatta prigioniera. Venne rilasciata solamente cinque anni dopo. Intorno alle 3 del 24 marzo 1976 dalle stazioni televisive e radiofoniche ormai sequestrate venne trasmessa la prima dichiarazione dei fautori del Golpe.

La popolazione venne informata che l'Argentina era passata "sotto il controllo operativo del Consiglio Militare", che raccomandava agli abitanti di "attenersi rigorosamente alle disposizioni e direttive che emanano dall'autorità militare, di sicurezza o di polizia, nonché alla massima attenzione nell'evitare azioni e atteggiamenti individuali o di gruppo che possano richiedere un intervento drastico da parte del personale operativo". Era il primo annuncio della dittatura civico-militare che si insediò al potere nel 1976, con il nome di Processo di Riorganizzazione Nazionale (Pnr).

Il nuovo governo attuò lo stato d'assedio e la legge marziale e istituì delle pattuglie militari, che avevano il compito di controllare le singole città. A capo del Pnr c'era Jorge Rafael Videla, un militare, che regnò nella prima fase della dittatura, dal 24 marzo 1976 al 10 dicembre 1983.

Fin da subito fu chiaro il piano del nuovo governo: l'attuazione di un piano sistematico di terrorismo di Stato che prevedeva atti di repressione violenta degli oppositori, che portarono all'uccisione e alla scomparsa di migliaia di persone in tutto il Paese. Tra queste, moltissimi erano studenti, che negli ultimi anni erano diventati partecipi alla vita politica. Si inserisce in questo panorama la Notte delle matite di La Plata, durante la quale una decina di adolescenti tra i 16 e i 18 anni, vennero portati via dalle loro case, tenuti prigionieri e torturati. Solo quattro di loro si salvarono. Gli altri scomparvero.

Il rapimento degli studenti

Le vittime della Notte delle matite erano ragazzi appartenenti all'Unione degli studenti delle scuole secondarie (Ues) e alcuni di loro, nel 1975, si erano battuti per la reintroduzione del biglietto per l'utilizzo dell'autobus a poco prezzo. Nella notte tra il 16 e il 17 settembre 1976 vennero rapiti otto studenti. Di loro, solamente due riuscirono a tornare a casa, gli altri andarono ad alimentare l'elenco dei desaparecidos.

Daniel Alberto Racero, detto "Calibro", aveva 18 anni e venne rapito mentre si trovava nella sua casa, mentre Maria Claudia Falcone, appena 16 anni, venne portata via dalla casa della nonna materna, insieme alla 18enne Maria Clara Cicchini, che era sua ospite in quel periodo. La stessa notte, la polizia si presentò anche a casa di Francisco Lopez Muntaner, 16 anni, Claudio De Acha e Oracio Ungaro, entrambi 17 anni. Tutti, sono stati visti nei centri di detenzione clandestina di Arana e Pozo de Banfield. Poi le loro tracce si persero. Molti degli studenti avevano partecipato alla lotta per la conquista del biglietto studentesco della scuola secondaria, che dava diritto a uno sconto sul biglietto dell'autobus.

A raccontare le torture subite dai ragazzi scomparsi furono alcuni dei sopravvissuti. Quella stessa notte, erano state rapite anche due studentesse di 17 anni: Patricia Miranda, che però non sporse mai denuncia, e Emilce Moler, che raccontò cosa successe quella notte e durante la prigionia.

"Erano le 3 o le 4 del mattino del 17 settembre - disse in un'intervista - Una grande banda di uomini pesantemente armati è venuta a casa mia e ha puntato le pistole contro i miei genitori". La stavano cercando e, appena la individuarono, la caricarono in automobile. "Mi portarono in un posto che, molto tempo dopo, ho scoperto essere il centro clandestino di Arana", ha aggiunto Emilce, che ha raccontato di terribili torture subite da lei e delle grida dei compagni seviziati.

Secondo quanto ricostruito successivamente, per costringere i prigionieri a parlare, i carcerieri usavano la "macchina della verità", un dispositivo composto da elettrodi applicati alle labbra, alle gengive e ai genitali dei ragazzi, che una volta azionati mandavano violente scariche elettriche.

Qualche settimana prima della notte tra il 16 e il 17 settembre, era stato rapito anche Gustavo Calotti, 18 anni, un cadetto della polizia ed ex membro dell'Ues, e il 21 settembre venne portato via Pablo Diaz, anche lui 18 anni. Entrambi tornarono a casa vivi, dopo essere stati tenuti prigionieri in diversi campi di tortura e dopo essere rimasti a disposizione dell'esecutivo. L'8 febbraio del 1977, Pablo riabbracciò la sua famiglia, unica testimone del suo rapimento e del cambiamento delle sue condizioni di salute, ma per altri tre anni il ragazzo rimase detenuto nel carcere di La Plata, senza che venisse mai avviato nessun processo legale. Nel novembre del 1980, Pablo fu liberato.

Il nome di "Notte delle matite" viene dal titolo di un documento che descriveva le azioni che la polizia avrebbe dovuto intraprendere contro gli studenti. A spiegarlo fu proprio Pablo Diaz, nel corso di una testimonianza: "Esiste un documento - spiegò - dove il Commissario Generale Alfredo Fernandez, coordinatore della direzione dell'intelligence della provincia di Buenos Aires", rende noto il piano per "la repressione al movimento studentesco delle secondarie, perché si riteneva che alcuni adolescenti che si erano ribellati erano dei potenziali sovversivi e costituivano un pericolo per l'Esercito Argentino. Lui stesso in questo documento propone l'operazione 'la notte della matite', che avrebbe consistito nel sequestro sistematico di adolescenti delle secondarie".

Il motivo dei sequestri viene spesso legato alla battaglia portata avanti dagli studenti per la reintroduzione del biglietto dell'autobus scontato. Ma non solo. A dare fastidio al regime era, infatti, l'attivismo politico degli studenti, che erano considerati una minaccia contro il regime. "Avevamo un progetto politico - ammise Emilce - Non credo mi abbiano fermato per il biglietto secondario, in quelle manifestazioni ero in ultima fila. Quella lotta era nell'anno '75 e, inoltre, non rapirono le migliaia di studenti che vi parteciparono. Hanno arrestato un gruppo che era attivo in una cerchia politica. Tutti i ragazzi scomparsi appartenevano alla Ues, vale a dire che c'era un progetto politico".

Le matite scrivono ancora

Una matita, anche se spezzata, non smette di scrivere. Così, nonostante le pressioni, il terrore e l'isolamento, gli studenti sopravvissuti, non smisero di portare avanti le loro battaglie e denunciarono le torture e le violenze subite. Grazie alle loro testimonianze, vennero ricostruite le sorti degli studenti rapiti durante la dittatura civile-militare a cavallo degli anni '70-'80. Finita la dittatura militare, il nuovo presidente argentino Raúl Alfonsín creò la Commissione nazionale per la scomparsa delle persone, con l'obiettivo di indagare sulle violazioni dei diritti umani e sulla scomparsa delle persone, durante il governo del Processo di Riorganizzazione Nazionale.

La Commissione ha raccolto numerose testimonianza sulle violenze effettuate in quel periodo dai militari e dalla polizia argentina e ha verificato l'esistenza di centinaia di luoghi di detenzione clandestini, presenti in tutto il Paese. Qui, le persone rastrellate per strada o portate via dalle loro case, passavano mesi o anni da prigionieri, costrette a rimanere al buio, ammassate, senza cure, e a subire le più terribili torture. Nel 1984 la Commissione ha prodotto un rapporto finale dell'indagine intitolato Nunca Màs (Mai più), che venne utilizzato anche come prova nel processo in cui vennero condannati molti militari e dittatori che operarono negli anni del regime civile-militare.

Al momento di presentazione del rapporto, si registravano 8.961 persone scomparse, un numero stimato sulla base delle denunce arrivate alla Commissione e risultato compatibile con gli elenchi redatti dalle organizzazioni nazionali e internazionali per i diritti umani. La maggior parte delle denunce di sparizione o rapimento vennero registrate tra il 1976 e il 1977, come dimostra uno dei grafici allegati al documento. L'indagine rivelò anche la presenza di 340 centri di detenzione clandestini, dove vennero tenuti i prigionieri. L'indagine svolta dalla Commissione concluse che "i giovani sequestrati sono stati uccisi dopo aver subito le più orribili torture in diversi centri di detenzione segreti".

Alcuni dei ragazzi scomparsi nella Notte delle matite vennero visti per l'ultima volta in alcuni di questi centri. A renderlo noto fu Pablo Díaz, che affermò di aver visto "per l'ultima volta María Claudia Falcone, dopo aver trascorso diversi mesi con lei nella stessa prigione, il 28 dicembre 1976 nel Pozo de Bánfield". Pablo, riporta la Commissione, "ha visto anche Claudio de Acha a Bánfield, e un ragazzo soprannominato 'Colorado', tutti studenti delle scuole superiori, che si conoscevano, così come diverse altre persone, tra cui tre donne incinte che hanno partorito in prigione".

In ricordo di quelle "matite" spezzate dalla polizia argentina venne istituita, nella provincia di Buenos Aires, la Giornata dei diritti dello studente delle scuole secondarie e venne stabilito l'utilizzo dei mezzi necessari per fornire "informazioni sugli eventi accaduti il ​​16 settembre 1976, sottolineando l'importanza dei valori democratici rispetto a l'arbitrarietà dei regimi dittatoriali". Numerosi anche i siti e i monumenti intitolati alla memoria degli studenti che persero la vita. Così grazie al ricordo anche quelle matite spezzate per sempre continueranno a scrivere.

Peronismo: la cifra della politica argentina. Maddalena Pezzotti su Inside Over il 23 febbraio 2022.

Il peronismo è stato definito dal semiologo Jesús Martín-Barbero come una tipologia di organizzazione del potere, avvallata dalle aspirazioni popolari, e sancita da un accordo fra lo stato e le masse. A settantasette anni dalla sua entrata nella storia, in Argentina continua a suscitare passioni e polemiche, e l’approvazione di un’alta percentuale della cittadinanza. Il logo del campionato mondiale di calcio del 1978 riprende la celebre immagine del saluto di Juan Domingo Perón alla folla, con le braccia tese sopra la testa. Ecco la storia di un movimento che ha segnato il Paese.

La fondazione del peronismo

Sebbene si sia scritto di milioni di individui concorsi nella Plaza de Mayo il 17 ottobre del 1945, per il giorno della lealtà, in realtà, al raduno che pretese le dimissioni del governo eletto nel 1943, e la liberazione del generale Perón, ne parteciparono poco più di 200 mila. In un’epoca lontana dall’immediatezza e la capacità di convocazione dei social media, è comunque una cifra significativa, considerando che molti raggiunsero Buenos Aires a piedi nel caldo estivo. I sindacati avevano convocato uno sciopero, gli operai aprirono un’era.

Al di là dei numeri, tuttavia, questo momento della fondazione del peronismo è stato decisivo per lo sviluppo della democrazia argentina. La base dei dimostranti era costituita da lavoratori immigrati, disprezzati e invisibilizzati nei programmi economici e sociali. La mobilitazione rivelò l’urgenza delle classi subalterne di un inquadramento che le desse identità e la forza che può essere espressa solo dalla collettività su obiettivi comuni.

La nascita del movimento è legata alla crisi della “decade infame”, intercorsa dal 1930 al 1940. Questa fu segnata da corruzione, frodi elettorali, designazione arbitraria di funzionari pubblici vicini alle oligarchie, e la negazione dei diritti umani per la maggioranza ridotta in povertà. Fra lo scontento proletario e le proteste della società civile, nel 1943 un colpo di stato militare, nazionalista e anti-comunista, depone il presidente Ramón Castillo.

Perón è parte del gruppo di ufficiali golpisti. Si occupa del ministero del lavoro e della previdenza. In un secondo momento, diventa ministro della guerra e vicepresidente. Chiude accordi con associazioni patronali che risultano favorevoli per i lavoratori sfruttati. Coglie da subito le opportunità offerte dai neonati mezzi di comunicazione e dalla loro funzione persuasiva.

Si rivolge alla maggioranza orfana di rappresentazione per assimilarla al manifesto nazional-popolare e alle sue ambizioni. La radio è il veicolo per toccare in maniera capillare le centinaia di migliaia di analfabeti, con un linguaggio semplice e un tono paternalistico. Dai microfoni, Perón illustra i decreti da lui promossi per i diritti dei lavoratori, promettendo di convertirli in legge.

Con l’uso mirato dei media, e l’appoggio della chiesa cattolica, la notorietà e l’autorità di Perón vanno alle stelle, mettendo in allarme gli impresari agricoli e dell’allevamento, che temono di perdere il controllo delle risorse all’origine della loro ricchezza, e importanti comparti dell’esercito. Il governo vacilla e si arriva a dover operare un cambio al vertice, ma a ottobre del 1945 Perón rinuncia ai suoi incarichi, per pressione dell’opposizione e per calcolo. Viene poi dichiarato agli arresti.

Questo avvenimento mette fine alla Revolución del 43. I diseredati si sentono traditi, non vogliono perdere l’unica speranza di vedere migliorate le proprie condizioni di vita. Stanchi di essere calpestati diventano una moltitudine incontenibile e l’anno dopo Perón vince il suffragio nazionale con il 56 per cento dei voti. 

I tratti fondamentali dell’ideologia

Il termine peronismo si applica sia a un periodo sia a un’ideologia. Il periodo è quello marcato dalle presidenze di Perón, dal 1946 al 1952, dal 1952 al 1955, e dal 1973 al 1976. L’ideologia è quella della “terza via economica”, alternativa al liberalismo e al marxismo, che hanno contraddistinto il contesto del XX secolo.

Rimanda a un nazionalismo-personalista che unisce in forma sincretica pezzi di socialismo, corporativismo, capitalismo e patriottismo. Sul versante economico, si ispira alla dottrina dirigista di Franklin Delano Roosevelt. Privo di un riferimento unitario, il peronismo è stato di ispirazione per partiti argentini di sinistra e di destra. Lo stesso Perón si è mosso con disinvoltura da un lato all’altro nel corso della sua traiettoria.

L’azione di governo si contraddistingue per essere capitalista intervenzionista. La sostituzione, in Argentina, del modello agro-esportatore, con uno improntato sulle importazioni, permette al peronismo una convergenza di interessi con la borghesia industriale. Concreta, sopra ogni cosa, un esercizio orientato a forgiare consumatori, invece che una società libera.

Giustizia sociale, e nesso con il socialismo e il sindacalismo, sono elementi imprescindibili. La giustizia è resa possibile dalla mediazione statale, utile ai fini di allentare le tensioni peculiari della relazione fra il capitale e il quarto stato, affinché questo abbia garanzie sufficienti per produrre senza provocare rotture. La genesi del “giustizialismo”, nella denominazione del partito di Perón, sta nella fusione di giustizia e socialismo.

Le organizzazioni sindacali, strumenti della lotta di classe, concepiti alla fine del XIX secolo, da socialismo e anarchismo, si tramutano in meccanismi al servizio del giustizialismo. Attraverso una manovra di cooptazione, passano a essere istituzioni preposte a negoziare benefici economici. Il peronismo fagocita la loro ontologia e ne riforma ruolo e finalità, neutralizzando la confrontazione orizzontale operaia e la sua visione di un diverso ordine sociale.

Il partito laburista argentino si scioglie e integra il partito giustizialista. Nella costituzione del 1949, viene plasmata la funzione sociale della proprietà e il compito dello stato di comporre i conflitti e livellare le disuguaglianze. Vengono nazionalizzate le imprese dei servizi – acqua, gas, telefono, ferrovie – realizzando una sintesi perfetta fra industria pubblica e lavoratori. Si avvia un ampio processo di redistribuzione della ricchezza, grazie alle abbondanti riserve di oro e valuta straniera. Viene limitata la libera concorrenza e istituito il monopolio del commercio estero.

Perón è stato un capo carismatico che ha riunito in sé potere politico e militare, tipico dei caudillos latinoamericani. Sul piano internazionale ha sostenuto il distacco dall’influenza degli Stati Uniti e una posizione di non allineamento ai blocchi filosovietico e filoamericano nella guerra fredda. Ha incarnato uno stile verticalista, che ha determinato la chiusura di testate giornalistiche, persecuzione di oppositori, e un culto della personalità coltivato attraverso le istituzioni educative.

Durante la seconda guerra mondiale, l’Argentina era la sesta potenza mondiale, ma di fronte a continue ondate migratorie, l’esodo verso l’urbe di contadini affamati, e la costante crescita demografica, si profila la necessità di un criterio condiviso di nazione che coadiuvi la marcia del progresso e la modernizzazione. Questa omogeneizzazione di aspetti culturali e valoriali si cementa nell’allegoria di Perón e sua moglie, Evita.

Perón è un personaggio ambivalente. Rivendica la radice cattolica, ammettendo che il suo programma sociale, economico e internazionale, è basato sulle encicliche dei pontefici, rifiuta il ripristino della pena di morte. Le intenzioni cristiane si accompagnano, però, alla protezione dei nazisti in fuga dall’Europa, e viene accolto in esilio dal dittatore Francisco Franco, il quale ne faciliterà il rientro in patria e il ritorno sulla scena politica.

Dalle sue origini alla contemporaneità, il peronismo non solo dà voce al popolo, è il popolo stesso. Non è un partito come gli altri, è l’ideologia della nazione, la nazione stessa. Questa appropriazione apre il campo a una dicotomia, dove gli avversari rappresentano interessi alieni e contrari a quelli della gente e il progetto comune. Il peronismo è intrinsecamente populista.

Si basa su una idea provvidenziale della storia, come palestra della lotta del bene-noi contro il male-gli altri. Le sue tensioni massime sono il bene collettivo, l’armonia e l’unanimità. In questo senso, è un fenomeno a pulsione totalitaria. Se il popolo è buono e il peronismo è il popolo, il dissenso non è parte della dialettica politica, è una patologia. Si tratta di una religione politica: lo stato non è arbitro, ma strumento di conversione, mediante la scuola, la stampa, il servizio militare.

Il peronismo è un fenomeno corporativo che pone al centro della comunità organizzata i corpi sociali, non gli individui. Ciò si riflette nella divisione dei poteri, esecutivo, legislativo e giudiziale. Nei fatti, questa è fragile, perché, in ultima istanza, inconcepibile. L’ideologia è il fattore-valore unificatore naturale e necessario.

Le ragioni della sua vigenza

In Argentina, si sono susseguiti governi, nazionali e locali, di ascendenza peronista. Nuove correnti ne vanno adeguando l’ideologia, non discostandosi dall’archetipo giustizialista. In tal modo, si può parlare, pur con grandi variazioni, che vanno dal consenso di Washington all’allineamento sull’asse Russia-Cuba, dei mandati di Carlos Menem (1989-1999), Eduardo Duhalde (2002-2003), Néstor Kirchner (2003-2007), Cristina Fernández de Kirchner (2007-2015), e Alberto Fernández (in carica dal 2019). Per esempio, la dinastia politica Kirchner, alla quale si è aggiunto il figlio maggiore Máximo, con la potente Cristina, burattinaia dell’attuale governo, ha dato origine alla cosiddetta versione “K” del peronismo.

I principali ingredienti consistono nel proposito dichiarato di volere dar risposta alle rivendicazioni popolari e nel carattere personalista della proposta. Il primo è spesso tradotto in espedienti acchiappavoti e un estremo assistenzialismo statale, per l’ascesa e la conservazione del potere, piuttosto che in un autentico ascolto dei bisogni espressi dai settori vulnerabili, e la ricerca di una soluzione efficace dei loro problemi. Il secondo suscita un rapporto di dipendenza dal leader unico, al quale i votanti si sottomettono, con atteggiamenti che arrivano al fanatismo.

La concentrazione nella volontà del popolo e nella legittimità di una sola figura, pur essendo un rischio per qualsiasi progettualità di lunga durata, accende una spirale dove simbolizzazione e simbiosi assumono proporzioni formidabili, a cui non arrivano altre strategie per il consenso. A ciò si somma il ricorso aggressivo della comunicazione, volto alla creazione e il mantenimento di una narrazione in cui l’elettorato si specchia pedestremente. Il peronismo, inoltre, ancora il proprio vantaggio nell’implementazione di strategie keynesiane di corto raggio che riattivano l’economia in momenti critici, malgrado non generino cambi strutturali.

Esperimenti alternativi per fomentare la partecipazione civile hanno fallito. Il gradimento sociale del radicalismo, per esempio, si è deteriorato per mancanza di adattamento alle sfide attuali, mentre il peronismo ha provato la propria continua flessibilità e sempiterna inossidabilità. Con quasi vent’anni di gestione -più del lasso coperto dai militari della Revolución Libertadora, la rivoluzione argentina e la fase di ricompattazione- il radicalismo viene doppiato dal peronismo in larga misura.

Anzitutto, l’Argentina presenta una complessità storica e psicosociale che gira intorno all’avvento di una guida benevola con fini superiori. Ne sono esempio alcuni cartelloni, affissi per le strade di Buenos Aires, che ringraziano la discussa Cristina Fernández, oggetto di diverse cause giudizarie, first lady, presidente, e ora vice-presidente, per “l’amore” dispensato alla nazione, così come Evita fu la madre della patria. Si tratta di un processo di sacralizzazione della politica, il travaso nella laicità di un immaginario di tipo maternale-religioso retto da un sistema di simboli e riti. Il peronismo è un culto secolarizzato, la fede di una nazione. E le religioni sono millenarie.

·        Quei razzisti come gli australiani.

Una crisi nascosta: uccisioni e sparizioni di donne indigene in Australia. Sara Tonini il 25 ottobre 2022 su L'indipendente.

Almeno 315 donne indigene sarebbero scomparse o sono state assassinate in circostanze sospette in tutta Australia dal 2000, un tasso fino a 12 volte superiore alla media nazionale. E i numeri sono probabilmente una sottostima, dal momento che ad oggi non esistono database ufficiali per monitorare il fenomeno a livello nazionale. Non è un problema solo australiano: secondo il rapporto “Missing and Murdered Aboriginal Women: A National Operational Overview” del 2014 della Polizia reale canadese, più di 1.000 donne indigene sono state uccise in Canada nell’arco di 30 anni, tra il 1980 e il 2012, mentre gli attivisti sostengono che si parli di almeno 4.000 vittime. Negli Stati Uniti, l’omicidio è la terza causa di morte per le donne native. Nel report Urban Indian Health Institute viene riferito che la vittima più giovane è stata una bambina di meno di un anno, la più anziana aveva 83 anni.

Ma mentre il Canada definisce le scomparse e gli omicidi delle donne indigene nel Paese un vero e proprio “genocidio” e gli Stati Uniti la considerano “un’epidemia”, l’Australia ha appena iniziato a rendersi conto della portata di questa crisi, nonostante i numeri parlino chiaro; addirittura, in alcune regioni del Paese, i decessi di donne indigene costituiscono uno dei tassi di omicidio più alti al mondo. 

Le storie

La testata giornalistica ABC ha raccontato tre recenti casi. C’è la storia di R. Rubuntja, un’attivista indegena che sensibilizzava proprio sui gravi livelli di violenza nell’Australia centrale, dove quasi 70 donne aborigene sono state uccise negli ultimi due decenni. La signora Rubuntja è stata assassinata dal partner, nonostante avesse chiamato la polizia 18 volte nel corso della loro relazione durata due anni. “Il resto della nazione va avanti come se non fosse successo nulla. Non ci sono reazioni. Non ci sono discorsi in parlamento… non ci sono campagne sui social media. C’è solo silenzio” ha commentato un’amica della vittima. 

Secondo l’accademica Noongar Hannah McGlade, membro del Forum permanente delle Nazioni Unite sulle questioni indigene, esiste un modello di “sottopolizia” nei confronti delle donne indigene. Una ricerca pubblicata dal British Journal of Criminology mostra che quasi il 75% delle vittime “ha sperimentato la riluttanza e l’inazione della polizia in seguito a violenza domestica”. È quello che è successo a Roberta Curry, quando disse agli agenti che il suo ex fidanzato l’aveva ferita. Un rapporto interno della polizia, presentato in seguito a un’inchiesta, ha rilevato che nessuno dei due agenti, dopo la segnalazione della donna, ha seguito i protocolli, compresa la ricerca dei precedenti dell’ex partner nel database. Gli agenti hanno scritto nelle loro risposte formali che ritenevano che la signora Curry potesse essere “inaffidabile nel suo racconto della versione degli eventi” e che “avesse fatto accuse false” in precedenza. Cinque giorni dopo la denuncia, la signora Curry è stata colpita con un pugno al petto dal suo ex partner ed è morta poco dopo per emorragia interna, sdraiata sul pavimento. 

Un altro caso di negligenza da parte delle autorità è quello di Constance Watcho, sparita nel 2017. La polizia aveva classificato la sua scomparsa come “a medio rischio”, nonostante nessuno l’avesse vista da mesi. Il corpo della signora Watcho è stato ritrovato quasi 10 mesi dopo, smembrato in una borsa sportiva, a soli 200 metri dal luogo in cui è stata vista viva per l’ultima volta.

Amy McQuire, scrittrice e accademica di Darumbal e delle Isole del Mare del Sud, ha affermato che le famiglie indigene devono fare di tutto per essere credute quando viene denunciata la scomparsa di una donna. “Ci sono tutte queste logiche coloniali in gioco: ‘potrebbe essere andata a spasso, potrebbe essere scappata con un altro uomo, potrebbe essere andata in overdose'” ha dichiarato. “Tutte cose che negano l’esistenza di un potenziale colpevole”.

La risposta del governo

Tardi e lentamente, ma qualcosa si sta muovendo nel Paese: un’importante inchiesta parlamentare indagherà sui tassi “orribili, estesi e inaccettabili” di donne e bambini indigeni scomparsi e uccisi in Australia. La senatrice dei Verdi ed ex ufficiale di polizia dell’Australia occidentale, Dorinda Cox, ha presentato con successo una mozione per l’indagine, affermando che gli alti tassi di violenza subiti dalle donne indigene sono inaccettabili, e che i progressi delle ricerche si sono arenati prima delle elezioni federali. Si prevede che l’inchiesta terrà audizioni in ogni Stato e territorio e che si concentrerà in particolare sulle aree regionali e remote, dove gli indigeni scompaiono in numero maggiore, ascoltando le testimonianze e i contributi dei sopravvissuti alla violenza, dei familiari e degli amici delle vittime e delle risposte della polizia alle denunce di scomparsa e alle richieste di assistenza. “Dobbiamo davvero esaminare quali sono le barriere significative, gli indicatori che consentono l’uccisione di donne e bambini in questo Paese e la scomparsa di persone indigene senza alcuna spiegazione” ha affermato Cox, che per storia personale conosce molto bene il fenomeno. Nata da genitori aborigeni, la sua famiglia ha vissuto “cinque generazioni di sottrazione di bambini nella sua linea matriarcale”. Suo nonno è stato allontanato dalla sua famiglia e dalla sua città da neonato per essere allevato nel collegio cattolico di New Norcia, dove gli è stato cambiato il nome.

Il Comitato di riferimento per gli affari legali e costituzionali, che condurrà l’inchiesta, riferirà entro il 31 luglio 2023. [di Sara Tonini]

Australia, dalle miniere al governo: il riscatto (100 anni dopo) degli emigranti «oliva». Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022. 

Le vite durissime dei nostri nonni e l’elezione di Albanese. Fondamentali nella costruzione del Paese, hanno sofferto pesanti discriminazioni. Ma l’arrivo di un premier di origini italiane suggella la riconciliazione.

«Mi rincresce di dover dare l’allarme ma l’Italia sta preparandosi a invadere l’Australia. Lo so, nessuno da noi ne aveva mai avuto sentore. Eppure è un fatto ormai denunziato e incontestabile. Vengono i brividi a pensare che milioni di italiani si alzano tutte le mattine, si fanno la barba, prendono il caffellatte ed escono, senza nemmeno immaginare che il loro paese è sul punto nientemeno di occupare un continente».

La presenza tricolore nel continente

Un secolo dopo, la sarcastica profezia di Filippo Sacchi, uscita sul Corriere nel luglio 1925, fa sorridere. Tanto più dopo il trionfo elettorale di Antony Albanese, avviato a diventare il primo premier australiano d’origine italiana, sia pure casualmente, essendo il padre Carlo un marinaio di Barletta conosciuto dalla madre Maryanne Therese durante l’unica crociera della donna da Sydney in Europa. Ed è giusto sorriderne, oggi. Viva l’Italia, viva Australia, viva l’amicizia e la stima reciproca cresciuta nel tempo anche grazie a uomini come il sindaco della Sydney olimpica Franco Sartor o il governatore del Victoria James Gobbo. Per non dire, prima ancora, di figure come Raffaello Carboni, «Il garibaldino d’Australia» (titolo di un saggio di Desmond O’Grady) che dopo la caduta della Repubblica Romana del 1849 finì esule a Melbourne per prender parte alla folle corsa all’oro nella vicina Ballarat, dove descrisse a tinte forti nel libro Eureka Stockade l’inferno fangoso della miniera («Abbiamo avuto il fegato di lottare faccia a faccia con il vecchio Belzebù sul suo terreno») e la prima rivolta dei minatori australiani contro l’impero inglese, con tanto di lettura d’una dichiarazione d’indipendenza.

I tempi del razzismo contro gli italiani

Per molto tempo, però, l’ostilità verso gli immigrati italiani fu durissima. Al punto che nel 1934 quando nel centro minerario di Kalgoorlie, scoppiò una rivolta contro gli immigrati italiani con saccheggi, incendi e pestaggi nati da una rissa in cui c’era scappato il morto, l’aria era così tesa, scrissero Richard e Michal Bosworth nel libro Fremantle’s Italy (poi ripreso da Flavio Lucchesi in Cammina per me, Elsie) che certi commentatori dell’epoca teorizzavano che «l’Africa cominciava da qualche parte nella penisola italiana», che l’Italia era «l’ultima delle grandi potenze perché razzialmente imperfetta» e che gli italiani stavano «a metà strada tra gli aborigeni e i cinesi».

L’invasione delle pelli olivastre

Ma torniamo al reportage, per metà divertito e per metà furente, dell’inviato del Corriere: «Ma perché tutto questo accanimento contro gli italiani? Ve lo spiego io: per mantenere l’Australia “bianca”. Keep the Australia white, è la vera parola d’ordine di questa crociata. Infatti noi non siamo bianchi, siamo “oliva”. Olive-skinned influx, diciamo.» E raccontava che un grande quotidiano di Melbourne aveva titolato proprio così la notizia di un’inchiesta del governo del Queensland sui nostri immigrati: «L’invasione delle pelli-oliva”». E che al congresso delle donne «un’oratrice autorevole nell’esortare le massaie australiane a non comperare frutta dai negozi italiani, anche se questi praticavano prezzi più moderati» si era lagnata che «dopo aver tanto fatto per difendere l’Australia “bianca” dalla minaccia degli asiatici», c’erano ancora «emigranti oliva che continuano a stabilirsi nel paese». Di più, si indignava Filippo Sacchi: «Siamo una razza tanto degradata che si esortano le donne australiane a non sposare i nostri emigranti» al punto che all’assemblea di Victoria della «Rssila», l’associazione dei combattenti, era stato detto: «I matrimoni delle nostre donne con questi forestieri fanno un’impressione disgustosa».

La storia di «Cea Venessia»

Dice tutto la storia, mezzo secolo prima, di «Cea Venezia». Quando un gruppo di trevisani cadde nella trappola di Charles du Breil de Rays, l’erede d’una famiglia di Finistère rovinata dalla rivoluzione che aveva coperto i muri d’Europa con centinaia di migliaia di manifesti che invitavano i contadini a fondare a Port Breton, dall’altra parte dell’Eurasia, una colonia «libera e cattolica» fedele a Pio IX promettendo «terre di buon clima, di belle baie e di brezze gentili» e 40 campi trevisani ad ogni colono. Il viaggio, via Barcellona, Suez e Singapore, fu interminabile. Con decine di morti. Soprattutto bambini. Scoperta la truffa e dirottata la nave verso Sydney, i nostri nonni vi arrivarono 368 giorni dopo la partenza in condizioni penose. Separati tutti l’uno dall’altro perché cancellassero l’italiano e parlassero subito inglese, poterono riunirsi solo un anno dopo, in una terra infelice e da disboscare a Lismore, verso Brisbane. Piantarono le vigne, tirarono su una cappella e un po’ di case e diedero al borgo il nome più dolce e poetico: Cea Venessia. Piccola Venezia. Gli australiani dissero no: New Italy. Niente nomi italiani.

Tagliatori di canna, poi imprenditori agricoli

Non meno ostile, negli anni Venti e Trenta del secolo scorso, sarebbe stato l’atteggiamento verso i nostri emigrati arrivati nella Riverina, un’area del Nuovo Galles del Sud. Area distribuita a reduci della grande guerra privi di esperienza: erano soldati, non contadini. Il tempo di inserirsi (faticosamente) e gli italiani venuti in Oceania come tagliatori di canna (lavoro spaventoso: si tagliava sotto un sole violento, seminudi e coperti di insetti perché lo zucchero s’attaccava ai vestiti) o braccianti agricoli presero a comperare una «farma» (venetizzazione dell’inglese farm) dietro l’altra. Nel 1929 ne avevano già 67: 55 padroni erano veneti, 6 calabresi, 3 abruzzesi, 2 friulani, uno siciliano. Dieci anni dopo erano già saliti a 230. La reazione fu durissima. E ancora una volta basata sulle tesi dell’Immigration Restriction Act elaborato nel 1901 e l’idea che l’Australia dovesse «essere popolata da una sola razza» scelta personalmente dall’«Onnipotente Dio». Niente italiani o altri europei del sud, dunque, «troppo piccoli e troppo scuri di carnagione»: «Potevano contaminare la purezza» di chi era chiamato a governare.

La lunga strada verso la riconciliazione

Il peggio, negli anni della massima tensione nella Riverina via via trasformata secondo il sacerdote e storico Tito Cecilia «in un giardino», l’offrì lo Smith’s Weekly: «L’eredità di 450 soldati agricoltori (...) è stata strappata via con violenza dagli italiani. Con la schiena contro il muro i reduci di Griffith stanno combattendo, oggi, non solo per le loro case, le loro mogli e i loro figli, ma anche per la preservazione del loro sacro livello di vita». Non bastasse, la rivista riportò una convinzione: «Tra dieci anni non un solo cittadino australiano o britannico resterà da queste parti». Aveva torto. E l’elezione di Albanese, che rompe gli ultimi schemi xenofobi, suggella la lenta ma continua ricerca di un dialogo finalmente arrivato alla meta.

Il legame con l'Italia dove ha due fratelli. Chi è Anthony Albanese, il nuovo premier australiano: da “figlio di madre single” all’incontro con il papà di Barletta. Redazione su Il Riformista il 21 Maggio 2022. 

Anthony Albanese è il nuovo primo ministro dell’Australia. Origini italiane, il 59enne leader del partito laburista ha trionfato sulla coalizione conservatrice del premier uscente Scott Morrison. Con lo spoglio ancora in corso, i media australiani Abc e 9 News assegnano la vittoria al partito laburista, sulla base delle proiezioni con quasi il 50% delle schede conteggiate, con una forbice che oscilla tra i 69 e i 72 seggi contro i 49-51 dei liberali. Nella House of Representatives, composta da 151 seggi, per avere la maggioranza sono necessari 76 seggi. La coalizione di Morrison al governo ha attualmente questa maggioranza ristretta di 76 seggi.

Lo stesso Albanese ha dichiarato la sua vittoria alle elezioni generali in Australia, affermando che i suoi concittadini hanno “votato per il cambiamento” ponendo fine a nove anni di governo conservatore. “Il popolo australiano ha votato per il cambiamento”, ha dichiarato Albanese nel suo discorso di vittoria, promettendo di trasformare l’Australia in una “superpotenza” delle energie rinnovabili. Ha inoltre annunciato che, in qualità di nuovo primo ministro australiano, parteciperà al vertice del Quad (Stati Uniti, Australia, India, Giappone) che si terrà martedì in Giappone.

Sconfitta ammessa dallo stesso Morrison che ha annunciato le dimissioni da leader del suo partito: “Stasera ho parlato con il leader dell’opposizione e primo ministro entrante, Anthony Albanese mi sono congratulato con lui per la (sua) vittoria elettorale“. Sulla base di quasi il 56 per cento delle schede scrutinate, l’opposizione di Albanese ha conquistato al momento 72 seggi alla Camera bassa del parlamento, contro i 53 della coalizione avversaria. Secondo i dati finora diffusi dalla commissione elettorale, gli australiani non hanno scelto Morrison in particolare nello Stato dell’Australia occidentale, soprattutto nelle aree urbane più benestanti.

Albanese è entrato nel partito laburista già da studente universitario, divenendo per la prima volta parlamentare nel 1996, divenendo ministro per due volte nel 2007 e nel 2013 . Ne ha assunto la guida nel 2019. Difesa della sanità pubblica e tutela dei diritti civili delle minoranze sono i cavalli di battaglia del neo premier.

Chi è Anthony Albanese, “figlio di madre single” e di un papà pugliese conosciuto anni fa

Nato 59 anni fa a Sydney, Anthony Albanese – detto Albo per gli amici – ha origini pugliesi. Suo padre, Carlo Albanese, era di Barletta. Anthony tuttavia lo ha conosciuto soltanto anni dopo, poco prima della sua morte in Italia nel 2014, perché l’uomo ha abbandonato lui e la madre, Maryanne Ellery, poco dopo la sua nascita. Per evitare ‘lo scandalo’ nell’Australia degli anni ’60 e all’interno di una famiglia molto cattolica, fu messa in giro la notizia che Carlo era morto in un incidente d’auto poco dopo il matrimonio in Europa. Soltanto quando aveva 14 anni Anthony, che gli amici chiamano ‘Albo’, ha conosciuto la verità dalla madre: Carlo faceva lo steward su una nave da crociera quando conobbe Maryanne nel 1962 durante l’unico viaggio oltreoceano della sua vita in Asia ed Europa. Tornata a Sidney era single e incinta di quattro mesi come racconta la biografia del 2016, ‘Albanese: Telling it Straight’.

Il voto in Australia “dice molto riguardo al nostro grande paese se il figlio di una madre single con pensione di invalidità, cresciuto in una casa popolare, può presentarsi stasera come primo ministro… spero che il mio percorso di vita ispiri gli australiani a puntare in alto”. Queste le parole del leader laburista che ha ricordato le sue origini nel discorso tenuto dopo la vittoria elettorale.

Albanese è cresciuto nelle case popolari a Camperdown, nell’Inner West di Sydney. Stando a quanto raccontato dallo stesso leader laburista nel libro “Albanese: Telling it Straight”, uscito nel 2016, per rispetto verso sua madre e per paura di ferire i suoi sentimenti, Albanese ha iniziato a cercare il padre solo dopo la morte della mamma, avvenuta nel 2002. L’incontro con il padre avvenne a Barletta, in Puglia, nel 2009. Grazie ai documenti della vecchia compagnia di navigazione, Anthony riesce a contattarlo. Carlo Albanese è poi morto nel 2014 e in Puglia vivono due fratelli del neo premier che Carlo Albanese ha avuto in Italia.

Australia al voto, il candidato premier è il barlettano Anthony Albanese. Gli exit poll danno lo sfidante Anthony Albanese dei Labour in vantaggio sul Premier uscente, il liberale Scott Morrison. La curiosità è che il papabile primo ministro australiano è di origine pugliese. Rino Daloiso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Maggio 2022

Galeotta fu la crociera tra Sydney e Southampton nel lontano 1962. Ma chi l’avrebbe mai detto che da quell’idillio transoceanico sarebbe nato forse il futuro premier dell’Australia, barlettano doc? Eppure le cose potrebbero andare proprio così.

Anthony Albanese, 59 anni, è il candidato premier del partito laburista. Oggi in 17 milioni sono chiamati alle urne per rinnovare i componenti del Senato. Albanese si gioca la premiership contro Scott Morrison, alla guida da dieci anni di un governo conservatore composto da liberali e nazionali. Nella camera bassa (in Australia vige il bicameralismo, come da noi) si è già votato: nessuno ha conquistato la maggioranza. Morrison può contare su 75 deputati su 151, Albanese su 68, poi ci sono 8 tra verdi, indipendenti e rappresentanti dei partiti minori.

Con la scelta odierna dei senatori, i rapporti di forza non dovrebbero cambiare di molto. Anzi, dovrebbero rimanere sostanzialmente identici, anche se i sondaggi danno ancora in vantaggio il «barlettano» rispetto al 54enne presidente in carica. Si vota, infatti, col sistema proporzionale e stavolta sono in campo più candidati di partiti minori rispetto ai poli tradizionali. Molto complicato che uno dei contendenti conquisti la maggioranza assoluta (76 seggi). Ragion per cui si dovrebbe andare alla «coabitazione» o alla formazione di un governo di «unità nazionale». Proprio come accade agli antipodi, cioè da noi.

Ha davvero dell’incredibile la storia di Anthony. Il padre, Carlo, e la madre, Maryanne Ellery, australiana d'origini irlandesi, si conoscono nell’estate del 1962 a bordo della nave da crociera Fairsky. Il viaggio da Sydney e Southampton è lungo. Carlo fa lo steward a bordo del transatlantico e l’amore scoppia appassionato e irrefrenabile. Ma finisce una volta attraccati sulla costa inglese. Rientrata in Australia, Maryanne scopre di essere incinta. Scrive una lettera a Carlo, informandolo della circostanza, ma questi gli risponde che ha già un’altra donna, a Barletta.

Che fare? Per evitare lo scandalo, Maryanne pare orientarsi a dare in adozione il nascituro. Poi cambia idea e lo tiene per sè. Gli dà il cognome del padre e gli racconta che non c’è più: è scomparso, morto in un incidente stradale. A quattordici anni Anthony scopre la verità: il padre era vivo, non era sopravvenuto alcun incidente a portarglielo via. Quella scoperta non scombussola il senso di sè e la volontà dell’adolescente. La politica e l’impegno sociale diventano la sua ragione di vita. Il 30 maggio del 2019 conquista la leadership del Partito laburista, diventando nello stesso tempo il capo dell’opposizione e quindi sfidante del leader conservatore. Dal quale lo distingue anche e soprattutto l’opposta sensibilità sulle questioni ambientali poste dal cambiamento climatico, che stanno costando al suo avversario una impopolarità crescente. Ma la campagna elettorale appena conclusa è stata quasi del tutto monopolizzata dal sempre più insostenibile costo della vita, dalla sanità e dall’assistenza fragile agli anziani. Vi stanno fischiando le orecchie, per caso?

Fra poche ore sapremo se Anthony il barlettano potrà o meno coronare il sogno di guidare il governo di Canberra. A profetizzarlo quasi 60 anni fa, si sarebbe passati per visionari. O peggio.

Anthony Albanese, il premier australiano: «Così ritrovai mio padre barlettano». Il ricordo: «Un uomo straordinario, che emozione il suo abbraccio». Rino Daloiso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Maggio 2022.

Più incredibile di un romanzo, più romanzesca della sceneggiatura di un film. Anthony Albanese, il «barlettano» 59 enne neoeletto premier laburista dell’Australia nello scorso fine settimana, lo sa bene. La sua storia parla per lui e lui proprio quella storia ha voluto e vuole incarnare. Come realizzare un obiettivo all’apparenza «impossibile», ovvero diventare primo ministro nella terra di una ragazza madre che negli anni Sessanta preferisce farsi considerare vedova per combattere le difficoltà e i pregiudizi della società.

Insomma, pare la versione riveduta e corretta del motto kennediano sulla «democrazia delle possibilità» e la connessa «aristocrazia dei risultati». Solo che stavolta si sviluppa da una parte all’altra degli oceani degli emisferi, dal vecchio continente al nuovo mondo. «L’esito del voto in Australia - ha sottolineato con orgoglio il neopremier, una volta acquisita la certezza del risultato - dice molto riguardo al nostro grande Paese, se il figlio di una madre single con pensione di invalidità, cresciuto in una casa popolare, può presentarsi stasera come primo ministro. Spero che il mio percorso di vita ispiri gli australiani a puntare in alto».

La vicenda da alcuni giorni è diventata nota in tutto il mondo. Carlo Albanese, steward barlettano in servizio sulla nave da crociera che fa la spola tra Sydney e Southampton, nell’estate del 1962 conosce l’irlandese Maryanne Ellery. C’è una foto che li ritrae a bordo, sereni e sorridenti. Scoppia la passione e di lì a qualche mese il 2 marzo del 1963 nasce Anthony. Ma la passione nel frattempo s’è spenta. Carlo ha la promessa sposa che l’attende a Barletta. Maryanne abita in una casa popolare a Sydeny. Decide di raccontare a tutti di un incidente stradale che gli ha portato via il marito all’improvviso. Lo racconta proprio a tutti. Anche al piccolo Anthony. Ma quando ha 14 anni - è lui stesso a ricordarlo nell’autobiogragfia «Tell me straight» («Dimmelo direttamente») pubblicata nel 2016 - gli dice la verità. Sulla quale lui non indaga più di tanto per non ferire la madre. Che nel 2002 scompare e sulla tomba della quale il figlio Nathan (nato dal matrimonio di Anthony con Carmel Tebbutt, ex vicepremier del New South Wales) gli chiede dove fosse mai il nonno.

Inizia così una lunga e ostinata ricerca fra ambasciate e società di navigazione, fino alla individuazione del padre fino ad allora sconosciuto e all’incontro con lui e i suoi due figli (Ruggiero e Francesca) nel 2009, a Barletta. È lo stesso Anthony a raccontarlo nell’autobiografia: «Ero molto emozionato, era un grande momento della mia vita. Carlo Albanese arrivò. Era straordinario. Il campanello suonò e la porta si aprì: camminò verso di me, aprì le sua braccia e mi abbracciò. Fu un comportamento incredibilmente generoso da parte sua. Mi disse che sì, aveva conosciuto mia madre e aveva compreso le circostanze. Portò con sè sua figlia e suo figlio». Che a Barletta vivono nei quartieri Borgovilla e Patalini, schivi e riservati, spiazzati dal clamore che ora sta avendo la loro privatissima vicenda. Filtrano «complimenti e congratulazioni» per il consanguineo a lungo sconosciuto, ma preferiscono evitare la luce dei riflettori. Carlo Albanese muore nel 2014. Un incidente stradale, stavolta non presunto, si stava portando via Anthony lo scorso anno. La sua vita è stata appesa a un filo, poi si è ripreso e con la nuova compagna, Jodie Haydon, esperta di economia e finanza, ha affrontato e vinto la campagna per il governo dell’Australia. Oggi a Tokio partecipa al quadrangolare con Biden per gli Usa, Kishida per il Giappone e Narendra Modi per l’India. Forse il termine «impossibile» potrebbe essere cancellato dai dizionari. O potrebbe prendersi, talvolta, una non breve vacanza.

«Ama le cozze e il polpo verace»

BARLETTA - «Sì, me lo ricordo bene, molto bene». Francesco Petruzzelli, titolare del pub e b&b Saint Patrick, nel cuore del centro storico, ha impresso nitidamente nella memoria il volto dell’allora ministro dei trasporti del governo di Canberra: «È stato qui un paio di volte nei primi anni dello scorso decennio - sottolinea -. Apprezzava molto il cibo tipico della cucina barlettano, tipo gli spaghetti alle vongole o l’insalata di polpo verace oppure ancora la pepata di cozze. E, per quanto riguarda le bevande, il suo gradimento oscillava tra la birra rossa Guinness e un fresco vino bianco pugliese».

Insomma, un modo come un altro per ribadire a tavola quello che Albanese dice da sempre di se stesso: «Sono per metà italiano e per metà irlandese» e che quasi nessuno sapeva: nemmeno i suoi familiari di Barletta.

«Credo - continua Petruzzelli - che non abbia scelto a caso il mio pub. Già la denominazione gli ricordava San Patrizio, il santo per eccellenza degli irlandesi. Quanto all’altra metà barlettana, beh, sembrava avesse sempre mangiato da sempre frutti di mare e piatti nelle varie declinazioni della nostra marineria».

Il padre, Carlo, da giovane aveva abitato in una delle stradine intitolare ai tredici cavalieri della Disfida, all’ombra della cattedrale, prima di cancellarsi dall’anagrafe barlettana «perché marittimo del compartimento di Bari». In quelle due occasioni Anthony Albanese ha alloggiato a poche decine di metri dalla casa paterna. «Con lui, il figlio Nathan e la tata. Una volta si è affacciato anche il fratello Ruggiero. Una bella persona, spero ritorni da queste parti».